Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Giustizia
Titolo: Riforma del processo penale
Riferimenti: AC N.2435/XVIII
Serie: Progetti di legge   Numero: 310/3
Data: 31/07/2021
Organi della Camera: Assemblea

 

 

 

Servizio Studi

Ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, giustizia e cultura

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Dossier n. 267/3

 

 

 

 

 

 

 

Servizio Studi

Dipartimento giustizia

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Progetti di legge n. 310/3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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INDICE

 

Schede di lettura

Contenuto del provvedimento all’esame dell’Assemblea........................... 3

Articolo 1, commi 1-4 (Oggetto e procedimento).......................................... 13

Articolo 1, comma 5 (Processo penale telematico)....................................... 15

Articolo 1, comma 6 (Notificazioni all’imputato).......................................... 19

Articolo 1, comma 7 (Processo in assenza).................................................... 22

Articolo 1, comma 8 (Utilizzo delle videoregistrazioni e dei collegamenti a distanza)    29

Articolo 1, comma 9 (Indagini preliminari e udienza preliminare)............. 32

Articolo 1, comma 10 (Procedimenti speciali)............................................... 46

Articolo 1, comma 11 (Giudizio)...................................................................... 53

Articolo 1, comma 12 (Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica)  61

Articolo 1, comma 13 (Impugnazioni)............................................................. 64

Articolo 1, comma 14 (Amministrazione dei beni in sequestro ed esecuzione della confisca)............................................................................................................................... 75

Articolo 1, comma 15 (Condizioni di procedibilità)...................................... 79

Articolo 1, comma 16 (Esecuzione delle pene pecuniarie)........................... 83

Articolo 1, comma 17 (Sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi)...... 86

Articolo 1, commi 18-20 (Giustizia riparativa).............................................. 96

Articolo 1, comma21 (Disposizioni in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto)................................................................................................ 103

Articolo 1, comma 22 (Disposizioni in materia di sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato)..................................................................... 108

Articolo 1, comma 23 (Disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni).. 111

Articolo 1, comma 24 (Disposizioni in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione).......................................................................................... 114

Articolo 1, comma 25 (Disposizioni in materia di comunicazione della sentenza)  117

Articolo 1, commi 26 -28 (Ufficio per il processo penale)......................... 118

Articolo 2, comma 1 (Disposizioni in materia di prescrizione del reato). 121

Articolo 2, commi 2-6 (Disposizioni in materia di ragionevole durata dei giudizi di impugnazione)................................................................................................... 125

Articolo 2, commi 7-10 (Compiuta identificazione della persona sottoposta ad indagini e dell’imputato).................................................................................................... 132

Articolo 2, commi 11-13  (Modifiche in materia di tutela della vittima di reato)    135

Articolo 2, comma 14 (Disposizioni in materia di garanzie dei detenuti) 137

Articolo 2, comma 15 (Disposizioni in materia di arresto obbligatorio in flagranza) 138

Articolo 2, commi 16-17 (Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria)........................................................................................................ 139

Articolo 2, commi 18-19 (Piano per la transizione digitale della amministrazione della giustizia)............................................................................................................. 141

Articolo 2, commi 20-21 (Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo)............................................................................................................................. 142

Articolo 2, commi 22-24 (Disposizioni finanziarie).................................... 143

 


Schede di lettura

 


Contenuto del provvedimento all’esame dell’Assemblea

Il disegno di legge A.C. 2435 è stato presentato dal Governo Conte II alla Camera il 13 marzo 2020, e sul testo la Commissione Giustizia ha deliberato di svolgere un'indagine conoscitiva (per una sintesi delle posizioni espresse dagli auditi si veda il Dossier n. 310/1).

Con la formazione del Governo Draghi, il Ministro della giustizia Cartabia, nel mese di marzo 2021, ha insediato una Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435 (c.d. Commissione Lattanzi).

Sulla base dei lavori di questa Commissione, il 14 luglio 2021 il Governo ha presentato una serie di emendamenti al testo originario (per un confronto tra il testo originario del disegno di legge e gli emendamenti del Governo si veda il Dossier n. 310/2).

La Commissione giustizia ha concluso l'esame del provvedimento (A.C. 2435-A) il 30 luglio 2021.

 

Il disegno di legge si compone di 2 articoli: l’articolo 1 prevede una serie di deleghe al Governo, che dovranno essere esercitate entro un anno dall’entrata in vigore della legge; l’articolo 2 contiene novelle al codice penale e al codice di procedura penale, immediatamente precettive.

In generale, le disposizioni del disegno di legge sono riconducibili a una serie di diverse finalità, tra le quali è preminente l’esigenza di accelerare il processo penale anche attraverso una sua deflazione e la sua digitalizzazione. Misure sono rivolte al potenziamento delle garanzie difensive e della tutela della vittima del reato. Una innovativa disciplina concerne la ragionevole durata del giudizio di impugnazione, del quale è prevista l’improcedibilità in caso di eccessiva durata.

 

Deflazione ed accelerazione del processo penale

L’articolo 1, comma 9, detta principi e criteri direttivi volti a riformare alcuni profili della disciplina in materia di indagini preliminari e udienza preliminare indicendo:

§  sui termini di durata delle indagini preliminari rimodulandoli in funzione della natura dei reati per cui si procede;

§  sull’iscrizione nel registro della notizia di reato in relazione sia ai presupposti della quale si prevede un meccanismo di verifica, su richiesta di parte, che consenta al giudice di accertare la tempestività dell’iscrizione stessa e di retrodatarla; sia degli effetti dell’iscrizione prevedendosi che la stessa non possa determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo;

§  sulla fase conclusiva delle indagini preliminari, con l’obiettivo da un lato di rafforzare le garanzie dell’indagato e della persona offesa e dall’altro di ridurre i momenti di stasi del processo;

§  sull’udienza preliminare, limitandone la previsione tramite l’estensione del catalogo dei reati con citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, individuandoli tra quelli puniti con pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento e prevedendo un meccanismo di controllo del giudice sulla formulazione dell’imputazione;

§  sui criteri decisori di cui agli articoli 125 disp. att. c.p.p. e 425, comma 3, c.p.p. (regola di giudizio per l’archiviazione e per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere) sostituendo l’inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio degli elementi acquisiti con l’inidoneità dei medesimi elementi a consentire una “ragionevole previsione di condanna”;

§  sui criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale, prevedendosi che gli uffici del pubblico ministero nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili.

 

L’articolo 1, comma 10 detta principi e criteri direttivi per la riforma dei riti alternativi, finalizzati ad estenderne l’applicabilità ed a renderli maggiormente appetibili, con effetti deflattivi del rito dibattimentale.

In particolare, per quanto riguarda il patteggiamento, il Governo dovrà consentire, quando la pena detentiva da applicare superi 2 anni, che l’accordo tra imputato e pubblico ministero si estenda alle pene accessorie e alla confisca facoltativa e dovrà ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi.

Nel giudizio abbreviato il Governo dovrà intervenire sulle condizioni per l’accoglimento della richiesta subordinata a un’integrazione probatoria, prevedendone l’ammissibilità solo se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale. Il Governo dovrà inoltre prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato.

Intervenendo sul procedimento per decreto il legislatore delegato dovrà estendere da 6 mesi a un anno, il termine a disposizione del PM per chiedere al GIP l’emissione del decreto, stabilendo che presupposto dell’estinzione del reato sia, oltre al decorso dei termini, anche il pagamento della pena pecuniaria e prevedendo che se il condannato rinuncia all’opposizione può essere ammesso a pagare una pena pecuniaria ridotta.

Più in generale il provvedimento intende aumentare le possibilità di accesso ai riti premiali a fronte del decreto del GIP che dispone il giudizio immediato e consentire all’imputato, in caso di nuove contestazioni in dibattimento, di richiedere l’accesso ai riti alternativi.

 

L’articolo 1, comma 11, con riguardo al giudizio dibattimentale, contiene alcune direttive specificamente rivolte all’obiettivo dell’accelerazione del procedimento, in base alle quali il governo dovrà prevedere:

§  che i giudici debbano fissare e comunicare alle parti il calendario organizzativo delle udienze;

§  che le parti illustrino le rispettive richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle stesse;

§  il deposito delle consulenze tecniche e della perizia entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame del consulente o del perito;

§  prevedere che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, a richiesta di parte, la riassunzione della prova dichiarativa già assunta. Quando la prova dichiarativa sia stata verbalizzata tramite videoregistrazione nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, il giudice potrà disporre la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze.

 

L’articolo 1, comma 12 delega il Governo ad intervenire sulla disciplina dei procedimenti attribuiti alla competenza del giudice monocratico in cui non si fa luogo ad udienza preliminare e l’esercizio dell’azione penale avviene con citazione diretta a giudizio. In particolare, la riforma prevede una udienza predibattimentale in camera di consiglio, da celebrare innanzi ad un giudice diverso da quello davanti al quale dovrà eventualmente tenersi il dibattimento (una sorta di udienza filtro), nell’ambito della quale il giudice dovrà pronunciare la sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna e potrà ricevere eventuali richieste di riti alternativi. Laddove invece il procedimento superi questa fase, il giudice dovrà fissare la data della successiva udienza dibattimentale, dinanzi a un giudice diverso.

 

Esigenze di deflazione sono alla base anche della riforma proposta per il sistema delle impugnazioni dall’articolo 1, comma 13. In particolare, per quanto riguarda il giudizio di appello, il Governo è delegato:

§  ad estendere le attuali ipotesi di inappellabilità delle sentenze (di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; di condanna al lavoro di pubblica utilità);

§  ad ampliare l’ambito applicativo del concordato sui motivi in appello, tramite l’eliminazione di tutte le preclusioni all’accesso a tale istituto;

§  a prevedere l'inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi.

 

Per quanto riguarda invece il giudizio in Cassazione, la delega prevede – tra l’altro – che la trattazione dei ricorsi avvenga con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori facendo salva la possibile richiesta delle parti di discussione orale. Dinanzi alla Cassazione è infine prevista l’introduzione di un ricorso straordinario per dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

Finalità deflattive del processo penale persegue anche l’articolo 1, comma 15 del disegno di legge che delega il Governo a intervenire sulla disciplina delle condizioni di procedibilità, ampliando l’ambito di applicazione della procedibilità a querela (ad esempio, dovrà essere prevista la querela per ulteriori specifici reati contro la persona o contro il patrimonio, individuati nell’ambito di quelli puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel minimo a due anni).

 

Anche il potenziamento degli istituti della non punibilità per tenuità del fatto e della messa alla prova, previsto dall’articolo 1 commi 21 e 22 disegno di legge, dovrebbe consentire di ridurre le ipotesi nelle quali il procedimento penale giunge al dibattimento.

In particolare, il comma 21 delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni, con la possibilità di prevedere eccezioni per specifici reati e con l’obbligo di precludere sempre l’accesso all’istituto in caso di reati di violenza sulle donne e violenza domestica.

L’articolo 1, comma 22 delega il Governo a estendere l’ambito di applicabilità dell’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato a specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore. Si prevede inoltre l’applicazione dell’istituto già nel corso delle indagini preliminari.

 

Presentano una finalità deflattiva anche alcuni principi di delega relativi alla revisione del sistema sanzionatorio penale. In particolare, l’articolo 1, comma 17 delega il Governo a rivedere la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, da individuare nella semilibertà, nella detenzione domiciliare, nel lavoro di pubblica utilità e nella pena pecuniaria, ampliandone l’ambito di applicazione. Le nuove pene sostitutive, irrogabili entro il limite di 4 anni di pena inflitta, saranno direttamente applicate dal giudice della cognizione, alleggerendo così il carico dei giudici di esecuzione.

L'articolo 1, comma 23 prevede una delega al Governo in materia di contravvenzioni nella quale prevedere una causa di estinzione delle contravvenzioni destinata a operare già nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall'organo accertatore e del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa.

 

 

Digitalizzazione

Il provvedimento promuove la digitalizzazione del processo penale e, più in generale, l’impiego delle nuove tecnologie con finalità di velocizzazione e risparmio, anche muovendo dall’esperienza fatta nel corso della pandemia con il processo da remoto.

A tal fine, l'articolo 1, comma 5 reca principi e criteri direttivi cui devono ispirarsi i decreti attuativi della delega in tema di processo penale telematico, affermando in generale il principio della obbligatorietà dell’utilizzo di modalità digitali tanto per il deposito di atti e documenti quanto per le comunicazioni e notificazioni. Pur nella previsione di una gradualità nell’implementazione del processo penale telematico, da garantire attraverso una disciplina transitoria, il legislatore delegato dovrà prevedere l’impiego di modalità non telematiche solo in via di eccezione.

L’articolo 1, comma 8 detta principi e criteri direttivi per modificare il codice di rito al fine di prevedere la registrazione audiovisiva o l’audioregistrazione per documentare l’interrogatorio o l’assunzione di informazioni, ovvero la testimonianza. Inoltre, la disposizione delega il Governo ad individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza può avvenire a distanza o da remoto.

A supporto del processo di digitalizzazione, l’articolo 2, commi 18-19 demanda al Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri per l’innovazione tecnologica e per la pubblica amministrazione, l’approvazione di un piano triennale per la transizione digitale della amministrazione della giustizia.

L’articolo 2, commi 20-21 consente inoltre al Ministro della giustizia di costituire e disciplinare un Comitato tecnico-scientifico quale organismo di consulenza e supporto nelle decisioni connesse alla digitalizzazione del processo.

 

 

Garanzie difensive

Ulteriori principi di delega possono essere ricondotti alla finalità di bilanciare le esigenze di velocizzazione del procedimento con quelle di mantenere elevate garanzie difensive.

Va in questa direzione l'articolo 1, comma 6, che reca principi e criteri direttivi per la modifica della disciplina delle notificazioni all’imputato, prevedendo che solo la prima notificazione, nella quale egli prende conoscenza del procedimento a suo carico, e quelle relative alla citazione a giudizio in primo grado e in sede di impugnazione, dovranno essere effettuate personalmente all’imputato; tutte le altre potranno essere effettuate al difensore di fiducia, al quale l’imputato avrà l’onere  di comunicare i propri recapiti. La disciplina delle notificazioni all’imputato è strettamente connessa alla nuova regolamentazione del processo in assenza dettata dal successivo art. 1, comma 7.

L’articolo 1, comma 7 detta principi e criteri direttivi per la riforma della disciplina del processo in assenza dell’imputato, al fine di adeguarla al diritto dell’Unione europea con particolare riferimento alla direttiva UE 2016/343, che tratta, oltre che della presunzione di innocenza, anche del diritto di presenziare al processo. In particolare, la riforma intende riaffermare il principio in base al quale si può procedere in assenza dell’imputato solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria. In mancanza, il giudice dovrà pronunciare sentenza inappellabile di non doversi procedere, chiedendo contestualmente che si proceda alle ricerche dell’imputato. Se e quando l’imputato sarà rintracciato, la sentenza di non doversi procedere sarà revocata (nel frattempo la prescrizione sarà stata sospesa) e il giudice fisserà una nuova udienza per la prosecuzione del processo.

L’articolo 1, comma 24, delega il Governo ad affermare il diritto della persona sottoposta alle indagini (e dei soggetti interessati) a proporre opposizione al GIP avverso il decreto di perquisizione al quale non abbia fatto seguito un provvedimento di sequestro.

L’articolo 1, comma 25,  introduce uno specifico criterio di delega in base al quale il Governo dovrà prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l'emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati.

Inoltre l'articolo 2, comma 14 interviene sull'articolo 123 c.p.p. per estendere l’obbligo di comunicazione anche al difensore delle dichiarazioni e richieste, dell'imputato detenuto e dell'imputato in stato di arresto o di detenzione domiciliare o custodito in un luogo di cura.

 

 

Tutela della vittima e giustizia riparativa

La riforma include anche disposizioni per il rafforzamento degli istituti di tutela della vittima del reato e per l’introduzione di una disciplina organica sulla giustizia riparativa, anche in attuazione di direttive dell’Unione europea.

In particolare,  l’articolo 1, comma 18, detta principi e criteri direttivi per introdurre una disciplina organica della giustizia riparativa, con particolare riguardo alla definizione dei programmi, ai criteri di accesso, alle garanzie, alla legittimazione a partecipare, alle modalità di svolgimento dei programmi e alla valutazione dei suoi esiti, nelle diverse fasi del procedimento penale.

L’articolo 2, commi 11-13, con disposizioni immediatamente precettive, integra le disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere introdotte con legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice rosso), estendendone la portata applicativa anche alle vittime dei suddetti reati in forma tentata e alle vittime di tentato omicidio.

Un'ulteriore disposizione (articolo 2, comma 15) è volta ad inserire tra i delitti per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza quello di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.

 

 

Prescrizione e improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione

La riforma penale, con l’articolo 2, comma 1, interviene con disposizioni immediatamente prescrittive sulla disciplina della prescrizione dei reati contenuta nel codice penale, con la finalità di:

§  confermare la regola, introdotta con la legge n. 3/2019 (c.d. Spazzacorrotti), secondo la quale il corso della prescrizione del reato si blocca con la sentenza di primo grado, sia essa di assoluzione o di condanna;

§  escludere che al decreto penale di condanna, emesso fuori dal contraddittorio delle parti, possa conseguire l'effetto definitivamente interruttivo del corso della prescrizione;

§  prevedere che se la sentenza viene annullata, con regressione del procedimento al primo grado o ad una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla pronuncia definitiva di annullamento.

 

Parallelamente, sempre con previsione immediatamente prescrittiva, l’articolo 2, commi 2-6 introduce nel codice di procedura penale l’istituto dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione. Con l’inserimento dell’art. 344-bis si prevedono termini di durata massima dei giudizi di impugnazione individuati rispettivamente in 2 anni per l’appello e un anno per il giudizio di cassazione: la mancata definizione del giudizio entro tali termini comporta la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale.

Tuttavia i termini di durata dei giudizi di impugnazione, che sono sospesi negli stessi casi in cui è prevista la sospensione della prescrizione, possono essere prorogati dal giudice che procede. Ed in particolare:

-   per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di associazione mafiosa e di scambio elettorale politico-mafioso, di violenza sessuale aggravata e di traffico di stupefacenti, il termine dei 2 anni in appello e di un anno in Cassazione può essere prorogato, per ragioni inerenti la complessità del giudizio, con successive proroghe, senza limiti di tempo: non è dunque fissato un limite di durata per tali giudizi;

-   per i delitti aggravati dal metodo mafioso e dall’agevolazione mafiosa ai sensi dell’articolo 416-bis.1, possono essere concesse proroghe fino ad un massimo di 3 anni per l’appello e un anno e 6 mesi per il giudizio di legittimità; in tali casi quindi la durata massima del giudizio in appello è di 5 anni e quella del giudizio in Cassazione è di 2 anni e 6 mesi;

-   per tutti gli altri reati è possibile solo una proroga di un anno per il giudizio di appello e di 6 mesi per il giudizio in Cassazione: la durata massima è quindi di 3 anni per l’appello e di 1 anno e 6 mesi per la Cassazione, sempre che ricorrano i motivi che giustificano la proroga.

I termini di durata massima dei giudizi di impugnazione non si applicano nei procedimenti per delitti puniti con l’ergastolo e quando l’imputato vi rinunci.

La disposizione, inoltre, novella l’art. 578 c.p.p. in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di improcedibilità dell’azione.

Con disposizione transitoria, è previsto che le nuove norme in materia di improcedibilità trovino applicazione solo nei procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020; per questi procedimenti, peraltro, se l’impugnazione è proposta entro la fine del 2024, i termini di durata massima dei giudizi sono rispettivamente di 3 anni per l’appello e di 1 anno e mezzo per il giudizio di Cassazione.

 

Ulteriori disposizioni di razionalizzazione del procedimento penale

Infine, il provvedimento contiene una serie di disposizioni di delega riconducibili all’esigenza di razionalizzare alcuni specifici istituti processuali.

In particolare, l’articolo 1, comma 14 delega il Governo ad intervenire in materia di amministrazione dei beni in sequestro e di esecuzione della confisca; l’articolo 1, comma 17 interviene sul procedimento di esecuzione della pena pecuniaria con la finalità dichiarata di restituirle effettività.

L’articolo 2, commi da 7 a 10, introduce specifiche disposizioni, immediatamente precettive, volte ad assicurare la più compiuta identificazione di alcune categorie di persone sottoposte al procedimento penale, con specifico riguardo agli apolidi, alle persone della quali è ignota la cittadinanza, ai cittadini di uno Stato non appartenente all'Unione europea o cittadini dell'Unione europea privi del codice fiscale o che sono attualmente, o sono stati in passato, titolari anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all'Unione europea.

Ulteriori misure sono previste dal disegno di legge con finalità di supporto all’implementazione della riforma. In particolare:

§  l’articolo 2, commi 16 e 17, demanda ad un decreto del Ministro della giustizia, l’istituzione di un Comitato tecnico-scientifico, per la consulenza e il supporto nella valutazione periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione del procedimento penale;

§  l’articolo 1, commi 26-28, delegano il Governo a modificare la disciplina vigente dell’ufficio per il processo istituito presso i tribunali e le corti d'appello.

 

 


 

Articolo 1, commi 1-4
(Oggetto e procedimento)

L’articolo 1 del disegno di legge, rubricato “Delega al Governo per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale”, si compone di 27 commi e contiene deleghe al Governo per l'efficienza del processo penale.

 

In particolare, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di delega, il Governo deve adottare uno o più decreti legislativi volti a:

§  modificare il codice di procedura penale e le sue norme di attuazione, il codice penale e le leggi speciali, l’ordinamento giudiziario per quanto riguarda in particolare i progetti organizzativi delle procure;

§  riformare il regime sanzionatorio dei reati;

§  introdurre una disciplina organica della giustizia riparativa;

§  introdurre una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale.

 

Nell’esercizio della delega il Governo dovrà, nel rispetto delle garanzie difensive, perseguire le finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, attenendosi ai principi e criteri direttivi delineati dall’articolo 1, commi da 5 a 27.

 

La procedura da seguire nell’attuazione della delega è delineata dal comma 2, che prevede che gli schemi di decreto legislativo siano adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri competenti ratione materiae [1] e, con specifico riferimento alla disciplina della giustizia riparativa, acquisito il parere della Conferenza unificata.

 

Si ricorda che della Conferenza unificata - presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o, su sua delega, dal Ministro per gli affari regionali - fanno parte i componenti della Conferenza Stato-regioni e della Conferenza Stato-città e autonomie locali (art. 8 del decreto legislativo n. 281 del 1997).

 

Sugli schemi di decreto deve essere acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che si esprimono entro 60 giorni dalla ricezione degli schemi medesimi; in caso di inutile decorso del termine, i decreti possono essere emanati anche senza i prescritti pareri.

 

La medesima procedura di cui al comma 2 deve essere seguita qualora, entro due anni dalla data di entrata in vigore dell’ultimo dei decreti legislativi di attuazione della delega, il Governo ritenga necessario adottare disposizioni integrative e correttive della riforma (comma 4).

 

Ai sensi del comma 3, infine, il Governo è delegato ad adottare, nei termini e con la procedura di cui ai commi 1 e 2, uno o più decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni adottate ai sensi del comma 1 e di coordinamento tra le stesse e le altre leggi dello Stato, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme del codice penale, del codice di procedura penale e delle sue norme di attuazione nonché delle disposizioni contenute in leggi speciali non direttamente investite dai princìpi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie.

 


 

Articolo 1, comma 5
(Processo penale telematico)

 

L'articolo 1, comma 5 reca principi e criteri direttivi cui devono ispirarsi i decreti attuativi della delega in tema di processo penale telematico, affermando in generale il principio della obbligatorietà dell’utilizzo di modalità digitali tanto per il deposito di atti e documenti quanto per le comunicazioni e notificazioni. Pur nella previsione di una gradualità nell’implementazione del processo penale telematico, da garantire attraverso una disciplina transitoria, il legislatore delegato dovrà prevedere l’impiego di modalità non telematiche solo in via di eccezione.

 

Si ricorda che attualmente per gli atti del processo penale è prevista, a regime, la facoltatività del deposito in via telematica e, come ipotesi derogatoria generalizzata, sebbene temporanea e legata alla dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria da Covid-19, l'obbligatorietà del deposito telematico attraverso il portale del PPT [2] . Questo stesso assetto, basato sulla generale facoltatività del deposito telematico e sulla possibile individuazione di specifici atti per i quali prevedere il deposito obbligatorio, era contenuto nell’originario disegno di legge C. 2435 (art. 2, lett. a) e b). Tale impostazione è stata ribaltata nei lavori della Commissione Lattanzi e nell’esame del provvedimento in sede referente.

 

La lettera a) contiene i seguenti principi e criteri direttivi relativi al processo penale telematico prevedendo che il legislatore delegato debba:

§  anzitutto prevedere che in tutti i procedimenti penali (in ogni stato e grado) il deposito di atti e documenti e tutte le comunicazioni e notificazioni siano effettuate con modalità telematiche. Solo per gli atti che le parti compiono personalmente rimarrà possibile procedere con il deposito cartaceo. La successiva lettera c) tempera l’applicazione di questo principio con la previsione di una disciplina transitoria;

§  disciplinare modalità che consentano di formare e conservare gli atti processuali in formato digitale, garantendo la loro autenticità, integrità, leggibilità, reperibilità e, se previsto dalla legge, segretezza;

§  prevedere che in tutte le trasmissioni telematiche sia possibile assicurare l’identità di mittente e destinatario e avere certezza temporale della trasmissione stessa.

 

In base alla lettera b) il Governo dovrà rimettere a un regolamento del Ministro della giustizia la definizione delle regole tecniche relative ai depositi e alle comunicazioni telematiche, modificando ove necessario il DM n. 44 del 2011. Ogni ulteriore specifica e disposizione attuativa potrà essere adottata con atto dirigenziale.

 

Il regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione, nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione è stato emanato con il citato decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, in attuazione dell'art. 4 del D.L. n. 193 del 2009.

 

La lettera c) prevede l’introduzione di un regime transitorio, volto a garantire gradualità al principio dell’obbligatorietà del deposito telematico, anche al fine di consentire una adeguata formazione del personale coinvolto.

 

La lettera d) riguarda la previsione di eccezioni rispetto al principio di obbligatorietà delle modalità telematiche. Sempre attraverso un regolamento ministeriale, da emanare sentiti CSM e CNF, il Ministro della giustizia dovrà individuare specifici uffici giudiziari e specifici atti per i quali possano essere adottate anche modalità non telematiche.

 

La lettera e) delega il Governo a disciplinare le ipotesi di malfunzionamento dei sistemi informatici dei domini del Ministero della giustizia.

 

Il dominio giustizia (@giustizia.it) è l'insieme delle risorse hardware e software, mediante il quale il Ministero della giustizia tratta in via informatica e telematica qualsiasi tipo di attività, di dato, di servizio, di comunicazione e di procedura (art. 2, co. 1, lett. a), DM 21 febbraio 2011, n. 44).

 

In particolare, per tali ipotesi, dovranno essere individuate modalità alternative di deposito, dovranno essere predisposti sistemi per l’accertamento dell’inizio e della fine del malfunzionamento e dovrà essere prevista una comunicazione al pubblico del malfunzionamento e del ripristino della piena funzionalità.

 

Attualmente, nell’ambito della disciplina dettata per fronteggiare l’emergenza epidemiologica dall’art. 24 del decreto-legge n. 137 del 2020 (v. sopra), a disciplinare l’eventuale malfunzionamento del portale del processo penale telematico provvedono i commi 2-bis e 2-ter dell’art. 24, in base ai quali:

- il malfunzionamento del portale del processo penale telematico, quando attestato dal Direttore generale per i servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia e segnalato sul portale dei servizi telematici del Ministero, costituisce condizione per la restituzione nel termine processuale previsto per il deposito non riuscito a causa della disfunzione tecnologica. Il malfunzionamento è infatti considerato un “caso di forza maggiore” ai sensi dell’art. 175 c.p.p. (Restituzione del termine);

- in presenza di questi presupposti, fintanto che persiste il malfunzionamento (“fino alla riattivazione dei sistemi”), l'autorità giudiziaria che procede può autorizzare il deposito di atti e documenti in formato analogico;

- anche al di fuori di questi presupposti, l'autorità giudiziaria può sempre autorizzare il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico per ragioni specifiche ed eccezionali.

Su questo quadro normativo interviene ora il decreto-legge n. 77 del 2021 che all’art. 38 riscrive il comma 2-bis dell’art. 24 del DL n. 137 del 2020 prevedendo:

- che il Direttore generale per i servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia debba attestare il malfunzionamento del portale del PPT e contestualmente indicare il periodo di tale malfunzionamento;

- la proroga della scadenza di tutti gli atti del procedimento penale per i quali è obbligatorio l’uso del portale, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 24, al giorno successivo al ripristino della funzionalità del portale.

Il decreto-legge n. 77 del 2020, a seguito dell’esame parlamentare, sostituisce il comma 2-ter dell’art. 24, prevedendo che l’autorità giudiziaria possa sempre – a prescindere dal malfunzionamento del portale – autorizzare il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico, purché sussistano ragioni specifiche (le ragioni devono essere specifiche ed eccezionali in base alla disciplina vigente).

 

 

Infine, in base alla lettera f), nei procedimenti penali in ogni stato e grado, si dovrà prevedere che il deposito telematico di atti e documenti possa avvenire anche mediante soluzioni tecnologiche che assicurino la generazione di un messaggio di avvenuto perfezionamento del deposito, fatto salvo il rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.

 


 

Articolo 1, comma 6
(Notificazioni all’imputato)

 

L'articolo 1, comma 6 reca principi e criteri direttivi per la modifica della disciplina delle notificazioni all’imputato, prevedendo che solo la prima notificazione, nella quale egli prende conoscenza del procedimento a suo carico, e quelle relative alla citazione a giudizio in primo grado e in sede di impugnazione, dovranno essere effettuate personalmente all’imputato; tutte le altre potranno essere effettuate al difensore di fiducia, al quale l’imputato avrà l’onere  di comunicare i propri recapiti. La disciplina delle notificazioni all’imputato è strettamente connessa alla nuova regolamentazione del processo in assenza dettata dal successivo art. 2, comma 7.

 

Affermato dall’art. 1, comma 5 il principio per cui tutte le comunicazioni e notificazioni, tranne specifiche eccezioni, sono effettuate con modalità telematiche, il comma 6 detta una disciplina specifica per le notificazioni all’imputato non detenuto.

 

In merito si ricorda che attualmente, l’art. 161 c.p.p. stabilisce che il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuto né internato, lo invitano a dichiarare la casa di abitazione o il luogo in cui l'imputato esercita abitualmente l'attività lavorativa (vale a dire uno dei luoghi indicati nell'art. 157, co. 1, c.p.p.) ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni. Fuori da questi casi, l'invito a dichiarare o eleggere domicilio è formulato con l'informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell'autorità giudiziaria. In ogni caso l'imputato è avvertito dell'obbligo di dichiarare ogni mutamento. In caso di mancanza, di insufficienza o di inidoneità della dichiarazione o della elezione di domicilio, le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui l'atto è stato notificato. Si prevede quindi specifica disciplina per il detenuto scarcerato (per causa diversa dal proscioglimento definitivo) o dimesso da istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza. Quando la notificazione al domicilio determinato sia impossibile ovvero siano insufficienti, mancanti o inidonee l'elezione o dichiarazione di domicilio, l'art. 161, comma 4, prevede che le notificazioni siano eseguite mediante consegna al difensore.

Al riguardo si segnala che alcune pronunce hanno confermato la validità delle notifiche al difensore tramite PEC, effettuate ai sensi dell'art. 161, comma 4, c.p.c. citato [3] . 

L'art. 162 c.p.p. disciplina la comunicazione del domicilio dichiarato o eletto, effettuata dall'imputato all'autorità che procede, con dichiarazione raccolta a verbale ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata, con sottoscrizione autenticata da un notaio o da persona autorizzata o dal difensore. La dichiarazione può essere eseguita anche nella cancelleria del tribunale del luogo nel quale l'imputato si trova, con successiva comunicazione del verbale all'autorità che procede. Finché l'autorità giudiziaria che procede non ha ricevuto il verbale o la comunicazione, sono valide le notificazioni disposte nel domicilio precedentemente dichiarato o eletto. Si prevede che, nel caso di elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, debba essere comunicato all'autorità procedente, unitamente alla dichiarazione, anche l'assenso del difensore domiciliatario.

 

In particolare, in base alla lettera a) l’imputato non detenuto avrà:

§  l’obbligo, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, di indicare anche i recapiti telefonici e telematici di cui ha disponibilità;

§  la facoltà di dichiarare domicilio ai fini delle notificazioni anche presso un proprio idoneo recapito telematico. A tal fine dovrà essere modificato l’art. 161 c.p.p.

 

In base alla lettera b), il Governo dovrà prevedere:

§  come regola generale, che tutte le notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima, siano eseguite mediante consegna al difensore;

§  che tale regola generale non si applichi all’atto di citazione in giudizio;

§  ulteriori deroghe alla regola generale per l’ipotesi in cui l’imputato sia assistito da un difensore di ufficio e non vi sia certezza circa l’effettiva conoscenza del procedimento penale da parte dell’imputato, in quanto la prima notificazione non è stata eseguita mediante consegna dell'atto personalmente all'imputato o a persona che con lui conviva anche temporaneamente o al portiere o a chi ne fa le veci.

 

Conseguentemente, in base alla lettera c), nel primo atto notificato all'imputato dovrà essere contenuto un apposito avviso relativo al fatto che tutte le successive notificazioni (diverse dalla citazione in giudizio e con eccezioni per le impugnazioni) saranno effettuate mediante consegna al difensore.

L’imputato avrà quindi l'onere di indicare al difensore, e costantemente aggiornare, un recapito idoneo, anche telefonico o telematico, al quale potranno essergli inoltrate le successive comunicazioni.

 

Secondo quanto previsto dalla successiva lettera d) l'omessa o ritardata comunicazione all'assistito da parte del difensore, per causa imputabile al medesimo assistito, non dovrà costituire inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale del difensore.

 

La lettera e) prevede, conseguentemente, che in sede di attuazione della delega si dovrà procedere al coordinamento tra la notificazione mediante consegna di copia al difensore e la notificazione nel caso di dichiarazione o elezione di domicilio, anche con specifico riguardo alle notificazioni all'imputato detenuto, ai sensi dell'articolo 156 del codice di procedura penale.

 

L'art. 156 c.p.p. prevede l’esecuzione della notificazione nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona. Sono quindi dettate specifiche disposizioni relative al caso del rifiuto o dell'assenza legittima del detenuto dal luogo di detenzione. Le norme si applicano anche quando risulti che l'imputato è detenuto per causa diversa dal procedimento per il quale deve eseguirsi la notificazione o è internato in un istituto penitenziario.

 

Con specifico riferimento all’impugnazione proposta dall’imputato o nel suo interesse, la lettera f) delega il Governo a prevedere che la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti sia effettuata presso il domicilio appositamente dichiarato o eletto ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione (v. infra, art. 7, comma 1, lett. a).


 

Articolo 1, comma 7
(Processo in assenza)

 

L’articolo 1, comma 7, detta principi e criteri direttivi per la riforma della disciplina del processo in assenza dell’imputato, al fine di adeguarla al diritto dell’Unione europea con particolare riferimento alla direttiva UE 2016/343, che tratta, oltre che della presunzione di innocenza, anche del diritto di presenziare al processo. In particolare, la riforma intende riaffermare il principio in base al quale si può procedere in assenza dell’imputato solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria. In mancanza, il giudice dovrà pronunciare sentenza inappellabile di non doversi procedere, chiedendo contestualmente che si proceda alle ricerche dell’imputato. Se e quando l’imputato sarà rintracciato, la sentenza di non luogo a procedere sarà revocata (nel frattempo la prescrizione sarà stata sospesa) e il giudice fisserà una nuova udienza per la prosecuzione del processo.

 

Si ricorda che in XVII legislatura la legge n. 67 del 2014 (artt. 9-15) ha disciplinato il procedimento penale nei confronti degli irreperibili, eliminando ogni riferimento all'istituto della contumacia. Modificando il codice di procedura penale (artt. 420-bis e ss.), la legge ha previsto che, a fronte dell'assenza dell'imputato, il giudice debba rinviare l'udienza e disporre che l'avviso sia notificato all'imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria. Quando la notificazione non risulta possibile, e sempre che non debba essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell'imputato assente. Durante la sospensione del processo il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili. Alla scadenza di un anno dalla pronuncia dell'ordinanza di sospensione, e per ogni anno successivo, il giudice disporrà nuove ricerche dell'imputato per la notifica dell'avviso. Se le ricerche hanno esito positivo l'ordinanza è revocata, il giudice fissa la data per la nuova udienza, e l'imputato può richiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento. Durante l'irreperibilità dell'imputato, il corso della prescrizione è sospeso (ma la sospensione non può comportare il superamento dei termini di cui al secondo comma dell’art. 161 c.p.).

La successiva legge n. 103 del 2017 (art. 1, comma 71) ha introdotto nel c.p.p. l’art. 629-bis, rubricato “Rescissione del giudicato”, in base al quale il condannato (o il sottoposto a misura di sicurezza) con sentenza passata in giudicato, nei cui confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo, può ottenere la rescissione del giudicato qualora provi che l'assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo. La richiesta è presentata alla corte di appello nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento, a pena di inammissibilità, personalmente dall'interessato o da un difensore munito di procura speciale, entro trenta giorni dal momento dell'avvenuta conoscenza del procedimento. Se la corte di appello accoglie la richiesta, revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado.

 

La Commissione Lattanzi ha sottolineato come la normativa vigente presenti alcune criticità, «ad esempio in tema di diritto dell’imputato a che in tutti gli atti introduttivi del giudizio e nel provvedimento di esecuzione sia avvisato, rispettivamente, delle conseguenze derivanti dal non partecipare al processo e dei suoi diritti ove l’assenza non sia stata volontaria». Inoltre, benché gli interventi della XVII legislatura si muovessero entrambi nella direzione indicata dalla direttiva (UE) 343/2016, «tuttavia se ne sono discostati per alcuni aspetti non certo irrilevanti, quale, tra i principali, la legittimazione a svolgere il processo in assenza dell’imputato, senza alcun diritto a rimedi successivi, anche in presenza di meri indici di conoscenza del procedimento (non già del processo), se accompagnati da un atteggiamento colposo del medesimo imputato rispetto alla mancata conoscenza della pendenza del processo. Tali aspetti hanno anche dato causa a un intervento “correttivo” delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che, in via interpretativa, ha di fatto modificato i presupposti per la dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis c.p.p. (Cass., SSUU, n. 23948 del 28/11/2019, imp. I.D.M., Rv. 279420 –01), svalutando il peso dei predetti indici di conoscenza del procedimento, in tal modo incidendo fortemente su quello che era l’impianto portante dell’intervento normativo: impianto nel quale, peraltro, incide negativamente, anche in confronto con l’articolazione delle situazioni delineate dalla direttiva, la circostanza di aver considerato in modo omogeneo e indifferenziato una varietà di ipotesi differenti di assenza, che vanno dalla mera assenza ad un momento dell’iter processuale, all’assenza indubbiamente volontaria e consapevole, all’assenza solo “probabilmente” volontaria e consapevole. Anche l’attività di ricerca dell’assente certamente inconsapevole ha ricevuto una disciplina non del tutto soddisfacente, in quanto diretta solo ad attivare le modalità ordinarie di identificazione ed elezione di domicilio, meramente prodromiche all’instaurazione di un rapporto effettivo tra imputato e autorità che procede al processo».

 

 

Per ovviare alle criticità evidenziate dalla Commissione ministeriale, il disegno di legge delega il Governo a modificare la disciplina vigente incentrata sul meccanismo sospensivo, che obbliga ogni anno a rimettere a ruolo il procedimento penale sospeso, delineando nove princìpi e criteri direttivi (lettere da a) a i).

 

In base alla lettera a) dovranno essere ridefiniti i casi in cui l’imputato si deve ritenere presente o assente nel processo, prevedendo che il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando vi sia certezza del fatto che tale assenza è volontaria e consapevole; dovranno dunque essere acquisiti elementi idonei a consentire di affermare che l’imputato è a conoscenza della pendenza del giudizio ed ha volontariamente deciso di sottrarvisi.

 

Per soddisfare il requisito posto dalla lettera a), la successiva lettera b) richiede che l’imputato sia tempestivamente citato per il processo a mani proprie o con altre modalità comunque idonee a garantire che lo stesso venga a conoscenza della data e del luogo del processo. Per la notifica dell’atto introduttivo del processo, l’autorità giudiziaria potrà avvalersi della polizia giudiziaria. L’imputato dovrà essere anche avvertito del fatto che la decisione potrà essere presa anche in sua assenza.

 

La lettera c) precisa che quando non si ha certezza dell’effettiva conoscenza del procedimento penale, si può comunque procedere in assenza se il giudice, valutate le modalità di notificazione e ogni altra circostanza, ritiene provata la conoscenza della pendenza del processo e che l’assenza è dovuta ad una scelta volontaria e consapevole.

 

La Commissione Lattanzi individua gli indici della conoscenza del procedimento nelle modalità di notifica, ritenendo che si possa affermare che l’imputato è a conoscenza del giudizio non solo quando la notifica è stata effettuata nelle mani proprie del destinatario, ma anche quando è stata effettuata a soggetti titolati, come ad esempio il convivente.

 

Tale valutazione dovrà essere fatta dal giudice dell’udienza preliminare (o della prima udienza fissata per il giudizio, se il rito non contempla l’udienza preliminare) una volta constatata l’assenza dell’imputato. In base alla lettera d) il giudice dovrà infatti verificare la rinuncia a comparire o l’effettiva conoscenza dell’atto introduttivo oppure la sussistenza delle condizioni che legittimano la prosecuzione in assenza.

 

In assenza di tali condizioni – ovvero quando il giudice non ritenga provate la conoscenza della pendenza del processo e che l’assenza è dovuta ad una scelta volontaria e consapevole – in base alla lettera e) il giudice dovrà pronunciare sentenza inappellabile di non doversi procedere.

Il Governo, in particolare, è delegato a prevedere:

§  che fino alla scadenza del doppio dei termini di prescrizione del reato (v. infra), proseguano le ricerche della persona nei cui confronti è stata pronunciata la sentenza di non doversi procedere;

§  che durante le ricerche possano essere assunte, su richiesta di parte, le prove non rinviabili, osservando le forme previste per il dibattimento;

 

Si ricorda che già attualmente, in base all’art. 420-quater c.p.p. (Sospensione del processo per assenza dell'imputato), durante la sospensione del processo, il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili.

 

§  che, una volta rintracciata la persona ricercata, l'autorità giudiziaria proceda alla revoca della sentenza di non doversi procedere, fissando una nuova udienza per la prosecuzione, con notifica all'imputato a mani proprie o con altre modalità comunque idonee a garantire che lo stesso venga a conoscenza della data e del luogo del processo (v. lett. b);

§  che nel periodo compreso tra la sentenza di non doversi procedere e il momento in cui la persona ricercata è rintracciata, il termine di prescrizione resti sospeso. La sospensione non opera sine die in quanto dovrà essere fatta salva l'estinzione del reato nel caso in cui sia superato il doppio dei termini stabiliti dall'art. 157 c.p.;

 

Si ricorda che in base all’art. 157 c.p. la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a 6 anni se si tratta di delitto e a 4 anni se si tratta di contravvenzione. Tali termini sono raddoppiati per specifici reati.

Si ricorda altresì che attualmente, in base all’art. 159 c.p., nel caso di sospensione del procedimento per assenza dell’imputato (ex art. 420-quater c.p.p.), si sospende anche la prescrizione per un periodo non superiore (ex art. 161, secondo comma, c.p.) a un quarto del termine massimo, elevabile alla metà in funzione del reato per il quale si procede e dell’eventuale recidiva: ciò determina, almeno quanto ai processi per fatti non particolarmente gravi, il rischio della sospensione fino alla maturazione della prescrizione. La riforma prevede dunque un allungamento dei termini di prescrizione allo scopo di evitare che il meccanismo sospensivo spinga l’imputato a sottrarsi dolosamente al processo, al solo scopo di far maturare i termini di prescrizione del reato.

 

§  deroghe per il caso di imputato nei confronti del quale è stata emessa ordinanza di custodia cautelare in assenza dei presupposti della dichiarazione di latitanza.

 

La lettera f) delega il Governo a rivedere la disciplina della latitanza, di cui agli artt. 295 e 296 c.p.p., al fine di assicurare che la dichiarazione di latitanza sia emessa dopo aver verificato la effettiva conoscenza della misura cautelare e la volontà del destinatario di sottrarvisi.

 

Si ricorda che in base all’art. 296 c.p.p., è latitante chi volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all'obbligo di dimora o a un ordine con cui si dispone la carcerazione.

Con il provvedimento che dichiara la latitanza, il giudice designa un difensore di ufficio al latitante che ne sia privo e ordina che sia depositata in cancelleria copia dell'ordinanza con la quale è stata disposta la misura rimasta ineseguita. Avviso del deposito è notificato al difensore. Gli effetti processuali conseguenti alla latitanza operano soltanto nel procedimento penale nel quale essa è stata dichiarata.

La qualità di latitante permane fino a che il provvedimento che vi ha dato causa sia stato revocato o abbia altrimenti perso efficacia ovvero siano estinti il reato o la pena per cui il provvedimento è stato emesso. Al latitante per ogni effetto è equiparato l'evaso.

La latitanza consegue al verbale di vane ricerche di cui all’art. 295 c.p.p., che viene redatto dalla polizia giudiziaria quando non sia in grado di rintracciare la persona nei cui confronti la misura è disposta. Il giudice che riceve il verbale, se ritiene le ricerche svolte esaurienti, dichiara lo stato di latitanza ai sensi dell’art. 296 c.p.p.

 

Il Governo dovrà altresì prevedere una disciplina derogatoria del processo in assenza per il processo nei confronti dell’imputato latitante, consentendo di procedere comunque, anche quando non vi sia certezza circa l’effettiva conoscenza del procedimento e la volontà di sottrarvisi, dovendo contestualmente disciplinare un rimedio successivo.

 

La lettera g), infatti, delega il Governo ad ampliare la gamma dei rimedi successivi da mettere a disposizione dell’imputato – e del condannato in assenza – che dimostrino di non aver avuto effettiva conoscenza del processo penale. Tale previsione dovrà consentire al nostro Paese di armonizzare il proprio ordinamento giuridico a quanto previsto dall’art. 9 della Direttiva (UE) 2016/343.

 

L’art. 9 della Direttiva, significativamente rubricato “Diritto a un nuovo processo”, demanda agli Stati di assicurare, laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano stati informati in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione, che questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l'esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria. In tale contesto, gli Stati membri assicurano che tali indagati o imputati abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa.

Attualmente, la regola generale dettata dall’art. 420-bis co. 4 c.p.p. prevede che se l’imputato dichiarato assente compare prima della decisione, il giudice revoca l’ordinanza che disponeva procedersi in assenza. A corollario di tale norma cardine, la legge processuale disciplina una serie di rimedi a cui attingere nel caso in cui l’assenza dell’imputato sia stata dovuta a cause a lui non imputabili. Quindi, qualora l’imputato “fornisca la prova” che la sua assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza del processo si apre un ventaglio di rimedi di portata e pervasività differenziata in ragione del momento processuale nel quale l’imputato sia comparso e abbia fornito tale prova.

 

In base alla lettera h) il Governo dovrà prevedere che il difensore dell’imputato assente possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza.

 

Si tratta di una previsione già contenuta nell’originario disegno di legge del Governo C. 2435, che all’all’art. 7, comma 1, lettera a), la riferiva però a tutti i giudizi di appello e non solo dunque, come ora previsto, all’impugnazione di una sentenza resa in assenza dell’imputato.

 

In tale caso:

§  il Governo dovrà accordare al difensore un termine più lungo per impugnare;

§  nel mandato a impugnare l’imputato dovrà eleggere un domicilio

 

In merito, la Commissione Lattanzi sottolinea come «l’intervento sulla legittimazione del difensore ad impugnare costituisce uno snodo essenziale, sia in chiave di effettiva garanzia dell’imputato, sia in chiave di razionale e utile impiego delle risorse giudiziarie: la misura, infatti, è volta ad assicurare la celebrazione delle impugnazioni solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell’imputato giudicato in assenza e ad evitare – senza alcun pregiudizio del diritto di difesa dell’interessato, tutelato dai rimedi “restitutori” contestualmente assicurati – l’inutile celebrazione di gradi di giudizio destinati ad essere travolti dalla rescissione del giudicato. A tutela delle esigenze di pieno e impregiudicato esercizio del diritto di difesa, la modifica è accompagnata dall’allungamento dei termini per impugnare a favore del difensore». La stessa Commissione evidenzia che la previsione dello specifico mandato a impugnare comporterebbe anche una rivisitazione dell’istituto di cui all’art. 629-bis c.p.p., che oggi limita la rescissione del giudicato ai soli casi in cui tutto il processo si sia svolto in assenza dell’imputato. L’istituto verrebbe infatti ad operare per le ipotesi di sentenza di condanna in absentia non impugnata e quindi passata in giudicato. Per tutti gli altri casi, la previsione del mandato specifico attesterebbe l’effettiva conoscenza del processo e, dunque, eliminerebbe il presupposto del rimedio restitutorio per la mancata conoscenza (salvi, ovviamente, casi limite).

 

 

Infine, la lettera i) delega il Governo a rivedere il contenuto delle informazioni da fornire all’imputato e al condannato, prevedendo che:

§  nella citazione a giudizio, l’imputato sia avvisato che non comparendo sarà ugualmente giudicato in assenza;

§  nel provvedimento di esecuzione, sia contenuto l’avviso al condannato che, ove si sia proceduto in sua assenza senza che egli abbia avuto conoscenza del processo, lo stesso potrà avvalersi dei rimedi offerti dall’ordinamento (v. sopra lett. g).

 


 

Articolo 1, comma 8
(Utilizzo delle videoregistrazioni e dei collegamenti a distanza)

 

L’articolo 1, comma 8 detta principi e criteri direttivi per modificare il codice di rito al fine di prevedere la registrazione audiovisiva o l’audioregistrazione per documentare l’interrogatorio o l’assunzione di informazioni, ovvero la testimonianza. Inoltre, la disposizione delega il Governo ad individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza può avvenire a distanza o da remoto.

 

Si ricorda che la documentazione degli atti del procedimento penale è disciplinata dagli articoli 134 e ss. c.p.p. e si basa principalmente sullo strumento del verbale. La riproduzione fonografica o audiovisiva è prevista dall’art. 139 c.p.p. mentre l’art. 141-bis c.p.p. disciplina le modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona in stato di detenzione. Tale disposizione, in particolare, prevede che ogni interrogatorio di persona che si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione, e che non si svolga in udienza, debba essere documentato integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva. Quando si verifica una indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provvede con le forme della perizia, ovvero della consulenza tecnica. Dell'interrogatorio è anche redatto verbale in forma riassuntiva. La trascrizione della riproduzione è disposta solo se richiesta dalle parti.

 

 

In particolare, in base alla lettera a), il Governo dovrà prevedere, tanto per l’interrogatorio che non si svolge in udienza (il limite dell’udienza è mutuato dal vigente art. 141-bis c.p.p.), quanto per la prova dichiarativa, la registrazione audiovisiva da affiancare alle attuali modalità di documentazione. Alla registrazione si dovrà ricorrere sempre laddove siano disponibili gli strumenti tecnici necessari. Sulle conseguenze della videoregistrazione in caso di mutamento del giudice, v. infra, art. 1, comma 11, lett. d).

 

In merito, la Commissione Lattanzi ha affermato che «Lo sviluppo tecnologico e l’abbattimento dei costi hanno reso la videoregistrazione dell’attività di assunzione di dichiarazioni una forma di documentazione diffusa negli altri Paesi e valorizzata, tanto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quanto dalle fonti eurounitarie (si pensi, tra le altre, alla direttiva 2012/29/UE). Peraltro, la stessa Corte costituzionale ha auspicato l’introduzione di meccanismi di riproduzione dell’assunzione di prove dichiarative, che non solo potrebbero fungere da rimedi compensati vi nell’ipotesi di deroghe al canone di immediatezza (Corte cost., 29 maggio 2019, n. 132), ma potrebbero valorizzare proprio quest’ultimo principio, consentendo al giudice di motivare sull’attendibilità della prova dichiarativa potendo disporre di una verbalizzazione attendibile e puntuale dell’assunzione della prova. Com’è ben noto, laddove non ve ne sia traccia nel verbale di udienza, il giudice difficilmente potrebbe valorizzare in sentenza i tratti non verbali della comunicazione: con la videoregistrazione della dichiarazione assunta si avrebbe, invece, una documentazione affidabile anche di quei tratti prosodici del discorso, di guisa che il giudice potrebbe essere messo nelle condizioni di apprezzare la prova della testimonianza nel suo complesso. La stessa tecnologia deve essere posta al servizio delle garanzie di corretta esecuzione dell’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e, almeno nella forma della audioregistrazione, dell’assunzione di informazioni dai potenziali testimoni durante le indagini preliminari».

 

La lettera b) delega inoltre il Governo a prevedere, nella fase delle indagini preliminari, la registrazione audio per l’assunzione di informazioni dalle persone informate sui fatti. In tali casi, la trascrizione del contenuto delle dichiarazioni non sarà obbligatoria (in deroga a quanto attualmente previsto dall’art. 139 c.p.p., che la esclude solo con il consenso delle parti).

 

Si ricorda che l’assunzione di informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini è disciplinata dall’art. 351, con riferimento alla polizia giudiziaria, e dall’art. 362 c.p.p., con riferimento al pubblico ministero.

 

Infine, la lettera c) delega il Governo ad individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza possa avvenire a distanza.

 

In merito, la Commissione Lattanzi ha invitato a fare tesoro «delle esperienze fatte durante la fase dell’emergenza, per non abbandonare alcuni possibili impieghi della cd. remote justice, che possono non solo assicurare maggiore efficienza e rapidità al procedimento penale, ma anche incrementare le garanzie della difesa». La stessa Commissione ha ricordato che il legislatore deve tenere conto, oltre che del vincolo rappresentato dal necessario consenso delle parti, anche della qualità del collegamento; la Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 342 del 1999 ha affermato che «ciò che occorre, sul piano costituzionale, è che sia garantita l’effettiva partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso della partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare quella partecipazione» (v. anche CEDU, sez. III, 5 ottobre 2006, Marcello Viola c. Italia, § 67; CEDU, sez. II, 27 novembre 2007, Asciutto c. Italia, § 64; più di recente, CEDU, 2 novembre 2010, Sakhnovskiy v. Russia , § 98)».


 

Articolo 1, comma 9
(Indagini preliminari e udienza preliminare)

 

L’articolo 1, comma 9, detta principi e criteri direttivi volti a riformare alcuni profili della disciplina in materia di indagini preliminari e udienza preliminare. Nel corso dell’esame in sede referente l’originaria previsione contenuta nel disegno di legge (art. 3) ha subìto significative modifiche, volte tra l’altro ad incidere:

§  sull’iscrizione nel registro della notizia di reato, in relazione sia ai presupposti, dei quali si prevede un meccanismo di verifica, su richiesta di parte, che consenta al giudice di accertare la tempestività dell’iscrizione stessa e di retrodatarla; sia degli effetti dell’iscrizione prevedendosi che la stessa non possa determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo;

§  sui termini di durata delle indagini preliminari, rimodulandoli in funzione della natura dei reati per cui si procede;

§  sulla fase conclusiva delle indagini preliminari, con l’obiettivo da un lato di rafforzare le garanzie dell’indagato e della persona offesa e dall’altro di ridurre i momenti di stasi del processo;

§  sull’udienza preliminare, limitandone la previsione tramite l’estensione del catalogo dei reati con citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, individuandoli tra quelli puniti con pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento e prevedendo un meccanismo di controllo del giudice sulla formulazione dell’imputazione;

§  sui criteri decisori di cui agli articoli 125 disp. att. c.p.p. e 425, comma 3, c.p.p. (regola di giudizio per l’archiviazione e per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere) sostituendo l’inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio degli elementi acquisiti con l’inidoneità dei medesimi elementi a consentire una “ragionevole previsione di condanna”;

§  sui criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale, prevedendosi che gli uffici del pubblico ministero nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili.

 

 

Analiticamente, i principi e criteri direttivi di cui alle lettere a) ed m) (v. infra) paiono riconducibili all’obiettivo di deflazionare i ruoli dibattimentali. Con tali principi il disegno di legge riformula i criteri decisori di cui agli articoli 125 disp. att. c.p.p. e 425, comma 3, c.p.p. incidendo dunque, sia sulla regola di giudizio dell’archiviazione, sia su quella per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.

In particolare, con la lettera a), il Governo è delegato a riformare la disposizione che attualmente prevede che il pubblico ministero presenti al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l'infondatezza della notizia di reato “perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere accusa in giudizio”. Il PM dovrà richiedere l’archiviazione se gli elementi acquisiti sono inidonei a consentire una “ragionevole previsione di condanna”.

 

Tale formulazione è il frutto di una modifica approvata in sede referente, ispirata peraltro alla medesima ratio sottesa al testo originario del disegno di legge che faceva riferimento, con riguardo alla richiesta di archiviazione, all’ipotesi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini risultino insufficienti e contraddittori o comunque non consentano “una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria del giudizio”.

 

Analogamente, si anticipa sin d’ora che con la lettera m) il Governo è delegato a modificare la disciplina della sentenza di non luogo a procedere al termine dell’udienza preliminare, modificando la regola, enunciata dal comma 3 dell’art. 425 c.p.p., in base alla quale il G.U.P. pronunciata la sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio.

 

Si ricorda che con regola di giudizio si intende la norma che delimita il thema probandum dell’udienza preliminare; vale a dire i fatti che vanno accertati ai fini della pronuncia del non luogo a procedere, Attualmente la “regola di giudizio” è imperniata sulla “inidoneità” degli elementi raccolti a «sostenere l’accusa in giudizio». Non si tratta di un criterio univocamente interpretato in via giurisprudenziale: al riguardo si ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza 28 gennaio 1991, n. 88 ha specificato che il «quadro acquisitivo» va valutato «non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero, il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo». In seguito a tale decisione della Corte costituzionale, la giurisprudenza ha specificato che si tratta di una prognosi che concerne l’“utilità” del dibattimento (si vedano, fra le ultime, Cass., sez. V, 28 gennaio 2019, n. 37322; Cass sez. IV, 29 maggio 2018, n. 24073). In base all’elaborazione giurisprudenziale si dovrebbe transitare al giudizio quando quest’ultimo, grazie alle superiori risorse cognitive attivabili con all’impiego del contraddittorio nella formazione della prova, apporterebbe elementi rilevanti ai fini della decisione di merito (In questo senso, Cass., sez. V, 28 gennaio 2019, n. 37322; Cass., sez. I, 5 dicembre 2018, n. 11570; Cass., sez. IV, 23 novembre 2017, n. 851; Cass., sez. IV, 3 ottobre 2017, n. 1886 ; Cass., sez. IV, 19 maggio 2016, n. 26215,; Cass., sez. IV, 21 aprile 2016, n. 21592; Cass., sez. IV, 20 aprile 2016, n. 19208; Cass., sez. IV, 8 marzo 2012, n. 1392; Cass., sez. IV, 27 ottobre 2010, n. 44845).

 

Anche in questo caso, l’intervento è volto a superare il criterio dell'astratta utilità dell'accertamento dibattimentale e a legittimare l'instaurazione del processo nei soli casi in cui gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari consentono una ragionevole previsione di condanna.

 

La Commissione Lattanzi, con riguardo al parametro per le determinazioni sull’esercizio dell’azione penale, ha sottolineato che, «alla luce dell’evoluzione della fase preliminare, vada superato il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale; a seguito di indagini che –in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale–devono risultare tendenzialmente complete (e possono avere una durata significativa), il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino – sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali da poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento. Al contrario, laddove il quadro cognitivo si connoti per la mancanza di elementi capaci di sorreggere una pronuncia di condanna, il pubblico ministero dovrà optare per l’inazione. In tal modo viene valorizzata l’istanza di efficienza processuale propria dell’istituto dell’archiviazione, senza intaccare il canone di obbligatorietà dell’azione penale, che viene tutelato, per un verso, dal controllo del giudice sulla completezza delle indagini e, per l’altro, dalla possibilità di una loro riapertura».

 

 

Con riguardo all’archiviazione, la lettera b) è volta ad escludere l'obbligo di notificazione dell'avviso della richiesta dell’archiviazione stessa (art. 408, comma 2, c.p.p.), alla persona offesa che abbia rimesso la querela.

 

L’art. 408. c.p.p. prevede che se la notizia di reato è infondata il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione. Il comma 2 prevede l’obbligo per il pubblico ministero di notificare l’avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Si ricorda peraltro che il comma 3 del medesimo articolo prevede che nell'avviso sia precisato che, nel termine di venti giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari.

La remissione della querela (art. 340 c.p.p.) dell’atto irrevocabile ed incondizionato con cui la persona offesa, dopo aver proposto querela, manifesta espressamente o tacitamente la volontà che non si proceda penalmente per il fatto di reato. Costituisce una causa di estinzione del reato (art. 152 c.p.).

 

 

Volti ad aumentare l’efficienza della fase delle indagini preliminari sono i principi e criteri direttivi delle lettere c) e d), con le quali il Governo è delegato a riformare i termini di durata delle indagini preliminari, rimodulandoli in funzione della natura dei reati per cui si procede.

La riforma intende incidere sia sulla durata ordinaria delle indagini che su quella massima (ossia sul regime delle proroghe).

 

La disciplina attuale prevede un termine ordinario per la durata delle indagini che è di 6 mesi per la generalità dei reati. Fanno eccezione solo le indagini per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a) (reati di particolare gravità) la cui durata ordinaria è di un anno. La durata massima è attualmente fissata in 18 mesi. Il termine è invece di due anni se si procede per i citati reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), oppure si tratta di indagini particolarmente complesse, oppure ove sia necessario mantenere collegamenti tra più Procure, infine ove sia necessario compiere atti all’estero (art. 407, comma 2, lett. b), c) e d) (si veda più nel dettaglio infra).

 

Più nel dettaglio, la lettera c) è volta a stabilire il seguente regime di durata ordinaria delle indagini, che si calcola dalla data in cui il nome della persona cui il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato:

§  sei mesi per le contravvenzioni;

 

Il testo originario del disegno di legge prevedeva il termine di durata di 6 mesi per le indagini concernenti reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a 3 anni, sola o congiunta con pena pecuniaria.

Con le modifiche apportate in sede referente si limita invece detta categoria ai soli illeciti di natura contravvenzionale (da tale modifica deriva quindi la sostituzione del riferimento alla «gravità» dei reati, con quello alla «natura» degli stessi).

 

§  un anno per la generalità dei delitti;

§  un anno e sei mesi per i procedimenti relativi ai delitti contemplati dall’articolo 407, comma 2, c.p.p. (v. infra).

 

La lettera d) interviene invece sull’istituto della proroga, stabilendo che quest’ultima possa essere richiesta una volta soltanto, per un lasso di tempo non superiore a sei mesi, quando la proroga sia giustificata dalla gravità delle indagini.

In base alla riforma il nuovo regime della durata delle indagini dovrebbe dunque essere questo:

 

§  per le contravvenzioni, il termine di durata è 6 mesi e tale termine è prorogabile una sola volta di 6 mesi; attualmente per tali reati il termine di durata è 6 mesi, prorogabili fino ad un totale di 18 mesi: quindi pur restando invariato il termine ordinario, viene abbreviato quello massimo, che passa da 18 mesi a 12 mesi;

 

§  per i delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a) c.p.c. il termine di durata ordinaria passa dagli attuali 12 a 18 mesi; il termine di durata massima resta tuttavia invariato: 24 mesi nella normativa vigente e 24 mesi in base alla riforma (che consente una sola proroga di sei mesi); per i casi di cui all’articolo 407, secondo comma, lettere b) e c), il termine ordinario passa dagli attuali 6 mesi a 18 mesi; resta invariato il termine massimo di 24 mesi (nella normativa vigente consentite proroghe fino a 24 mesi, nella riforma una sola proroga di 6 mesi).

 

L’articolo 405, comma 2 stabilisce che il regime di durata ordinaria delle indagini è di un anno se si procede per taluno dei delitti indicati nell'articolo 407 comma 2 lettera a). Tale ultima disposizione comprende un vasto elenco di reati gravi. Si tratta di: devastazione, saccheggio e strage (art. 285. c.p.); guerra civile (c.p. art. 286); associazioni di tipo mafioso anche straniere    c.p. art. 416-bis; strage (art. 422. c.p); contrabbando di tabacchi lavorati esteri aggravato e ipotesi aggravata dell’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (artt. 291-ter e 291-quater del D.P.R. 23/01/1973, n. 43); omicidio (art. 575 c.p.); rapina (art. 628 c.p.); estorsione (art. 629 c.p.); sequestro di persona (art. 630 c.p.); delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis c.p ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo; delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale; associazioni sovversive (art. 270. c.p.); formazione e partecipazione a Banda armata. c.p. art. 306; delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine; ipotesi aggravate di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 80, comma 2, e 74 del dPR 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni; associazione a delinquere (art. 416 c.p.)  nei casi in cui è obbligatorio l'arresto in flagranza; circostanze aggravanti della violenza sessuale (art. 609-ter c.p).. atti sessuali con minorenne (art. 609-quater. c.p). Violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.); promozione, direzione, organizzazione, finanziamento o trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ( art. 12, comma 3, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286).

Le ipotesi di cui all’art. 407, comma 2, lettere b),c) e d) sono attualmente soggette alla disciplina generale con riferimento alla durata ordinaria delle indagini (6 mesi), mentre il termine per la durata massima è 24 mesi, così come le ipotesi sopradescritte di cui alla lettera a). Si tratta: delle notizie di reato che rendono particolarmente complesse le investigazioni per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l'elevato numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese; delle indagini che richiedono il compimento di atti all'estero; dei procedimenti in cui è indispensabile mantenere il collegamento tra più uffici del pubblico ministero.

 

§  per tutti gli altri delitti, il termine è di 12 mesi, prorogabili fino al massimo 18 mesi; attualmente il termine è di 6 mesi prorogabili fino ad un massimo di 18 mesi (tranne alcuni specifici delitti): quindi il termine resta invariato. Tra questi tuttavia vi sono alcuni specifici reati (richiamati all’art. 406, comma 2-ter c.p.p.) il cui termine massimo delle indagini sembra ampliarsi con la riforma: attualmente si prevede che per tali reati la proroga possa essere concessa una sola volta e dunque la durata massima sarebbe un anno (sei mesi termine ordinario più sei di proroga): nella riforma passando il termine ordinario a 12 mesi, con la proroga di 6 mesi si arriverebbe a 18 mesi.

 

Il comma 2-ter dell’articolo 406 detta una disciplina speciale in materia di materia di proroga delle indagini, per alcuni specifici reati, stabilendo che in tali casi la proroga stessa può essere concessa per non più di una volta. Si tratta dei seguenti reati: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); omicidio colposo (art. 589 c.p); omicidio stradale (art. 589-bis c.p.); lesioni personali colpose (art. 590 c.p.); lesioni personali stradali gravi o gravissime (art.590-bis. c.p.)    ; atti persecutori (art. 612-bis c.p.). 

Più in generale l’articolo. art. 406 c.p.p. dispone in materia di proroga del termine delle indagini preliminari, che può essere richiesta al giudice dal P.M. prima della scadenza La richiesta contiene l'indicazione della notizia di reato e l'esposizione dei motivi che la giustificano. Ulteriori proroghe possono essere richieste dal pubblico ministero nei casi di particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato. Ciascuna proroga può essere autorizzata dal giudice per un tempo non superiore a sei mesi.

 

 

La lettera da e) a h) incidono sulla fase conclusiva delle indagini preliminari, con l’obiettivo da un lato di rafforzare le garanzie dell’indagato e della persona offesa e dall’altro di ridurre i momenti di stasi del processo.

In particolare, in base alla lettera e) il pubblico ministero dovrà, senza ritardo, alla scadenza della durata massima delle indagini preliminari, decidere se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione, entro un termine la cui durata è determinata in funzione della gravità del reato e della durata delle indagini.

Nel caso in cui il pubblico ministero non eserciti l’azione penale, il Governo dovrà predisporre idonei meccanismi procedurali volti a consentire alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che abbia dichiarato di voler essere informata delle indagini, di conoscere la documentazione relativa alle indagini espletate, pur tenendo conto delle esigenze di tutela del segreto investigativo nelle indagini relative ai delitti di cui all’art. 407 c.p. (v. sopra) e di ulteriori esigenze di cui alla disciplina del diritto di accesso alla documentazione relativa all'indagine contenuta nell’art. 7 della Direttiva 2012/13/UE (lettera f).

 

L’articolo 7 della Direttiva 2012/13/UE disciplina il diritto di accesso alla documentazione relativa all'indagine, disponendo altresì (par. 4) che purché ciò non pregiudichi il diritto a un processo equo, l'accesso a parte della documentazione relativa all'indagine può essere rifiutato se tale accesso possa comportare una grave minaccia per la vita o per i diritti fondamentali di un'altra persona o se tale rifiuto è strettamente necessario per la salvaguardia di interessi pubblici importanti, come in casi in cui l'accesso possa mettere a repentaglio le indagini in corso, o qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale.,

 

Inoltre, viene introdotta la previsione di una disciplina che consenta al giudice per le indagini preliminari di porre rimedio alla stasi del procedimento e alla mancata tempestività dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (lettera g), e analogamente si prevede che il giudice adotti analoghi provvedimenti quando a seguito della comunicazione di chiusura delle indagini il pubblico ministero non assuma tempestivamente le determinazioni in ordine all’azione penale (lettera h).

 

La Commissione Lattanzi, ha sottolineato l’importanza che il termine di conclusione delle indagini preliminari si arricchisca di momenti di interazione tra i soggetti del procedimento, al fine di ovviare al vuoto normativo relativo alla possibile stasi, intollerabile, del procedimento, a seguito della conclusione di tale fase. Tale momento rappresenta un esempio, tra i più problematici, di “tempi morti” che determinano un ingiustificato allungamento della durata complessiva del procedimento penale, sui quali il presente intervento riformatore intende agire, in tutte le fasi. Il tema è giunto ripetutamente all’attenzione della Corte di Strasburgo, la quale ha accertato la violazione del diritto alla ragionevole durata del procedimento della vittima, ex art. 6, par. 1, C.e.d.u., a causa dello spirare dei termini della prescrizione del reato prima della chiusura delle indagini, con conseguente archiviazione del procedimento (Corte e.d.u., Sez. I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia; Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia). Si tratta di pronunce che, a giudizio della Commissione, rendono assolutamente necessario e indifferibile un intervento mirato volto a fornire una risposta efficace all’esigenza di celerità delle indagini preliminari.

 

 

La lettera i) interviene in materia di criteri per la selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. Allo scopo si delega il Governo a prevedere che:

§  l’elaborazione dei criteri generali sia affidata a legge del Parlamento;

§  che nell’ambito di tali criteri, gli uffici del pubblico ministero individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, tenuto conto del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili. La procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica dovrà essere allineata a quella delle tabelle degli uffici giudicanti.

 

Sotto il profilo normativo, il tema dei criteri di priorità è stato introdotto per la prima volta nel 1998, con l’art. 227 del d.lgs n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado. Con tale disposizione il legislatore, al fine di assicurare la rapida definizione dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, disponeva di tener conto della gravità e concreta offensività del reato, del pregiudizio che poteva derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, dell’interesse della persona offesa.

Il successivo intervento normativo in materia è nel 2000, con l’introduzione dell’art. 132 bis disp.att. c.p.p. da parte del d.l. 341/2000, convertito in legge n. 4/2001. Tale disposizione, nella sua originaria formulazione assegnava priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza ai quei soli procedimenti nell’ambito dei quali risultassero applicate misure cautelari custodialistiche i cui termini fossero prossimi alla scadenza. Il tema delle priorità, sia pure implicitamente, è stato nuovamente affrontato dal legislatore nel 2006, con la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. L’art. 1 del d.lvo 106/2006 attribuiva al Procuratore della Repubblica il potere-dovere di determinare i criteri di organizzazione dell’ufficio ed altresì i criteri cui dovevano attenersi i sostituti procuratori (o gli eventuali Procuratori aggiunti) nell’esercizio delle deleghe da lui conferite; l’art. 4 del citato decreto attribuiva inoltre al Procuratore il potere (non l’obbligo) di definire nel progetto organizzativo dell’ufficio i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti. Da tali previsioni derivava, sia pure implicitamente, il potere di stabilire le priorità nella trattazione degli affari penali, segnando il passaggio da una previsione necessariamente transitoria (quale quella afferente all’istituzione del giudice unico) ad una situazione strutturale.

La questione è stata infine nuovamente ripresa nel 2008 con il d.l. n. 92, convertito in legge n. 125/2008, che ha riformulato l’art. 132 bis disp.att. c.p.p., introducendo indicazioni vincolanti per gli uffici giudicanti in tema di formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, con attribuzione di priorità assoluta a talune tipologie di reato connotate da speciale gravità.

Il d.l. 92/2008, con l’art. 2-ter, proprio al fine di agevolare la rapida definizione dei procedimenti “prioritari”, attribuiva ai dirigenti degli uffici giudicanti la possibilità di rinviare per un tempo non superiore a 18 mesi e con sospensione della prescrizione, i processi afferenti a reati commessi in epoca antecedente il 2.5.2006 rientranti nell’ambito di applicazione dell’indulto disposto con legge n. 241 del 2006. Per quanto poi attiene ai criteri del rinvio, ribadiva i parametri già dettati dal legislatore del 1998, e cioè: gravità e concreta offensività del reato, pregiudizio potenzialmente derivante dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, interesse della persona offesa.

Alla luce dei problemi di sovraccarico giudiziario, di carenze organizzative e di risorse di personale tecnico e amministrativo, è stato più volte giustificato il ricorso alle cosiddette ‘buone prassi’ nella gestione dei procedimenti penali, attuate attraverso circolari interne agli uffici di Procura nelle quali vengono indicati parametri orientativi nella gestione della tempistica, non necessariamente osservanti del criterio cronologico.,

Si deve ritenere quindi che allo stato attuale non esistano regole di fonte legislativa che riguardano l’operare dei pubblici ministeri i quali si avvalgono dunque, nei singoli uffici, di direttive interne fornite dal procuratore capo anche in base alla disposizione secondo cui “il procuratore della Repubblica assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale… e il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio” (art. 1 comma 2 d.lgs. 106/2006). L’ eterogeneità delle circolari interne, cui sono vincolati i singoli sostituti, ha determinato diversi interventi del CSM che, pur ribadendo la necessaria vincolatività del principio ex art. 112 Cost. che vieta attività selettive soggettive ed arbitrarie, ha ritenuto ammissibili i criteri orientativi interni purché funzionali a scelte razionali, trasparenti e prevedibili, in una attuazione ‘realistica’ della obbligatorietà dell’azione penale basata su modelli virtuosi che escludano formule autorizzative a non accettabili omissioni.

Il C.S.M. ha in più occasioni focalizzato la propria attenzione sull’adozione di parametri orientativi nella tempistica di definizione dei procedimenti penali, in un’ottica di buona amministrazione e uniformità di esercizio dell’azione penale.

In particolare, con la delibera 13.11.2008, il C.S.M. in merito all’art. 132 bis disp.att. c.p.p.:

-ha individuato la ratio sottesa alla disposizione nella necessità di “mitigare gli effetti deleteri di quell’eccesso di spontaneismo che conduceva in epoche passate giudici e pubblici ministeri ad una valutazione pressoché arbitraria dei tempi di fissazione e trattazione dei processi”;

- ha precisato che l’elencazione normativa di cui all’art. 132 bis disp.att. c.p.p. non esauriva le aree di priorità, suscettibili di ampliamento alla luce del prudente apprezzamento del giudicante;

-pur confinando l’operatività dell’art. 132 bis disp.att. c.p.p. all’esercizio della funzione giudicante, ha auspicato “un opportuno concerto” con la Procura della Repubblica ai sensi degli artt. 132 comma 2 e 160 disp. att. c.p.p. in ragione delle implicazioni che la selezione di priorità comporta sul principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul suo corretto, puntuale ed uniforme esercizio;

-ha precisato infine che i provvedimenti organizzativi in punto di priorità non hanno natura tabellare e non sono dunque soggetti alla procedura prevista per le variazioni tabellari.

Con la delibera del 9 luglio del 2014 il CSM è intervenuto in merito alla necessità di individuare criteri di priorità nella trattazione degli affari penali negli uffici, in considerazione della concreta e sempre più diffusa estrema difficoltà di procedere, nello stesso modo e secondo gli stessi tempi, alla trattazione di tutti gli affari pendenti. Lo scopo è quello di razionalizzare l’allocazione delle scarse risorse disponibili per la trattazione dei procedimenti penali, evitando sia l’affidamento delle scelte di trattazione alla valutazione, caso per caso, del magistrato operante, sia il fatalistico abbandono al criterio della pura casualità.

Il CSM ha affermato che l’individuazione di priorità, ulteriori rispetto a quelle legali, dovrà transitare attraverso atti di indirizzo rimessi alla responsabilità del capo dell’ufficio. Tali atti di indirizzo dovranno essere emanati in occasione della formazione delle tabelle di organizzazione dell’ufficio e delle tabelle infradistrettuali, a cadenza triennale, ed annualmente rinnovati all’atto della predisposizione annuale del programma di gestione dei procedimenti penali.

 

La Commissione Lattanzi, sottolineando che, nell’architettura costituzionale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento, proponeva che fosse tale organo a stabilire, periodicamente (lasciando al legislatore delegato l’onere di indicare il periodo), i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, facendo riferimento anche ad un’apposita relazione del Consiglio Superiore della Magistratura sugli effetti prodotti dai criteri nel periodo precedente. All’interno della cornice complessiva definita dal Parlamento, gli uffici giudiziari dovrebbero provvedere in modo autonomo e indipendente a stabilire criteri che tengano conto dell’effettiva realtà locale – tanto sotto il profilo criminale, quanto sotto quello organizzativo – per assicurare un’efficacia concreta alle indicazioni emanate dal Parlamento. Il meccanismo proposto prevedeva inoltre un coordinamento tra i criteri fissati dagli uffici di procura e quelli definiti dagli uffici giudicanti per la trattazione dei processi, in modo da evitare fenomeni di disallineamento che si traducono in potenziali ritardi nell’esercizio dell’azione penale.

 

 

In sede referente sono stati inoltre introdotti nuovi principi e criteri concernenti l’udienza preliminare (lettere da l) a o) da un lato limitando l’ambito applicativo della stessa, e dall’altro regolamentando il controllo giurisdizionale sull’imputazione formulata dal pubblico ministero.

In particolare, il Governo è delegato:

§  a limitare la previsione dell’udienza preliminare, estendendo il catalogo dei reati con citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica (di cui all’articolo 552 c.p.p.), individuandoli tra quelli puniti con pena della reclusione non superiore nel massimo a 6 anni, anche se congiunta alla pena della multa, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento (lettera l);

§  a prevedere che, in caso di violazione della disposizione relativa ai requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio [4] , il giudice, sentite le parti, quando il pubblico ministero non provvede alla riformulazione della imputazione, dichiari anche d’ufficio la nullità e restituisca gli atti; analogamente, il giudice, sentite le parti, dovrà restituire anche d’ufficio gli atti al PM quando egli non provveda alle necessarie modifiche volte a consentire che il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, nonché i relativi articoli di legge siano indicati in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti (lettera n). Un criterio analogo è dettato nell’ambito del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica dall’art. 1, comma 12, lett. b) e c) (v. infra);

§  a prevedere che, nei processi con udienza preliminare, l’eventuale costituzione di parte civile debba avvenire, a pena di decadenza, per le imputazioni contestate, entro il compimento degli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti (lettera o). Inoltre, il Governo dovrà prevedere che la procura speciale per l’esercizio dell’azione civile in sede penale (art. 122 c.p.p.) consenta al difensore anche di trasferire ad altri il potere di sottoscrivere l’atto di costituzione, salva espressa volontà contraria della parte che intende costituirsi parte civile.

 

In merito a quest’ultimo principio di delega, si ricorda che le Sezioni Unite della Cassazione hanno invece affermato che «il sostituto processuale del difensore al quale il danneggiato abbia rilasciato procura speciale al fine di esercitare l'azione civile nel processo penale non ha la facoltà di costituirsi parte civile, salvo che detta facoltà sia stata espressamente conferita nella procura ovvero che la costituzione in udienza avvenga in presenza del danneggiato, situazione questa che consente di ritenere la costituzione come avvenuta personalmente» (cfr. Cass. pen. Sez. Unite sent., 21/12/2017, n. 1221).

 

La Commissione Lattanzi, sottolinea l’inefficacia dell’udienza preliminare a svolgere il ruolo filtro attribuitole dalla sistematica del codice del 1988. Nonostante i plurimi interventi di modifica, dopo trent’anni i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio (ossia nel 63% dei casi), essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l‘udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento. La Commissione sottolinea che, anche in Inghilterra, dove è nata come sbarramento delle imputazioni azzardate del privato, essa è stata trasformata in contraddittorio cartolare e alfine abbandonata, in favore di un filtro, a richiesta, davanti allo stesso giudice del trial.

 

 

Alla durata massima delle indagini preliminari si ricollegano, sia pure indirettamente i principi e criteri espressi nelle lettere da p) a s), il cui contenuto è stato definito dall’approvazione di modifiche in sede referente.

In particolare, in ordine all’iscrizione nel registro della notizia di reato viene specificata la necessità di:

§  precisare i presupposti per l’iscrizione della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito, al fine di soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni (lettera p);

§  prevedere: un meccanismo di verifica, su richiesta di parte, sui presupposti per l’iscrizione, che consenta al giudice di accertare la tempestività dell’iscrizione stessa e di retrodatarla nel caso di ingiustificato ed inequivocabile ritardo; un termine a pena di inammissibilità per la proposizione della richiesta di retrodatazione; che l’interessato che chiede la retrodatazione abbia l’onere di indicare le ragioni alle basi della richiesta (lettera q);

§  prevedere che il giudice per le indagini preliminari, anche d’ufficio, quando ritiene che il reato è da attribuire a persona individuata, ne ordini l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, se il pubblico ministero ancora non vi abbia provveduto (lettera r);

§  prevedere che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo (lettera s).

 

La Commissione Lattanzi, sottolinea l’importanza di definire dei parametri, attraverso la legislazione delegata, per delineare i profili che impongono l’iscrizione della notizia di reato nel registro, facendo decorrere il termine di durata massima delle indagini. La prospettiva generale è quella di introdurre forme di controllo, intrinseco ed estrinseco, sulla gestione dei tempi delle indagini, al fine di permettere alla difesa una efficace interazione.

Secondo la Commissione occorre prendere atto della particolare delicatezza di un passaggio troppo spesso considerato un mero atto dovuto e sul rischio che si proceda a un’iscrizione esclusivamente formale di fatti, ma soprattutto di soggetti la cui posizione sia quasi certamente estranea a profili di responsabilità penale. Per un verso, infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo fa discendere le garanzie dell’art. 6 CEDU dalla ‘soggettivizzazione’ dell’indagine, quando questa si polarizzi, da un quadro ad ampio raggio, su specifici soggetti; per altro verso, gli effetti negativi indiretti, correlati all’iscrizione, possono costituire grave nocumento per soggetti comunque destinati a fuoriuscire presto dal quadro investigativo

Secondo la Commissione però, l’aggancio dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato ad una solida base fattuale e soggettiva non deve prestarsi ad operazioni di ingiustificato ritardo nell’attivazione delle garanzie riconosciute alla persona sottoposta alle indagini. Sempre nel senso di un controllo oggettivo sulla gestione della notizia di reato la Commissione propone l’inserimento di previsioni, rispettivamente, di un meccanismo di controllo giurisdizionale, attivabile anche dalla difesa, sull’effettiva datazione dell’iscrizione della notizia di reato, cui può conseguire la retrodatazione dell’inizio del periodo investigativo, con correlata inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine e il potere del giudice per le indagini preliminari di imporre al pubblico ministero l’iscrizione del nome della persona cui le indagini sono riferite, laddove l’inquirente non vi abbia provveduto.

 

Infine, con la lettera t) il Governo è delegato ad incidere sulla disciplina della riapertura delle indagini dopo il provvedimento di archiviazione (art. 414 c.p.p.), che prevede che la richiesta di riapertura debba essere motivata dal pubblico ministero dalla esigenza di nuove investigazioni e che il giudice la autorizzi con decreto motivato.

 

La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 414 c.p.p. non richiede quale condizione necessaria per l'autorizzazione alla riapertura delle indagini che siano già emerse nuove fonti di prova o che siano acquisiti nuovi elementi probatori, essendo invece sufficiente l'esigenza di nuove investigazioni, circostanza quest'ultima che è configurabile anche nel caso in cui si prospetti la rivalutazione, in un'ottica diversa e in base ad un nuovo progetto investigativo, delle precedenti acquisizioni (Cass. pen. Sez. V Sent., 17/02/2020, n. 13802). Sul punto avevano avuto modo di pronunciarsi le Sezioni Unite (Cass., S.U., 22.3.2000, n. 9) chiarendo che la richiesta di autorizzazione alla riapertura delle indagini non può essere formulata sulla base di una semplice rilettura del materiale indiziario utilizzato per la declaratoria di infondatezza della notizia di reato, né il relativo decreto autorizzativo può limitarsi ad assentire una diverse valutazione di quel materiale, poiché l'articolo 414 prescrive una motivazione tipizzata, centrata sull'esigenza di nuove investigazioni. Le quali possono esitare anche in modesti risultati che, però, valutati unitamente al materiale preesistente certamente utilizzabile ben possono giustificare un sostanziale ribaltamento dei quadro indiziario.

 

Al riguardo il Governo dovrà, nell’esercizio della delega, prevedere “criteri più stringenti” ai fini del provvedimento di riapertura.

 

 


 

Articolo 1, comma 10
(Procedimenti speciali)

 

L’articolo 1, comma 10, detta principi e criteri direttivi per la riforma dei riti alternativi, finalizzati ad estenderne l’applicabilità ed a renderli maggiormente appetibili, con effetti deflattivi del rito dibattimentale.

 

In questo senso vanno i principi e criteri direttivi espressi dalla lettera a) per la modifica dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativo ai presupposti per accedere al patteggiamento.

 

L’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) è un procedimento speciale, alternativo al rito ordinario, che consente all’imputato di trovare un accordo preliminare con la Procura sull’entità della pena da scontare. Il patteggiamento si risolve in una rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa in cambio di uno sconto sulla pena fino a un terzo. Il giudice, al quale è indirizzata la richiesta congiunta delle parti, ha il potere di accoglierla o rigettarla, ma non di modificarla.

Attualmente, presupposto per l’applicazione di questo rito è che la pena detentiva risultante dopo la diminuzione concordata non deve superare i 5 anni di reclusione, soli o congiunti a pena pecuniaria. Per alcuni delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., l'accesso al rito è subordinato alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato.

L’accesso al rito è precluso per i delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale (art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.), i delitti di pedopornografia, di violenza sessuale , nonché a tutti coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi reiterati, qualora la pena superi 2 anni soli o congiunti a pena pecuniaria.

 

Nell’esercizio della delega per riforma del processo penale, il Governo dovrà:

§  prevedere che, quando la pena detentiva da applicare supera due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata;

§  prevedere che, in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare;

§  ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi;

§  prevedere il coordinamento tra i termini di richiesta del rito speciale del patteggiamento e il giudizio davanti al tribunale monocratico, nonché con gli altri riti speciali ed il giudizio ordinario.

 

La lettera b) individua principi e criteri direttivi per la modifica delle condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a una integrazione probatoria.

 

Si ricorda che il giudizio abbreviato (artt. 438-443 c.p.p.) è un rito speciale, in virtù del quale il processo viene definito in sede di udienza preliminare, con decisione assunta allo stato degli atti delle indagini preliminari, che hanno qui piena valenza probatoria; è un giudizio di tipo volontario, presupponendo una richiesta da parte dell'imputato, ed ha natura premiale. La premialità consiste nel fatto che, se l'imputato viene condannato, si opera una riduzione della pena nella misura di un terzo per i delitti e della metà per le contravvenzioni.

La richiesta, ai sensi dell'articolo 438 c.p.p., può essere formulata soltanto dall'imputato nel corso dell'udienza preliminare o (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 169 del 2003) prima dell'apertura del dibattimento, nel caso in cui l'imputato riproponga la richiesta di giudizio abbreviato subordinato ad un'integrazione probatoria, già respinta dal giudice dell'udienza preliminare. Se l'imputato avanza la richiesta subito dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, il giudice provvede soltanto dopo il decorso dell'eventuale termine (massimo 60 giorni) chiesto dal P.M. per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa; in tale caso l'imputato può revocare la richiesta di rito abbreviato (comma 4). Alla richiesta segue l'ordinanza del giudice che dispone il giudizio abbreviato.

Nel caso in cui l'imputato abbia subordinato la richiesta ad un'integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, il rito speciale è adottato soltanto se il giudice valuta l'integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento; se il giudice ammette l’integrazione probatoria, il PM può chiedere l'ammissione di prova contraria e sarà, in esito all’istruttoria, possibile anche cambiare l’imputazione (comma 5). Quando la richiesta sia subordinata ad integrazione probatoria, poi negata dal giudice, l'imputato può chiedere ugualmente il rito abbreviato senza integrazione oppure il patteggiamento (comma 5-bis). La richiesta di abbreviato in udienza preliminare comporta la sanatoria delle eventuali nullità (non assolute), la non rilevabilità delle inutilizzabilità (eccetto quelle derivanti da un divieto probatorio) e la preclusione a sollevare questioni sulla competenza territoriale del giudice (comma 6-bis).

Si ricorda altresì che in questa legislatura il Parlamento ha approvato la legge n. 33 del 2019, che è intervenuta sul rito abbreviato escludendolo per delitti puniti con l’ergastolo.

 

Nell’esercizio della delega il Governo dovrà, anzitutto (n. 1), intervenire sull’ipotesi in cui il rito speciale sia richiesto dall’imputato subordinatamente ad una integrazione probatoria (art. 438, comma 5, c.p.), prevedendo che il giudice ammetta il rito con integrazione probatoria quando:

§  l’integrazione risulti necessaria ai fini della decisione. In questo non si ravvisano profili di novità rispetto alla formulazione vigente dell’art. 438, comma 5.

 

Con la sentenza n. 44711 del 2004 le Sezioni Unite della Cassazione penale hanno statuito che le ulteriori acquisizioni probatorie devono essere soltanto integrative, e non sostitutive, del materiale già acquisito e utilizzabile come base cognitiva, in quanto strumentali ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio. Inoltre, la integrazione richiesta può reputarsi necessaria qualora risulti indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico-valutativo per la deliberazione in ordine a un qualsiasi aspetto della "regiudicanda". Così, la valutazione della necessità della integrazione non si identifica con la impossibilità di decidere o con la incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, la incompletezza di una informazione probatoria in atti, e, dall'altro, una prognosi di positivo completamento del materiale cognitivo per mezzo della attività integrativa richiesta (v. anche C., Sez. II, 18.10.2007, n. 43329; C., Sez. II, 14.1.2009, n. 5229).

 

§  il rito speciale, nonostante l’integrazione probatoria, produca comunque un’economia processuale rispetto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale.
Anche in questo caso, già attualmente in base al comma 5 dell’art. 438, il giudice dispone il giudizio abbreviato se l'integrazione probatoria richiesta risulta compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, alle quali è connessa la premialità del rito stesso.

 

Il Governo dovrà inoltre:

§  prevedere un’ulteriore riduzione della pena di un sesto, da parte del giudice dell’esecuzione, qualora non sia stata promossa impugnazione (n. 2);

§  abrogare il comma 3 dell’art. 442 c.p.p. e l’art. 134 delle disposizioni di attuazione del codice di rito (n. 3), così da eliminare la necessità di notifica della sentenza all'imputato assente.

 

La lettera c) contiene i principi e criteri direttivi per la riforma del giudizio immediato.

 

Il giudizio immediato (artt. 453 e seguenti c.p.p.) è un procedimento penale speciale che, come accade anche per il giudizio direttissimo, si caratterizza per l'assenza dell'udienza preliminare e il passaggio diretto dalla fase delle indagini preliminari al dibattimento. Esso non ha carattere premiale, non essendo prevista alcuna riduzione di pena per l'imputato.

Possono chiedere il giudizio immediato sia il PM che l’imputato. In entrambi i casi non è necessario il consenso della controparte e decide dell’ammissione al giudizio immediato il giudice delle indagini preliminari, su base cartolare, entro 5 giorni dalla richiesta.

Si distinguono:

-          giudizio immediato ordinario, che può essere richiesto dal PM entro 90 giorni dalla iscrizione della notizia di reato. I presupposti sono che il rito speciale non pregiudichi gravemente le indagini, che la prova sia evidente e, alternativamente, che sia stata interrogata la persona sottoposta alle indagini sui fatti dai quali emerge l'evidenza della prova ovvero che la stessa abbia omesso di comparizione nonostante la rituale convocazione;

-          giudizio immediato per l’imputato in custodia cautelare, che deve essere richiesto dal PM entro 180 giorni dall’esecuzione della misura custodiale, se ciò non pregiudichi gravemente le indagini. La richiesta deve essere formulata dopo la definizione del procedimento di riesame della misura e, se la custodia viene poi revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il giudice deve rigettare la richiesta del PM;

-          giudizio immediato su richiesta dell’imputato, che deve intervenire almeno 3 giorni prima della data fissata per l’udienza preliminare (art. 419, co. 5, c.p.p.) o dopo che gli stia stato notificato il decreto penale di condanna (art. 461, co. 3, c.p.p.). Nel primo caso l’imputato mirerà ad accelerare la verifica dibattimentale dell’accusa, saltando l’udienza preliminare; nel secondo caso farà opposizione alla condanna, chiedendo il dibattimento.

Anche laddove venga concesso il giudizio immediato, la normativa vigente garantisce comunque il diritto dell’imputato a conseguire sconti di pena attraverso l’accesso al patteggiamento o al giudizio abbreviato. In particolare, nel decreto del GIP che dispone il giudizio immediato deve essere contenuto l’avviso che l’imputato può chiedere, in sua alternativa, il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione della pena concordata (art. 456, co. 2, c.p.p.). La conversione del rito deve essere richiesta nella cancelleria del GIP entro 15 giorni dalla notificazione del decreto (art. 458, co. 1, c.p.p.).

 

In realtà, la norma di delega, più che prefigurare una riforma del giudizio immediato, mira ad aumentare le possibilità di accesso ai riti premiali a fronte del decreto del GIP che dispone il giudizio immediato.

In particolare, infatti, il Governo è delegato a prevedere:

§  che quando l’imputato avanza richiesta di giudizio abbreviato condizionato da integrazione probatoria (art. 438, co. 5), e il GIP glielo nega, l’imputato possa allora avanzare richiesta di giudizio abbreviato senza integrazione probatoria (art. 438, co. 1, c.p.p.) o richiesta di patteggiamento (art. 444 c.p.p.)

 

In merito si ricorda che già attualmente – a seguito della riforma operata dalla legge n. 103 del 2017 - l’art. 438, comma 5-bis, dispone che «Con la richiesta presentata ai sensi del comma 5 [giudizio abbreviato condizionato da integrazione probatoria] può essere proposta, subordinatamente al suo rigetto, la richiesta di cui al comma 1 [giudizio abbreviato senza integrazione probatoria], oppure quella di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 [patteggiamento]».

 

§  che quando l’imputato intende richiedere l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444, ma non trova d’accordo il PM, oppure quanto la richiesta di patteggiamento è rigettata dal GIP, l’imputato possa allora avanzare richiesta di giudizio abbreviato.

 

 

La lettera d) individua i principi e criteri direttivi per la riforma del procedimento per decreto.

 

Il procedimento per decreto (art. 459 e ss. c.p.p.) è un rito speciale che permette di anticipare la condanna ad una pena pecuniaria prima del giudizio (saltando sia l’udienza preliminare che il dibattimento), salva opposizione (nel qual caso si avrà dibattimento, ma non udienza preliminare). Il rito è applicabile a fronte di chiare fonti di prova, quando il PM ritenga che sia possibile applicare soltanto una pena pecuniaria (anche se inflitta in sostituzione di pena detentiva) e il GIP vi acconsenta.

I presupposti per accedere al rito sono:

- deve essere applicabile solo una pena pecuniaria (multa o ammenda), direttamente, o in sostituzione di pena detentiva;

- il PM può avanzare richiesta entro 6 mesi dall'iscrizione dell'indagato nel registro delle notizie di reato;

- non deve essere necessaria l’applicazione di una misura di sicurezza.

Quanto alle premialità, attraverso il procedimento per decreto può essere applicata una pena diminuita sino alla metà del minimo edittale; non sono applicate le pene accessorie; la confisca può essere disposta solo se obbligatoria; non sono dovute le spese del procedimento; il reato si estingue dopo 5 anni (per i delitti) e 2 anni (per le contravvenzioni) se l’imputato non commette altri reati della stessa indole; la condanna non ostacola una successiva sospensione condizionale della pena.

L’accertamento contenuto nel decreto non è efficace negli altri giudizi, civili o amministrativi.

 

Il legislatore delegato dovrà intervenire sul procedimento per decreto:

§  estendendo da 6 mesi a un anno, dall’iscrizione del nome dell’indagato sul registro di cui all’art. 335 c.p.p., il termine a disposizione del PM per chiedere al GIP l’emissione del decreto;

 

Il termine per presentare la richiesta di decreto penale era originariamente di 4 mesi; fu elevato a 6 nel 1990, al fine di allinearlo a quello previsto per la chiusura delle indagini preliminari.

La relazione illustrativa dell’originario disegno di legge (non modificato sul punto dalla Commissione) specifica che l’allungamento del termine è determinato da ragioni di omogeneità con le nuove previsioni sui termini di durata delle indagini preliminari introdotte dall’art. 2, comma 9 (v. sopra).

Si ricorda peraltro che l'inosservanza del termine per presentare la richiesta non comporta nullità o decadenza, in quanto le nullità e le decadenze sono soltanto quelle tassativamente previste dalla legge e qui la legge nulla prevede: si tratta di un termine ordinatorio (cfr. Cass. pen. Sez. V, 04/02/2004, n. 27514). Tuttavia, il G.I.P. può legittimamente rifiutare l'emissione del decreto penale richiesto tardivamente, con conseguente restituzione degli atti al P.M., che, pertanto, non si configura come atto abnorme, atteso che l'anzidetta natura ordinatoria del termine ex art. 459 non implica che il medesimo non debba essere rispettato (cfr. da ultimo Cass. pen. Sez. II Sent., 07/03/2019, n. 21485).

 

§  stabilendo che presupposto dell’estinzione del reato sia, oltre al decorso dei termini di 5 o 2 anni – a seconda che si tratti di delitto o di contravvenzione – anche il pagamento della pena pecuniaria. La relazione illustrativa afferma, infatti, che attualmente l’effettivo recupero delle pene pecuniarie è attestato su livelli bassissimi, inferiori al 10%;

§  prevedendo che se il condannato rinuncia all’opposizione può essere ammesso a pagare, entro 15 giorni dalla notificazione del decreto penale di condanna, la pena pecuniaria ridotta di un quinto.

 

 

Con la lettera e) si delega il Governo ad introdurre disposizioni di coordinamento tra la disciplina delle nuove contestazioni effettuate nel dibattimento con quella dei termini di presentazione della richiesta dei riti speciali di cui all’articolo in esame.

 

Infine, con la lettera f) il Governo è delegato a prevedere che a fronte di nuove contestazioni in dibattimento l’imputato possa richiedere l’accesso ai riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato, esercitando tale facoltà all’udienza successiva a quella nella quale è stata formulata la nuova contestazione.

La disposizione pare volta a codificare un principio già affermato dalla Corte costituzionale, non solo per l’applicazione della pena su richiesta delle parti e per il giudizio abbreviato.

 

Si ricorda che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni.

La stessa Corte, con sentenza 15-29 dicembre 1995, n. 530, ha dichiarato l'illegittimità dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis del codice penale, relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento; con sentenza n. 333 del 2009 ha dichiarato, tra l'altro, l'illegittimità dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell'azione penale.

Infine, la Corte costituzionale, con sentenza n. 14 del 2020, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 516 c.p.p. nella parte in cui, in seguito alla modifica dell'originaria imputazione, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.


 

Articolo 1, comma 11
(Giudizio)

 

L’articolo 1, comma 11 è volto all’individuazione dei principi e criteri di delega dedicati al giudizio di primo grado.

 

In particolare, la lettera a), in tema di calendarizzazione delle udienze, non modificata nel corso dell’esame in sede referente, intende rendere obbligatorio per i giudici fissare e comunicare alle parti, laddove il dibattimento non possa concludersi in un’unica soluzione, un calendario organizzativo delle udienze che si stimano necessarie tenere per lo svolgimento dell’istruzione probatoria e per la discussione.

 

Come è noto l'udienza indica tutto il tempo di una singola giornata, dedicato allo svolgimento di uno o più dibattimenti; dibattimento, invece, indica la trattazione in udienza di un determinato processo. Il giudizio, invece, è una fase del processo in cui le parti e il giudice mirano a verificare i fatti oggetto dell'imputazione, con le forme imposte dalla pubblicità (art. 471), dal contraddittorio (artt. 466, 486, 493, 498, 516, 546), dall'immediatezza (artt. 498, 525), dalla concentrazione (artt. 477 e 544) e dall'oralità (artt. 499, 500, 514, 526).

La disciplina relativa alla durata e prosecuzione del dibattimento è ispirata al principio di concentrazione in base al quale non dovrebbero esserci intervalli  di tempo tra l’assunzione delle prove in udienza, la discussione finale e la deliberazione della sentenza. L’art. 477 c.p.p., infatti, al comma 1 precisa che quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo. Al di fuori dei casi di differimento ex art. 477, 1° co., il comma 2 dell’art. 477 consente la sospensione soltanto per ragioni di assoluta necessità  e per un termine massimo che, computate tutte le dilazioni, non oltrepassi i dieci giorni, esclusi i festivi.

La disposizione secondo la quale il dibattimento si esaurisce in un’unica udienza è normalmente disattesa nella prassi, dato che molteplici circostanza possono indurre al rinvio ad altra udienza. Si ricorda, peraltro che la giurisprudenza ha specificato che il rinvio dell'udienza deve essere disposto sulla base delle singole evenienze processuali e delle esigenze di ruolo e la determinazione della sua durata attiene al potere ordinatorio del giudice di merito, che si sottrae al sindacato della Corte di cassazione, a nulla rilevando la eventuale programmazione preventiva delle udienze di rinvio. (Cass. pen. Sez. I Sent., 09/12/2008, n. 47789)

Si ricorda, al riguardo, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 132 del 2019 ha specificato  che dal tenore dell’art. 477 c.p.p., nell’impianto del vigente codice di procedura penale, il principio di immediatezza della prova è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità. La Corte afferma tuttavia che “l’esperienza maturata in trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale restituisce, peraltro, una realtà assai lontana dal modello ideale immaginato dal legislatore. I dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza sono l’eccezione; mentre la regola è rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni”. la Consulta nella medesima sentenza n. 132 del 2019 ha suggerito quale via per ovviare agli inconvenienti evidenziati anche quella di intervenire mediante provvedimenti atti a favorire la concentrazione temporale dei dibattimenti, così da assicurarne la conclusione in udienze immediatamente consecutive (o meglio in un’unica udienza).

Secondo quanto specificato nella Relazione illustrativa dell’originario disegno di legge, tale criterio avrebbe il vantaggio di coinvolgere le parti nella gestione del ruolo del giudice relativamente al singolo processo, di prevenire – per quanto possibile – rinvii delle udienze determinati da impedimenti professionali.

 

La lettera b) delega il Governo ad prevedere che le parti illustrino le rispettive richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle prove ai sensi dell’articolo 190 del codice di procedura penale.

 

Si ricorda che l’art. 190 c.p.p.. prevede che le prove siano ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti. La legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio. I provvedimenti sull'ammissione della prova possono essere revocati sentite le parti in contraddittorio.

Si ricorda altresì che ai sensi dell’art. 493. c.p.p. il pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell'imputato nell'ordine indicano i fatti che intendono provare e chiedono l'ammissione delle prove. Nella formulazione dell’articolo precedente alla legge 16 dicembre 1999, n. 479, si faceva riferimento all’ “esposizione introduttiva e richieste di prova”, prevedendosi da parte del pubblico ministero l’esposizione concisa dei fatti oggetto dell'imputazione e l’indicazione le prove di cui chiede l'ammissione. Esisteva dunque una puntuale distinzione, tra i poteri del pubblico ministero, al quale era riconosciuto l'onere di esporre i fatti, e quelli delle parti private che, invece, dovevano solo indicarli. Con la modifica del 1999, è stata resa omogenea la struttura procedurale, ed il sistema è stato improntato ad un’equiparazione sostanziale di tutte le parti che, ad oggi, devono indicare i fatti che intendono provare.

Con i criteri di delega in oggetto non si ritorna alla precedente formulazione della disposizione, in quanto l’illustrazione della richiesta di prove è estesa a tutte le parti e non solo al pubblico ministero.

 

Secondo la Commissione Lattanzi, la fase del giudizio, cuore dell’istruzione probatoria, è certamente un passaggio particolarmente dispendioso di tempo e di energie, ma che difficilmente può essere razionalizzato senza comprimere garanzie irrinunciabili.. All’interno della fase di giudizio la Commissione propone  alcuni interventi tutti mirati al potenziamento dell’esercizio del diritto alla prova delle parti, nel contesto della decisa riaffermazione del canone di concentrazione, quale presupposto di tutti i corollari del contraddittorio nella formazione della prova di cui all’art. 111, comma 4, Cost. Secondo la Commissione la previsione di un momento dialettico che accompagni le richieste di prova delle parti, lungi dal voler riesumare istituti già abbandonati per loro evidenti difetti, si propone come strumento di aiuto al giudice nello svolgimento del complesso onere di applicazione dell’art. 190 c.p.p.: seppur rivolta all’esclusione delle sole prove che siano manifestamente superflue o irrilevanti, la regola dell’art. 190 c.p.p. è applicata da un giudice che ha limitatissima conoscenza del fascicolo, il quale può trarre significativo vantaggio da una illustrazione mirata ad opera della parte che richiede la prova. La riaffermazione della regola generale della concentrazione del dibattimento in una sola udienza non va considerata quale pervicace - ma inutile e disincantata - rivendicazione di ciò che appare impossibile da realizzare in concreto; né l’istituzionalizzazione del calendario delle udienze rappresenta la mera codificazione di quanto già previsto dai protocolli diffusi sul territorio nazionale. Si tratta invece di due criteri che hanno un obiettivo ambizioso: quello di richiamare il legislatore delegato e i dirigenti degli uffici a sperimentare forme innovative di organizzazione delle udienze dibattimentali, che tengano conto della maggiore efficienza – dimostrata da diversi studi di analisi economica del diritto – della trattazione dei casi in sequenza e non in parallelo, sia in termini di capacità di definizione che di tempi di chiusura dei processi.

 

 

La lettera c) delega il Governo a prevedere che, ai fini dell’esame del consulente e del perito, il deposito delle consulenze tecniche e della perizia avvenga entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame degli stessi.

 

Come è noto la perizia e la consulenza tecnica sono mezzi di prova che si sostanziano, alternativamente o cumulativamente, nello svolgimento di indagini, nell’acquisizione di dati o nell’effettuazione di valutazioni che richiedono per la loro natura particolari competenze tecniche, scientifiche o artistiche. La perizia (artt. 220 e ss.c.p.p.) costituisce mezzo di prova “neutro” (essendone affidato l’espletamento ad un soggetto terzo, quindi imparziale, nominato dal giudice) ed essenzialmente discrezionale (essendo rimessa al giudice la valutazione sul requisito della sua “occorrenza”). Oltre che a richiesta di parte, può essere disposta anche d’ufficio. La consulenza tecnica, invece, può esperirsi: nell’ambito di una perizia già disposta, concedendo alle parti facoltà di nominare propri consulenti che possono partecipare alle operazioni peritali al fine di realizzare il contraddittorio nella formazione della prova (art. 225 c.p.p.); “extra-perizia” quando la perizia non sia stata disposta e già dal momento delle indagini preliminari (art. 233 c.p.p.).

Con riguardo ai termini per il deposito delle perizie e delle consulenze tecniche, si ricorda preliminarmente che qualora sia indispensabile illustrare con note scritte il parere, il perito può chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare relazione scritta (art. 227, comma 5). Il perito procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale. Se, per la complessità dei quesiti, il perito non ritiene di poter dare immediata risposta, può chiedere un termine al giudice. Quando non ritiene di concedere il termine, il giudice provvede alla sostituzione del perito; altrimenti fissa la data, non oltre novanta giorni, nella quale il perito stesso dovrà rispondere ai quesiti e dispone perché ne venga data comunicazione alle parti e ai consulenti tecnici. Quando risultano necessari accertamenti di particolare complessità, il termine può essere prorogato dal giudice, su richiesta motivata del perito, anche più volte per periodi non superiori a trenta giorni. In ogni caso, il termine per la risposta ai quesiti, anche se prorogato, non può superare i sei mesi.

In tema di perizia, il mancato rispetto del termine, di natura ordinatoria, per il deposito della relazione non ne comporta la nullità o l'inutilizzabilità. Cass. pen. Sez. III Sent., 30/10/2017, n. 13108.

In relazione alle attività dei consulenti tecnici l’art. 230 c.p.p.. prevede che essi possono assistere al conferimento dell'incarico al perito e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione. Se sono nominati dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l'esecuzione della perizia e il compimento delle altre attività processuali.

Con riguardo alla consulenza tecnica fuori dei casi di perizia l’art. 233 c.p.p, prevede che quando non è stata disposta perizia ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie.

 

La medesima lettera c) specifica che resta ferma la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione.

 

L’istituto delle letture disciplina il modo di utilizzazione in dibattimento degli atti formatisi nelle precedenti fasi del procedimento penale. Tali atti prima della loro lettura hanno solo una mera potenziale valenza probatoria che diviene effettiva solo dopo la legittima acquisizione attraverso la loro lettura.

L’art. 511 c.p.p. precisa che è sempre consentita la lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento. La selezione di tali atti, precostituiti al di fuori del dibattimento e che confluiscono nel predetto fascicolo, è regolata dall’art. 431 (per l’udienza preliminare), dall’art. 457 (per il giudizio immediato), 553 (per la citazione diretta a giudizio). Di tali atti può essere data lettura, tuttavia in ossequio al principio dell’oralità, quando si tratta di dichiarazioni o perizie, la lettura deve essere successiva all’esame della persona, a meno che tale esame non abbia luogo. (art. 511, commi 1-3)

Invece della lettura il giudice può indicare in modo specifico gli atti utilizzabili per la decisione (comma 5) e tale indicazione equivale a lettura; Il giudice dispone tuttavia la lettura, integrale o parziale, quando si tratta di verbali di dichiarazioni e una parte ne fa richiesta. Se si tratta di altri atti, il giudice è vincolato alla richiesta di lettura solo nel caso di un serio disaccordo sul contenuto di essi.

 

La lettera d) è tesa ad intervenire sulla tematica della rinnovazione del dibattimento nel caso di mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio.

 

Gli artt. 525, comma 2, e 526, comma 1, c.p.p, rispettivamente prevedono la partecipazione alla deliberazione della sentenza degli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento e il divieto di utilizzazione, ai fini della deliberazione, di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. L’art. 511 c.p.p., nel disciplinare la lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento e utilizzabili per la decisione, consente la lettura dei verbali di dichiarazioni solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo.

Dal combinato disposto degli artt. 525, comma 2, 526, comma 1, e 511 c.p.p. deriva l’obbligo, per il giudice del dibattimento, di ripetere l’assunzione della prova dichiarativa ogni qualvolta muti la composizione del collegio giudicante, laddove le parti processuali non acconsentano alla lettura delle dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al precedente organo giudicante (Corte di cassazione, Sez. Unite. penali, sentenza 17 febbraio 1999, n. 2; Cass. Pen. sezione prima, sentenza 4 novembre 1999, n. 12496; Cass. Pen. sezione prima, sentenza 7 dicembre 2001-10 maggio 2002, n. 17804; Cass. Pen. sezione prima, sentenza 23 settembre 2004, n. 37537; Cass. Pen. sezione quinta, sentenza 7 novembre 2006-31 gennaio 2007, n. 3613; Cass. Pen. sezione quinta, sentenza 15 dicembre 2011, n. 46561; Cass. Pen. sezione quinta, sentenza 11 maggio 2017, n. 23015).

Come rilevato anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 132 del 2019, “la dilatazione in un ampio arco temporale dei dibattimenti crea inevitabilmente il rischio che il giudice che ha iniziato il processo si trovi nell’impossibilità di condurlo a termine, o comunque che il collegio giudicante muti la propria composizione, per le ragioni più varie”. Il che comporta  la necessità di rinnovare le prove dichiarative già assunte in precedenza, salvo che le parti consentano alla loro lettura. La corte rileva peraltro che “Frequente è, d’altra parte, l’eventualità che la nuova escussione si risolva nella mera conferma delle dichiarazioni rese tempo addietro dal testimone, il quale avrà d’altra parte una memoria ormai assai meno vivida dei fatti sui quali, allora, aveva deposto: senza, dunque, che il nuovo giudice possa trarre dal contatto diretto con il testimone alcun beneficio addizionale, in termini di formazione del proprio convincimento, rispetto a quanto già emerge dalle trascrizioni delle sue precedenti dichiarazioni, comunque acquisibili al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 511, comma 2, c.p.p. una volta che il testimone venga risentito”.

 

Nello specifico, l’intervento del Governo consisterà nel prevedere:

§  che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, a richiesta di parte, la riassunzione della prova dichiarativa già assunta;

§  che, quando è la prova dichiarativa è stata verbalizzata tramite videoregistrazione (v. articolo 1, comma 8), nel dibattimento svolto innanzi al giudice diverso o al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, il giudice disponga la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze;

 

L’art. 190-bis c.p.p. prevede una limitazione dell’obbligo di rinnovazione dell'assunzione della testimonianza. Tale limitazione presuppone la presenza di (precedenti) dichiarazioni rese da un testimone o da una delle persone indicate nell'art. 210 e assunte nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, nel medesimo procedimento, in sede di incidente probatorio o nel dibattimento, ovvero di dichiarazioni rese in altro procedimento, i cui verbali siano stati acquisiti ai sensi dell'art. 238. L'esame del testimone o dell'imputato in procedimento connesso o collegato è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario, sulla base di specifiche esigenze. L’articolo 190-bis è una disposizione di carattere eccezionale, applicabile solo ai procedimenti per alcuni specifici gravi delitti in relazione ai quali si pone l'esigenza di non esporre i dichiaranti (testimoni e coimputati) a pericoli per la sicurezza e l'incolumità, o a intimidazione, violenza o, e le dichiarazioni a rischi di ritrattazione o difformità, insiti nella ripetizione dell'esame. Tale disposizione si applica infatti esclusivamente nei procedimenti per taluno dei delitti di grave allarme sociale indicati nell'articolo 51, comma 3-bis c.p.p [5] ) nonché quando si procede per uno dei reati sessuali in cui siano convolti minori (pornografia virtuale; turismo per sfruttamento della prostituzione minorile; atti sessuali con minorenne; corruzione di minorenne etc), se l'esame richiesto riguarda un testimone minore degli anni diciotto e, in ogni caso, quando l'esame testimoniale richiesto riguarda una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità.

Si può peraltro ricordare che la giurisprudenza di legittimità già oggi applica l’art. 190-bis, comma 1, c.p.p. anche nell’ipotesi di rinnovazione in seguito a mutamento di composizione del collegio per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p. (in proposito, cfr., tra le più recenti, Cass., sez. I, 2 aprile 2019, n. 39348; Cass., sez. I, 3 luglio 2018, n. 42888; Cass., sez. VI, 10 aprile 2018, n. 29660).

 

La Commissione Lattanzi, ritiene di particolare rilevanza la previsione legata al non infrequente problema della modifica della composizione del giudice o del collegio, che, alla stregua della nullità prevista nell’art. 525 comma 2 c.p.p., imporrebbe la necessaria rinnovazione delle prove già assunte. È ben noto, tuttavia, come la recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità abbia inciso, restrittivamente, su tale garanzia di immediatezza. La Commissione ha ribadito unanimemente la necessità che si agisca su tali, frequenti, situazioni – determinate spesso (seppur non esclusivamente) dal trasferimento dei magistrati interno all’ufficio o da un ufficio all’altro – attraverso regole ordinamentali che riducano gli effetti più evidenti e prevedibili di un trasferimento di ufficio: per la verità, sono già previsti spazi organizzativi – tanto da norme primarie che secondarie – per ridurre le disfunzioni collegate al mutamento del giudice; se utilizzati in modo rigoroso ridurrebbero la rilevanza del problema. Sul piano processuale, una plausibile soluzione è quella di sfruttare la previsione della necessaria videoregistrazione dell’assunzione di prove dichiarative (v. art. 2-quater). Secondo la Commissione, tale modalità di verbalizzazione consentirà al nuovo giudice o componente del collegio, di apprezzare, ben oltre il limite intrinseco del verbale tradizionale, le dichiarazioni già assunte in precedenza. Fermo il diritto delle parti di chiedere la rinnovazione della prova orale ad ogni mutamento di composizione del giudice, la situazione oggi affermatasi, a seguito del consolidato indirizzo dettato dalle SU nel caso Bajrami, sarebbe significativamente migliorata dalla possibilità, per il giudice, di visionare la videoregistrazione e di disporre successivamente la rinnovazione della prova solo se sussistono specifici motivi.

Articolo 1, comma 12
(Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica)

 

L’articolo 1, comma 12 interviene sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica.

 

Come è noto, l’istituto del giudice unico è stato introdotto nell’ordinamento con il d.lgs. n. 51 del 1998, con il quale è stato contestualmente abolito l’ufficio del pretore nonché la procura circondariale presso la procura.

Attualmente la disciplina del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica è contenuta nel Libro VIII della Parte II del codice di procedura penale. L'intero libro VIII, originariamente composto dagli articoli da 549 a 567, è stato sostituito, con gli attuali articoli da 549 a 559, dall'art. 44, della legge 16 dicembre 1999, n. 479. L’articolo 549 che apre il libro VIII stabilisce che in relazione al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica “per tutto ciò che non è previsto nel presente libro o in altre disposizioni, si osservano le norme contenute nei libri che precedono, in quanto applicabili”. Da ciò si deduce che il modello procedurale operante per il giudizio ordinario collegiale è altresì applicabile al rito monocratico, salvo specifiche disposizioni che derogano. In particolare. Si ricorda peraltro che le differenze tra rito monocratico e collegiale non risiedono nelle modalità di svolgimento della fase delle indagini, bensì soprattutto nell’accesso alla fase dibattimentale (è infatti prevista in alcuni specifici casi la citazione diretta a giudizio in luogo dell’udienza preliminare), e nello svolgimento del dibattimento, che è celebrato in modo più agile.

 

In particolare, il Governo è delegato, con la lettera a), a intervenire sulla disciplina dei procedimenti attribuiti alla competenza del giudice monocratico in cui l’esercizio dell’azione penale avviene con citazione diretta a giudizio (di cui all’articolo 550 c.p.p.), ossia nei procedimenti - per specifici reati - in cui non si fa luogo all’udienza preliminare. Tali procedimenti sono destinati ad aumentare per effetto del principio di delega dell’art. 1, comma 9, lett. l) che prevede una estensione dell’applicazione dell’istituto della citazione diretta a giudizio (v. sopra).

 

Si ricorda, al riguardo, che in seguito all’entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479:

·         per i reati attribuiti al rito collegiale (salva l’attivazione di un rito alternativo) si fa sempre luogo all’udienza preliminare:

·         per i reati attribuiti al giudice monocratico si fa luogo alla citazione diretta a giudizio per i reati previsti dall’articolo 550 c.p.p. (i reati contravvenzionali ovvero i delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva ed i reati specificamente indicati: violenza o minaccia a un pubblico ufficiale; resistenza a un pubblico ufficiale; oltraggio a un magistrato in udienza aggravato; violazione di sigilli aggravata; rissa aggravata con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; lesioni personali stradali, anche se aggravate; furto aggravato; ricettazione). Si fa luogo all’udienza preliminare in tutti gli altri casi attribuiti alla cognizione del giudice monocratico (art. 33 ter) e non inclusi nelle ipotesi di citazione diretta.

Quando non è prevista l’udienza preliminare, il P.M. ha funzioni propulsive di invio del processo al giudice del dibattimento, in quanto è lo stesso P.M. ad emettere il decreto di citazione a giudizio (art. 552 c.p.p.), che contiene tutti gli elementi necessari alla vocatio in jus. Per quanto attiene alla fase predibattimentale e di giudizio si osservano le norme previste per il rito collegiale, salve alcune specificazioni (artt. da 553 a 559 c.p.p.).

 

A seguito delle modifiche apportate in sede referente, il Governo è delegato a prevedere nei procedimenti a citazione diretta:

·         un’udienza predibattimentale in camera di consiglio, da celebrare innanzi ad un giudice diverso da quello davanti al quale dovrà eventualmente tenersi il dibattimento (lettera a);

·         che il giudice, quando il pubblico ministero non provvede alla riformulazione dell’imputazione, dichiari d’ufficio la nullità e restituisca gli atti all’ufficio requirente (lettera b); analogamente il giudice dovrà provvedere in caso di discordanza rispetto agli atti presenti nel fascicolo del pubblico ministero - sulla individuazione del fatto e l’indicazione delle circostanze aggravanti che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza e riguardo l’indicazione delle fattispecie criminose (lettera c). Si tratta di principi analoghi a quelli dettati dall’art. 1, comma 9, per l’udienza preliminare (v. sopra).

 

Si ricorda che l’art. art. 552 c.p.p. prevede che il decreto di citazione a giudizio debba contenere, tra l’altro, l'enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge (comma 1, lett. c).

 

·         che, in assenza di richiesta di un rito alternativo, il giudice compia una valutazione delle condizioni per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna (lettera d);

·         che, nel caso in cui il processo, nell’udienza predibattimentale non sia definito con procedimento speciale o con sentenza di non luogo a procedere, il giudice fissi la data per una nuova udienza, da tenersi non prima di 20 giorni, tenuta di fronte a un altro giudice, per l’apertura e la celebrazione del dibattimento (lettera e).

 

In analogia con quanto previsto dall’articolo 425 c.p.p, comma 4, la lettera f), delega il Governo a prevedere l’impossibilità per il giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere, se ritiene che dal proscioglimento debba conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

 

Il comma 4 dell’art. 425 c.p.p prevede infatti che il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca

 

Infine, con la lettera g) il Governo è delegato ad estendere alla sentenza di non luogo a procedere per i procedimenti a citazione diretta, l’applicazione delle disposizioni in materia:

§  di requisiti della sentenza (art. 426 c.p.p.),

§  di condanna del querelante alle spese e ai danni (art. 427 c.p.p.);

§  di impugnazione della sentenza (art. 428 c.p.p.)

§  di revoca della sentenza di non luogo a procedere (titolo X del libro V c.p.).

 


 

Articolo 1, comma 13
(Impugnazioni)

 

L’articolo 1, comma 13 detta principi e criteri direttivi per la riforma del giudizio di appello, del ricorso in Cassazione e delle impugnazioni straordinarie.

 

Si ricorda che la riforma delle impugnazioni penali era al centro anche della legge n 103 del 2017 che, nella scorsa legislatura, ha delegato il Governo ad intervenire in un’ottica di limitazione dell’istituto. È conseguentemente intervenuto il decreto legislativo n. 11 del 2018, che ha mirato a deflazionare il numero dei procedimenti che gravano sugli uffici giudiziari e a semplificarne le procedure sia in appello che in Cassazione, in attuazione del principio della ragionevole durata del processo, riducendo la legittimazione all'impugnazione di merito:

- al pubblico ministero, al quale è precluso l'appello delle sentenze di condanna, ossia delle sentenze che hanno riconosciuto la fondatezza della pretesa punitiva, salvo in alcuni specifici casi (ad esempio, sentenza di condanna che modifica il titolo del reato o che esclude l'esistenza di aggravanti ad effetto speciale);

- all'imputato, al quale è precluso l'appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate con le più ampie formule liberatorie.

 

 

In particolare, in base alla lettera a), il cui contenuto è stato integralmente modificato in sede referente, il legislatore delegato dovrà prevedere che con l’atto di impugnazione, a pena di inammissibilità, sia depositata dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione, fermo restando quanto previsto in materia di processo in assenza (v. art. 1, comma 7).

 

La lettera b) interviene sulla modalità di presentazione dell’impugnazione e di spedizione dell’atto di impugnazione di cui agli articoli 582 e 583 c.p.p. Il legislatore delegato dovrà sopprimere le disposizioni che consentono di presentare l’impugnazione nella cancelleria di un ufficio giudiziario diverso da quello che ha emesso l’atto da impugnare (art. 582, comma 2) e di procedere con telegramma o raccomandata (art. 583), e coordinare la disciplina del deposito degli atti di impugnazione con quella generale, prevista per il deposito di tutti gli atti del procedimento (v. sopra).

 

La forma di presentazione del gravame è disciplinata dall’articolo 582 c.p.p., il quale dispone che è presentato “personalmente ovvero a mezzo di incaricato” nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 582, comma 1), e che ha l’onere di notificare l’impugnazione alle altre parti (art. 584 c.p.p.) e di comporre il fascicolo che deve essere trasmesso al giudice dell’impugnazione (art. 590 c.p.p.). Le parti private e i difensori possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano se tale luogo è diverso da quello in cui fu è messo il provvedimento, ovvero davanti a un agente consolare all'estero. In tali casi l’atto deve essere immediatamente trasmesso alla cancelleria del giudice che ebbe ad emettere il provvedimento impugnato (art. 582, comma 2).

Altre forme di presentazione sono indicate nell’art. 583 c.p.p., ove è previsto che le parti e i difensori possono proporre l’impugnazione con telegramma ovvero con raccomandata indirizzata alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. In tal caso, l’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma. In caso di telegramma esso deve essere presentato all’ufficio postale e non dettato telefonicamente; in tale ultimo caso, infatti, la forma di comunicazione prescelta non garantisce la provenienza dell’atto e l’autenticazione della sottoscrizione.

La rigidità delle norme riguardanti la presentazione o spedizione dell’impugnazione che, come visto, prevedono a pena di inammissibilità forme particolari atte a garantirne non solo la ricezione, ma anche e soprattutto l’autenticità e la provenienza, ha indotto la giurisprudenza a ritenere inammissibile il gravame proposto a mezzo fax, poiché tale strumento tecnico, la cui utilizzazione non è prevista dalle norme in tema di impugnazione, non è comunque idoneo a garantirne la provenienza.

 

 

Ulteriori principi e criteri direttivi delegano il Governo a estendere le attuali ipotesi di inappellabilità delle sentenze.

 

Attualmente, l’art. 593 c.p.p. (Casi di appello), qualifica come inappellabili le sentenze di condanna al pagamento di un’ammenda (si tratta dunque delle condanne per contravvenzioni per le quali il giudice applica la sola pena pecuniaria). Tutte le altre sentenze di condanna possono sempre essere appellate dall’imputato mentre il PM può appellarle solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria [6] .

Per quanto riguarda le sentenze di proscioglimento, sono inappellabili quelle relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa (ammenda o arresto). Tutte le altre sentenze di proscioglimento possono essere appellate da PM, mentre l’imputato può appellarle purché siano state emesse al termine del dibattimento (rito ordinario) e non si tratti di sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso.

Evidentemente, l’esclusione dell’appello non preclude la possibilità di ricorrere comunque in Cassazione.

 

In base alla lettera c), il legislatore delegato dovrà aggiungere anche l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa. Se attualmente, dunque, l’inappellabilità riguarda esclusivamente le contravvenzioni punite con ammenda o con pena alternativa (ammenda o arresto), il Governo dovrà estendere l’inappellabilità anche alle sentenze pronunciate in relazione a delitti puniti con la sola multa o con pena alternativa (multa o reclusione).

 

Sono, ad esempio, puniti con pena alternativa i seguenti delitti previsti dal codice penale: omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.); violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa (art. 335 c.p.); astensione dagli incanti (art. 354 c.p.); omessa denuncia di reato da parte del cittadino (art. 364 c.p.); rifiuto di uffici legalmente dovuti (art. 366 c.p.); evasione per colpa del custode (art. 387 c.p.); mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.); adulterazione o contraffazione di altre cose in danno della pubblica salute (art. 441 c.p.); omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro (art. 451 c.p.); frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.); maltrattamento di animali (art. 544-ter c.p.); violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.); lesioni personali colpose (art. 590 c.p.); omissione di soccorso (art. 593 c.p.); propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa (art. 604-bis c.p.); violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.); rivelazione del contenuto di corrispondenza (art. 618 c.p.); insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.).

 

 

La lettera d) delega il Governo a disciplinare le conseguenze dell’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (v. infra) con particolare riferimento a:

- azione civile esercitata nel processo penale;

- confisca originariamente disposta con la sentenza di condanna in primo grado.

Il Governo dovrà altresì adeguare la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili.

In merito, si evidenzia che l’art. 2, commi da 2 a 6, del disegno di legge in commento già prevede una modifica immediatamente prescrittiva dell’art. 578 c.p.p. volta a regolare i rapporti tra improcedibilità e azione civile in sede penale.

 

La lettera e) estende le ipotesi di inappellabilità della sentenza di condanna, aggiungendo all’attuale inappellabilità delle sentenze che condannano al pagamento di un’ammenda, l'inappellabilità della sentenza che condanna al lavoro di pubblica utilità.

 

Si ricorda che il lavoro di pubblica utilità è una pena che può applicare in caso di condanna il giudice di pace, in alternativa alla permanenza domiciliare, ma solo su richiesta dell’imputato (art. 54, d.lgs. n. 274 del 2000) (v. infra, articolo 1, comma 23).

 

La lettera f) delega il Governo a disciplinare l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere negli stessi termini previsti per le sentenze di proscioglimento.

 

Si ricorda che il genus della sentenza di proscioglimento racchiude le diverse tipologie di sentenze di non doversi procedere e di assoluzione. Il criterio differenziale tra le due forme di proscioglimento deve ravvisarsi nel tipo di cause che vi danno luogo. Il giudice adotta la formula dichiarativa “non doversi procedere” quando difetti una delle condizioni di procedibilità propriamente dette (querela, istanza, richiesta di procedimento e autorizzazione a procedere; art. 529 c.p.p.), ovvero altre situazioni atipiche (ad esempio, errore di persona; art. 68 c.p.p.) che si risolvano in una causa di improcedibilità, nonché quando sussiste una causa estintiva di reato (es. morte dell’imputato; art. 69 c.p.p.). Il giudice adotta invece una delle formule assolutorie contenute nell’art. 530 quando difetta la colpevolezza nel merito (fatto che non sussiste, fatto non commesso dall’imputato, fatto non costituente reato o non previsto dalla legge come reato), ovvero la imputabilità o punibilità dell’imputato.

L’art. 429 c.p.p. prevede che contro la sentenza di non luogo a procedere (v. art. 425 c.p.p.) possa proporre appello il PM mentre, per quanto riguarda l’imputato, che egli possa procedere a meno che la sentenza non abbia dichiarato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso. La riforma del 2018 ha aggiunto – analogamente alla modifica apportata all’art. 593 c.p.p. - l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa.

 

La lettera g) prevede la forma del rito camerale non partecipato, per i tutti i procedimenti d'appello salva richiesta di partecipazione della parte che ha promosso l’appello o comunque dell’imputato o del suo difensore.

 

L’art. 599 c.p.p. contiene la disciplina del rito camerale in appello; tale rito svolgendosi nelle forme dell’art. 127 c.p.p. non prevede la presenza necessaria del PM e delle parti private, che sono sentite solo se compaiono. I casi di celebrazione del rito camerale in appello sono attualmente indicati in modo tassativo se l'appello ha esclusivamente per oggetto:

·         la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze,

·         l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche , di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale

Ulteriori casi di rito camerale in appello sono previsti se l’appello attiene a sentenza emessa a seguito di rito abbreviato (art. 600 comma 3 c.p.p.) o se l’impugnazione attiene a determinate statuizioni di natura civile (c.d. inibitoria civile di cui all’art. 600, comma 3 c.p.p.).

Il comma 2 dell'art. 599 prevede il rinvio dell'udienza nell'ipotesi in cui l'imputato, avendo manifestato la volontà di comparire, adduca la sussistenza di un legittimo impedimento.

Si ricorda che l’art. 599 c.p.p L'art. 599, 3° co. disciplina l'ipotesi, eccezionale, avendo riguardo ai presupposti di cui al comma 1 dell'art. 599, in cui debba procedersi alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, prevedendo che, nel caso di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, il giudice assume le prove in camera di consiglio, a norma dell'articolo 603, con la necessaria partecipazione del pubblico ministero e dei difensori. Se questi non sono presenti quando è disposta la rinnovazione, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che copia del provvedimento sia comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori.

 

La lettera h), il cui contenuto è stato integralmente modificato in sede referente, incide sull’istituto del “concordato sui motivi di appello” (art. 599 c.p.p.), ampliandone l’ambito applicativo tramite l’eliminazione di tutte le preclusioni all’accesso a tale istituto, attualmente previste con riferimento ad alcune tipologie di reati (art. 599-bis, comma 2).

 

L’art. 599-bis c.p.p., rubricato "Concordato anche con rinuncia ai motivi di appello", reintrodotto nel codice di rito dalla legge n. 103 del 2017, consente alle parti di concludere un accordo sull'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d'appello, da sottoporre al giudice d'appello, che deciderà in merito in camera di consiglio. Se l'accordo comporta una rideterminazione della pena, anche tale nuova pena dovrà essere concordata tra le parti (pubblico ministero, imputato e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria) e sottoposta al giudice (comma 1). In base al comma 3, se il giudice decide di non accogliere l'accordo tra le parti che gli viene sottoposto, ordina la citazione a comparire al dibattimento; la richiesta e la rinuncia perdono effetto ma potranno essere riproposte nel dibattimento.

Il campo d'applicazione dell'istituto è limitato, essendo escluso in relazione a un catalogo di gravi reati, in particolare associativi, In base al comma 2 il concordato in appello non potrà trovare applicazione se si procede per:

- i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., ovvero

- reati di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina o alla tratta di persone;

- reati di associazione a delinquere finalizzata a commettere un delitto di sfruttamento sessuale dei minori;

- reati di associazione a delinquere finalizzata a commettere un delitto di contraffazione;

- delitti di tratta di persone e sfruttamento della schiavitù;

- reati di associazione a delinquere di tipo mafioso o commessi per agevolare tali associazioni;

- scambio elettorale politico-mafioso;

- reato di sequestro di persona a scopo di estorsione;

- reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, al contrabbando di tabacchi e al traffico di rifiuti.

- i reati di cui all’art. 51, comma 3-quater c.p.p., ovvero i reati con finalità di terrorismo;

- i reati di sfruttamento sessuale dei minori (prostituzione minorile; pornografia minorile; detenzione di materiale pornografico; pornografia virtuale, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico; turismo sessuale; atti sessuali con minorenne);

- violenza sessuale semplice, aggravata e di gruppo.

Il concordato in appello non potrà essere proposto neanche se si procede contro un delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Il comma 4 dell'art. 599-bis dispone che il procuratore generale presso la Corte d'appello debba confrontarsi con i PM del suo ufficio e del distretto per poi indicare criteri idonei a orientare la valutazione di tutti i PM del distretto rispetto al concordato sui motivi in appello; tali criteri dovranno essere elaborati tenendo conto della diversa tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti penali. La disposizione, peraltro, fa salvo quanto previsto dall'art. 53 c.p.p., ovvero l'affermazione dell'autonomia del pubblico ministero nell'udienza. Il giudice può accogliere o meno e, se ritiene di non poter accogliere, allo stato, la richiesta, ordina la citazione a comparire al dibattimento. In questo caso la richiesta e la rinuncia perdono effetto, ma possono essere riproposte nel dibattimento.

 

La lettera i) prevede l'inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato.

 

Si ricorda che l’art. 581 c.p.p.. prevede che l'impugnazione si propone con atto scritto nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo e il giudice che lo ha emesso, con l'enunciazione specifica, a pena di inammissibilità:

a) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione;

b) delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione;

c) delle richieste, anche istruttorie;

d) dei motivi, con l'indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Al riguardo la giurisprudenza ha specificato che il requisito della specificità dei motivi implica, a carico della parte impugnante, non soltanto l'onere di dedurre le censure che intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi fondanti le censure medesime, al fine di consentire al giudice di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (Cass. pen. Sez. VI, sent., 08/04/2021, n. 17372); e che il requisito della specificità dei motivi dell’appello è soddisfatto se l'atto individua il punto che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello, enucleandolo con specifico riferimento alla motivazione della sentenza impugnata e precisando tanto i motivi di dissenso dalla decisione appellata che l'oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame (Cass. pen. Sez. V, sentenza 25/05/2018, n. 34504).

 

 

La lettera l) prevede che il governo modifichi la disciplina dell’ obbligo di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in caso di appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa (articolo 603, comma 3-bis, c.p.p.), prevedendo che, in tale caso, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado.

 

Si ricorda che l’art. 603 c.p.p disciplina la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello, disposta dal giudice quando una parte, nell'atto di appello ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l'assunzione di nuove prove e il giudice stesso ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. La rinnovazione dell'istruzione dibattimentale è disposta di ufficio se il giudice la ritiene assolutamente necessaria.

Nello specifico il comma 3-bis, inserito dalla legge n. 103 del 2017, prevede che in caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice ha l’obbligo di disporre la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.

 

Le lettere da m) a o) concernono il giudizio di legittimità.

 

In particolare, la lettera m) delega il governo a prevedere che:

§  la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione avvenga con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori; è fatta salva, nei casi non contemplati dall’articolo 611 c.p.p, la richiesta delle parti di discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata;

 

L’art. 611 c.p.p disciplina il procedimento in camera di consiglio, prevedendo che, oltre che nei casi particolarmente previsti dalla legge la corte procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell'articolo 442. Se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall'articolo 127, la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti senza intervento dei difensori. Fino a quindici giorni prima dell'udienza, tutte le parti possono presentare motivi nuovi] e memorie e, fino a cinque giorni prima, possono presentare memorie di replica.

 

§  la possibilità, nei suddetti casi, per la Corte di cassazione di disporre, anche in assenza di una richiesta di parte, la trattazione con discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata;

 

La Commissione Lattanzi, sottolinea come gli interventi sul procedimento di legittimità, debbano prendere le mosse dalla convinzione che sia necessario proseguire quel percorso riformatore diretto a restituire centralità alla funzione nomofilattica affidata alla Corte di cassazione. Nel panorama giuridico contemporaneo, questa appare ancorata a beni costituzionali di primario rilievo – primo tra tutti il canone di uguaglianza e il principio di legalità – ed è per questo prioritario porre la Cassazione nelle condizioni di svolgere la propria funzione in modo effettivo: i tempi e la qualità delle risposte della Corte suprema sono fondamentali per conseguire le finalità che la Carta costituzionale le assegna. Sulla scorta di tali premesse, la Commissione ha proposto l’estensione della trattazione con contraddittorio scritto per tutti i procedimenti, anche qualora il provvedimento impugnato sia stato pronunciato in dibattimento: vista la natura tecnica del giudizio di cassazione, ritiene che questa modalità possa assicurare una dialettica adeguata, non essendovi vincoli convenzionali o costituzionali rispetto alla trattazione orale; ciò nondimeno, considerata la portata degli interessi in gioco nel processo penale, ha proposto la facoltà per il ricorrente e per le parti di ottenere la trattazione orale a richiesta, nei soli casi che non ricadano nell’ambito di applicazione dell’art. 611 c.p.p.

 

§  l’instaurazione preventiva del contraddittorio nelle forme previste per la celebrazione dell'udienza, ove la Corte di cassazione intenda dare al fatto una definizione giuridica diversa.

 

La Commissione Lattanzi, ha suggerito tale ultimo criterio di delega sottolineando come esso sia finalizzato a evitare riqualificazioni "a sorpresa" da parte della Corte suprema, censurate in un noto caso dalla Corte di Strasburgo (Corte edu, 11 dicembre 2007 - Ricorso n. 25575/04 - Drassich c. Italia): laddove il giudice di legittimità ritenga possibile una riqualificazione, si dovrà introdurre un meccanismo che consenta di attivare un contraddittorio, nelle forme dell'udienza pubblica, dell'udienza camerale partecipata o non partecipata, a seconda del caso.

 

La lettera n) delega il Governo ad inserire nel codice di rito penale un meccanismo incidentale di rinvio alla Corte di cassazione per definire questioni sulla competenza per territorio. In particolare il Governo dovrà prevedere:

§  la possibilità, per il giudice chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio di rimettere, anche su istanza di parte, la decisione alla Corte di cassazione, che provvede in camera di consiglio;

§  che, il mancato esercizio ad opera della parte che ha sollevato l'eccezione della facoltà di sollecitare il giudice a rimettere la decisione alla Corte di cassazione precluda alla stessa parte, in via definitiva, di coltivare ulteriormente la questione;

§  che la Corte di cassazione, nel caso in cui dichiari l’incompetenza del giudice, ordini la trasmissione degli atti al giudice competente;

 

La Commissione Lattanzi, ritiene che tale rinvio possa evitare casi in cui l’incompetenza, tempestivamente eccepita, è stata riconosciuta fondata solo in Cassazione, con conseguente necessità di dover iniziare da capo il processo. L’introduzione di un istituto che consente alla Corte di risolvere in via definitiva la questione relativa alla competenza, mettendo così il processo “in sicurezza”, risponde evidentemente anche al principio costituzionale dell’efficienza e della ragionevole durata del processo.

 

 

Infine la lettera o), anch’essa introdotta in sede referente, è volta a disciplinare l'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. A tal fine il Governo dovrà:

§  introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alle sentenza definitive della Corte europea, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso, entro un termine perentorio;

§  attribuire alla Corte il potere di adottare i provvedimenti necessari e disciplinare l’eventuale procedimento successivo;

§  coordinare il rimedio con quello della rescissione del giudicato, e con l’incidente di esecuzione di cui all’articolo 670 c.p.p.

 

L’art. 670 c.p.p. dispone che il giudice dell'esecuzione che accerti «che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo» ha l'obbligo di emettere la relativa declaratoria e di sospenderne l'esecuzione nonché, di disporre, se occorre, la liberazione dell'interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita.;

Si ricorda, al riguardo, che la Corte di Cassazione ha sancito che il giudice dell'esecuzione deve dichiarare ineseguibile la sentenza passata in giudicato qualora, una pronuncia della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali abbia riconosciuto l'iniquità del processo - per violazione delle prescrizioni poste dall'art. 6 CEDU - e, correlativamente, il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, pur quando il legislatore abbia omesso di introdurre nell'ordinamento il mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo (C., Sez. I, 18.1.2011, R., in Gdir, 2011, 12, 73; C., Sez. I, 1.12.2006, D.P., in Mass. Uff., 235447).

Si segnala infine, con riguardo ai rapporti tra rescissione del giudicato e questioni sull’esecuzione che le Sezioni Unite hanno recentemente ritenuto che il condannato con sentenza pronunciata i

n assenza che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili, derivanti dall'omessa citazione in giudizio propria e/o del proprio difensore nel procedimento di cognizione, non può adire il giudice dell'esecuzione per richiedere ai sensi dell'art. 670 in relazione ai detti vizi, la declaratoria dell’illegittimità del titolo di condanna e la sua non esecutività, ma può, invece, proporre richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell'art. 629 bis, allegando l'incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che possa essere derivata dalle indicate nullità (C., S.U., 23.4.2021, n. 15498).

 

La Commissione Lattanzi, ritiene che la materia dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea richiede un intervento normativo dal momento che, a più di vent’anni dalla Raccomandazione del 19 gennaio 2000, R(2000)2, con la quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva sollecitato gli Stati membri a disciplinare la riapertura del procedimento in caso di condanna della Corte di Strasburgo, essa rimane affidata alla giurisprudenza, la quale ha individuato tre diversi rimedi: la revisione europea (introdotta dalla sentenza costituzionale n. 113 del 2011), il ricorso straordinario per errore di fatto (nelle ipotesi di violazione perpetrata in Cassazione: v. caso Drassich c. Italia e, da ultimo, Corte edu sez. I, 06/02/2020, Felloni c. Italia) e l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 c.p.p. (per le fattispecie di violazioni sostanziali). Secondo la Commissione, tale assetto genera incertezze e dubbi interpretativi, sia nell’ipotesi di riapertura del procedimento conseguente all’accertamento di un vizio procedurale (viste le peculiarità della disciplina della revisione, che mal si adatta a una riapertura non fondata su un novum tale da giustificare una prognosi di proscioglimento), sia nel caso di accertamento di un’illegalità convenzionale (soprattutto per il problema dei cd. “fratelli minori”). La proposta muove dalla necessità di affidare al giudice della nomofilachia, ossia alla Corte di cassazione, un vaglio preventivo sulla sentenza europea: in tal modo, la trasposizione di un dictum internazionale nell’ordinamento interno verrebbe coerentemente affidato alla Corte suprema; quest’ultima sarebbe chiamata a interpretare la sentenza della Corte europea, dandole attuazione con un annullamento senza rinvio (laddove si tratti solo di modificare la pena o di assolvere in tutto o in parte il ricorrente a Strasburgo), oppure con un annullamento con rinvio (nel caso in cui risulti indispensabile riaprire il processo).

Secondo la Commissione la riforma andrebbe completata chiarendo il rapporto tra il nuovo istituto e la rescissione del giudicato, oggi disciplinata dall’art. 629-bis. In realtà, anche tale rimedio straordinario andrebbe modificato in modo da rendere la disciplina coerente con la direttiva 2016/343/UE: nell’ottica di razionalizzazione, anche sul piano sistematico, dell’intera materia delle impugnazioni straordinarie, la Commissione riterrebbe opportuno collocare la disciplina della nuova rescissione del giudicato in un nuovo titolo IV-bis (si tratta infatti di impugnazione del tutto diversa dalla revisione) e dedicare un titolo IV-ter al nuovo rimedio straordinario finalizzato a dare esecuzione alle sentenze della Corte di Strasburgo

 

 

 


 

Articolo 1, comma 14
(Amministrazione dei beni in sequestro ed esecuzione della confisca)

 

 

L’articolo 1, comma 14, delega il Governo ad intervenire in materia di amministrazione dei beni in sequestro e di esecuzione della confisca.

 

In particolare, il Governo dovrà:

§  a prevedere che l'esecuzione della confisca per equivalente, quando non ha ad oggetto beni mobili o immobili già sottoposti a sequestro, avvenga con la modalità dell’esecuzione delle pene pecuniarie;

 

Si ricorda che per le ipotesi nelle quali l’acquisizione dei beni che costituiscono il prezzo ovvero il profitto del reato non sia possibile in via diretta, il legislatore ha introdotto – ma solo in relazione a specifici delitti - la c.d. confisca per equivalente, che colpisce beni di cui il reo abbia anche la mera disponibilità, anche per interposta persona, per un valore corrispondente a quello del prezzo o del profitto del reato (v. ora art. 240-bis c.p.).

 

In merito la Commissione Lattanzi, cui si deve la proposta di questo criterio di delega, specifica che l’intento è quello, in primo luogo, di risolvere la questione delle competenze e delle modalità di liquidazione dei beni definitivamente confiscati nell’ambito di processi penali in ordine a reati per i quali non si applicano le disposizioni del codice antimafia, oltre che risolvere in via definitiva la tematica, complessa, relativa alle modalità di esecuzione della confisca per equivalente, quando essa non sia preceduta dalla materiale apprensione, già in sede di sequestro, di specifici beni.

Per quest’ultimo aspetto, in particolare, si prevede che l’esecuzione della confisca per equivalente, quando non abbia ad oggetto beni mobili o immobili già sottoposti a sequestro, avvenga con la modalità propria dell’esecuzione delle pene pecuniarie, in forza dell’assunto che il provvedimento che dispone detta confisca, per il destinatario, comporta, di fatto, l’obbligo di corrispondere un importo pecuniario e per lo Stato consiste in un titolo esecutivo per quel medesimo importo. Esattamente come accade per le condanne a pena pecuniaria.

Peraltro, questa soluzione è già accolta dal sistema, in quanto l’art. 735-bis c.p.p., per l’esecuzione di provvedimenti resi da Autorità straniere che abbiano ad oggetto una “confisca consistente nella imposizione del pagamento di una somma di denaro corrispondente al valore del prezzo, del prodotto o del profitto del reato” (che è provvedimento riconducibile, per l’appunto, alla confisca per equivalente che non si sia già manifestata nell’apprensione di un bene in sede di sequestro), prevede che l’esecuzione avvenga esattamente con le forme previste per le pene pecuniarie.

Una soluzione che, inoltre, supera anche tutte le problematiche emerse in giurisprudenza circa l’autorità competente ad eseguire dette confische.

 

§  a prevedere che la vendita dei beni confiscati a qualsiasi titolo nel processo penale avvenga con le forme che il codice di procedura civile prevede per la vendita e assegnazione dei beni mobili ed immobili nell’esecuzione forzata con specifico riguardo alla delega alle operazioni di vendita (articoli 534-bis e 591-bis c.p.c.);

 

Si ricorda che l’art. 534-bis c.p.c detta la disciplina,– nell’ambito dell'espropriazione mobiliare presso il debitore - della delega delle operazioni di vendita ai sensi della quale il giudice, con il provvedimento per l'assegnazione o per l'autorizzazione della vendita, delega ad un istituto all’uopo autorizzato la vendita all’incanto, ovvero in mancanza a un notaio avente sede preferibilmente nel circondario o a un avvocato o a un commercialista, iscritti nei relativi elenchi, il compimento delle operazioni di vendita con incanto ovvero senza incanto di beni mobili iscritti nei pubblici registri. Analogamente l’art. 591-bis c.p.c., per i beni immobili oggetto di espropriazione forzata attribuisce al giudice, il potere di delegare ad un notaio avente preferibilmente sede nel circondario o a un avvocato ovvero a un commercialista iscritti nei relativi elenchi., il compimento delle operazioni di vendita e ne disciplina le modalità.

 

In merito, la Commissione Lattanzi evidenzia che «la proliferazione nell’ordinamento di una pluralità di ipotesi di confisca ha comportato la congestione delle cancellerie degli uffici giudiziari, anche in ragione del fatto che si tratta di uffici strutturalmente non attrezzati per gestire questo tipo di attività in tutti i casi (sempre più frequenti) nei quali non si tratta di vendere beni mobili di agevole commercializzazione, per i quali già è possibile per gli uffici avvalersi utilmente dell’IVG, in forza dell’art. 13 del reg. di esecuzione del c.p.p. o dell’art. 152 del TU spese di giustizia. Questioni delicate si sono poste, ad esempio, per la liquidazione di aziende o quote societarie.

Ma una questione analoga si pone con riferimento alla liquidazione di beni immobili, che vede le cancellerie penali sfornite delle conoscenze delle problematiche inerenti alle vendite immobiliari e che, dalle informazioni disponibili, ha condotto a una generalizzata stasi dei procedimenti.

Il tutto senza che ci si possa neppure avvalere della competenza all’Agenzia nazionale per i beni confiscati, vista la perimetrazione del suo ambito di intervento prevista dal recente Codice della crisi di impresa.

A fronte di ciò è sembrato che la soluzione migliore fosse di rendere applicabile anche in sede penale le più agevoli e moderne modalità di vendita dettate dagli articoli 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile, che hanno dato buona prova di sé in quell’ambito della giurisdizione.

 

§  a disciplinare l'amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e dei beni confiscati in conformità alle previsioni di cui all’articolo 104-bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale.

 

In base all’art. 104-bis delle disposizioni di attuazione del codice di rito, nella formulazione che entrerà in vigore il prossimo 1° settembre 2021 [7] , se il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.) ha ad oggetto aziende, società ovvero beni di cui sia necessario assicurare l'amministrazione, l'autorità giudiziaria nomina un amministratore giudiziario e si applicano le disposizioni del Codice antimafia (d.lgs. n. 159 del 2011). I compiti del giudice delegato alla procedura sono svolti nel corso di tutto il procedimento dal giudice che ha emesso il decreto di sequestro ovvero, nel caso di provvedimento emesso da organo collegiale, dal giudice delegato nominato ai sensi dell’art. 35 del Codice antimafia.

La disciplina del Codice antimafia trova altresì applicazione ai casi di sequestro e confisca in casi particolari previsti dall'articolo 240-bis c.p. e a quelli adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.. In tali casi l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata coadiuva l'autorità giudiziaria nell'amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati, fino al provvedimento di confisca emesso dalla corte di appello e, successivamente a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal citato Codice antimafia. Restano comunque salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno.

Nel processo di cognizione devono essere citati i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro, di cui l'imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo.

L’intento della previsione è di: favorire l'amministrazione dinamica e non la semplice custodia dei beni sequestrati ai sensi dell'art. 321, comma 2, c.p.p.; rafforzare la tutela dei terzi titolari di diritti sui beni sottoposti a vincolo già nella fase di cognizione del procedimento penale; assumere quale modello di riferimento per tutte le tipologie di sequestro preventivo a fini di confisca a carico di persone fisiche e di persone giuridiche le norme in tema di amministrazione e gestione dei beni sequestrati e confiscati contenute nel codice antimafia, che contiene una disciplina volta ad evitare, per quanto possibile, la perdita di produttività anche occupazionale dei beni sottoposti a vincolo a salvaguardia degli interessi sociali ed economici coinvolti; introdurre regimi differenziati di disciplina tra i sequestri e le confische nei casi di cui all'art. 240-bis c.p. e 51, comma 3 bis c.p.p., da un lato, e tutti gli altri sequestri e confische penali dall'altro.

Articolo 1, comma 15
(Condizioni di procedibilità)

 

L'articolo 1, comma 15, del disegno di legge reca i princìpi e criteri direttivi ai quali il Governo deve adeguarsi nell'esercizio della delega in materia di condizioni di procedibilità.

 

La condizione di procedibilità è la manifestazione di volontà della persona offesa dal reato - espressa con le forme del negozio giuridico (querela, istanza di procedimento ex art. 341 c.p.p) - o dell'autorità - espressa con le forme dell'atto (richiesta di procedimento ex art. 342 c.p.p) o del provvedimento amministrativo (autorizzazione a procedere ex art. 343 c.p.p.) - finalizzata alla rimozione di un ostacolo all'esercizio dell'azione penale nei confronti di chi si assume essere autore di un fatto penalmente rilevante.

Nonostante regola generale sulla tutela penale sia la procedibilità d'ufficio da parte del pubblico ministero - titolare dell'azione penale obbligatoria - che la esercita indipendentemente dalla volontà della persona offesa (art. 50 c.p.p.), in alcuni casi la procedibilità è sottoposta, invece, al verificarsi di una condizione.

La principale delle condizioni di procedibilità è la querela della persona offesa (amplius infra), consistente nella dichiarazione facoltativa con la quale un soggetto, sia personalmente che tramite un procuratore speciale, manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato (art. 336 c.p.p.). La querela può essere presentata, oralmente o per iscritto, al P.M., ad un ufficiale di polizia giudiziaria o ad un agente consolare all'estero entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato (art. 124 c.p.).

In quanto diritto disponibile, la querela può essere oggetto di rinuncia (art. 339 c.p.p.) e remissione (art. 340 c.p.p.):

-          la rinuncia espressa alla querela (anche in tal caso, personalmente o a mezzo di procuratore speciale) va fatta con dichiarazione sottoscritta, rilasciata all'interessato o a un suo rappresentante; diversamente, può anche essere fatta oralmente e poi verbalizzata (da un ufficiale di polizia giudiziaria o da un notaio) previa sottoscrizione del dichiarante, che può rinunciare contestualmente anche all'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno;

-          la remissione della querela è una dichiarazione (fatta con le stesse forme della rinuncia) fatta e accettata personalmente o a mezzo di procuratore speciale, ricevuta dall'autorità procedente o da un ufficiale di polizia giudiziaria che deve trasmetterla immediatamente alla predetta autorità. La remissione, nei delitti punibili a querela, estingue il reato (art. 152 c.p.). Se sottoposte a termini o a condizioni, la remissione e la rinuncia alla querela non producono effetti (amplius infra).

 

Più nel dettaglio, ai sensi del comma 15 il legislatore delegato deve prevedere la procedibilità a querela per il reato di lesioni stradali colpose gravi previsto dall'articolo 590-bis, primo comma, c.p. (lettera a). Nel corso dell’esame in sede referente si è esteso tale regime di procedibilità alle lesioni stradali colpose gravissime.

 

Il comma primo dell'articolo 590-bis c.p. punisce le lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, con la reclusione da tre mesi a un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime.

Si ricorda, al riguardo, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 248/2020, ha sollecitato il legislatore «una complessiva rimeditazione sulla congruità dell'attuale regime di procedibilità per le diverse ipotesi di reato contemplate dall'art. 590-bis c.p.». Pur non ritenendo manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di prevedere il regime di procedibilità d'ufficio per le lesioni stradali nell'ipotesi considerata, la Corte ha sottolineato come non possa negarsi «che quanto meno le ipotesi base del delitto di lesioni stradali colpose, previste dal primo comma dell'art. 590-bis c.p., appaiono normalmente connotate da un minor disvalore sul piano della condotta e del grado della colpa».

 

La Commissione Lattanzi evidenzia che «Nei procedimenti per il delitto di cui all’art. 590-bis, comma 1 c.p. spesso la persona offesa è disinteressata alla punizione del responsabile, perché già risarcita dalle compagnie di assicurazione. Quei procedimenti riguardano fatti frequentissimi (ricorrenti nel ruolo del giudice monocratico) e talvolta di difficile e complesso accertamento, avviati per applicare pene del tutto modeste e per lo più non eseguibili (ad es. perché sospese). L’introduzione della procedibilità a querela costituirebbe un fondamentale filtro in grado di portare il giudice penale a confrontarsi con quelle rare ipotesi (ad es., lesioni di particolare gravità, risarcimento non riconosciuto) in cui è realmente richiesto il suo intervento.

 

Con la lettera b) il Governo è delegato ad estendere il regime di procedibilità a querela di parte ad ulteriori specifici reati contro la persona o contro il patrimonio, individuati nell’ambito di quelli puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel minimo a due anni. La disposizione specifica inoltre che, fini della determinazione della pena detentiva, non si dovrà tenere conto delle circostanze del reato e che occorre comunque fare salva la procedibilità d’ufficio - a tutela di soggetti deboli - quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità.

 

 

La Commissione Lattanzi ritiene che questo intervento «potrebbe consentire – a titolo puramente esemplificativo - l’estensione del regime di procedibilità a querela alle ipotesi aggravate di furto ex art. 625, co. 1 c.p., ricorrenti con molta frequenza anche in ipotesi banali (come nel classico furto in negozio o supermercato, ad es. poiché viene rimosso il dispositivo antitaccheggio, il che integra la violenza sulle cose, e le merci sono esposte negli scaffali, il che integra l’esposizione a pubblica fede); ipotesi rispetto alle quali, anche considerata la natura patrimoniale del bene giuridico tutelato, sarebbe opportuno e coerente richiedere almeno una chiara manifestazione di volontà a procedere della persona offesa. Un ulteriore esempio è rappresentato dalle lesioni personali. Se è vero che rispetto a determinate situazioni appare opportuna la procedibilità d’ufficio, visto che la volontà della vittima potrebbe essere in qualche modo condizionata (ad es. in caso di infortuni sul lavoro), appare davvero troppo limitata la procedibilità a querela per le ipotesi dolose in cui la malattia determina una prognosi non superiore a venti giorni».

 

Inoltre, il legislatore delegato è chiamato, con riguardo ai reati perseguibili a querela, a prevedere l'obbligo che nell'atto di querela sia dichiarato o eletto il domicilio per le notificazioni, ammettendosi a tale fine anche l'indicazione di un idoneo recapito telematico (lettera c).

 

L'atto di querela (vedi supra) deve recare sia la narrazione d'un fatto sia la richiesta che il suo autore venga perseguito penalmente. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, è orientamento consolidato che la volontà di querelare, purché risulti inequivocabilmente, può essere espressa in qualsiasi modo. Secondo l'articolo 336 c.p.p., la querela va presentata personalmente o a mezzo di procuratore speciale. Per quanto riguarda la procura, questa, in base alla regola generale dell'art. 122, 1° co., deve, a pena d'inammissibilità , essere rilasciata con atto pubblico o scrittura privata autenticata, e contenere, oltre che le indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti cui si riferisce. Bisogna, poi, che la medesima sia allegata alla querela in occasione della presentazione di questa ed indichi specificamente tutti i fatti per i quali si richiede che venga promossa l'azione penale, nonché, se nota, la persona da sottoporre al procedimento; la procura, quindi, non può mai assumere il carattere di mandato generale né essere anteriore al reato.

 

 

Infine nell’esercizio della delega dovrà essere prevista un'ipotesi tipica di remissione tacita della querela nel caso di ingiustificata mancata comparizione del querelante all'udienza cui sia stato citato in qualità di testimone (lettera d).

 

La remissione della querela è la dichiarazione di volontà dell'offeso, che deve essere accettata dal querelato, diretta a annullare gli effetti di una querela già proposta. Le forme di manifestazione della volontà di rimettere la querela sono varie: la remissione può essere processuale o extraprocessuale e in questo secondo caso può essere contenuta in un'esplicita dichiarazione (remissione espressa) o manifestata attraverso il compimento di atti incompatibili con la volontà di persistere nella querela (remissione tacita).

In proposito è opportuno ricordare che secondo la giurisprudenza non costituirebbero remissione:

a)  l'impegno a rinunciare alla costituzione di parte civile e la mancata comparizione di quest'ultima (Cass. pen. Sez. V, Sentenza 7 marzo 2006, n. 15855);

b)  la revoca espressa della costituzione di parte civile (Cass. pen. Sez. VI, Sentenza 25 marzo 1988, n. 2708);

c)  la mera transazione sul danno (Cass., Sez. IV, Sentenza 18 gennaio 1990, n. 6025).

Intervenendo su una prassi diffusa nei procedimenti avanti il Giudice di Pace, esperiti ai sensi del D.Lgs. 28.8.2000, n. 274 (relativo alla competenza del Giudice di Pace in materia penale), la Cassazione, in una pronuncia a Sezioni Unite, ha chiarito la portata del dettato normativo relativo alla remissione tacita della querela. Ha quindi sostenuto che nel procedimento davanti al giudice di pace la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell'art. 152, 2° co., c.p. (Cass. S.U., Sentenza 30 ottobre 2008, n. 46088).

 

 


 

Articolo 1, comma 16
(Esecuzione delle pene pecuniarie)

 

L'articolo 1, comma 16 del disegno di legge interviene sul procedimento di esecuzione della pena pecuniaria con la finalità dichiarata di restituirle effettività.

 

Si ricorda che la Corte costituzionale ha formulato, nella sentenza 11 febbraio 2020, n. 15, l’auspicio che il legislatore intervenga per "restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale. E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei".

 

In merito la Commissione Lattanzi ha evidenziato come, a differenza di quanto avviene in altri paesi, in Italia la pena pecuniaria abbia una scarsissima effettività, che la rende di fatto, nella maggior parte dei casi, una pena esistente solo sulla carta, priva di efficacia preventiva e incapace di rappresentare una credibile alternativa al carcere. Ciò sarebbe stato dimostrato dai dati statistici che la Commissione ha ottenuto dal Ministero della Giustizia, in base ai quali: la percentuale delle pene pecuniarie eseguite (pur al netto di quelle oggetto di provvedimenti di sospensione condizionale) oscilla costantemente, negli anni presi a riferimento (2015-2018), tra l’1% e il 2%, con una perdita annuale per l’erario di oltre un miliardo di euro.

 

 

In particolare, il Governo è delegato a:

§  razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie (lettera a);

 

L’art. 660 c.p.p. (Esecuzione delle pene pecuniarie) afferma che le condanne a pena pecuniaria sono eseguite nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti.

Il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie prevede, anzitutto, la notifica dell'invito di pagamento (art. 212 T.U. spese di giustizia, DPR n. 115 del 2002): entro un mese dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la cancelleria del giudice dell'esecuzione deve notificare al condannato l'invito al pagamento. L'invito contiene l'intimazione di pagare entro il termine di 30 giorni e di depositare la ricevuta di versamento entro 10 giorni dall'avvenuto pagamento. Se il condannato non paga entro il termine previsto, la cancelleria iscrive a ruolo la somma dovuta dal condannato provvedendo contestualmente alla consegna della relativa pratica al concessionario per la riscossione dei tributi (riscossione mediante ruolo ex art. 213-223 T.U.). Il concessionario ha un termine di 4 mesi per notificare la cartella di pagamento al debitore, contenente l'intimazione al pagamento entro 60 giorni, decorsi i quali il concessionario può procedere alla riscossione coattiva tramite esecuzione forzata da parte degli ufficiali esattoriali. Se anche tale procedura esecutiva ha esisto negativo il concessionario provvede a darne comunicazione al Campione penale il quale, a sua volta, da impulso alla successiva fase della procedura di conversione della pena pecuniaria.

L’art. 660 c.p.p. aggiunge infatti che quando è accertata la impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza [c.p.p. 677] competente per la conversione [c.p. 136], il quale provvede previo accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato. In presenza di situazioni di insolvenza, il magistrato di sorveglianza può disporre la rateizzazione della pena a norma dell'articolo 133-ter c.p., se essa non è stata disposta con la sentenza di condanna ovvero può differire la conversione per un tempo non superiore a sei mesi. Alla scadenza del termine fissato, se lo stato di insolvenza perdura, è disposto un nuovo differimento, altrimenti è ordinata la conversione. Con l'ordinanza che dispone la conversione, il magistrato di sorveglianza determina le modalità delle sanzioni conseguenti in osservanza delle norme vigenti. Il ricorso contro l'ordinanza di conversione ne sospende l'esecuzione.

 

§  rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato (lettera b);

 

L'articolo 135 c.p. fornisce il parametro generale di ragguaglio fra multa/ammenda, da un lato, e reclusione/arresto, dall'altro. L'ammontare di pena pecuniaria equivalente a un giorno di pena detentiva, originariamente fissato in lire venticinquemila o frazione di tale importo, è stato, in seguito a svariati interventi legislativi, aggiornato, in stretta correlazione con il contestuale riallineamento degli importi delle pene pecuniarie alla svalutazione della moneta, onde mantenere costante il valore della misura di unità detentiva. Con la riforma attuata dall'art. 1, legge 5 ottobre 1993, n. 402, il legislatore ha, per la prima volta, innalzato la misura del parametro di ragguaglio, triplicandolo da venticinquemila a settantacinquemila lire, senza rivalutare simmetricamente le entità edittali delle multe e delle ammende. Ne è derivata una decisa rivalutazione della pena detentiva rispetto alla pena pecuniaria, la cui ratio remota sta nella mutata sensibilità circa il valore della libertà, rispetto al patrimonio e i cui scopi pratici sono stati, da un canto, l'esigenza di estendere la sfera di applicabilità della sospensione condizionale della pena, e, dall'altro, di rendere meno trascurabili le pene pecuniarie, irrogate in sostituzione delle pene detentive brevi. In seguito alla conversione in euro delle sanzioni pecuniarie espresse in lire disposta dal decreto legislativo 24 giugno 1998, n 213, il criterio di ragguaglio (pur in assenza di una espressa modifica dell'articolo 135 c.p. da parte del decreto legislativo n. 213) è stato quantificato in 38 euro. La legge 15 luglio 2009, n. 94 ha da ultimo innalzato la misura del parametro di ragguaglio di cui all'articolo 135 c.p., portandolo agli attuali 250 euro.

E' opportuno ricordare, poi, che l'art. 1, comma 53 della legge 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando), ha introdotto (attraverso l'inserimento del comma 1-bis nell'art. 459 c.p.p.), una deroga alla disciplina ordinaria inerente al ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive nel caso dei decreti penali di condanna. In tal caso infatti, il computo va effettuato tra una forbice che oscilla tra un minimo di € 75 per il giorno di pena detentiva ad un massimo di € 225, pari al triplo dell'ammontare di € 75. Nella determinazione dell'ammontare della pena pecuniaria, il Giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare.

 

L’originario ddl C. 2435 prevedeva la revisione dei criteri di ragguaglio della pena detentiva alla pena pecuniaria, diminuendo l'attuale misura di euro 250 per ogni giorno di pena detentiva, da sostituire con un importo inferiore, determinato comunque in una somma non superiore a euro 180. Si trattava - come precisava la relazione illustrativa - di un intervento finalizzato ad "agevolare l'applicazione delle sanzioni sostitutive, limitare le impugnazioni strumentali e, indirettamente, facilitare l'accesso a riti alternativi quale, in primis, l'applicazione della pena su richiesta di parte".

 

§  prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione e conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento (lettera c).

 

 


 

Articolo 1, comma 17
(Sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi)

 

L’articolo 1, comma 17, delega il Governo a riformare la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, contenuta negli articoli 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, con la finalità di anticipare l’applicazione delle sanzioni sostitutive già in fase di cognizione, sgravando così la magistratura di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive – semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria - saranno infatti direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di 4 anni di pena inflitta.

 

Attualmente, salve talune eccezioni, per i condannati a pene non superiore ai 4 anni (o a 6 anni nei casi di cui agli artt. 90 e 94 del TU stupefacenti), è prevista la sospensione dell'ordine di esecuzione, volta a consentire la presentazione dell'istanza di concessione di una delle misure alternative alla detenzione previste dalla legge e ad evitare l'ingresso provvisorio in carcere di persone che non dovrebbero esservi sottoposte (art. 656, comma 5, c.p.p. e Corte costituzionale, sent. n. 41 del 2018).

Di queste istanze (presentate dai c.d. "liberi-sospesi") si fanno carico i magistrati e i tribunali di sorveglianza, oggi con ritardi anche per l’esigenza prioritaria di dare precedenza agli affari riguardanti le persone detenute.

La riforma proposta mira ad alleggerire il carico dei giudici dell’esecuzione, prevedendo l’applicazione delle sanzioni sostitutive di pene detentive fino a 4 anni già da parte dei giudici del merito.

 

Si ricorda che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi sono state introdotte nel nostro ordinamento con la legge n. 689 del 1981, con la finalità di evitare, a fronte di condanne brevi alla detenzione, la desocializzazione derivante da una carcerazione di breve durata, privilegiando invece una finalità retributiva. Diversamente dalle misure alternative alla detenzione, le sanzioni sostitutive sono infatti applicate direttamente dal giudice della cognizione con la sentenza di condanna, senza dover ricorrere – come per le misure alternative – al magistrato di sorveglianza in sede di esecuzione. La natura di pena autonoma delle sanzioni sostitutive brevi, piuttosto che di semplice modalità esecutiva della pena sostituita, è stata riconosciuta dalla Cassazione, la quale ha sottolineato come dette pene costituiscano un sistema sanzionatorio parallelo a quello ordinario (SSUU, 19 gennaio 2017, n. 12872; sez. I, 13 ottobre 2004, n. 43589; SSUU, 25 ottobre 1995, n. 11397).

Ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689/1981, il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna:

- quando ritiene di dover determinare la pena detentiva entro il limite di 2 anni, può sostituire tale pena con la semidetenzione;

- quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla anche con la libertà controllata;

- quando ritiene di doverla determinare entro il limite di 6 mesi, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente.

 

Anzitutto, in base alla lettera a) il Governo è delegato ad abolire le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata.

 

Si ricorda che la semidetenzione (art. 55, legge n. 689 del 1981) comporta l'obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno in un istituto penitenziario situato nel comune di residenza del condannato o in un comune vicino. La determinazione delle ore e l'indicazione dell'istituto sono effettuate in relazione alle comprovate esigenze di lavoro o di studio del condannato.

La semidetenzione comporta altresì:

- divieto di detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi;

- sospensione della patente di guida (qualora sia necessaria per l’attività lavorativa il Magistrato di Sorveglianza può regolamentare tale sospensione);

- ritiro del passaporto, nonché la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento d’identità;

     obbligo di conservare e di esibire ad ogni richiesta degli organi di polizia e nel termine fissato, la copia dell’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di determinazione o di modificazione delle prescrizioni.

La libertà controllata (art. 56, legge n. 689/1981), che può essere applicata dal giudice quando ritiene che la pena detentiva non debba essere superiore a sei mesi, comporta per il condannato:

- il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza salvo autorizzazione, di volta in volta per motivi di studio, di lavoro, di famiglia o di salute;

l'obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno nelle ore fissate presso l’ufficio di Pubblica Sicurezza, o, in mancanza di questo, presso il Comando dei Carabinieri territorialmente competente;

- il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi;

- la sospensione della patente di guida (qualora sia necessaria per l’attività lavorativa il Magistrato di Sorveglianza può regolamentare tale sospensione); - il ritiro del passaporto, nonché sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento d’identità

- l'obbligo di conservare e di presentare ad ogni richiesta degli organi di polizia e nel termine fissato, la copia dell’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza nella quale sono indicate le modalità di esecuzione della pena sostitutiva.

 

La Commissione Lattanzi motiva la proposta di abolizione di questi due istituti con i dati statistici relativi alla loro applicazione che dimostrerebbero come si tratti oggi di sanzioni esistenti solo sulla carta. Secondo dati del Ministero della Giustizia, il 15 aprile 2021 i soggetti in carico all’Ufficio Esecuzione Penale Esterna a titolo di semidetenzione erano 2; quelli in carico per l’esecuzione della libertà controllata erano 104. A dire della Commissione si tratta di numeri insignificanti rispetto al dato, complessivo, delle misure che prevedono l’esecuzione penale esterna (cd. di comunità) – oltre 64.000, a quella data.

 

La lettera b) delega il Governo a disciplinare, quali sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi:

 

§  la semilibertà. La disciplina sostanziale e processuale dovrà essere mutuata, in quanto compatibile, da quando oggi previsto dall’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) per l’omonima misura alternativa alla detenzione (lett. f) e questa pena sostitutiva potrà essere applicata quando il giudice ritenga di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di 4 anni (lett. e);

In base all’art. 48 OP il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dell'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. I condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari e indossano abiti civili.

 

§  la detenzione domiciliare. La disciplina sostanziale e processuale dovrà essere mutuata, in quanto compatibile, da quando oggi previsto dall’ordinamento penitenziario (art. 47-ter, legge n. 354 del 1975) per l’omonima misura alternativa alla detenzione (lett. f) e la sanzione sostitutiva potrà essere applicata quando il giudice ritenga di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di 4 anni (lett. e);

 

§  il lavoro di pubblica utilità. La disciplina sostanziale e processuale dovrà essere mutuata, in quanto compatibile, da quando oggi previsto dal d.lgs. n. 274 del 2000 [8] per l’omonima pena irrogabile dal giudice di pace (lett. f). La sanzione sostitutiva potrà essere applicata quando il giudice ritenga di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di 3 anni (lett. e) e se il condannato non si oppone. Se il lavoro è applicato come pena sostitutiva di pena detentiva, la durata deve essere corrispondente a quella della pena detentiva sostituita. Inoltre, in base alla lett. i), il Governo dovrà prevedere che l’esito positivo del lavoro di pubblica utilità possa comportare, unitamente al risarcimento del danno (o all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, se possibile), la revoca della confisca facoltativa eventualmente disposta.

 

In base all’art. 54 del d.lgs. del 2000 sulla competenza penale del giudice di pace, il lavoro di pubblica utilità può essere applicato dal giudice solo “su richiesta dell'imputato”. La pena “non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”. L'attività viene svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore. Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro.

In attuazione dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000 è stato emanato il DM 26 marzo 2001 che disciplina il lavoro di pubblica utilità applicato in sentenza, quindi relativo a soggetti liberi che non entrano in carcere. La prestazione di lavoro, ai sensi del decreto ministeriale, viene svolta a favore di persone affette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; oppure nel settore della protezione civile, della tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. L’attività viene svolta presso gli Enti che hanno sottoscritto con il Ministro, o con i Presidenti dei Tribunali delegati, le convenzioni previste dall’art. 2 comma 1 del d.m. 26 marzo 2001, che disciplinano le modalità di svolgimento del lavoro, nonché le modalità di raccordo con le autorità incaricate di svolgere le attività di verifica.

Originariamente, la sanzione era prevista solo nei procedimenti di competenza del giudice di pace; successivamente lo spettro di applicazione della sanzione è stato allargato e oggi trova applicazione anche:

- nei casi di violazione del Codice della strada, previsti all’art. 186 comma 9-bis e art. 187 comma 8-bis del d.lgs.285/1992;

- nei casi di violazione della legge sugli stupefacenti, ai sensi dell’art. 73 comma 5-bis del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309;

- come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n, 67.

Nella prassi la misura prevista dal codice della strada rappresenta la sanzione sostitutiva maggiormente effettiva nel sistema penale. Come riportato nella relazione della Commissione Lattanzi, infatti, il 15 aprile 2021 quella misura era applicata a 8.360 persone; in quella stessa data erano inoltre 700 le persone sottoposte alla sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità per reati in materia di stupefacenti.

 

§  la pena pecuniaria. La disciplina resta in parte quella dettata attualmente dall’art. 53 della legge n. 689 del 1981, prevedendo però che il valore giornaliero al quale può essere assoggettato il condannato, da moltiplicare per i giorni di pena detentiva, possa prescindere nel minimo dai 250 euro previsti dall’art. 135 c.p. (lett. l). Il valore giornaliero dovrà infatti essere compreso in una somma non superiore a 2.500 euro (il criterio di delega non individua un minimo); non superiore a 250 euro in caso di sostituzione della pena detentiva in sede di decreto penale di condanna. La pena pecuniaria potrà essere applicata a fronte di possibili condanne fino a un anno di detenzione (lett. e). Attualmente, è applicabile per condanne fino a 6 mesi di detenzione.

 

In base alla lettera c) il giudice deve applicare le sanzioni sostitutive solo se ritiene che:

- contribuiscono alla rieducazione del condannato;

- assicurano – anche attraverso opportune prescrizioni – la prevenzione della recidiva.

Conseguentemente, il Governo dovrà disciplinare il potere discrezionale del giudice nella scelta tra le diverse misure.

 

Ai sensi della lettera d) il legislatore delegato dovrà revisionare la disciplina delle condizioni soggettive per l’applicazione delle sanzioni sostitutive coordinando la nuova disciplina con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario per l’accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare.

 

Si ricorda, ad esempio, che l’accesso alla detenzione domiciliare è precluso dall’art. 47-ter OP per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza oltre che per i recidivi.

 


 

 

La lettera e) individua i seguenti criteri per l’applicazione delle sanzioni sostitutive:

 

Pena detentiva irrogabile

Sanzioni sostitutive applicabili

Fino a 1 anno

§  Pena pecuniaria della specie corrispondente

§  Lavoro di pubblica utilità (se il condannato non si oppone) di durata corrispondente alla pena sostituita

§  Detenzione domiciliare

§  Semilibertà

Fino a 3 anni

§  Lavoro di pubblica utilità (se il condannato non si oppone) di durata corrispondente alla pena sostituita

§  Detenzione domiciliare

§  Semilibertà

Fino a 4 anni

§  Detenzione domiciliare

§  Semilibertà

 

La sanzione sostitutiva potrà essere applicata dal giudice tanto in sede di sentenza di condanna, quanto in sede di patteggiamento. Con il decreto penale di condanna la pena detentiva potrà essere sostituita tanto con la pena pecuniaria (con ammontare giornaliero significativamente più basso, v. infra lett. l), quanto con il lavoro di pubblica utilità, sempre che non vi sia opposizione da parte del condannato.

 

 

La lettera f), come anticipato, invita il legislatore delegato a mutuare la disciplina di semilibertà e detenzione domiciliare dalle omonime misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario e quella del lavoro di pubblica utilità dalle sanzioni applicabili dal giudice di pace ai sensi del d.lgs. n. 274 del 2000. In quest’ultimo caso la delega precisa che il lavoro di pubblica utilità dovrà avere durata corrispondente a quella della pena sostituita.

 

 

La lettera g) delega il Governo a prevedere il coinvolgimento degli UEPE (uffici per l’esecuzione penale esterna), al fine di consentire già nel giudizio di cognizione l’applicazione delle sanzioni sostitutive.

 

Attualmente l’UEPE può essere incaricato dal giudice di verificare l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa a favore della collettività, eseguita presso gli Enti convenzionati. Nei casi di sospensione del procedimento e messa alla prova l'UEPE ha il compito specifico di definire con l’imputato la modalità di svolgimento dell’attività riparativa, tenendo conto delle attitudini lavorative e delle esigenze personali e familiari, raccordandosi con l’ente presso cui sarà svolta la prestazione gratuita. Il lavoro di pubblica utilità diventa parte integrante e obbligatoria del programma di trattamento per l’esecuzione della prova che è sottoposto alla valutazione del giudice nel corso dell’udienza.

Nel corso dell’esecuzione, l’UEPE cura l’attuazione del programma, informa il giudice sull’adempimento degli obblighi lavorativi, sulla necessità di eventuali modifiche o inosservanze che possano determinare la revoca della prova.

 

 

La lettera h) delega il Governo a escludere la sospensione condizionale della pena nell’ipotesi in cui si proceda all’applicazione di sanzioni sostitutive.

 

In particolare, non dovranno trovare applicazione le disposizioni degli articoli 163 e ss. del codice penale, che disciplinano la sospensione condizionale della pena quale causa estintiva del reato.

Si tratta dell’istituto in base al quale il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna e nel determinare la pena da irrogare al reo, in presenza di determinati presupposti oggettivi (in generale, una pena non superiore a 2 anni di detenzione o una pena pecuniaria che ragguagliata vi equivalga) e in considerazione di una modesta capacità a delinquere, formula una prognosi di non recidività, ordinando che l'esecuzione della pena principale e di quelle accessorie non abbia inizio, rimanendo sospesa per un periodo di tempo predeterminato dalla legge (in generale, 5 anni). Se il condannato nel periodo di sospensione non commette nuovi reati e adempie agli eventuali obblighi imposti dal giudice, si determina l'effetto estintivo delle pene principali e accessorie.

 

 

La lettera i) delega il Governo a prevedere che l’esito positivo del lavoro di pubblica utilità possa, se accompagnato dal risarcimento del danno ovvero dall’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, comportare la revoca della confisca eventualmente disposta. Dovrà trattarsi di confisca facoltativa, i quanto lo stesso principio di delega demanda di far salva la confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato.

 

Questo principio di delega è in parte mutuato dalla disciplina della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità prevista dal Codice della strada per il reato di guida sotto l’influenza di alcool: art. 186, comma 9-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992. Tale disposizione, infatti, prevede che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.

 

 

In base alla lettera l) nel disciplinare la pena pecuniaria il Governo dovrà partire da quanto attualmente previsto dall’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, con alcuni temperamenti.

 

L’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 prevede che per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice debba individuare il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato e moltiplicarlo per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione di tale ammontare il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall'art. 135 c.p. (250 euro) e non può superare di dieci volte tale ammontare (2.500 euro). Può applicarsi la rateizzazione, ai sensi dell’art. 133-ter c.p.

 

In particolare, il valore giornaliero al quale può essere assoggettato il condannato, da moltiplicare poi per i giorni di pena detentiva, dovrà essere individuato dal giudice prescindendo nel minimo dai 250 euro previsti dall’art. 135 c.p. Il giudice potrà dunque individuare il valore giornaliero all’interno della forchetta 1-2.500 euro, ridotta a 1-250 euro in caso di sostituzione della pena detentiva con il decreto penale di condanna, con l’evidente finalità di incentivare il ricorso a questo rito alternativo.

In ogni caso, il giudice dovrà evitare di prevedere una pena pecuniaria eccessivamente onerosa rispetto alle condizioni economiche del reo e del suo nucleo familiare, adeguando dunque la pena a tali condizioni.

 

La Commissione Lattanzi ha rilevato come la riforma che nel 2009 ha interessato il criterio di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria, di cui all’art. 135 c.p., determinando l’aumento da 38 a 250 euro dell’ammontare minimo della quota giornaliera per ogni giorno di pena detentiva abbia reso irragionevolmente gravosa la misura (un mese di pena detentiva deve essere sostituito con almeno 7.500 euro; sei mesi con almeno 45.000 euro). La stessa Commissione aveva proposto di determinare il valore giornaliero, sulla base delle condizioni economiche del condannato, tra un minimo di 3 euro e un massimo di 3.000 euro (proposta non accolta dal Governo).

Si ricorda, peraltro, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 15 del 2020, ha sottolineato come l’attuale valore giornaliero minimo della pena pecuniaria sostituita alla pena detentiva ex art. 53 l. n. 689/1981 renda «eccessivamente onerosa per molti condannati la sostituzione della pena...con il conseguente rischio di trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti: ciò che appare di problematica compatibilità con l’art. 3, co. 2 Cost.».

 

 

La lettera m) delega il governo a prevedere la revoca delle sanzioni sostitutive a fronte di:

§  mancata esecuzione;

§  inosservanza grave o reiterata delle prescrizioni.

In caso di revoca, anche solo per la parte residua di pena ancora da scontare, la sanzione dovrà riconvertirsi nella pena detentiva sostituita o in altra sanzione sostitutiva.

Con particolare riguardo alla pena pecuniaria, il Governo dovrà far salva l’ipotesi di mancato pagamento dovuto a insolvibilità del condannato o ad altro giustificato motivo.

 

Infine, in base alla lettera n) il Governo dovrà disciplinare la responsabilità penale da violazione degli obblighi relativi alle sanzioni sostitutive, mutuandola da quanto attualmente previsto dagli articoli 47 e 51 dell’ordinamento penitenziario e dall’art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000, sulle competenze penali del giudice di pace, riguardo rispettivamente alla violazione degli obblighi inerenti alla semilibertà, alla detenzione domiciliare – puniti a titolo di evasione con la reclusione da 1 a 3 anni - e al lavoro di pubblica utilità – puniti con la reclusione fino a un anno. Si valuti l’opportunità di correggere il riferimento all’art. 47 OP, relativo all’affidamento in prova al servizio sociale, con quello all’art. 47-ter OP che tratta della detenzione domiciliare.

 

Si ricorda che, per quanto riguarda la detenzione domiciliare, l’art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario dispone che il condannato che, essendo in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi indicati nel comma 1, se ne allontana, è punito per il delitto di evasione, ai sensi dell'art. 385 c.p., con pena diminuita se si costituisce prima della condanna. La condanna, salvo che il fatto non sia di lieve entità, importa la revoca del beneficio.

Per quanto riguarda l’istituto della semilibertà, l’art. 51 OP dispone che il provvedimento che applica la misura può essere in ogni tempo revocato quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento. In particolare, il condannato, ammesso al regime di semilibertà, che

- rimane assente dall'istituto senza giustificato motivo, per non più di dodici ore, è punito in via disciplinare e può essere proposto per la revoca della concessione;

- rientra in istituto dopo tre ore dallo scadere della licenza, senza giustificato motivo, è punito in via disciplinare e può subire la revoca della concessione.

Se l'assenza si protrae per un tempo maggiore, il condannato è punibile a titolo di evasione (art. 385, primo comma, c.p.) con pena diminuita se si costituisce prima della condanna. La denuncia per il delitto di evasione comporta sempre la sospensione del beneficio e la condanna ne comporta la revoca.

Per quanto riguarda il lavoro di pubblica utilità, l’art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000 dispone che il condannato che senza giusto motivo non si reca nel luogo in cui deve svolgere il lavoro di pubblica utilità o che lo abbandona è punito con la reclusione fino ad un anno. Alla stessa pena soggiace il condannato che viola reiteratamente senza giusto motivo gli obblighi o i divieti inerenti alla pena del lavoro di pubblica utilità. In caso di condanna non sono applicabili le sanzioni sostitutive.


 

Articolo 1, commi 18-20
(Giustizia riparativa)

 

L’articolo 1, comma 18, inserito in sede referente, detta principi e criteri direttivi per introdurre una disciplina organica della giustizia riparativa, con particolare riguardo alla definizione dei programmi, ai criteri di accesso, alle garanzie, alla legittimazione a partecipare, alle modalità di svolgimento dei programmi e alla valutazione dei suoi esiti, nelle diverse fasi del procedimento penale.

 

 

In particolare il Governo, nell’esercizio della delega, dovrà:

 

§  introdurre una disciplina organica della giustizia riparativa che, in coerenza con le indicazioni della Direttiva 2012/29/UE, ne definisca la nozione, l’articolazione in programmi, i criteri di accesso, le garanzie, la legittimazione a partecipare, le modalità di svolgimento e la valutazione degli esiti dei programmi, ferma restando la necessaria rispondenza degli stessi all’interesse della vittima e dell'autore del reato (lettera a);

 

Si ricorda che la Direttiva 2012/29/UE - sostituendo la decisione quadro 2001/220/GAI – ha stabilito norme minime che assicurino alle vittime di reato adeguati livelli di tutela e assistenza, sia nelle fasi di accesso e partecipazione al procedimento penale, sia al di fuori e indipendentemente da esso. Oltre al rafforzamento del diritto della vittima all’informazione, del diritto di comprendere e essere compresi, di essere ascoltati nel processo e di usufruire di eventuali misure di protezione, la direttiva (art. 8) impone agli Stati membri di dare accesso a specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell'interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale. La Direttiva fornisce (art. 2) la definizione di giustizia riparativa come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale”. La Direttiva (art. 12) prevede, inoltre, che gli Stati membri adottino misure che assicurano alla vittima accesso a servizi di giustizia riparativa sicuri e competenti; che gli Stati membri facilitano il rinvio dei casi, se opportuno, ai servizi di giustizia riparativa, anche stabilendo misure che proteggano le vittime dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall'intimidazione e dalle ritorsioni, applicabili in caso di ricorso a eventuali servizi di giustizia riparativa. In base alla direttiva, l’accesso a tali servizi deve avvenire almeno in presenza delle seguenti condizioni: a) si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell'interesse della vittima, in base ad eventuali considerazioni di sicurezza, e se sono basati sul suo consenso libero e informato, che può essere revocato in qualsiasi momento; b) prima di acconsentire a partecipare al procedimento di giustizia riparativa, la vittima riceve informazioni complete e obiettive in merito al procedimento stesso e al suo potenziale esito, così come informazioni sulle modalità di controllo dell'esecuzione di un eventuale accordo; c) l'autore del reato ha riconosciuto i fatti essenziali del caso; d) ogni accordo è raggiunto volontariamente e può essere preso in considerazione in ogni eventuale procedimento penale ulteriore; e) discussioni non pubbliche che hanno luogo nell'ambito di procedimenti di giustizia riparativa sono riservate e possono essere successivamente divulgate solo con l'accordo delle parti o se lo richiede il diritto nazionale per preminenti motivi di interesse pubblico.

In attuazione della Direttiva 29/2012, è stato adottato il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 112 che, pur integrando con specifiche, mirate, disposizioni, il quadro di tutele che già il nostro ordinamento processuale penale assicurava alle vittime del reato in tema di tema di informazione e partecipazione al processo non ha, tuttavia, dettato specifiche disposizioni in materia di giustizia riparativa. Il citato decreto legislativo ha infatti apportato alcune modifiche al codice penale volte, in particolare, ad assicurare il diritto della vittima a ricevere una serie di informazioni concernenti il procedimento penale (anche estendendo la disciplina sul diritto all'interprete e alla traduzione) e sull'eventuale scarcerazione o evasione dell'imputato (o condannato); viene poi, fornita una definizione della condizione di particolare vulnerabilità della vittima, che consente l'applicazione di speciali cautele processuali. La tutela processuale delle vittime dei reati è  potenziata anche dalla stessa legge n. 103 del 2017, che ha modificato il codice di procedura penale al fine di: consentire alla vittima del reato di chiedere ed ottenere dalle autorità informazioni sullo stato del procedimento penale nel quale ha presentato la denuncia o la querela; allungare i termini concessi alla persona offesa per opporsi alla richiesta di archiviazione e chiedere la prosecuzione delle indagini; disporre la nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza dell'avviso alla persona offesa o quando la stessa non sia stata messa in condizione di visionare gli atti o presentare opposizione.

Pur mancando, nell’ordinamento nazionale, una disciplina organica in materia di giustizia riparativa e mediazione, un riconoscimento di tali istituti è tuttavia previsto in diverse disposizioni legislative vigenti. In particolare la legge sulla competenza penale del giudice di pace (D.Lgs. n. 274 del 2000) prevede (art. 29), nel caso di reato perseguibile a querela, la necessità per il giudice di promuovere la conciliazione tra le parti anche avvalendosi dell'attività di mediazione di strutture pubbliche o sussidiarie presenti sul territorio; se la conciliazione ha successo, è redatto processo verbale che attesta la remissione di querela (o la rinuncia al ricorso immediato al giudice ex art. 21) e la relativa accettazione. La rinuncia al ricorso produce gli stessi effetti della remissione della querela.

Inoltre la legge n. 67 del 2014 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio) estendendo la disciplina della sospensione del processo con messa alla prova nel processo minorile anche agli adulti (imputati per reati sanzionati con pene fino a 4 anni di reclusione), ha previsto che i programmi di trattamento allegati all’istanza di sospensione prevedano, come nel processo minorile (art. 28, DPR 448/1998), condotte riparatorie e la mediazione con la persona offesa (art. 4); come noto, l’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato. Sia nel caso della legge 274/2000 che nella messa alla prova prevista dalla legge 67/2014 la finalità della mediazione appare avere, tuttavia, natura essenzialmente deflattiva.

Generico riferimento alla necessità di mediazione con la vittima è dato anche dalla legge n. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario che prevede, tra le prescrizioni dell’affidato in prova al servizio sociale, che questi “si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato” (art. 47); la misura alternativa va adottata sulla base dei risultati della osservazione della personalità. Tale previsione va vista in relazione al contenuto dell’art. 27 del Regolamento penitenziario (DPR 230/2000) relativo appunto alla “osservazione della personalità” del condannato, che prevede che l’ equipe di trattamento operante in carcere svolga con questi una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato e “sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato”, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.

Si ricorda inoltre che la legge 23 giugno 2017 n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario) delegava il Governo (articolo1, comma 82) ad adottare decreti legislativi per la riforma dell'ordinamento penitenziario ed in particolare la lett. f) del comma. 85  individuava i programmi di giustizia riparativa e le relative procedure come “momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative”. In attuazione di tale delega, il Governo ha presentato  lo schema di decreto legislativo (AG 29) il quale forniva la nozione di giustizia riparativa, da attuare su base volontaria e consensuale; individua le garanzie per i partecipanti ai relativi programmi e le principali tipologie di mediazione; disciplina le linee fondamentali del procedimento, l’oggetto e i possibili esiti dei programmi riparativi; stabilisce specifici requisiti dei mediatori e i loro obblighi formativi. Sullo schema le Commissioni di Camera e Senato hanno espresso parere contrario.

 

 

La Commissione Lattanzi ha sottolineato come la giustizia riparativa trovi definizione nella Direttiva 2012/29/UE. A tale definizione si conforma, con ulteriori specificazioni, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa relativa alla giustizia riparativa in materia penale CM/REC(2018)8, secondo la quale: «Il termine ‘giustizia riparativa’ si riferisce a ogni processo che consente alle persone che subiscono pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale.

Secondo la Commissione, dalle fonti sovranazionali emerge come i percorsi di giustizia riparativa possano essere di beneficio sia per le vittime, sia per gli autori di reato. In particolare, la Direttiva 2012/29/UE riconosce che «I servizi di giustizia riparativa, fra cui ad esempio la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi, possono essere di grande beneficio per le vittime, ma richiedono garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta, l’intimidazione e le ritorsioni» (46° Considerando). Inoltre, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/REC(2018)8 rileva l’importanza di incoraggiare il senso di responsabilità degli autori dell’illecito e di offrire loro l’opportunità di riconoscere i propri torti, ciò che potrebbe favorire il loro reinserimento, consentire la riparazione e la comprensione reciproca e promuovere la rinuncia a delinquere (8° Considerando).

Quanto al tipo di programmi, la Commissione ricorda che la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec(2018)8 afferma che: «La giustizia riparativa prende sovente la forma di un dialogo (diretto o indiretto) tra la vittima e l’autore dell’illecito, e può anche includere, eventualmente, altre persone direttamente o indirettamente toccate da un reato. Ciò può comprendere persone che sostengono le vittime o gli autori dell’illecito, operatori interessati e membri o rappresentanti delle comunità colpite» (paragrafo 4).

Secondo la Commissione, i programmi di giustizia riparativa «debbono basarsi, in accordo con le fonti sovranazionali soprarichiamate, e stando alla Raccomandazione R(2010)1 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulle Regole del Consiglio d’Europa in materia di probation sui seguenti elementi:

-          riparare, per quanto possibile, del danno arrecato alla vittima e al soggetto giuridico offeso;

-          promuovere la responsabilizzazione del soggetto che ha ammesso gli elementi materiali del fatto o che è stato riconosciuto come autore del reato, a partire dalla comprensione dell’impatto del reato su vittima, soggetto giuridico offeso e comunità;

-          consentire la possibilità per le vittime di esprimere i loro bisogni materiali ed emotivi affinché possa emergere il tipo di riparazione più adeguato;

-          includere la comunità nella gestione dei percorsi di giustizia riparativa o nella fase di followup».

 

§  introdurre nell’ordinamento la definizione di vittima del reato considerando tale anche il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona e definire a tale scopo il familiare; le definizioni che il Governo dovrà introdurre riproducono il contenuto delle definizioni di cui all’art. 2 della citata Direttiva 2012/29/UE (lettera b);

 

L’articolo 2 della Direttiva definisce «vittima»:

-          una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato;

-          un familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona;

Il medesimo articolo definisce «familiare»: il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima. L’unica differenza rispetto alla definizione di familiare, nel testo in esame, è il riferimento aggiuntivo alla “parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso”.

 

§  prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, previo consenso libero e informato della vittima e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso (lettera c);

 

La Commissione Lattanzi ha sottolineato come, già nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale, istituiti dal Ministro della Giustizia nel 2015, il Tavolo 13 “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato” aveva elaborato una serie di proposte per allineare l’ordinamento penale italiano alle previsioni della Direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere l’accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento. Quest’ultima indicazione è presente ora anche nella Raccomandazione CM/Rec(2018)8 (paragrafi 6 e 19). La ratio è ravvisabile nel fatto che la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa dovrebbe essere offerta a tutte le vittime, senza distinzione in relazione al reato commesso. Secondo la Commissione è inoltre fondamentale, ai fini di una piena implementazione della giustizia riparativa, curarne l’innesto a livello normativo e, in particolare, nell’ambito dei seguenti istituti: non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis c.p.), commisurazione della pena (articolo 133 c.p.), estinzione del reato per condotte riparatorie (articolo 162-ter c.p.), sospensione condizionale della pena (articoli 163 ss. c.p.), sospensione del processo per messa alla prova (articoli 168-bis ss. c.p.), perdono giudiziale (articolo 169 co. 1), della liberazione condizionale (articolo 176 c.p.), esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del 75 fatto (articolo 34 d.lgs. 274/2000), estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie davanti al giudice di pace (articolo 35 d.lgs. 274/2000)

 

§  prevedere, in ogni caso, che le specifiche garanzie per l’accesso ai programmi di giustizia riparativa e per il loro svolgimento includano: l’informazione alla vittima del reato e all’autore del reato circa i servizi di giustizia riparativa disponibili; il diritto all’assistenza linguistica; la rispondenza dei programmi di giustizia riparativa all’interesse della vittima, dell’autore del reato e della comunità; la ritrattabilità del consenso; la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso delle parti o che la divulgazione sia indispensabile per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e salvo che le dichiarazioni integrino di per sé reato, nonché la loro inutilizzabilità nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena (lettera d);

 

L’art. 12 della Direttiva 2012/29/UE impone agli Stati membri di adottare misure che garantiscono la protezione delle vittime dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall’intimidazione e dalle ritorsioni, applicabili in caso di ricorso a eventuali servizi di giustizia riparativa. Siffatte misure assicurano che una vittima che sceglie di partecipare a procedimenti di giustizia riparativa abbia accesso a servizi di giustizia riparativa sicuri e competenti, e almeno alle seguenti condizioni: a) si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in base ad eventuali considerazioni di sicurezza, e se sono basati sul suo consenso libero e informato, che può essere revocato in qualsiasi momento; b) prima di acconsentire a partecipare al procedimento di giustizia riparativa, la vittima riceve informazioni complete e obiettive in merito al procedimento stesso e al suo potenziale esito, così come informazioni sulle modalità di controllo dell’esecuzione di un eventuale accordo; c) l’autore del reato ha riconosciuto i fatti essenziali del caso; d) ogni accordo è raggiunto volontariamente e può essere preso in considerazione in ogni eventuale procedimento penale ulteriore; e) le discussioni non pubbliche che hanno luogo nell’ambito di procedimenti di giustizia riparativa sono riservate e possono essere successivamente divulgate solo con l’accordo delle parti o se lo richiede il diritto nazionale per preminenti motivi di interesse pubblico. 2. Gli Stati membri facilitano il rinvio dei casi, se opportuno, ai servizi di giustizia riparativa, anche stabilendo procedure o orientamenti relativi alle condizioni di tale rinvio.

 

§  prevedere che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato sia nel procedimento penale che in sede esecutiva; prevedere che un esito di non fattibilità di un programma di giustizia riparativa o un suo fallimento non producano effetti negativi a carico della vittima o dell’autore del reato nel procedimento penale o in sede esecutiva (lettera e);

§  disciplinare la formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa (lettera f);

 

Si ricorda che la Direttiva 2012/29/UE prevede che gli «Stati membri incoraggiano iniziative che consentano a coloro che forniscono servizi di assistenza alle vittime e di giustizia riparativa di ricevere un’adeguata formazione, di livello appropriato al tipo di contatto che intrattengono con le vittime, e rispettino le norme professionali per garantire che i loro servizi siano forniti in modo imparziale, rispettoso e professionale» (art. 25, par. 4).

 

§  individuare i livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni dei servizi per la giustizia riparativa, prevedendo che siano erogati da strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia, presenti in ciascun distretto di corte d’appello (lettera g).

 

I commi 19 e 20 recano la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall’articolo in esame, quantificati in 4.438.524 euro a decorrere dall’anno 2022.


 

Articolo 1, comma21
(Disposizioni in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto)

 

 

L’articolo 1, comma 21 delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni, con la possibilità di prevedere eccezioni per specifici reati e con l’obbligo di precludere sempre l’accesso all’istituto in caso di reati di violenza domestica puniti con pena detentiva superiore nel massimo a 5 anni.

 

Il d.lgs. n. 28 del 2015 ha introdotto nel nostro ordinamento penale, in attuazione della legge delega n. 67 del 2014, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).

L’istituto riguarda i reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla suddetta pena detentiva. Ai fini della determinazione della pena detentiva, non si tiene conto delle circostanze del reato, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. Inoltre, la non punibilità può trovare applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.

La non punibilità opera quando:

- l'offesa è di particolare tenuità e

- il comportamento non risulta abituale.

Sono individuati due indici-criteri ai fini dell'esclusione della punibilità: le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo ed è precisato (secondo comma dell’art. 131-bis) che l'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità quando l'autore:

- ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali;

- ha adoperato sevizie;

- ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa.

Analogamente, non può esservi tenuità quando:

- la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona;

- si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei casi di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale e oltraggio a pubblico ufficiale, quando il reato è commesso nei confronti di un agente nell'esercizio delle proprie funzioni, e nell'ipotesi di oltraggio a un magistrato in udienza.

L’introduzione dell’istituto ha comportato anche interventi sul codice di procedura penale e sulle relative disposizioni di attuazione.

In primo luogo è prevista la possibilità per il giudice delle indagini preliminari (GIP) di archiviare il procedimento per particolare tenuità del fatto (art. 411 c.p.p.), su richiesta del pubblico ministero, che ne deve dare avviso all'indagato e alla persona offesa che abbia chiesto di esserne informata. L'avviso deve precisare che, nel termine di dieci giorni, l'indagato e la persona offesa possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui debbono indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso dalla richiesta. Il giudice decide in camera di consiglio.

È poi stabilito che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto possa essere dichiarata d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Il giudice può emettere sentenza di proscioglimento (non doversi procedere) in sede predibattimentale (art. 469 c.p.p.) per la non punibilità dell'imputato; deve, tuttavia, essere sentita in camera di consiglio anche la persona offesa (così consentendo di acquisire il suo parere sull'effettiva tenuità del fatto-reato); l'intervento della vittima non è invece previsto in sede di udienza preliminare o in dibattimento, in cui il contraddittorio è già garantito.

È inoltre previsto che il giudicato penale sulla particolare tenuità del fatto, presupponendo comunque un accertamento sull'esistenza del reato e sul fatto che sia stato l'imputato a commetterlo, risulta efficace nell'eventuale giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso (art. 651-bis c.p.p.).

È infine stabilito che anche i provvedimenti che hanno dichiarato la non punibilità per la particolare tenuità del fatto vengano iscritti per estratto nel casellario giudiziale.

Statistiche (fonte: Ministero della Giustizia): nel 2019, su 26.000 provvedimenti che hanno applicato l’art. 131-bis c.p., 15.000 – oltre la metà – sono provvedimenti di archiviazione. Il furto è la figura di reato che più spesso è oggetto di provvedimenti ex art. 131-bis c.p. (oltre 5.000, in quello stesso anno).

 

 

In particolare, in base alla lettera a), il Governo dovrà prevedere come limite all’applicabilità dell’istituto della tenuità del fatto, al posto della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria.

 

La Commissione Lattanzi ha ritenuto che «l’operatività della causa di esclusione della punibilità, prevista in rapporto ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, appare oggi, nondimeno, eccessivamente limitata, peraltro con aspetti di irragionevolezza già censurati dalla Corte costituzionale con la sentenza 21 luglio 2020 n. 156, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione “nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva”. Nel caso oggetto della decisione della Corte costituzionale si trattava di un fatto di ricettazione di particolare tenuità, relativo ad alcune confezioni di rasoi e lamette da barba di provenienza furtiva; un fatto punito dall’art. 648, co. 2 c.p. con la reclusione sino a 6 anni (cioè, ex art. 23 c.p., da 15 giorni a sei anni) e che pertanto, in ragione del limite di pena massima di cui all’art. 131-bis, co. 1 c.p., non avrebbe potuto essere dichiarato non punibile. […] Evidenti ragioni di opportunità e di riconduzione del sistema a razionalità suggeriscono oggi di estendere l’operatività dell’art. 131-bis c.p. facendo riferimento non più al limite massimo bensì al limite minimo edittale, secondo una proposta da tempo avanzata da diversi studiosi e da commissioni di studio istituite nel recente passato presso il Ministero della Giustizia. Come conferma la citata sentenza della Corte costituzionale, quando si tratta di individuare sottofattispecie bagatellari, nell’ambito di una determinata figura di reato, assume rilievo il minimo edittale della pena comminata dal legislatore: non già il massimo. D’altra parte, la scelta politica essenziale in ordine alla gravità del reato è espressa dal minimo edittale, ossia dalla soglia di pena in concreto al di sotto della quale, comunque, non potrà scendere il giudice in sede di commisurazione infraedittale».

La Commissione Lattanzi, peraltro, aveva avanzato la proposta di determinare la soglia minima edittale di pena detentiva in tre anni; il legislatore ha invece abbassato la soglia a 2 anni, riducendo dunque il campo d’applicazione dell’istituto rispetto a quanto proposto dalla Commissione di studi.

 

Da una prima analisi delle fattispecie contenute nel codice penale, e senza pretesa di esaustività, emerge come, con l’applicazione di questo nuovo criterio, sarebbe in astratto possibile dichiarare la non punibilità per particolare tenuità del fatto in relazione ai seguenti delitti, al momento esclusi dal campo d’applicazione dell’istituto (perché puniti con pena massima superiore a 5 anni):

 

Riferimento normativo (art./co.)

Rubrica

Pena edittale
(minimo-massimo) in anni o frazione di anni

250

Commercio col nemico

2-8

256, III co.

Procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato

2-8

270-quinquies.2

Sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro

2-6

302

Istigazione a commettere alcuno dei delitti preveduti dai capi primo e secondo

1-8

304

Cospirazione politica mediante accordo

1-6

305, II co.

Cospirazione politica mediante associazione

2-8

322, I co.

Istigazione alla corruzione

2-6

338

Violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti

1-7

368

Calunnia

2-6

372

Falsa testimonianza

2-6

373

Falsa perizia o interpretazione

2-6

377-bis

Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria

2-6

382

Millantato credito del patrocinatore

2-8

391-bis

Agevolazione delle comunicazioni dei detenuti sottoposti alle restrizioni di cui all'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. Comunicazioni in elusione delle prescrizioni

2-6

411

Distruzione, soppressione o sottrazione di cadavere

2-7

431

Pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento

2-6

436

Sottrazione, occultamento o guasto di apparecchi a pubblica difesa da infortuni

2-7

452-bis

Inquinamento ambientale

2-6

452-sexies

Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività

2-6

452-quaterdecies

Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti

1-6

460

Contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di bollo

2-6

476

Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici

1-6

479

Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici

1-6

495

Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri

1-6

495-ter

Fraudolente alterazioni per impedire l'identificazione o l'accertamento di qualità personali

1-6

512-bis

Trasferimento fraudolento di valori

2-6

513-bis

Illecita concorrenza con minaccia o violenza

2-6

588, II co.

Rissa

6 mesi-6

589, II co.

Omicidio colposo (violazione norme infortuni lavoro)

2-7

589-bis

Omicidio stradale

2-7

600-bis, II co.

Prostituzione minorile

1-6

603-bis

Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro

1-6

604-bis, III co.

Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa

2-6

605

Sequestro di persona

0,5-8

612-bis

Atti persecutori [9]

1-6,5

612-ter

Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti [10]

1-6

640-bis

Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche

2-7

643

Circonvenzione di persone incapaci

2-6

644

Usura

2-10

648

Ricettazione

2-8

648-ter.1

Autoriciclaggio

2-8

 

Il Governo potrà peraltro, «se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica», ampliare le preclusioni all’accesso all’istituto attualmente previste dall’art. 131-bis, secondo comma, c.p. (v. sopra). Dovrà comunque essere preclusa l’applicazione dell’istituto della tenuità del fatto ai reati “riconducibili alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”.

Trattandosi di un intervento in materia penale, si valuti l’opportunità di specificare il catalogo dei reati “riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa”.

Ciò comporterà ad esempio l’impossibilità di ritenere tenue un fatto di stalking (art. 612-bis c.p., punito con pena detentiva da un anno a 6 anni e mezzo) o una diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p., punito con pena detentiva da uno a 6 anni).

Si ricorda che l’articolo 2, comma 11, in materia di tutela delle vittime, richiama il catalogo di reati cui si applicano le misure di tutela delle vittime di violenza domestica e sulle donne introdotte dalla legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) (v. infra, art. 2, comma 11)

 

 

Inoltre, in base alla lettera b), il Governo è delegato a tenere in considerazione, ai fini della valutazione della tenuità dell’offesa, la condotta susseguente al reato.

 


 

Articolo 1, comma 22
(Disposizioni in materia di sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato)

 

L’articolo 1, comma 22, inserito nel corso dell’esame in sede referente, delega il Governo a estendere l’ambito di applicabilità dell’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato (di cui all’art. 168-bis c.p.) a specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto. Si prevede inoltre che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero.

 

Si ricorda che l’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato è stato inserito nel codice penale, agli articoli da 168-bis a 168-quater, dalla legge n. 67 del 2014, che l’ha significativamente collocato tra le cause estintive del reato. Si tratta di un istituto espressione della giustizia cd. riparativa, applicabile esclusivamente a reati considerati di minor allarme sociale, finalizzato, da un lato, a deflazionare il carico dei processi e, dall’altro, a garantire il reinserimento sociale del reo mediante un percorso di prova (caratterizzato dallo svolgimento di attività lato sensu socialmente utili e dal coinvolgimento, anche mediante restituzioni e risarcimento del danno, della persona offesa, figura centrale del procedimento) il cui esito positivo comporta l’estinzione del reato.

In sintesi, l’istituto si può applicare, a richiesta dell’imputato, in relazione ai procedimenti per reati:

- puniti con pena pecuniaria,

- puniti con reclusione fino a 4 anni (sola, congiunta o alternativa a pena pecuniaria);

- in relazione ai quali l'art. 550, comma 2, c.p.p. prevede la citazione diretta a giudizio (si tratta dei seguenti reati: a) violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.); b) resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.); c) oltraggio a un magistrato in udienza aggravato (art. 343, II co., c.p.); d) violazione di sigilli aggravata (art. 349, II co., c.p.); e) rissa aggravata (art. 588, II co., c.p.), con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; e-bis) lesioni personali stradali, anche se aggravate (art. 590-bis c.p.); f) furto aggravato (art. 625 c.p.); g) ricettazione (art. 648 c.p.).

La sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato non può essere concessa più di una volta.

La misura consiste in condotte riparatorie volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ove possibile in misure risarcitorie del danno, nell'affidamento dell'imputato al servizio sociale e nella prestazione di lavoro di pubblica utilità.

Durante il periodo di sospensione del processo con messa alla prova, il corso della prescrizione è sospeso; al termine della misura, se il comportamento dell'imputato è valutato positivamente, il giudice dichiara l'estinzione del reato, restando comunque applicabili le eventuali sanzioni amministrative accessorie (art. 168-ter c.p.).

Possono comportare la revoca della messa alla prova, la trasgressione grave del programma di trattamento, ovvero la reiterata trasgressione dello stesso o il rifiuto di prestare il lavoro di pubblica utilità, o la commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede (art. 168-quater c.p.).

Contestualmente alle modifiche al codice penale, il legislatore è intervenuto sul codice di rito, inserendo gli articoli da 464-bis a 464-novies (l’istituto si colloca nell’alveo dei riti speciali, trattandosi di procedimento alternativo rispetto al rito ordinario, instaurato per scelta dell’imputato), sulle disposizioni di attuazione (ai sensi dell’art. 141-ter, co.1, disp. att. c.p.p., le funzioni dei servizi sociali per la messa alla prova sono svolte dall’ufficio di esecuzione penale esterna UEPE) che sul Testo Unico sul casellario giudiziale.

 

 

In particolare, la lettera a) delega il Governo a estendere l’ambito di applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato a specifici ulteriori reati, oltre a quelli già previsti attraverso il richiamo alla citazione diretta a giudizio di cui all’art. 550, comma 2, c.p.p. (v. sopra), che abbiano le seguenti caratteristiche:

§  che siano puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a 6 anni;

§  che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto.

 

Si evidenzia che la Commissione Lattanzi aveva proposto di estendere l’ambito di applicabilità dell’istituto ad ulteriori specifici reati, puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a dieci anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, e risultino compatibili con l’istituto.

 

 

La lettera b) delega inoltre il Governo a prevedere che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere avanzata anche dal pubblico ministero. Data la natura dell’istituto, evidentemente non si potrà comunque prescindere dal consenso dell’imputato.

 

Attualmente, il rito si instaura su esclusiva iniziativa dell’imputato (art. 464-bis c.p.p.) che così implicitamente rinuncia al contraddittorio. Il consenso dell’imputato caratterizza diversi momenti della procedura, connotando non solo la fase dell’accesso, ma anche quella dell’esecuzione del programma di trattamento legato alla sospensione del processo e, infine, le proposte di modifica dello stesso. La richiesta, che rappresenta un atto cd. personalissimo, da espletare personalmente o a mezzo di procuratore speciale, oralmente o per iscritto, con firma autenticata nel caso in cui la richiesta sia effettuata dal procuratore speciale, deve essere rivolta al giudice che procede, ed incontra il termine della formulazione delle conclusioni ex artt. 421 e 422 c.p.p. se avanzata nel corso dell’udienza preliminare; può essere presentata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo o nel procedimento instaurato con citazione diretta a giudizio; nel termine di cui all’art. 458, co. 1, c.p.p. nel caso di giudizio immediato; con l’atto di opposizione, nel caso di decreto penale di condanna.

Nessun consenso, analogamente a quanto previsto per il giudizio abbreviato, deve essere espresso in tale fase dal pubblico ministero, la cui valutazione è, invece, richiesta in caso di domanda di sospensione del procedimento presentata nel corso delle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 464-ter c.p.p.

Parere del pubblico ministero che, in ogni caso, non è vincolante per il giudice che può comunque disporre la sospensione del procedimento per messa alla prova, fermo restando il diritto della pubblica accusa di impugnare il provvedimento con ricorso per cassazione.

Ai sensi dell’art. 141-bis disp. att. c.p.p., il pubblico ministero, anche prima dell’esercizio dell’azione penale, può avvisare l’interessato, ove ne ricorrano i presupposti, che ha la facoltà di chiedere di essere ammesso alla prova e che l’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato.

 

 

 


 

Articolo 1, comma 23
(Disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni)

 

L’articolo 1,  comma 23 enuncia princìpi e criteri direttivi cui il Governo dovrà attenersi nell'esercizio della delega in materia di contravvenzioni.

 

Il legislatore delegato è chiamato in primo luogo a prevedere:

 

§  una causa di estinzione delle contravvenzioni destinata a operare nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall'organo accertatore e del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa;

 

Il codice penale, nel titolo VI, distingue le cause di estinzione del reato (capo I) dalle cause di estinzione della pena (capo II). Secondo un tradizionale criterio di distinzione, le prime operano antecedentemente la pronuncia di una sentenza definitiva di condanna ed eliminano qualunque espressione della potestà punitiva statuale; le seconde presuppongono, invece, l’emanazione di una sentenza di condanna, ma ne inficiano l'esecuzione.

Le cause generali di estinzione del reato sono:

   la morte del reo prima della condanna;

   la remissione della querela;

   l’amnistia propria, precedente cioè alla condanna;

   la prescrizione;

   l’oblazione nelle contravvenzioni;

   la sospensione condizionale;

   il perdono giudiziale.

Con particolare riguardo alla oblazione delle contravvenzioni si ricorda che la proposizione della domanda di oblazione e il pagamento della somma prevista impediscono il giudizio di merito: l’accertamento del giudice penale è limitato alla sussistenza dei presupposti dell’istituto cui segue un decreto di archiviazione o una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato si distingue.

Si distinguono due categorie fondamentali di oblazione:

-          l'oblazione ordinaria o processuale prevista dagli articoli 162 e 162 bis c.p. L'articolo 162 c.p. prevede che nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell'ammenda il contravventore è ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento. La previsione dell'art. 162-bis, introdotta dall'art. 126, legge n. 689 del 1981, amplia l'ambito di applicazione dell'oblazione alle contravvenzioni punite con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda. La concessione dell'oblazione è subordinata ad una valutazione discrezionale del giudice ed al rispetto dei presupposti soggettivi e oggettivi fissati dalla legge. È, inoltre, disposto il pagamento di una somma più elevata di quella prevista all'art. 162 c.p., determinata in misura pari alla metà del massimo dell'ammenda prevista per la contravvenzione.

-          l'oblazione extra processuale anche nota come conciliazione amministrativa.  Quest’ultima può avvenire in via breve (quando il soggetto è ammesso a pagare una somma fissa direttamente all’atto della contestazione, al funzionario che vi ha proceduto prima della redazione del verbale di contravvenzione) o in via ordinaria (quando il soggetto, dopo la redazione del verbale di accertamento, è ammesso a pagare una somma di denaro all’amministrazione competente che trasmette gli atti all’autorità giudiziaria perché, accertata la regolarità del pagamento, dichiari estinto il reato).

La legge n. 103 del 2007 (c.d. Legge Orlando) ha poi introdotto nel codice penale all'articolo 162-ter una estinzione del reato (per effetto di condotte riparatorie). Tale disposizione stabilisce infatti che nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione il giudice dichiara estinto il reato sentite le parti e la persona offesa quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.

 

§  la possibilità della prestazione di lavoro di pubblica utilità in alternativa al pagamento della somma di denaro e la possibilità di attenuazione della pena nel caso di adempimento tardivo (lett.a).

 

 

In secondo luogo in sede di attuazione della delega il Governo dovrà individuare le contravvenzioni per le quali consentire l'accesso alla causa di estinzione di cui alla lettera a) tra quelle suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie, salvo che concorrano con delitti (lett.b).

 

 

Come si rileva nella relazione illustrativa dell’originario disegno di legge AC. 2435, l'individuazione di un gruppo di reati contravvenzionali in relazione ai quali, fermo restando per la polizia giudiziaria l'obbligo di riferire al pubblico ministero la notizia di reato (vedi infra), il procedimento penale è sospeso fino alla scadenza del termine che sarà concesso al contravventore per l'adempimento delle prescrizioni impostegli al fine di elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e per il pagamento di una somma di denaro (con possibilità, in alternativa, della prestazione di lavoro di pubblica utilità), ricalca un modello di estinzione del reato già sperimentato per le contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro e in materia ambientale. Tale intervento consentirebbe, inoltre - evidenzia sempre la relazione - di evitare al reo e al sistema giudiziario la celebrazione di un procedimento penale per reati meno gravi ogniqualvolta l'adempimento delle prescrizioni e il pagamento di una sanzione pecuniaria o la prestazione di lavoro di pubblica utilità garantiscono in tempi rapidi il ripristino dell'ordine giuridico violato dall'illecito e l'eliminazione di ogni conseguenza dannosa, effettiva o potenziale, derivante dallo stesso.

 

Ancora, il Governo è chiamato a mantenere fermo l'obbligo di riferire la notizia di reato ai sensi dell'articolo 347 c.p.p. (lett.c).

 

L'articolo 347 c.p.p. disciplina le attività della polizia giudiziaria relative alla acquisizione della notizia di reato. Con riguardo a tali attività la polizia giudiziaria: riferisce al PM senza ritardo e per iscritto gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi raccolti; indica le fonti di prova e le attività compiute; comunica, ove possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione dell'indagato, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti; indica il giorno e l'ora in cui è stata acquisita la notizia. Tutte queste attività vengono documentate in un atto comunemente denominato informativa di reato.

 

Infine il Governo è chiamato a prevedere la sospensione del procedimento penale dal momento della iscrizione della notizia di reato nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) fino al momento in cui il PM riceve comunicazione dell'adempimento o dell'inadempimento delle prescrizioni e del pagamento della somma di denaro di cui alla lettera a) e la fissazione di un termine massimo per la comunicazione stessa (lett. d).

 

 


 

Articolo 1, comma 24
(Disposizioni in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione)

 

L’articolo 1, comma 24 reca i princìpi e criteri direttivi ai quali il Governo deve adeguarsi nell'esercizio della delega in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione.

In particolare, a seguito dell’esame in sede referente, il Governo è chiamato a modificare il codice di procedura penale, prevedendo il diritto della persona sottoposta alle indagini (e dei soggetti interessati) a proporre opposizione al GIP avverso il decreto di perquisizione al quale non abbia fatto seguito un provvedimento di sequestro.

Questo intervento intende dare seguito alla sentenza del 27 settembre 2018 (Brazzi v. Italia), con la quale la Corte europea dei diritti, ha condannato l'Italia per violazione dell'articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata) in un caso di perquisizione domiciliare disposta dal pubblico ministero, non seguita da sequestro, ritenendo che il ricorrente non disponesse né di un controllo di legalità ex ante della misura né di un sindacato ex post della legittimità della stessa.

 

 

La Commissione Lattanzi ha proposto al Governo di introdurre un apposito rimedio affidato al giudice per le indagini preliminari che consente all’indagato o agli interessati di attivare un  controllo  sulla  perquisizione  soltanto nell’ipotesi alla perquisizione non faccia seguito il provvedimento di sequestro  posto  che,  laddove interviene il sequestro è già disponibile un’impugnazione specifica. La Commissione ha suggerito di plasmare  il  rimedio  come  opposizione, sulla  falsariga  di  quanto  previsto  con  riguardo  ad  altro mezzo  di  ricerca  della  prova,  ossia  al  sequestro:  nel  corso  delle  indagini  preliminari,  sulla restituzione delle cose sequestrate provvede il pubblico ministero con decreto motivato, contro il quale gli interessati possono proporre opposizione ai sensi dell’art. 263, comma 5, c.p.p.

 

In generale, si ricorda che la perquisizione - mezzo di ricerca del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, nonché mezzo di ricerca della persona destinataria di un provvedimento restrittivo della libertà - è disposta, ai sensi dell'articolo 247 c.p.p., con decreto motivato, dall'autorità giudiziaria. É delegabile ad un ufficiale di polizia giudiziaria e può investire sia luoghi o cose sia persone.

La perquisizione personale, in particolare, è disposta in presenza del fondato sospetto che taluno occulti sulla propria persona il corpo del reato o le cose ad esso pertinenti. La perquisizione locale (e domiciliare), invece, è legata al fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l'arresto dell'imputato o dell'evaso.

Ai sensi dell'articolo 250 c.p.p. il decreto che dispone la perquisizione locale va consegnato, in copia, all'indagato o all'imputato, se presente, e a chi abbia l'attuale disponibilità del luogo. All'atto della consegna gli interessati vanno avvisati della facoltà di farsi rappresentare o assistere da persona di fiducia, purché questa sia prontamente reperibile e idonea ad assumere la veste di testimone ad atti processuali. In assenza di tali persone, la copia del decreto è consegnata e l'avviso è rivolto a un congiunto, un coabitante o un collaboratore ovvero, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. Se non è possibile provvedere neppure in questo modo, copia del decreto di perquisizione è depositata presso la cancelleria o la segreteria dell'autorità giudiziaria che procede e dell'avvenuto deposito è affisso avviso alla porta del luogo sottoposto a perquisizione.

Nel procedere alla perquisizione locale, l'autorità giudiziaria può disporre con ulteriore decreto motivato che siano perquisite le persone presenti o sopraggiunte, quando ritiene che le stesse possano occultare il corpo del reato o cose pertinenti al reato. Può inoltre ordinare, enunciando nel verbale i motivi del provvedimento, che taluno non si allontani prima che le operazioni siano concluse. Il trasgressore è trattenuto o ricondotto coattivamente sul posto.

Specifica tutela è apprestata quando il luogo oggetto di perquisizione sia il domicilio dell'interessato. Con particolare riguardo alla perquisizione domiciliare l'articolo 251 c.p.p. stabilisce infatti precisi limiti temporali, vietando che la perquisizione possa compiersi nelle ore dalle 20 alle 7, tranne che nei casi urgenti, previa autorizzazione dell'Autorità giudiziaria.

 

Avverso il decreto di perquisizione la giurisprudenza è uniformemente orientata nel senso di escludere la possibilità di proporre riesame. La Cassazione, a Sezioni Unite, (sentenza 20 novembre 1996, n. 23) ha espressamente chiarito che, in forza del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione stabilito dall'art. 568 c.p.p., l'istituto del riesame non è applicabile al decreto di perquisizione perché manca l'espressa previsione di tale rimedio con riferimento al provvedimento de quo. Tuttavia, qualora la perquisizione sia finalizzata al sequestro e i due decreti siano inseriti in un unico contesto, il riesame coinvolge anche la perquisizione per la stretta interdipendenza delle due statuizioni, nei limiti, però, di un'indagine strumentale all'accertamento della legittimità del sequestro medesimo. Conseguentemente, in sede di riesame, i motivi che costituiscono autonoma censura di perquisizione non possono essere presi in considerazione.

 

Diversamente, con riferimento alla proponibilità del ricorso per cassazione, si è delineato un contrasto giurisprudenziale. Ad un orientamento prevalente (si veda per tutte Cass., Sez. V, 19 dicembre 2000, n. 6502) secondo cui, in ossequio al principio di tassatività dei casi e dei mezzi di impugnazione di cui all'art. 568, 1° co., il decreto che dispone la perquisizione è inoppugnabile, si oppone altro indirizzo secondo cui, ferma restando la non esperibilità del rimedio del riesame, sarebbe consentito, in virtù della clausola generale di cui all'art. 568, 2° co., il ricorso per cassazione, essendo il decreto di perquisizione disposto dal P.M. provvedimento che incide sulla libertà personale (si veda Cass., Sez. III, 4 febbraio 2000, n. 562).


 

Articolo 1, comma 25
(Disposizioni in materia di comunicazione della sentenza)

 

L’articolo 1, comma 25 introduce uno specifico criterio di delega in base al quale il Governo è delegato a prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l'emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati.

 

Il riferimento al diritto all'oblio è divenuto espresso con il Regolamento (UE) n. 2016/679, Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati noto come GDPR, alle cui disposizioni la normativa nazionale è stata adeguata con il D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101. Il GDPR all'art. 17, nel primo paragrafo, lett. f), introduce un espresso riferimento al diritto all'oblio, chiarito nel suo portato dal 65C Considerando là dove esso è menzionato, tra parentesi, in una disposizione dedicata alla "cancellazione" dei dati personali.

Sul “diritto alla deindicizzazione” la giurisprudenza ha rcentemente precisato che, il diritto di ogni persona all'oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all'identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all'informazione, sicché, anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 17 Regolamento (UE) 2016/679, qualora sia pubblicato sul "web" un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la "deindicizzazione" dell'articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest'ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate Cass. civ. Sez. I Ord., 31/05/2021, n. 15160).

 

 

 


 

Articolo 1, commi 26 -28
(Ufficio per il processo penale)

 

L’articolo 1, commi da 26 a 28, delega il Governo a modificare la disciplina vigente dell’ufficio per il processo istituito presso i tribunali e le corti d'appello.

 

Si ricorda che l’Ufficio per il Processo è stato istituito dal decreto legge 90/2014, che ha inserito l’articolo 16-opties nel decreto-legge n. 179 del 2012. In tale disposizione si prevede espressamente la creazione di strutture organizzative denominate “Ufficio per il Processo”, “al fine di garantire la ragionevole durata del processo”, nonché allo scopo di assicurare “un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Il terzo compito affidato dal legislatore all’Ufficio per il processo si ritrova nell’art. 7 del D.M. 1/10/2015, che affida a tale struttura organizzativa la realizzazione della Banca dati della giurisprudenza di merito.

L'ufficio per il processo è una struttura organizzativa attualmente composta:

   da personale di cancelleria

   dai giovani laureati o laureandi, scelti tra i più meritevoli, che svolgono presso detti uffici il tirocinio formativo di 18 mesi (ex art. 73 del D.L. 69/2013) ovvero la formazione professionale nel primo anno del corso di dottorato di ricerca, del corso di specializzazione per le professioni legali o della pratica forense (ex art. 37, D.L. 98/2011);

   per le sole corti d'appello, anche dai giudici ausiliari già previsti per lo smaltimento dell'arretrato civile (ex art. 62, D.L. 69/2013); dell'ufficio del processo presso i tribunali sono chiamati a far parte anche i GOT (giudici onorari di tribunale), previsti dall'art. 42-ter dell'ordinamento giudiziario (R.D. 12/1941).

Le disposizioni attuative dell'ufficio del processo sono di competenza del Ministero della giustizia e del CSM: con il DM giustizia del 1° ottobre 2015 sono state dettate le misure organizzative necessarie per il funzionamento dell'ufficio per il processo; con la delibera del 24 luglio 2019 il CSM ha approvato la risoluzione sui tirocini formativi presso gli uffici giudiziari. In precedenza, con la delibera del 18 luglio 2018, il CSM aveva reso obbligatoria l'istituzione degli UPP.

L’art. 10 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116, contiene la disciplina relativa alla destinazione dei giudici onorari di pace nell'ufficio per il processo.

Il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) inserisce tra gli obiettivi prioritari, nel settore della giustizia, al fine di ridurre la durata dei giudizi, quello di portare a piena attuazione l'Ufficio del processo, stanziando allo scopo 2.342,1 milioni di euro. L'obiettivo principale dell'intervento è offrire un concreto ausilio alla giurisdizione, così da poter determinare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari per sostenere il sistema nell'obiettivo dell'abbattimento dell'arretrato e ridurre la durata dei procedimenti civili e penali. Il Governo, nel PNRR, prevede di realizzare l'obiettivo, in primo luogo, attraverso il potenziamento dello staff del magistrato con professionalità in grado di collaborare in tutte le attività collaterali al giudicare (ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti).

A tal fine, per quanto riguarda la giustizia ordinaria, viene finanziato con 2.300 milioni di euro (Investimento M1-C1-I.3.1) un piano straordinario di assunzioni a tempo determinato per supportare i giudici nell'evasione delle pratiche procedurali pendenti e garantire le necessarie competenze tecniche richieste per affrontare la trasformazione tecnologica e digitale.

 

Ai fini della riforma della normativa sull’ufficio del processo, il Governo è tenuto a prevedere:

§  una compiuta disciplina dell'ufficio per il processo penale negli uffici giudiziari di merito, individuando i requisiti professionali del personale da assegnarvi, sulla base di progetti tabellari, progetti organizzativi o convenzioni con enti ed istituzioni esterne, demandati ai dirigenti degli uffici giudiziari;

§  che agli addetti alla struttura, siano attribuiti i compiti di coadiuvare uno o più magistrati non solo per quanto riguarda gli atti utili all’esercizio della funzione giudiziaria (studio di fascicoli, giurisprudenza e dottrina; raccolta di precedenti) ma anche con riguardo all'accelerazione dei processi di innovazione tecnologica e per incrementare la capacità produttiva dell'ufficio (lett. a e b);

§  l’istituzione presso la Corte di cassazione nonché presso la Procura generale della Corte di cassazione, di una o più strutture organizzative denominate “ufficio per il processo”, attribuendo agli addetti specifici compiti di supporto e contributo ai magistrati (lett. da c a f)

 

Si segnala che il decreto-legge n. 80 del 2021, in corso di conversione (AC. 3243) contiene diverse disposizioni volte a realizzare la piena operatività delle strutture organizzative dell’ufficio del processo, secondo quanto previsto nel PNRR e tal fine:

- autorizza l’assunzione di addetti all’ufficio per il processo: 16.500 unità nell’ambito della giustizia ordinaria, e 326 unità, nell’ambito della giustizia amministrativa; entrambi i contingenti saranno assunti in due scaglioni, con contratto di lavoro a tempo determinato; con riferimento alle procedure assunzionali nell’ambito della giustizia ordinaria, specifica i titoli richiesti per l’accesso, i profili professionali il trattamento economico; individua altresì i profili professionali per le assunzioni da parte della Giustizia amministrativa; specifica che il servizio prestato con merito al termine del rapporto di lavoro presso l’ufficio del processo costituisce titolo per l’accesso a concorsi e attività professionali (art. 11);  

- demanda al Ministro della giustizia, l’individuazione dei tribunali o corti di appello cui assegnare gli addetti all’ufficio per il processo (art.12);

- disciplina il reclutamento di 5.410 unità di personale amministrativo, da assumere con contratti di lavoro a tempo determinato della durata di 36 mesi per assicurare la piena operatività dell’ufficio del processo e supportare gli obiettivi prefissati per il Ministero della Giustizia dal PNRR (art. 13).

 

 

Una delega per l’istituzione dell’Ufficio del processo penale è stata auspicata anche dalla Commissione Lattanzi, che ha sottolineato come «pur a fronte della indicata produzione normativa, questa preziosa struttura organizzativa non ha mai avuto una reale, piena operatività, specialmente in ambito penale, anche in ragione di una confusa delimitazione dei suoi compiti e una farraginosa definizione della sua articolazione soggettiva.

Per questa ragione si è ritenuto necessario articolare uno specifico punto di delega, allo scopo di incaricare il legislatore delegato di introdurre una compiuta disciplina della struttura organizzativa denominata “ufficio per il processo penale”, da istituire presso gli uffici giudiziari; di definire le professionalità che vi debbono essere addette e, soprattutto, di declinarne i compiti, già indicati nel criterio di delega nei termini seguenti:

- coadiuvare il magistrato nel compimento di tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giudiziaria, provvedendo, in particolare, allo studio dei fascicoli e alla preparazione dell’udienza, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, alla predisposizione delle minute dei provvedimenti;

- prestare assistenza ai fini dell’analisi delle pendenze e dei flussi delle sopravvenienze e ai fini del monitoraggio dei fascicoli più datati o la verifica delle comunicazioni e delle notifiche;

- incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, attraverso la valorizzazione e la messa a disposizione dei precedenti, con compiti di organizzazione delle decisioni, in particolare, quelle aventi un rilevante grado di “serialità” e con la creazione di una “banca dati” dell’Ufficio giudiziario di riferimento;

- fornire supporto al magistrato nell’accelerazione dei processi di innovazione tecnologica.

 


 

Articolo 2, comma 1
(Disposizioni in materia di prescrizione del reato)

 

L’articolo 2, composto da 24 commi, contiene disposizioni immediatamente precettive, che novellano la disciplina vigente contenuta nel codice penale, nel codice di procedura penale e nelle disposizioni di attuazione, in materia di prescrizione del reato, improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, identificazione delle persone sottoposte ad indagini e tutela della vittima del reato. L’articolo 2 contiene inoltre disposizioni di accompagnamento della riforma.

 

In particolare, il comma 1 interviene, con disposizioni immediatamente prescrittive, sulla disciplina del codice penale in materia di prescrizione dei reati con la finalità di:

§  confermare la regola, introdotta con la legge n. 3/2019 (c.d. Spazzacorrotti), secondo la quale il corso della prescrizione del reato si blocca con la sentenza di primo grado, sia essa di assoluzione o di condanna (lett. c);

§  escludere che al decreto penale di condanna, emesso fuori dal contraddittorio delle parti, possa conseguire l'effetto definitivamente interruttivo del corso della prescrizione (lett. b);

§  prevedere che se la sentenza viene annullata, con regressione del procedimento al primo grado o ad una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla pronuncia definitiva di annullamento (lett. c).

 

Il testo approvato dalla Commissione modifica significativamente - in combinato con le nuove disposizioni in materia di improcedibilità per superamento dei termini di durata dei giudizi di impugnazione (v. infra comma 2) - l’impianto del disegno di legge originario.

 

L’articolo 14 del disegno di legge originario interveniva sulla disciplina del codice penale:

- modificando l’istituto – introdotto dalla legge n. 3 del 2019 – che blocca la prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, prevedendo, dopo una sentenza di assoluzione, che il termine di prescrizione continui a correre e, dopo una sentenza di condanna, che il termine sia sospeso fino alla pronuncia definitiva, salva l’ipotesi di assoluzione in appello;

- consentendo, in caso di assoluzione in appello dopo la condanna in primo grado, il computo dei periodi di sospensione della prescrizione maturati dopo la condanna.

- prevedendo che in caso di assoluzione in primo grado, se il termine di prescrizione scade entro un anno dal deposito della sentenza, che lo stesso sia sospeso per massimo un anno e mezzo, al fine di consentire il giudizio di appello, e per massimo 6 mesi, al fine di consentire il giudizio in cassazione. Se durante tali sospensioni, si verifica un’ulteriore causa di sospensione, i termini sono prolungati e, in caso di conferma dell’assoluzione in appello, tali periodi di sospensione dovranno essere nuovamente computati.

 

In particolare la lettera c), comma 1, introduce nel codice penale il nuovo articolo 161-bis, rubricato “Cessazione del corso della prescrizione”, il quale prevede che:

§  il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado;

§  nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado, o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento.

Il nuovo articolo sulla cessazione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado conferma, in larga parte, l’attuale impianto della disciplina della prescrizione contenuta nel secondo comma dell’art. 159 c.p. così come modificato dalla legge n. 3 del 2019 (c.d. Spazzacorrotti), in base al quale il blocco della prescrizione opera dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado - sia di condanna che di assoluzione - fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del decreto di condanna.

Viene conseguentemente abrogato, dalla lettera a) del comma in esame, il citato secondo comma dell’art. 159 c.p.. Rispetto alla disciplina attuale, il blocco della prescrizione è collegato alla sentenza di primo grado, ma non più al decreto penale di condanna, il quale viene conseguentemente inserito tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione (v. infra).

 

Nonostante la legge n. 3/2019 sia intervenuta sulla disposizione che disciplina la sospensione della prescrizione, non di autentica sospensione si è trattato posto che dal momento della pronuncia della sentenza di primo grado non è più prevista alcuna possibilità che il corso della prescrizione riprenda a decorrere, fino alla definitività della sentenza.

Il comma secondo dell’art. 159 c.p. stabilisce infatti, come già detto, che, oltre che nelle ipotesi del primo comma, a partire dal 1° gennaio 2020, il corso della prescrizione viene sospeso dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del citato decreto.

Per un commento della legge n. 3 del 2019, e del precedente intervento normativo sull’istituto della prescrizione operato dalla legge n. 103 del 2017, si rinvia all’apposito “tema dell’attività parlamentare” ed ai dossier del Servizio studi ivi richiamati.

 

La medesima lettera a) abroga altresì il quarto comma dell’art. 159 c.p. che prevede attualmente che, nel  caso di sospensione del procedimento per assenza dell’imputato (art. 420-quater c.p.p.), la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti dal secondo comma dell'articolo 161 c.p. (che individua i termini massimi di prescrizione, in presenza di cause di interruzione del corso della prescrizione, diversamente modulandoli in rapporto al tipo di reato).

Tale abrogazione è conseguenziale all’introduzione, da parte del testo approvato dalla Commissione, della nuova disciplina del processo in assenza (v. art. 1, comma 7), caratterizzata dal superamento del modello sospensivo del procedimento e dall’introduzione di una specifica disciplina, anche agli effetti del computo dei termini di prescrizione del reato.

 

Attualmente, in base all’art. 159 c.p., nel caso di sospensione del procedimento per assenza dell’imputato (ex art. 420-quater c.p.p.), si sospende anche la prescrizione per un periodo non superiore (ex art. 161, secondo comma, c.p.) a un quarto del termine massimo, elevabile alla metà in funzione del reato per il quale si procede e dell’eventuale recidiva: ciò determina, almeno quanto ai processi per fatti non particolarmente gravi, il rischio della sospensione fino alla maturazione della prescrizione. La riforma proposta dall’art. 1, comma 7, prevede invece una disciplina specifica per il processo in assenza, che determina un allungamento dei termini di prescrizione allo scopo di evitare che il meccanismo sospensivo spinga l’imputato a sottrarsi dolosamente al processo, al solo scopo di far maturare i termini di prescrizione del reato.

 

La lettera b) incide sull’art. 160 c.p., che disciplina l’interruzione del corso della prescrizione, inserendo tra gli atti interruttivi della stessa il decreto penale di condanna, emesso in assenza di contraddittorio, il quale, come già detto, nella disciplina attuale (secondo comma dell’art. 159 c.p.) è equiparato alla sentenza di primo grado ai fini del blocco della prescrizione.

 

Si ricorda che il procedimento per decreto, previsto e disciplinato dagli artt. 459 c.p.p. e ss., si caratterizza per l'assenza del contraddittorio e l'emissione di un decreto penale di condanna inaudita altera parte su richiesta del PM, quando all'imputato deve essere applicata solo una pena pecuniaria.

Si ricorda inoltre che l'articolo 160 c.p. disciplina l'interruzione del corso della prescrizione collegandola, nella sua attuale formulazione:

-          all'ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell'arresto,

-          all'interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero, o al giudice,

-          all'invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l'interrogatorio,

-          al provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione,

-          alla richiesta di rinvio a giudizio,

-          al decreto di fissazione della udienza preliminare,

-          all'ordinanza che dispone il giudizio abbreviato,

-          al decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena,

-          alla presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo,

-          al decreto che dispone il giudizio immediato,

-          al decreto che dispone il giudizio

-          al decreto di citazione a giudizio.

 


 

Articolo 2, commi 2-6
(Disposizioni in materia di ragionevole durata dei giudizi di impugnazione)

 

L’articolo 2, commi da 2 a 6, introduce nel codice di procedura penale l’istituto dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.

 

In particolare, il comma 2 modifica il codice di procedura penale, anzitutto introducendovi, nella parte che disciplina le condizioni di procedibilità, un nuovo art. 344-bis rubricato Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del procedimento penale” (lettera a).

La nuova disposizione prevede, rispettivamente ai commi 1 e 2, che la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di 2 anni, e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno, costituiscano cause di improcedibilità dell’azione penale. Si tratta di termini corrispondenti a quelli di ragionevole durata previsti dalla legge Pinto per i rispettivi gradi di giudizio.

 

La disciplina processuale delle condizioni di procedibilità di cui agli artt. 336 e seguenti del codice di rito, che comprende l’istituto della querela e dell’autorizzazione a procedere, individua ipotesi eccezionali nelle quali l'esercizio dell'azione penale è subordinato all'integrazione di un fattore condizionante, cioè di un atto o un fatto in mancanza del quale, anche se la notizia di reato appare fondata, è inibito l'esercizio dell'azione penale. Quando della mancanza di una condizione di procedibilità non si avvede il PM, ma il procedimento prosegue, è il giudice che, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, anche per la prima volta in sede di legittimità, deve dichiarare sentenza di proscioglimento con formula "non doversi procedere", data la riscontrata carenza dell'essenziale presupposto del procedere e gli atti acquisiti in difetto della condizione prescritta sono irrimediabilmente inutilizzabili (ai sensi dell’art. 346 c.p.p.).

 

La conseguenza della improcedibilità è dunque, anche a fronte di una condanna in primo grado, il proscioglimento dell’imputato.

 

Il comma 3 del nuovo art. 344-bis c.p.p. prevede che i suddetti termini decorrano dal 90° giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza.

 

L’art. 544 c.p.p. prevede che, qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata della sentenza, vi si provvede non oltre il quindicesimo giorno da quello della pronuncia. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia.

L’art. 154 disp.att.c.p.p. prevede che il Presidente della Corte d'appello possa prorogare, su richiesta motivata del giudice che deve procedere alla redazione della motivazione, i termini previsti dall'articolo 544, per una sola volta e per un periodo massimo di novanta giorni, esonerando, se necessario, il giudice estensore da altri incarichi. Per i giudizi di primo grado provvede il presidente del tribunale. In ogni caso, del provvedimento è data comunicazione al Consiglio superiore della magistratura.

 

La decorrenza dei termini di durata dei giudizi di impugnazione viene così fissata tra un minimo di tre mesi dopo la pronuncia della sentenza (in caso di motivazione contestuale) a un massimo di nove mesi (in caso di termine massimo per il deposito, pari a novanta giorni, che sia stato prorogato nella misura massima prevista dalla legge, pari sempre a novanta giorni).

 

I termini di durata massima definiti dai commi 1 e 2 possono essere prorogati dal giudice che procede. Il comma 4 dell’art. 344-bis c.p.p, prevede infatti:

 

§   una possibile prorogafino a un anno per i giudizi d’appello e fino a 6 mesi per i giudizi in cassazione - applicabile a qualsiasi procedimento penale in presenza di requisiti di complessità (numero delle parti o delle imputazioni; numero o complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare);

§   ulteriori possibili proroghe, della medesima durata e per le medesime ragioni, senza un limite temporale massimo, applicabili solo ai procedimenti per i seguenti delitti:

 

Ø  delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni oppure nel massimo a 10 anni;

 

Si ricorda che in base all’art. 270-sexies c.p. sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia.

Dati i limiti edittali individuati, la proroga sarà ad esempio possibile per i reati di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico (art. 270-bis c.p.), arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quater c.p.), organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo (art. 270-quater.1 c.p.), addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quinquies. c.p.).

 

Ø  delitti di partecipazione a banda armata (art. 306, secondo comma, c.p.) e delitto di cui all’articolo 270, terzo comma, c.p.

 

L’art. 270 c.p. punisce con la reclusione da cinque a dieci anni chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato ovvero a sopprimere violentemente l'ordinamento politico e giuridico dello Stato (primo comma). Chiunque partecipa alle associazioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni (secondo comma). Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni di cui al primo comma, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento (terzo comma).

Si rileva dunque che il terzo comma dell’art. 270 c.p., richiamato nel testo, non prevede una fattispecie penale bensì l’aggravante di una fattispecie già ricompresa nel catalogo dei delitti con finalità terroristiche o di eversione puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni oppure nel massimo a 10 anni. Diverso è il caso del secondo comma, che analogamente al secondo comma dell’art. 306, punisce la partecipazione ad associazioni sovversive con una pena edittale inferiore nel minimo a 5 anni e inferiore nel massimo a 10.

 

Ø  delitti di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter c.p.);

 

Ø  delitti di violenza sessuale aggravata (art. 609-ter c.p.), di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.) e di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);

 

Ø  delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, TU stupefacenti – DPR n. 109 del 1990).

 

Un regime parzialmente differente è previsto per i delitti aggravati dal metodo mafioso e dall’agevolazione mafiosa, ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, c.p.. Tali delitti rientrano infatti tra quelli per i quali possono essere concesse “ulteriori proroghe”, ma per essi, a differenza che per gli altri sopra elencati, è stabilito un limite massimo ai periodi proroga, che non possono superare complessivamente 3 anni nel giudizio di appello e un anno e 6 mesi nel giudizio di cassazione.

 

L’art. art. 416-bis.1. c.p. prevede che, per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis (metodo mafioso e agevolazione mafiosa), ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

 

Si delinea quindi un sistema che prevede, a seconda dei reati per cui si procede, un diverso regime di improcedibilità e quindi di durata massima del giudizio:

-         per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di associazione mafiosa e di scambio elettorale politico-mafioso, di violenza sessuale aggravata e di traffico di stupefacenti, il termine dei 2 anni in appello e di un anno in Cassazione può essere prorogato, sempre per ragioni inerenti la complessità del giudizio, con successive proroghe, senza limiti di tempo: non è dunque fissato un limite di durata per tali giudizi;

-         per i delitti aggravati dal metodo mafioso e dall’agevolazione mafiosa ai sensi dell’articolo 416-bis.1, possono essere concesse proroghe fino ad un massimo di 3 anni per l’appello e un anno e 6 mesi per il giudizio di legittimità; in tali casi quindi la durata massima del giudizio in appello è di 5 anni e quella del giudizio in Cassazione è di 2 anni e 6 mesi (si veda però infra la norma transitoria);

-         per tutti gli altri reati è possibile solo una proroga di un anno per il giudizio di appello e di 6 mesi per il giudizio in Cassazione: la durata massima è quindi di 3 anni per l’appello e di 1 anno e 6 mesi per la Cassazione, sempre che ricorrano i motivi che giustificano la proroga (anche in tal caso si veda la norma transitoria).

 

Il comma 5 del nuovo art. 344-bis c.p.p disciplina la possibilità per l’imputato e il suo difensore di proporre ricorso per cassazione contro l’ordinanza che dispone la proroga dei termini previsti per il giudizio d’appello. Il ricorso, che non ha effetto sospensivo, deve essere presentato, a pena di inammissibilità, entro 5 giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione. La Corte di cassazione decide, in camera di consiglio, entro 30 giorni dalla ricezione degli atti. In caso di rigetto o dichiarazione di inammissibilità del ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza.,

Il comma 6 del nuovo art. 344-bis c.p.p., prevede la sospensione dei termini di durata massima del processo, con effetto per tutti gli imputati, negli stessi casi in cui è prevista la sospensione della prescrizione del reato (art. 159, co. 1 c.p.). Inoltre, nel giudizio d’appello è prevista la sospensione per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; in questo caso il periodo di sospensione tra un’udienza e l’altra non può comunque eccedere i sessanta giorni. Infine, con specifico riferimento alle ipotesi di irreperibilità dell’imputato, è prevista la sospensione dei termini quando sia necessario procedere a nuove ricerche per la notifica del decreto di citazione (ex art. 159 c.p.p.).

 

Il comma 7 prevede che l’imputato possa sempre rinunciare alla declaratoria di improcedibilità, chiedendo la prosecuzione del processo.

 

Si ricorda che analoga rinuncia alla prescrizione del reato è prevista dall’art. 157, settimo comma, c.p.

 

Con specifico riferimento al giudizio di appello, il comma 8 dell’art. 344-bis c.p.p. prevede che, fermo quanto previsto dalla disciplina sull’annullamento parziale, le disposizioni dei commi 1, 4, 5, 6 e 7 trovino applicazione anche nel giudizio conseguente all’annullamento della sentenza da parte della Cassazione, con rinvio al giudice competente per l’appello. In questo caso, il termine di durata massima del processo decorre dal 90° giorno successivo alla scadenza del termine previsto per il deposito della sentenza dall’art. 617 c.p.p (pari a massimo 30 giorni dalla deliberazione).

 

Infine, con disposizione anch’essa mutuata dalla disciplina della prescrizione (cfr. art. 157, ottavo comma, c.p.), il comma 9 esclude l’applicabilità della disciplina dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione ai procedimenti per i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti.

 

 

La lettera b) del comma 2 dell’articolo 2 novella l’art. 578 c.p.p., relativo alla decisione sugli effetti civili nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione.

 

La disposizione prevede che, quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

 

In particolare, è ampliata la rubrica dell’articolo per inserirvi anche l’ipotesi di decisione sugli effetti civili in caso di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.

È quindi inserito un nuovo comma 1-bis in base al quale, in caso di condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno in favore della parte civile, seguita da una declaratoria di improcedibilità, il giudice d’appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado d’appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale.

 

I commi da 3 a 5 dell’articolo 2 contengono la disciplina transitoria, in base alla quale, anzitutto, le disposizioni in materia di improcedibilità si applicano solo nei procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020 (data di entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, che ha previsto il blocco della prescrizione del reato nei giudizi di impugnazione).

In relazione a tali reati:

§  se i procedimenti sono già pervenuti al giudice d’appello o alla Corte di cassazione, i termini massimi di durata del processo decorrono dalla data di entrata in vigore della presente legge;

§  se l’impugnazione è proposta entro il 31 dicembre 2024, il termine di durata del giudizio d’appello è di 3 anni e quello di durata del giudizio in cassazione è di un anno e 6 mesi. Analoghi termini si applicano in caso di giudizio conseguente ad un annullamento con rinvio pronunciato entro il 2024.
Ciò per consentire una graduale applicazione della riforma, sia con riguardo alla norma sull’improcedibilità sia con riferimento alle misure di accelerazione del processo previste dal disegno di legge in esame e, più in generale, dagli interventi connessi all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

 

Infine, il comma 6 prevede che il Comitato tecnico scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale (v. infra art. 2, comma 16) e i dipartimenti competenti del Ministero della giustizia debbano riferire annualmente al Ministro sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sulla durata dei processi. I risultati del monitoraggio dovranno poi essere trasmessi al Consiglio superiore della magistratura.


 

Articolo 2, commi 7-10
(Compiuta identificazione della persona sottoposta ad indagini e dell’imputato)

 

 

L’articolo 2, ai commi da 7 a 10, introduce specifiche disposizioni volte ad assicurare la più compiuta identificazione di alcune categorie di persone sottoposte al procedimento penale, con specifico riguardo agli apolidi, alle persone della quali è ignota la cittadinanza, ai cittadini di uno Stato non appartenente all'Unione europea o cittadini dell'Unione europea privi del codice fiscale o che sono attualmente, o sono stati in passato, titolari anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all'Unione europea.

 

A tal fine, il comma 7 modifica l’articolo 66 c.p.p., con riguardo alla verifica dell’identità personale dell’imputato.

 

L’art. 66 c.p.p. disciplina la verifica dell'identità personale dell'imputato, specificando che nel primo atto cui è presente, l'autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant'altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false.

Il comma 2 prevede che l'impossibilità di attribuire all'imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell'autorità procedente, quando sia certa l'identità fisica della persona.

 

La novella è volta a specificare che nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale è riportato il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti il provvedimento è emesso, quando si procede nei confronti di:

§  apolidi o persone della quali è ignota la cittadinanza;

§  cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea

§  cittadini dell'Unione europea privi del codice fiscale o che sono attualmente, o sono stati in passato, titolari anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all'Unione europea.

 

Il d.P.R. 313 del 2002 (Testo unico del casellario) all'articolo 4, prevede che ogni provvedimento giudiziario e amministrativo è iscritto per estratto contenente i seguenti dati: cognome, nome, luogo e data di nascita, codice identificativo della persona cui si riferisce il provvedimento; codice identificativo è il codice fiscale per il cittadino italiano e per il cittadino di Stato dell'Unione europea che abbia il domicilio fiscale in Italia, nonché il codice individuato ai sensi dell'articolo 43 per il cittadino di Stato dell'Unione europea che non abbia il codice fiscale e per il cittadino di Stato non appartenente all'Unione europea.

L’art. 43 del medesimo Testo unico prevede che, al fine di consentire la sicura riferibilità di un procedimento ad un cittadino di Stato appartenente all'Unione europea, che non abbia il codice fiscale, o ad un cittadino di Stato non appartenente all'Unione europea, con decreto dirigenziale del Ministero della giustizia, di concerto con il Ministero dell'interno, sentiti la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie - e il Garante per la protezione dei dati personali, sono stabilite le regole tecniche che consentono, nei casi previsti dal presente testo unico, l'adozione di un codice identificativo attraverso l'utilizzazione del sistema di riconoscimento delle impronte digitali esistente presso il Ministero dell'interno. In attuazione di tale disposizione è stato adottato il Decreto dirett. 25 gennaio 2007.

Si ricorda inoltre che il Regolamento (UE) 2019/816, volto ad istituire un sistema centralizzato per individuare gli Stati membri in possesso di informazioni sulle condanne pronunciate a carico di cittadini di paesi terzi e apolidi (ECRIS - TCN) e ad integrare il sistema europeo di informazione sui casellari giudiziali, all’articolo 5 prevede che l'articolo 5 del Regolamento prevede che le autorità centrali degli Stati membri «per ciascun cittadino di paese terzo condannato» debbano provvedere a creare una «registrazione di dati» nel sistema centrale contenente, oltre ai tradizionali dati alfanumerici

anche i dati relativi alle impronte digitali che siano stati «rilevati conformemente al diritto nazionale nel corso di procedimenti penali» (e «come minimo, ... rilevati in base a uno dei seguenti criteri: - se il cittadino di paese terzo è stato condannato a una pena detentiva di almeno sei mesi; o - se il cittadino di paese terzo è stato condannato per un reato punibile, a norma del diritto dello Stato membro, con una pena detentiva della durata massima non inferiore a 12 mesi».

In base all'articolo 2, le disposizioni del Regolamento si applicano altresì «ai cittadini dell'Unione che possiedono anche la cittadinanza di un paese terzo e sono stato oggetto di condanne negli Stati membri».

Si ricorda infine che il Regolamento UE 2019/816 nella nozione di «cittadino di paese terzo» comprende chiunque non sia cittadino dell'Unione ai sensi dell'articolo 20, paragrafo 1, TFUE, l'apolide o qualsiasi persona la cui cittadinanza è ignota (art. 3 lett. n. 7).

 

 

Il comma 8 integra l’articolo 349 c.p.p, comma 2, che prevede attualmente che all’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini può procedersi anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti.

La novella è volta a specificare che tali rilievi debbono essere sempre eseguiti quando si procede nei confronti di un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero di un cittadino dell’Unione europea privo del codice fiscale o che è titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea. In tal caso, la polizia giudiziaria deve trasmettere al pubblico ministero copia del cartellino fotodattiloscopico e comunicare il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini.

 

Il comma 9 integra l’articolo 431 c.p.p, sulla formazione del fascicolo del dibattimento, inserendo tra gli atti che devono essere inseriti nello stesso una copia del cartellino fotodattiloscopico con indicazione del codice univoco identificativo, quando si procede nei confronti di un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero di un cittadino dell’Unione europea privo del codice fiscale o che è titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea.

 

Infine il comma 10 integra l’articolo 110 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, il quale elenca i certificati da richiedere quando il nome della persona alla quale il reato è attribuito è stato iscritto nel registro delle notizie di reato.

 

La formulazione dell’art. 110 prevede che, non appena il nome della persona alla quale il reato è attribuito è stato iscritto nel registro delle notizie di reato, la segreteria richiede: a) i certificati anagrafici; b) il certificato previsto dall'articolo 688 del codice; c) il certificato del casellario dei carichi pendenti; c-bis) il certificato del casellario giudiziale europeo.

 

Con la novella, che inserisce un nuovo comma 1-bis nell’art. 110, si dispone che la segreteria acquisisce altresì, ove necessario, una copia del cartellino fotodattiloscopico e provvede, in ogni caso, ad annotare il codice univoco identificativo della persona nel registro delle notizie di reato, quando la persona alla quale il reato è attribuito è un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero, pur essendo un cittadino dell’Unione europea, è privo del codice fiscale o è titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea.

 


 

Articolo 2, commi 11-13
(Modifiche in materia di tutela della vittima di reato)

 

L’articolo 2, ai commi da 11 a 13, integra le disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere introdotte con legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice rosso), estendendone la portata applicativa anche alle vittime dei suddetti reati in forma tentata e alle vittime di tentato omicidio.

 

In particolare, la portata applicativa di alcune disposizioni del codice di procedura penale a tutela delle vittime, che è attualmente limitata alle seguenti fattispecie delittuose:

§    maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.);

§    violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.)

§    atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.);

§    corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.);

§    atti persecutori (art. 612-bis c.p.);

§    lesioni personali aggravate da legami familiari e deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 582 e art. 583-bis aggravati ai sensi dell'art. 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell'art. 577, primo e secondo comma).

è estesa alle vittime dei suddetti reati, in forma tentata, e alle vittime di tentato omicidio (comma 11).

 

Con le novelle introdotte, si applicheranno dunque anche alle fattispecie di tentato omicidio ed ai delitti di violenza domestica e di genere in forma tentata le seguenti disposizioni, tutte introdotte nell’ordinamento dalla legge n. 69 del 2019:

§  la previsione (di cui all’art. 90-ter, comma 1-bis c.p.p.) in base alla quale le comunicazioni relative ai provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, nonché dell'evasione dell'imputato sono sempre effettuate alla persona offesa e al suo difensore, ove nominato;

§  la previsione (art. 362, comma 1 ter c.p.p.) in base alla quale il pubblico ministero assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall'iscrizione della notizia di reato, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell'interesse della persona offesa;

§  la previsione (art. 370, comma 2 bis c.p.p.) in base alla quale la polizia giudiziaria procede senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero;

§  la previsione (art. 659, comma 2 bis c.p.p.) in base alla quale quando a seguito di un provvedimento del giudice di sorveglianza deve essere disposta la scarcerazione del condannato, il pubblico ministero che cura l'esecuzione ne dà immediata comunicazione, a mezzo della polizia giudiziaria, alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore;

§  la previsione (di cui all’ art. 64-bis, disp. att .c.p.p) in base alla quale ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all'esercizio della potestà genitoriale, copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l'archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione a determinati reati è trasmessa senza ritardo al giudice civile procedente (comma 12);

§  la previsione (di cui all’art. 165 c.p.) relativa agli obblighi per il condannato in base alla quale nei casi di condanna per determinati delitti, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (comma 13).


 

Articolo 2, comma 14
(Disposizioni in materia di garanzie dei detenuti)

 

L’articolo 2, comma 14 interviene sull’art. 123 c.p.p., che prevede per l'imputato detenuto e per l'imputato in stato di arresto o di detenzione domiciliare o custodito in un luogo di cura, la facoltà di presentare impugnazioni, dichiarazioni e richieste, che devono essere immediatamente comunicate all'autorità competente.

Con la disposizione in esame si estende l’obbligo di contestuale comunicazione delle suddette dichiarazioni e richieste, anche al difensore nominato.

 

Si ricorda che l’art. 123 c.p.p contiene la disciplina in merito alle dichiarazioni e richieste di persone detenute o internate, prevedendo che l'imputato detenuto o internato in un istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza, ha facoltà di presentare impugnazioni, dichiarazioni e richieste con atto ricevuto dal direttore. Tali dichiarazioni sono iscritte in apposito registro e sono immediatamente comunicate all'autorità competente e hanno efficacia come se fossero ricevute direttamente dall'autorità giudiziaria. Quando l'imputato è in stato di arresto o di detenzione domiciliare ovvero è custodito in un luogo di cura, ha facoltà di presentare impugnazioni, dichiarazioni e richieste con atto ricevuto da un ufficiale di polizia giudiziaria, il quale ne cura l'immediata trasmissione all'autorità competente. Le impugnazioni, le dichiarazioni e le richieste hanno efficacia come se fossero ricevute direttamente dall'autorità giudiziaria.

 


 

Articolo 2, comma 15
(Disposizioni in materia di arresto obbligatorio in flagranza)

 

L’articolo 2, comma 15 interviene sull’art. 380 c.p.p., relativo ai delitti per i quali è obbligatorio procedere all’arresto in flagranza di reato.

La disposizione inserisce nel catalogo di tali delitti la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 387-bis c.p.

 

L’art. 387 bis c.p. dispone che chiunque, essendovi legalmente sottoposto, violi gli obblighi o i divieti derivanti dal provvedimento che applica le misure cautelari di cui agli articoli 282-bis e 282-ter del codice di procedura penale o dall'ordine di cui all'articolo 384-bis del medesimo codice è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

 

A tal fine si integra la lettera l-ter) del comma 2 dell’art. 380 c.p., la quale attualmente già consente l’arresto obbligatorio in flagranza dei delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) e di atti persecutori (art. 612-bis c.p.).

 

 


 

Articolo 2, commi 16-17
(Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria)

 

L’articolo 2, comma 16 demanda ad un decreto del Ministro della giustizia la costituzione di un Comitato tecnico-scientifico, per la consulenza e il supporto nella valutazione periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione del procedimento penale. Al Comitato sono attribuiti compiti di monitoraggio:

§  sull'efficienza della giustizia penale

§  sulla ragionevole durata del procedimento

§  sulla statistica giudiziaria.

 

La disposizione specifica inoltre che il Comitato:

§  si avvale della Direzione generale di statistica e analisi organizzativa, dell’Istituto italiano di statistica, nonché dei soggetti appartenenti al Sistema statistico nazionale (Sistan) e delle altre banche dati disponibili in materia;

§  promuove la riorganizzazione e l’aggiornamento del sistema di rilevazione dei dati concernenti la giustizia penale e assicura la trasparenza delle statistiche attraverso pubblicazioni periodiche e i siti istituzionali.

 

In base al comma 17 il Comitato è presieduto dal Ministro della giustizia (o da suo delegato) e dura in carica tre anni; ai componenti dello stesso non spettano compensi, gettoni di presenza, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati.

 

Sul ruolo del Comitato e sulla necessaria trasmissione dei dati raccolti al Consiglio Superiore della magistratura interviene anche l’art. 2, comma 6 del disegno di legge (v. sopra).

 

La Commissione Lattanzi ha sottolineato come l’ambiziosa riforma del sistema penale proposta, richieda di essere monitorata sotto il profilo dell’effettiva riduzione dei tempi processuali effettivi e del cd. disposition time, anche alla luce degli obiettivi condivisi con la Commissione europea. A tal fine, ha proposto di affiancare alle strutture ministeriali un comitato tecnico-scientifico caratterizzato da un profilo spiccatamente interdisciplinare e chiamato a svolgere funzioni di consulenza e supporto nella valutazione dell’impatto delle riforme. Sottolinea, in particolare, la prospettiva di riorganizzazione e di aggiornamento delle statistiche processuali e, più in generale, di quelle relative alla giustizia penale, che dovrà necessariamente tener conto degli istituti introdotti nell’ordinamento negli ultimi anni e di quelli proposti dal presente disegno di legge, nonché dell’evoluzione delle tecnologie. L’obiettivo è quello di assicurare l’accessibilità ai dati e la massima trasparenza circa le modalità di raccolta, al fine di alimentare nel medio periodo un approccio scientifico empirico, che è stato uno dei connotati della scienza penalistica italiana, ma che poi è andato progressivamente perduto. Secondo la Commissione la statistica costituisce infatti un ausilio chiave per comprendere ogni forma di law in action: se è vero che le rilevazioni ufficiali non sono in grado di restituire un quadro esaustivo di una realtà complessa come quella giudiziaria, in cui molte prassi non possono essere saggiate numericamente, è altrettanto indiscutibile che i numeri sono capaci di fornire alcuni precisi indici di “efficienza” del sistema.

 

 


 

Articolo 2, commi 18-19
(Piano per la transizione digitale della amministrazione della giustizia)

 

L’articolo 2, commi 18 e 19, demanda al Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri per l’innovazione tecnologica e per la pubblica amministrazione, l’approvazione di un piano triennale per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia.

Il Piano dovrà programmare e coordinare gli interventi necessari - sul piano delle risorse tecnologiche, delle infrastrutture e della formazione - per garantire la compiuta digitalizzazione del processo, tanto civile quanto penale. In particolare, le attività di formazione dovranno consentire l’aggiornamento oltre che del personale dell’amministrazione giudiziaria e del personale di magistratura anche dell’avvocatura.

 

 

 

 


 

Articolo 2, commi 20-21
(Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo)

 

L’articolo 2, commi 20 e 21, consente al Ministro della giustizia di costituire e disciplinare un Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo, quale organismo di consulenza e supporto nelle decisioni tecniche connesse alla digitalizzazione del processo.

Laddove costituito, il Comitato sarebbe presieduto dal Ministro, o da un suo delegato, ed ai componenti non dovrebbe essere riconosciuto alcun compenso.

 

Si ricorda che il Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale ha già costituito un proprio Comitato consultivo di esperti in materia di tecnologie digitali per il supporto in materia di innovazione tecnologica e transizione digitale della pubblica amministrazione, con il compito di esaminare i documenti sottoposti dal Ministro e di esprimere pareri e formulare proposte.


 

Articolo 2, commi 22-24
(Disposizioni finanziarie)

 

Il comma 22 dell’articolo 2 reca la clausola di invarianza finanziaria.

Vi si prevede che dall'attuazione della legge, e dei relativi decreti legislativi, non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, salvo quanto previsto per l’attuazione delle disposizioni in materia di giustizia riparativa e di ufficio del processo (v. sopra).

Si precisa inoltre che le amministrazioni provvedano agli adempimenti connessi all'attuazione delle disposizioni in esame e dei decreti legislativi emanati in attuazione della delega ivi prevista nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente.

 

In base al comma 23 i decreti legislativi dovranno essere corredati dalla relazione tecnica che ne attesti la neutralità finanziaria oppure dia conto dei nuovi o maggiori oneri e dei relativi mezzi di copertura.

 

Secondo il comma 24, qualora i decreti legislativi comportino nuovi o maggiori oneri non compensabili al proprio interno, gli stessi sono emanati solamente successivamente o contestualmente all'entrata in vigore delle disposizioni recanti i relativi mezzi di copertura, ai sensi di quanto stabilito dall'art. 17, comma 2, della legge di contabilità (legge n. 196/2009).

 

L'art. 17, comma 2, della legge di contabilità stabilisce che la legge delega individui i mezzi finanziari per far fronte agli oneri derivanti dai decreti legislativi di attuazione. Qualora non sia possibile determinare tale quantificazione, essa è effettuata al momento dell'adozione dei singoli decreti legislativi ed in caso di nuovi o maggiori oneri gli stessi decreti sono emanati solo successivamente all'entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie.

 

 



[1] Il comma 2 elenca i seguenti ministri: il Ministro per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione, il Ministro per la pubblica amministrazione, il Ministro dell’istruzione, il Ministro della università e della ricerca, il Ministro degli affari regionali e delle autonomie, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze.

[2]     Si ricorda che l’art. 24 del decreto-legge n. 137 del 2020 (come convertito dalla legge n. 176 del 2020) individua specifiche modalità di deposito degli atti del processo penale durante l’emergenza sanitaria ed è destinato ad essere efficace fino al 31 dicembre 2021 (a seguito della proroga introdotta dal decreto-legge n. 105 del 2021). In particolare, fino a tale data, il deposito di atti, documenti e istanze nella fase del processo penale inerente alla chiusura delle indagini preliminari (art. 415-bis c.p.p.) può avvenire esclusivamente utilizzando il portale del processo penale telematico individuato con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia e con le modalità stabilite in tale provvedimento. Il deposito degli atti si intende eseguito al momento del rilascio della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi ministeriali, secondo le modalità stabilite dal provvedimento ministeriale. Il legislatore ha specificato che il deposito è tempestivo quando è eseguito entro le ore 24 del giorno di scadenza (art. 24, comma 1). Spetta a decreti del Ministro della giustizia indicare gli ulteriori atti per quali è possibile il deposito telematico attraverso il portale del processo penale telematico (art. 24, comma 2). Il Ministero della giustizia ha attuato questa previsione con l’emanazione del D.M. 13 gennaio 2021, in base al quale negli uffici delle Procure della Repubblica presso i Tribunali il deposito dei seguenti atti può avvenire esclusivamente attraverso il portale PPT: istanza di opposizione all'archiviazione ex art. 410 c.p.p.; denuncia di cui all'art. 333 c.p.p.; querela di cui all'art. 336 c.p.p. e della relativa procura speciale; nomina del difensore e rinuncia o revoca del mandato indicate dall'art. 107 c.p.p.

[3]     Le Sezioni unite, con sent. n. 28451 del 28 aprile 2011, la notificazione di un atto all'imputato o ad altra parte privata, in ogni caso in cui possa o debba effettuarsi mediante consegna al difensore, può essere eseguita con telefax o altri mezzi idonei a norma dell'art. 148, comma 2-bis, c.p.p., dovendosi annoverare anche la PEC tra tali mezzi ritenuti idonei. Ad esempio, Cass. pen., sez. 4, sent. n. 16622 del 21/04/2016, ritiene valida la notifica effettuata, ai sensi dell'art. 161, comma quarto, c.p.c., mediante invio al difensore, tramite PEC, dell'atto da notificare all'imputato, atteso che la disposizione di cui all'art. 16, comma 4, d.l. n. 179 del 2012, che esclude la possibilità di utilizzare la PEC per le notificazioni all'imputato, va riferita esclusivamente alle notifiche effettuate direttamente alla persona fisica dello stesso e non a quelle eseguite mediante consegna al difensore, seppure nel suo interesse.

[4]     Si ricorda che l’articolo 417, comma 1, lettera b), c.p.p.) richiede l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge.

[5] Si tratta dei gravi delitti attribuiti alla competenza del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (tra i diversi delitti si ricordano: associazione mafiosa; delitti commessi avvalendosi delle condizioni d'intimidazione mafiosa ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose associazione per delinquere finalizzata alla tratta o alla riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù o all'acquisto e vendita di schiavi nonché all'immigrazione clandestina; associazione per delinquere finalizzata a commettere un delitto di sfruttamento sessuale di minori o di violenza sessuale in danno di minori; associazione per delinquere finalizzata alla contraffazione e all'introduzione nello Stato e commercio di prodotti contraffatti; riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù; tratta di persone; associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope etc

[6]     Quando la sentenza è pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il PM non può appellare la condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato (art. 443, comma 3, c.p.p.). In caso di patteggiamento, solo in caso di dissenso il pubblico ministero può proporre appello altrimenti la sentenza è inappellabile (art. 448, comma 2 c.p.p.).

[7]     La disposizione è stata infatti oggetto di modifica da parte del d.lgs. n. 14 del 2019 (Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), destinato ad entrare in vigore il 1° settembre 2021.

[8]     D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468.

[9] Per tale reato vale la preclusione introdotta dallo stesso disegno di legge, v. infra.

[10] Per tale reato vale la preclusione introdotta dallo stesso disegno di legge, v. infra.