FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
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                        Articolo 3
                        Articolo 4
                        Articolo 5
                        Articolo 6
                        Articolo 7
                        Articolo 8
                        Articolo 9
                        Articolo 10

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1744

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
D'IPPOLITO, ILARIA FONTANA, DAGA, DEIANA, FEDERICO, LICATINI, ALBERTO MANCA, MARAIA, MICILLO, RICCIARDI, ROSPI, TERZONI, VARRICA, VIANELLO, VIGNAROLI, ZOLEZZI

Modifiche al codice civile in materia di classificazione e regime giuridico dei beni, nonché definizione della nozione di ambiente

Presentata il 4 aprile 2019

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  Onorevoli Colleghi! – È noto che la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione ha inserito nella Carta fondamentale il termine «ambiente». L'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, afferma che lo Stato ha legislazione esclusiva nella tutela dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali.
  Il legislatore ordinario aveva già inserito il termine «ambiente» in numerosi provvedimenti legislativi precedenti la novella dell'articolo 117 della Costituzione e altrettanti risultano gli inserimenti in successivi atti normativi di rango sia primario che secondario. Su tutti spicca il decreto legislativo n. 152 del 2006, comunemente, e significativamente, noto come «codice dell'ambiente» o «testo unico ambientale».
  Ma, nonostante la copiosa produzione legislativa in materia, in nessun testo normativo è dato di rintracciare una completa definizione giuridica di «ambiente».
  La presente proposta di legge è finalizzata, appunto, a riempire questo vuoto normativo.
  La necessità dell'intervento del legislatore ordinario è dettata, oggi, dalla circostanza che gli interpreti si orientano verso parametri applicativi diversi indotti dall'utilizzazione, nel processo ermeneutico, di esperienze e di nozioni di altre branche del sapere, soprattutto delle scienze naturali, e ciò porta, inevitabilmente, a risultati non sempre puntuali e uniformi.
  Un ordine di ragioni che giustificano l'introduzione di una definizione di «ambiente» tra le fonti di rango legislativo è rinvenibile nella circostanza per la quale l'interesse ambientale riceve una considerazione particolare dalle norme che regolano l'azione delle pubbliche amministrazioni nell'esercizio dei propri poteri discrezionali, nonché le situazioni giuridiche degli amministrati nei confronti di esse.
  A titolo di esempio: l'istituto del silenzio assenso di cui all'articolo 20 della legge n. 241 del 1990, laddove a rendere inoperante il silenzio assenso è la circostanza che l'atto o il procedimento riguardi «il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico». Un settore rispetto al quale una definizione di «ambiente» come quella oggetto della presente proposta di legge potrebbe avere effetti rilevanti è quello dell'edilizia, in riferimento alla norma speciale in materia di permesso a costruire prevista dall'articolo 20, comma 8, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. La disposizione prevede un'ipotesi (speciale) di silenzio assenso che, a differenza di quella generale ex articolo 20 della legge n. 241 del 1990, non trova il proprio limite nella mera circostanza che il procedimento riguardi l'ambiente, ma esige che sussistano veri e propri «vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali».
  A ciò si aggiungano i diversi livelli di produzione normativa in materia ambientale, che provocano altrettante discrasie applicative: 1) il livello europeo; 2) il livello nazionale; 3) il livello regionale; 4) il livello locale.
  Il ruolo dell'Unione europea è fondamentale in quanto funge da intermediaria nell'ambito dei settori di interesse ambientale tra i quadri normativi nazionali, alle volte limitati, e il quadro internazionale, che è privo di concrete competenze istituzionali da cui far scaturire azioni vincolanti.
  Fino alla riforma approvata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, la Costituzione non conteneva alcuna disposizione relativa all'ambiente. In precedenza, il rilievo giuridico della materia era frutto dell'elaborazione interpretativa di alcuni articoli della Carta costituzionale oltre che di sporadici riferimenti in leggi settoriali.
  A seguito della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, l'articolo 117 riformulato ha conferito alle regioni, nell'ambito delle materie di competenza legislativa concorrente, la valorizzazione dei beni ambientali e quella del governo del territorio. Inoltre, esse possono adottare, entro certi limiti, misure più restrittive a tutela dell'ambiente.
  I rapporti tra regioni ed enti locali sono basati sullo stesso principio di sussidiarietà che è alla base dei rapporti tra Stato e regioni.
  La questione definitoria del concetto di «ambiente» è stata già affrontata dal legislatore, ma non in maniera conclusiva poiché sono state fornite molte definizioni legate a singoli profili o ambiti materiali riconducibili all'ambiente. A tale riguardo si evidenzia che nel decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, l'ambiente, pur essendo connesso in particolar modo alla sua dimensione urbanistico-territoriale, era individuabile secondo ulteriori componenti, quali la protezione delle bellezze naturali, la protezione della natura, le riserve e i parchi naturali, le acque, l'igiene del suolo e l'inquinamento atmosferico, idrico, termico e acustico, compresi gli aspetti igienico-sanitari delle industrie insalubri, l'igiene degli insediamenti urbani e delle collettività. Diversamente, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, avente ad oggetto il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione della legge 15 marzo 1997 n. 59, pur non fornendo alcuna definizione nell'individuazione delle funzioni da attribuire alle regioni e agli enti locali, comprende, sotto il medesimo titolo III, le materie relative al territorio e all'urbanistica, alla protezione della natura e dell'ambiente, alla tutela dell'ambiente dagli inquinamenti e alla gestione dei rifiuti, alle risorse idriche e alla difesa del suolo, alle opere pubbliche, alla viabilità, ai trasporti e alla protezione civile, distinguendone i restrittivi ambiti di tutela.
  Un altro profilo su cui è necessario concentrarsi riguarda l'applicazione della definizione di ambiente proposta, con le definizioni di gran lunga deficitarie che l'ordinamento offre, ancorché in via indiretta. Ci si riferisce, in particolare, alle insufficienti definizioni di ambiente per l'applicazione pratica dei concetti di «impatti ambientali», di «danno ambientale» e di «informazione ambientale».
  In merito alle finalità definitorie, sia la Corte costituzionale che la dottrina hanno avanzato una pluralità di teorie. La prima sembrerebbe ora orientata a riconoscere una visione unitaria al concetto di «ambiente», talvolta definito «valore costituzionalmente protetto» e «materia trasversale» (sentenza n. 407 del 2002); talaltra bene giuridico «in senso unitario» (sentenza n. 378 del 2007). Anche la dottrina si divide nella definizione di «ambiente» come valore unico o plurale. Il pensiero prevalente in dottrina e giurisprudenza, però, riconduce la definizione di «ambiente» alla somma di più profili giuridicamente rilevanti ma distinti; manca un centro di riferimento che sia portatore del relativo interesse e la nozione di «ambiente» ha solo valore descrittivo.
  In definitiva, manca un riferimento all'ambiente come una nozione giuridica autonoma e concreta ed è quindi compito del legislatore colmare questa lacuna.
  L'intenzione è quella di affermare il principio che l'ambiente deve essere tutelato, conservato e preservato (in tutto o in parte), non solo perché esso ha un valore intrinseco in sé, ma anche per il valore, strumentale, che esso possiede per gli esseri umani. In base a questa più dettagliata articolazione, allora la distinzione tra antropocentrismo e anti-antropocentrismo non riguarda più la questione del valore da assegnare alla natura, ma il ritenere legittimo o no un trattamento differenziato della natura rispetto agli esseri umani. In altre parole: collegare l'ambiente all'uomo significa giustificare interventi di salvaguardia e tutela del primo anche perché essi rappresentano soprattutto la salvaguardia e la tutela del secondo.
  La presente proposta di legge è volta a modificare l'attuale concezione di «bene», dando il giusto risalto alla sua idoneità di arricchire la persona umana: spostando il fulcro dal valore materiale del bene alla sua connessione con il progresso e il benessere che genera, si contempera la matrice venale-patrimoniale del bene con un approccio utilitaristico-funzionale. In tal senso, appare primario disancorare la storica visione del bene, basata esclusivamente sulla titolarità dello stesso e sulle prerogative assolutistiche ed esclusive del proprietario uti dominus, per approcciare l'idea delle cosiddette «fasce di utilità» dello stesso, consapevoli che le prerogative del proprietario e i relativi poteri riconosciuti sul bene non esauriscono tutti i rapporti esistenti, comprendenti le legittime aspettative di fruizione e di accesso da parte della collettività.
  Fin dalla nuova definizione di «bene» proposta all'articolo 810 del codice civile, incentrata non più sulla sua possibilità di essere oggetto di diritti ma sulla potenziale utilità derivante dallo stesso, si manifesta la volontà di valorizzare la dimensione funzionale dei beni e la loro idoneità a migliorare la dimensione personale degli individui.
  Contestualmente, la nuova formulazione dello stesso articolo 810 formalizza la rilevanza dei beni immateriali, adeguando la disposizione codicistica alla diversa realtà socio-economica e alla diffusione delle «cose incorporali» derivante dal progresso scientifico e dalla crescente attenzione di nuovi beni privi del requisito della materialità.
  Tale approccio orienta le successive disposizioni che si propone di inserire, muovendosi lungo due direttrici: l'inserimento della categoria dei beni comuni e la proposta di una nuova visione dei beni pubblici, incentrata sul rafforzamento della loro tutela assicurandone l'effettivo conseguimento delle prerogative pubbliche, intese come interessi della collettività.
  L'introduzione della categoria dei beni comuni con il nuovo articolo 812-bis del codice civile risponde all'esigenza, ampiamente manifestata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, di riconoscere normativamente l'esistenza di tali peculiari beni caratterizzati dalla necessità di essere accessibili a tutti, previsione propedeutica a garantirne una peculiare tutela, vincolandone la destinazione collettiva a vantaggio dell'intera comunità e delle generazioni future.
  Numerosi sono stati, infatti, i tentativi dottrinali di definire i beni comuni, propugnanti l'introduzione di tale categoria tramite differenti approcci. Indagando solo la dimensione con rilevanza giuridica – attesi i numerosi studi che interessano differenti branche, dalla sociologia all'economia, passando per la filosofia alla politica fino ad ambiti «ibridi» quali la sostenibilità e gli studi sugli impatti sociali – sono stati ricostruiti differenti filoni, caratterizzati da un approccio più filosofico-politico a questioni pratico-giuridiche. Accanto a tali ricostruzioni dottrinali, nell'elaborazione della presente proposta di legge si è tenuto conto anche del tentativo avanzato dalla Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, istituita presso il Ministero della giustizia, con decreto 21 giugno 2007, cosiddetta «Commissione Rodotà», e delle sue importanti conclusioni, lodevolmente diffuse e tenute in vita sui territori in epoca recente a cura del Comitato per la difesa dei beni pubblici e comuni «Stefano Rodotà».
  Con l'importante supporto del gruppo di studio «Jus ID.EST» (Juridical Innovation & Digital Environment Study Task) presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre, diretto dal professor Ettore Battelli, e degli uffici della Camera dei deputati, in particolare della VIII Commissione, si sono analizzate le varie teorie elaborate dalla dottrina che, sebbene differenti, hanno mostrato un fil rouge costante: appare, infatti, sempre primaria la comune necessità di riconoscere una categoria di beni a fruizione collettiva, di cui deve essere riconosciuta a chiunque l'utilizzabilità. Si tratta dei beni funzionali allo sviluppo dell'individuo e connessi ai diritti fondamentali, la cui utilità si manifesta proprio in questa strumentalità rispetto al godimento di tali diritti da parte della persona, e che vanno curati prevalentemente nell'interesse delle generazioni future.
  Tali caratteristiche sono proprie non solo delle risorse naturali – tipico scenario d'identificazione dei beni comuni – ma anche dei cosiddetti «beni comuni urbani», i quali stanno acquisendo sempre una maggiore forza socio-collante e generativa di legami sociali quale resistenza alla spersonalizzazione dell'era globale. Anche per questi beni, quindi, le direttrici indicate si basano sulla necessità di coniugare le tutele volte a preservare e conservare con le garanzie di accesso e di utilizzo, in cui la fruizione sia anche partecipazione democratica nella vita del bene comune. L'eterogeneità dei beni comuni, costituente il principale ostacolo per una loro puntuale classificazione tassonomica, ha determinato la scelta di evitare qualsiasi loro elencazione, ancorché indicativa e non esaustiva: proprio la recente rilevanza assunta dai beni comuni urbani manifesta la preferibilità per un approccio «a geometria variabile», idoneo a evitare interpretazioni restrittive ovvero la necessità di futuri interventi legislativi, essendo così adeguabile ai vari mutamenti che avvengono nella società e al variabile rilievo per la comunità grazie al (solo) riferimento alle caratteristiche proprie del bene, ossia l'essere funzionali per la sopravvivenza dell'uomo o per lo sviluppo della persona umana in quanto strettamente collegati ai diritti fondamentali, ossia quei diritti previsti e tutelati dalla Costituzione.
  L'esistenza di tale categoria di beni «collegati alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini» è stata peraltro affermata dalla stessa giurisprudenza a partire dalla famosa pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 3665 del 14 febbraio 2011, indicante la via per superare la dicotomia beni pubblici e privati incentrata sulla sola titolarità dei beni, rea quest'ultima impostazione di tralasciare il «dato della classificazione degli stessi in virtù della relativa funzione e dei relativi interessi a tali beni collegati», dovendo invece recuperare la visione di «Stato-collettività» in luogo di quella di «Stato-apparato», trasmigrando così da «una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva personale-collettivistica».
  Nel trasformare tale concetto giuridico in una specifica categoria giuridica si è tenuto presente come la caratteristica fruizione collettiva dei beni debba determinare, da un lato, una peculiare e rafforzata tutela – tanto quale forma di ancoraggio al perseguimento del loro specifico fine comunitario quanto riguardo alla necessità di assicurarne la possibilità di accesso a tutti i potenziali fruitori – dall'altro, un effettivo coinvolgimento degli stessi fruitori, mediante forme di partecipazione alla gestione del bene comune laddove di titolarità pubblica in continuità con la promozione delle attività di interesse generale poste in essere dai cittadini ai sensi dell'articolo 118, quarto comma, della Costituzione.
  Tale finalità viene garantita dalle precipue limitazioni ai poteri dispositivi sul bene: innanzitutto viene sancito che, indipendentemente dalla titolarità pubblica o privata del bene, deve essere sempre garantita la sua fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Si tratta di un vincolo che, per quanto innovativo, non risulta del tutto sconosciuto all'ordinamento civile italiano: non tralasciando la dottrina che vede in tale istituto una connessione con la disciplina corporativa prevista prima dall'abrogato articolo 811 del codice civile e ora dall'articolo 825 dello stesso codice disciplinante i diritti demaniali sui beni altrui. In aggiunta, per i beni a titolarità pubblica viene limitata la possibilità di «circolazione» del bene ai soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata. Il riferimento al concetto elastico e in un certo senso indefinito di circolazione giuridica consiste in una precisa scelta, volta a non limitare le tipologie di atti giuridici con i quali un bene comune può essere «dato», consapevoli dei plurimi mezzi non sempre univocamente riconducibili alle ordinarie categorie giuridiche già attualmente utilizzati per la gestione dei beni comuni.
  D'altronde, la scelta di termini più puntuali determinerebbe potenziali criticità idonee a frustare l'intero innovativo impianto: tra tutte le opzioni, l'eventuale richiamo alle sole concessioni, oltre a frustrare le diverse forme giuridiche positivamente elaborate e a determinare la necessità di coordinare tale possibilità con le regole prescritte dal codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016, e dalla normativa europea, rischierebbe di determinare una preminenza della dimensione economica in luogo della primaria rilevanza socio-utilitaristica che deve mantenere il bene, atteso che l'essenza della concessione viene riconosciuta nel fatto che il concessionario si remunera erogando il servizio all'utenza.
  Sempre al fine di evitare problematiche organico-sistematiche, è stato previsto che con legge verrà garantito il coordinamento con la disciplina prevista in materia di usi civici che, intesi quali diritti reali di godimento in favore della collettività, sono coerenti con l'abbandono di un'analisi incentrata sulla proprietà del bene in favore del suo utilizzo in modo condiviso.
  La nuova disciplina proposta determina, inoltre, un rilevante cambiamento in materia di tutela dei beni comuni. Viene infatti stabilito che alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque.
  Il riconoscimento del diritto ad agire giurisdizionalmente a «chiunque» è coerente con il fatto che i beni comuni sono fruibili da qualsiasi persona nonché con la connessione di tali beni allo sviluppo della persona umana.
  Detto diversamente, il diritto alla fruizione di tali beni coincide con quella richiesta posizione qualificata coordinabile con gli approdi giurisprudenziali raggiunti in un altro contesto normativo, essendo il legame con tali beni a differenziare la posizione soggettiva rispetto ad altri possibili rapporti giuridici.
  Peraltro, il riconoscimento di tale diritto è sillogisticamente coerente con l'articolo 24 della Costituzione: atteso che la disposizione costituzionale garantisce a chiunque il diritto di agire giurisdizionalmente per la tutela dei propri diritti soggettivi e interessi legittimi, se i beni comuni vengono definiti come beni rilevanti per lo sviluppo di qualsiasi persona umana e dei quali deve essere garantita la fruizione a chiunque, appare consono il riconoscimento della legittimazione a chiunque. Non solo una tutela inibitorio-ripristinatoria, ma chiunque, privato della fruizione di un bene comune, abbia subìto un danno ingiusto potrà agire per il risarcimento dello stesso. Tale approdo, oltre ad ampliare l'effetto deterrente verso illeciti sfruttamenti di un bene comune, appare coerente con la recente introduzione di ulteriori istituti quali la class action prevista dalla legge n. 31 del 2019, mediante la quale chiunque ritenga essersi verificata una lesione di «diritti individuali omogenei» potrà proporre azione per il risarcimento del danno nei confronti dell'impresa ovvero «degli enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità» ritenuti responsabili.
  Sul medesimo solco si inserisce la tripartizione dei beni pubblici proposta, incentrata sul recupero della distinzione tra bene pubblico e proprietà pubblica, distinguendo i beni a seconda della loro finalità pubblica e determinando per gli stessi una differente tutela.
  Peraltro, la classificazione proposta riassorbe al suo interno i beni precedentemente individuati nelle categorie del demanio pubblico e del patrimonio, la cui distinzione appare pertanto spogliata di importanza e priva di effettiva rilevanza, potendo quindi esser espunta dall'ordinamento.
  Occorre infatti premettere come l'attuale configurazione del demanio sia stata pluralmente criticata per aver perso l'originaria concezione di beni appartenenti alla collettività a favore di un'impostazione prettamente dominicale, in cui la dimensione «pubblica» indica la mera appartenenza soggettiva del bene e non la sua destinazione intesa come orientamento a soddisfare gli interessi della collettività. La preferenza per una visione della proprietà pubblica in senso soggettivo ha permesso ingenti privatizzazioni di beni aventi un'enorme importanza per l'esistenza dell'intera popolazione senza che ciò sia stato accompagnato da un effettivo (e in realtà neanche formale) controllo del mantenimento dell'essenziale e ontologico scopo pubblico del bene, ossia le esigenze della comunità.
  Alla luce del nuovo assetto, è senz'altro necessario coordinare le modifiche proposte con le disposizioni del libro terzo, titolo I, capo II, del codice civile e con le altre disposizioni codicistiche richiamanti, a vario titolo, il concetto di demanio pubblico (quali ad esempio gli articoli 942, 945, 946, 947 e 1145) nonché con le normative di settore incise da un tale mutato approccio.
  Pertanto, il nuovo articolo 812-ter del codice civile prevede la tripartizione dei beni pubblici in tre sottocategorie che, in linea con l'intento della riforma, si differenziano in virtù dell'utilità pubblica generante. Vengono così delineate le caratteristiche dei «beni pubblici ad appartenenza necessaria», il cui tratto essenziale risiede nella loro essenzialità a soddisfare interessi generali fondamentali. La centralità di tali beni giustifica un regime di circolazione e di tutela particolarmente rafforzato, assicurando la circolazione degli stessi solo tra lo Stato e gli enti pubblici territoriali.
  Diversamente, i «beni pubblici sociali» sono quei beni le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti a diritti civili e sociali della persona. L'importanza della loro utilità impone di garantirne la destinazione sociale; pertanto la circolazione tra soggetti non pubblici può avvenire solo mantenendo il vincolo di destinazione originario.
  Infine, rientrano nel novero dei beni pubblici i «beni pubblici fruttiferi», consistenti in una categoria residuale comprendente tutti i beni non classificabili nelle precedenti categorie di beni pubblici.
  Ricalcando l'impostazione prevista precedentemente per il patrimonio disponibile, si tratta dei beni che vengono gestiti dalle persone pubbliche con strumenti di diritto privato. La gestione uti privatus trova però una limitazione nel potere dispositivo, atteso che l'alienabilità è consentita solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell'utilizzo pubblico dello specifico bene e l'impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici.
  Dall'analisi delle tre tipologie dei beni pubblici proposte emerge la centralità del vincolo di destinazione diversamente esplicitato – assoluto e inderogabile per i beni pubblici ad appartenenza necessaria; forte ed essenziale per i beni pubblici sociali; derogabile per i beni pubblici fruttiferi – ai fini del perseguimento della finalità del bene: un istituto già presente nel nostro ordinamento la cui nuova e rafforzata veste applicativa garantisce la tutela e la conservazione del bene effettivamente indirizzato alla soddisfazione dell'interesse pubblico.
  L'effettivo conseguimento e mantenimento delle prerogative pubbliche dei beni pubblici viene ulteriormente garantito ed esplicitato dal nuovo articolo 812-quater del codice civile, recante l'obbligo che tutte le utilizzazioni di beni pubblici da parte di un soggetto privato debbano comportare il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne l'utilizzatore individuato attraverso il confronto fra più offerte, analisi nell'ambito della quale si dovrà tenere conto dell'impatto sociale e ambientale dell'utilizzazione; peraltro, proprio al fine di evitare patologiche deviazioni degli utilizzi privati di beni pubblici, viene sancito all'ultimo comma dell'articolo sia l'obbligo di assicurare un'adeguata manutenzione del bene sia di garantirne uno sviluppo idoneo anche in relazione al mutamento delle esigenze di servizio, con il duplice scopo di evitare, in tal modo, cristallizzazioni valutative al solo momento dell'analisi delle offerte dell'interesse pubblico e di garantire forme di controllo «virtuose», che si muovono dalla tutela del bene al miglioramento dello status del bene e della sua funzionalità.
  Infine, a chiusura della presente proposta di legge viene inserito l'articolo 812-quinquies del codice civile, ai sensi del quale sono definiti beni privati quelli che non rientrano nelle categorie indicate dalle norme precedenti e sono disciplinati dalle altre norme del codice civile.
  A conclusione di tale ragionamento, appare rilevante sottolineare come l'impostazione predetta trova il suo fondamento in una lettura evolutiva della Costituzione: la tutela della funzione sociale della proprietà così come il riconoscimento della salute come «diritto fondamentale» nonché la tutela dell'ambiente, del paesaggio e dei beni culturali nell'ambito dei princìpi di uguaglianza e della statuizione dei diritti fondamentali per tutti i cittadini, titolari della sovranità sancita primariamente dalla Costituzione – che trova un'applicazione forte del principio di sussidiarietà orizzontale ex articolo 118, quarto comma, della Costituzione – non solo legittimano ma permettono di desumere l'esistenza delle categorie indicate quali enunciazioni dei diritti fondamentali, dei diritti sociali e dei princìpi di solidarietà e di uguaglianza.
  In tale scenario, dopo aver constatato l'assenza di una definizione legislativa del bene «ambiente» a fronte della copiosa produzione legislativa in materia, con la presente proposta di legge si è inteso colmare tale lacuna normativa.
  Infatti, la trasversalità dell'interesse ambientale e la sua nozione polisensa hanno suscitato un controverso dibattito sulla «materializzazione» dell'interesse ambientale e la sua individuazione o no quale oggetto definitivo e delimitato.
  In tale contesto, la pluralità di significati e di livelli che può assumere il concetto di «ambiente» richiederebbe una sorta di mappa di riferimento, che sia in grado di orientare in via prioritaria la scomposizione di tale nozione e di consentirne una riaggregazione in una forma arricchita dal dialogo e dal confronto interdisciplinare e intermetodologico.
  Risulta opportuno preliminarmente chiarire che definire giuridicamente l'ambiente vuol dire, innanzitutto e principalmente, individuare l'oggetto delle regole poste dall'ordinamento a tutela dell'ambiente e la loro estensione materiale. Una definizione di ambiente non incide, in linea di massima, sulle modalità di protezione dell'ambiente, né sull'intensità di quest'ultima.
  Queste variabili della tutela ambientale sono infatti legate, per un verso, al rango – costituzionale o no – che l'ordinamento attribuisce all'interesse ambientale; per altro verso, dipendono dal trattamento che la legge riserva alla considerazione di tale interesse nell'approntare le regole che presiedono all'attività autoritativa delle pubbliche amministrazioni. Ciò deriva dalle caratteristiche stesse dell'interesse ambientale: emerso come interesse diffuso, successivamente assurto a interesse pubblico e generale, esso, postulando una situazione di doverosità, impegna in primo luogo l'amministrazione; le situazioni giuridiche soggettive attive relative all'ambiente riconosciute in capo ai singoli, infatti, si connotano per il loro carattere soprattutto strumentale o procedimentale (diritti di partecipazione e diritti di informazione).
  Come è stato sostenuto, la delimitazione della nozione giuridica di ambiente attiene al diritto positivo, la cui mancata attribuzione di un valore univoco alle indicazioni normative implica il sorgere di numerose problematiche.
  Avendo contezza della considerevole varietà di elementi che compongono l'ambiente e delle indefinite interrelazioni dalle quali possono derivare altre variabili, è sembrato opportuno definire l'ambiente, oggetto della tutela prevista nell'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, quale sistema di relazioni tra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici.
  Nel fornire una definizione di ambiente, l'articolo 4 della presente proposta di legge non si preoccupa di stabilire in quale delle nuove categorie di beni siano da annoverare l'ambiente o i fattori che lo compongono. Significativa, in questa prospettiva, è la circostanza per la quale la definizione di «ambiente» non si riferisca ai beni, facenti parte del «sistema di relazioni», quanto, piuttosto, preferisca ricorrere al termine «fattori».
  Del resto, un approdo certo al quale sono pervenuti i vari filoni dottrinari è che l'ambiente non può considerarsi un bene in senso stretto. Quelle opinioni eccessivamente «materialiste», che considerano «ambiente» solo ciò che rientra nella disponibilità dell'uomo, rilevano comunque che non tutte le cose che formano il sistema «ambiente» sono prese in considerazione dal diritto e quindi considerate beni; allo stesso modo quanti, peccando in senso opposto, sganciano la nozione di «ambiente» dalla dimensione materiale delle cose che lo compongono giungono a mettere in dubbio la legittimità stessa di un approccio che identifica l'ambiente come bene (in senso stretto).
  Dunque l'ambiente può considerarsi un bene giuridico solo in senso lato, ossia quale oggetto di una tutela giuridica. In questa prospettiva, è stato ormai chiarito che la complessità dei problemi che la disciplina dell'ambiente è chiamata a risolvere richiede uno strumentario giuridico diversificato e flessibile, che vada dai più tradizionali istituti autoritativi ai meccanismi che sfruttano le dinamiche di mercato piegandole alle esigenze ecologiche. Per questo motivo, non è sembrato opportuno affidare alla stessa definizione di «ambiente» la categorizzazione di esso o delle sue singole componenti come bene comune o bene pubblico, lasciando che siano le discipline di settore a occuparsi di tali profili.
  Tale scelta, ad ogni modo, non è indice di incoerenza là dove s'introduce una definizione di «ambiente» nella stessa sede in cui si riforma la disciplina dei beni. Al contrario, la ricostruzione dei beni pubblici come caratterizzati dall'indisponibilità e dal vincolo di destinazione del bene in favore della collettività, rispetto alla quale i profili formalistico-dominicali risultano del tutto recessivi, costituisce la base dogmatica e operativa su cui è stata costruita l'intera disciplina di tutela e regolazione dell'ambiente connotata, come noto, dalla protezione delle funzioni (ecosistemiche).
  Ciò non vuol dire che le due discipline (quella dei beni e quella ambientale) siano indissolubilmente legate: anche in assenza di una riforma della prima, l'introduzione di una definizione di «ambiente» non perderebbe di senso godendo comunque di una sua propria autonomia.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

  1. All'articolo 1, comma 1, alinea, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, dopo le parole: «il presente decreto legislativo disciplina, in attuazione» sono inserite le seguenti: «dell'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione e».

Art. 2.

  1. Dopo l'articolo 1 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, è inserito il seguente:

   «Art. 1-bis. – (Definizione di ambiente) – 1. L'ambiente oggetto della tutela prevista nell'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione e nel presente decreto legislativo si riferisce al sistema di relazioni tra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici. Vi rientrano, tra gli altri: il paesaggio; l'aria; i suoni e i rumori, gli odori; i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti, i laghi e le altre acque; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane, i ghiacciai e le nevi perenni e no; il mare e i fondali marini; i lidi e i tratti di costa; la fauna selvatica e la flora tutta; i campi e l'agricoltura e le pratiche agricole.
   2. I beni compresi nella definizione di ambiente di cui al comma 1 appartengono alla categoria dei beni comuni di cui all'articolo 812-bis e seguenti del codice civile».

Art. 3.

  1. Alla parte prima del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, è aggiunto, in fine, il seguente articolo:

   «Art. 3-septies. – (Principio di non regressione) – 1. Nell'esercizio delle proprie potestà e competenze, le pubbliche amministrazioni rispettano il principio di non regressione, in base al quale la protezione dell'ambiente, garantita dall'ordinamento internazionale e dall'Unione europea, dalle disposizioni legislative e regolamentari, nonché dalla giurisprudenza nazionale e della Corte di giustizia dell'Unione europea, può solo essere oggetto di un costante miglioramento, tenendo conto delle conoscenze scientifiche e tecniche disponibili».

Art. 4.

  1. All'articolo 810 del codice civile, le parole: «le cose che» sono sostituite dalle seguenti: «le cose materiali o immateriali, le cui utilità».

Art. 5.

  1. All'articolo 812 del codice civile è aggiunto, in fine, il seguente comma:

   «I beni mobili e immobili si distinguono in tre categorie: beni comuni, beni pubblici e beni privati».

Art. 6.

  1. Dopo l'articolo 812 del codice civile sono inseriti i seguenti:

   «Art. 812-bis. – (Beni comuni) – Sono beni comuni quei beni le cui utilità sono funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali della persona umana e alla salvaguardia dell'ambiente. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati con legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono collocati fuori commercio e sono gestiti da soggetti pubblici garantendo la partecipazione della comunità secondo i limiti e le modalità fissati dalla legge. Ne è consentita la circolazione nei soli casi previsti dalla legge. Con legge è coordinata la disciplina dei beni comuni con quella degli usi civici. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti e di interessi, all'esercizio dell'azione di danni arrecati al bene comune è legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta altresì l'azione per la riversione dei profitti. I presupposti e le modalità di esercizio dell'azione sono definiti con legge.
   Art. 812-ter. – (Beni pubblici) – I beni pubblici si distinguono in beni ad appartenenza pubblica necessaria, beni pubblici sociali e beni pubblici fruttiferi.
   Sono beni ad appartenenza pubblica necessaria quelli che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Non sono né usucapibili né alienabili. Vi rientrano, tra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; le reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale e internazionale. La loro circolazione può avvenire soltanto tra lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali. Lo Stato e gli enti pubblici territoriali sono titolari dell'azione inibitoria e di quella risarcitoria. I medesimi enti sono altresì titolari di poteri di tutela in via amministrativa nei casi e secondo le modalità definiti con legge.
   Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti a diritti civili e sociali della persona. Non sono usucapibili. Vi rientrano, tra gli altri: le case dell'edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, gli istituti di istruzione e gli asili nido; le reti locali di servizio pubblico. È in ogni caso fatto salvo il vincolo reale di destinazione pubblica. La circolazione è ammessa con mantenimento del vincolo di destinazione. La cessazione del vincolo di destinazione è subordinata alla condizione che gli enti pubblici titolari del potere di rimuoverlo assicurino il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati. La legge stabilisce le modalità e le condizioni di tutela giurisdizionale dei beni pubblici sociali anche da parte dei destinatari delle prestazioni. La tutela giurisdizionale dei beni in via amministrativa spetta allo Stato e ad enti pubblici anche non territoriali che la esercitano nei casi e secondo le modalità definiti con legge.
   Sono beni pubblici fruttiferi quelli che non rientrano nelle categorie indicate dal secondo e dal terzo comma. Essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti di diritto privato. L'alienazione ne è consentita solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell'utilizzo pubblico dello specifico bene e l'impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici.
   Art. 812-quater. – (Disposizioni comuni ai beni pubblici) – I beni pubblici non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. Tutte le utilizzazioni di beni pubblici da parte di un soggetto privato devono comportare il pagamento di un corrispettivo proporzionale ai vantaggi che può trarne l'utilizzatore individuato attraverso il confronto fra più offerte.
   Nella valutazione delle offerte, anche in occasione del rinnovo, si deve in ogni caso tenere conto dell'impatto sociale e ambientale dell'utilizzazione.
   La gestione dei beni pubblici deve assicurare un'adeguata manutenzione e un idoneo sviluppo anche in relazione al mutamento delle esigenze di servizio.
   Art. 812-quinquies. – (Beni privati) – Sono definiti beni privati i beni che non rientrano nelle categorie di cui agli articoli 812-bis e 812-ter».

Art. 7.

  1. Gli articoli 822, 823, 824, 825, 826, 827, 828, 829 e 830 del codice civile sono abrogati.

Art. 8.

  1. Al codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:

   a) all'articolo 839 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole «e al regime dei beni comuni»;

   b) all'articolo 879, primo comma, le parole: «appartenenti al demanio pubblico» sono sostituite dalle seguenti: «costituenti beni pubblici»;

   c) all'articolo 942:

    1) al primo comma, le parole: «appartengono al demanio pubblico» sono sostituite dalle seguenti: «sono beni comuni»;

    2) al terzo comma, le parole: «appartenenti al demanio pubblico» sono sostituite dalle seguenti «costituenti beni comuni»;

   d) all'articolo 945, le parole: «appartengono al demanio pubblico» sono sostituite dalle seguenti: «sono beni comuni»;

   e) all'articolo 946, le parole: «del demanio pubblico» sono sostituite dalle seguenti «dei beni comuni»;

   f) all'articolo 1145:

    1) al secondo comma, le parole: «ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico» sono sostitute dalle seguenti: «ai beni pubblici e ai beni comuni di titolarità pubblica»;

    2) al terzo comma, la parola: «concessione» è sostituita dalla seguente: «attribuzione».

Art. 9.

  1. Dall'attuazione delle disposizioni di cui alla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Art. 10.

  1. Le disposizioni di cui agli articoli 4, 5, 6, 7 e 8 entrano in vigore dopo sei mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della presente legge.

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