Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo 6 luglio 2021 |
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Premessa|Contenuto|Valutazione di impatto di genere| |
PremessaIl Testo unificato in esame (AA.CC. 522, 615, 1320,1345, 1675, 1732, 1925, 2338, 2424, 2454) – adottato come testo base dalla XI Commissione nella seduta del 4 novembre 2020 e modificato nella seduta del 23 giugno 2021 - reca disposizioni volte a sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e a favorire la parità retributiva tra i sessi, attraverso l'ampliamento dell'ambito soggettivo di applicazione dell'obbligo di redazione del rapporto sulla situazione del personale, prevedendo che lo stesso si configuri in capo alle aziende (pubbliche e private) che impiegano più di 50 dipendenti (anziché più di 100, come attualmente previsto), nonché la previsione, tra l'altro, di incentivi alle assunzioni, di agevolazioni fiscali, di strumenti per favorire la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, di un sistema di certificazione della parità di genere. |
ContenutoIl Testo in esame si compone di sei articoli. L'articolo 1 dispone che la Relazione biennale su applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunitàrelazione biennale relativa ai risultati del monitoraggio sull'applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità nel lavoro e sulla valutazione degli effetti delle disposizioni del Codice delle pari opportunità sia presentata al Parlamento dalla consigliera o dal consigliere nazionale di parità - e non, come attualmente previsto dall'art. 20 del D.Lgs. 198/2006, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali - anche sulla base del rapporto che i medesimi soggetti elaborano entro il 31 marzo di ogni anno sulla propria attività e su quella dalla Conferenza nazionale delle consigliere e dei consiglieri di parità, nonché, come già previsto, delle indicazioni fornite dal Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici. L'articolo 2 integra la Nozione di discriminazionenozione di discriminazione diretta e indiretta (di cui all'art. 25 del richiamato D.Lgs. 198/2006). In particolare, vengono inseriti tra le fattispecie che danno luogo a discriminazione indiretta anche gli atti di natura organizzativa o incidenti sull'orario di lavoro che, modificando l'organizzazione delle condizioni e il tempo del lavoro, mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Conseguentemente – con la sostituzione del comma 2-bis del richiamato articolo 25 – viene ridefinito il contenuto dell'atto discriminatorio disponendo che costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell'età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
Rispetto alla formulazione attuale del richiamato comma 2-bis, l'articolo 2 in commento da un lato estende la discriminazione anche alle modifiche dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro, nonché ai trattamenti che possono generare situazioni di svantaggio in relazione al sesso e all'età anagrafica (e non solo allo stato di gravidanza o di maternità e paternità, anche adottive, come attualmente previsto), ma, dall'altro, dispone che tale discriminazione ricorre solo quando pone il lavoratore in almeno una delle suddette condizioni. L'articolo 3 - modificando l'art. 46 del Codice della pari opportunità - interviene sulle modalità di Rapporto biennale sulla situazione del personaleredazione del rapporto biennale relativo alla situazione del personale e ai diversi aspetti inerenti le pari opportunità sul luogo di lavoro - che in base alla normativa vigente deve essere presentato dalle aziende con più di cento dipendenti -, nonché sulle sanzioni in caso di inottemperanza all'obbligo di presentazione del predetto rapporto. In particolare:
In merito alle Sanzionisanzioni in caso di inottemperanza all'obbligo di presentazione e di redazione del predetto rapporto.
Riguardo al tema trattato dall'articolo 3, si ricorda che anche la legge di bilancio 2021 (art. 1, co. 276, L. 178/2020) si è occupata della materia trattata attraverso l'istituzione del Fondo per il sostegno della parità salariale di genere, con una dotazione di 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2022, destinato alla copertura finanziaria, nei limiti di tale dotazione, di interventi finalizzati al sostegno e al riconoscimento del valore sociale ed economico della parità salariale di genere e delle pari opportunità sui luoghi di lavoro.
Attualmente, il richiamato art. 46 del D.Lgs. 196/2008 configura l'obbligo di redazione del citato rapporto sulla situazione del personale in capo alle aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti. Tale rapporto, che deve essere redatto almeno ogni due anni, deve riportare la situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta.
Il rapporto è redatto in conformità delle indicazioni definite nell'ambito delle specificazioni di cui al DM 3 maggio 2018 ed è trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e alla consigliera e al consigliere regionale di parità, che elaborano i relativi risultati trasmettendoli alla consigliera o al consigliere nazionale di parità, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Dipartimento delle pari opportunità.
L'articolo 4 – che introduce il nuovo art. 46-bis al D.Lgs. 198/2006 – prevede l'istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2022, della Certificazione della parità di generecertificazione della parità di genere, al fine di attestare le misure adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità (comma 1). Ad uno o più DPCM – da adottarsi su proposta del Ministro con delega alle pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dello sviluppo economico – viene demandata la definizione (comma 2):
Si prevede, altresì, l'istituzione di un Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese, costituito da rappresentanti del Dipartimento per le pari opportunità, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero dello sviluppo economico, delle consigliere e dei consiglieri di parità, da rappresentanti sindacali ed esperti individuati secondo modalità definite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro delegato per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dello sviluppo economico (comma 3). Sul tema, si segnala che la Missione 5 del PNRR prevede l'attivazione, entro il quarto trimestre del 2022, di un Sistema nazionale di certificazione della parità di genere diretto ad affiancare le imprese nell'adozione di policy adeguate a ridurre il divario di genere in tutte le aree maggiormente "critiche", quali opportunità di crescita in azienda, parità salariale a parità di mansioni, politiche di gestione delle differenze di genere, tutela della maternità.
L'articolo 5 riconosce a regime uno sgravio contributivo parziale - ferma restando l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche - alle aziende private in possesso, al 31 dicembre dell'anno precedente a quello di riferimento, della predetta certificazione di pari opportunità (comma 1). Lo sgravio - operativo dal 1° gennaio 2022 e conesso nel limite di 50 milioni di euro annui - è determinato annualmente in misura non superiore all'1 per cento e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda, riparametrato e applicato su base mensile, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali (di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro delegato per le pari opportunità) da adottare entro il 31 gennaio di ciascun anno, assicurando il rispetto del limite di spesa di 50 milioni di euro annui a decorrere dal 2022 (comma 2). Ai relativi oneri, pari a 50 milioni di euro annui dal 2022, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del Fondo sociale per occupazione e formazione (di cui all'art. 18, co. 1, lett. a), del D.L. 185/2008). Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio (commi 3 e 4). L'articolo 6 reca disposizioni volte a incentivare l'Equilibrio di genere negli organi delle società pubblicheequilibrio di genere negli organi amministrativi delle società pubbliche non quotate, costituite in Italia, prevedendo che a tali società si applichino le norme in tema di equilibrio di genere nell'organo di amministrazione disposte dall'articolo 147-ter, comma 1-.ter, del Testo Unico dell'intermediazione finanziaria – TUF (D.Lgs. n. 58 del 1998). Più in dettaglio le norme proposte dispongono l'estensione del criterio di riparto degli amministratori delle società quotate volto ad assicurare l'equilibrio tra i generi, che trova applicazione per sei mandati consecutivi e in base al quale il genere meno rappresentato deve ottenere almeno due quinti degli amministratori eletti (ossia il 40 per cento, ex art. 147-ter, c. 1-ter, del D.Lgs. 58/1998) – anche alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni e non quotate in mercati regolamentati.
Ai sensi dell'articolo 2359 c.c. sono considerate società controllate:
Ai fini dell'individuazione delle società controllate si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
Al riguardo, si ricorda sinteticamente che la legge 12 luglio 2011, n. 120 (cd. legge Golfo-Mosca), modificando il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – D.Lgs. n. 58 del 1998 – ha introdotto norme volte a tutelare la
parità di genere nell'accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati e nelle società pubbliche.
Le norme della legge n. 120 del 2011 sono destinate ad avere un'efficacia temporanea. I criteri di riparto degli organi apicali volti a tutelare la parità di genere erano originariamente operativi per tre mandati consecutivi, a decorrere dal primo rinnovo degli organi interessati successivo all'entrata in vigore dei provvedimenti stessi.
La legge di bilancio 2020 (articolo 1, commi 302-305 della legge n. 160 del 2019) ha prorogato da tre a
sei i mandati in cui trovano applicazione, per gli organi apicali delle società quotate, le disposizioni in tema di tutela del genere meno rappresentato previste dalla legge n. 120 del 2011 e ha modificato il criterio di riparto degli
amministratori e dei membri dell'organo di controllo, volto ad assicurare l'equilibrio tra i generi, disponendo che il
genere meno rappresentato debba ottenere almeno
due quinti degli amministratori eletti (40 per cento), in luogo della quota di almeno un terzo (33 per cento circa) disposta dalle norme previgenti.
La legge n. 120 del 2011 ha inoltre previsto un doppio binario normativo: se per le società quotate in borsa la disciplina in materia di equilibrio di genere è recata puntualmente dalle disposizioni di rango primario, per le
società a controllo pubblico non quotate, salva l'applicazione dei principi di legge, la disciplina di dettaglio è stata inizialmente affidata ad un apposito regolamento, con la finalità di garantire una disciplina uniforme per tutte le società interessate. Tale regolamentazione è contenuta nel
D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251. In estrema sintesi, il D.P.R. n. 251 del 2012 ha imposto – come avviene per le società private - agli statuti delle società pubbliche non quotate di prevedere modalità di
nomina degli organi di amministrazione e di controllo, se a composizione collegiale, secondo modalità tali da garantire che il
genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo.
Anche la disciplina del richiamato D.P.R. n. 251 è stata introdotta con un'efficacia
limitata nel tempo: l'articolo 3 del provvedimento prevede infatti che il rispetto della composizione degli organi sociali sia assicurata per tre mandati consecutivi a partire dal primo rinnovo successivo al 12 febbraio 2013 (data di entrata in vigore del D.P.R.).
Nel corso del secondo triennio di applicazione della normativa di cui al D.P.R. n. 251/2012 è intervenuto il
Testo Unico sulle società a controllo pubblico (
D. Lgs. n. 175 del 2016, modificato dal decreto legislativo 16 giugno 2017, n. 100).
Il Testo Unico, nel ridefinire complessivamente la disciplina delle società pubbliche, ha introdotto un'organica disciplina riguardante la composizione dell'organo amministrativo delle società a controllo pubblico, prevedendo il criterio generale per cui, di norma, l'organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito da un amministratore unico (art. 11, comma 2), salvi i casi in cui, per specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa, l'assemblea della società, con delibera motivata, disponga che quest'ultima sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri (art. 11, comma 3, come sostituito dall'art. 7 del decreto legislativo n. 100/2017).
L'articolo 11, comma 4 dispone,
a regime, che nella scelta degli
amministratori di tali società le amministrazioni assicurino il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di
un terzo, da computare sul numero complessivo
delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno.
Ove la società abbia un
organo amministrativo collegiale, lo statuto prevede che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata "
nel rispetto" dei criteri stabiliti dalla legge 12 luglio 2011, n. 120.
Nel mese di gennaio 2020 è stata inviata al Parlamento
la Relazione triennale sullo stato di applicazione delle norme in tema di parità di genere nelle società a controllo pubblico, relativa al periodo dal 12 febbraio 2016 al 12 febbraio 2019, nella quale il Dipartimento delle Pari opportunità ha evidenziato le conseguenze della stratificazione normativa in tema di parità di genere nelle società pubbliche.
In particolare, si evidenzia come la lettura congiunta delle disposizioni relative agli obblighi previsti dalla legge n. 120/2011 e dal D.P.R. n. 251/2012 porti a concludere che gli obblighi a carico delle pubbliche amministrazioni derivanti dalle disposizioni di cui all'articolo 11, comma 4 del decreto legislativo n. 175/2016 si
aggiungono agli obblighi già previsti a carico delle società controllate dal D.P.R. n. 251/2012.
Si chiarisce dunque che il Testo Unico, sotto il profilo oggettivo, non è incompatibile con la disciplina di cui alla legge n.120/2011 e al D.P.R. n. 251/2012 (applicabile esclusivamente alle società dotate di organi pluripersonali), in quanto impone alle Pubbliche Amministrazioni il rispetto di un criterio di calcolo della "quota di genere" sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno, ulteriore e distinto rispetto a quello che le società controllate sono tenute ad osservare in forza del citato D.P.R. n. 251/2012, il quale, per il rispetto della quota di genere, richiede di aver riguardo alla composizione del singolo organo collegiale.
Le disposizioni sulla parità di genere di cui all'art. 11, comma 4, del Testo Unico sulle società pubbliche presentano alcune peculiarità:
Di conseguenza, alla scadenza del termine di efficacia previsto dal D.P.R. n. 251/2012 residua, in capo alle Pubbliche Amministrazioni, l'obbligo sancito dall'art. 11, comma 4, del Testo Unico, che ha un'efficacia permanente ed è, pertanto, applicabile anche oltre il limite temporale stabilito dalla legge n. 120/2011, ossia tre mandati consecutivi a partire dal primo rinnovo dell'organo.
Nel mese di gennaio 2020 è stata inviata al Parlamento
la Relazione triennale sullo stato di applicazione delle norme in tema di parità di genere nelle società a controllo pubblico, relativa al periodo dal 12 febbraio 2016 al 12 febbraio 2019.
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Valutazione di impatto di genereDi seguito le disposizioni più rilevanti ai fini di un'analisi di impatto di genere, in quanto volte alla riduzione delle disuguaglianze di genere e a sancire la parità di condizioni o di trattamento.
L'articolo 1 attribuisce un ruolo più centrale ai consiglieri nazionali di parità. In materia, si ricorda uno degli indirizzi specifici delineati dal Ministero del lavoro per ridurre le diseguaglianze di genere – riportati anche nel Bilancio di genere 2019 – che attribuisce all'attività del Comitato nazionale di parità, della Consigliera nazionale di parità e della Rete delle Consigliere di parità l'attuazione delle politiche italiane per la promozione delle pari opportunità sul lavoro.
L'articolo 2 inserisce tra le fattispecie discriminatorie previste dal Codice delle pari opportunità anche gli atti di natura organizzativa e oraria che mettono la lavoratrice in una posizione di svantaggio. Al riguardo, si ricordano le misure definite dal Dip.to funzione pubblica nella circ. 2/2019 volte a promuovere le pari opportunità nella P.A., tra le quali è prevista l'adozione di azioni dirette a prevenire situazioni di discriminazione che possono dare luogo ad un disagio organizzativo per le lavoratrici.
L'articolo 3 prevede che anche le aziende (pubbliche e private) che impiegano più di 50 dipendenti redigano obbligatoriamente il rapporto biennale relativo alla situazione del personale. Su tale aspetto, si ricorda la necessità di porre in essere azioni efficaci per individuare ed eliminare i differenziali retributivi di genere, evidenziata nei Piani triennali di azioni positive realizzati dalle diverse amministrazioni pubbliche, nonché nella Strategia europea per la parità di genere 2020-2025 della Commissione europea, che pone tra gli obiettivi anche quello di garantire che le donne e gli uomini siano parimenti retribuiti attraverso la "presentazione di misure vincolanti sulla trasparenza retributiva entro la fine del 2020". Nell'ambito di tale Strategia, il 4 marzo 2021 è stata presentata la proposta di direttiva COM(2021) 93 volta a rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, anche attraverso la previsione che i datori di lavoro con almeno 250 lavoratori forniscano informazioni sul divario retributivo tra lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile. In merito agli effetti di una riduzione del divario retributivo di genere, il Parlamento europeo stima che se questa fosse pari ad un punto percentuale si avrebbe un aumento del PIL dello 0,1%, mentre la Commissione europea stima che una riduzione complessiva di 3 punti percentuali comporterebbe una diminuzione del rischio di povertà nell'UE a circa il 14,6% (dal tasso iniziale medio del 16,3%). In questa sede vale la pena ricordare che l'Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) - nel Rapporto sulle azioni da implementare per la realizzazione dell'obiettivo n. 5 (Parità di genere) dell'Agenda 2030 – sottolinea l'opportunità di prevedere sistemi differenti di misurazione e monitoraggio del gender balance all'interno delle realtà aziendali, in considerazione del fatto che la redazione da parte delle aziende del rapporto biennale sulla situazione del personale si è rivelata negli anni poco efficace. Per quanto riguarda il divario retributivo di genere dagli ultimi dati Eurostat, relativi all'anno 2019, risulta che il divario retributivo medio (ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è pari al 4,7% (al di sotto della media europea che è del 14,1%), mentre il divario retributivo di genere complessivo (ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini) è pari al 43,7% (al di sopra della media europea che è invece pari al 39,6%).
Gli articoli 4 e 5 introducono, rispettivamente, la certificazione di parità di genere e, a regime, uno sgravio contributivo, pari all'1 per cento dei complessivi contributi previdenziali, in favore dei datori di lavoro privati in possesso di tale certificazione. Al riguardo, si ricorda quanto riportato dall'Asvis nel richiamato Rapporto sulle azioni da implementare per la realizzazione dell'obiettivo n. 5 (Parità di genere) dell'Agenda 2030, secondo cui parrebbe opportuno introdurre meccanismi premianti per le aziende più virtuose per evitare che le stesse ignorino l'adozione di strumenti volti ad individuare i divari retributivi di genere. Sul punto, si ricorda che il PNRR presentato all'UE lo scorso 30 aprile prevede, nell'ambito della Missione 5, l'attivazione, a partire dal secondo quadrimestre del 2022, di un Sistema nazionale di certificazione della parità di genere, diretto ad affiancare le imprese nell'adozione di policy adeguate a ridurre il gap di genere in tutte le aree maggiormente "critiche", quali opportunità di crescita in azienda, parità salariale a parità di mansioni, politiche di gestione delle differenze di genere, tutela della maternità. Si segnala inoltre che anche nella richiamata circolare della Funzione pubblica n. 2 del 2019 è prevista la sperimentazione di sistemi di "certificazione di genere", uno strumento adottato su base volontaria dalle organizzazioni che intendono certificare il loro impegno nell'ambito della valorizzazione delle risorse umane in un'ottica di genere. Con riferimento all'occupazione femminile, dagli ultimi dati Istat emerge un cambio di tendenza. Se nel mese di dicembre 2020, rispetto a novembre 2020, erano stati persi 101 mila posti di lavoro, di cui 99 mila erano occupati da donne, ad aprile 2021 si registra, rispetto a marzo 2021, un aumento di donne occupate pari a 55 mila unità, mentre una diminuzione di uomini occupati pari a 35 mila unità (con un saldo positivo di 20 mila occupati in più). Per quanto concerne il divario occupazionale di genere, secondo l'ultimo report Eurostat, l'Italia è tra i paesi Ue con il divario occupazionale più ampio, pari al 19,60% (contro una media UE pari a meno del 12%). Infine, merita ricordare quali sono i settori e le professioni nel settore privato caratterizzati da un tasso superiore almeno al 25 per cento della disparità media uomo-donna - elencati di seguito - per i quali sono concessi sgravi dei contributi a carico dei datori di lavoro nel caso di assunzione di donne.
L'articolo 6 reca disposizioni volte a incentivare l'equilibrio di genere negli organi amministrativi delle società pubbliche non quotate, prevedendo che a tali società si applichino le norme in tema di equilibrio di genere nell'organo di amministrazione disposte dall'articolo 147-ter, comma 1-.ter, del Testo Unico dell'intermediazione finanziaria – TUF (D.Lgs. n. 58 del 1998). Più in dettaglio le norme proposte dispongono l'estensione del criterio di riparto degli amministratori delle società quotate volto ad assicurare l'equilibrio tra i generi, che trova applicazione per sei mandati consecutivi e in base al quale il genere meno rappresentato deve ottenere almeno due quinti degli amministratori eletti (ossia il 40 per cento, ex art. 147-ter, c. 1-ter, del D.Lgs. 58/1998) – anche alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni e non quotate in mercati regolamentati. Nei settori senza vincoli sulla composizione di genere, la quota delle donne negli organi amministrativi è rimasta stabile (nelle società private) o è cresciuta in misura modesta (nelle banche) arrivando nel 2019 al 24 e al 17 per cento, rispettivamente. Per le società quotate e le società a controllo pubblico, invece, si osserva un aumento notevole della presenza femminile per effetto delle misure introdotte dalla legge Golfo-Mosca (la quota nel 2019 era pari rispettivamente al 37 e al 25 per cento). La minore presenza di donne negli organi amministrativi delle società a controllo pubblico rispetto alle società quotate è in parte attribuibile alla diffusione tra le prime di numerose società con amministratore unico (38,6 per cento del totale nel 2019). In tali società solo il 10,4 per cento degli amministratori sono donne, mentre in quelle con un consiglio di amministrazione queste ultime sono il 27,4 per cento dei componenti. |