Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni
Titolo: Legislazione e politiche di genere
Serie: Documentazione e ricerche   Numero: 62
Data: 02/03/2022
Organi della Camera: I Affari costituzionali

 

Camera dei deputati

XVIII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Legislazione e politiche di genere

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 62

Quarta edizione

 

 

 

2 marzo 2022

 


Il dossier è stato coordinato dal Servizio Studi:

Dipartimento Istituzioni con la collaborazione dei Dipartimenti competenti

( 066760-9475 – * st_istituzioni@camera.it   @CD_istituzioni

 

 

Ha collaborato:

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

 

 

 

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File: ID0007.docx

 


INDICE

§  Premessa........................................................................................................ 5

L’enforcement delle politiche di genere: il Pnrr e la Strategia nazionale 11

§  I principi dell’ordinamento italiano................................................................ 11

§  Le politiche di genere nel PNRR.................................................................. 13

§  La Strategia nazionale per la parità di genere............................................. 14

§  Il bilancio di genere e la sperimentazione sull’analisi di impatto................. 20

§  Gli organismi pubblici nazionali a tutela delle pari opportunità.................... 25

Politiche dell’UE in materia di parità di genere........................................... 29

§  Adesione dell'UE alla Convenzione di Istanbul........................................... 32

§  Documenti programmatici............................................................................ 32

§  Risorse finanziarie in materia di politiche per l’equilibrio di genere............. 34

§  Attività del Parlamento europeo................................................................... 34

§  Dati sulla parità tra donne e uomini nell'UE................................................. 36

§  Il contrasto alle mutilazioni genitali femminili in Europa.............................. 38

Politiche sociali e sanitarie in tema di pari opportunità............................. 43

§  Politiche sociali............................................................................................. 43

§  Prestazioni monetarie per cura e assistenza prima infanzia....................... 44

§  Ricorso a nidi e servizi integrativi per l’infanzia nel periodo emergenziale. 50

§  Livelli essenziali delle prestazioni nei servizi educativi per l’infanzia.......... 52

§  Politiche per la cura e l’assistenza dei soggetti non autosufficienti e disabili (Long term care)........................................................................................... 55

§  Politiche sanitarie......................................................................................... 63

Donne e istruzione.......................................................................................... 69

§  Competenze................................................................................................. 69

§  Quota di laureate in discipline STEM........................................................... 70

§  Donne negli atenei statali e non statali........................................................ 72

§  Educazione alle differenze........................................................................... 75

Protezione sociale delle donne nel mondo del lavoro............................... 77

§  La parità di genere nel Piano nazionale di ripresa e resilienza................... 77

§  Misure di conciliazione vita-lavoro............................................................... 78

§  Certificazione della parità di genere e rapporto sulla situazione del personale...................................................................................................... 83

§  Incentivi all’occupazione............................................................................... 83

§  Direttive in materia di conciliazione vita-lavoro e di parità salariale............ 85

§  Istituti pensionistici....................................................................................... 85

§  Lavoro agile e parità di genere..................................................................... 86

§  Divario occupazionale di genere.................................................................. 88

§  Provvedimenti in corso di esame................................................................. 89

Strumenti di sostegno all’imprenditoria femminile.................................... 91

§  Fondo impresa femminile e PNRR.............................................................. 92

§  Credito agevolato per l'autoimprenditorialità giovanile e femminile............ 96

§  Imprenditoria femminile in agricoltura.......................................................... 99

§  Altri interventi per l’impresa femminile innovativa e verde........................ 100

La promozione delle donne nella vita politica e istituzionale.................. 103

§  La rappresentanza di genere nella legislazione elettorale........................ 103

§  Italia: le donne nelle istituzioni................................................................... 107

Le pari opportunità nelle pubbliche amministrazioni............................... 117

§  Quadro normativo....................................................................................... 117

§  Il Fondo per le pari opportunità.................................................................. 121

§  Le donne ai vertici della pubblica amministrazione................................... 127

Politiche fiscali e impatto di genere........................................................... 139

§  Le politiche fiscali nel bilancio di genere.................................................... 139

§  L’attività parlamentare................................................................................ 139

Equilibrio di genere nelle società............................................................... 141

§  La legge 12 luglio 2011, n. 120.................................................................. 141

§  Gender balance nel settore bancario......................................................... 145

§  Le iniziative successive.............................................................................. 145

§  Alcune esperienze europee....................................................................... 148

§  Dati e statistiche......................................................................................... 150

Violenza contro le donne............................................................................. 155

§  La tutela delle vittime di violenza domestica e di genere nella legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso)..................................................................... 156

§  Il nuovo ddl governativo per la prevenzione e il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica........................................ 160

§  Il Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (e le risorse per la sua attuazione)...................... 161

§  Il sostegno economico alle vittime della violenza di genere...................... 165

§  Evoluzione del fenomeno e recenti dati statistici....................................... 166

Giurisprudenza costituzionale sull’accesso delle donne agli uffici e alle cariche pubbliche......................................................................................... 173

§  Principi costituzionali.................................................................................. 173

§  I principali orientamenti della giurisprudenza costituzionale..................... 174

§  La Corte e l’accesso agli uffici pubblici...................................................... 178

Altri elementi di giurisprudenza costituzionale sulle questioni di pari opportunità.................................................................................................... 181

 


Premessa

 

La parità di genere è riconosciuto come uno straordinario motore di crescita e uno dei capisaldi più rilevanti e urgenti dell’agenda di sviluppo sostenibile e progresso dei Paesi: le Nazioni Unite hanno indicato la parità di genere come il quinto dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, l’Unione Europea ha promosso uno Strategic Engagement sulla Gender Equality per il triennio 2016-2019 e una nuova Strategia per il quinquennio 2020-2025.

 

In particolare, la strategia per la parità di genere 2020-2025 adottata dalla Commissione europea sottolinea l’impegno delle istituzioni europee a sostegno del principio della parità in tutte le sue forme e attività.

 

Secondo la Commissione, “malgrado l’Unione europea sia un leader globale nella parità di genere e abbia compiuto notevoli progressi negli ultimi decenni, la violenza e gli stereotipi di genere persistono: una donna su tre nell’Unione europea ha subito violenze fisiche e/o sessuali. Le laureate superano numericamente i laureati, ma guadagnano in media il 16% in meno degli uomini; le donne rappresentano appena l’8% degli amministratori delegati nelle principali imprese europee”.

 

Finora nessuno Stato membro dell'UE ha realizzato la parità tra donne e uomini. Come evidenziato dalla Commissione, i progressi sono lenti e i divari di genere persistono nel mondo del lavoro e a livello di retribuzioni, assistenza e pensioni. Per colmare questi divari e per consentire all'Europa di sviluppare il suo pieno potenziale nelle imprese, nella politica e nella società, la strategia delinea una serie di azioni fondamentali, tra cui: porre fine alla violenza e agli stereotipi di genere; garantire una parità di partecipazione e di opportunità nel mercato del lavoro, compresa la parità retributiva; e conseguire un equilibrio di genere a livello decisionale e politico.

Le donne continuano a essere sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali e in politica. Secondo i dati diffusi, nelle principali imprese dell'UE, le donne rappresentano solo l'8% degli amministratori delegati.

Complessivamente, secondo i dati dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE), nonostante più di 50 anni di politiche per l'uguaglianza di genere a livello europeo, le disparità di genere risultano ancora rilevanti nell'Unione europea e i miglioramenti sono raggiunti lentamente. Nel periodo compreso tra il 2005 e il 2021, l'indice sull'uguaglianza di genere dell'UE è migliorato di 6 punti, mentre è cresciuto di soli 0,6 punti dal 2017 e di 4,2 punti dal 2010. I 68 punti per l'UE nel suo complesso e i punteggi medi dei singoli Paesi che vanno da 83,9 (Svezia) a 52,5 (Grecia) attestano come gli Stati prestino una diversa attenzione al raggiungimento degli obiettivi della parità e, al contempo, dimostrano come vi siano ancora ampi margini di miglioramento (l’Italia presenta il punteggio di 63,8 su 100).

 

I sei domini chiave dell’indice sono potere, tempo, conoscenza, salute, denaro e lavoro. L'UE è più vicina alla parità di genere nei settori della salute (87,8 punti) e del denaro (82,4 punti) mentre le disuguaglianze di genere risultano più marcate nel settore del potere, inteso come potere decisionale sia politico che economico (55 punti). Tuttavia, il punteggio in questo settore è migliorato maggiormente dal 2010 (+ 13,1 punti), grazie ai progressi compiuti in quasi tutti gli Stati membri sui dati di partecipazione delle donne al processo decisionale economico. Il secondo settore meno equo è la conoscenza (62,7 punti), dove il progresso è limitato dalla persistente disuguaglianza di genere nei diversi campi di studio nell'istruzione universitaria. Il tempo è l'unico dominio ad aver registrato un calo in 12 anni e ora è pari a 64,9. Ciò significa che le disuguaglianze di genere nel tempo dedicato ai lavori domestici e all'assistenza o alle attività sociali sono in aumento.

 

La Commissione europea sottolinea come l'azione legislativa possa aiutare a: favorire la presenza delle donne nelle posizioni decisionali; migliorare le opportunità di conciliazione tra lavoro e vita privata sul posto di lavoro; integrare la dimensione di genere nella progettazione di politiche e misure normative rilevanti per rendere la parità tra donne e uomini una realtà entro e oltre i confini di ciascun Paese, in modo che tutti possano avere le stesse opportunità nella vita, indipendentemente dal genere.

 

Per quanto riguarda l’Italia, la situazione in termini di uguaglianza di genere a confronto con gli altri Paesi dell’Unione europea evidenzia come, nonostante i progressi compiuti che hanno portato a raggiungere la 14-esima posizione, rimane l’ultimo Paese per quanto riguarda i divari nel dominio del lavoro, misurato in termini di partecipazione (tasso di occupazione equivalente a tempo pieno e durata della vita lavorativa) e condizioni (segregazione settoriale, percezione di flessibilità oraria e prospettive lavorative).

 

Il divario di genere è stato certamente acclarato dalla crisi pandemica. Le conseguenze dell’epidemia sul piano economico e sociale hanno aggravato le diseguaglianze esistenti tra uomini e donne anche in quei Paesi occidentali, come l’Italia, in cui si lavora costantemente per la piena parità tra donne e uomini, ben sapendo che l’obiettivo è ancora lontano.

Come emerge nel documento “Donne per un nuovo Rinascimento (2020)[1], le donne hanno già pagato il prezzo più alto dell’epidemia, e ciò malgrado abbiano ancora una volta dimostrato resilienza nella gestione dei tempi di lavoro e familiari e anche maggiore tenuta biologica. I settori di lavoro, a partire dalla sanità sono quelli in cui la maggior parte dei lavoratori è costituita da donne.

 

Relativamente ai dati forniti dall’ISTAT con particolare riguardo al mondo del lavoro (documentazione consegnata in occasione dell’audizione presso la Commissione Lavoro sulle pdl C. 1818 e abb., 2020) viene evidenziato con specifico riguardo al tema lockdown e conciliazione come alle difficoltà nel compiere il ruolo genitoriale si è aggiunta, a partire dai primi mesi del 2020, l’emergenza sanitaria. I decreti che si sono susseguiti per gestire l’emergenza hanno previsto la possibilità di proseguire l’attività lavorativa non in presenza e tra le donne le quote sono state più elevate e si è raggiunto il valore massimo, pari al 26,3%, tra le occupate in coppia con almeno un figlio tra 0 e 14 anni. Questo nuovo elemento del contesto che ha esercitato un forte impatto sull’organizzazione familiare, con significativi riflessi sui carichi di cura, sugli equilibri di convivenza e sulle opportunità di apprendimento dei bambini.

La chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, seguita alla diffusione del virus, ha comportato importanti difficoltà per le famiglie e ha amplificato le diseguaglianze a sfavore di donne e bambini. Nonostante i diversi decreti abbiano previsto sostegni per i lavoratori che devono occuparsi dei figli (possibilità di usufruire di congedi ordinari retribuiti, fruizione di voucher per l’uso di servizi di baby-sitting, ecc.), la chiusura delle scuole ha prodotto – e non solo per chi lavora nei settori rimasti attivi – notevoli problemi di conciliazione tra lavoro e tempi di vita. Nei casi in cui sia stato possibile il lavoro da casa, questo si è sovrapposto alla necessità dei figli di svolgere la didattica a distanza. Quando invece non ci sono state alternative al lavoro in presenza, il venir meno, oltre che dei servizi formali, anche di quelli informali, come il più ridotto affidamento ai nonni imposto dal distanziamento sociale, ha comportato grandi difficoltà nel gestire le esigenze familiari parallelamente a quelle del lavoro. Si stima che lo shock organizzativo familiare provocato dal lockdown possa aver potenzialmente coinvolto almeno 2milioni e 900mila nuclei, quelli che nel 2019 avevano almeno un figlio tra 0 e 14 anni e che, in una fase in cui la pandemia ancora non aveva avuto impatto sul mercato del lavoro, si caratterizzavano per la presenza di entrambi i genitori (2milioni e 460mila) o dell’unico genitore (440 mila) occupati/o.

 

Nel documento ci si sofferma su tre componenti principali, illustrando i dati e le evidenze scientifiche sull’impatto dell’epidemia nei diversi settori, sviluppando le principali proposte di azioni e raccomandazioni con un focus per il rilancio sociale, culturale ed economico dell’Italia:

§  ricerca, STEM e formazione delle competenze;

§  promozione del lavoro femminile e inclusione delle donne nei ruoli decisionali;

§  riorganizzazione dei tempi di vita e di lavoro e metodologie di comunicazione finalizzate all’abbattimento di stereotipi e cambio di paradigma.

Per innescare un processo che porti la parità di genere ad essere connotato spontaneo nella società e nelle istituzioni, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), che riconosce la centralità delle questioni relative al superamento delle disparità di genere, prefigura un enforcement in termini sia di norme adeguate a sostenere le politiche di parità sia di investimenti.

Il Piano infatti, individua la parità di genere, insieme con Giovani e Sud e riequilibrio territoriale, come una delle tre priorità trasversali perseguite in tutte le missioni che compongono il Piano. L’intero Piano dovrà inoltre essere valutato in un’ottica di gender mainstreaming.  In tale quadro, il Piano prevede una decisa azione di sostegno all’occupazione e all’imprenditorialità femminile, l’attuazione di diversi interventi abilitanti, a partire da servizi sociali quali gli asili nido, e di adeguate politiche per garantire l’effettivo equilibrio tra vita professionale e vita privata.

Al contempo, proprio per contrastare le molteplici dimensioni della discriminazione verso le donne, il Governo ha annunciato nel PNRR l'adozione di una Strategia nazionale con cui si impegna a raggiungere entro il 2026 l'incremento di cinque punti nella classifica dell'Indice sull'uguaglianza di genere elaborato dall'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE), che attualmente vede l'Italia al 14esimo posto nella classifica dei Paesi UE-27.

La  Strategia nazionale per la parità di genere 2021/2026 , adottata ad agosto 2021, definisce gli indirizzi e le misure volte a delineare l’azione dei Governo nei prossimi 5 anni sulle questioni di parità.

Considerando le 5 priorità strategiche (lavoro, reddito, competenze, tempo e potere), viene definito un insieme di indicatori volti a misurare i principali aspetti del fenomeno della disparità di genere.

Per tali indicatori, oltre al valore attuale, viene identificato anche un valore target, ovvero l’obiettivo specifico e misurabile da raggiungere, entrambi strumenti volti a guidare l’azione di governo e monitorare in ultima istanza l’efficacia di tutte le iniziative.

L’ambizione è di raggiungere sia un obiettivo complessivo in termini di punteggio assoluto nella classifica EIGE (“guadagnare 5 punti”), sia un obiettivo relativo rispetto agli altri paesi europei, tanto nell’orizzonte di azione della Strategia (“posizionamento migliore della media europea entro il 2026”) quanto negli anni successivi (“raggiungere la top 10 in 10 anni”).

 

 

Nel presente dossier sono raccolte le principali e le più recenti misure legislative approvate dal Parlamento italiano con l’obiettivo di favorire le pari opportunità di genere.

Si tratta di disposizioni in parte volte a riconoscere equiparazione dei diritti e maggiori tutele alle donne lavoratrici: in questa direzione vanno, in particolare, le disposizioni volte a favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro e il supporto alla genitorialità, le disposizioni per il contrasto delle cd. dimissioni in bianco, l’erogazione di servizi di cura dell’infanzia e di servizi per l’assistenza dei soggetti non autosufficienti e disabili.

Anche al fine di incentivare l’occupazione femminile sono stati attivati alcuni strumenti di sostegno finalizzati alla creazione e allo sviluppo di imprese a prevalente o totale partecipazione femminile.

Con la ratifica della Convenzione di Istanbul, a partire dalla XVII legislatura, il Parlamento ha inoltre adottato una serie di misure volte a contrastare la violenza contro le donne, perseguendo tre obiettivi: prevenire i reati, punire i colpevoli e proteggere le vittime.

Negli ultimi anni, il legislatore ha, infine, posto particolare attenzione agli interventi volti a dare attuazione all'art. 51 della Costituzione, sulla parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive, incidendo sui sistemi elettorali presenti nei diversi livelli (nazionale, regionale, locale e al Parlamento europeo), nonché sulla promozione della partecipazione delle donne negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati.


L’enforcement delle politiche di genere:
il Pnrr e la Strategia nazionale

I principi dell’ordinamento italiano

La tutela delle pari opportunità trova un fondamento a livello costituzionale nel principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3, sia da un punto di vista formale, come uguaglianza davanti alla legge, che da un punto di vista sostanziale, come compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono la realizzazione di condizioni di effettiva parità.

 

L’articolo 51, primo comma, prevede altresì che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A seguito della modifica approvata nel 2003 (L. Cost. n. 1/2003) si prevede inoltre che la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

Si è in tal modo segnato un passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento uomo-donna alla prospettiva dinamica delle pari opportunità, nell’ottica del raggiungimento di un’uguaglianza sostanziale, come già riconosciuta dall’art. 3. La disposizione non si rivolge unicamente al legislatore ma profila un’attività di carattere promozionale ad ampio raggio: il riferimento alla “Repubblica” e l’uso del termine “provvedimenti” significa che la promozione delle pari opportunità coinvolge l’insieme dei pubblici poteri.

 

Ulteriori statuizioni si rinvengono nell’articolo 37 Cost., che dispone che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni spettanti al lavoratore. Vi si stabilisce, inoltre, che le condizioni di lavoro devono essere tali da consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione.

 

L’articolo 117, settimo comma, Cost., come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede inoltre che le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

 

Oltre alle norme costituzionali, le politiche per le pari opportunità si sono arricchite nel tempo di varie norme volte a combattere le discriminazioni ed a promuovere una piena attuazione del principio di uguaglianza, soprattutto in attuazione della disciplina europea. Con la finalità di una complessiva razionalizzazione del panorama legislativo, alla luce dell’eterogeneità degli interventi legislativi che si erano susseguiti nel tempo, è stato adottato il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198) che raccoglie la normativa statale vigente sull’uguaglianza di genere nei settori della vita politica, sociale ed economica.

 

Il Codice si divide in quattro libri: il primo contiene disposizioni generali per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna, mentre nei libri successivi trovano spazio le disposizioni volte alla promozione delle pari opportunità nei rapporti etico-sociali, nei rapporti economici e nei rapporti civili e politici.

Tale fonte è stata oggetto di successive modificazioni, le più numerose recate dal D.Lgs. 25 gennaio 2010 n. 5, che ha dato attuazione alla direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (c.d. rifusione). Successivamente, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, co. 9, lett. l), della legge n. 183/2014, il D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 (Titolo II, Capo II) ha operato un’ulteriore correzione del Codice al fine di semplificare e razionalizzare le disposizioni relative agli organismi che si occupano di pari opportunità. Da ultimo, sono state introdotte ulteriori modifiche con la legge di bilancio 2018 (art. 1, co. 218, legge n. 205 del 2017) al fine di ampliare la tutela relativa alle molestie ricevute da entrambi i sessi sul luogo di lavoro.

 

Il Codice ha ad oggetto le misure volte ad «eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo» (art. 1, comma 1).

 

L’art. 1 del Codice delle pari opportunità prevede che:

§  la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione (comma 2).

§  il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (comma 3);

§  l'obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività (comma 4).

 

L’ultima disposizione introduce nel nostro ordinamento il principio del gender mainstreaming, ampiamente diffuso a livello di Unione europea e in diversi Stati europei, in base al quale le politiche pubbliche devono tener conto della dimensione di genere, in modo tale che prima dell’adozione delle decisioni sia valutato il diverso impatto delle misure sulle donne e sugli uomini.

In Italia, il gender mainstreaming ha trovato una prima applicazione con l’avvio, a partire dal 2016, di una sperimentazione per la redazione del bilancio di genere, in attuazione dell’articolo 38-septies della legge n. 196 del 2009, introdotto dal decreto legislativo n. 90 del 2016 (sul quale si rinvia, infra, allo specifico paragrafo dedicato al tema).

 

L’art. 20 del codice prevede la presentazione al Parlamento, almeno ogni due anni, di una relazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, d'intesa con il Ministro per le pari opportunità, contenente i risultati del monitoraggio sull'applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità nel lavoro e sulla valutazione degli effetti delle disposizioni del codice. La relazione era in precedenza prevista dall’art. 4, comma 6, del D.Lgs. n. 196/2000.

 

La predetta relazione risulta peraltro presentata al Parlamento solo una volta, il 21 marzo 2003, con riferimento al periodo 2000-2002 (Doc. CXC, n. 1, della XIV legislatura).

Le politiche di genere nel PNRR

All'interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza la parità di genere rappresenta una delle tre priorità trasversali in termini di inclusione sociale, unitamente a Giovani e Mezzogiorno.

Concretamente ciascuna delle 6 Missioni contiene alcune linee di intervento che possono favorire la parità di genere e di cui si tratterà più diffusamente nei capitoli settoriali che seguono.

 

In sintesi, le misure previste dal Piano sono in primo luogo rivolte a promuovere una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, attraverso:

§  interventi diretti di sostegno all'occupazione e all'imprenditorialità femminile;

§  interventi indiretti o abilitanti, rivolti in particolare al potenziamento dei servizi educativi per i bambini e di alcuni servizi sociali, che secondo le stime del PNRR potrebbero incoraggiare un aumento dell'occupazione femminile.

 

Altri interventi finanziati o programmati con il PNRR si prefiggono l'obiettivo diretto o indiretto di ridurre le asimmetrie che ostacolano la parità di genere sin dall'età scolastica, sia di potenziare il welfare per garantire l'effettivo equilibrio tra vita professionale e vita privata. In tale ambito sono pertanto previsti interventi tesi a:

-        garantire l’accesso delle donne alle competenze STEM, linguistiche e digitali, soprattutto tra le studentesse delle scuole superiori, per migliorare l’occupazione femminile;

-        rafforzare le strutture assistenziali di prossimità per le comunità caratterizzate da percorsi di prevenzione, diagnosi e cura.

 

Per approfondimenti sulle singole azioni previste nel Piano con ricadute stimate in termini di genere si rinvia alla apposita sezione del tema web dedicato alle priorità trasversali del PNRR.

 

Infine, il Piano prevede, nell'ambito delle attività di monitoraggio, una particolare attenzione alla valutazione degli effetti di riforme e investimenti in termini di promozione delle pari opportunità di genere, così come di quelle generazionali.

 

Sotto questo profilo, nella relazione al Parlamento del 23 dicembre 2021, il Governo evidenzia che "nell'attuale fase di attuazione del Piano non è ancora possibile sviluppare analisi dell'impatto del PNRR sulle donne e sui giovani", in quanto si tratta di "obiettivi trasversali influenzati da svariate linee di intervento, per la maggior parte ancora non iniziate".

La Strategia nazionale per la parità di genere

Per contrastare le molteplici dimensioni della discriminazione verso le donne, che la pandemia ha contribuito ad evidenziare, nel PNRR il Governo ha annunciato nel PNRR l'adozione di una Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026 entro il primo semestre 2021. Si tratta di un documento programmatico che, in coerenza con la Strategia per la parità di genere 2020-2025 adottata dalla Commissione europea a marzo 2020 (su cui, si v. infra), definisce un sistema di azioni politiche integrate nell’ambito delle quali sono adottate iniziative concrete, definite e misurabili.

Attraverso la strategia si propone di raggiungere entro il 2026 l'incremento di cinque punti nella classifica dell'Indice sull'uguaglianza di genere elaborato dall'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE), che attualmente vede l'Italia al 14esimo posto nella classifica dei Paesi UE-27.

 

Nell’indice sull’uguaglianza di genere 2020 elaborato dall'EIGE, l'Italia ha ottenuto un punteggio di 63,5 su 100. Tale punteggio è inferiore alla media dell’UE di 4,4, punti.

Si consideri che i punteggi dell'Italia sono inferiori a quelli della media UE in tutti i settori, ad eccezione di quello della salute. Le disuguaglianze di genere sono più marcate nei settori del potere (48,8 punti), del tempo (59,3 punti) e della conoscenza (61,9 punti).

L’Italia ha il punteggio più basso di tutti gli Stati membri dell'UE nel settore del lavoro (63,3). Il suo punteggio più alto è invece nel settore della salute (88,4 punti).

 

All'impegno ha fatto seguito la presentazione in Consiglio dei ministri (5 agosto 2021) di una Strategia nazionale per la parità di genere 2021/2026, redatta dal Ministero delle pari opportunità, all’esito di un processo di consultazione che ha coinvolto amministrazioni centrali, Regioni, Enti Territoriali, parti sociali e principali realtà associative attive nella promozione della parità di genere.

La Strategia, partendo da alcuni dati di analisi, si concentra sulle seguenti cinque priorità strategiche: lavoro, reddito, competenze, tempo, potere.

Il documento per ciascuna delle priorità definisce gli interventi da adottare (incluse le misure di natura trasversale), nonché i relativi indicatori (volti a misurare i principali aspetti del fenomeno della disparità di genere) e target (l'obiettivo specifico e misurabile da raggiungere). Gli indicatori e target sono funzionali a guidare l'azione di governo e monitorare l'efficacia degli interventi poste in essere.

Le misure previste dalla Strategia saranno attuate dalle Amministrazioni centrali, dalle Regioni e dagli Enti locali, sulla base delle competenze istituzionali, tenuto conto del settore di riferimento e della natura dell'intervento. Saranno altresì stabilmente coinvolte la Conferenza delle Regioni, l'Unione delle Province e dei Comuni.

È altresì prevista un’azione di monitoraggio della strategia, previa selezione di appositi indicatori e relativi target.

 

L’obiettivo di lungo periodo che si propone la Strategia è di guadagnare 5 punti nella classifica del Gender Equality Index dell’EIGE nei prossimi 5 anni, per raggiungere un posizionamento migliore rispetto alla media europea entro il 2026, con l’obiettivo di rientrare tra i primi 10 paesi europei in 10 anni.

Gli obiettivi specifici e misurabili da raggiungere nell’ambito delle cinque priorità strategiche sono riepilogati nella seguente tabella:

 

Target previsti dalla Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026

Lavoro

§  ridurre la differenza tra il tasso di occupazione femminile e maschile a meno di 24 punti percentuali (nel 2019 è di circa 27 p.p.)

§  ridurre la differenza tra il tasso di occupazione femminile per le donne con figli e senza figli a meno di 10 punti percentuali (rispetto agli attuali 12)

§  incrementare la percentuale di imprese “femminili” rispetto al totale delle imprese attive dall’attuale 22% al 30%

Reddito

§  ridurre il gender pay gap nel settore privato dal 17 al 10 %

§  ridurre il gender pay gap per i lavoratori laureati dal 22 al di sotto del 15 %

Competenze

§  incrementare la percentuale di studentesse di 5 superiore che non raggiunge i livelli minimi di competenze in matematica dal 50 a meno del 35%

§  incrementare la percentuale di studentesse che si iscrivono ai corsi di laurea in discipline STEM dal 27 al 35%

§  incrementare la percentuale di professori ordinari donna rispetto al totale dal 25 al 40%

§  incrementare la percentuale di donne con competenze digitali “sopra la media” dal 19 al 35%

Tempo

§  incrementare la percentuale di padri che usufruiscono dei congedi di paternità dal 21 a più del 50%

§  incrementare la disponibilità di posti in asili nido esisteneti sul totale dei bambini aventi diritto dal 25 a più del 50 % di copertura a livello nazionale (e almeno il 33% di copertura in tutte le regioni)

Potere

§  incrementare la quota di donne nei Cda delle aziende quotate dal 38,8 a più del 45%

§  incrementare la quota di donne in posizioni apicali e di direzione, sul totale di tali posizioni, dal 24 a più del 35%

§  incrementare la quota di donne nei consigli regionali dal 21 al 40% a livello medio nazionale

§  applicare in tutte le regioni leggi elettorali regionali che includano principi di parità di genere sia nelle liste elettorali sia nell’espressione del voto secondo quanto definito dalla L. n. 165 del 2004

 

Le principali misure previste per il raggiungimento dei target-obiettivo sono riepilogate nella seguente tabella:

 

 

Misure previste dalla Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026

Misure di natura trasversale

Promozione del gender mainstreaming e del bilancio di genere

Introduzione della valutazione dell’impatto di genere di ogni iniziativa legislativa

Considerazione dei fattori bloccanti dell'implementazione della parità di genere

Sostegno delle fragilità (disabilità, disagio sociale ed economico, presenza di situazioni di violenza, sfruttamento lavorativo e caporalato) nella programmazione delle misure

Promozione dei principi e degli strumenti del Gender Responsive Public Procurement

(GRPP)

Potenziamento delle statistiche ufficiali, per il rafforzamento della produzione di indicatori disaggregati per genere,

Promozione di un linguaggio che favorisca il dialogo ed il superamento di espressioni o manifestazioni sessiste

Istituzione di un “Patto Culturale” tra il mondo istituzionale e tra questo e la società civile per garantire un’azione collettiva di promozione della parità di genere

Rafforzamento della promozione di role model per la parità di genere e per il superamento degli stereotipi di genere

Promozione della Medicina-Genere specifica

Lavoro

Defiscalizzazione o incentivi per imprese che assumono donne

Potenziamento, soprattutto nelle regioni del Sud, di alcuni incentivi

Incentivo al rientro al lavoro dopo la maternità

Riduzione dell’uscita dal mercato del lavoro delle neo-mamme

Riduzione dell'uscita dal mercato del lavoro di lavoratrici a tempo determinato

Incentivi alla creazione di aziende femminili

Erogazione di credito agevolato a supporto di espansione e sollievo delle imprese femminili

Revisione del supporto alle imprenditrici mamme

Introduzione di flessibilità aggiuntiva per lo smart working dei genitori con figli a carico in base a criterio di età

Uso efficace del Part-time e riduzione del part time involontario

Governance e monitoraggio della diversity e della gender parity in azienda e nella PA

Definizione di norme per l'adozione di una Policy di Genere nelle società pubbliche e private e la divulgazione delle informazioni relative alla gender parity

Introduzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere, differenziato in base alle dimensioni/fatturato delle aziende

Reddito

Definizione del gender pay gap a norma di legge per definire con chiarezza le situazioni di illegalità o irregolarità

Adozione di sistemi di misurazione di equal pay a livello aziendale

Definizione delle linee guida per le aziende per l’adozione di una Policy di Genere

Supporto a madri lavoratrici e padri lavoratori

Analisi dei fattori penalizzanti per le donne e creazione di prodotti di credito/micro-credito per donne a basso reddito/vittime di violenza/madri single o divorziate

Riduzione del Pension Gap dovuto alla maternità

Competenze

Promozione trasversale del principio di parità di genere in ogni ordine e grado di istruzione e formazione nonché introduzione di nozioni di gender mainstreaming nell'attività didattica

Revisione dei requisiti dei libri di testo e dei materiali formativi per incentivare gli editori a garantire visibilità alle donne

Promozione di interventi a contrasto della dispersione scolastica e della povertà educativa e formativa

Introduzione di corsi di potenziamento nelle discipline STEM

Utilizzo degli spazi scolastici per "centri estivi" tematici in area STEM

Rafforzamento dei programmi curricolari di matematica in termini di ore e qualità dell'insegnamento

Finanziamento di Borse di studio pubbliche a favore di studentesse delle facoltà STEM

Potenziamento dei servizi di orientamento scolastico individuale per promuovere l’accesso agli studi delle materie STEM

Revisione delle attività ministeriali e scolastiche per l'orientamento di studentesse e studenti delle scuole superiori al mondo dell'università e del lavoro

Promozione e orientamento per il conseguimento delle qualifiche professionali

Definizione di un numero di posti riservati alle studentesse nelle facoltà STEM con test di ammissione specialmente negli atenei a bassissima presenza femminile

Supporto a studentesse-madri all'università

Introduzione di quote di genere nei comitati di valutazione del personale docente universitario, nonché valutazione secondo criteri gender neutral per la performance accademica

Revisione del meccanismo di allocazione dei fondi del Ministero dell’Università e della Ricerca alle università per considerare la differenza di genere nel corpo insegnante e/o nelle istituzioni accademiche

Potenziamento dei corsi di informatica curricolari e finanziamento di corsi extracurricolari nelle scuole dell'obbligo per promuovere l'alfabetizzazione digitale scolastica

Defiscalizzazione o incentivi per aziende private volti all’erogazione di corsi di alfabetizzazione digitale e informatica post-scolastica per il target femminile

Organizzazione da parte degli enti pubblici di corsi pubblici e gratuiti di alfabetizzazione digitale e informatica post-scolastica

Formazione obbligatoria per insegnanti sulle tematiche di gender mainstreaming e stereotipi di genere, specialmente nelle materie STEM e ad alta segregazione

Tempo

Misure per favorire la condivisione delle responsabilità genitoriali

Adozione di misure ad hoc per la promozione del congedo di paternità

Attuazione del piano asili nido, parte del Piano Ripresa e resilienza italiano, al fine di garantire una maggiore offerta di servizi per i bambini da 0 a 3 anni di età

Potenziamento dei Poli 0-6 e servizi integrativi

Obbligo o sistema di incentivi per grandi aziende con stabilimenti/uffici di realizzare asili nido aziendali o simili

Defiscalizzazione del welfare aziendale ove legato a erogazione di servizi o fondi per asili nido

Rafforzamento della possibilità di frazionare le ultime settimane di congedo genitoriale per favorire il rientro a lavoro

Revisione del regime di defiscalizzazione per i costi sostenuti per servizi di cura di figli piccoli (e.g., baby-sitter), genitori anziani (E.g., badanti) o disabili (e.g., educatori)

Promozione dell’assistenza e la cura dell'infanzia, degli anziani, dei degenti e della persona tramite detassazione di beni necessari

Conversione delle indennità a favore di soggetti fragili (e.g., Indennità di accompagnamento) in ore di servizi garantiti

Estensione dell’orario e del periodo scolastico sia tramite lezioni curricolari o con istituzione di servizi scolastici estivi

Sostenere l’ampliamento del tempo pieno scolastico con particolare riferimento alle regioni del Mezzogiorno

Potere

Innalzamento dell'attuale quota prevista dalla legge Golfo-Mosca, con possibile estensione ad altre aziende

Introduzione di obbligo di trasparenza e pubblicazione delle short-list di selezione (i.e., liste dei candidati considerati per la fase finale della selezione) per i livelli dirigenziali apicali nonché delle pipeline per le aziende quotate

Intervento su legge della par condicio per garantire equo tempo in televisione alle candidate ed ai candidati durante la campagna elettorale

Attuazione delle vigenti disposizioni di legge in materia di parità di genere nelle leggi elettorali regionali

Introduzione di quote di genere negli organi collegiali direttivi della pubblica amministrazione e degli enti pubblici e affini

 

Per rafforzare la governance della Strategia 2021-2026, la legge di bilancio 2022 (articolo 1, commi 139-148, L. n. 234/2021), oltre a ricondurre nell’ambito della legge l'adozione di un Piano strategico nazionale per la parità di genere, ha previsto l'istituzione presso il Dipartimento per le pari opportunità di una Cabina di regia interistituzionale e di un Osservatorio nazionale per l'integrazione delle politiche per la parità di genere.

 

Ai sensi delle richiamate norme il Piano strategico nazionale per la parità di genere con i seguenti obiettivi:

§  individuare buone pratiche per combattere gli stereotipi di genere;

§  colmare il divario di genere nel mercato del lavoro;

§  raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici;

§  affrontare il problema del divario retributivo e pensionistico;

§  conseguire l'equilibrio di genere nel processo decisionale.

 

Per l'elaborazione e l'adozione del Piano, è prevista l'istituzione presso il Dipartimento per le pari opportunità di una Cabina di regia interistituzionale e di un Osservatorio nazionale per l'integrazione delle politiche per la parità di genere.

La Cabina di regia, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o dall’Autorità politica delegata, sarà il luogo deputato alle funzioni di raccordo tra le diverse amministrazioni coinvolte e tra i diversi livelli di governo.

L’Osservatorio Nazionale per l’integrazione delle politiche di genere, organismo tecnico di supporto alla Cabina di regia, sarà istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri con l’obiettivo di dare attuazione alla Strategia e monitorarne l’attuazione.

Il bilancio di genere e la sperimentazione sull’analisi di impatto

La sperimentazione per la redazione del bilancio di genere è stata avviata nel nostro ordinamento in attuazione dell'articolo 38-septies della legge n. 196 del 2009, introdotto dal decreto legislativo n. 90 del 2016.

Tale disposizione ha infatti previsto la definizione, in sede di rendicontazione, di un bilancio di genere, volto a dare evidenza del diverso impatto delle politiche di bilancio sulle donne e sugli uomini, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito.

Successivamente, con il decreto legislativo del 12 settembre 2018, n. 116, la funzione del bilancio di genere è stata rafforzata, ponendo l’accento sull’opportunità che tale strumento sia utilizzato come base informativa per promuovere la parità di genere tramite le politiche pubbliche - attraverso una maggiore trasparenza della destinazione delle risorse e attraverso un'analisi degli effetti delle suddette politiche in base al genere - ridefinendo e ricollocando conseguentemente le risorse e tenendo conto dell’andamento degli indicatori di benessere equo e sostenibile (BES) inseriti nel Documento di Economia e Finanza (DEF).

 

L’articolo 10 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 ha altresì disposto che la Relazione annuale sulla performance evidenzi a consuntivo i risultati organizzativi e individuali raggiunti rispetto ai singoli obiettivi programmati ed alle risorse, con rilevazione degli eventuali scostamenti, e il bilancio di genere realizzato.

 

 

Criteri e metodologie per il bilancio di genere

 

I criteri e la metodologia generale per il bilancio di genere sono indicati dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 giugno 2017[2].

Il decreto ha, a tal fine, disposto che il Ministero dell'economia e delle finanze (MEF) - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato collabori con l'ISTAT e con il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, al fine di individuare gli indicatori utili al monitoraggio dell'impatto sul genere delle politiche statali, assicurando l'inclusione delle relative statistiche di base, distinte per genere, nel Piano statistico nazionale.

In attuazione di tale previsione normativa il Governo ha presentato negli ultimi anni – a partire dal bilancio 2016 e, da ultimo, per il 2019 - un bilancio di genere “a consuntivo”, accompagnato da periodiche Relazioni al Parlamento che danno conto dell’istruttoria svolta e dei criteri seguiti ai fini della sperimentazione prevista dalla legge (qui i link della documentazione).

Il bilancio di genere segue dunque la metodologia indicata dal DPCM 16 giugno 2017. Finalità è quella di offrire una rappresentazione delle spese del bilancio dello Stato “riclassificate” contabilmente in chiave di genere alla luce di una valutazione del loro diverso impatto su uomini e donne, una serie di indicatori statistici per monitorare le azioni intraprese per incidere sulle disuguaglianze di genere e la loro associazione alla struttura del bilancio, nonché un’analisi dell’impatto sul genere delle principali misure di politica tributaria. Le analisi mirano, nel bilancio di genere, sia al lato delle spese che delle entrate del bilancio ricorrendo esplicitamente ad indicatori statistici per evidenziare i divari di genere.

L'ISTAT collabora con la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento delle pari opportunità e con il Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, al fine dell'individuazione di indicatori utili al monitoraggio dell'impatto sul genere delle politiche statali.

Le modalità e i criteri con cui i singoli Centri di Responsabilità delle Amministrazioni centrali dello Stato dovranno procedere alla riclassificazione delle spese secondo una prospettiva di genere e trasmetterla al Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato sono stabilite in apposite linee guida (per il bilancio di genere per il Rendiconto dello Stato 2019, cfr. la Circolare 16 aprile 2020, n. 7, ed il relativo Allegato 1 - Linee guida per la classificazione delle spese ).

Accanto al Bilancio di genere nella Relazione al Parlamento è stata altresì elaborata una Rassegna normativa delle disposizioni volte alla riduzione di divari di genere adottate in Italia dal secondo dopoguerra ad oggi.

Nella quinta edizione della Relazione al Parlamento sul bilancio di genere, presentata il 27 dicembre 2021 (Doc. XXVII, n. 27), si evidenzia come gli interventi diretti alla riduzione dei divari di genere adottati nel 2020, con la legge di bilancio e con provvedimenti successivi, riguardano principalmente la conciliazione tra vita privata e lavorativa e il contrasto alla violenza di genere, ma sono presenti anche diverse misure relative a: la tutela del lavoro, previdenza e assistenza, la tutela e il sostegno della maternità, la partecipazione ai processi decisionali economici, politici e amministrativi, istruzione e interventi contro gli stereotipi di genere, salute, stile di vita e sicurezza e il mercato del lavoro. Alcune misure sono state adottate ex novo, altre invece costituiscono una proroga a misure precedenti.

L’attività è coordinata dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato e vede il coinvolgimento delle amministrazioni centrali dello Stato, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Dipartimento delle Finanze. Inoltre, al fine di assicurare un monitoraggio dei principali divari di genere nell’economia e nella società ci si avvale di una proficua collaborazione con l’ISTAT ed è stata adottata un’apposita convenzione con l’INPS, nell’ambito della quale vengono anche promosse attività di ricerca e valutazione di misure connesse alla riduzione delle diseguaglianze di genere.

 

 

Le risultanze principali del Bilancio di genere 2020 sono state illustrate nel corso dell'audizione dinanzi agli uffici di Presidenza congiunti delle Commissioni bilancio del Senato e della Camera dalla Prof.ssa Maria Cecilia Guerra Sottosegretaria di Stato al Ministero dell'economia e delle finanze (8 febbraio 2022).

Tra le prospettive per il futuro sono emersi in particolare due obiettivi:

 

L’analisi di impatto di genere

In sede di discussione del bilancio 2020 della Camera dei deputati nella seduta del 30 luglio 2020 è stato accolto l’ordine del giorno 9/Doc.VIII, n. 6/18 Spadoni e altri in cui si è chiesto di “valutare l'opportunità di prevedere in via sperimentale e selettiva nell'ambito dei dossier di documentazione predisposti dal Servizio Studi, sui progetti di legge in esame presso le Commissioni permanenti, la redazione di un paragrafo dedicato all'analisi di impatto di genere”.

Al fine di dare attuazione dell’ordine del giorno, che attiene dunque alla fase ex ante dei testi normativi, relativa all’istruttoria legislativa svolta dalle Commissioni parlamentari nell’ambito dell’esame in sede referente ai sensi dell’art. 79 del Regolamento della Camera, il Servizio Studi ha proceduto alla messa a punto di uno specifico paragrafo dedicato all’Analisi di impatto di genere con riguardo alle proposte di legge di iniziativa parlamentare di cui le Commissioni parlamentari hanno avviato l’esame a partire dall’8 marzo 2021. Dell’avvio di tale attività è stato dato conto anche sul sito internet della Camera e tramite i canali istituzionali dei network on line.

In tale analisi si è proceduto tenendo conto dei criteri e della metodologia utilizzati dai principali organismi internazionali e dagli istituiti di statistica nonché della metodologia seguita dal MEF-Ragioneria generale dello Stato per la redazione del bilancio di genere e della relazione al Parlamento dal 2016.

A tal fine, è stata avviata un'interlocuzione con la Ragioneria generale dello Stato al fine di acquisire e scambiare esperienze e metodologie in parte già sperimentate nella redazione del bilancio di genere e con l’ISTAT al fine di promuovere uno scambio di esperienze ed attività di formazione nonché con i soggetti specializzati nella analisi di impatto presso gli uffici della Commissione europea e del Parlamento europeo.

Tale analisi è svolta in questa prima fase in via sperimentale, sentito il Comitato di vigilanza sull’attività di documentazione operante presso la Camera dei deputati, in attesa di definire più puntualmente le modalità da seguire e gli indicatori di riferimento e di completare lo svolgimento di attività di formazione del personale del Servizio Studi sul tema.

Nei dossier di documentazione pubblicati dall’8 marzo 2021 ad oggi il Servizio Studi ha dunque proceduto alla redazione del paragrafo dedicato all’Analisi di impatto di genere per le proposte di legge all’esame delle Commissioni suscettibili di approfondimento sotto tale profilo. In tale ambito, è stata posta particolare attenzione ai dati statistici riguardanti il settore di intervento della proposta e si è tenuto conto della classificazione operata nell’ambito del bilancio di genere e del contesto normativo e sociale di riferimento. Sono stati quindi evidenziati i profili suscettibili di analisi e approfondimento nell’ambito dell’istruttoria legislativa – che può ricomprendere lo svolgimento di audizioni di esperti del settore e la richiesta di elementi informativi al Governo e ai soggetti specializzati - che le Commissioni parlamentari sono chiamate a svolgere nel corso dell’esame in sede referente.

 

 

 

 

 

Dossier del Servizio Studi della Camera con analisi di impatto di genere

 

I dossier contenenti l’analisi di impatto di genere, ad un anno dall’avvio della sperimentazione (8 marzo 2021) sono relativi ai seguenti progetti di legge:

·        8 marzo 2021: Delega al Governo per la disciplina dell'agricoltura multifunzionale e promozione dell'imprenditoria e del lavoro femminile nel settore agricolo – A.C. 2049

·        29 marzo 2021: Disposizioni concernenti i giudizi di idoneità all'avanzamento degli ufficiali e il conferimento di encomi ed elogi - A.C. 2715

·        30 marzo 2021: Modifiche alla legge 7 aprile 2014, n. 56, concernenti l'ordinamento della città metropolitana di Roma, capitale della Repubblica - A.C. 2893

·        31 marzo 2021: Introduzione sperimentale del metodo del budget di salute per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati – seconda edizione - AC 1752

·        14 aprile 2021: Disposizioni in materia di circolazione dei monopattini a propulsione prevalentemente elettrica - AC 2675

·        3 maggio 2021: Disposizioni in materia di espropriazione di immobili in stato di degrado o di abbandono per il loro recupero e adeguamento alle norme di prevenzione del rischio sismico – AC 770

·        12 maggio 2021: Disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’agricoltura contadina – AA.CC. TU 1825-1968-2905-A (Elementi per l’esame in Assemblea)

·        26 maggio 2021: Prevenzione e repressione della diffusione illecita di contenuti tutelati dalla normativa sul diritto d'autore mediante le reti di comunicazione elettronica - A.C. 2188, A.C. 1357, A.C. 2679

·        15 giugno 2021: Disposizioni in materia di utilizzo dei defibrillatori semiautomatici e automatici in ambiente extraospedaliero - A.C. T.U. 181 ed abb.- B

·        6 luglio 2021: Modifiche al codice delle pari opportunità di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo - AC 522 e abb. - A

·        16 luglio 2021: Disposizioni concernenti la conservazione del posto di lavoro e i permessi retribuiti per esami e cure mediche in favore dei lavoratori affetti da malattie oncologiche, invalidanti e croniche - AC. 2098, AC. 2392, AC. 2247, AC. 2540 e AC. 2478

·        21 settembre 2021: Disposizioni per consentire la libertà di scelta nell'accesso dei lavoratori al trattamento pensionistico - AC 389, AC. 714, AC 759, AC 900, AC 1163, AC 1164, AC 1170, AC 2855 e AC 2904

·        20 ottobre 2021: Modifiche al testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali in materia di circoscrizioni di decentramento comunale - AC 1430 e AC 2404

·        20 ottobre 2021: Rilascio del permesso di soggiorno alle vittime del reato di costrizione o induzione al matrimonio - AC 3200

·        4 novembre 2021: Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari – AC 2933

·        25 novembre 2021: Disciplina del tirocinio curricolare per l'orientamento e la formazione dei giovani - A.C. 1063 e A.C. 2202

·        10 febbraio 2022: Disposizioni per l'inserimento lavorativo per le donne vittime di violenze di genere - AA.CC. 1458, 1791, 1891

·        14 febbraio 2022: Disposizioni in materia di lavoro agile e di lavoro a distanza - AA.CC. 2282, 2417, 2667, 2685, 2817, 2908, 3027 e 3150

·        1° marzo 2022: Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere – A.C. 2805

 

Sempre con riguardo alla promozione del gender mainstreaming negli atti normativi si ricorda che da ultimo, nel corso della discussione sulla legge di bilancio 2021 è stato accolto uno specifico ordine del giorno (9/2790-bis-AR/301 D'Uva, Spadoni, Palmisano, Ascari) in cui si impegna il Governo a valutare l’opportunità di prevedere, in particolare, che nell’ambito dell'AIR e della VIR, il cui contenuto è attualmente definito dal DPCM n. 169 del 2017, “sia introdotta una specifica voce relativa all'analisi di impatto di genere sugli atti di iniziativa normativa del Governo”.

Gli organismi pubblici nazionali a tutela delle pari opportunità

Nel 1996 all’atto della formazione del Governo è stato nominato per la prima volta un Ministro per le pari opportunità, ministro senza portafoglio, al quale sono stati conferiti compiti di proposta, coordinamento e attuazione delle politiche governative in materia.

Da allora nei governi è stato sempre previsto un Ministro per le pari opportunità, con l’eccezione di:

-        Governo Monti, nel quale la delega per le pari opportunità è stata affidata al Ministro del lavoro e delle politiche sociali;

-        Governo Renzi, nel quale la delega per le pari opportunità è stata affidata al Ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento;

-        Governo Gentiloni, nel quale la delega per le pari opportunità è stata affidata ad un Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio.

Nell’attuale Governo Draghi, è stato nominato un Ministro Pari Opportunità e Famiglia, nella persona della prof.ssa Elena Bonetti.

 

Nel 1997 è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio il Dipartimento per le pari opportunità: sorto come struttura di supporto per l’attività del Ministro e con compiti di promozione e coordinamento delle politiche di parità, ha ampliato progressivamente le proprie competenze anche nel campo della lotta alla discriminazione razziale e ad altre forme di discriminazione.

 

Le funzioni del Dipartimento riguardano, in particolare, la promozione ed il coordinamento delle politiche dei diritti della persona, delle pari opportunità, della parità di trattamento e di rimozione di ogni forma e causa di discriminazione, di prevenzione e contrasto della violenza sessuale e di genere e degli atti persecutori, della tratta e dello sfruttamento degli esseri umani, nonché delle mutilazioni genitali femminili e delle altre pratiche dannose.

In tali settori, il Dipartimento provvede: all’indirizzo, al coordinamento ed al monitoraggio della utilizzazione dei fondi nazionali ed europei; agli adempimenti riguardanti l’acquisizione e l’organizzazione delle informazioni e la promozione e il coordinamento delle attività conoscitive, di verifica, controllo, formazione e informazione; alla cura dei rapporti con le amministrazioni e gli organismi operanti in Italia e all’estero; all’adozione delle iniziative necessarie ad assicurare la rappresentanza del Governo negli organismi nazionali e internazionali. L’organizzazione del Dipartimento è stata da ultimo rinnovata con il D.P.C.M. 8 aprile 2019.

 

Per la promozione delle pari opportunità nel mondo del lavoro presso il Ministero del lavoro, dal 1991 opera il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici (Comitato nazionale di parità), organo consultivo del Ministro con compiti di studio e di promozione in materia di parità nel settore della formazione professionale e del lavoro (art. 8, D.Lgs. n. 198/2006, come modificato da D.Lgs. n. 151 del 2015).

 

Il Comitato promuove nell'ambito della competenza statale, la rimozione delle discriminazioni e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza tra uomo e donna nell'accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252.

È presieduto dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali o da un Sottosegretario delegato ed è composto da: rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro; da componenti delle associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo; da rappresentanti designati dalle associazioni e dai movimenti femminili operanti nel campo della parità; dalla Consigliera Nazionale di Parità; da esperti in materie giuridiche, economiche e sociologiche con competenze in materie di lavoro e politiche di genere; da rappresentanti di vari Ministeri, il Ministero del Lavoro, Dipartimento delle pari opportunità.

I componenti durano in carica tre anni e sono nominati dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali.

L'attuale Comitato è stato ricostituito in data 26 luglio 2019.

 

A livello nazionale, regionale e della città metropolitana e dell'ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 sono inoltre nominati una consigliera o un consigliere di parità, cui sono attribuiti una serie di interventi volti al rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici (artt. 15 e ss. D.Lgs. n. 198/2006).

 

In particolare la Consigliera Nazionale di Parità si occupa della trattazione dei casi di discriminazione di genere sul lavoro di rilevanza nazionale e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, anche attraverso la collaborazione con gli organismi di rilevanza nazionale competenti in materia di politiche attive del lavoro, di formazione e di conciliazione.

 

La Consigliera Nazionale di Parità coordina la Conferenza Nazionale delle Consigliere e dei Consiglieri di Parità, che comprende tutte le consigliere e i consiglieri (regionali, delle città metropolitane e degli enti di area vasta) con il compito di rafforzare le funzioni delle consigliere e dei consiglieri di parità, di accrescere l'efficacia della loro azione, di consentire lo scambio di informazioni, esperienze e buone prassi.

 

Da ultimo, la legge di bilancio 2021 (articolo 1, commi 104 e 106 L. n. 178/2020) ha previsto l’istituzione di un Comitato Impresa Donna presso il Ministero dello sviluppo economico, a cui è attribuita la funzione di:

a)    contribuire ad attualizzare le linee di indirizzo per l’utilizzo delle risorse del Fondo;

b)    condurre analisi economiche, statistiche e giuridiche relative alla questione di genere nell’impresa;

c)    formulare raccomandazioni relative allo stato della legislazione e dell’azione amministrativa, nazionale e regionale, in materia di imprenditorialità femminile e sui temi della presenza femminile nell’impresa e nell’economia;

d)    contribuire alla redazione della Relazione annuale che il Ministro presenta ogni anno al Parlamento sull'attività svolta e sulle possibili misure da adottare per risolvere i problemi relativi alla partecipazione della popolazione femminile alla vita economica e imprenditoriale del Paese.

 

In proposito si rinvia, infra, al capitolo dedicato al sostegno all’imprenditoria femminile.

 


Politiche dell’UE in materia di parità di genere

L’uguaglianza di genere nel diritto primario dell’UE

L'Unione europea si fonda su un insieme di valori, tra cui l'uguaglianza, e promuove la parità tra uomini e donne (articolo 2 e articolo 3, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea - TUE). Tali obiettivi sono altresì sanciti dall'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali.

Inoltre, l'articolo 8 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) attribuisce all'Unione il compito di eliminare le ineguaglianze e di promuovere la parità tra uomini e donne in tutte le sue attività (questo concetto è noto anche come gender mainstreaming - integrazione della dimensione di genere).

 

Sin dal 1957, i Trattati sanciscono il principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro. A tal proposito, l'UE può intervenire nell'ambito più ampio delle pari opportunità e della parità di trattamento nei settori dell'impiego e dell'occupazione. In tale contesto, l'articolo 157 del TFUE autorizza anche l’azione positiva finalizzata all’emancipazione femminile. L'articolo 19 del TFUE consente altresì l'adozione di provvedimenti legislativi per combattere tutte le forme di discriminazione, incluse quelle fondate sul sesso.

L’uguaglianza di genere nel diritto derivato

Per quanto riguarda la legislazione dell'UE in materia di parità di genere si ricordano, tra le altre:

§  la direttiva 2006/54/CE, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego; la direttiva definisce le nozioni di discriminazione diretta e indiretta, di molestie e di molestie sessuali; inoltre, essa incoraggia i datori di lavoro ad adottare misure preventive per combattere le molestie sessuali, prevede le sanzioni per i casi di discriminazione e prevede l'istituzione all'interno degli Stati membri di organismi incaricati di promuovere la parità di trattamento tra uomini e donne[3];

·        la direttiva 2010/41/CE, che stabilisce gli obiettivi relativi all'applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un'attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità, e che abroga la direttiva 86/613/CEE del Consiglio[4].

 

Ulteriori atti normativi europei sono indirettamente connessi al tema della parità di genere, tra l’altro, con particolare riguardo al fenomeno del contrasto alla violenza sulle donne.  Si ricordano:

·        la direttiva 2011/36/UE, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime;

·        la direttiva 2011/99/UE, che istituisce l'ordine di protezione europeo allo scopo di proteggere una persona da atti di rilevanza penale di un'altra persona tali da metterne in pericolo la vita, l'integrità fisica o psichica, la dignità, la libertà personale o l'integrità sessuale (onde consentire all'autorità competente di un altro Stato membro di continuare a proteggere la persona nel territorio di tale altro Stato membro);

·        il regolamento (UE) n. 606/2013 relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile in tutta l'UE;

·        la direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

 

Nell’ambito del cosiddetto Pilastro europeo dei diritti sociali, il 13 giugno 2019 l’UE ha adottato la direttiva (UE) 2019/1158 relativa all'equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza che abroga la direttiva 2010/18/UE.

Il nuovo regime mira ad aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e la fruizione di congedi per motivi familiari e di modalità di lavoro flessibili; offre altresì ai lavoratori possibilità di vedersi accordare un congedo per occuparsi di familiari che necessitano di sostegno.

Secondo la nuova direttiva, i padri o i secondi genitori possono fruire, in occasione della nascita di un figlio, di almeno dieci giorni lavorativi retribuiti allo stesso livello di quello attualmente fissato nell'UE per i congedi di maternità. Per usufruire del congedo di paternità, non è necessaria alcuna anzianità di servizio; la retribuzione del congedo di paternità è tuttavia subordinata a un'anzianità di servizio di sei mesi. Gli Stati membri con sistemi di congedo parentale più favorevoli possono mantenere le disposizioni nazionali vigenti.

È inoltre previsto un diritto individuale a quattro mesi di congedo parentale, di cui due retribuiti e non trasferibili tra i genitori. Il livello della retribuzione e il limite di età del bambino è fissato dagli Stati membri.

Infine i prestatori di assistenza (lavoratori che aiutano i familiari bisognosi di assistenza o di sostegno a causa di un grave motivo di salute) possono usufruire di cinque giorni lavorativi all'anno. Gli Stati membri possono utilizzare un periodo di riferimento diverso, approvare il congedo caso per caso e introdurre criteri aggiuntivi per l'esercizio di tale diritto. Da ultimo, si rafforza il diritto per tutti i genitori e i prestatori di assistenza di richiedere modalità di lavoro flessibili.

 

 

Nel novembre 2012, la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva COM(2012)614 riguardante il miglioramento dell'equilibrio di genere fra gli amministratori senza incarichi esecutivi delle società quotate in Borsa e le relative misure (proposta di direttiva relativa alla presenza delle donne nei consigli di amministrazione).

Dopo diversi anni dalla presentazione della suddetta proposta e dall'adozione della posizione in prima lettura da parte del Parlamento europeo, l’iter legislativo non è stato ancora perfezionato in quanto non si sono registrati progressi in sede di Consiglio a causa delle riserve di alcuni Stati membri. Inoltre, hanno sollevato rilievi sul rispetto del principio di sussidiarietà i Parlamenti nazionali di Danimarca, Paesi Bassi, Polonia, Svezia e Regno Unito, nonché la Camera dei deputati della Repubblica ceca.

 

Si ricorda che la Commissione aveva altresì proposto la revisione della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. Poiché non è stato raggiunto un accordo tra il Parlamento e il Consiglio (in prima lettura il Parlamento europeo aveva sostenuto un congedo di maternità pienamente retribuito di 20 settimane), la Commissione ha ritirato la proposta e l'ha sostituita con una tabella di marcia per l'iniziativa "Nuovo inizio per affrontare le sfide dell'equilibrio tra vita professionale e vita privata incontrate dalle famiglie che lavorano."

 

Si segnala infine la proposta di direttiva sulla trasparenza retributiva COM(2021)93 volta a rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi.

La proposta di direttiva mira a stabilire prescrizioni minime per rafforzare l'applicazione del principio della parità retributiva tra uomini e donne e il divieto di discriminazione per motivi di genere senza peraltro impedire ai datori di lavoro di retribuire in modo diverso chi svolge lo stesso lavoro (o un lavoro di pari valore) sulla base di criteri oggettivi, neutri sotto il profilo del genere (punto n. 10 delle Premesse). Per il conseguimento delle suddette finalità, si stabiliscono standard di trasparenza in materia di retribuzioni e garanzie di accesso a determinati strumenti di tutela giurisdizionale in favore dei lavoratori.

Dopo nove mesi di trattativa, lo scorso 6 dicembre il Consiglio ha approvato la sua posizione sulla suddetta direttiva.

Adesione dell'UE alla Convenzione di Istanbul

La Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica - meglio nota come Convenzione di Istanbul - adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011, è entrata in vigore il 1° agosto 2014, a seguito del raggiungimento del prescritto numero di dieci ratifiche.

L’Italia è stata tra i primi paesi europei a ratificare la Convenzione con la legge 27 giugno 2013, n. 77.

La Convenzione rappresenta il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza.

Particolarmente rilevante è il riconoscimento espresso della violenza contro le donne quale violazione dei diritti umani, oltre che come forma di discriminazione contro le donne (art. 3 della Convenzione). La Convenzione stabilisce inoltre un chiaro legame tra l’obiettivo della parità tra i sessi e quello dell’eliminazione della violenza nei confronti delle donne.

A seguito dell’adozione di due decisioni preparatorie del Consiglio nel maggio del 2017, la prima riguardante gli articoli sulla cooperazione in materia penale  (decisione (UE) 2017/865), la seconda gli articoli relativi all’asilo, ai rifugiati e al respingimento (decisione (UE) 2017/866) il 13 giugno 2017, l’UE ha firmato la Convenzione di Istanbul.

Il processo di adesione richiede l'adozione di decisioni del Consiglio relative alla conclusione della Convenzione, e l'approvazione del Parlamento europeo. Quest’ultimo ha invitato il Consiglio a ultimare il processo di ratifica, tra l’altro, con risoluzione del 28 novembre 2019.

La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo programma ha definito l’adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul sulla lotta contro la violenza domestica una priorità fondamentale per la Commissione.

Si segnala che l’iter per la conclusione era stato temporaneamente sospeso per consentire alla Corte di giustizia dell’UE l’adozione di un parere su varie questioni attinenti alla base giuridica appropriata per l’atto del Consiglio relativo alla conclusione. Il parere, con il quale la Corte ha chiarito gli aspetti procedurali e la corretta base giuridica, è stato adottato il 6 ottobre 2021. 

Il Consiglio non ha ancora adottato le decisioni di conclusione.

Documenti programmatici

Nel 2020 la Commissione europea ha adottato una serie di documenti programmatici in materia di parità di genere, che prevedono l’adozione di misure e azioni specifiche per i prossimi anni.

Il 5 marzo 2020 è stata presentata la Strategia per la parità di genere 2020-2025, recante una serie di azioni ritenute fondamentali per il raggiungimento dei tradizionali obiettivi in materia di equilibrio di genere: stop alla violenza e agli stereotipi di genere; parità di partecipazione e di opportunità nel mercato del lavoro; parità retributiva; equilibrio di genere a livello decisionale e politico.

L'attuazione della strategia procederà attraverso l’adozione di misure mirate volte a conseguire la parità di genere, combinate a una maggiore integrazione della dimensione di genere.

La strategia prevede, tra l’altro:

·     l’ampliamento del novero dei reati in cui è possibile introdurre un'armonizzazione in tutt'Europa, estendendola a forme specifiche di violenza contro le donne, tra cui le molestie sessuali, gli abusi a danno delle donne e le mutilazioni genitali femminili;

·     una legge sui servizi digitali per chiarire quali misure si attendono dalle piattaforme per contrastare le attività illegali on line, compresa la violenza nei confronti delle donne;

·     il potenziamento della presenza delle donne nei settori caratterizzati da carenze di competenze, in particolare il settore tecnologico e quello dell'intelligenza artificiale;

·     l’avvio di una consultazione pubblica sulla trasparenza retributiva e la presentazione di misure vincolanti per contrastare la disparità sul piano salariale;

·     il rafforzamento dell’impegno per l’attuazione delle norme dell'UE sull'equilibrio tra vita professionale e vita privata.

 

Il 24 giugno 2020 la Commissione ha presentato la prima strategia per i diritti delle vittime per il periodo 2020-2025, che contempla una serie di azioni a livello europeo e nazionale nel quadro degli interventi per il rafforzamento dei diritti delle vittime di reato e la collaborazione a sostegno dei diritti delle vittime.

 

Il 25 novembre 2020, inoltre, la Commissione europea e l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’UE hanno presentato il Piano d’azione dell’Unione europea sulla parità di genere – Un’agenda ambiziosa per la parità di genere e l’emancipazione femminile nell’azione esterna dell’UE (EU Gender Action Plan - GAP III). Il piano prevede iniziative, per il periodo 2021-2025, volte ad accrescere l'impegno dell'UE per la parità di genere, in quanto priorità trasversale dell'azione esterna, nonché a promuovere un impegno strategico dell'UE a livello multilaterale, regionale e nazionale. Il Piano è volto ad accrescere il contributo dell’UE per il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile n. 5 nell’ambito dell’Agenda 2030, relativo al raggiungimento dell’uguaglianza di genere e dell’empowerment di tutte le donne e le ragazze.

 

Il  Consiglio dei ministri dell’UE, nella riunione del 2 dicembre 2020, ha adottato conclusioni nelle quali invita la Commissione e gli Stati membri, tra l’altro, ad intensificare gli sforzi per ridurre il divario retributivo di genere e il divario di genere nell'assistenza e a combattere gli stereotipi di genere.

Da ultimo, si ricorda che il Programma di lavoro 2022 della Commissione europea prefigura la presentazione nel corso del 2022 di misure per prevenire e combattere la violenza nei confronti delle donne, integrate da un'iniziativa per aiutare gli Stati membri a migliorare la prevenzione e ad adottare misure di sostegno per contrastare le pratiche dannose contro donne e ragazze.

Risorse finanziarie in materia di politiche per l’equilibrio di genere

Il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027 prevede l'integrazione della dimensione di genere nel bilancio, più specificamente nei vari strumenti di finanziamento e di garanzia di bilancio dell'UE, tra cui il Fondo sociale europeo Plus, il Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fondo di coesione e il programma InvestEU.

L'uguaglianza di genere e le pari opportunità per tutti sono tenuti in considerazione nella preparazione e attuazione dei piani per la ripresa e la resilienza, che sono presentati dagli Stati membri al fine di beneficiare delle risorse del Dispositivo per la ripresa e la resilienza (che rappresenta il più importante programma nell’ambito dello strumento europeo per la ripresa Next generation EU con una dotazione finanziaria di 672,5 miliardi di euro, di cui circa 209 miliardi per l’Italia).

Secondo quanto prevede il regolamento (UE) 2021/241 istitutivo del dispositivo,  i piani devono esplicitare le modalità con cui le misure dovrebbero contribuire alla parità di genere e alle pari opportunità per tutti, come pure all'integrazione di tali obiettivi, in linea con i principi 2 e 3 del pilastro europeo dei diritti sociali, nonché con l'obiettivo di sviluppo sostenibile dell'ONU 5 e, ove pertinente, la strategia nazionale per la parità di genere.

Attività del Parlamento europeo

Il 21 gennaio 2021 il Parlamento europeo ha approvato quattro risoluzioni in materia di parità di genere.

Nella prima risoluzione, il Parlamento europeo accoglie con favore le misure proposte dalla Commissione nella Strategia dell’Ue sulla parità di genere, ma chiede ulteriori azioni e obiettivi specifici e vincolanti. Si rammarica infatti che la strategia rimanga vaga in merito alla tempistica di varie misure e che non fissi obiettivi concreti per la parità di genere da raggiungere entro il 2025 né chiari strumenti di monitoraggio; invita pertanto la Commissione a stabilire una tabella di marcia precisa con scadenze, obiettivi, un meccanismo di revisione e monitoraggio annuale, indicatori di successo chiari e misurabili, nonché misure mirate supplementari.

Il Parlamento accoglie, inoltre, con favore l'annuncio di numerose strategie complementari dell'UE, tra cui la strategia europea sulla disabilità con misure vincolanti per il periodo successivo al 2020, e invita a predisporre un quadro strategico per connetterle, nonché ad adottare un approccio intersezionale in tutte queste strategie.

Con riferimento all’eliminazione della violenza contro le donne e della violenza di genere, il Parlamento europeo sostiene l'intenzione della Commissione di proporre, nel corso del 2021, misure per raggiungere gli obiettivi della Convenzione di Istanbul, nel caso in cui alcuni Stati membri continuino a bloccarne la ratifica, nonché l'intenzione di presentare iniziative volte alla prevenzione di pratiche dannose e di istituire una rete dell'UE per la prevenzione della violenza di genere e della violenza domestica.

Il Parlamento ribadisce inoltre l’opportunità di istituire una configurazione formale del Consiglio sulla parità di genere, in modo da istituire un apposito forum di discussione e agevolare meglio l'integrazione della dimensione di genere in tutte le politiche dell'UE, tra cui le politiche sociali e occupazionali. Come rilevato in una precedente risoluzione approvata il 17 dicembre 2020, una formazione del Consiglio dedicata alla parità di genere rappresenterebbe un elemento fondamentale per:

·     sbloccare i negoziati sui principali fascicoli relativi alla parità di genere, tra cui la ratifica della convenzione di Istanbul;

·     l'adozione della succitata proposta di direttiva relativa alla presenza delle donne nei consigli di amministrazione;

·     l'adozione della proposta di direttiva del Consiglio recante applicazione del principio di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale (direttiva contro le discriminazioni).

 

Nella riunione del 21 gennaio 2021, il Parlamento europeo ha altresì approvato una risoluzione sull'eliminazione del divario digitale di genere e sulla partecipazione delle donne all'economia digitale, in cui invita la Commissione e gli Stati membri ad allineare le misure volte a promuovere la transizione digitale con gli obiettivi dell'Unione in materia di parità di genere. Il Parlamento propone tra l’altro di creare programmi di imprenditoria e finanziamento di progetti o nuove imprese tecnologici, nonché adottare un approccio multilivello per affrontare il divario di genere a tutti i livelli di istruzione e occupazione nel settore digitale.

 

Nella risoluzione sulla prospettiva di genere nella crisi COVID-19, si sottolinea l'esigenza di rispecchiare i principi dell'integrazione della prospettiva di genere e del bilancio di genere in tutti gli aspetti della risposta alla crisi sanitaria per preservare e tutelare i diritti delle donne durante tutta la pandemia e nel periodo successivo e per rafforzare la parità di genere, tenuto conto del fatto che le donne sono state particolarmente colpite dalla pandemia.

 

L’11 febbraio 2021 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulle sfide future in relazione ai diritti delle donne in Europa, in cui rileva con preoccupazione che il quinto riesame della piattaforma d'azione di Pechino (BPFA) ha evidenziato che nessuno Stato membro europeo ha completato gli obiettivi stabiliti dalla Convenzione di Pechino nel 1995.

Nella risoluzione si esprime profonda preoccupazione anche per l'attuale pandemia, che esacerba le disparità di genere esistenti, minaccia di invertire i progressi compiuti fino ad ora e potrebbe spingere 47 milioni di donne e ragazze in più sotto la soglia di povertà in tutto il mondo.

Per contrastare la violenza contro le donne, il Parlamento ribadisce l’appello a ratificare la Convenzione di Istanbul e sollecita la Commissione a elaborare una proposta di direttiva volta a prevenire e combattere tutte le forme di violenza di genere. Si sottolinea l’importanza di affrontare con urgenza l'aumento della violenza domestica durante la pandemia COVID-19 fornendo servizi di protezione per le vittime, come linee di assistenza telefonica, alloggi sicuri e servizi sanitari. Gli Stati sono altresì invitati ad adottare le misure necessarie per sradicare la violenza informatica, comprese le molestie online, il cyberbullismo e l'incitamento all'odio, che colpiscono in modo sproporzionato donne e ragazze.

 

Nel settembre 2021, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione con la quale si chiede alla Commissione di presentare una proposta di decisione del Consiglio che identifichi la violenza di genere come una nuova sfera di criminalità e di fissare la base giuridica per annoverare la violenza di genere tra i reati comunitari. Questo permetterebbe di equipararla a crimini come il terrorismo, la tratta degli esseri umani, la criminalità informatica, lo sfruttamento sessuale e il riciclaggio di denaro. Tale iniziativa consentirebbe di stabilire definizioni e standard giuridici comuni, nonché fissare sanzioni penali minime in tutta l'UE.

Da ultimo, nell'ottobre 2021 il Parlamento ha chiesto misure urgenti per proteggere le vittime della violenza nelle battaglie per la custodia, sottolineando che le udienze dovrebbero essere condotte da professionisti qualificati e svolgersi in ambienti a misura di bambino. I deputati hanno inoltre esortato i paesi dell'UE a sostenere le vittime per consentire loro di raggiungere l'indipendenza finanziaria e abbandonare le relazioni abusive e violente.

Dati sulla parità tra donne e uomini nell'UE

In base all’indice 2021 sull'uguaglianza di genere dell'UE, strumento di misurazione dell’equilibrio tra i sessi elaborato dall’EIGE (l’Istituto europeo per la parità di genere[5]) in una serie di domini chiave, gli Stati membri hanno ottenuto in media 68 punti su 100.

L'Indice utilizza una scala da 1 a 100, dove 1 è per la disuguaglianza totale e 100 è per l'uguaglianza totale. I punteggi si basano sul divario tra donne e uomini e sui livelli di rendimento in sei settori principali: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute - e i loro sottodomini.

Secondo l’indice il potere è il dominio che continua a registrare il punteggio più basso (55) nell’UE, anche se ha conosciuto i progressi più rapidi. Il tempo è l’unico dominio ad aver registrato un calo in 10 anni e ora è pari a 64,9. Ciò significa che le disuguaglianze di genere nel tempo dedicato ai lavori domestici e all’assistenza o alle attività sociali sono in aumento.

L’indice assegna all’Italia il 14° posto nell’UE con un punteggio di 63,8, circa 4 punti e mezzo sotto la media europea.

Pur nel contesto di un andamento generale dell’UE sotto le attese, l’Indice rileva che l'Italia sta progredendo verso l'uguaglianza di genere a un ritmo più veloce rispetto agli altri Stati membri dell'UE. La sua classifica è migliorata di sette posizioni dal 2010.

 

Di seguito il trend 2013- 2021 in Italia dei principali parametri dell’Indice UE sulla parità di genere (Indice generale=viola; lavoro=azzurro; denaro=giallo; conoscenza=verde; tempo=arancione; potere=rosso; salute=rosa). In grigio il valore della media UE.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


I punteggi più alti dell'Italia riguardano i domini della salute (88,4 punti) e del denaro (79,4 punti), in cui si colloca al 11° e 14° posto rispetto agli altri Stati membri. Le disuguaglianze di genere sono più pronunciate nei domini del potere (52,2 punti), del tempo (59,3 punti) e della conoscenza (59 punti). L'Italia ha il punteggio più basso nell'UE nel dominio del lavoro (63,7 punti). Circa l’andamento decennale, il punteggio dell'Italia è migliorato maggiormente nel dominio del potere (+ 27 punti dal 2010 e + 3,4 punti dal 2018) e della conoscenza (+ 8,1 punti), avanzando di 8 posizioni dal 2010. Le prestazioni dell'Italia potrebbero essere notevolmente migliorate nel settore del lavoro, in cui si colloca costantemente all'ultimo posto tra tutti gli Stati membri dell'UE. L'Italia è la più lontana dalla parità di genere nel sottodominio della partecipazione al lavoro, classificandosi al 27° posto con un punteggio di 69,1 punti. Un passo indietro si registra nel dominio della conoscenza: dal 2018 il punteggio dell'Italia è diminuito (– 2,9 punti), scendendo dall'11° al 13° posto. Il divario di genere nell'istruzione è notevolmente aumentata in questo breve periodo (– 6,3 punti).

Il contrasto alle mutilazioni genitali femminili in Europa

Il fenomeno

La Commissione europea ritiene che siano circa 600 mila le donne e le ragazze che in Europa hanno subito mutilazioni genitali e che 180 mila ragazze corrano lo stesso rischio. L’Istituto europeo per la parità di genere (EIGE), inoltre, ha stimato le percentuali di rischio nei singoli Stati membri.

In particolare, in uno studio dell’EIGE (condotto nel biennio 2017-2018 nei seguenti Stati membri: Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Italia e Malta) si stima che in Italia dal 15 al 24 % delle ragazze siano a rischio di mutilazioni genitali femminili (MGF) su una popolazione totale di circa 76 mila ragazze di età compresa tra 0 e 18 anni provenienti da Paesi in cui esiste tale fenomeno. Le ragazze a rischio di mutilazioni genitali femminili in Italia sono per lo più originarie dell’Egitto. Gruppi più piccoli di ragazze a rischio provengono da Senegal, Nigeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Etiopia e Guinea.

 

 

Di seguito una tabella con il numero e la percentuale stimati di ragazze di età compresa tra 0 e 18 anni nella popolazione migrante residente a rischio di MGF:

 

Strumenti di prevenzione

Varie misure, nel contesto generale della lotta alla violenza sulle donne, e specificamente in materia di MGF, sono state adottate dall’UE in particolare a partire dal 2017, anno dedicato dall’Unione europea al contrasto alla violenza sul genere femminile.

Si ricordano, in particolare, il sito web dedicato NON.NO.NEIN - Say No, Stop Violence Against Women, che fornisce la piattaforma principale dell’UE contro la violenza sulle donne, e l’iniziativa UE-ONU Spotlight che si concentra sull'educazione sanitaria, i diritti dei bambini e le leggi che vietano le MGF.

Nel mese di febbraio 2017, è stata lanciata una piattaforma web sulla mutilazione genitale femminile per formare giudici, infermieri, addetti agli asili, medici, insegnanti, agenti di polizia e altri professionisti che sono in contatto con ragazze a rischio e donne che hanno subito MGF.

Inoltre la Commissione diffonde materiale formativo sulle MGF per i professionisti del diritto, attraverso il portale europeo della giustizia elettronica. Il corso di e-learning "Uniti contro le mutilazioni genitali femminili" affronta il problema delle MGF nel contesto dei servizi sanitari e di asilo. La Commissione europea ha altresì pubblicato un'analisi dei casi giudiziari europei relativi alle MGF nel 2016, nel tentativo di identificare ciò che ha permesso agli Stati di perseguire efficacemente tale fenomeno.

L'UE sostiene progetti in tutto il mondo dedicati all'eliminazione della violenza sessuale e di genere, e più in particolare delle MGF, in 19 paesi dell'Africa (importo totale di circa 13,8 milioni di euro). Un esempio di questo sostegno dell'UE comprende un progetto dedicato al rafforzamento delle capacità della Corte africana per i diritti umani e delle persone di combattere la violenza sessuale contro le donne e le sue conseguenze. Comprende, inoltre, un contributo dell'UE di 11 milioni di euro ai programmi congiunti UNICEF-UNFPA sull'abbandono delle MGF, i quali mirano a:

·     sostenere 17 Paesi nell'attuazione di quadri giuridici e politici per l’eliminazione delle MGF;

·     fornire servizi a ragazze e donne a rischio di MGF o che hanno avuto esperienza nei Paesi partecipanti ai programmi;

·     sostenere attività volte a convincere le comunità locali a non praticare tali pratiche.

La Commissione sostiene inoltre gli sforzi volti all'eliminazione della pratica delle MGF nel vicinato meridionale, ad esempio in Egitto, con il progetto: "Abbandono delle mutilazioni genitali femminili (MGF) e il programma congiunto per l'empowerment delle famiglie" iniziato nel mese di dicembre 2011 e terminato nel 2017.

Il recente Piano d’azione per il periodo 2021-2025 (GAP III) è volto ad accrescere il contributo dell’UE per il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile n. 5 nell’ambito dell’Agenda 2030, che prevede tra gli altri l’obiettivo di eliminare ogni forma di violenza contro tutte le donne, bambine e ragazze nella sfera pubblica e privata, incluso il traffico a fini di prostituzione, lo sfruttamento sessuale e altri tipi di sfruttamento e di eliminare tutte le pratiche abusive, come il matrimonio delle bambine, forzato e combinato, e le mutilazioni dei genitali femminili.

Iniziative del Parlamento europeo

Il Parlamento europeo ha ripetutamente dimostrato un forte impegno per aiutare ad eliminare questa pratica della mutilazione genitale femminile in tutto il mondo adottando norme e risoluzioni.

L’Assemblea plenaria ha approvato una risoluzione il 12 febbraio 2020 con la quale si invitano, tra l’altro, la Commissione europea e gli Stati membri a:

·     garantire che il futuro bilancio dell'UE sia in grado di far fronte alla complessità del problema e sostenga interventi transfrontalieri per sradicare le mutilazioni genitali femminili in tutto il mondo;

·     garantire che i sopravvissuti alle mutilazioni abbiano accesso a servizi di supporto specializzati e riservati;

·     garantire i più elevati standard di protezione internazionale per quanto riguarda le richiedenti asilo vulnerabili che hanno subito mutilazioni genitali femminili;

·     avviare una revisione della comunicazione del 2013 intitolata "Verso l'eliminazione delle mutilazioni genitali femminili" al fine di garantire l'ampliamento delle azioni contro la pratica in tutto il mondo;

·     affrontare le disparità di leggi, politiche e prestazione di servizi tra Stati membri, in modo che le donne/ragazze colpite o a rischio di MGF possano accedere a pari standard di trattamento in tutta l'UE;

·     garantire che i prossimi documenti programmatici dell’UE per l'uguaglianza di genere includano misure per sradicare le mutilazioni genitali femminili e fornire assistenza alle sopravvissute;

·     creare piattaforme che riuniscano una varietà di parti interessate per coordinare meglio la cooperazione e garantire l'esistenza di meccanismi strutturati per coinvolgere i rappresentanti delle comunità colpite dalle mutilazioni genitali femminili e le organizzazioni femminili locali;

·     garantire che i negoziati e la revisione degli accordi commerciali e di cooperazione dell'UE con i Paesi terzi tengano conto del rispetto delle norme internazionali in materia di diritti umani, compresa l'eliminazione della mutilazione genitale femminile come una violazione sistematica dei diritti fondamentali.

 

Da ultimo, nella risoluzione sulla strategia dell’Ue sulla parità di genere, approvata nella seduta del 21 gennaio 2021, il Parlamento europeo sostiene la necessità di una direttiva europea per prevenire e combattere tutte le forme di violenza di genere, tra cui le mutilazioni genitali femminili. La necessità di tale direttiva è stata ribadita anche nella risoluzione approvata dall’assemblea plenaria l’11 febbraio 2021.


Politiche sociali e sanitarie in tema di pari opportunità

Politiche sociali

Nel Report Natalità e fecondità della popolazione residente riferito al 2020 l’Istat registra ancora un record negativo: i nati nel 2020 sono 404.892 (-15 mila rispetto al 2019). Il calo (-2,5% nei primi 10 mesi dell’anno) si è accentuato a novembre (-8,3% rispetto allo stesso mese del 2019) e dicembre (-10,7%), mesi in cui si cominciano a contare le nascite concepite all’inizio dell’ondata epidemica. La denatalità prosegue nel 2021. Secondo i dati provvisori di gennaio-settembre le minori nascite sono già 12.500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020. Il numero medio di figli per donna scende nel 2020 a 1,24 per il complesso delle residenti, da 1,44 negli anni 2008-2010, anni di massimo relativo della fecondità. Nel corso degli anni il continuo aumento della sopravvivenza nelle età più avanzate e il costante calo della fecondità hanno reso l’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo.

Il calo demografico ha portato con sé il crollo della popolazione attiva a 24,9 milioni di persone dai 25,4 del febbraio 2020 con la conseguenza di un tasso di occupazione (occupati rispetto alle forze di lavoro) che appare tornato al livello pre pandemia del 59%. Per quanto riguarda le differenze di genere, il mese di dicembre 2021 ha visto salire solo l’occupazione femminile (+54mila), conseguenza in gran parte attribuibile alla ripresa (+5,8%) del settore dei servizi (sospesi o interrotti nei momento più difficili della pandemia); il tasso di occupazione femminile sale così al 50,5% (Istat, Il mercato del lavoro III trimestre 2021, dicembre 2021). Percentuale ancora molto bassa rispetto agli altri paesi europei. A incidere pesantemente sul tasso di occupazione femminile anche il fatto che il 67% del lavoro di cura domestica e familiare nella coppia viene assorbito dalla donna. Come sottolineato nell’Indagine Ipsos “La condizione economica delle donne in epoca Covid-19”, avere figli ha avuto (soprattutto nel periodo del confinamento) conseguenze molto diverse per uomini e donne.

Inoltre nel periodo pandemico, le donne hanno sofferto moltissimo delle contrazioni del mercato del lavoro e delle crisi innestate dai periodi di lockdown.

Il Rapporto Caritas 2021 su povertà ed esclusione sociale in Italia[6] ci racconta che il 50,9% dei nuovi poveri è di genere femminile, il 49,1% maschile. Gli stranieri rappresentano poco più della metà (il 52%), seguiti a poca distanza dagli italiani (46,6%), a cui si aggiunge poi una piccola percentuale di persone con doppia cittadinanza e apolidi (1,5%). Tra gli stranieri, l’incidenza degli uomini (50,7%) è leggermente più alta, tra gli italiani al contrario risulta più marcato il peso delle donne (52,7%). Ancora, sottolinea il Rapporto, “L’impatto socio-economico della pandemia non è stato uguale per tutti. A pagare un duro prezzo, forse il più salato sono state senza dubbio le donne. Donne sulle quali è gravato tutto il carico di cura e le responsabilità familiari legate a figli, persone anziane, ammalati e disabili, in particolare (ma non solo) durante il primo lockdown della primavera 2020. Donne che dunque in qualche modo hanno supplito al regredire delle agenzie scolastiche, dei servizi pubblici, dei servizi diurni e dell’assistenza domiciliare”.

Infine un ultimo dato che arriva da un Report Istat relativo a matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi nel 2020: anno in cui si è registrato un crollo di portata eccezionale che ha quasi dimezzato il numero delle nozze: sono stati celebrati 96.841 matrimoni, 87 mila in meno rispetto al 2019 (-47,4%).La battuta d’arresto si osserva a partire da marzo 2020 con picchi ad aprile e maggio proprio per via delle pesanti restrizioni imposte dalla pandemia. Alcune misure di contenimento (divieto di assembramenti, numero massimo di persone in caso di eventi) hanno comunque riguardato l’intero anno 2020 e si sono protratte nel 2021. Ulteriori elementi a sfavore delle nozze si sono aggiunti, via via, a seguito del dispiegarsi degli effetti sociali ed economici indotti dalla crisi sanitaria. La protratta permanenza dei giovani nella famiglia di origine - causata da molteplici fattori quali l’aumento diffuso della scolarizzazione e l’allungamento dei tempi formativi, le difficoltà nell’ingresso nel mondo del lavoro e la condizione di precarietà del lavoro stesso; la difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni - ha come è noto un effetto diretto sul rinvio delle prime nozze. Tale effetto si amplifica nei periodi di congiuntura economica sfavorevole, spingendo i giovani a ritardare ulteriormente, rispetto alle generazioni precedenti, le tappe dei percorsi verso la vita adulta, tra cui quella della formazione di una famiglia.

Prestazioni monetarie per cura e assistenza prima infanzia

Dal mese di marzo 2022 verrà erogato l'assegno unico e universale (AUU), che però può essere richiesto all'INPS fin dal mese di gennaio 2022 (FAQ INPS su Assegno unico e universale – Focus del MEF).

Con l’erogazione dell’assegno unico e universale vengono abrogati: il Premio alla nascita (Bonus mamma domani), l’Assegno di natalità (Bonus bebè), il Fondo di sostegno alla natalità, gli Assegni al Nucleo Familiare (ANF) e le detrazioni per i figli a carico al di sotto dei 21 anni. Rimangono in vigore l’assegno di maternità dei Comuni e il Bonus nido (si veda infra). Dalla soppressione di questi strumenti (le detrazioni per figli a carico sono state soppresse con riferimento ai figli con età non superiore a 21 anni e gli ANF con riferimento ai nuclei con figli) derivano risorse impiegabili per l’AUU per quasi 13 miliardi che si sommano ai 6 miliardi aggiuntivi stanziati dalla Legge di bilancio per il 2021 e confermati per il 2022.

L’introduzione dell’AUU intende riformare gli strumenti di sostegno alle famiglie e alla natalità attraverso una razionalizzazione delle prestazioni e degli strumenti vigenti. La Riforma, per la sua vocazione universalistica, interessa anche gli incapienti, i disoccupati di lungo periodo e le famiglie di lavoratori autonomi, nonché alcune categorie precedentemente escluse (quali gli stagionali). In tale prospettiva, la misura intende contribuire alla ripresa della natalità e al sostegno dell’occupazione dei genitori, con particolare riguardo a quella femminile.

Assegno unico e universale (AUU)

L'assegno unico e universale (istituito dal D. Lgs. 21 dicembre 2021, n. 230, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1 aprile 2021, n. 46), è riconosciuto mensilmente:

- per ciascun figlio minorenne a carico, a decorrere dal settimo mese di gravidanza. Per i figli successivi al secondo all'importo dell'assegno viene applicata una maggiorazione;
- per ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento del ventunesimo anno di età, con possibilità di corresponsione dell'importo direttamente al figlio, su sua richiesta, al fine di favorirne l'autonomia (assegno mensile, di importo inferiore a quello riconosciuto per i minorenni). L'assegno ai maggiorenni è concesso solo nel caso in cui il figlio frequenti un percorso di formazione scolastica o professionale, un corso di laurea, svolga un tirocinio ovvero un'attività lavorativa limitata con reddito complessivo inferiore a un determinato importo annuale, sia registrato come disoccupato e in cerca di lavoro presso un centro per l'impiego o un'agenzia per il lavoro o svolga il servizio civile universale.
E' previsto inoltre il riconoscimento dell'assegno mensile:
- di importo maggiorato a favore delle madri di età inferiore a 21 anni;
- di importo maggiorato in misura non inferiore al 30% e non superiore al 50% per ciascun figlio con disabilità, con maggiorazione graduata secondo le classificazioni della condizione di disabilità;
- senza maggiorazione, anche dopo il compimento del ventunesimo anno di età, qualora il figlio con disabilità risulti ancora a carico.
L'assegno è concesso nella forma di credito d'imposta ovvero di erogazione mensile di una somma in denaro.
L'assegno, proprio perché basato sul principio universalistico, costituisce un beneficio economico attribuito con criteri di progressività a tutti i nuclei familiari con figli a carico, nell'ambito delle risorse del Fondo assegno universale e servizi alla famiglia e dei risparmi di spesa  derivanti da graduale superamento o dalla soppressione delle misure ora vigenti per il sostegno dei figli a carico.

La domanda per l'assegno dovrà essere inoltrata ogni anno. Ma chi percepisce il reddito di cittadinanza (RdC) non dovrà inoltrarla, in quanto l'assegno unico verrà pagato d'ufficio dall'Inps (parte della copertura, per circa 0,8 miliardi, deriva dalla decurtazione dell’AUU per i percettori di RdC. Pur essendo stata confermata la compatibilità tra il RdC e l’AUU, per questi soggetti, infatti, è prevista una decurtazione dell’AUU pari all’ammontare della quota figlio del RdC determinando in questo modo un risparmio di spesa).

Come stabilito dal decreto delegato, l'importo dell'assegno unico e universale è parametrato ai diversi livelli ISEE e alle diverse tipologie di nucleo familiare. Il valore massimo dell'assegno è pari a 175 euro al mese per ciascun figlio minorenne nelle famiglie con ISEE inferiore o pari a 15.000 euro. Tale importo si riduce gradualmente a seconda dei livelli ISEE fino a raggiungere un valore minimo e costante (pari a 50 euro) in corrispondenza di ISEE pari o superiore a 40.000 euro. Pertanto, gli importi mensili per ciascun figlio minorenne variano dalla misura piena di 175 euro ad un minimo di 50 euro.

Ugualmente, l'importo dell'assegno diminuisce al crescere della condizione economica anche per ciascun figlio maggiorenne (anche se disabile) dai 18 ai 21 anni; in questi casi gli importi variano da 85 a 25 euro mensili. Nel caso di assenza di ISEE (dati autodichiarati dal richiedente l'assegno) spettano gli importi minimi previsti per ISEE pari o superiore a 40.000 euro e le maggiorazioni fisse e variabili (queste ultime negli importi minimi previsti).

Sono poi previste una serie di maggiorazioni dell'importo dell'assegno:
- per ciascun figlio successivo al secondo: maggiorazione d'importo variabile compresa tra 85 e 15 euro mensili (a seconda dei livelli ISEE);
- per ciascun figlio minorenne con disabilità: maggiorazione fissa differenziata sulla base della condizione di disabilità come definita ai fini ISEE, da applicare agli importi dell'assegno per i figli minorenni o per i figli successivi al secondo, pari a 105 euro mensili in caso di non autosufficienza, a 95 euro mensili in caso di disabilità grave e a 85 euro mensili in caso di disabilità media;
- per le madri di età inferiore a 21 anni: maggiorazione fissa pari a 20 euro mensili per ciascun figlio;
- per i nuclei familiari in cui entrambi i genitori siano titolari di reddito da lavoro: maggiorazione variabile per ciascun figlio minore (30 euro mensili in misura piena in corrispondenza di un ISEE inferiore o pari a 15.000 euro che si riducono gradualmente fino ad annullarsi in corrispondenza di un ISEE pari a 40.000 euro);
E' altresì prevista una maggiorazione fissa pari a 50 euro mensili per ciascun figlio con disabilità dai 18 ai 21 anni e una maggiorazione forfettaria pari a 100 euro mensili per i nuclei familiari con quattro o più figli.

Al fine di consentire la graduale transizione alla nuova misura e di garantire il rispetto della progressività, si prevede, per le prime tre annualità, una maggiorazione transitoria mensile dell'assegno unico riconosciuta in favore dei nuclei familiari con valore ISEE non superiore a 25.000 euro, che, in presenza di figli minori - da parte del richiedente o da parte di altro componente del nucleo familiare del richiedente - abbiano effettivamente percepito nel corso del 2021 l'assegno per il nucleo familiare (ANF). In tale ambito, la maggiorazione è riconosciuta, nel periodo 1° marzo 2022-31 dicembre 2022, per intero e, nel periodo 1° gennaio 2023-28 febbraio 2025, secondo una percentuale decrescente nel tempo.

 

La legge di bilancio 2020 (art. 1, co. 339, legge n. 160 del 2019) ha istituito il "Fondo assegno universale e servizi alla famiglia", indirizzato al riordino e alla sistematizzazione delle politiche di sostegno alle famiglie con figli. Dal 2021, nel Fondo, confluiscono le risorse dedicate all'erogazione dell'assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e del Bonus asilo nido, rifinanziato dalla legge di bilancio 2021. Per il 2021, anche il rifinanziamento del congedo di paternità (106,1 milioni di euro) è a valere sul Fondo.

Il Fondo è stato istituito con una dotazione inizialmente pari a 1.044 milioni di euro per il 2021 e a 1.244 milioni di euro annui a decorrere dal 2022. La legge di bilancio 2021 (art. 1, co. 7, della legge n. 178 del 2020) ha incrementato il Fondo di 3.012,1 milioni di euro. Per gli anni successivi, la manovra di bilancio 2021 ha inoltre destinato all'assegno universale e servizi alla famiglia una quota di risorse del Fondo per l'attuazione della delega fiscale, comprese tra un minimo di 5.000 e un massimo di 6.000 milioni (art. 1, co. 2 della legge n. 178 del 2020).

Si ricorda infine che la legge delega ha impegnato il Governo ad adottare, entro dodici mesi dall'entrata in vigore, uno o più decreti legislativi volti a definire nel dettaglio l'applicazione della misura, attenendosi ai principi e criteri direttivi previsti dalla medesima legge delega n. 46. Nelle more dell'approvazione dei decreti legislativi, il decreto legge n. 79 del 2021, considerata la necessità di introdurre in via temporanea misure immediate volte a sostenere la genitorialità e a favorire la natalità, ha autorizzata, per il semestre luglio-dicembre 2021, l'erogazione su base mensile, da parte dell'INPS, di un assegno temporaneo per figli minori per ogni figlio al di sotto dei 18 anni, inclusi i figli minori adottati e in affido preadottivo.

Bonus bebè (Assegno di natalità)

A partire da marzo 2022, la misura è sostituita dall'Assegno unico e universale per i figli a carico.

 

La legge di bilancio 2021 (art. 1, comma 362, della legge n. 178 del 2020) ha rinnovato, per l’ultima volta, l'assegno di natalità (c.d. Bonus bebè istituito dalla legge di stabilità 2015 - commi 125-129 della legge 190/2014) per ogni figlio nato o adottato nel 2021. Il bonus è erogato con le modalità previste dalla legge di bilancio 2020 (art. 1, comma 340, della legge n. 160 del 2019), ovvero esclusivamente fino al compimento del primo anno di età o del primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell'adozione.

La legge di bilancio 2020 ha rimodulato la prestazione con nuove soglie di ISEE ma, in applicazione del principio dell'accesso universale, il beneficio spetta, nei limiti di un importo minimo, anche per ISEE superiori alla soglia di 40.000 euro o anche in assenza dell'indicatore ISEE. Più precisamente, l'importo dell'assegno annuo è così modulato:

a) 1.920 euro (160 euro al mese) qualora il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l'assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell'ISEE minorenni non superiore a 7.000 euro annui;

b) 1.440 euro (120 euro al mese) per nuclei familiari in una condizione economica corrispondente a un valore dell'ISEE minorenni compreso fra le soglie ISEE di 7.000 e 40.000 euro;

c) 960 euro (80 euro al mese) per nuclei familiari in una condizione economica corrispondente a un valore dell'ISEE minorenni superiore a 40.000 euro;

d) in caso di figlio successivo al primo, nato o adottato tra il 1° gennaio 2021 e il 31 dicembre 2021, l'importo dell'assegno di cui alle lettere a), b) e c) è aumentato del 20 per cento.

 

Premio alla nascita o bonus mamma domani

A partire da marzo 2022, la misura è sostituita dall'Assegno unico e universale per i figli a carico.

 

L’assegno una tantum, pari ad 800 euro è stato istituito dalla legge di bilancio 2017 (art. 1, co. 353, legge n. 232 del 2016) a decorrere dal 1° gennaio 2017. Il maggior onere della misura è stato stimato, al momento della sua istituzione, in 392 milioni di euro annui. Il beneficio era corrisposto in unica soluzione dall'INPS a domanda della futura madre al compimento del settimo mese di gravidanza o all'atto dell'adozione.

Bonus asilo nido per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido o forme di supporto presso la propria abitazione

Il bonus è l’unica prestazione economica rivolta alle famiglie che continua ad essere erogata contestualmente all’assegno unico ed universale. La prestazione è stata introdotta dalla legge di bilancio 2017 (art. 1, comma 355, legge n. 232 del 2016), per il pagamento di rette per la frequenza di asili nido pubblici e privati autorizzati e di forme di assistenza domiciliare in favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie croniche. La legge di bilancio 2020 (art. 1, commi 343 e 344, della legge n. 160 del 2019) ha rimodulato e incrementato il bonus in base a soglie ISEE differenziate:

·      è pari a 1.500 euro per i nuclei familiari con ISEE minorenni superiore a 40.000 euro;

·      è incrementato di 1.000 euro per i nuclei familiari con un ISEE minorenni da 25.001 euro a 40.000 euro (raggiungendo l'importo di 2.500 euro);

·      è incrementato di ulteriori 1.500 euro per i nuclei familiari con un valore ISEE minorenni fino a 25.000 euro, (raggiungendo così l'importo di 3.000 euro).

Il buono è corrisposto dall'INPS al genitore richiedente, previa presentazione di idonea documentazione attestante l'iscrizione e il pagamento della retta a strutture pubbliche o private. Dal 2021 le risorse sono a valere sul "Fondo assegno universale e servizi alla famiglia" istituito dall'articolo 1, comma 339, della legge di bilancio 2020 (legge n. 160/2019).

 

L’Istat[7] evidenzia che dal 2017 al 2020, l’INPS ha erogato complessivamente per il bonus 523 milioni di euro, con una spesa crescente fino al 2019. Nel 2020 i dati forniti dall’INPS mostrano una battuta d’arresto, a causa delle chiusure temporanee dei servizi per la pandemia da Covid-19 e della rinuncia delle famiglie a utilizzare regolarmente il servizio nel corso dell’anno. Sono 271.780 i beneficiari del bonus nel 2020 (21,2% dei bambini 0-2 anni), quasi 18mila in meno rispetto all’anno precedente (21,5%). Il lieve calo dei percettori del bonus si accompagna a un minor numero di mensilità percepite nell’anno: la media per beneficiario passa da 6,4 mensilità nel 2019 a 4,6 nel 2020. Diminuiscono quindi l’importo medio annuo percepito dal singolo beneficiario (da 833 a 725 euro annui) e la spesa complessivamente erogata dall’INPS (197 milioni di euro nel 2020, 44 milioni in meno rispetto al 2019). Nel 2020 si rilevano diseguaglianze territoriali già riscontrate negli anni precedenti. La quota di bambini di 0-2 anni fruitori del bonus è 28,8% al Centro, 24,3% al Nord-est, 21,6% al Nord-ovest, 14,7% al Sud e 16,1% nelle Isole. Varia notevolmente anche l’importo pro-capite percepito: al Centro un bambino residente di 0-2 anni riceve in media 210 euro all’anno a fronte dei 93 euro erogati a un bambino residente del Sud.

 

 

Fonte Istat, Offerta di asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia: anno educativo 2018/2020

 

Ricorso a nidi e servizi integrativi per l’infanzia nel periodo emergenziale

La prima fase del periodo emergenziale, nel 2020, ha coinciso con la chiusura di tutte le scuole e di tutti i servizi educativi (marzo-maggio) e con il ricorso alla Didattica a Distanza (DAD). Nel secondo semestre del 2020, sono stati fatti tentativi di parziali riaperture con le attività estive (giugno-agosto), e ci si è dedicati alla complessa preparazione della riapertura dei servizi educativi e degli istituti di istruzione, in presenza e sicurezza, avvenuta a partire dal 14 settembre 2020, sebbene già a fine ottobre-inizio novembre 2020, sono riprese le chiusure totali o parziali, anche in questo caso con differenziazioni territoriali corrispondenti alle zone con livello di rischio più alto.

A fronte di questa situazione, con l’obiettivo di recuperare almeno in parte l'offerta educativa e culturale destinata ai bambini ed agli adolescenti che, a causa dell'emergenza sanitaria e della chiusura delle attività didattiche resa necessaria dall'attuazione delle misure di contenimento, non avevano potuto svolgere adeguate esperienze, anche di contatto sociale, al di fuori del contesto domestico e familiare e per venire incontro alle esigenze dei genitori/lavoratori chiamati, nella Fase 2 della pandemia, a riprendere lo svolgimento della propria attività, l'art. 105 del Decreto Rilancio (decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020) ha incrementato, per il 2020, le risorse del Fondo per le politiche della famiglia di 150 milioni di euro, allo scopo di destinare ai Comuni una quota di 135 milioni per il potenziamento durante il periodo estivo dei centri estivi diurni, dei servizi socioeducativi territoriali e dei centri con funzione educativa e ricreativa per i bambini e adolescenti di età compresa tra zero e 16 anni, nonché di destinare i restanti 15 milioni di euro al contrasto della povertà educativa con iniziative mirate (riparto dei 135 milioni avvenuto con il decreto 25 giugno 2020, Allegato 1 e Allegato 2, mentre i restanti 15 milioni sono stati assegnati tramite il bando Educare in Comune, per progetti per il contrasto della povertà educativa e il sostegno delle opportunità culturali e educative di persone minorenni). L'art. 30, comma 6-quater, del decreto legge n. 41 del 2021 ha poi consentito di utilizzare fino al 31 dicembre 2021 (precedentemente fino al 30 giugno 2021), le risorse non spese di cui all'art. 105 del decreto legge n. 34 del 2020. Contestualmente sono state pubblicate le Linee guida per la gestione in sicurezza di opportunità organizzate di socialità e gioco per bambini ed adolescenti nella fase 2 dell'emergenza COVID-19i.

Nel 2021, dopo la pausa natalizia, nella maggioranza delle regioni le scuole dell’infanzia, le primarie e secondarie di primo grado (in qualche caso solo le classi prime hanno riaperto in presenza. Per le superiori invece si è assistito ad una riapertura in presenza (ma non in tutte le regioni e comunque in tempi diversi), con consistenti percentuali di DDI.

Per il 2021, l'art. 63 del decreto legge n. 73 del 2021 (c.d. Sostegno bis), ha riproposto la previsione di cui all'art. 105 del decreto legge n. 34 del 2020, incrementando di 135 milioni di euro il Fondo per le politiche della famiglia. Tali risorse sono state destinate al finanziamento delle iniziative dei Comuni rivolte al potenziamento dei centri estivi e dei servizi socioeducativi territoriali, dei centri con funzione educativa e ricreativa destinati alle attività dei minori nel periodo 1° giugno - 31 dicembre 2021. I criteri di riparto delle risorse ai Comuni, nonché le modalità di monitoraggio dell'attuazione degli interventi finanziati, e quelle di recupero delle somme attribuite, nel caso di mancata manifestazione di interesse alle iniziative, ovvero di mancata o inadeguata realizzazione dell'intervento, sono stati stabiliti con decreto del Ministro per le pari opportunità e la famiglia sul cui schema è stata sancita intesa il 24 giugno 2021 in Conferenza unificata. Le risorse sono state destinate direttamente ai 7.145 comuni beneficiari. Il tasso di adesione dei comuni al finanziamento per il 2021 è stato pari al 95%, confermando il forte interesse verso la misura.

Si ricorda infine l'ordinanza congiunta Salute/Famiglia del 21 maggio 2021 recante "Linee guida per la gestione in sicurezza di attività; educative non formali e informali, e ricreative, volte al benessere dei minori durante l'emergenza COVID-19" rivolte ai soggetti pubblici e privati che offrono attività educative non formali e informali, nonche? attività ricreative volte al benessere dei minori. Tra tali attività sono ricomprese, a titolo esemplificativo le attività svolte: in centri estivi; in servizi socioeducativi territoriali; in centri con funzione educativa e ricreativa destinati ai minori; presso associazioni, scout, cooperative, parrocchie e oratori e gruppi giovanili delle comunità religiose (c.d. attività di comunità). Sono inoltre ricomprese: attività educative che prevedono il pernottamento, anche residenziali; spazi per il gioco libero, laboratori e servizi doposcuola, ludoteche; scuole di danza, lingua, musica, teatro e altre attività educative extracurriculari, con esclusione di attività di formazione professionale; attività presso istituzioni culturali e poli museali; attività che prevedono la costante presenza dei genitori o tutori insieme ai bambini in età da 0 a 6 anni (es. corsi per neogenitori, corsi di massaggio infantile); attività svolte da nidi e micronidi, sezioni primavera e servizi integrativi che concorrono all'educazione e alla cura delle bambine e dei bambini; attività di nido familiare (cd. tagesmutter); attività all'aria aperta (es. parchi pubblici, parchi nazionali, foreste).

 

L’Istat nel Report “Nidi e servizi integrativi per la prima infanzia” chiarisce che da un’indagine realizzata nei mesi di aprile-maggio 2021 su un campione di nidi e sezioni primavera pubblici e privati, emergono le criticità affrontate dai gestori dei servizi all’avvio dell’anno educativo 2020/2021. Fra i problemi più frequenti i servizi indicano: il timore delle famiglie (84%) e degli operatori (86%) per il rischio di contagio, le difficoltà organizzative nella gestione degli spazi (82%) e degli orari (68%), l’approvvigionamento dei prodotti per la sanificazione (70%) e le difficoltà delle famiglie a pagare le rette (60%). Il 29% dei gestori del settore pubblico e il 45% di quelli del settore privato dichiarano un calo delle iscrizioni (con una plausibile contrazione delle entrate provenienti dalle rette). Si riscontra inoltre la necessità di affrontare costi straordinari (88% dei servizi) e l’aumento dei costi di gestione (85%), nella maggior parte dei casi consistenti o molto consistenti. Per garantire la riapertura dei servizi nel mese di settembre 2020 sono state adottate molteplici misure e riadattamenti organizzativi: rimodulazione degli spazi disponibili (93% dei servizi), formazione degli educatori (92%), orari scaglionati di ingresso e uscita (79%), attivazione di nuovi canali di contatto con le famiglie (72%), acquisto di nuovi materiali educativi (58%) e assunzione di nuovo personale (51%). Poche le strutture che hanno ridotto l’orario di apertura (27%), il 18% ha potuto acquisire spazi aggiuntivi, meno del 10% ha diminuito il numero di sezioni, ridotto il personale o eliminato il servizio mensa. Circa il 62% dei gestori ha dovuto attivare ammortizzatori sociali come la Cassa Integrazione o il Fondo d'Integrazione Salariale, il 29% ha rimodulato il sistema tariffario. Si riscontra complessivamente una notevole capacità di adattamento del sistema di offerta alla difficile situazione epidemiologica. La domanda del servizio da parte delle famiglie si è mantenuta relativamente alta, con oltre l’80% dei posti disponibili occupati sia a settembre 2020 che ad aprile 2021. A fronte delle difficoltà causate dalla pandemia, non tutti i servizi (55%) hanno ricevuto contributi straordinari da parte del settore pubblico (Stato, Regioni o comuni per i servizi privati). Nel Mezzogiorno la quota di nidi e sezioni primavera che hanno beneficiato dei contributi è del 46%, al Centro-nord sale al 57%. Una minore frequenza dei contributi straordinari si rileva anche nei servizi comunali (42%) rispetto a quelli privati (63%).

 

 

Fonte Istat, Nidi e servizi integrativi per la prima infanzia | anno educativo 2019/2020, novembre 2021

Livelli essenziali delle prestazioni nei servizi educativi per l’infanzia

La legge di bilancio 2022 (commi 172 e 173 della legge n. 234 del 2021) ha incrementato la quota del Fondo di solidarietà comunale (FSC) destinato a potenziare il numero di posti disponibili negli asili nido e nei servizi educativi per l’infanzia, e ha fissato un livello minimo garantito (33% su base locale entro il 2027, considerando anche il servizio privato) che ciascun comune o bacino territoriale è tenuto a garantire per i bambini compresi nella fascia di età da 3 a 36 mesi. Inoltre, sono stati esclusi i costi di gestione degli asili nido dal costo dei servizi individuali che i comuni strutturalmente deficitari sono tenuti a coprire. Dal 2022 l'obiettivo di servizio, per fascia demografica del comune o del bacino territoriale di appartenenza, è fissato con decreto ministeriale, dando priorità ai bacini territoriali più svantaggiati, tenendo conto di una soglia massima del 28,88%, valida sino a quando anche tutti i comuni svantaggiati non avranno raggiunto un pari livello di prestazioni. L'obiettivo di servizio è annualmente incrementato sino al raggiungimento, nel 2027, del livello minimo garantito del 33 per cento su base locale, anche attraverso il servizio privato.

Le risorse assegnate possono essere (e saranno) utilizzate dai comuni anche per l’assunzione del personale necessario alla diretta gestione dei servizi educativi per l’infanzia.

 

L’incremento annuale del FSC, disposto dal comma 564 della medesima legge di bilancio 2022, è illustrato dalla seguente tabella.

 

Risorse aggiuntive FSC da destinare agli asili nido (mln di euro)

 

LB 2021

LB 2022

differenza

2022

100

120

+20

2023

150

175

+25

2024

200

230

+30

2025

250

300

+50

2026

300

450

+150

dal 2027

300

1.100

+800

 

La misura supra illustrata è volta a garantire la gestione del servizio asili nido, una volta realizzate le infrastrutture previste nell’ambito del PNRR, il quale ha stanziato ulteriori risorse per finanziare il Piano per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia (Missione 4, Componente 1, Investimento 1.1) per un totale di 4,6 miliardi di euro fino al 2026.

Con il D.M. n. 343 del 2 dicembre 2021 sono stati definiti i criteri di riparto, su base regionale, delle risorse del PNRR e le modalità di individuazione degli interventi di edilizia scolastica. Sulla base del decreto è stato pubblicato l’avviso pubblico del 2 dicembre 2021 con il quale il Ministero dell’istruzione ha avviato la procedura per la costruzione, riqualificazione e messa in sicurezza degli asili nido e delle scuole dell’infanzia, con una dotazione di 3 miliardi di euro, di cui 2,4 miliardi destinati al potenziamento delle infrastrutture per la fascia di età 0-2 anni e 0,6 miliardi destinati al potenziamento delle infrastrutture per la fascia di età 3-5 anni. Il 55,29% delle risorse per il potenziamento delle infrastrutture per la fascia di età 0-2 anni e il 40% delle risorse per il potenziamento delle infrastrutture per la fascia di età 3-5 anni sono destinati a candidature proposte da parte di enti locali appartenenti alle Regioni del Mezzogiorno.

 

La legge di bilancio 2021 (art. 1, comma 969, della legge n. 178 del 2020) ha incrementato di 60 milioni annui il Fondo per il Sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita ai 6 anni (c.d. Fondo 0-6). Inoltre, per il 2021, ha destinato una quota parte dell’incremento (1,5 milioni di euro) al Ministero dell’istruzione per l’attivazione del sistema informativo nazionale coordinato con le regioni, le province autonome e gli enti locali. Per effetto di tale incremento, le risorse del Fondo per il 2021 sono state a 309 milioni di euro.

La medesima legge di bilancio 2021 (art, 1, commi da 791 a 794) ha disposto l’incremento della dotazione del fondo di solidarietà comunale. Le risorse aggiuntive sono destinate a finanziare lo sviluppo dei servizi sociali comunali svolti in forma singola o associata dai comuni delle regioni a statuto ordinario[8] e a incrementare il numero di posti disponibili negli asili nido dei comuni delle regioni a statuto ordinario e delle regioni Sicilia e Sardegna, con particolare attenzione ai comuni nei quali i predetti servizi denotano maggiori carenze. Per l’incremento dei posti negli asili nido comunali[9] sono stati destinati 700 milioni di euro dal 2021 al 2025 e 300 milioni di euro a decorrere dal 2026.

 

Come evidenziato da Istat[10], i dati disponibili mostrano importanti criticità del sistema di offerta, soprattutto per il segmento da 0 a 3 anni. In particolare, si riscontra una carenza strutturale di servizi educativi per la prima infanzia, rispetto al potenziale bacino di utenza (bambini di età inferiore a 3 anni), e una distribuzione profondamente disomogenea sul territorio nazionale che continua a penalizzare molte regioni del Mezzogiorno.

Secondo il Report Istat “Nidi e servizi integrativi per la prima infanzia”, nell’anno educativo 2019-2020 (prima dell’interruzione del normale andamento dell’anno educativo 2019/2020 dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19) sono attivi sul territorio nazionale 13.834 i servizi educativi per la prima infanzia con oltre 361 mila posti autorizzati (circa la metà nel settore pubblico). L’offerta si compone principalmente di nidi d’infanzia (78,8%), ovvero gli asili nido istituiti nel 1971 (Legge 1044/1971). I posti rimanenti sono in parte nelle sezioni primavera (12,6%), che accolgono bambini dai 24 ai 36 mesi e si collocano prevalentemente nelle scuole d’infanzia, in parte nei servizi integrativi per la prima infanzia (8,6%), che comprendono le tipologie degli spazi gioco, dei centri per bambini e genitori e dei servizi educativi in contesto domiciliare.

In lieve incremento, dal 25,5% dell’anno educativo 2018/2019 al 26,9% del 2019/2020, la percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti da 0 a 2 anni, sia per l’aumento dell’offerta complessiva e sia per la riduzione dei bambini sotto i tre anni (dovuta al calo delle nascite). Nonostante i segnali di miglioramento, l’offerta si conferma ancora sotto il parametro Ue pari al 33% di copertura dei posti rispetto ai bambini. Questo era il target da raggiungere entro il 2010, stabilito nel 2002 in sede di Consiglio europeo di Barcellona, a sostegno della conciliazione tra vita familiare e lavorativa e della maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Permangono ampi divari territoriali come dimostrato dalla tabella a seguire:

 

 

Fonte Istat, Nidi e servizi integrativi per la prima infanzia | anno educativo 2019/2020, novembre 2021

 

Il Report sottolinea che, nonostante lo scarto dal Centro-nord, nel Sud e nelle Isole si registra l’incremento più significativo di posti nei servizi educativi, rispettivamente +4,9% e +9,1%, contro +1,5% nazionale (con aumenti principalmente nel settore privato e nelle sezioni primavera). L’incremento nel Mezzogiorno è il risultato delle misure statali adottate nel corso degli anni a sostegno del riequilibrio dei divari territoriali. I servizi educativi per la prima infanzia sono tra i settori prioritari di intervento dei PAC (Piani di azione per la coesione) avviati dal 2012 dal Ministero per lo sviluppo e la coesione, d’intesa con la Commissione europea. Il successivo Piano di azione nazionale per il Sistema integrato di educazione e istruzione da 0 a 6 anni (D.Lgs. 65/2017) ha stanziato ulteriori risorse a sostegno dei servizi per la prima infanzia, destinate soprattutto alle regioni del Mezzogiorno (a eccezione della Sardegna) sulla base di criteri di perequazione.

La spesa impegnata per i servizi educativi nel 2019 è pari a un miliardo e 496 milioni di euro, di cui il 18,7% è la quota rimborsata dalle rette pagate dalle famiglie. La quota a carico dei comuni, pari a 1,2 miliardi di euro, sostanzialmente stabile nel 2019 a livello nazionale (+0,6%), è sostenuta soprattutto dall’andamento positivo del Sud Italia (+7,1%).

Nel 2021, un’indagine ad hoc evidenzia aumenti generalizzati sia dei costi di gestione delle strutture (85% dei casi), sia dei costi straordinari (88%). A fronte delle criticità riscontrate, il 55% dei gestori ha ricevuto contributi straordinari dal settore pubblico e circa il 62% ha attivato ammortizzatori sociali come la Cassa integrazione o il Fondo d'integrazione salariale.

 

Politiche per la cura e l’assistenza dei soggetti non autosufficienti e disabili (Long term care)

Gli interventi previsti dal sistema di Long term care (LTC) italiano possono essere suddivisi in trasferimenti monetari e servizi reali, con la conseguenza che nel tempo è stato rafforzato l’orientamento verso la soluzione familistica supportata da trasferimenti monetari. Il contributo monetario più importante è l’indennità di accompagnamento (IDA), erogato dall’INPS sia agli anziani over 65 non autosufficienti che agli invalidi di età inferiore ai 65 anni. Inoltre, i comuni (e in alcuni contesti anche le Regioni e le aziende sanitarie locali) possono erogare i cosiddetti assegni di cura o voucher con lo scopo di sostenere l’assistenza e la cura a domicilio delle persone non autosufficienti. I criteri per la loro assegnazione e l’importo variano da ente a ente, ma in linea generale vengono tenuti in considerazione: il reddito, il bisogno assistenziale, la presenza di particolari patologie e l’assistenza di caregiver informali. Accanto ai trasferimenti monetari, l’assistenza ai soggetti fragili è garantita dal sistema pubblico dei servizi e degli interventi sociali e dalla rete informale del lavoro di cura.

 

Nel corso dell’audizione del 29 gennaio 2021, presso la Commissione bilancio della Camera, l’Istat ha ricordato che nel nostro Paese, nel 2019, le persone con disabilità – ovvero coloro che soffrono a causa di problemi di salute, di gravi limitazioni che impediscono loro di svolgere attività abituali – sono 3 milioni e 150 mila (il 5,2% della popolazione). Gli anziani sono i più colpiti: quasi 1 milione e mezzo di ultrasettantacinquenni (il 22% della popolazione in quella fascia di età) si trovano in condizione di disabilità e 1 milione di essi sono donne. La spesa sostenuta dai Comuni per interventi e servizi sociali rivolti ai disabili, dal 2003 al 2018, è passata da circa un miliardo e 22 milioni di euro nel 2003 a oltre 2 miliardi e 5 milioni di euro nel 2018. Tale crescita è dovuta principalmente all’istituzione del fondo nazionale per la non autosufficienza. Nell’ambito dei servizi per le persone con disabilità, fra le principali voci di spesa vi sono i centri diurni (circa 312 milioni) e le strutture residenziali (circa 366 milioni), le quali offrono assistenza ai disabili e supporto alle famiglie o durante il giorno o in modo continuativo. Dei centri diurni comunali si avvalgono oltre 27.000 persone disabili e altre 16.500 circa beneficiano di contributi comunali per servirsi di centri privati convenzionati. Gli utenti delle strutture residenziali, sia comunali che private convenzionate, sono oltre 30.000.

Il Rapporto Istat dedicato alla spesa sociale dei comuni sottolinea che la spesa per il welfare dei comuni nel 2018 cresce per il quinto anno consecutivo e aumenta anche quello per le persone con disabilità, ma rimane al di sotto della media dell’Unione Europea

Nel 2018 la spesa sociale per le persone con disabilità è aumentata del 6,9% rispetto al 2017. Rispetto al 2003, primo anno in cui l’Istat ha raccolto i dati sulla spesa dei Comuni per interventi e servizi sociali, le risorse destinate alle persone disabili sono quasi raddoppiate: da un miliardo e 22 milioni di euro nel 2003 a 2 miliardi e 5 milioni di euro nel 2018. Nello stesso periodo la spesa annua pro-capite per persona disabile residente è passata da €1.478 a 3.212 ed è aumentato il peso di questa tipologia di beneficiari sulla spesa sociale totale dei Comuni: dal 19,7% al 26,8%.  

Tale crescita è riconducibile principalmente all’introduzione del Fondo nazionale per la non autosufficienza, istituito con l’intento di fornire sostegno a persone con gravissima disabilità e ad anziani non autosufficienti. Le risorse sono finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell’assistenza socio-sanitaria e si aggiungono a quelle già destinate da Regioni e autonomie locali a prestazioni e servizi a favore di persone non autosufficienti. Il Fondo sembra aver garantito una maggiore tutela alle persone con disabilità rispetto ad altri segmenti vulnerabili della popolazione.  

Dal punto di vista territoriale le risorse impiegate per i servizi di supporto ai disabili continuano a essere disomogenee e con differenziali di crescita. Il Nord-est in particolare è l’area d’Italia con l’aumento più sostenuto nel 2018 (+10,7%), seguono il Centro (+7,9%), il Nord-ovest (+7,6%) e le Isole (+3,5%); la spesa è rimasta stabile al Sud, in linea col precedente anno. In termini pro-capite i valori oscillano tra i 5.509 euro del Nord-est e i 1.017 del Sud.

La spesa per la protezione sociale riferita alla disabilità, che include le pensioni di invalidità civile e altri interventi statali in denaro, rapportata al totale dei residenti, è inferiore in Italia rispetto alla media europea (€426 per abitante contro i 566 della UE). La differenza è ancora più evidente rispetto alla Francia (676) o alla Germania (898). Il divario più marcato riguarda la quota non monetaria, riferita a servizi per le persone con disabilità, di cui i servizi sociali dei Comuni rappresentano una componente importante. 

La metà della spesa dei Comuni per i disabili (50,7%) è destinata a interventi e servizi, in particolare quelli educativo-assistenziali e per l’inserimento lavorativo, i quali da soli assorbono il 25,6% della spesa totale. La seconda voce di spesa, che assorbe il 27% dell’area disabilità, è rappresentata dai trasferimenti in denaro e il 22,3% dalla gestione di strutture (centri diurni e strutture residenziali). Cresce il ruolo dei servizi di assistenza domiciliare e degli assegni di cura (il 13,4% della spesa totale per i disabili, per una platea di beneficiari pari a 82.824 utenti). La spesa per l’assistenza domiciliare socio-assistenziale ammonta a 162 milioni di euro, con una media annua per utente di €3.677 a livello nazionale ma con ampi divari regionali che vedono in testa il Lazio (€7.560 per disabile) e fanalino di coda la Calabria (€1.621). 

 

 

Fonte Istat, La spesa dei Comuni per i servizi sociali riferita al 2018, febbraio 2021

 

Fondi nazionali indirizzati ai servizi di cura

Per dare copertura ai costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria (quindi costi per interventi e servizi) rivolta al sostegno di persone con gravissima disabilità e ad anziani non autosufficienti, e favorirne la permanenza presso il proprio domicilio evitando il rischio di istituzionalizzazione, è stato istituito il Fondo per le non autosufficienze (FNA) (art. 1, comma 1264, della legge 296/2006 - finanziaria 2007), le cui risorse, sono aggiuntive rispetto a quelle destinate alle prestazioni e ai servizi in favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni e delle autonomie locali. Nel il 2021 la dotazione del Fondo è stata pari 669 milioni di euro, comprensivi delle somme stanziate nel periodo emergenziale da COVID-19 nell'ottica di rafforzare i servizi e i progetti di supporto alla domiciliarità per le persone disabili e non autosufficienti, e per il sostegno di coloro che se ne prendono cura. In tal senso, l'art. 104 del Decreto Rilancio (decreto legge 34/2020) ha incrementato il Fondo di 90 milioni di euro, finalizzando 20 milioni alla realizzazione di progetti per la vita indipendente.

Nel 2021, l'art. 37-bis del decreto legge n. 73 del 2021 (c.d. Decreto Sostegni bis), ha incrementato il Fondo di 40 milioni di euro per il 2022 con le stesse finalità a cui erano indirizzate le risorse incrementali del 2020 (programmi di assistenza domiciliare integrata e potenziamento dell'assistenza e dei servizi relativi ai progetti di vita indipendente). Il Fondo per le non autosufficienze è stato ulteriormente incrementato dalla legge di bilancio 2022 (art. 1, comma 168, della legge n. 234 del 2021) per un ammontare pari a 100 milioni di euro per l'anno 2022, a 200 milioni per l'anno 2023, a 250 milioni per l'anno 2024 e a 300 milioni di euro a decorrere dal 2025. Tali integrazioni sono espressamente collegate alla graduale introduzione dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) e al rafforzamento dei servizi socioassistenziali rivolti alle persone anziane non autosufficienti previsto dalla medesima legge di bilancio 2022 (art. 1, commi da 159 a 171). Inoltre il Fondo è stato incrementato per il 2022 di ulteriori 15 milioni dal successivo comma 677 della medesima legge di bilancio. Pertanto, la dotazione finale del Fondo per il 2022 è pari a 822 milioni di euro.

 

La legge di bilancio 2020 (art. 1, comma 330, della legge 160/2019) ha poi istituito, nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un ulteriore fondo denominato Fondo per la disabilità e la non autosufficienza, con una dotazione pari a 29 milioni di euro per il 2020, a 200 milioni di euro per il 2021, a 300 milioni di euro annui a decorrere dal 2022. Le risorse del Fondo sono indirizzate all'attuazione di interventi a favore della disabilità finalizzati al riordino e alla sistematizzazione delle politiche di sostegno in materia. Tali interventi, ai sensi della norma istitutiva, dovranno essere attuati con appositi provvedimenti normativi, nei limiti di spesa previsti. La legge di bilancio 2022 (art. 1, comma 178 della legge n. 234 del 2021) ha incrementato il Fondo di 50 milioni annui nel periodo 2022-2026 e gli ha attribuito, dal 1° gennaio 2022, la nuova denominazione di "Fondo per le politiche in favore delle persone affette da disabilità", disponendone al contempo il trasferimento nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, al fine di mettere a disposizione tali risorse all'Autorità politica delegata in materia di disabilità (Ministro per le disabilità). Nel 2022 la dotazione del Fondo è di 350 milioni di euro. Le risorse del Fondo saranno, come detto, impiegate per le finalità individuate nel processo di riorganizzazione e riordino della normativa sulla disabilità, il cui primo tassello è stata l’approvazione della legge n. 227 del 22 dicembre 2021 Delega al Governo in materia di disabilità, che fra l’altro rappresenta l'attuazione di una delle Riforme (Riforma 1.1) previste dalla Missione 5 "Inclusione e Coesione" Componente 2 "Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore" del PNRR. La legge delega impegna il Governo ad adottare, entro 20 mesi dalla data di entrata in vigore della medesima legge, uno o più decreti legislativi per la revisione ed il riordino delle disposizioni vigenti in materia di disabilità. La finalità perseguita è quella di garantire alla persona con disabilità il riconoscimento della propria condizione, mediante una valutazione congruente della stessa, trasparente ed agevole, tale da consentire il pieno esercizio dei suoi diritti civili e sociali ivi inclusi i diritti alla vita indipendente e alla piena inclusione sociale e lavorativa, nonché l'effettivo e pieno accesso al sistema dei servizi, delle prestazioni, dei trasferimenti finanziari previsti e di ogni altra relativa agevolazione, per promuovere l'autonomia della persona con disabilità e il suo vivere su base di pari opportunità con gli altri, nel rispetto dei principi di autodeterminazione e di non discriminazione.

 

Di particolare importanza la legge n. 112 del 2016[11] (c.d. Dopo di noi) e il Fondo a questa collegato che prevedono interventi di residenzialità a finanziamento misto pubblico/privato volti a favorire percorsi di deistituzionalizzazione e di supporto alla domiciliarità delle persone con disabilità grave in abitazioni o gruppi-appartamento che riproducono condizioni abitative e relazionali della casa familiare. Si prevedono inoltre detrazioni sulle spese sostenute per sottoscrivere polizze assicurative e contratti a tutela dei disabili gravi nonché esenzioni e sgravi su trasferimenti di beni dopo la morte dei familiari, costituzione di trust e altri strumenti di protezione legale. Le risorse stanziate per il 2021 e per il 2022 sono pari a 76,1 milioni di euro.

Nel periodo emergenziale da COVID-19, il Fondo per le non autosufficienze e il Fondo Dopo di noi sono stati rifinanziati dall’art. 104 del c.d. decreto rilancio (D.L. n. 34 del 2020) rispettivamente con 100 e 20 milioni di euro.

 

Negli ultimi anni, a partire dalla legge di bilancio 2018 (art. 1, comma 255, della legge n. 205 del 2017), si è inoltre provveduto a definire la figura del caregiver familiare e a stanziare delle risorse dedicate.

 

Si stima che i caregiver familiari siano almeno 7.293.000, soprattutto donne (57%) e abbiano un’età compresa tra i 45 e i 64 anni (3.884.000) pari al 53% del totale. Da notare che una percentuale non trascurabile è rappresentata anche dai caregiver familiari con più di 65 anni (1.362.000 pari al 18,6%).

 

Attualmente, esistono due Fondi per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare. Il primo è stato istituito dalla legge di bilancio 2018; il secondo dalla legge di bilancio 2021.

Più nel dettaglio, la legge di bilancio 2018 (commi 254-256 della legge n. 205 del 2017) ha istituito, nello stato di previsione del MEF, il “Fondo per il sostegno del titolo di cura e di assistenza del caregiver familiare” con una dotazione iniziale di 20 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2018-2020. Successivamente, la legge di bilancio 2019 (art. 1, commi 483-484, della legge 145/2018) ha disposto l'incremento di 5 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2019-2021. Le somme residue e non impiegate del Fondo, al termine di ciascun esercizio finanziario, sono state versate all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate al medesimo Fondo. In ultimo, la Sezione II della legge di bilancio 2021 (legge n. 178 del 2020), ha dotato il fondo, per il 2021, di risorse pari a circa 23,7 milioni di euro. Inizialmente il Fondo era finalizzato a sostenere gli interventi legislativi per il riconoscimento del valore sociale ed economico dell'attività di cura non professionale del prestatore di cure familiare; il decreto legge 86/2018, di riordino delle competenze dei ministeri, ne ha in seguito disposto il trasferimento dallo stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali al bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri e ha previsto che la dotazione del Fondo fosse destinata ad interventi in materia, adottati secondo criteri e modalità stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio, ovvero del Ministro delegato per la famiglia e le disabilità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentita la Conferenza unificata. Recentemente, il decreto di riparto 22 ottobre 2020 ha previsto che le risorse del Fondo (pari a cica 68,3 milioni per gli anni 2018, 2019 e 2020) siano destinate alle Regioni per interventi di sollievo e sostegno destinati al caregiver familiare, secondo i seguenti criteri e priorità:

Il Dipartimento per le politiche della famiglia provvederà a monitorare la realizzazione degli interventi finanziati. La dotazione del Fondo per il 2022 è pari a circa 25,8 milioni di euro.

Il secondo Fondo, istituito nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dalla legge di bilancio 2021 (art. 1, comma 334, della legge n. 178 del 2020), è destinato alla copertura finanziaria degli interventi legislativi per il riconoscimento dell'attività non professionale del prestatore di cure familiare, come definita dall'articolo 1, comma 255, della legge di bilancio per il 2018 (legge n. 205/2017), con una dotazione di 30 milioni per ciascun anno del triennio di programmazione di bilancio 2021-2023. Il Fondo è stato incrementato, ad opera della sezione II della legge di bilancio 2022 (legge n. 234 del 2021), di 50 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2022-2024. La dotazione finale del Fondo per il 2022 è pertanto pari a 80 milioni

 

Il caregiver, a livello legislativo, è stato definito dalla legge di bilancio 2018 (comma 255) come “la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell'altra parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge n. 76 del 2016, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, in presenza di un handicap grave, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata, o sia titolare di indennità di accompagnamento”.

 

Il lavoro domestico di assistenza e cura

L’OIL stima che il settore di assistenza e di cura in Italia — nel quale il lavoro domestico assorbe un gran numero di lavoratrici e lavoratori — potrebbe generare, se supportato da politiche economiche e sociali, circa 1,4 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030. Ciononostante, il contributo del lavoro domestico al benessere collettivo è spesso sottovalutato sia riguardo la natura specifica del datore di lavoro che - nella stragrande maggioranza dei casi è un individuo o un membro dalla famiglia - sia in relazione alle competenze e la responsabilità che esso richiede.

Secondo gli ultimi dati INPS disponibili (2020), i lavoratori domestici sono oltre 920 mila, in aumento rispetto all’anno precedente (+7,5%). Si tratta di un settore caratterizzato da una forte presenza straniera (68,8% del totale), soprattutto dell’Est Europa e da una prevalenza femminile (87,6%), anche se negli ultimi anni si è registrato un aumento sia degli uomini che della componente italiana (31,2%). Dai dati ISTAT emerge che il lavoro domestico è fra i settori con il più alto tasso di irregolarità, ovvero con la maggiore presenza di “lavoro nero”. I dati aggiornati al 2019 evidenziano infatti per il lavoro domestico un tasso di irregolarità pari al 57%, ben al di sopra rispetto alla media di tutti i settori (12,6%). Pertanto, si stima che i 920 mila lavoratori registrati all’INPS rappresentino meno della metà del totale dei lavoratori domestici (dati contenuti nel “III Rapporto annuale sul lavoro domestico 2021” a cura dell’Osservatorio Nazionale DOMINA).

 

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza

Per quanto qui interessa, si ricorda la Missione 5 " Inclusione e Coesione", nella Componente 2 "Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore" (M5C2.1), che intende rafforzare il ruolo dei servizi sociali territoriali, mirando alla definizione di modelli personalizzati per la cura delle famiglie, delle persone di minore età, degli anziani, così come delle persone con disabilità. Ulteriori interventi prevedono investimenti infrastrutturali, finalizzati alla prevenzione dell'istituzionalizzazione attraverso la riconversione delle RSA o il reperimento di soluzioni alloggiative alternative. Interventi mirati sono inoltre previsti per la povertà estrema e i senza dimora.

Gli interventi inclusi in M5C2, con particolare riferimento all'investimento 1, definendo la componente sociale dell'assistenza territoriale, sono complementari e pienamente coerenti con gli investimenti della Componente 1 della Missione 6 Salute, che mira al rafforzamento dell'assistenza sanitaria e dei servizi territoriali a questa collegati. Il rafforzamento dell'assistenza sociale rivolta alla cura dei soggetti fragili e dei malati cronici e la contemporanea riprogettazione ed il potenziamento dei servizi pubblici di cura rivolti agli anziani non autosufficienti e ai disabili disegnano una assistenza sul territorio con ricadute molto importanti per l'occupazione femminile, poiché, da un lato alleggeriscono le donne dall'impegno di cura familiare, del quale sono prevalentemente responsabili, dall'altro creano nuove possibilità di impiego in un settore tradizionalmente occupato dalle donne. Ugualmente centrale per la definizione di una corretta assistenza territoriale è la prima linea di azione prevista dalla Componente M5C3 per le aree interne che rafforza la dotazione di servizi sociali e sanitari nelle aree del Mezzogiorno e in quelle marginalizzate, contribuendo ad aumentare l'attrattività dei territori a maggior rischio di spopolamento, accrescendo le opportunità di lavoro e affermando il diritto a restare per le nuove generazioni.

Lavori parlamentari in corso

Presso le Commissioni II e XII è in corso di esame A.C. 2805 Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere (approvato dal Senato nel novembre 2020). Il provvedimento è stato presentato da tutti i senatori componenti la Commissione monocamerale d'inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere, concordi nel sottolineare la necessità di disporre di maggiori e più complete informazioni statistiche ufficiali sul fenomeno della violenza subita dalle donne.


 

Politiche sanitarie

Medicina di genere

Le implicazioni della medicina di genere si sono rivelate centrali nell’ambito dell’epidemia da SARS-CoV-2 (COVID-19), che ha manifestato una ampia suscettibilità alla dimensione del genere, riguardo, fra l’altro, la prevalenza, la severità e la mortalità. In tale contesto, la diffusione dell’epidemia e? andata di pari passo con la ricerca e con la proliferazione di letteratura dedicata alla componente del genere. La pubblicazione Medicina di genere e COVID-19[12], redatta da referenti del tavolo permanente IRCCS per la medicina di genere, raccoglie, analizza e organizza le evidenze scientifiche emerse e emergenti sulla correlazione tra l’infezione da SARS-CoV-2 e il genere articolandosi in due principali dorsali: una inerente al legame tra patologia e genere e l’altra inerente alla correlazione tra patologia e genere in condizioni di fragilità e comorbidità.

 

Medicina di genere

 

L'articolo 3, della legge 3/2018 disciplina l'applicazione e diffusione della medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale. Nonostante alcuni provvedimenti previsti per la sua completa attuazione non siano stati ancora emanati, la norma ha riconosciuto per la prima volta la necessità di riferirsi alla medicina di genere. Nel maggio 2019 è stato così pubblicato (ai sensi dell’art. 3, co.1, della legge 3/2018) il Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere che propone di fornire un indirizzo coordinato e sostenibile per la diffusione della Medicina di Genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere , al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in modo omogeneo sul territorio nazionale.

 

Il Piano è articolato in due sezioni: la prima di inquadramento generale, con un’analisi del contesto internazionale e nazionale relativo alla Medicina di Genere, in cui vengono illustrati gli ambiti prioritari d’intervento. La seconda sezione si apre con i principi e gli obiettivi del Piano, la strategia di governance per la sua implementazione e le azioni previste per la realizzazione dell’obiettivo generale e degli obiettivi specifici per ciascuna delle quattro aree d’intervento in cui si articola il Piano: Area A) Percorsi clinici di prevenzione, diagnosi e cura, Area B) Ricerca e innovazione, Area C) Formazione e aggiornamento professionale, Area D) Comunicazione e informazione, specificando anche gli attori coinvolti e gli indicatori principali da utilizzare per ogni azione.

 

La legge n. 3/2018 ha poi previsto che il Ministro della salute emani apposite raccomandazioni, destinate agli ordini e ai collegi delle professioni sanitarie, alle società scientifiche e alle associazioni di operatori sanitari non iscritti a ordini o collegi, intese a promuovere l'applicazione della medicina di genere su tutto il territorio nazionale. Un ulteriore decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell'università e della ricerca, dovrà poi definire un Piano formativo nazionale per la medicina di genere, inteso a garantire la conoscenza e l'applicazione dell'orientamento alle differenze di genere nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura. A tal fine, si prevede la promozione di specifici studi presso i corsi di laurea delle professioni sanitarie nonché nell'àmbito dei piani formativi delle aziende sanitarie.

Si segnala infine che a settembre 2020 è stato costituito, presso l’Istituto superiore di sanità, l’Osservatorio dedicato alla medicina di genere con, fra l’altro, il compito di monitorare  le azioni e  i risultati ottenuti  a livello nazionale, sui quali  il Ministro della salute, con cadenza annuale, dovrà predisporre una relazione Camere.

 

 

La parità di genere è diventata negli anni un obiettivo delle politiche pubbliche anche in tema di sanità. Il riconoscimento di differenze oltre che somiglianze biologiche, ha promosso la ricerca per approfondire i fattori attraverso cui le differenze legate al sesso/genere agiscono sull’insorgenza e il decorso di molte malattie in tutte le fasi della vita dell’individuo, nonché sulla risposta alle terapie.

Per questo, porre attenzione alle differenze di genere nelle politiche sanitarie, aprendo nuove prospettive in termini di appropriatezza, efficacia ed equità degli interventi di prevenzione e cura, influenza la qualità e la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, migliorandone i risultati e diminuendone i costi. Certamente, uno degli aspetti più importanti della Medicina di Genere è quello che riguarda i farmaci. Le donne, anche per la loro longevità, sono le più alte consumatrici di farmaci. Il problema correlato più rilevante è l'impatto delle reazioni avverse, che sono più numerose e più frequenti nelle donne (sulle quali i diversi farmaci son stati anche meno studiati, in particolare per quanto riguarda il dosaggio). Ma ancor più rilevante è il discorso relativo all'appropriatezza d'uso. Proprio perché la patogenesi delle stesse malattie nelle donne può essere diversa rispetto all'uomo, i farmaci non funzionano (o meglio la loro efficacia è diversa) nello stesso modo nell'uomo della donna. È il caso, ad esempio, dell'aspirina e delle statine, per le quali esiste una vastissima e recente letteratura.

Dal punto di vista farmaceutico, questo concetto è stato ufficialmente recepito dalle grandi agenzie regolatorie, l'FDA americana e l'EMA europea, che oggi prescrivono l'obbligatorietà di condurre studi clinici che includano sostanziali percentuali di donne affinché un farmaco possa essere immesso sul mercato. In Italia, l’Agenzia italiana del Farmaco (AIFA) ha istituito nel 2011 il “Gruppo di Lavoro su farmaci e genere”. con la finalità di contrastare la c.d. “cecità di genere”, causa della mancanza di ricerche, analisi e pubblicazioni di dati disaggregati rispetto al sesso, richiedendo per questo alle aziende farmaceutiche di sviluppare disegni di ricerca orientati al genere e di elaborare i dati ottenuti considerando la variabile sesso.

È inoltre sempre più evidente che molte malattie colpiscono di più la donna, oppure si manifestano e hanno un decorso diverso rispetto alle stesse malattie nell'uomo (tipico esempio sono le malattie cardiovascolari).

 

Alcuni ambiti sono prioritari per un approccio di genere in medicina, il loro riconoscimento ha peraltro definito l'adeguatezza dell'intervento sulla salute.

Fra gli altri:

- le malattie cardiovascolari. L’incidenza di patologie cardiovascolari e? inferiore rispetto all’uomo durante l’età fertile, va ad eguagliare l’uomo dopo la menopausa, fino a superarlo dopo i 75 anni, inoltre non è chiara la comprensione dei meccanismi fisiopatologici delle patologie cardiovascolari nella donna che può ad esempio presentare sintomi dell’infarto differenti;

- le malattie neurologiche. Alzheimer, sclerosi multipla e depressione maggiore colpiscono più frequentemente le donne;

- le malattie dell’osso. Tra le malattie dell’osso, l’osteoporosi e? ancora oggi una patologia percepita come caratteristica del sesso femminile legata alla carenza di estrogeni che si verifica in età postmenopausale;

- le malattie psichiatriche. L’esposizione maggiore delle donne a eventi e situazioni di vita fortemente logoranti (non solo atti violenza) contribuisce all’insorgere di patologie psichiatriche;

- i vaccini. È noto che le donne sviluppano risposte immunitarie innate e acquisite, sia umorali che cellulo-mediate, più intense rispetto agli uomini. Questo si riflette in una diversa risposta ai vaccini nei due sessi: nelle donne si raggiungono titoli di anticorpi protettivi in risposta ai vaccini significativamente più elevati che negli uomini. Tuttavia, le donne manifestano più spesso reazioni avverse ai vaccini (si rinvia sul punto alla sezione dedicata alle patologie al femminile sul sito del Ministero della salute).

 

 

Negli anni si sono succeduti stanziamenti dedicati a singole patologie.

Fra i più recenti si ricordano quelli dedicati all’endometriosi e alla fibromialgia. Più analiticamente, l’art. 1, comma 498, della legge n. 178 del 2020 ha autorizzato la spesa di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023 per il sostegno allo studio, alla ricerca e alla valutazione dell'incidenza dell'endometriosi nel territorio nazionale.

La legge di bilancio 2022 (art. 1, comma 972, della legge n. 234 del 2021) ha invece istituito, nello stato di previsione del Ministero della salute, un Fondo per lo studio, la diagnosi e la cura della fibromialgia con una dotazione di 5 milioni di euro per il 2022. Come ricordato in seguito si tratta infatti di una patologia che interessa in prevalenza donne.

 

La sindrome fibromialgica, che in Italia interessa circa due milioni di persone, in maggioranza donne (che rappresentano circa il 90% dei malati), è una forma di dolore muscoloscheletrico diffuso, accompagnato da affaticamento (astenia), facile esauribilità muscolare, sonno disturbato e alterazioni neurocognitive (difficoltà a mantenere la concentrazione, difficoltà nella memoria a breve termine). Spesso i pazienti riferiscono anche cefalea muscolotensiva, e una serie di altri disturbi legati al sistema nervoso autonomo (crampi, occhi secchi, minzione alterata, disturbi gastrointestinali).

La sinrome fibromialgica è stata riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dal 1992, anno in cui venne inserita nella revisione dell’ICD-10 (Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati).

La diagnosi di sindrome fibromialgica rimane essenzialmente clinica in quanto non è attualmente disponibile un biomarcatore diagnostico, specialmente nelle fasi precoci della malattia. L'eterogeneità dei sintomi e gli obiettivi terapeutici altamente personalizzati, possono costituire un ostacolo nel riconoscimento e nella misurazione della severità della malattia. Per questo le persone affette da fibromialgia devono spesso aspettare anni per arrivare a una diagnosi, spesso sono stigmatizzate e impossibilitate ad intraprendere percorsi terapeutici adeguati.

 

Un ultimo non secondario aspetto della medicina di genere è la capacità di accesso ai servizi. È ampiamente dimostrato che il disagio socio-economico riduce la probabilità di sottoporsi al pap test e alla mammografia. In altre parole, la donna è spesso svantaggiata nei confronti del SSN: arriva più tardi ai controlli, sottovaluta spesso i sintomi premonitori di malattia: da caregiver, perché è questo spesso il ruolo della donna all'interno del nucleo familiare, non beneficia di altrettanta attenzione nei confronti del proprio stato di salute.

Infine, il problema delle differenze tra uomo e donna, va molto al di là dei pur complessi aspetti clinici, invadendo prepotentemente la sfera socio-sanitaria. Molti aspetti della Medicina di Genere sono stati affrontati dall'Istituto Superiore di Sanità, che già dal 2007 ha attivato una struttura ad hoc che si occupa delle differenze biologiche.

Partendo da questi presupposti, il G20women, per la prima volta, ha nominato la Commissione Equity in Health con l’obiettivo di aumentare la diffusione e gli investimenti in strategie efficaci per affrontare le disuguaglianze di genere nei sistemi sanitari.

 

Gli Screening

Per quanto riguarda gli screening, in attuazione dell’art. 2-bis della legge n. 138 del 2004 e del Piano nazionale della prevenzione 2005-2007, il Ministero della Salute, nel 2005 ha pubblicato le “Raccomandazioni per la pianificazione e l’esecuzione degli screening di popolazione per la prevenzione del cancro della mammella, del cancro della cervice uterina e del cancro del colon retto”, che prevedono: mammografia ogni due anni per le donne tra 50 e 69 anni per lo screening del tumore della mammella. In alcune Regioni si sta però sperimentando l’efficacia in una fascia di età più ampia, quella compresa tra i 45 e i 74 anni (con una periodicità annuale nelle donne sotto ai 50 anni); pap test ogni tre anni per le donne tra 25 e 65 anni per lo screening del tumore del collo dell’utero; ricerca del sangue occulto nelle feci ogni due anni per le donne e gli uomini tra i 50 e i 70 o 74 anni, oppure una rettosigmoidoscopia per le donne e gli uomini tra 58 e 60 anni (da ripetere eventualmente ogni 10 anni) per lo screening del tumore del colon retto.

Purtroppo nelle donne, è il cancro della mammella la neoplasia più frequente in tutte le classi di età (pur con percentuali diverse: dal 41% nelle giovani sotto i 50 anni al 22% nelle donne di 70 o più anni. Ai tumori della mammella fanno seguito, nell’ordine, i tumori della tiroide e i melanomi nelle giovani; le neoplasie colon-rettali, polmonari ed endometrio nelle donne delle classi di età più avanzate)[13]. Per questo, la Legge di bilancio 2021 (art. 1, commi 479-480, della legge n. 178 del 2020) ha istituito, a decorrere dal 2021, un fondo dotato di 20 milioni di euro annui, per l'acquisto di test genomici per il carcinoma mammario ormonoresponsivo in stadio precoce. Il decreto 18 maggio 2021 ha ripartito le risorse fra le regioni.

Per un approfondimento si rinvia alla sezione dedicata del sito istituzionale del Ministero della salute.

Le misure previste nel PNRR

Nel corso dell’audizione sullo stato di attuazione del PNRR del 15 febbraio 2022 presso la Commissione XII (Affari sociali) della Camera, il Ministro della salute ha annunciato che la Commissione europea investirà 625 milioni in un Piano operativo per la sanità del Mezzogiorno: risorse indirizzate alla medicina di genere, ed in particolare all’istituzioni di nuovi Consultori familiari, alla povertà sanitaria e agli screening oncologici.

Tali risorse si sommano a quelle previste dal PNRR per Missione 6 dedicata alla sanità. In particolare nella Componente 1 della Missione 6 è previsto un investimento (pari a 2 miliardi di euro) finalizzato all’attivazione di 1.350 Case della Comunità, identificate come strutture sociosanitarie deputate a costituire un punto di riferimento continuativo per la popolazione, indipendentemente dal quadro clinico dell’utenza (malati cronici, persone non autosufficienti che necessitano di assistenza a lungo termine, persone affette da disabilità, disagio mentale, povertà), garantendo l'attivazione, lo sviluppo e l'aggregazione di servizi di assistenza primaria e la realizzazione di centri di erogazione dell'assistenza (efficienti sotto il profilo energetico) per una risposta multiprofessionale.

All’interno della Casa della Comunità sono previsti:

Il personale sarà costituito da team multidisciplinari di professionisti della salute (MMG, PLS, medici specialistici e infermieri di comunità identificati come la figura chiave della struttura), e assistenti sociali.

 

Gli interventi supra decritti intervengono in contesto di insufficiente risposta alle esigenze collegate alla salute della donna e delle famiglie, come dimostrato dalle risultanze dell’indagine I Consultori Familiari a 40 anni dalla loro nascita tra passato, presente e futuro, che fotografano una rilevante variabilità interregionale, con bacini di utenza per CF tendenzialmente più ampi al Nord rispetto al Centro e al Sud.

Molto sinteticamente, si ricorda che i Consultori Familiari, servizi ad integrazione sociosanitaria istituiti dalla legge n. 405 del 1975, sono rivolti principalmente all'assistenza e alla tutela della donna, al sostegno della procreazione libera e consapevole nonché all'educazione alla maternità e paternità responsabili. Le prestazioni erogate sono gratuite e ne possono usufruire tutti i cittadini, anche stranieri, domiciliati nel territorio di riferimento del consultorio. I servizi offerti si strutturano in: interventi di consulenza alla persona, alla coppia e alla famiglia in difficoltà e interventi di prevenzione nell'ambito della vita di relazione, della sessualità e delle problematiche inerenti la vita sessuale, la fertilità, la gravidanza e le problematiche minorili. La legge n. 194 del 1978 per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza ha assegnato un ruolo centrale ai consultori familiari nella tutela della salute e dei diritti, anche in campo lavorativo, della donna in gravidanza. La legge n. 34 del 1996 ha poi previsto un consultorio familiare ogni 20.000 abitanti. L’indagine supra citata evidenzia invece che in media sul territorio nazionale è presente un CF ogni 35.000 abitanti. Solo in 5 Regioni e una P.A. il numero medio di abitanti per CF è compreso entro 25.000, mentre in 7 Regioni il numero medio è superiore a 40.000 abitanti per CF, con un bacino di utenza per sede consultoriale più che doppio rispetto a quanto previsto dal legislatore.

Le finalità dei Consultori sono state ulteriormente precisate dal Progetto Obiettivo Materno Infantile-POMI (decreto ministeriale 24 aprile 2000), previsto dal Piano sanitario nazionale 1998-2000. Come rilevato dalla Relazione del Ministro della salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria di gravidanza: dati definitivi 2017 (legge 194/78):

Per la mappatura dei consultori si rinvia alla sezione dedicata del Ministero della salute.


Donne e istruzione

Competenze

Il Report Istat sui livelli di istruzione e la partecipazione alla formazione riferito al 2020 ci ricorda che “un titolo di studio secondario superiore è il principale indicatore del livello di istruzione di un Paese. Il diploma è considerato, infatti, il livello di formazione indispensabile per una partecipazione al mercato del lavoro con potenziale di crescita individuale”. In Italia, nel 2020, tale quota è pari a 62,9% (+0,7 punti rispetto al 2019), un valore inferiore a quello medio europeo (79,0% nell’Ue27) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione, ma le donne con almeno il diploma sono il 65,1% rispetto al 60,5% degli uomini, una differenza più alta di quella osservata nella media Ue27, pari a circa un punto percentuale.

Il livello di istruzione delle donne rimane sensibilmente più elevato di quello maschile. Le donne laureate sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%; il vantaggio femminile, ancora una volta più marcato rispetto alla media Ue, non si traduce però in analogo vantaggio in ambito lavorativo. Relativamente alle differenze di genere, in Italia è laureata una giovane su tre (34,3%) contro un giovane su cinque (21,4%). Il divario con l’Europa è maggiore per i ragazzi, nonostante anche in media europea la quota di laureate (46,1%) sia superiore a quella dei laureati (36,0%).

 

Istat, Livelli di istruzione e partecipazione alla formazione:anno 2020

 

Il Report Istat tuttavia sottolinea che la stabilità della quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario osservata negli ultimi due anni è sintesi di un aumento nel Centro (dovuto alla componente femminile), di una diminuzione nel Nord e di una sostanziale stabilità nel Mezzogiorno.

Istat, Livelli di istruzione e partecipazione alla formazione:anno 2020

Quota di laureate in discipline STEM

La Risoluzione del Parlamento europeo del 10 giugno 2021 sulla promozione della parità tra donne e uomini in materia di istruzione e occupazione nel campo della scienza, della tecnologia, dell'ingegneria e della matematica (STEM) ribadisce l’importanza di eliminare tutti gli ostacoli, in particolare gli ostacoli socioculturali, psicologici e pedagogici che limitano gli interessi, le preferenze e le scelte delle donne e delle ragazze (compresi gli stereotipi di genere, la discriminazione di genere e una combinazione di fattori biologici e sociali, in particolare la sovrapposizione della maternità con gli anni più decisivi per la carriera di una donna), incoraggiando gli Stati membri a promuovere, nei loro piani d'azione o strategie nazionali o regionali in materia di genere, la partecipazione delle donne e delle ragazze agli studi e alle carriere STEM, offrendo incentivi adeguati. La linea di investimento del PNRR su Nuove competenze e nuovi linguaggi intende pertanto rafforzare l’azione delle scuole per garantire pari opportunità e uguaglianza di genere, in termini didattici e di orientamento, rispetto alle materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), alla computer science e alle competenze multilinguistiche, per tutti i cicli scolastici, con focus specifico sulle studentesse e con un pieno approccio interdisciplinare. Inoltre il piano mira a rafforzare l’internazionalizzazione del sistema scolastico e le competenze multilinguistiche di studenti e insegnanti attraverso l’ampliamento dei programmi di consulenza e informazione su Erasmus+. I primi moduli e percorsi formativi saranno attivati nel corso del 2022. Nel 2025 si prevede il rilascio di certificazione delle competenze e l’adozione di linee guida STEM nelle scuole. Alla linea di intervento sono dedicati 1,1, miliardi di euro.

Il Focus del Ministero dell’istruzione “Le carriere femminili in ambito accademico” del marzo 2021 registra una forte presenza femminile (oltre la metà della popolazione studentesca universitaria) in quasi tutti i livelli di istruzione. La distribuzione per genere e area di studio evidenzia che gli ambiti disciplinari non sono neutri rispetto alle scelte effettuate da uomini e donne. Nell’anno accademico 2019/2020, su 1.730.563 iscritti ai corsi di laurea, le studentesse rappresentano più della metà della popolazione studentesca, sia complessivamente (55,8%), sia nella maggior parte degli ambiti. Si registra un picco nell’area “Humanities and the Arts” (78%), tradizionalmente scelta dalle studentesse, mentre la loro presenza diminuisce negli ambiti di carattere più scientifico o tecnico raggiungendo i livelli più bassi nell’area “Agricultural and veterinary sciences” (47,9%) e soprattutto nell’area “Engineering and technology” (27,1%). Analoghe osservazioni si possono fare relativamente alla distribuzione delle laureate per settore di studi. Nel 2019 il 56,9% dei 338.694 laureati è costituito da donne e, anche in questo caso, agli estremi della distribuzione troviamo da una parte l’area “Humanities and the Arts” (79,5%) e dall’altra l’area “Engineering and technology” (30,0%).

Per quanto riguarda i corsi di studio STEM, complessivamente solo il 30,5% delle matricole sceglie corsi di studio universitari delle aree STEM e in questi ambiti le donne sono meno rappresentate degli uomini: tra le immatricolate appena il 21% sceglie corsi STEM a fronte del 42% degli immatricolati. Ciononostante, sebbene siano ancora poche le studentesse che scelgono le “scienze dure”, l’Italia vanta una percentuale di donne che hanno conseguito il dottorato di ricerca in area STEM superiore alla media europea. Inoltre, il documento sottolinea che, all’interno del sistema universitario italiano, l’analisi dei dati sui percorsi formativi degli studenti e sulle carriere accademiche in un’ottica di genere evidenzia, da tempo, la persistenza di una significativa disparità di genere. Un tassello importante nella questione della disparità di genere all’interno di tale sistema è rappresentato prima dalle scelte scolastiche e, successivamente, da quelle universitarie compiute dagli studenti e dalla rappresentazione dei generi nei percorsi di studio STEM, maggiormente condizionati da stereotipi. In tal senso diviene evidente non solo la presenza di una segregazione orizzontale (la distribuzione delle donne e degli uomini all’interno dei vari percorsi di studio) tra discipline STEM e non STEM, ma anche di una persistente segregazione verticale (la distribuzione rispetto alla gerarchia dei ruoli) persino in quegli ambiti dove all’inizio della carriera accademica si registra una sostanziale parità tra uomini e donne.

 

Il Report Istat già citato rileva che nel 2020, il 24,9% dei laureati (25-34enni) ha una laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche; le cosiddette lauree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Il divario di genere è molto importante, se si considera che la quota sale al 36,8% tra gli uomini (oltre un laureato su tre) e scende al 17,0% tra le donne (una laureata su sei). La quota di laureati in discipline STEM è simile nel Centro e nel Mezzogiorno (23,7% e 23,0%, rispettivamente), mentre è più elevata (26,6%) nel Nord.

Le differenze territoriali aumentano notevolmente se si osserva la componente maschile: la quota di laureati STEM tra i giovani uomini residenti nel Nord è elevata (42,8%) e decisamente superiore a quella nel Centro e nel Mezzogiorno (32,4% e 29,2% rispettivamente). Tra le donne, invece, la quota di laureate STEM nel Nord è di qualche punto inferiore a quelle del Centro e del Mezzogiorno. Ne consegue che la differenza di genere nella quota di laureati in discipline tecnico-scientifiche è massima nel Nord, pari a 27,7 punti, e scende a 14,1 nel Centro e a 10,1 punti nel Mezzogiorno. La quota di 25-34enni con un titolo terziario nelle discipline STEM in Italia è simile alla media Ue22 (i paesi dell’Unione europea membri dell’OCSE, 25,4% nel 2018vi) e al valore del Regno Unito (23,2%), è invece inferiore al valore di Francia (26,8%) e Spagna (27,5%) e piuttosto distante dalla Germania (32,2%). Tale risultato è tuttavia conseguenza di quanto osservato per la componente maschile: in tal caso il divario varia dai 6 punti con la media Ue22 e con il Regno Unito ai 13 punti con la Germania. Per la componente femminile, invece, l’incidenza delle discipline STEM in Italia è persino superiore a quella registrata nella media Ue22 e negli altri grandi paesi europei. Questo risultato deriva dal maggior peso relativo di lauree STEM nell’area disciplinare di scienze naturali, matematica e statistica, ma anche di ingegneria. Il divario di genere nella scelta delle discipline tecnico-scientifiche è dunque meno marcato in Italia rispetto al resto d’Europa.

 


Istat,
Livelli di istruzione e partecipazione alla formazione:anno 2020

Donne negli atenei statali e non statali

In premessa si ricorda che, nel rispetto delle Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2/2019[14] e in linea con la Comunicazione COM n. 152 del 5 marzo 2020 della Commissione Europea[15], le Università sono tenute a predisporre - in continuità con il processo di redazione del Bilancio di Genere -,il Piano delle Azioni Positive (PAP) finalizzato alla programmazione di azioni tendenti a rimuovere gli ostacoli alla piena ed effettiva parità tra uomini e donne. Uno fra gli obiettivi del PAP è l’adozione del Gender Equality Plan (GEP)[16], che identifica la strategia dei singoli Atenei per l’uguaglianza di genere e costituisce il requisito di accesso richiesto dalla Commissione Europea per la partecipazione a tutti bandi Horizon Europe per la ricerca e l’innovazione con scadenza 2022. Si segnala inoltre il documento Indicazioni per azioni positive del MIUR sui temi di genere nell’Università e nella Ricerca, che ben illustra l’esistenza di una discriminazione di genere nel mondo professionale e del lavoro che può essere di tipo orizzontale, verticale e territoriale, perché la presenza femminile in determinati ambiti lavorativi o una maggiore presenza di donne in ruoli apicali varia anche rispetto alla nazione o alla regione.

Il Focus “Il personale docente e non docente nel sistema universitario italiano - a.a 2020/2021” dell’Ustat rileva che, nell’anno accademico 2020/2021, il genere maschile prevale di poco (50,6%) su quello femminile (49,4%), ma esistono delle differenze tra le varie tipologie di personale. Le donne rappresentano difatti il 40,8% di docenti e ricercatori ed il 60,1% del personale tecnico-amministrativo, in questa categoria le donne prevalgono in entrambe le tipologie contrattuali: 59,8% tra i tecnico-amministrativi con contratto a tempo indeterminato e 67,5% tra tutti i tecnico-amministrativi con contratto a tempo determinato. Inoltre, per ambedue le tipologie di personale la rappresentanza femminile è bassa nelle posizioni di vertice della carriera: nell’area della Dirigenza amministrativa si attesta al 41,2% mentre tra i professori di I o II fascia si attesta al di sotto del 35%.

 

 

Ustat, Il personale docente e non docente nel sistema universitario italiano - a.a 2020/2021, settembre 2021

 

Il Grafico supra mostra la distribuzione per genere tra il personale docente e ricercatore negli atenei statali (le donne rappresentano il 47,4% tra i ricercatori ed i titolari di assegni di ricerca e quasi il 35% tra i professori di I e II fascia).

Sullo stesso tema si segnala anche quanto registrato dal già citato Focus del Ministero dell’istruzione nell’ambito della carriera accademica, dove, alla segregazione orizzontale si aggiunge quella verticale anche se si osserva comunque nel tempo un aumento della percentuale delle donne, sia nei livelli più alti della professione, sia nelle aree STEM.

 

Confronto le carriere femminili e maschili in ambito accademico solo per le aree STEM sempre per gli anni 2005 e 2019 dal Focus del Ministero dell’istruzione “Le carriere femminili in ambito accademico” del marzo 2021

 

Il Rapporto della Commissione europea She Figures 2021, che riporta statistiche e indicatori di genere nel settore della ricerca e dell'innovazione in Europa, sottolinea, per questo ambito, che sebbene siano stati rilevati andamenti positivi negli ultimi anni, tra cui il quasi raggiungimento dell’equilibrio di genere nei dottorati di ricerca (48,1%) e un aumento di 2,1 punti percentuali nel numero di donne che ricoprono le più alte posizioni accademiche, devono essere ancora raggiunti i nuovi obiettivi coincidenti con gli impegni per l’ottenimento della parità di genere rinnovati dalla Commissione per il periodo 2021-2027, ovvero: la promozione alla partecipazione nelle carriere meno rappresentate; la ricerca di un maggiore equilibrio di genere nei ruoli decisionali nonché l’integrazione della dimensione di genere nelle ricerche affinché queste possano considerarsi di qualità. I dati inoltre confermano la frequente rinuncia delle donne nelle fasi di carriera più impegnative, che impedisce loro di assumere ruoli decisionali e quindi di accedere alle posizioni più alte della carriera.

Educazione alle differenze

Educare al riconoscimento e al rispetto delle differenze riveste un ruolo centrale nel superamento degli stereotipi di genere.

L’Eige (European Institute for Gender Equality) sottolinea che la stereotipizzazione di genere può limitare lo sviluppo dei talenti e delle abilità naturali delle ragazze e dei ragazzi, delle donne e degli uomini, nonché le loro esperienze nell'ambito dell'istruzione e della professione e, in generale, le loro opportunità nella vita. Gli stereotipi sulle donne sono sia il prodotto sia la causa di atteggiamenti, valori, norme e pregiudizi profondamente radicati nei confronti delle donne. Sono usati per giustificare e mantenere le relazioni di potere che vedono gli uomini storicamente prevalere sulle donne, nonché atteggiamenti sessisti che ostacolano il progresso delle donne.

L’articolo 5 del decreto legge n. 93 del 2013[17] e il suo correlato Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere ha per questo inteso promuovere un'adeguata formazione del personale della scuola contro la violenza e la discriminazione di genere, anche attraverso la valorizzazione della tematica nei libri di testo.

Non a caso, la legge n. 107 del 2015 (c.d. Buona scuola)[18] attribuisce alla scuola il compito di contribuire allo “sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, il rispetto delle differenze e il dialogo tra le culture, il sostegno dell’assunzione di responsabilità nonché della solidarietà e della cura dei beni comuni e della consapevolezza dei diritti e dei doveri”. Inoltre, l’art.1, comma 16, della Buona scuola stabilisce che il piano triennale dell’offerta formativa deve assicurare l’attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni.

Sulla base di queste sollecitazioni normative, l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa - Indire – su incarico del Dipartimento pari opportunità – ha realizzato il progetto “Gender School – Affrontare la violenza di genere” – che si pone come obiettivo generale quello di educare gli studenti e le studentesse alla parità di genere ed al contrasto della violenza attraverso una combinazione articolata di azioni di comunicazione didattica, di educazione e formazione e di sensibilizzazione socio-culturale. che punta a diffondere nella scuola due temi estremamente attuali e fra loro collegati, quali quello della parità di genere e del contrasto della violenza. Parte del progetto è il sito genderschool.it, ricco di materiali (fra cui un kit didattico con schede e un glossario), riferimenti normativi e altri documenti utili a integrare nella didattica un nuovo approccio di genere basato sulla costruzione di relazioni non discriminatorie tra ragazzi e ragazze e su prevenzione dei contrasti, valorizzazione delle differenze, superamento degli stereotipi, promozione del rispetto dell’identità culturale, religiosa, sessuale.

In ultimo si segnala il progetto europeo Mind the gap: step up for gender equality coordinato da Aidos (Associazione Italiana donne per lo sviluppo) e sviluppato in collaborazione con associazioni del Belgio, Portogallo e Spagna.

Il progetto (qui la scheda) intende contribuire ad affrontare gli stereotipi di genere in ambito scolastico, riducendo così l’influenza delle aspettative di genere sulle scelte di ragazze e ragazzi. Il progetto intende rafforzare le capacità di educatori/rici e altri adulti a contatto con bambini/e di identificare e affrontare gli stereotipi di genere nell’istruzione, compresi i propri pregiudizi inconsci. Per raggiungere gli obiettivi è fra l’altro stata prevista la produzione di una Guida su come costruire l’uguaglianza di genere in ambito educativo.

 


Protezione sociale delle donne nel mondo del lavoro

Tra gli interventi di protezione sociale a favore delle donne assumono particolare rilievo sia la priorità trasversale della parità di genere in termini di inclusione sociale presente nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, sia le misure volte a facilitare la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, nonché quelle dirette ad incentivare l’occupazione femminile (anche a seguito di violenza di genere), con lo scopo, tra gli altri, di tutelare le donne dai rischi che possono manifestarsi nel corso della loro vita lavorativa.

Si segnalano inoltre, per le medesime finalità, taluni istituti pensionistici diretti ad ovviare ai rischi strettamente connessi alle disuguaglianze che esistono nel mercato del lavoro e nell'occupazione tra donne e uomini, dovute, in particolar modo, alla carriera lavorativa discontinua che riguarda maggiormente le donne rispetto agli uomini, con una conseguente minore copertura previdenziale contributiva.

Per una panoramica sulle principali misure vigenti in materia di conciliazione vita-lavoro e di occupazione femminile si rinvia allo schema riassuntivo.

La parità di genere nel Piano nazionale di ripresa e resilienza

La Parità di genere rappresenta, come più volte anticipato, una delle tre priorità trasversali presenti nel PNRR perseguita in tutte le missioni che lo compongono.

Le misure previste dal Piano in favore della parità di genere sono in prevalenza volte a promuovere una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, attraverso:

1.     interventi diretti di sostegno all'occupazione e all'imprenditorialità femminile;

2.     interventi indiretti o abilitanti, rivolti in particolare al potenziamento dei servizi educativi per i bambini e di alcuni servizi sociali, che il PNRR ritiene potrebbero incoraggiare un aumento dell'occupazione femminile.

Altri interventi finanziati o programmati con il PNRR si prefiggono l'obiettivo diretto o indiretto di ridurre le asimmetrie che ostacolano la parità di genere sin dall'età scolastica, sia di potenziare il welfare per garantire l'effettivo equilibrio tra vita professionale e vita privata.

Tra le azioni con cui il Governo intende perseguire la finalità di incrementare l’occupazione femminile vi è l'inserimento nei progetti finanziati dal PNRR e dai Fondi REACT-EU e FCN di previsioni dirette a condizionarne l'esecuzione all'assunzione di giovani e donne, anche per il tramite di contratti di formazione/specializzazione che possono essere attivati prima dell'avvio dei medesimi progetti.

A tale previsione è stata data attuazione con l'art. 47 del D.L. 77/2021 che, allo scopo di perseguire le finalità relative alle pari opportunità, sia generazionali che di genere, e di promuovere l'inclusione lavorativa delle persone disabili, prevede l'adempimento di specifici obblighi, anche assunzionali, nonché l'eventuale assegnazione di un punteggio aggiuntivo all'offerente o al candidato che rispetti determinati requisiti, nell'ambito delle procedure di gara relative agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal Dispositivo di ripresa e resilienza (di cui ai regolamenti (UE) 2021/240 e 2021/241) e dal Piano nazionale per gli investimenti complementari (di cui al D.L. 59/2021), finalizzato ad integrare gli interventi del PNRR con risorse nazionali.

Tra le altre misure presenti trasversalmente nel Piano dirette ad agevolare, anche indirettamente, l'ingresso o la permanenza delle donne nel mondo del lavoro e a ridurre conseguentemente il divario occupazionale di genere si segnalano, in particolare

Misure di conciliazione vita-lavoro

Congedi parentali

Tra le principali misure attualmente vigenti in materia di congedi parentali, introdotte con successivi interventi normativi (D.Lgs. 80/2015, L. 81/2017, L. 205/2017, L. 145/2018, L. 160/2019, L. 178/2020 e L. 234/2020), si segnalano in particolare:

§  l’ampliamento dell'ambito temporale di applicazione del congedo di maternità in caso di parto anticipato e di ricovero del neonato;

§  il riconoscimento del congedo di paternità anche se la madre è una lavoratrice autonoma e, in caso di adozione internazionale, il congedo previsto per la lavoratrice per il periodo di permanenza all'estero può essere utilizzato dal padre anche se la madre non è una lavoratrice;

§  l’estensione del congedo parentale dall'ottavo al dodicesimo anno di vita del bambino, con fruizione anche su base oraria. L'indennizzo (nella misura del 30% per un periodo massimo complessivo di 6 mesi) viene esteso dal terzo al sesto anno di vita del bambino.

§  alle lavoratrici iscritte alla Gestione separata INPS viene riconosciuta:

-  l'indennità di maternità anche nel caso di mancato versamento dei contributi da parte del committente (cd. automaticità delle prestazioni) e anche in caso di adozione o affidamento (per i 5 mesi successivi all'ingresso del minore in famiglia);

-  la possibilità di fruire del trattamento di maternità a prescindere (per quanto concerne l'indennità di maternità spettante per i 2 mesi antecedenti la data del parto e per i 3 mesi successivi) dall'effettiva astensione dall'attività lavorativa (come già previsto per le lavoratrici autonome);

-  il prolungamento della durata del congedo parentale da 3 a 6 mesi, prevedendo che se ne possa fruire fino al terzo anno di vita del bambino per un periodo complessivo pari ad un massimo di 6 mesi (anche se fruiti in altra gestione o cassa di previdenza);

-  l'applicazione della nuova disciplina anche ai casi di adozione e affidamento preadottivo

§  per le lavoratrici autonome, l’estensione dell'indennità di maternità ai casi di adozione e affidamento (alle stesse condizioni previste per le altre lavoratrici);

§  l’inserimento, tra le lavoratrici che non possono essere obbligate a svolgere lavoro notturno, della lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore;

§  per le donne che esercitano la professione forense, la previsione del legittimo impedimento del difensore nel periodo compreso tra i due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi al parto;

§  la sospensione, dal 2018, dei contratti di ricerca a tempo determinato stipulati dalle università nel periodo di astensione obbligatoria per maternità e il termine di scadenza è prorogato per un periodo pari a quello di astensione obbligatoria;

§  per le donne vittime di violenza di genere, il riconoscimento di un congedo retribuito per un periodo massimo di tre mesi;

§  la messa a regime, dal 2022, del congedo obbligatorio e facoltativo per il padre lavoratore dipendente, di durata pari a, rispettivamente, dieci giorni e un giorno. Si ricorda che nel congedo facoltativo il padre può astenersi per un ulteriore giorno in accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima e che entrambi tali congedi, obbligatorio e facoltativo, possono essere goduti anche nei casi di morte perinatale;

§  il riconoscimento alle lavoratrici della facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico competente attesti che tale opzione non porti pregiudizio alla salute della donna e del bambino;

§  la previsione di un contributo mensile, per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023 fino ad un massimo di 500 euro netti, in favore delle madri disoccupate o monoreddito che fanno parte di nuclei familiari monoparentali con figli a carico con una disabilità riconosciuta in misura non inferiore al 60 per cento;

§  il riconoscimento in favore delle lavoratrici iscritte alla gestione separata non iscritte ad altre forme obbligatorie di previdenza, alle lavoratrici autonome e alle imprenditrici agricole, nonché alle libere professioniste iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza, dell'indennità di maternità per ulteriori tre mesi a seguire dalla fine del periodo di maternità. Ai fini di tale riconoscimento, le lavoratrici devono aver dichiarato, nell'anno precedente l'inizio del periodo di maternità, un reddito inferiore a 8.145 euro, incrementato del 100 per cento dell'aumento derivante dalla variazione annuale dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati.

 

Si segnala che nell'ambito delle politiche dirette alla conciliazione vita-lavoro rientrava anche il cosiddetto voucher babysitting, ossia una misura sperimentale (introdotta per il triennio 2013-2015, prorogata dapprima per il 2016 e successivamente per il 2017 e 2018) che riconosceva alla madre lavoratrice dipendente, pubblica o privata, alla madre lavoratrice iscritta alla gestione separata, nonché alle madri lavoratrici autonome o imprenditrici, la possibilità di richiedere (al termine del periodo di congedo di maternità e negli undici mesi successivi), in sostituzione, anche parziale, del congedo parentale, un contributo economico (pari ad un importo massimo di 600 euro mensili, per un periodo complessivo non superiore a sei mesi) da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l'infanzia (erogati da soggetti pubblici o da soggetti privati accreditati).

 

Trasformazione del rapporto di lavoro

Nelle misure volte a favorire la conciliazione vita-lavoro rientrano anche le disposizioni che prevedono, in determinati casi, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (D.Lgs. 81/2015). Più precisamente:

§  in caso di richiesta del lavoratore o della lavoratrice, con figlio convivente di età non superiore a tredici anni o con figlio convivente portatore di handicap, è riconosciuta la priorità nella trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale;

§  il lavoratore può chiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale od entro i limiti del congedo ancora spettante, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione d'orario non superiore al 50 per cento. Il datore di lavoro è tenuto a dar corso alla trasformazione entro quindici giorni dalla richiesta.

Si ricorda che anche la lavoratrice che usufruisce del congedo per violenza di genere ha diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale, verticale od orizzontale, ove disponibili in organico. Il rapporto di lavoro a tempo parziale deve essere nuovamente trasformato, a richiesta della lavoratrice, in rapporto di lavoro a tempo pieno.

 

Passaggio di personale tra amministrazioni

Tra le suddette misure vengono in considerazione anche le disposizioni in tema di passaggio di personale tra amministrazioni diverse (L. 124/2015), che prevedono, in particolare, che il genitore, dipendente di amministrazioni pubbliche, con figli minori fino a tre anni di età può chiedere di essere assegnato (a determinate condizioni e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni) ad una sede presente nella stessa provincia o regione nella quale lavora l'altro genitore. L'eventuale dissenso deve essere motivato.

Anche la dipendente vittima di violenza di genere, inserita in specifici percorsi di protezione debitamente certificati, può chiedere il trasferimento ad altra amministrazione pubblica presente in un comune diverso da quello di residenza, previa comunicazione all'amministrazione di appartenenza che, entro quindici giorni, dispone il trasferimento presso l'amministrazione indicata dalla dipendente, ove vi siano posti vacanti corrispondenti alla sua qualifica professionale.

In tema di cure parentali, la medesima legge dispone che le amministrazioni pubbliche adottino misure organizzative per l'attuazione del telelavoro e stipulino convenzioni con asili nido e scuole dell'infanzia e organizzino servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica (sul punto, con direttiva del Presidente del consiglio del 1° giugno 2017, sono state definite le linee guida per l'organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti).

 

Lavoro a distanza

In materia di disposizioni volte a favorire il telelavoro, si ricorda che anche la L. 81/2017 (relativa al lavoro autonomo) contiene una disciplina dettagliata (applicabile, fatta salva l'applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) del lavoro agile e dei suoi elementi costitutivi, proprio al fine di agevolare la conciliazione vita-lavoro.

La legge di bilancio 2019 ha inoltre previsto l’obbligo, per i datori di lavoro, pubblici e privati, che stipulano accordi per lo svolgimento dell'attività lavorativa in modalità agile (smart working), di dare priorità alle richieste di esecuzione del lavoro secondo la suddetta modalità fatte dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità, ovvero ai lavoratori con figli disabili che necessitino di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale.

 

Rientro al lavoro delle madri lavoratrici

La legge di bilancio 2021 ha disposto un incremento di 50 mln di euro per il 2021 del Fondo per le politiche della famiglia da destinare al sostegno delle misure organizzative adottate dalle imprese per favorire il rientro al lavoro delle madri lavoratrici dopo il parto.

 

Fondo parità salariale

La legge di bilancio 2021 ha istituto, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per il sostegno della parità salariale di genere, con una dotazione di 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2022, per interventi finalizzati al sostegno e al riconoscimento del valore sociale ed economico della parità salariale di genere e delle pari opportunità sui luoghi di lavoro.

La legge di bilancio 2022 ha incrementato di 50 milioni di euro a decorrere dal 2023 la dotazione del suddetto Fondo ed estende le finalità dello stesso, prevedendo che sia destinato anche alla copertura finanziaria di interventi volti al sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, anche attraverso la definizione di procedure per l'acquisizione di una certificazione della parità di genere a cui siano connessi benefici contributivi a favore del datore di lavoro.

 

Decontribuzione a favore delle lavoratrici madri e sospensione adempimenti tributari

La legge di bilancio 2022 ha introdotto in via sperimentale, per l'anno 2022, una riduzione del 50 per cento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri dipendenti del settore privato. Tale riduzione opera per un periodo massimo di un anno a decorrere dalla data del rientro al lavoro dopo la fruizione del congedo obbligatorio di maternità.

 Il suddetto esonero spetta, pertanto, alla madre:

La medesima legge di bilancio 2022 prevede, inoltre, la sospensione della decorrenza di termini relativi ad adempimenti tributari a carico della libera professionista in caso di parto prematuro (con sospensione a decorrere dal giorno del ricovero per il parto fino al trentesimo giorno successivo) o di interruzione della gravidanza avvenuta oltre il terzo mese dall'inizio della stessa (con sospensione fino al trentesimo giorno successivo all'interruzione della gravidanza).

Certificazione della parità di genere e rapporto sulla situazione del personale

La legge di bilancio 2022 prevede l'adozione di un Piano strategico nazionale per la parità di genere, con l'obiettivo, tra l'altro, di realizzare un sistema nazionale di certificazione della parità di genere e istituisce un Fondo per le attività di formazione propedeutiche all'ottenimento della certificazione della parità di genere, con una dotazione di 3 mln di euro per il 2022. 

Analogamente, la L. 162/2021 - che reca disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo – prevede l'istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2022, della  certificazione della parità di genere, al fine di riconoscere le misure adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. Al possesso di tale certificazione è collegata la concessione di un apposito sgravio contributivo parziale.

La medesima L. 162/2021 ha esteso l'obbligo di redazione del rapporto biennale relativo alla situazione del personale e ai diversi aspetti inerenti le pari opportunità sul luogo di lavoro alle aziende (pubbliche e private) che impiegano più di 50 dipendenti (in luogo degli oltre 100 precedentemente previsti).

Si ricorda, inoltre, che il D.L. 77/2021 dispone per le aziende, anche di piccole dimensioni (con almeno 15 dipendenti), che partecipano alle gare di appalto relative agli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal PNRR (o che risultano affidatarie dei relativi contratti) l'obbligo di consegnare, a pena di esclusione, una relazione sulla situazione del personale maschile e femminile.

Incentivi all’occupazione

Incentivo assunzioni donne

La L. 92/2012 ha riconosciuto ai datori di lavoro privati, anche non imprenditori, ivi compresi i datori di lavoro del settore agricolo, un incentivo per le assunzioni di donne che si trovano in condizioni svantaggiate, intendendosi per tali le donne:

§  con almeno cinquant’anni di età e disoccupate da oltre dodici mesi;

§  di qualsiasi età, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell'ambito dei fondi strutturali dell'Unione europea, prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi[19];

§  di qualsiasi età che svolgono professioni o attività lavorative in settori economici caratterizzati da un’accentuata disparità occupazionale di genere[20] e prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;

§  di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, ovunque residenti[21].

Per tali assunzioni è riconosciuta la riduzione del 50 per cento dei contributi a carico del datore di lavoro per la durata di dodici mesi (diciotto se la suddetta assunzione è a tempo indeterminato o se vi è una trasformazione del contratto da tempo determinato a indeterminato).

La legge di bilancio 2021 ha previsto che in via sperimentale, per il biennio 2021-2022, il suddetto esonero contributivo si applichi nella misura del 100 per cento e nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui[22].

 

Incentivo donne vittime di violenza di genere

La legge di bilancio per il 2018 (l. 205/2017) ha riconosciuto un contributo alle cooperative sociali per le assunzioni con contratti di lavoro a tempo indeterminato, effettuate nel 2018, di donne vittime di violenza di genere, inserite in appositi percorsi di protezione debitamente certificati.

Il contributo, era riconosciuto per un periodo massimo di trentasei mesi entro il limite di spesa di un milione di euro per ciascuno degli anni dal 2018 al 2020, a titolo di sgravio delle aliquote per l'assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute.

In base all'ultima disposizione di proroga (di cui all'art. 12, co. 16-bis, del D.L. 137/2020), il medesimo contributo è riconosciuto, per un periodo massimo di dodici mesi, in favore delle cooperative sociali che, nel corso del 2021, assumano con contratti di lavoro a tempo indeterminato donne vittime di violenza di genere, inserite in appositi percorsi di protezione debitamente certificati.

Per la misura del suddetto sgravio (riconosciuto nel limite massimo di importo pari a 350 euro su base mensile) e per le relative modalità di attuazione si veda il Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 11 maggio 2018.

Direttive in materia di conciliazione vita-lavoro e di parità salariale

In materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare (che costituisce uno dei risultati principali del pilastro europeo dei diritti sociali) è stata adottata la Direttiva (UE) 2019/1158 la quale:

§  stabilisce una disposizione minima europea che prevede 10 giorni di congedo di paternità dopo la nascita di un figlio, da retribuirsi al livello del congedo per malattia;

§  rafforza l’attuale diritto a un congedo parentale di 4 mesi, imponendo la non trasferibilità di 2 mesi tra i genitori e introducendo un indennizzo per questo periodo di 2 mesi a un livello che sarà stabilito dagli Stati membri;

§  in materia di congedo per i prestatori di assistenza, prevede 5 giorni di congedo all’anno per lavoratore;

§  estende il diritto esistente di richiedere accordi di lavoro flessibile a tutti i lavoratori genitori di bambini fino ad almeno 8 anni e tutti gli accompagnatori.

In materia di parità salariale è all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio la proposta di direttiva COM(2021) 93 final - su cui le Camere hanno espresso il previsto parere – che ha lo scopo di contrastare l’applicazione inadeguata del diritto fondamentale alla parità retributiva e di garantire il rispetto di tale diritto in tutta l'UE. La proposta di direttiva persegue tali obiettivi:

§  garantendo la trasparenza retributiva all'interno delle organizzazioni;

§  agevolando l'applicazione dei concetti chiave relativi alla parità retributiva, compresi quelli di "retribuzione" e "lavoro di pari valore";

§  rafforzando i meccanismi di applicazione.

Istituti pensionistici

APE sociale donna

La legge di bilancio 2017 (L. 232/2016) ha introdotto, in via sperimentale dal 1° maggio 2017 al 31 dicembre 2021 (termine così prorogato dalla legge di bilancio 2021), l'istituto dell'APE sociale, consistente in una indennità, corrisposta fino al conseguimento dei requisiti pensionistici, a favore di soggetti che si trovino in particolari condizioni.

Nell’ambito dell’APE sociale, è stata prevista una riduzione per le donne di 12 mesi per ciascun figlio, nel limite massimo di 2 anni (cd. APE sociale donna).

Opzione donna

Preliminarmente, si ricorda che la L. 243/2004 ha introdotto una misura sperimentale (cd. opzione donna) che prevede la possibilità per le lavoratrici che hanno maturato 35 anni di contributi e 57 anni di età per le lavoratrici dipendenti o 58 anni per le lavoratrici autonome (requisito anagrafico da adeguarsi periodicamente all'aumento della speranza di vita), di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico, a condizione che optino per il sistema di calcolo contributivo integrale.

Con provvedimenti successivi, si è progressivamente ampliato l’ambito di applicazione della misura suddetta. Dapprima, la legge di bilancio per il 2017 ha ulteriormente esteso la possibilità di accedere alla cd. opzione donna alle lavoratrici che non hanno maturato entro il 31 dicembre 2015 i requisiti richiesti a causa degli incrementi determinati dall'adeguamento dei medesimi all'aumento della speranza di vita.

Successivamente, l'articolo 16 del D.L. 4/2019 ha esteso la possibilità di ricorrere all'opzione donna alle lavoratrici che abbiano maturato un'anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni e un'età anagrafica pari o superiore a 58 anni (per le lavoratrici dipendenti) e a 59 anni (per le lavoratrici autonome) entro il 31 dicembre 2018 (in luogo del 31 dicembre 2015), disponendo al contempo che a tale trattamento si applichino le decorrenze (cd. finestre) pari, rispettivamente, a 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e a 18 mesi per le lavoratrici autonome.

Da ultimo, la legge di bilancio 2022 ha ulteriormente esteso la possibilità di fruizione della predetta opzione alle lavoratrici che abbiano maturato determinati requisiti entro il 31 dicembre 2021.

Lavoro agile e parità di genere

Un’indagine Eurostat pubblicata nel maggio 2021 afferma che, nel 2020, il 12,3% degli occupati di età compresa tra 15 e 64 anni nell’Ue lavorava solitamente da casa, sebbene questa quota fosse rimasta costante intorno al 5% negli ultimi dieci anni. Nella lista degli Stati membri dell’Ue per il lavoro a domicilio, l’Italia si colloca appena sotto la media europea, con 12,2%[23].

In linea generale, come esplicitato dalla normativa in materia di lavoro agile (art. 18 L. 81/2017), la promozione e l'implementazione delle forme di lavoro agile all'interno dei rapporti di lavoro subordinato possono comportare una riduzione delle disuguaglianze di genere, essendo dirette, tra l'altro, ad agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Tuttavia, perché queste finalità siano effettivamente realizzate è necessario affrontare il tema della condivisione dei carichi di cura familiare, attraverso la previsione di misure volte ad un maggior equilibrio di genere nella suddivisione del lavoro domestico e di cura.

Come emerso anche dalla Relazione elaborata dal Gruppo di studio "Lavoro agile" - istituito dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali il 13 aprile 2021, con il DM n. 87 del 2021 – che analizza gli effetti dello svolgimento dell'attività di lavoro in modalità di agile in vista della individuazione di soluzioni alle criticità  emerse  sia  riguardo  al settore privato che pubblico, evidenzia infatti che il diritto al lavoro agile dovrebbe spettare ad entrambi i genitori in quanto tale diritto non è configurabile come congedo, ma come una modalità flessibile di esecuzione della prestazione lavorativa subordinata che dovrebbe permettere la conciliazione e la condivisione delle responsabilità genitoriali: laddove infatti il diritto a svolgere il lavoro in  modalità agile continui ad essere concepito quale rimedio esclusivo di un solo genitore (per lo più della madre) in alternativa alla sua fruizione da parte  dell'altro, "vi è il forte rischio di inevitabili diseguaglianze in danno delle  lavoratrici,  le  quali  si vedranno costrette a rinunciare al lavoro per svolgere le funzioni assistenziali".

Un recente studio di Eurofound (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) dal titolo "Vita, lavoro e Covid" ha evidenziato  che,  al  culmine della pandemia nell'aprile 2020, le donne - in particolare con bambini minori di 12 anni – avevano difficoltà a trovare un equilibrio tra il lavoro e la vita personale evidenziandosi, tra l’altro, un aumento dell'incidenza di ore di lavoro straordinarie.

Le donne con figli minori di 12 anni hanno segnalato una maggiore difficoltà nel conciliare la vita con il lavoro rispetto agli uomini.

In tema di parità di trattamento e pari opportunità, l’articolo 9 del Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile nel settore privato prevede che le Parti sociali, fatte salve la volontarietà e l’alternanza tra lavoro all’interno e all’esterno dei locali aziendali, promuovano lo svolgimento del lavoro in modalità agile, garantendo la parità tra i generi, anche nella logica di favorire l’effettiva condivisione delle responsabilità genitoriali e accrescere in termini più generali la conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro. A tal fine si impegnano a rafforzare i servizi e le misure di equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Lo svolgimento della prestazione in modalità agile non deve incidere sugli elementi contrattuali in essere quali livello, mansioni, inquadramento professionale, retribuzione del lavoratore, trattamento economico e normativo (premi di risultato, opportunità di carriera, di specializzazione e di progressione, iniziative formative, forme di welfare e benefit previste dalla contrattazione collettiva e dalla bilateralità).

Divario occupazionale di genere

Gli ultimi dati Istat evidenziano una dinamica diversa tra donne e uomini. Infatti, a dicembre 2021, su base mensile, le donne mostrano u  aument  (di 0,3 punti) dell’occupazione e una diminuzione della disoccupazione e dell’inattività (rispettivamente -0,4 e -0,1 punti); al contrario tra gli uomini l’occupazione cala di 0,3 punti e crescono sia disoccupazione sia inattività (+0,1 e +0,2 punti rispettivamente).

Su base annua, l’occupazione aumenta per entrambi i generi (di 1,2 punti per gli uomini e di 2,5 per le donne, rispetto al dicembre dello scorso anno), così come per entrambi diminuiscono disoccupazione (di 0,5 punti percentuali per i maschi e di 1,5 punti per le femmine) e inattività (di 0,9 punti tra gli uomini e 1,9 tra le donne).

Il valore percentuale del tasso di occupazione femminile nella fascia d’età 15-64 anni si attesta quindi attualmente al 50,5.

Inoltre, secondo dati Eurostat, il tasso di occupazione femminile in Italia (calcolato con riferimento alla popolazione attiva e alla fascia d’età 15-64 anni) nel 2020 era tra i più bassi tra i Paesi UE, pari al 48,4%, migliore solo di Turchia, Montenegro, Grecia e Nord Macedonia e largamente inferiore alla media dell’Unione europea (61,9%).

Per quanto riguarda il divario retributivo di genere dagli ultimi dati Eurostat (riferiti all’anno 2019, tranne che per Grecia e Irlanda, i cui dati si riferiscono al 2018) risulta che quello medio (ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è pari al 4,7% [24] (al di sotto della media europea che è del 14,1%[25]), mentre il divario retributivo di genere complessivo (ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini) è pari al 43% [26] (al di sopra della media europea che è invece pari al 37%[27]).

Per quanto concerne il divario occupazionale di genere, secondo l’ultimo report Eurostat, l’Italia è tra i paesi UE con il divario occupazionale più ampio, pari al 19,60% (contro una media UE pari a meno del 12%).

Provvedimenti in corso di esame

Sono all’esame della XI Commissione (Lavoro) della Camera alcune proposte di legge (C. 1458, C. 1791 e C. 1891) che recano disposizioni volte all'inserimento lavorativo delle donne vittime di violenza di genere.

In particolare, le proposte intendono assicurare tale obiettivo sia attraverso il riconoscimento di agevolazioni contributive per le assunzioni delle donne vittime di violenza, sia attraverso l'inserimento delle stesse nelle categorie protette ai fini del collocamento obbligatorio al lavoro.


Strumenti di sostegno all’imprenditoria femminile

Gli strumenti di sostegno alla creazione e allo sviluppo di imprese a prevalente o totale partecipazione femminile hanno subito una consistente implementazione. Recenti interventi legislativi hanno da un lato rafforzato il sostegno al credito e dall'altro introdotto forme di sostegno diretto, assieme ad azioni per la diffusione della cultura imprenditoriale tra la popolazione femminile, affidate ad organismi pubblici a ciò preposti. Il Comitato Impresa Donna è stato costituito - ai sensi di quanto previsto dalla legge di bilancio 2021 - presso il Ministero dello sviluppo economico e tra le sue attribuzioni rientra quella di formulare raccomandazioni relative allo stato della legislazione e dell'azione amministrativa, nazionale e regionale, in materia di imprenditorialità femminile e sui temi della presenza femminile nell'impresa e nell'economia.

Le risorse del PNRR rafforzano decisamente il quadro.

Come evidenziato in più sedi, la crisi da Covid-19 ha contribuito ad esacerbare ancor più le diseguaglianze, colpendo in maniera negativa l’occupazione femminile, anche quando questa si traduce in un esercizio dell’attività di impresa. Le imprese femminili, nell’anno 2020, hanno pagato un conto salato[28], controbilanciato da un recupero, seppur lento, nel corso dell’anno 2021[29].

La necessità di affrontare il gap tra impegno imprenditoriale femminile e impegno imprenditoriale maschile trova peraltro il suo fondamento nei dati sul divario di genere già consolidati, e nelle raccomandazioni specifiche formulate in sede europea nei confronti del nostro Paese, già prima dell’evento pandemico. Nelle Country-Specific Recommendations 2019 del Consiglio dell'UE si evidenziava, infatti, la necessità di sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso una strategia globale (…)[30]. Nelle Country-Specific Recommendations 2020 si evidenziava come per il futuro, al fine di promuovere una ripresa sostenibile e inclusiva, fosse fondamentale l'integrazione nel mercato del lavoro delle donne e dei giovani inattivi.

Il Piano nazionale italiano di ripresa e resilienza, come più diffusamente illustrato in premessa, nel porre la parità di genere come priorità trasversale, prevede, dunque al suo interno, uno specifico investimento «Creazione di imprese femminili» (Missione 5 «Inclusione e coesione», Componente 1«Politiche per l'occupazione» Investimento.1.2) dotato di 400 milioni di euro. L’importo, come meglio si dirà di seguito, è stato ripartito in modo da integrare talune misure previste a legislazione vigente:

-       il Fondo impresa femminile, istituito dalla legge di bilancio 2021,

-       la misura cd. NITO-ON per l’autoimprenditorialità femminile (credito agevolato integrato da contribuzione a fondo perduto per le micro, piccole e medie femminili, di cui al Tit. I, Capo 01, del D.Lgs. n. 185/2000), e

-       la misura cd. smart &start per le startup innovative (di cui al D.M. 24 settembre 2014 e ss. mod. e int.).

Il fine esplicitato dell’investimento del PNRR è contribuire ad aumentare il livello di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e così rispondere alle Raccomandazioni specifiche per paese rivolte all'Italia, in particolare nel 2019 e nel 2020[31].

Appare anche opportuno rilevare come, accanto a norme di sostegno finanziario, siano state introdotte, per ciò che attiene alla fase attuativa degli investimenti del PNRR, norme “di metodo”, volte a garantire la partecipazione femminile e il rispetto del lavoro femminile anche in sede di appalti di lavori pubblici. Così, l’articolo 47, comma 4 del D.L. n. 77/2021 impone alle stazioni appaltanti di prevedere, nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, specifiche clausole dirette all'inserimento, come requisiti necessari e come ulteriori requisiti premiali dell'offerta, criteri orientati a promuovere l'imprenditoria giovanile, l'inclusione lavorativa delle persone disabili, la parità di genere e l'assunzione di giovani, con età inferiore a trentasei anni, e donne.

Poste queste premesse, si illustreranno di seguito le principali specifiche misure vigenti a sostegno delle donne, con uno specifico approfondimento al sostegno proveniente dal PNRR[32].

Fondo impresa femminile e PNRR

Il Fondo impresa femminile è stato istituito dall'articolo 1, commi 97-103, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio 2021), con una dotazione di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021 e 2022.

Il Fondo è finalizzato a promuovere e sostenere l'avvio e il rafforzamento della struttura finanziaria e patrimoniale delle imprese femminili, a sostenere programmi ed iniziative per la diffusione della cultura dell'imprenditorialità tra la popolazione femminile, inclusi programmi di formazione e orientamento anche verso percorsi di studio STEM e verso professioni tipiche dell'economia digitale.

La legge ha previsto che il Fondo possa concedere contributi a fondo perduto per l’avvio di imprese femminili (con particolare attenzione alle imprese individuali, alle attività libero professionali e alle attività avviate da donne disoccupate di qualsiasi età); nonché finanziamenti a tasso zero o agevolati per avviare e sostenere le attività di imprese femminili. È ammessa anche la combinazione di contributi a fondo perduto e finanziamenti.

Le attività devono incentrarsi sulla collaborazione con le regioni e gli enti locali, con le associazioni di categoria, con il sistema delle camere di commercio e con i comitati per l'imprenditoria femminile, anche attraverso forme di cofinanziamento tra i rispettivi programmi in materia.

Il Ministro dello sviluppo economico deve poi presentare annualmente alle Camere una relazione sull'attività svolta e sulle possibili misure da adottare per risolvere i problemi relativi alla partecipazione della popolazione femminile alla vita economica e imprenditoriale del Paese. A tal fine, la legge ha previsto la costituzione del Comitato impresa donna, di cui il Ministro si avvale per l'esercizio delle attività sopra indicate.

Il Decreto interministeriale 30 settembre 2021, adottato dal Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia, disciplina l'ambito di applicazione, le finalità dell'intervento, la ripartizione della dotazione finanziaria del Fondo e le modalità attuative degli interventi di agevolazione a valere su esso, articolati nelle seguenti linee di azione:

a)     incentivi per la nascita e lo sviluppo delle imprese femminili;

b)     incentivi per lo sviluppo e il consolidamento delle imprese femminili;

c)     azioni per la diffusione della cultura e la formazione imprenditoriale femminile.

Il decreto rimanda ad un successivo provvedimento la definizione dell'apertura dei termini e delle modalità per la presentazione delle domande di agevolazione.

Il Decreto interministeriale 27 luglio 2021, adottato dal Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro delle pari opportunità, ha disciplinato la composizione e le modalità di nomina del Comitato impresa donna, prevedendo la partecipazione di sei componenti: due rappresentanti del Ministero dello sviluppo economico, uno dei quali con funzioni di presidente; un rappresentante del Ministero per le pari opportunità e la famiglia; un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze; un rappresentante delle regioni e delle province autonome ed un rappresentante di Unioncamere. I componenti sono individuati dalle amministrazioni di provenienza[33].

È prevista l'intesa con il Ministero per le pari opportunità e la famiglia per la individuazione, da parte del Ministero dello sviluppo economico, di cinque imprenditrici o manager tra donne che svolgono un'attività di rilevante valore socio-economico e con comprovata capacità di influenzare il contesto imprenditoriale di riferimento, assicurando la rappresentanza dei diversi settori economici.

Al riguardo, il Governo, il 18 febbraio 2022, in risposta ad una interrogazione parlamentare[34], ha informato che sono state avviate dal Ministero dello sviluppo economico le necessarie interlocuzioni con le amministrazioni interessate al fine di acquisire le rispettive designazioni ed è stata raggiunta l'intesa con il Ministero per le pari opportunità per quanto concerne l'individuazione dei componenti in rappresentanza delle categorie economico-produttive.

Quanto al Fondo impresa donna, il Governo, nella stessa sede, ha informato che è in lavorazione da parte degli uffici competenti il provvedimento che disciplinerà l'accesso alla misura attraverso una piattaforma informatica appositamente predisposta, assicurando una serie di azioni di supporto, accompagnamento e comunicazione, a beneficio di tutte le proponenti.

Con decreto interministeriale del 24 novembre 2021, adottato dal Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia, il Fondo impresa femminile è stato integrato con quota parte delle risorse (160 milioni di euro[35]) provenienti dall'investimento 1.2 «Creazione di imprese femminili», previsto nell'ambito della Missione 5 «Inclusione e coesione», Componente 1 «Politiche per l'occupazione» del PNRR.

Ai sensi dell’articolo 2, comma 6-bis, del D.L. n. 77/2021 (L. n. 108/2021) almeno il 40% delle risorse in questione deve essere destinato al finanziamento di progetti da realizzare nelle Regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.

Si rammenta in questa sede come obiettivo dell’investimento del PNRR sia quello di sostenere almeno 2.400 imprese femminili, agevolando la realizzazione di progetti imprenditoriali innovativi, anche quelli già stabiliti e avviati; supportando le start-up femminili attraverso attività di mentoring, assistenza tecnico-manageriale e misure per la conciliazione vita-lavoro; creando un clima culturale favorevole che valorizzi l'imprenditorialità femminile attraverso misure di accompagnamento, monitoraggio e campagne di comunicazione.

Proprio in ragione dell’eterogeneità delle finalità dell’investimento del PNRR, il decreto ministeriale di riparto destina le residue risorse, pari a 240 milioni di euro, ad ulteriori misure che hanno mostrato particolare efficacia:

·        100 milioni di euro per la misura cd. NITO-ON, per l’autoimprenditorialità femminile (credito agevolato integrato da contribuzione a fondo perduto per le micro, piccole e medie femminili, di cui al Tit. I, Capo 01, del D.Lgs. n. 185/2000). La misura in questione sarà esaminata nel successivo paragrafo.

·        100 milioni per la misura cd. Smart &Start Italia per le startup innovative (di cui al D.M. 24 settembre 2014 e ss.mod. e int.). Questa misura non è esclusivamente diretta a sostenerle startup innovative femminili, sebbene per esse rechi delle percentuali di agevolazione maggiori[36].

Anche in questo caso, almeno il 40 per cento delle risorse in questione deve essere destinato al finanziamento di progetti da realizzare nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.

Le restanti risorse dell’investimento, pari a 40 milioni, sono utilizzate, entro tale limite per l’attuazione di misure di accompagnamento, monitoraggio e campagne di comunicazione. Una quota, pari a 1,2 milioni è utilizzata dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la realizzazione di campagne pluriennali di informazione e comunicazione.

Al riguardo, il Governo, il 18 febbraio 2022[37], ha informato che saranno emanati - oltre al provvedimento relativo all'accesso al fondo per l'imprenditoria femminile - altri provvedimenti per le misure di accompagnamento e per integrare le misure NITO-ON e Smart&Start Italia.

Credito agevolato per l'autoimprenditorialità giovanile e femminile

L'accesso al credito per le piccole e medie imprese a totale o prevalente partecipazione femminile è sostenuto anche attraverso il riconoscimento di mutui a tasso zero e l'accesso agevolato alla Sezione speciale del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese – Sezione Pari Opportunità.

Mutui a tasso zero e quota a fondo perduto

Il Capo 01 del Titolo I del D.Lgs. n. 185/2000 - introdotto dal D.L. 145/2013 (Legge n. 9/2014) e riformato dall'articolo 29 del D.L. n. 34/2019 (L. n. 58/2019) [38]- contiene misure dirette a sostenere, attraverso condizioni agevolate di accesso al credito, la creazione di micro e piccole imprese a prevalente o totale partecipazione giovanile o femminile, in tutto il territorio nazionale.

I mutui agevolati a tasso zero sono della durata massima di dieci anni (anziché 8 come previsto prima del decreto-legge n. 34/2019) e di importo non superiore al 75% della spesa ammissibile nei limiti consentiti dalla disciplina sugli aiuti di Stato di importanza minore, cd. “de minimis” (Regolamento (UE) n. 1407/2013), per cui l'entità dell'aiuto - in termini di sgravio sugli interessi - non può essere superiore a 200.000 euro nell'arco di tre esercizi finanziari.

L'intervento in questione è stato potenziato con la legge di bilancio 2020 (L. n. 160/2019 art. 1, comma 90, lett. d)), che ha introdotto la possibilità di integrare i finanziamenti agevolati di cui al capo 01 del D.Lgs. n. 185/2000, con una quota a fondo perduto (cfr. infra)[39], concessa con procedura a sportello, in misura non superiore al 20 per cento delle spese ammissibili.

In ogni caso, la misura massima delle agevolazioni complessivamente concedibili non può superare il 90 per cento delle spese ammissibili[40].

Possono essere finanziate le iniziative che prevedono investimenti non superiori a 1,5 milioni di euro, ovvero – in virtù della novella apportata alla normativa dal decreto-legge n. 34/2019 - 3 milioni di euro per le imprese costituite da almeno trentasei mesi e da non oltre sessanta[41].

Le iniziative di investimento devono riguardare la produzione di beni nei settori dell'industria, dell'artigianato, della trasformazione dei prodotti agricoli ovvero all'erogazione di servizi in qualsiasi settore, incluso il commercio e il turismo, nonché le iniziative relative agli ulteriori settori di particolare rilevanza per lo sviluppo dell'imprenditoria giovanile (individuate dal decreto interministeriale attuativo).

I beneficiari sono le imprese:

a) costituite da non più di sessanta mesi alla data di presentazione della domanda di agevolazione;

b) di micro e piccola dimensione;

c) costituite in forma societaria;

d) in cui la compagine sia composta, per oltre la metà numerica dei soci e di quote partecipazione, da soggetti di età compresa tra i 18 ed i 35 anni ovvero da donne.

Possono, altresì, richiedere le agevolazioni le persone fisiche che intendono costituire un'impresa purché esse, entro 45 dalla comunicazione di ammissione alle agevolazioni, facciano pervenire la documentazione necessaria a comprovare l'avvenuta costituzione dell'impresa e il possesso dei requisiti richiesti per l'accesso alle agevolazioni.

L'inclusione delle imprese agricole di nuova costituzione è stato inserito con il decreto-legge n. 23/2020 (art. 41, comma 4-ter).

La disciplina attuativa è contenuta nel decreto interministeriale 4 dicembre 2020. La gestione degli interventi è affidata ad INVITALIA S.p.a.

Si evidenzia in questa sede che la circolare 8 aprile 2021 ha fissato al 19 maggio 2021 la data di apertura dello sportello agevolativo presso l'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa S.p.A. – Invitalia (cfr. anche circolare n. 135072 del 20 aprile 2021).

Causa esaurimento delle risorse diponibili, lo sportello è stato chiuso il 15 novembre 2021 (cfr. sito istituzionale di Invitalia).

Come sopra già rilevato, con decreto interministeriale del 24 novembre 2021 sono stati destinati alla misura in esame 100 milioni a valere sulle risorse PNRR dell'investimento 1.2 «Creazione di imprese femminili», previsto nell'ambito della Missione 5 «Inclusione e coesione», Componente 1 «Politiche per l'occupazione». Non sono stati ancora adottati i provvedimenti attuativi, voti a rendere operativa l’integrazione in oggetto.

La Sezione speciale del Fondo di garanzia per le PMI

Il Fondo di garanzia per le PMI costituisce uno dei principali strumenti finalizzati a facilitare l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, garantendone la liquidità attraverso un sostegno in garanzia per la contrazione di finanziamenti. Con l'intervento del Fondo, l'impresa non ha un contributo in denaro, ma ha la concreta possibilità di ottenere finanziamenti senza garanzie aggiuntive (e quindi senza costi di fidejussioni o polizze assicurative) sugli importi garantiti dal Fondo stesso.

 

La Sezione Speciale "Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità" (cd. Sezione Speciale "imprenditoria femminile") è stata istituita ai sensi del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, 26 gennaio 2012 e dell'Atto di Convenzione del 14 marzo 2013 tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Pari opportunità, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell'economia e delle finanze. L'atto di convenzione è stato successivamente integrato da un Atto aggiuntivo, sottoscritto in data 2 dicembre 2014 e approvato con decreto della Presidenza del Consiglio - Dipartimento per le Pari Opportunità, del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero dell'economia e finanze del 20 aprile 2015.

La Sezione speciale è destinata alla concessione dell'intervento in garanzia a favore delle Imprese femminili e delle donne rientranti tra i Professionisti. L'atto di convenzione ha fissato il plafond iniziale della Sezione in 10 milioni di euro.

La Sezione è finalizzata a interventi del Fondo in favore delle Imprese femminili, mediante la concessione di agevolazioni nella forma di garanzia diretta, di cogaranzia e di controgaranzia del Fondo, a copertura di operazioni finanziarie finalizzate all'attività di impresa.

Le imprese femminili beneficiarie dell’intervento in garanzia (ai sensi di quanto stabilito dall'art. 53, comma 1, lett. a) decreto legislativo n. 198/2006) sono le micro, piccole e medie imprese con le seguenti caratteristiche:

·        società cooperative e società di persone costituite in misura non inferiore al 60% da donne;

·        società di capitali le cui quote di partecipazione spettano in misura non inferiore ai due terzi a donne e i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno i due terzi da donne; imprese individuali gestite da donne.

 

In favore delle imprese Start up femminili è riservata una quota pari al 50 per cento della dotazione della Sezione speciale "Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Pari opportunità". Tale riserva può subire modifiche in aumento o in diminuzione sulla base di opportune valutazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Sono start up femminili, ai sensi della Convenzione, le PMI aventi i requisiti sopra indicati che sono state costituite o hanno iniziato la propria attività da meno di tre anni rispetto alla data di presentazione della richiesta di ammissione alla garanzia del Fondo, come risultanti dalle ultime due dichiarazioni fiscali presentate dall'impresa.

La circolare n. 11/2015 del Mediocredito Centrale, ha reso operativa l'estensione degli interventi della Sezione speciale alle donne professioniste. Le donne professioniste sono quelle iscritte agli ordini professionali o aderenti alle associazioni professionali iscritte nell'elenco tenuto dal Ministero dello sviluppo economico ai sensi della L. n. 4/2013 e in possesso dell'attestazione rilasciata ai sensi della medesima legge.

Alle imprese femminili e alle donne professioniste sono riservate condizioni speciali vantaggiose per la concessione dell'intervento in garanzia del Fondo, e, in particolare:

·        possibilità di prenotare direttamente la garanzia;

·        priorità di istruttoria e di delibera;

·        esenzione dal versamento della commissione una tantum al Fondo.

Per tutto ciò che non è esplicitamente previsto dalla specifica regolamentazione della Sezione Speciale per le Pari Opportunità, vale la normativa ordinaria del Fondo contenuta nelle Disposizioni operative in vigore (approvate con D.M. 13 febbraio 2019). Si rammenta che, nell’attuale situazione di crisi opera per le PMI colpite dagli effetti della pandemia, sino al 31 giugno 2021, una disciplina potenziata, transitoria e speciale, di intervento in garanzia del Fondo di garanzia PMI (art.13, decreto-legge n. 23/2020 e ss.mod. e int.).

I contributi della Presidenza del Consiglio dei ministri sono versati sul conto corrente infruttifero n. 22034 intestato al Medio Credito Centrale S.p.A. rubricato Fondo di Garanzia PMI, aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato.

Imprenditoria femminile in agricoltura

Il D.L. n. 73/2021 Sostegni-bis (art. 68, comma 9) ha esteso alle imprese condotte da donne, a prescindere dall'età, le misure agevolative di cui al Titolo I, Capo III del D.Lgs. n. 185/2000 già riservate alla giovane imprenditorialtà agricola (dai 18 ai 40 anni): si tratta di mutui agevolati per gli investimenti, a un tasso pari a zero, della durata massima di dieci anni comprensiva del periodo di preammortamento e di importo non superiore al 60 per cento della spesa ammissibile, nonché un contributo a fondo perduto fino al 35 per cento della spesa ammissibile. Per le iniziative nel settore della produzione agricola il mutuo agevolato ha una durata, comprensiva del periodo di preammortamento, non superiore a quindici anni.

 

Ulteriori misure agevolative per l'accesso al credito da parte delle imprese femminili in agricoltura sono state riconosciute con la Legge di bilancio 2020 (L. n. 160/2019, art. 1, co. 504-506).

La legge ha disposto l'istituzione, nello stato di previsione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, del Fondo rotativo per favorire lo sviluppo dell'imprenditoria femminile in agricoltura, dotato di pari a 15 milioni di euro per l'anno 2020, demandando ad un decreto di natura non regolamentare del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, da adottare d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, i criteri e le modalità di concessione, nei limiti fissati dalla disciplina europea sugli aiuti di Stato, di mutui a tasso zero, nel limite di 300.000 euro, per la durata massima di quindici anni comprensiva del periodo di preammortamento, nel rispetto della normativa europea sugli aiuti di Stato per il settore agricolo e per quello della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli (Reg. della Commissione UE del 25 giugno 2014, n. 702/2014, artt. 14 e 17 - ABER-Agriculture Block Exemption Regulation, Regolamento di esenzione dall'obbligo di notifica ex ante degli aiuti in materia agricola).

In attuazione di quanto sopra citato è stato emanato il D.M 9 luglio 2020.

Per la gestione del Fondo rotativo è stata autorizzata l'apertura di un'apposita contabilità speciale presso la tesoreria dello Stato intestata al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Il fondo viene dunque gestito fuori bilancio.

La Legge di bilancio 2022 (L. n. 234/2021, art, 1, co.524) ha incrementato il Fondo rotativo di ulteriori 5 milioni di euro per il 2022.

Altri interventi per l’impresa femminile innovativa e verde

Promozione del venture capital in favore di progetti di imprenditoria femminile ad elevata innovazione

La legge di bilancio 2021 (L. n. 178/2020, art. 1, co. 107-108) ha introdotto anche interventi per sostenere investimenti nel capitale di rischio per progetti di imprenditoria femminile a contenuto di innovazione tecnologica, che prevedono il rientro dell'investimento iniziale esclusivamente nel lungo periodo, realizzati entro i confini del territorio nazionale da società il cui capitale è detenuto in maggioranza da donne.

A tal fine, viene finanziato per 3 milioni di euro per l'anno 2021 il Fondo a sostegno del Venture capital, istituito dall'articolo 1, comma 209, della legge n. 145/2018 (Legge di bilancio 2019).

Il D.M. 27 dicembre 2021 del Ministero dell'economia e delle finanze ha dettato la disciplina attuativa dell’intervento.

 

LE IMPRESE FEMMINILI E GLI EFFETTI DELLA PANDEMIA DA COVID 19

 

Il monitoraggio sulle imprese femminili è sostenuto dalla Commissione Europea, nel Piano di Azione Imprenditorialità 2020, in cui si invitano gli Stati membri «a raccogliere dati disaggregati per genere e produrre aggiornamenti annuali sulla situazione delle imprenditrici a livello nazionale». Anche l’OCSE individua, nel potenziamento dell’informazione statistica, una delle principali raccomandazioni agli Stati per lo sviluppo della parità di genere nel sistema economico.

Secondo il IV Rapporto Impresa Femminile di Unioncamere del 27 luglio 2020 - a fine 2019 - le imprese femminili iscritte al Registro delle Camere di commercio sono state 1 milione e 340mila, il 22% del totale, in costante aumento rispetto al 2014 (oltre 38mila in più).

Da un punto di vista strutturale, afferma il Rapporto, l’imprenditoria rosa si è strutturalmente caratterizzata per una maggiore concentrazione nel settore dei servizi (66,2%) contro solo poco più della metà nel caso delle imprese maschili (55,4%). Rispetto al 2014, le imprese femminili nel settore terziario sono aumentate nel 2019 di oltre 34 mila unità con un aumento percentuale del 4 ben maggiore sia del 2,9 di quelle maschili che del dato complessivo +3,1%.

Il settore imprenditoriale femminile risulta di contro un segmento produttivo meno “industrializzato” (11,3 imprese rosa su 100 hanno operato nell’industria nel 2019 a fronte di quasi 27 su 100 per quelle maschili). In questo caso però, nell’analisi 2014-2019, si osserva che le imprese femminili fanno registrare un aumento di oltre 800 imprese a fronte di una forte diminuzione di quelle maschili (-64.723).

L’imprenditoria femminile si è dimostrata un po’ meno “artigiana” di quella maschile (solo circa 16 imprese femminili su 100 artigiane, poco meno di 218 mila in valori assoluti, a fronte di quelle maschili, circa 23 su 100 nel 2019). Anche in questo caso però, la dinamica è stata positiva al contrario di quella maschile.

Relativamente alla dimensione media delle imprese al femminile, il Rapporto evidenzia una spiccata dimensione “micro”. Circa 97 imprese su 100 guidate da donne non hanno avuto, nel 2019, oltre i 9 addetti (94,5 su 100 nel caso delle imprese maschili), di cui ben 62,3 su 100 non più di un addetto (poco più di 835 mila) a fronte di un 48,7 per le imprese maschili.

Nel corso dell’anno anno 2020, con il sopravvenire della crisi sanitaria ed economica innescata dalla pandemia da COVID 19, le imprese femminili, afferma Unioncamere, sono quelle che hanno “pagato il conto più salato della crisi” (cfr. comunicato stampa del 20 novembre 2020). Dopo anni in cui in ogni trimestre segnavano crescite superiori alle imprese maschili, tra aprile e settembre 2020 questa maggiore velocità si è praticamente annullata. Se il calo della domanda è l'elemento critico più segnalato, le donne d'impresa hanno mostrato di avere maggiori problemi di liquidità (dati: indagine Unioncamere nel mese di ottobre su un campione di 2.000 imprese manifatturiere e dei servizi). A fine 2020, le imprese femminili sono risultate un milione e 336mila, quasi 4 mila attività in meno rispetto al 2019 (-0,29%). Una perdita contenuta, quindi, tutta concentrata al Centro Nord (il Mezzogiorno segna infatti un +0,26%), che interrompe però una crescita costante dal 2014 (cfr. Unioncamere, comunicato stampa del 9 febbraio 2021). Scende, seppur di poco, anche il loro peso sul totale del sistema produttivo nazionale: ora è pari al 21,98%, a fronte del 22% del 2019. I dati di fine 2020 mostrano che la gestione dell'emergenza sanitaria ha prodotto una battuta d'arresto soprattutto sulle imprenditrici giovani.

I recenti dati congiunturali indicano le iscrizioni di nuove attività femminili nei primi nove mesi del 2021 più numerose di quelle registrate nello stesso periodo del 2020 (+7mila) ma sono ancora circa 9.200 in meno dello stesso periodo del 2019. Malgrado l'incremento delle iscrizioni tra 2020 e 2021, il peso delle nuove imprese femminili sul totale delle iscrizioni si è ridotto di quasi due punti percentuali, passando dal 27,1% di due anni fa, al 25,4% di settembre scorso. Quasi il 24% di queste nuove imprese guidate da donne, però, nasce come società di capitali, tipologia di azienda più strutturata e "robusta" sotto il profilo organizzativo e gestionale (Unioncamere, comunicato stampa del 15 novembre 2021).

 

 


La promozione delle donne nella vita politica e istituzionale

Nell'ambito degli interventi di promozione dei diritti e delle libertà fondamentali, particolare attenzione è stata posta negli ultimi anni agli interventi volti a dare attuazione all'art. 51 della Costituzione, sulla parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive, incidendo sui sistemi elettorali presenti nei diversi livelli istituzionali (nazionale, regionale, locale e al Parlamento europeo).

Nelle ultime legislature, infatti, sono state introdotte misure normative volte a promuovere l'equilibrio di genere all'interno delle assemblee elettive, non solo europee, ma anche locali, regionali e nazionali (la L. n. 215/2012 per le elezioni comunali; la L. n. 56/2014 per le elezioni - di secondo grado - dei consigli metropolitani e provinciali; la L. n. 20/2016 per le elezioni dei consigli regionali; la L. n. 165/2017 per le elezioni del Parlamento). Misure promozionali delle pari opportunità sono state inserite anche nei più recenti provvedimenti riguardanti la disciplina dei partiti politici.

Dalla modifica costituzionale dell'articolo 51 discendono anche le norme della legge finanziaria 2008, che, disponendo in tema di organizzazione del Governo nazionale, stabiliscono che la sua composizione deve essere coerente con il principio costituzionale delle pari opportunità nell'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 1, commi 376-377, L. 244/2007).

 

Ai sensi dell'articolo 51, primo comma, della Costituzione, tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A seguito di una modifica del 2003 (L. Cost. n. 1/2003) è stato aggiunto un periodo secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. L'articolo 117, settimo comma, Cost. (introdotto dalla L. Cost. n. 3/2001) prevede inoltre che "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive." Analogo principio è stato introdotto negli statuti delle regioni ad autonomia differenziata dalla legge costituzionale n. 2 del 2001. Nell'ordinamento italiano si rinvengono diverse norme, sia nazionali che regionali, finalizzate alla promozione della partecipazione delle donne alla politica e dell'accesso alle cariche elettive, emanate in attuazione dei già richiamati articoli 51, primo comma, e 117, settimo comma, Cost.

La rappresentanza di genere nella legislazione elettorale

A livello europeo

Nelle elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia del maggio 2019 hanno trovato applicazione per la prima volta le previsioni a regime introdotte dalla legge 22 aprile 2014, n. 65 per rafforzare la rappresentanza di genere. In particolare, è prevista:

 

Nel caso in cui risulti violata la disposizione sulla presenza paritaria di candidati nelle liste, l'ufficio elettorale procede dunque alla cancellazione dei candidati del sesso sovrarappresentato, partendo dall'ultimo, fino ad assicurare l'equilibrio richiesto. Se, all'esito della cancellazione, nella lista rimane un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge, la lista è ricusata e non può conseguentemente partecipare alle elezioni.

Nel caso in cui risulti violata la disposizione sull'alternanza di genere tra i primi due candidati, l'ufficio elettorale modifica la lista, collocando dopo il primo candidato quello successivo di genere diverso.

A livello nazionale

Il sistema elettorale del Parlamento, definito dalla L. n. 165 del 2017, che prevede sia collegi uninominali da assegnare con formula maggioritaria, sia collegi plurinominali da assegnare con metodo proporzionale (sistema ‘misto'), detta alcune specifiche disposizioni in favore della rappresentanza di genere per le elezioni della Camera e del Senato.

In primo luogo, a pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, sia della Camera sia del Senato, i candidati devono essere collocati secondo un ordine alternato di genere (quindi 1-1). Al contempo, è previsto che nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione di liste nei collegi uninominali nessuno dei due generi - alla Camera a livello nazionale e al Senato a livello regionale - possa essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all'unità più prossima. Inoltre, nel complesso delle liste nei collegi plurinominali nessuno dei due generi può essere rappresentato nella posizione di capolista in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all'unità più prossima. Anche tale prescrizione si applica alla Camera a livello nazionale e al Senato a livello regionale. Il calcolo delle suddette quote è effettuato, secondo quanto specificato nelle Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature a cura del Ministero dell'interno, riferendosi al numero delle candidature e non a quello delle persone fisiche.

Alla Camera l'Ufficio centrale nazionale assicura il rispetto di tali prescrizioni in sede di verifica dei requisiti delle liste (art. 22 TU Camera) comunicando eventuali irregolarità agli Uffici circoscrizionali al fine di apportare eventuali modifiche nella composizione delle liste, assumendo a tal fine rilevanza, anche l'elenco dei candidati supplenti. Al Senato, essendo tali prescrizioni stabilite a livello regionale, spetta all'Ufficio elettorale regionale assicurare il rispetto delle medesime.

Per quanto riguarda la legislazione di contorno, il decreto-legge sull'abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti (D.L. n. 149/2013, conv. dalla L. n. 13/2014) prescrive, ai fini dell'iscrizione nel registro dei partiti, una serie di requisiti per lo statuto dei partiti, tra i quali rientra l'indicazione delle modalità per promuovere, attraverso azioni positive, l'obiettivo della parità tra i sessi negli organismi collegiali e per le cariche elettive. L'articolo 9 del medesimo decreto disciplina inoltre espressamente la parità di accesso alle cariche elettive, sancendo il principio in base al quale i partiti politici promuovono tale parità.

 

Per un focus sulla prima applicazione della legge elettorale 2017 in termini di genere, si rinvia al dossier della collana “Documentazione e ricerche” su La partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale.

 

A livello regionale

La legge 15 febbraio 2016, n. 20 introduce, tra i principi fondamentali in base ai quali le Regioni a statuto ordinario sono tenute a disciplinare con legge il sistema elettorale regionale, l'adozione di specifiche misure per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell'accesso alle cariche elettive. In tal modo, tale iniziativa legislativa si pone in linea di continuità con i provvedimenti approvati dal Parlamento nelle ultime due legislature per promuovere l'equilibrio di genere all'interno delle assemblee elettive locali, europee e nazionali.

A tal fine, è stata modificata la legge n. 165/2004, che - in attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione - stabilisce i principi fondamentali cui le regioni devono attenersi nella disciplina del proprio sistema elettorale.

A seguito delle modifiche introdotte, la legge nazionale non si limita a prevedere tra i principi, come stabilito nel testo originario, la "promozione della parità tra uomini e donne nell'accesso alle cariche elettive attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare l'accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive", ma indica anche le specifiche misure adottabili, declinandole sulla base dei diversi sistemi elettorali per la scelta della rappresentanza dei consigli regionali.

Al riguardo, la legge prevede tre ipotesi:

  1. Liste con preferenze: qualora la legge elettorale regionale preveda l'espressione di preferenze, sono previsti due meccanismi per promuovere la rappresentanza di genere: a) quota di lista del 40 per cento (in ciascuna lista i candidati di uno stesso sesso non devono eccedere il 60 per cento del totale); b) preferenza di genere (deve essere assicurata l'espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso. In caso contrario, le preferenze successive alla prima sono annullate).
  2. Liste ‘bloccate': nel caso in cui la legge elettorale regionale preveda le liste senza espressione di preferenze, deve essere prevista l'alternanza tra candidati di sesso diverso, in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale.
  3. Collegi uninominali: nel caso in cui il sistema elettorale regionale preveda collegi uninominali, nell'ambito delle candidature presentate con il medesimo simbolo i candidati di un sesso non devono eccedere il 60 per cento del totale.

L'entrata in vigore della legge del 2016 ha indotto le regioni, la cui legislazione elettorale non soddisfaceva gli elementi richiesti, ad introdurre le modifiche necessarie per adeguarsi alla normativa di principio.

In relazione al mancato adeguamento della legislazione elettorale è di recente intervenuto il decreto-legge n. 86 del 2020 al fine di stabilire che il mancato recepimento nella legislazione regionale in materia di sistemi di elezione del Presidente, degli altri componenti della Giunta regionale e dei Consigli regionali dei principi fondamentali posti dall'articolo 4 della legge n. 165 del 2004 integra la fattispecie di mancato rispetto di norme di cui all'articolo 120 della Costituzione (l'articolo che disciplina l'esercizio dei poteri sostitutivi) e, contestualmente, costituisce presupposto per l'assunzione delle misure sostitutive ivi contemplate.

 

Contestualmente il medesimo decreto (art. 1, co. 2-3) ha attivato il potere sostitutivo dello Stato nei confronti della regione Puglia a causa del mancato adeguamento della legislazione elettorale ai principi della L. n. 165/2014, per le elezioni del Consiglio regionale del 2020 previste per il 20 e 21 settembre.

 

Per un quadro di sintesi delle disposizioni vigenti per ciascuna regione, si rinvia al dossier della collana “Documentazione e ricerche” su La partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale.

 

A livello locale

La legge 7 aprile 2014, n. 56, che ha provveduto a disciplinare l'istituzione delle Città metropolitane ed il riordino delle province, ha eliminato l'elezione diretta dei consigli provinciali.

I consigli metropolitani (organi delle nuove città metropolitane) ed i consigli provinciali sono divenuti organi elettivi di secondo grado; l'elettorato attivo e passivo spetta ai sindaci ed ai consiglieri dei comuni compresi nei rispetti territori.

L'elezione di questi due organi avviene con modalità parzialmente differenti, che comunque prevedono l'espressione di un voto di preferenza e la ponderazione del voto (in base ad un indice rapportato alla popolazione complessiva della fascia demografica di appartenenza del comune).

Al fine di promuovere la rappresentanza di genere, la legge stabilisce che nelle liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all'unità superiore per i candidati del sesso meno rappresentato, a pena di inammissibilità. Tale disposizione ha trovato applicazione a decorrere dal 2018 (art. 1, commi 27-28 e commi 71-72).

Non è prevista la possibilità della doppia preferenza di genere, in quanto ritenuta incompatibile con il sistema del voto ponderato.

Non è inoltre più prevista la giunta, ma un altro organo assembleare (consiglio metropolitano nelle città metropolitane e assemblea dei sindaci nelle province), composto da tutti i sindaci del territorio.

Italia: le donne nelle istituzioni

I dati relativi alla presenza femminile negli organi costituzionali italiani hanno sempre mostrato una presenza contenuta nei numeri e molto limitata quanto alle posizioni di vertice.

In tale contesto, i risultati delle elezioni politiche del 2013 hanno presentato un segnale di inversione di tendenza: infatti, la media complessiva della presenza femminile nel Parlamento italiano, storicamente molto al di sotto della soglia del 30%, considerato valore minimo affinché la rappresentanza di genere sia efficace, è salita dal 19,5 della XVI legislatura al 30,1 per cento dei parlamentari eletti nella XVII legislatura. Tale tendenza si è rafforzata con le elezioni del 2018, in cui per la prima volta sono state sperimentate le misure previste dalla legge elettorale n. 165 del 2017 per promuovere la parità di genere nella rappresentanza politica (si v. supra). Nel 2018, infatti, risultano elette in Parlamento 334 donne, pari a circa il 35 per cento (di cui 225 alla Camera e 109 al Senato). Questo risultato ci pone oltre la media dei Paesi Ue, che risulta pari al 32,8 per cento.

Di seguito, due grafici mostrano l'andamento storico della presenza delle donne in entrambi i rami del Parlamento.

 

Le prime donne elette alla Consulta Nazionale sono state 14; della Consulta faceva parte un numero variabile di membri (circa 400) alcuni di diritto, altri di nomina governativa, su designazione partitica e di altre organizzazioni. Le donne elette all'Assemblea Costituente, composta da 556 membri, sono state 21 (3,8 per cento).

Nella XII legislatura (la prima con il sistema elettorale maggioritario e con il sistema delle quote dichiarato poi illegittimo dalla Corte costituzionale) le donne elette alla Camera dei deputati sono state 95, di cui 43 elette con la quota maggioritaria e 52 con quella proporzionale, mentre nella XIII legislatura (senza l'applicazione del sistema delle quote) le donne elette alla Camera dei deputati sono scesa a 70 (rispettivamente 42 e 28). Al Senato sono state elette nella XIII legislatura 26 donne. Nella XIV legislatura le donne elette alla Camera sono state 73. Al Senato le donne elette sono state 25. Le donne elette alla Camera nella XV legislatura sono state 108 (17,1 per cento) e le donne senatrici 44 (13,6 per cento). Nella XVI legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 133 donne, al Senato 58. Nella XVII legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 198 donne (31,4 per cento), al Senato 92 donne (28,8 per cento). Nella XVIII legislatura la percentuale di donne elette alla Camera risulta pari al 35,7% (225 su 630), in crescita rispetto alla precedente legislatura (+4,3%), la quale, a sua volta, aveva fatto registrare un incremento di circa il 10 per cento rispetto alla XVI legislatura; sono 109 le donne elette al Senato della Repubblica (34,9 per cento).

Tra i senatori a vita, quattro volte, nel 1982, nel 2001, nel 2013 e più di recente nel 2018, è stata nominata una donna: Camilla Ravera, Rita Levi Montalcini, Elena Cattaneo e Liliana Segre.

 

 

Quanto alle posizioni di vertice, nessuna donna in Italia ha mai rivestito la carica di Capo dello Stato o di Presidente del Consiglio. Attualmente, nell'Unione europea, la carica di Primo ministro o Presidente del Consiglio è ricoperta da donne in 4 Stati (Danimarca, Finlandia, Lituania ed Estonia). Nel 2019 alla Presidenza della Commissione europea è stata eletta per la prima volta una donna.

La carica di Presidente della Camera è stata declinata al femminile nelle legislature VIII, IX e X, con l'elezione di Nilde Iotti, nella XII legislatura con l'elezione di Irene Pivetti e nella XVII con l'elezione di Laura Boldrini. Anche al Senato, per la prima volta nell'attuale legislatura, con l'elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati si è insediata una donna alla Presidenza del Senato. Nell’attuale legislatura sono state elette, in entrambi i rami del Parlamento, due Vicepresidenti donne su quattro.

Il grafico che segue individua le donne che, a partire dalla VII legislatura, sono state elette Presidenti di Commissioni permanenti (tratto dal dossier "Parità vo cercando 1948-2018. Le donne italiane in settanta anni di elezioni", a cura dell'Ufficio valutazione impatto del Senato).

 

 

 

Nella XVIII legislatura alla Camera, sono attualmente presiedute da una donna 6 Commissioni permanenti (Commissione Cultura, scienza e istruzione, Commissione Ambiente; Commissione trasporti, Commissione attività produttive, Commissione lavoro e Commissione affari sociali); al Senato la presidenza è assegnata ad una donna in 4 Commissioni (Commissione difesa; Commissione lavoro; Commissione sanità e Commissione ambiente).

 

Dalla I alla XVII legislatura l'Italia ha avuto 64 governi e 28 Presidenti del Consiglio dei ministri. Sulla base dei dati elaborati dall'Ufficio valutazione impatto del Senato, l'analisi degli incarichi di ministra, viceministra (la carica di viceministro è stata introdotta dalla legge n. 81 del 2001) o sottosegretaria conferiti in ciascun governo evidenzia che tredici governi sono stati composti esclusivamente da uomini. Solo dal 1983, col governo Fanfani V, la presenza di donne è diventata costante. Su oltre 1.500 incarichi di ministro assegnati nei 64 governi della Repubblica, le donne ne hanno ottenuti 78 (più 2 interim). Di questi, 38 incarichi sono stati di ministro senza portafoglio. Alle donne sono stati affidati incarichi prevalentemente nei settori sociali, della sanità e dell'istruzione: ben 48 dicasteri su 80 (inclusi i 2 interim). Di seguito si riporta un grafico con l'andamento storico delle nomine dalla I alla XVII legislatura, tratto dal dossier "Parità vo cercando 1948-2018. Le donne italiane in settanta anni di elezioni" (Documento di analisi n. 13).

 

 

Nella attuale legislatura, si sono succeduti tre governi. Nel Governo Conte I (dal 1° giugno 2018 al 4 settembre 2019) sono state nominate 6 donne a guida di un ministero, di cui quattro senza portafoglio (Pubblica Amministrazione, Affari regionali e autonomie, Sud, Disabilità e famiglia, Difesa e Salute), su un totale di 19 ministri (31,6%). Le nomine dei sottosegretari hanno riguardato 5 donne su 47 (pari al 10,6%). Nella compagine del Governo Conte II, le ministre sono state 8 (Interno; Politiche agricole; Infrastrutture e trasporti; Lavoro e politiche sociali; Istruzione; Innovazione tecnologica e digitalizzazione; Pubblica amministrazione; Pari opportunità e famiglia) su un totale di 23 ministri (34,7%) e le sottosegretarie 14 su 42 (33%).

Nell'attuale Governo Draghi si registra la partecipazione di 8 donne (34,7%) nella compagine dei 23 ministri (Interno; Giustizia; Università e ricerca; Affari regionali e autonomie; Sud e coesione territoriale; Politiche giovanili; Pari opportunità e famiglia; Disabilità). Le cariche di viceministro e sottosegretario ricoperte da donne sono 18 (43,9%) su un totale di 41.

 

In ambito UE-27, la media della donne al Governo è del 32,3%, con risultati molto diversi tra gli Stati. La presenza di donne nella compagine governativa va oltre la parità in Spagna (60,9%), Finlandia (57,9%), Belgio (53,3%), Francia (51,2%) e Svezia (50%). Seguono l’Austria Lituania ed l’Estonia (46,7%) e la Germania (40%). Nella composizione della Commissione europea la presenza femminile è pari al 48,1%: 12 donne e 14 uomini come commissari e, a partire dal 2019, per la prima volta la Commissione europea è presieduta da una donna (Ursula von der Leyen).

 

Per quanto riguarda la composizione della Corte costituzionale, nel 2019 è stata eletta per la prima volta come sua Presidente una donna, nella persona della giudice Marta Cartabia. Nella attuale composizione, dei quindici giudici costituzionali quattro sono donne: Silvana Sciarra e Daria De Petris, nominate nel 2014; Emanuela Navarretta e Maria Rosaria San Giorgio, nominate nel 2020. Nella storia della Consulta ci sono state altre tre giudici donne: Fernanda Contri, giudice della Corte dal 1996 al 2005, Maria Rita Saulle, giudice dal 2005 al 2011 e Marta Cartabia, giudice dal 2011 al 2020.

 

Per quanto riguarda la presenza femminile nel Parlamento europeo (PE) nelle prime cinque legislature le donne italiane elette risultavano sempre in percentuali inferiori al 15%. Come si rileva dal grafico che segue, con l'introduzione delle quote di lista nel sistema elettorale nelle elezioni del 2004, il numero delle donne italiane elette al Parlamento europeo è aumentato della metà, passando da 10 donne nella V legislatura (1999-2004) a 15 nella VI (2004-2009). In termini percentuali, la componente femminile è passata, nella VI legislatura, dall'11,5 per cento al 19,2 per cento ed è salita ulteriormente nella VII legislatura (2009-2014), dove le donne elette al Parlamento europeo sono risultate 16 su 72 seggi spettanti all'Italia (pari al 22,2%).

A partire dalle elezioni del 2014 è stata introdotta ed applicata dapprima la doppia preferenza di genere e dal 2019 la c.d. 'tripla preferenza di genere', in base alla quale, nel caso in cui l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della seconda e della terza preferenza. All'esito delle consultazioni elettorali, nel 2014 il numero delle donne italiane elette al PE risulta quasi raddoppiato, passando a 29 su 73 seggi spettanti all'Italia, pari al 39,7%. Il dato è ulteriormente migliorato con i risultati delle elezioni del 2019, in cui le donne italiane elette sono 30, pari al 41,1% dei seggi spettanti all'Italia (sopra la media delle donne al Parlamento europeo, pari al 40,6%).

 

 

Anche il numero delle donne che ricoprono alte cariche nel Parlamento europeo è in crescita, seppur non in modo stabile. Nella legislatura corrente, è stata eletta per la terza volta una donna alla carica di Presidente del Parlamento (Roberta Metsola nel 2022). Inoltre 7 dei 14 vice-presidenti e 6 dei 20 presidenti di commissione sono donne.

 

Per quanto riguarda gli organi delle regioni, la presenza femminile nelle assemblee regionali italiane si attesta in media intorno al 22,3% e risulta dunque molto distante dalla media registrata a livello UE, pari al 34,2%. Solo in una regione (Umbria) la carica di Presidente della regione è ricoperta da una donna.

 

 

La tabella riporta la consistenza numerica e percentuale delle donne elette nei consigli delle regioni e delle province autonome: nel numero dei consiglieri sono stati computati anche i membri di diritto (come, ad esempio, il Presidente della regione).

 

Più alto il dato negli esecutivi regionali, dove le donne sono pari al 25,1%: in termini assoluti le donne sono 51 su 203 membri di giunta, compreso il Presidente (fonte: elaborazione di dati tratti da siti web delle regioni e delle province autonome).

 

Nell'ambito delle assemblee degli enti locali, il dato della presenza femminile in Italia è pari al 34% nelle assemblee dei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, a circa il 32% nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti (fonte: rielaborazione di dati tratti da Anagrafe degli amministratori locali - Ministro dell'interno, dati aggiornati al 9 febbraio 2022). Il dato medio di presenza femminile nelle stesse assemblee rilevato in ambito UE risulta pari al 34,4%.

Più visibile la presenza delle donne nelle giunte degli enti locali, in quanto la percentuale di donne che riveste la carica di assessore è pari al 43% nei comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, al 44% nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Le sindache in carica sono, in tutti i comuni di Italia, 1.154 su 7.707, pari al 15% (la media UE è del 17,4%).

 

Per quanto concerne le città metropolitane delle regioni a statuto ordinario, a seguito delle elezioni svolte con il sistema di secondo livello per i Consigli metropolitani previsto dalla riforma introdotta con la legge n. 56 del 2014 (c.d. legge Delrio), risultano eletti 194 consiglieri metropolitani in 10 città metropolitane, di cui, attualmente 41 donne, pari al 21,1% del totale.

In relazione alle province, tra i 76 presidenti di provincia nelle regioni a statuto ordinario, ci sono solo 7 donne, pari al 9,2% del totale.

 

 

 

Nella tabella che segue si riepilogano i dati della presenza delle donne nelle Assemblee elettive di primo grado (Parlamento europeo, Parlamento italiano, Consigli regionali e Consigli comunali), espressi in percentuale.

 

 

 

Nelle autorità amministrative indipendenti, infine, su un totale di 38 componenti di diritto, 10 sono donne (pari al 26,3%). Nessuna delle nove Autorità considerate è attualmente presieduta da una donna. In nessuna authority si registra una maggioranza di donne.

 

Le autorità considerate sono quelle di cui all'art. 22 del D.L. 90/2014 (conv. L. 114/2014), che ha dettato alcune misure per la razionalizzazione delle autorità indipendenti: l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, la Commissione nazionale per le società e la borsa, l'Autorità di regolazione dei trasporti, l'Autorità di regolazione per Energia Reti e Ambiente, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Garante per la protezione dei dati personali, l'Autorità nazionale anticorruzione, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione e la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.

 

Si ricorda, infine, che è ricoperto da una donna il ruolo di Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza.

 

Tutti i dati relativi ai Paesi europei e alle medie UE, sono tratti dal Database dell'EIGE relativo alla sezione: Women and men in decision making.

 


Le pari opportunità nelle pubbliche amministrazioni

Quadro normativo

Il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, presta grande attenzione al tema delle pari opportunità.

Le finalità della disciplina dell'organizzazione degli uffici e dei rapporti di impiego sono infatti l’accrescimento dell'efficienza delle amministrazioni, la razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e la realizzazione della migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti e garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori, nonché l'assenza di qualunque forma di discriminazione e di violenza morale o psichica (art. 1, comma 1).

In particolare, i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali tengono conto delle condizioni di pari opportunità (art. 19, commi 4-bis e 5-ter).

Le amministrazioni pubbliche curano la formazione e l'aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifiche dirigenziali, garantendo altresì l'adeguamento dei programmi formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere della pubblica amministrazione (art. 7, comma 4).

Le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità tra uomini e donne:

§  conformano le procedure di reclutamento del personale al rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori (art. 35, co. 3);

§  riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso (art. 57, co. 1, lett. a));

§  adottano propri atti regolamentari per assicurare pari opportunità fra uomini e donne sul lavoro, conformemente alle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica (art. 57, co. 1, lett. b));

§  garantiscono la partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni, adottando modalità organizzative atte a favorirne la partecipazione, consentendo la conciliazione fra vita professionale e vita familiare (art. 57, co. 1, lett. c));

§  possono finanziare programmi di azioni positive e l’attività dei Comitati unici di garanzia (CUG) per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio (art. 57, co. 1, lett. d)).

 

In recepimento di direttive comunitarie, il legislatore ha previsto (art. 21, L. 183/2010) che le pubbliche amministrazioni costituiscano al proprio interno il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG), che ha assunto tutte le funzioni che la legge e i contratti collettivi previgenti attribuivano ai Comitati per le pari opportunità e ai Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing.

Nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza, il CUG esercita prevalentemente compiti propositivi, consultivi e di verifica sui risultati delle attività intraprese e opera in collaborazione con la consigliera o il consigliere nazionale di parità. (art. 57, co. 01-05).

La direttiva del 4 marzo 2011 del Ministro per la Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione e del Ministro per le pari opportunità, contiene una serie di indicazioni riguardanti composizione, funzioni e metodologie di lavoro dei Comitati. Ulteriori indicazioni sono state fornite dalla direttiva n. 2 del 26 giugno 2019 al fine di rafforzare il ruolo dei CUG all’interno delle amministrazioni.

 

Il codice per le pari opportunità prevede inoltre l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di adottare piani di azioni positive (art. 48).

In particolare, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le province, i comuni e gli altri enti pubblici non economici, sentite le organizzazioni sindacali e gli organismi preposti alla tutela delle pari opportunità, predispongono piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne. Detti piani, fra l'altro, al fine di promuovere l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono sottorappresentate, favoriscono il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore a due terzi.

A tale scopo, in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un'esplicita ed adeguata motivazione. I piani hanno durata triennale. In base al Codice, in caso di mancato adempimento, le pubbliche amministrazioni non possono procedere all’assunzione di personale.

 

La promozione delle pari opportunità è inoltre uno degli obiettivi del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, in materia di produttività del lavoro pubblico. Il Sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa concerne infatti, tra l’altro, il raggiungimento degli obiettivi di promozione delle pari opportunità (art. 8). Nella valutazione della performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale (art. 9, co. 3).

Gli organismi indipendenti di valutazione della performance, di cui ogni amministrazione deve dotarsi, provvedono inoltre alla verifica dei risultati e delle buone pratiche di promozione delle pari opportunità (art. 14).

 

La Presidenza del Consiglio – Dipartimenti della funzione pubblica e delle pari opportunità – ha adottato il 23 maggio 2007 una prima direttiva recante misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche, che ha fornito indicazioni per una piena attuazione del principio di pari opportunità.

In ragione degli indirizzi comunitari nel frattempo intervenuti e delle disposizioni nazionali entrate in vigore successivamente al 2007, le indicazioni operative per le pubbliche amministrazioni sono state riviste e aggiornate con la direttiva n. 2 del 26 giugno 2019, che ha sostituito integralmente la precedente.

 

Con riferimento all’ambito di applicazione, la direttiva si pone l’obiettivo di:

§  promuovere e diffondere la piena attuazione delle disposizioni vigenti;

§  aumentare la presenza delle donne in posizioni apicali;

§  sviluppare una cultura organizzativa di qualità tesa a promuovere il rispetto della dignità delle persone all’interno delle PA.

La direttiva indica le seguenti aree di intervento:

I. Prevenzione e rimozione delle discriminazioni;

II. Piani triennali di azioni positive;

III. Politiche di reclutamento e gestione del personale;

IV. Organizzazione del lavoro;

V. Formazione e diffusione del modello culturale improntato alla promozione delle pari opportunità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;

VI. Rafforzamento dei Comitati unici di garanzia.

 

Le politiche di reclutamento e gestione del personale devono rimuovere i fattori che ostacolano le pari opportunità e promuovere la presenza equilibrata delle lavoratrici e dei lavoratori nelle posizioni apicali. Occorre, in particolare, evitare penalizzazioni nell'assegnazione degli incarichi, siano essi riferiti alle posizioni organizzative, alla preposizione agli uffici di livello dirigenziale o ad attività rientranti nei compiti e doveri d'ufficio, e nella corresponsione dei relativi emolumenti. A questo scopo le amministrazioni pubbliche, fra l’altro, devono:

§  rispettare la normativa vigente in materia di composizione delle commissioni di concorso, con l’osservanza delle disposizioni in materia di equilibrio di genere;

§  osservare il principio di pari opportunità nelle procedure di reclutamento (art. 35, comma 3, lett. c), del D.Lgs. n. 165 del 2001) per il personale a tempo determinato e indeterminato;

§  curare che i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali tengano conto del principio di pari opportunità;

§  monitorare gli incarichi conferiti sia al personale dirigenziale che a quello non dirigenziale, le indennità e le posizioni organizzative al fine di individuare eventuali differenziali retributivi tra donne e uomini e promuovere le conseguenti azioni correttive;

§  adottare iniziative per favorire il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussista un divario fra generi non inferiore a due terzi.

Per quanto riguarda l'organizzazione del lavoro, la direttiva rileva la necessità che essa sia progettata e strutturata con modalità che favoriscano, per i lavoratori e per le lavoratrici, la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita. A questo scopo le amministrazioni pubbliche devono:

§  attuare tutte le disposizioni normative e contrattuali in materia di lavoro flessibile e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, attribuendo criteri di priorità per la fruizione delle relative misure;

§  garantire la piena attuazione della normativa vigente in materia di congedi parentali;

§  favorire il reinserimento del personale assente dal lavoro per lunghi periodi (maternità, congedi parentali ecc.) mediante il miglioramento dell’informazione fra amministrazione e lavoratori in congedo e la predisposizione di percorsi formativi che, attraverso orari e modalità flessibili, garantiscano la massima partecipazione di donne e uomini con carichi di cura;

§  promuovere progetti finalizzati alla mappatura delle competenze professionali.

Con riferimento alla formazione e cultura organizzativa delle amministrazioni, la direttiva sottolinea che deve essere orientata alla valorizzazione del contributo di donne e uomini e superare gli stereotipi. A questo scopo le amministrazioni pubbliche devono:

§  garantire la partecipazione dei propri dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto proporzionale tale da garantire pari opportunità;

§  curare che la formazione e l'aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifica dirigenziale anche apicale, contribuiscano allo sviluppo della "cultura di genere" innanzi tutto attraverso la diffusione della conoscenza della normativa a tutela delle pari opportunità, sui congedi parentali e sul contrasto alla violenza, inserendo moduli a ciò strumentali in tutti i programmi formativi;

§  avviare azioni di sensibilizzazione e formazione della dirigenza sulle tematiche delle pari opportunità;

§  produrre tutte le statistiche sul personale ripartite per genere. La ripartizione per genere non deve interessare solo alcune voci, ma tutte le variabili considerate (comprese quelle relative ai trattamenti economici e al tempo di permanenza nelle varie posizioni professionali) devono essere declinate su tre componenti: uomini, donne e totale;

§  utilizzare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminatorio;

§  promuovere analisi di bilancio che mettano in evidenza quanta parte e quali voci del bilancio di una amministrazione siano (in modo diretto o indiretto) indirizzate alle donne, quanta parte agli uomini e quanta parte a entrambi. Si auspica pertanto che i bilanci di genere diventino pratica consolidata nelle attività di rendicontazione sociale delle amministrazioni.

Inoltre, le amministrazioni devono promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, eventualmente adottando anche apposite “Carte della conciliazione”, attraverso:

§  la valorizzazione delle politiche territoriali;

§  l’istituzione e l’organizzazione, anche attraverso accordi con altre amministrazioni pubbliche, di servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica;

§  la sperimentazione di sistemi di certificazione di genere; tali sistemi rappresentano uno strumento manageriale adottato su base volontaria dalle organizzazioni che intendono certificare il costante impegno profuso nell’ambito della valorizzazione delle risorse umane in un’ottica di genere e per il bilanciamento della vita lavorativa con la vita personale e familiare.

 

In relazione al monitoraggio e all’attuazione della direttiva, si prevede che entro il 1° marzo di ogni anno, l’amministrazione dovrà trasmettere al CUG, secondo il format messo a disposizione dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, le seguenti informazioni:

§  l’analisi quantitativa del personale suddiviso per genere e per appartenenza alle aree funzionali e alla dirigenza, distinta per fascia dirigenziale di appartenenza e per tipologia di incarico conferito ai sensi dell’articolo 19 del d.lgs. n. 165 del 2001;

§  l’indicazione aggregata distinta per genere delle retribuzioni medie, evidenziando le eventuali differenze tra i generi;

§  la descrizione delle azioni realizzate nell’anno precedente con l’evidenziazione, per ciascuna di esse, dei capitoli di spesa e dell’ammontare delle risorse impiegate;

§  l’indicazione dei risultati raggiunti con le azioni positive intraprese al fine di prevenire e rimuovere ogni forma di discriminazione, con l’indicazione dell’incidenza in termini di genere sul personale;

§  la descrizione delle azioni da realizzare negli anni successivi con l’evidenziazione, per ciascuna di esse, dei capitoli di spesa e dell’ammontare delle risorse da impegnare;

§  il bilancio di genere dell’amministrazione.

Tali informazioni confluiranno integralmente in allegato alla relazione che il CUG predispone entro il 30 marzo e saranno oggetto di analisi e verifica da parte del Comitato.

Entro il 30 marzo di ciascun anno la relazione dei CUG è indirizzata al Dipartimento della funzione pubblica e al Dipartimento per le pari opportunità, che elaborano un rapporto periodico di sintesi che deve essere pubblicato e distribuito a tutte le amministrazioni interessate.

Il Fondo per le pari opportunità

Con l’intento di promuovere le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, l’articolo 19, comma 3, del D.L. n. 223/2006 ha istituito, presso la Presidenza del Consiglio, un Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, dotandolo di 3 milioni di euro per l’anno 2006 e di 10 milioni di euro a decorrere dall’anno 2007. Tale autorizzazione è stata successivamente incrementata sulla base di singole disposizioni nell'ambito delle manovre finanziarie, come evidenziato nella tabella e nel grafico sottostanti.

 

Le risorse sono allocate – a bilancio statale - nel capitolo 2108 (Programma 17.4, Promozione dei diritti e delle pari opportunità) dello stato di previsione del Ministero dell’economia, rubricato “Somme da corrispondere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per le politiche delle pari opportunità”, per essere successivamente trasferite al bilancio della Presidenza del Consiglio, dove sono ripartite tra i diversi interventi.

Sul bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Fondo è iscritto sul programma “coordinamento delle politiche relative ai diritti e le pari opportunità”, Centro di responsabilità 8 “Diritti e pari opportunità”, capitolo 815.

 

 

 

                                          in milioni di euro

 

Cap. 2108/MEF

 

Previsioni iniziali

Previsioni definitive

2006

3,0

3,0

2007

50,0

50,0

2008

64,4

64,4

2009

30,0

32,8

2010

4,3

4,2

2011

18,1

15,2

2012

11,0

10,8

2013

11,4

31,3

2014

32,1

34

2015

32,3

32

2016

30,9

30,9

2017

70,1

69,5

2018

69,2

69,2

2019

62,3

62,2

2020

60,2

72,1

2021

66,9

n.d.

2022

93,3

n.d.

 

 

 

 

La Tabella precedente illustra gli stanziamenti – iniziali e definitivi - del Fondo presenti sul capitolo 2108 dello stato di previsione del Ministero dell’economia e finanze del Bilancio di previsione dello Stato. Per gli esercizi 2021 e 2022 sono presi in considerazione solo i dati relativi alle previsioni iniziali.

 

 

 

La dotazione del Fondo è stata oggetto di una serie di interventi legislativi che si sono susseguiti nel corso degli anni e che ne hanno ampliato le finalizzazioni in quota parte.

In particolare, già a partire dal 2007, la dotazione del Fondo è stata finalizzata parzialmente in favore delle politiche di prevenzione e contrasto della violenza sessuale e di genere.

 

Il Fondo per le politiche di pari opportunità nella legislazione finanziaria

 

La legge finanziaria 2007 (L. n. 296/2006, art. 1, comma 1261), ha incrementato il Fondo di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009. La disposizione ha inoltre stabilito che una quota parte dell’incremento fosse destinata al Fondo nazionale contro la violenza sessuale e di genere, successivamente istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità.

La legge finanziaria 2008 (L. n. 244/2007) ha rideterminato lo stanziamento per il Fondo in 44,4 milioni per il 2008, a 44,4 milioni per il 2009 e a 4,9 milioni per il 2010, nonché ha istituito, per il solo anno 2008, un fondo con una dotazione di 20 milioni di euro, destinato ad un Piano contro la violenza alle donne, le cui risorse sono confluite nel citato cap. 2108 dello stato di previsione del Ministero dell’economia. Pertanto, la legge di bilancio 2008 (legge n. 245/2007) esponeva sul capitolo 2108 uno stanziamento pari a 64,4 milioni per il 2008.

La legge finanziaria 2009 (L. n. 203/2008) ha rideterminato lo stanziamento del Fondo nella misura di circa 30,0 milioni nel 2009, di 3,3 milioni nel 2010 e di 2,5 milioni nel 2011. Inoltre l’articolo 10, comma 5 del D.L. n. 39/2009 destinava 3 milioni di euro del Fondo pari opportunità per l’anno 2009 al sostegno alla ricostruzione di centri di accoglienza per le donne e le madri in situazioni di difficoltà nelle zone dell’aquilano colpite dal sisma dell’aprile 2009.

Nel corso dell’esercizio 2009, l’articolo 13, comma 3 del D.L. n. 11/2009[42] (legge n. 38/2009), ha autorizzato la spesa di 1 milione di euro a decorrere dal 2009 per l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio - Dipartimento pari opportunità del numero verde per le vittime degli atti persecutori mediante l’utilizzo del Fondo pari opportunità. L’articolo 6, comma 2 del medesimo D.L. n. 11/2009 (legge n. 38/2009) ha disposto un rifinanziamento del Fondo di 3 milioni di euro per il 2009 al sostegno e alla diffusione sul territorio dei progetti di assistenza alle vittime di violenza sessuale e di genere (articolo 1, comma 1261, legge n. 296/2006).

La legge finanziaria 2010 (L. n. 191/2009) ha rideterminato lo stanziamento in 4,3 milioni per il 2010, per il 2011 in 2,4 milioni e per il 2012 in 2,4 milioni.

La legge di stabilità 2011 (L. n. 220/2010) ha ridefinito le risorse del Fondo in circa 18,1 milioni per ciascuno degli anni 2011, 2012 e 2013.

La legge di stabilità 2012 (L. n. 183/2011) ha rideterminato le risorse del Fondo in circa 10,5 milioni per il 2012, in 11,6 milioni per il 2013 e in 12,8 milioni per il 2014.

La legge di stabilità 2013 (L. n. 228/2012) ha rideterminato lo stanziamento del Fondo in 10,8 milioni per il 2013, in 11,6 milioni per il 2014 e in 11,7 milioni per il 2013.

Importanti misure sono state adottate con il D.L. 93/2013 (conv. L. n. 119/2013) che:

-      ha disposto un incremento del predetto Fondo di 10 milioni di euro, limitatamente all'anno 2013, vincolati al finanziamento del piano contro la violenza di genere (art. 5, comma 4). Per gli anni 2014, 2015, e 2016 ha provveduto la legge di stabilità 2014, aumentando ulteriormente il Fondo di 10 milioni per ciascuno di questi anni, con vincolo di destinazione al piano medesimo (art. 1, comma 217, L. n. 147/2013). Per il triennio 2017-2019 è intervenuta la legge di bilancio 2017, che ha aumentato di 5 milioni di euro per ciascun anno del triennio la dotazione finanziaria del Fondo sempre in favore del Piano (art. 1, co. 359, L. n. 232/2016). Per il triennio 2019-2022 la legge di bilancio 2020 ha incrementato la dotazione del Fondo di 4 milioni di euro per ciascun anno del triennio per la realizzazione del piano (L. n. 160 del 2019);

-      ha incrementato il Fondo per le pari opportunità di 10 milioni di euro per il 2013, di 7 milioni per il 2014 e di 10 milioni annui a decorrere dal 2015 per il potenziamento delle forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso il rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza (art. 5-bis, co. 2).

Successivamente, le leggi di bilancio 2017 (L. n. 232 del 2016) e 2018 (L. n. 205 del 2017) hanno disposto, con interventi di sezione seconda, un rifinanziamento del Fondo per le politiche di pari opportunità di circa 40 milioni di euro annui aggiuntivi fino al 2020.

La legge di bilancio 2017 (art. 1, co. 358) aveva altresì stabilito la possibilità di destinare risorse aggiuntive in favore delle politiche di pari opportunità, nel limite massimo di 20 milioni di euro per il 2017, a valere sulle risorse dei pertinenti programmi operativi cofinanziati dai fondi strutturali 2014/2020. Tale disposizione era prevista per il solo 2017.

La legge di bilancio 2019 (L. n. 145 del 2018) ha operato con interventi di sezione seconda un definanziamento del Fondo di 1,75 milioni di euro nel 2019, nonché di 1,78 mln nel 2020 e 1,79 nel 2021, facendo risultare le previsioni del bilancio integrato pari a 62,3 milioni di euro per il 2019.

La legge di bilancio 2020 (L. n. 160 del 2019), da un lato, ha operato con interventi di sezione seconda un definanziamento di 1,28 milioni di euro nel 2020, nonché di 1,44 mln nel 2021 e 2,2 nel 2022 delle previsioni a legislazione vigente. Al contempo, la dotazione del Fondo è stata incrementata di 0,1 milioni di euro per l’anno 2020 per l’attuazione delle nuove disposizioni sul numero telefonico nazionale anti violenza e anti stalking (art. 1, co. 352), nonché di 4 milioni di euro, per ciascuno degli anni del triennio 2019-2022, al fine di finanziare il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (art. 1, co. 353).

 

Tra gli interventi legislativi approvati nel corso dell’ultimo anno, che prevedono una specifica destinazione delle risorse del Fondo, si ricorda in particolare che:

-        il decreto legge n. 34 del 2020, il c.d. decreto legge rilancio, ha incrementato la dotazione del Fondo di 4 milioni di euro a decorrere dal 2020 (art. 105-quater)[43] al fine di finanziare politiche per la prevenzione e il contrasto della violenza per motivi legati all'orientamento sessuale e all'identità di genere e per il sostegno delle vittime. Nei limiti delle risorse stanziate, è istituito un programma per la realizzazione in tutto il territorio nazionale di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere, che garantiscono adeguata assistenza legale, sanitaria, psicologica, di mediazione sociale e ove necessario adeguate condizioni di alloggio e di vitto alle vittime, nonché a soggetti che si trovino in condizione di vulnerabilità legata all'orientamento sessuale o all'identità di genere in ragione del contesto sociale e familiare di riferimento;

-        con un’ulteriore disposizione (art. 105-bis), il medesimo D.L. n. 34 del 2020 ha integrato il Fondo con 3 milioni di euro per il 2020, finalizzando le risorse incrementali a contenere i gravi effetti economici derivanti dal COVID-19 sulle donne in condizione di maggiore vulnerabilità e a favorire, attraverso l’indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà. Per le medesime finalità la legge di bilancio 2021 (L. n. 178 del 2020) ha destinato 2 mln di euro per ciascuno degli anni 2021 e 2022 (art. 1, comma 28).

-        il decreto legge n. 104 del 2020 (articolo 26-bis), ha incrementato la dotazione del Fondo di un ulteriore milione di euro a decorrere dall’anno 2020, in considerazione dell’estensione del fenomeno della violenza di genere anche in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, al fine di assicurare la tutela e la prevenzione della violenza di genere e specificamente per contrastare il fenomeno favorendo il recupero degli uomini autori di violenza, Le risorse stanziate sono destinate esclusivamente all’istituzione e al potenziamento dei centri di riabilitazione per uomini maltrattanti.

 

Da ultimo il Fondo è stato rifinanziato con la legge di bilancio 2022 (L. n. 234 del 2021) per complessivi 27,2 milioni per l’esercizio 2022 e 10 milioni per ciascuno degli anni 2023 e 2024. Segnatamente, la citata legge di bilancio incrementa il Fondo :

§  di 5 milioni di euro a decorrere dal 2022 per il finanziamento del Piano strategico di genere (art. 1, co. 139-148);

§  di 5 milioni di euro a decorrere dal 2022 per il finanziamento del Piano strategico nazionale contro la violenza di genere (art. 1, co. 149-150);

§  di 2 milioni di euro per il 2022, per misure di recupero degli uomini autori di violenze (art. 1, co. 661-667);

§  di 5 milioni di euro per l'anno 2022, destinando tali risorse ai centri antiviolenza e alle case rifugio (art. 1, co. 668);

§  di 5 milioni di euro per il 2022 per l’istituzione e il potenziamento dei centri di riabilitazione per uomini maltrattanti (art. 1, co. 669) e di ulteriori 5 milioni per il 2022 al fine di favorire, attraverso l'indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà (art. 1, co. 670).

 

All’esito di tali più recenti interventi le previsioni di spesa per la promozione e la garanzia delle pari opportunità risultano pari a 93,3 milioni di euro per il 2022, 72,9 milioni per il 2023 e 72,9 milioni di euro per il 2024.

 

 

Occorre infine segnalare che negli ultimi anni si nota una tendenza del legislatore a moltiplicare gli strumenti diretti di finanziamento delle politiche di genere, mediante la creazione di nuovi Fondi gestiti da diverse amministrazioni.

Senza pretesa di esaustività si ricordano:

-          il Fondo a sostegno dell'impresa femminile, con una dotazione di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021 e 2022, destinato al fine di promuovere e sostenere l'avvio e il rafforzamento dell'imprenditoria femminile (art. 1, co. 97, L. n. 178 del 2021);

-          il Fondo per il sostegno della parità salariale di genere, con una dotazione di 2 milioni di euro per l'anno 2022 e di 52 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2023 (art. 1, co. 276, L. n. 178 del 2021);

-          il Fondo contro le discriminazioni e la violenza di genere, con una dotazione di 2.000.000 di euro annui per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023 (art. 1, co. 1134, L. n. 178 del 2021);

-          il Fondo per le attività di formazione propedeutiche all'ottenimento della certificazione della parità di genere, con una dotazione di 3 milioni di euro per l'anno 2022 (art. 1, comma 660, L. n. 234 del 2021);

-          il Fondo per il professionismo negli sport femminili (art. 12-bis, D.L. n. 104 del 2020) al fine di promuover e il professionismo nello sport femminile ed estendere alle atlete le condizioni di tutela previste dalla normativa;

-          il Fondo per la formazione personale delle casalinghe e dei casalinghi, con una dotazione di 3 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2020, finalizzato alla promozione di attività di formazione, svolte da enti pubblici e privati, di coloro che svolgono attività nell'ambito domestico, in via prioritaria delle donne (art. 22, D.L. n. 104 del 2020).

 


 

Le donne ai vertici della pubblica amministrazione

Anche nella pubblica amministrazione le donne hanno più difficoltà rispetto ai loro colleghi a vedersi riconoscere posizioni di vertice, seppur in modo diverso a seconda del settore di riferimento.

Così come persiste un significativo gender gap in rilevanti istituzioni i cui componenti sono nominati o eletti da organi politici, cioè dal Governo, dal Parlamento in seduta comune, dalle Camere o dai loro Presidenti (autorità indipendenti, enti pubblici, ecc.). Proprio su queste tematiche è stato istituito presso il dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio un gruppo di studio sul riequilibrio della rappresentanza di genere nei procedimenti di nomina che, partendo dai dati incoraggianti che emergono per i settori in cui l’intervento del legislatore statale e anche regionale ha regolamentato la partecipazione con norme di riequilibrio, propone di estendere l’intervento a livello normativo ad altri settori (finora esclusi), andando ad incidere sui procedimenti di nomina, in modo tale da tutelare, ad un tempo, l'eguaglianza di genere, la trasparenza dei procedimenti e il buon andamento della pubblica amministrazione.

In particolare, il documento finale del gruppo, presentato a dicembre 2021, si sofferma su alcune proposte di intervento nei seguenti settori: a) enti pubblici, autorità amministrative indipendenti e organi di garanzia; b) società partecipate; c) enti disciplinati a livello regionale e locale.

 

Dirigenza statale

Dal confronto dei dati relativi al genere degli ultimi anni, uno studio del ForumPA (2019) lascia emergere una «discreta ‘femminilizzazione’ della dirigenza pubblica». Le donne dirigenti nell’ambito delle pubbliche amministrazioni passano, infatti, dal 42% nel 2007 al 50,6% nel 2017. Lo studio sottolinea, in particolare, che tale aumento deriva da una diminuzione di oltre 10.000 dirigenti uomini a fronte di una stabilità del turn over femminile e, sotto il profilo analitico, risulta legato perlopiù alle professioni sanitarie e ai dirigenti non medici del SSN.

Passando dal contesto evolutivo ai dati del Conto annuale relativi alla dirigenza generale e apicale dello Stato centrale (2019), si registra che nei Ministeri, su un totale di 2.293 dirigenti, le donne sono 1.035 (45,1%, con un aumento di oltre 2 punti percentuali rispetto al 2018).

Nelle agenzie fiscali la presenza femminile nella dirigenza si attesta al 32,4%; negli enti pubblici statali non economici al 40,5%; presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri la percentuale sale al 45,6%. Infine, nell’ambito delle autorità indipendenti, le dirigenti donne rappresentano il 38,4% del totale.

 

Personale dirigente per tipologia di amministrazione e composizione di genere

Uomini

Donne

Ministeri

1.258

1.035

Agenzie fiscali

225

108

Enti pubblici non economici

462

314

Presidenza del Consiglio dei ministri

136

114

Autorità indipendenti

162

101

Fonte: elaborazione su dati Rgs - Conto annuale 2019

 

Nell’ambito della dirigenza apicale dei Ministeri, i dati più aggiornati fanno emergere come delle 296 posizioni dirigenziali di prima fascia 95 sono ricoperte da donne (37%).

 

 

Carriera diplomatica

Ai vertici della carriera diplomatica[44] la presenza femminile resta inferiore rispetto a quella registrata nelle altre aree professionali interne all’amministrazione degli affari esteri. Le donne rappresentano infatti il 22,5% dei diplomatici in carriera, seppur occorre segnalare che si registra un tendenziale aumento nel medio-lungo periodo[45].

Come mostrano i dati disaggregati, nel 2018 nei gradi apicali della diplomazia italiana si registra la presenza di 4 ambasciatrici, nella perdurante prevalenza della componente maschile (storicamente riconducibile alla data di ingresso nella carriera diplomatica delle donne, che hanno avuto accesso a tale concorso solo a partire dal 1967). Negli altri gradi della carriera diplomatica sono 23 le Ministre Plenipotenziarie, 40 le Consigliere d’Ambasciata, 53 le Consigliere di Legazione e 105 le Segretarie di Legazione, per un totale di 225 donne su 996 diplomatici nel complesso.

 

Carriera prefettizia

Appartengono alla carriera prefettizia 1.144 unità di personale (dati Conto annuale della carriera prefettizia 2019). Nel complesso le donne sono più della metà (664 contro 480 uomini); le percentuali sono simili nel grado di viceprefetto e viceprefetto aggiunto (le donne sono il 60,7% del totale). La situazione è diversa quando si considera il grado di prefetto: in questo caso è predominante la componente maschile mentre le donne sono 75 su 171 (pari al 43,8%).

 

Magistratura ordinaria

Le donne hanno accesso alla magistratura ordinaria dal 1965. Risale a tale anno infatti il primo concorso che - in attuazione della legge n. 66 del 1963, che ha introdotto l’accesso delle donne a tutte le cariche ed impieghi pubblici – vede vincitrici 27 donne, pari al 6% del totale dei vincitori.

Da allora, la percentuale di donne vincitrici del concorso è costantemente cresciuta fino ad arrivare, per la prima volta nel 1987, a superare la percentuale degli uomini. Questo trend ha determinato, a partire dal 2015, la preminenza nei ruoli della magistratura ordinaria delle donne sugli uomini.

A febbraio 2021 su un totale di 9.552 magistrati ordinari si registra la presenza di 5.217 donne, pari a circa il 54,6% del totale.

 

Magistratura ordinaria

Fonte: CSM, Ufficio statistico

 

Le percentuali crescenti di presenza delle donne in magistratura non trovano riscontro nell’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, rispetto ai quali è ancora prevalente il genere maschile.

Sono uomini il 70,5% dei magistrati che esercitano funzioni direttive ed il 57% dei magistrati che esercitano funzioni semidirettive.

 

Fonte: CSM, Ufficio statistico

 

Anche nelle assegnazioni degli incarichi, tuttavia, la tendenza in atto soprattutto negli ultimi anni, evidenziata nelle tabelle seguenti, dimostra che il divario tra uomini e donne si sta riducendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Funzioni direttive

 

 

Funzioni semidirettive

 

Per approfondimenti sulla distribuzione per genere del personale di magistratura si rinvia alle pubblicazioni dell’Ufficio statistico del Consiglio Superiore della Magistratura.

 

Per quanto riguarda, invece, l’organo di autogoverno della magistratura, ad oggi nessuna donna è mai stata componente di diritto del Consiglio Superiore della magistratura[46] né ha ricoperto il ruolo di vice presidente[47] e, di conseguenza, nessuna donna ha mai fatto parte del Comitato di presidenza del CSM, ovvero l'organo che si occupa dell'organizzazione e del funzionamento del collegio e che è composto dai membri di diritto e dal vicepresidente.

In generale, poche - indubbiamente una esigua minoranza - sono state anche le componenti laiche o togate elettive del Consiglio.

 

Limitandosi alle consiliature successive alla riforma del 2002, che ha portato a 27 il numero dei componenti del CSM, si osserva che, su 24 posti disponibili (16 per i componenti togati scelti dai magistrati e 8 per i membri eletti dal Parlamento), le donne elette sono state:

- 2 nel 2002 (una togata e una laica),

- 6 nel 2006 (4 togate e 2 laiche),

- 2 nel 2010 (entrambe togate, il Parlamento non ha eletto alcuna donna),

- 3 nel 2014 (una togata e 2 laiche),

- 6 nel 2018 (tutte togate, il Parlamento non ha eletto alcuna donna).

Recentemente, a seguito di elezioni suppletive tenutesi ad aprile 2021 per le dimissioni di un membro togato, è stato raggiunto nell’attuale consiliatura (2018-2022) il numero record di donne componenti il CSM: con l’elezione di una donna magistrato salgono per la prima volta a 7 le donne presenti nel Consiglio superiore della magistratura.

 

Il personale femminile nelle forze armate

In Italia il servizio militare femminile, avviato nell'anno 2000 a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 380/1999, costituisce uno dei grandi cambiamenti che hanno segnato il profondo processo di trasformazione del mondo militare dell'ultimo ventennio.

 

Al 30 dicembre 2020, le Forze Armate e l'Arma dei Carabinieri, incluse le capitanerie di porto, hanno registrato la presenza di 17.945 unità di personale femminile (in crescita rispetto alle 15.995 unità presenti alla fine del 2018 e alle 17.707 a fine 2019), così ripartite:

- 1.924 Ufficiali;

- 2.663 Sottufficiali;

- 12.694 Graduati e Militari di truppa;

- 664 Allievi di accademie e scuole militari.

 

La tabella seguente mostra la ripartizione del personale femminile al 31 dicembre 2020 per Forza armata e per categoria.

 


 

Tabella 1 – Personale femminile al 31 dicembre 2020

 

 

*C.E.M.M.= Corpo degli equipaggi militari marittimi

Fonte: Rielaborazione Servizio Studi – Dipartimento Difesa – su dati tratti dalla Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate (anno 2020) – Doc. XXXVI n. 5, pag. 48.

 

Grafico 1 – Percentuale di personale femminile per Corpo al 31/12/2020

 

Legenda:

CP = Capitanerie di Porto; EI = Esercito Italiano; CEMM = Corpo degli equipaggi militari marittimi;

CC = Arma dei Carabinieri; AM = Aeronautica Militare.

Fonte: Rielaborazione Servizio Studi – Dipartimento Difesa – su dati tratti dalla Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate (anno 2020) – Doc. XXXVI n. 5, pag. 48.

 

Grafico 2 – Composizione del personale femminile per grado (anno 2020)

 

Fonte: Rielaborazione Servizio Studi – Dipartimento Difesa – su dati tratti dalla Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate (anno 2020) –Doc. XXXVI n. 5, pag. 48.

 

Per quanto riguarda il reclutamento, non esistono percorsi differenziati di selezione se non per quanto riguarda le prestazioni richieste per agilità, forza e resistenza che prevedono, in alcuni concorsi, parametri diversi tra uomini e donne, alla stregua di quanto avviene per la valutazione delle prestazioni sportive degli atleti.

 

La tabella seguente espone il personale femminile reclutato nel corso dell'anno 2020.


 

Tabella 1 – Personale femminile reclutato nel 2020

 

 

(*) dato non definitivo – procedure concorsuali in atto

Fonte: Rielaborazione Servizio Studi – Dipartimento Difesa – su dati tratti dalla Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate (anno 2020) –Doc. XXXVI n. 5.

 

Nel campo della formazione e dell'addestramento della componente femminile non sussistono particolari differenziazioni tra uomini e donne, in quanto tutto il personale frequenta i medesimi corsi presso gli istituti militari e le scuole di addestramento. Particolari forme di tutela sono previste per il personale femminile che durante i corsi di formazione e di specializzazione risulti in stato di gravidanza e per il personale frequentatore di corsi di formazione di base con figli fino al dodicesimo anno di età.

Relativamente alla progressione di carriera nella Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate (anno 2020) si evidenzia che, secondo una proiezione teorica, il primo Ufficiale donna sarà valutato per l'avanzamento al grado di Colonnello tra circa 3 anni. L'Arma dei Carabinieri ha già Ufficiali donna nei gradi di Generale di Brigata e Colonnello provenienti dal Corpo Forestale e dalla Polizia di Stato.

 

Per quanto riguarda l'impiego, il personale militare femminile, svolge incarichi, sia sul tenitorio nazionale, sia in tutti i principali teatri operativi, nei diversi ruoli/corpi e specialità, senza particolari differenziazioni rispetto alla componente maschile. Nessuna differenziazione di genere è prevista per la scelta del personale da impiegare presso gli organismi internazionali in Italia e all'estero: la selezione operata viene fatta sulla base dei requisiti individuali e professionali posseduti.

Con riferimento alle professionalità operative personale femminile è impiegato come piloti di aerei e di elicotteri, come equipaggi di carri armati, sottomarini, nel controllo del territorio e come responsabili di importanti Porti lungo le coste del Paese.

Nelle missioni all'estero, in particolare, la Difesa italiana sta continuando a favorire le candidature di personale militare femminile per la copertura di posizioni quali Ufficiali di Staff e Osservatori militari all'interno delle missioni a guida ONU, in virtù della sua adesione al progetto delle Nazioni Unite di incrementare il numero di donne schierate nei teatri operativi. Lo spirito di iniziative come quella promossa dalle Nazioni Unite è da ricercare nel fatto che le donne militari, in alcuni contesti operativi in cui la popolazione femminile locale è particolarmente esposta a violazioni dei diritti umani, rappresentano uno strumento di fondamentale importanza per lo sviluppo della missione.

 

Si ricorda che proprio nel 2000, anno di avvio del personale femminile nelle Forze armate, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha approvato all'unanimità la Risoluzione 1325 su "Donne, Pace e Sicurezza", che per la prima volta menziona il contributo delle stesse nella risoluzione dei conflitti per una pace durevole e fissa tra i vari obiettivi l'adozione di una "prospettiva di genere" e una maggiore partecipazione delle donne nei processi di mantenimento della pace e della sicurezza.

 

Nel 2020 sono state 42 le unità di personale femminile impiegate nella missione UNIFIL in Libano, 7 nella missione bilaterale di addestramento delle Forze di sicurezza libanesi, 21 nella missione Resolute support in Afghanistan, 7 in Iraq nell'ambito della Coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh, 17 nella missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia, 7 nella missione MINUSMA in Mali, 7 nella missione NATO Joint Enterprise nei Balcani, 7 in Lettonia (NATO), 2 nella missione UNFICYP, 2 a Gibuti, 2 nell'Air Policing NATO.

Infine, in relazione al dispositivo NATO per la sorveglianza navale nell'area sud dell'Alleanza, la presenza femminile incide sugli equipaggi delle navi impegnate nelle per circa l'8%, senza limitazioni di impiego; nel dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea del 10 per cento (per un approfondimento si veda il DOC.XXVI n.4, proroga delle missioni internazionali per l'anno 2021).

 

Unico caso di impiego differenziato sulla base del genere di appartenenza è rappresentato dai Female Engagement Team (FET), nuclei specializzati formati da personale militare femminile specializzate nell'interagire con la popolazione locale femminile dei territori dove operano, al fine di accrescere il consenso della comunità locale verso il personale militare e creare un ambiente di cooperazione ottimale per il raggiungimento degli obiettivi della missione (cfr. pagina 46 della Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate, anno 2020).

 

Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti documenti e articoli:

§   Relazione sullo stato della disciplina militare e sullo stato dell'organizzazione delle Forze armate (anno 2020) – Doc. XXXVI n. 5 pagg. 45-48;

§   Documento programmatico pluriennale della Difesa 2020-2022, pagg. 142-143;

§   Le donne nelle Forze armate in www.difesa.it


Politiche fiscali e impatto di genere

Le politiche fiscali nel bilancio di genere

Con riferimento all’attività di gender mainstreaming avviata in via sperimentale a partire dal 2016 con la redazione del bilancio di genere (per cui si rinvia all’introduzione e ai principi del presente dossier) una specifica parte dell’analisi è dedicata all’impatto sul genere delle principali misure di politica tributaria condotta, per quanto riguarda le entrate, ricorrendo esplicitamente ad indicatori statistici per evidenziare i divari di genere.

Nell’audizione dell’8 febbraio 2022 del sottosegretario al Ministero dell’economia e delle finanze, Maria Cecilia Guerra, è stato rilevato come l’analisi delle principali politiche tributarie sia condotta attraverso specifici modelli di microsimulazione, utilizzati per valutare – nello specifico – l’impatto redistributivo delle aliquote dell’Imposta sul reddito delle persone fisiche – Irpef, nonché per esaminare i beneficiari dei regimi fiscali agevolati.

I dati rilevanti per l’anno di riferimento (2029) evidenziano che, rispetto agli uomini, le donne presentano con maggiore frequenza un reddito incapiente, che non consente di usufruire delle agevolazioni fiscali finalizzate alla conciliazione per genere, quali le agevolazioni concesse a fronte della spesa per addetti all’esistenza personale, per la frequenza di asili nido, nonché per i contributi versati per addetti ai servizi domestici e familiari.

Ciò avviene sebbene le donne, rispetto agli uomini, beneficino maggiormente delle predette agevolazioni fiscali (fatta eccezione per quelle riferite alla frequenza dell’asilo nido).

L’attività parlamentare

L’11 novembre 2020 la VI Commissione Finanze della Camera e la 6° Commissione Finanze e tesoro del Senato hanno deliberato una vasta indagine conoscitiva preordinata alla riforma fiscale, per raccogliere le istanze dei diversi portatori di interessi e approfondire le principali questioni aperte. L’indagine conoscitiva si è articolata nell’arco di sei mesi, tra gennaio e giugno 2021; il 30 giugno 2021 le Commissioni hanno ciascuna approvato, in un identico testo, il documento conclusivo dell’indagine, che indirizza la riforma fiscale verso obiettivi di crescita dell’economia e semplificazione del sistema tributario.

Il documento tiene esplicitamente in considerazione le finalità di transizione ecologica e digitale del PNRR; supporta l'approccio strategico contenuto nel Piano che vede nella digitalizzazione, e nelle competenze tecniche necessarie a renderla efficace, l'investimento più redditizio per l'Amministrazione Finanziaria.

Con riferimento specifico alle riforme volte a promuovere la parità di genere e, più in dettaglio, all’Irpef, le Commissioni riunite hanno ritenuto opportuno mantenere il reddito individuale come unità impositiva dell’imposta personale sui redditi, con la contestuale modifica degli istituti che disincentivano l’offerta di lavoro con riferimento al margine estensivo del secondo percettore di reddito (detrazione per il coniuge a carico) e l’introduzione di incentivi in tal senso, per sfruttare la maggiore elasticità dell’offerta di lavoro del secondo percettore di reddito all’interno del nucleo familiare. Hanno proposto altresì di considerare l’introduzione di una tassazione agevolata per un periodo predefinito in caso di ingresso al lavoro del secondo percettore di reddito, il cui ammontare sia congruamente superiore alla detrazione per familiare a carico.

 

Il disegno di legge di delega per la riforma del sistema fiscale (A.C. 3343, all’esame della Camera al momento della redazione del presente lavoro) prevede espressamente – in linea con gli orientamenti espressi dalle Commissioni parlamentari – che le modifiche dell’Irpef siano finalizzate a garantire il rispetto del principio di progressività (articolo 1, comma 1), lettera b) del disegno di legge) con l’obiettivo, tra l’altro, di ridurre gradualmente le aliquote medie effettive derivanti dall’applicazione dell’Irpef, anche al fine di incentivare l’offerta di lavoro e la partecipazione al mercato del lavoro, con particolare riferimento ai giovani e ai secondi percettori di reddito.

Una prima parte della delega è stata di fatto attuata dalla legge di bilancio 2022, che ha effettuato (articolo 1, commi 2-8 della legge n. 234 del 2021) un estensivo intervento di revisione della struttura dell’Irpef, modificando le aliquote e gli scaglioni, nonché rimodulando le detrazioni legate alla tipologia di reddito (lavoro dipendente e assimilati, lavoro autonomo o pensione) e il cd. bonus 100 euro.

 

Con un intervento specifico, la menzionata legge di bilancio 2022 (articolo 1, comma 13 della legge n. 234 del 2021) ha abbassato dal 22 al 10 per cento l’aliquota IVA gravante sui prodotti assorbenti e i tamponi per l’igiene femminile non compostabili.

Per effetto delle introdotte norme, dunque:

-        i prodotti per la protezione dell'igiene femminile compostabili o lavabili e le coppette mestruali sono assoggettati a IVA con aliquota del 5 per cento;

-        i prodotti assorbenti e tamponi, destinati alla protezione dell’igiene femminile non compostabili o lavabili sono assoggettati a IVA con aliquota del 10 per cento.

 


Equilibrio di genere nelle società

La legge 12 luglio 2011, n. 120

Con la legge 12 luglio 2011, n. 120 (cd. legge Golfo – Mosca) sono state apportate significative modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – TUF (di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998) allo scopo di tutelare la parità di genere nell'accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati e nelle società pubbliche.

La legge, preso atto della situazione di cronico squilibrio nella rappresentanza dei generi nelle posizioni di vertice delle predette imprese, ha perseguito lo scopo di riequilibrare a favore delle donne l'accesso agli organi apicali.

A tal fine è stato previsto un doppio binario normativo, e cioè:

·        per le società quotate in borsa, la disciplina in materia di equilibrio di genere è recata puntualmente dalle disposizioni di rango primario;

·        per le società a controllo pubblico, i principi applicabili rimangono quelli di legge, mentre la disciplina di dettaglio è affidata ad un apposito regolamento, con la finalità di garantire una disciplina uniforme per tutte le società interessate. Tale regolamentazione è contenuta nel D.P.R. 30 novembre 2012, n. 251.

L'articolo 1 della legge n. 120 del 2011 (che ha introdotto il comma 1-ter all'articolo 147-ter del testo unico dell'intermediazione finanziaria – TUF, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) ha imposto agli statuti delle società quotate di prevedere un riparto degli amministratori da eleggere che sia effettuato in base a un criterio tale da assicurare l'equilibrio tra i generi, dovendo il genere meno rappresentato ottenere almeno una quota fissa degli amministratori, in origine pari a un terzo degli amministratori eletti, elevata a due quinti dalla legge di bilancio 2020.

È stata prevista un'articolata procedura per l'ipotesi di mancato rispetto dei predetti criteri di equilibrio dei generi. In particolare, la Consob diffida la società inottemperante affinché si adegui entro il termine massimo di quattro mesi. L'inottemperanza alla diffida comporta l'applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa (da 100.000 euro a 1 milione di euro) e la fissazione di un ulteriore termine di tre mesi per adempiere. Solo all'inosservanza di tale ultima diffida consegue la decadenza dei membri del consiglio di amministrazione. Le norme affidano allo statuto societario la disciplina delle modalità di formazione delle liste e dei casi di sostituzione in corso di mandato, al fine di garantire l'equilibrio dei generi.

Le disposizioni in materia di equilibrio di genere sono state rese applicabili (attraverso l’inserimento, all'articolo 147-quater del TUF, del comma 1-bis che rinvia all’articolo 147-ter) anche al consiglio di gestione, ove costituito da almeno tre membri. Anche per il collegio sindacale si prevede che l’atto costitutivo della società disciplini il riparto dei membri (introdotto comma 1-bis dell'articolo 148 TUF) secondo i già commentati criteri di tutela del genere meno rappresentato. Anche in tale ipotesi si prevede l'attivazione di apposita procedure di diffida da parte della Consob in caso di inottemperanza, con eventuale applicazione di una sanzione pecuniaria (da 20.000 a 200.000 euro) e, in ultima istanza, la decadenza dei membri del collegio sindacale della società inottemperante.

Le norme sulla parità di genere negli organi apicali delle società quotate (articolo 2 della legge n. 120) hanno trovato applicazione dal primo rinnovo degli organi societari interessati successivo al 12 agosto 2012 (ovvero un anno dall'entrata in vigore delle norme stesse). Sono state previste disposizioni transitorie per il primo mandato degli organi eletti secondo le nuove prescrizioni, al fine di renderne graduale l'applicazione: almeno un quinto degli organi amministrativi e di controllo societario dovevano essere riservati al genere meno rappresentato.

Le norme della legge n. 120 del 2011 sono destinate ad avere un’efficacia temporanea. Per le società quotate (articolo 147-ter del TUF) il criterio di riparto degli organi apicali volto a tutelare la parità di genere era previsto, in origine, come operativo per tre mandati consecutivi (articolo 147-ter, comma 1-bis; articolo 148, comma 1-bis).

Tuttavia l’efficacia delle disposizioni della legge 120 è stata prorogata con due interventi normativi recenti e molto ravvicinati.

In prima battuta, l’articolo 58-sexies del decreto-legge n. 124 del 2019 ha prorogato da tre a sei i mandati in cui trovano applicazione, per gli organi apicali delle società quotate, le disposizioni in tema di tutela del genere meno rappresentato.

Successivamente è intervenuta la legge di bilancio 2020 (articolo 1, commi 302-305 della legge n. 160 del 2019) che:

-        ha prorogato da tre a sei i mandati in cui trovano applicazione, per gli organi apicali delle società quotate, le disposizioni in tema di tutela del genere meno rappresentato previste dalla legge n. 120 del 2011 sostanzialmente assorbendo e superando la disposizione del citato articolo 58-sexies;

-        ha modificato il criterio di riparto degli amministratori e dei membri dell'organo di controllo, volto ad assicurare l'equilibrio tra i generi, in particolare disponendo che il genere meno rappresentato debba ottenere almeno due quinti degli amministratori eletti (40 per cento), in luogo della quota di almeno un terzo (33 per cento circa) disposta dalle norme previgenti.

La medesima legge di bilancio (successivo comma 304) ha stabilito che il criterio di riparto di almeno due quinti venga applicato a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate successivo al 1° gennaio 2020 (data di entrata in vigore della legge di bilancio). Resta fermo, per il primo rinnovo successivo alla data di inizio delle negoziazioni, il criterio di riparto di almeno un quinto previsto dall'articolo 2 della legge Golfo-Mosca.

Infine, il provvedimento ha disposto (comma 305) che la Consob comunichi annualmente gli esiti delle verifiche sull'attuazione delle norme in esame al Dipartimento delle pari opportunità presso la Presidenza del consiglio, per il quale viene stanziato un contributo straordinario di 100.000 euro per gli anni dal 2020 al 2022.

L'estensione a sei mandati era una prescrizione contenuta anche in alcune proposte di legge, assegnate alle competenti Commissioni permanenti di Camera e Senato (A.S. 1095, A.S. 1028, A.C. 1481) intese a prorogare nel tempo l'operatività delle norme introdotte dalla legge Golfo-Mosca. La 6a Commissione finanze del Senato ha avviato l'esame degli A.S. 1095 e 1028. Tali iniziative sono da intendersi sostanzialmente superate per effetto dell’approvazione della legge di bilancio 2020.

 

La Consob ha pubblicato una Comunicazione con la quale ha fornito al mercato finanziario chiarimenti interpretativi su come debba essere applicata agli organi sociali composti da tre membri la nuova disciplina sulle quote di genere, introdotta dalle modifiche agli articoli 147-ter e 148 del Testo unico della finanza, apportate dalla legge di bilancio per il 2020.

Inoltre la Consob ha approvato, con delibera n. 21359/2020, le modifiche all'art. 144-undecies.1 del Regolamento Emittenti che definisce i criteri applicativi delle nuove quote di genere introdotte con la legge di bilancio 2020. Si veda al riguardo anche l’approfondimento di Assonime.

 

Come già anticipato, le originarie disposizioni della legge Golfo-Mosca, per espresso rinvio (articolo 3 della legge) trovavano applicazione anche alle società a controllo pubblico non quotate, con il rinvio a un regolamento per la definizione di termini e modalità di attuazione delle prescrizioni in tema di equilibrio dei generi negli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche.

In merito il richiamato D.P.R. n. 251 del 2012 ha imposto – come avviene per le società private - agli statuti delle società pubbliche non quotate di prevedere modalità di nomina degli organi di amministrazione e di controllo, se a composizione collegiale, secondo modalità tali da garantire che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo. Anche in tali ipotesi gli statuti disciplinano la formazione delle liste in applicazione del criterio di riparto tra generi, prevedendo modalità di elezione e di estrazione dei singoli componenti idonee a garantire il rispetto delle previsioni di legge. Anche in tale ipotesi, per il primo mandato degli organi apicali la quota riservata al genere meno rappresentato deve essere pari ad almeno un quinto del numero dei componenti dell'organo.

La vigilanza sul rispetto delle disposizioni in materia di parità di genere è stata affidata al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità, con presentazione al Parlamento di apposita relazione triennale.

A tal fine, le società sono state obbligate a comunicare la composizione degli organi sociali entro quindici giorni dalla data di nomina degli stessi o dalla data di sostituzione, ove avvenuta. L'organo di amministrazione e quello di controllo sono tenute a comunicare altresì la mancanza di equilibrio tra i generi, anche in corso di mandato. Tale segnalazione può essere altresì fatta pervenire da chiunque vi abbia interesse.

In caso di mancato rispetto della quota di un terzo nella composizione degli organi sociali, il D.P.R. ha previsto una diffida alla società a ripristinare l'equilibrio tra i generi entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza alla diffida, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità fissano un nuovo termine di sessanta giorni ad adempiere, con l'avvertimento che, decorso inutilmente detto termine, ove la società non provveda, i componenti dell'organo sociale interessato decadono e si provvede alla ricostituzione dell'organo nei modi e nei termini previsti dalla legge e dallo statuto. Rispetto, dunque, alla disciplina delle società private, non è prevista alcuna sanzione pecuniaria.

Anche la disciplina del richiamato D.P.R. n. 251 è stata introdotta con un’efficacia limitata nel tempo: l’articolo 3 del provvedimento prevede infatti che il rispetto della composizione degli organi sociali sia assicurata per tre mandati consecutivi a partire dal primo rinnovo successivo al 12 febbraio 2013 (data di entrata in vigore del D.P.R.). Successivamente sul tema è intervenuto il Testo Unico sulle società a controllo pubblico (D. Lgs. n. 175 del 2016) che all’articolo 11, comma 4 ha disposto, a regime, che nella scelta degli amministratori di tali società le amministrazioni devono assicurare il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno. Ove la società abbia un organo amministrativo collegiale, lo statuto prevede che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge 12 luglio 2011, n. 120.

Il D.P.R. n. 251 del 2012 ha esplicitamente previsto che la parità di genere sia tutelata sia negli organi di amministrazione, sia in quelli di controllo delle società pubbliche, ancorché in via temporanea. Il TU sulle società a partecipazione pubblica prevede invece che il rispetto dell’equilibrio di genere, applicabile a regime, riguardi esclusivamente gli organi di amministrazione e non anche quelli di controllo; inoltre, a regime, inoltre, non sono previste specifiche conseguenze sanzionatorie per il mancato rispetto dell’equilibrio di genere.

 

Gender balance nel settore bancario

Con specifico riguardo alla disciplina applicabile al settore bancario, le Disposizioni di vigilanza sul governo societario, contenute nella Circolare n. 285 della Banca d’Italia (Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo IV, Capitolo 1) richiedono a tutte le banche di assicurare che la composizione dell’organo con funzione di supervisione strategica e dell’organo con funzione di gestione sia adeguatamente diversificata, anche in termini di genere. In particolare, in linea con quanto previsto dalla normativa europea (Direttiva 2013/36/UE- Capital Requirements Directive - CRD) e dagli Orientamenti dell’Autorità Bancaria Europea sulla valutazione dell’idoneità dei membri dell’organo di gestione e del personale che riveste ruoli chiave (EBA/GL/2017/12), le disposizioni della Banca d’Italia ravvisano nel gender balance un ulteriore presidio volto ad assicurare la più generale diversity nella composizione degli organi, che deve riguardare anche aspetti ulteriori come le competenze, l’età o la provenienza geografica dei componenti; ciò nel presupposto che l’interazione di esponenti con profili differenti tra loro contribuisca ad assicurare pluralità di approcci e prospettive nell’analisi dei problemi e nell’assunzione delle decisioni nonché maggiore dibattito critico nel board contrastando così il rischio di comportamenti di mero allineamento a posizioni prevalenti, interne o esterne alla banca (fenomeno noto come ‘mentalità di gruppo’ o groupthinking). Le stesse Disposizioni, sempre in linea con gli indirizzi europei, richiedono al comitato nomine (da istituire obbligatoriamente nelle banche di maggiori dimensioni o complessità operativa) di fissare un obiettivo (gender target) in termini di quota di genere meno rappresentato e predisporre un piano per accrescere questa quota sino al target fissato. Le banche sono anche tenute a fornire informazioni al pubblico sulla composizione degli organi, almeno per età, genere e durata di permanenza in carica, nonché sull’obiettivo di genere sopra richiamato, sul piano e sulla sua attuazione.

Le iniziative successive

Per il monitoraggio sull'attuazione della nuova disciplina nelle società pubbliche è stato istituito, con decreto del Ministro delle pari opportunità del 12 febbraio 2013, un apposito gruppo di lavoro.

Nel mese di gennaio 2020 è stata inviata al Parlamento la Relazione triennale sullo stato di applicazione delle norme in tema di parità di genere nelle società a controllo pubblico, relativa al periodo dal 12 febbraio 2016 al 12 febbraio 2019.

 

La Relazione in particolare sottolinea che, analizzando i dati complessivi a partire dall’entrata in vigore della normativa sull’equilibrio di genere nelle società pubbliche non quotate, emerge chiaramente che la percentuale delle donne che ricoprono ruoli di vertice è sensibilmente aumentata in Italia.

A marzo 2019, al termine del secondo triennio di applicazione della normativa, le donne rappresentavano circa un terzo dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche non quotate. Al termine del primo triennio (2013-2016) le donne rappresentavano più di un quarto essendo passate da 17.5% a 25.7% con un incremento di 8 punti percentuali. L’incremento di quasi sette punti percentuali (da 25,8 a 32,6) registrato a partire da febbraio 2016 per la percentuale di donne nei board delle società pubbliche mostra che la presenza femminile continua a crescere con un ritmo sostenuto anche nel secondo triennio di applicazione della normativa.

 

 

Tuttavia, la distribuzione geografica della presenza femminile negli organi sociali delle società sottoposte a monitoraggio evidenzia notevoli differenze territoriali. I livelli più elevati caratterizzano il Nord ed il Centro Italia: in entrambe le ripartizioni la percentuale di donne negli organi collegiali supera la quota di un terzo (rispettivamente 34,3% e 33,7%) segnando una notevole differenza con quanto riscontrato per il Sud e le Isole (26,9%), che scontano una presenza particolarmente limitata delle donne negli organi di amministrazione. Al Sud e nelle Isole, infatti, le donne non arrivano a ricoprire una carica su cinque nei CdA (19,7%), proporzione ben al di sotto delle quote, entrambe superiori al 30%, registrate per il Centro (30,9%) e per il Nord (30,7%) e di quella complessiva nazionale, pari a 28,5%.

 

 

I dati relativi alle nomine negli organi delle società non quotate controllate dalle pubbliche amministrazioni mostrano una rilevante tendenza incrementale di nomine di Amministratori unici. A marzo 2019, 46 società su 100 risultano dirette da un Amministratore unico mentre a febbraio 2016 la percentuale di società amministrate da un organo monocratico era pari a 35.

La proporzione di donne tra gli Amministratori unici (12,3% a marzo 2019), pur manifestando un trend crescente, è estremamente più contenuta rispetto a quella registrata all’interno degli organi amministrativi collegiali.

 

Con il Protocollo d’intesa sottoscritto nel novembre 2018 dal Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri per le Pari Opportunità, dalla Consob e dalla Banca d’Italia, è stato istituito un Osservatorio interistituzionale per promuovere congiuntamente iniziative volte all’attuazione nel concreto della partecipazione femminile nei board delle società, con la finalità di verificare nel tempo gli effetti dell’applicazione della legge n. 120 del 2011.

L'Osservatorio è operativo dal primo gennaio 2019 e nasce come centro di raccolta dati, analisi e ricerche nel campo della parità di genere alla luce dell’applicazione della legge n. 120 del 2011. Consob e Banca d’Italia si impegnano a fornire al Dipartimento per le Pari Opportunità i dati raccolti attraverso le proprie attività di monitoraggio. Il patrimonio informativo è inteso come base comune di riferimento a fini di ricerca per individuare, tra l’altro, le aree critiche su cui eventualmente formulare proposte di intervento. Il protocollo resterà in vigore cinque anni da gennaio 2019.

 

Alcune esperienze europee

A cura del Sevizio Biblioteca - Ufficio per la legislazione straniera

 

In diversi paesi europei sono state introdotte norme per la tutela di genere presso gli organi apicali delle società quotate.

In Belgio, dal 2011 nelle società quotate vi deve essere una rappresentanza in consiglio pari ad almeno un terzo degli amministratori per entrambi i sessi (Loi du 28 juillet 2011 modifiant la loi du 21 mars 1991 portant réforme de certaines entreprises publiques économiques, etc.). Le società quotate di grandi dimensioni si sono adeguate a questo intervento normativo a partire dal 2017 mentre le società di minori dimensioni hanno dovuto recepire la normativa a partire dal 2019. In caso di mancato rispetto degli equilibri di genere introdotti dalla normativa, le sanzioni possono prevedere il mancato pagamento dei compensi degli amministratori e l’obbligo di prevedere che, fino al raggiungimento dei requisiti richiesti, i nuovi consiglieri nominati appartengano necessariamente al genere meno rappresentato.

La Germania, con la Legge sulla partecipazione paritaria di donne e uomini nelle posizioni dirigenziali del settore pubblico e privato (Gesetz für die gleichberechtigte Teilhabe von Frauen und Männern an Führungspositionen in der Privatwirtschaft und im öffentlichen Dienst) del 24 aprile 2015, ha introdotto una quota obbligatoria, pari al 30%, per donne e uomini che compongo il Consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat) delle società quotate soggette alla disciplina della cogestione. La quota era stata introdotta per entrambi i generi soltanto nell’organo di sorveglianza e soltanto nelle società di maggiori dimensioni, tenute ad assicurare nel medesimo organo anche una rappresentanza qualificata di consiglieri eletti in rappresentanza dei lavoratori. La normativa è stata successivamente integrata e modificata dalla Legge del 7 agosto 2021 (Gesetz zur Ergänzung und Änderung der Regelungen für die gleichberechtigte Teilhabe von Frauen an Führungspositionen in der Privatwirtschaft und im öffentlichen Dienst), recante regole vincolanti per assicurare un’adeguata rappresentanza femminile anche negli organi gestionali delle imprese. Con le nuove disposizioni, in vigore dal 12 agosto 2021, è stata introdotta una quota di genere obbligatoria, in base alla quale le società per azioni quotate in borsa con più di tre membri nel Consiglio di gestione (Vorstand) sono tenute a nominare almeno una donna e almeno un uomo. Nel caso in cui una società non dovesse rispettare il sistema delle quote di genere, la nomina sarà ritenuta nulla e la posizione rimarrà vacante. Anche le aziende che non rientrano nel requisito della “partecipazione minima”, ma che sono quotate o soggette alla cogestione, dovranno in futuro motivare l’assenza di donne in posizioni apicali per non incorrere in sanzioni. Inoltre, la quota di genere obbligatoria del 30% nei Consigli di sorveglianza, già prevista dalla legge del 2015, è stata estesa anche alle società in cui lo Stato federale detiene una partecipazione di maggioranza.

In Francia, la normativa (Code commercial, artt. L. 225-18-1 e L. 225-53) richiede che i consigli di amministrazione assicurino la presenza del 40% di consiglieri donna nelle società quotate che superano determinati minimi dimensionali per tre esercizi consecutivi (250 dipendenti e un fatturato di 50 milioni di euro). In questi casi è espressamente previsto che, per i consigli con numero pari o inferiore a 8, la differenza tra il numero dei consiglieri donna e uomo non può essere superiore a 2. Il codice commerciale richiede inoltre al consiglio di amministrazione e al suo amministratore delegato di assicurare che nella selezione dei vice-direttori generali, che assistono l’amministratore delegato, sia sempre assicurata la parità di genere tra i candidati vagliati per tale incarico, mentre non è stabilito alcun obbligo di risultato in tal senso.

In Norvegia, pur in presenza di una quota del 40%, la legge stabilisce un numero minimo di posti da assegnare al genere meno rappresentato (Legge sull’uguaglianza di genere e sul divieto di discriminazione, Lov 2017-06-16-51, art. 28).

In Olanda il secondo libro del Codice civile (Burgerlijk Wetboek – Boek 2, nel testo in vigore dal 1° gennaio 2022) prevede agli artt. 166 e 276 che una società che, in due date consecutive di bilancio, successivamente e ininterrottamente, non abbia rispettato almeno due dei requisiti di cui all'art. 397, parr. 1 e 2 (il valore delle attività secondo lo stato patrimoniale con note esplicative, sulla base del prezzo di acquisizione e di produzione, non supera € 20.000.000; il fatturato netto dell'esercizio non supera € 40.000.000; il numero medio di dipendenti per l'esercizio è inferiore a 250), deve fissare obiettivi appropriati e ambiziosi per rendere più equilibrato il rapporto tra il numero di uomini e donne nel consiglio di amministrazione e nel consiglio di sorveglianza, nonché per le categorie di dipendenti in posizioni dirigenziali che devono essere determinate dalla società.

Se il consiglio di amministrazione e il consiglio di vigilanza sono composti da una sola persona, può essere fissato congiuntamente un obiettivo per entrambi gli organi. La società deve redigere un piano per raggiungere gli obiettivi citati. Ogni anno, entro dieci mesi dalla fine dell'esercizio finanziario, la società riferisce al consiglio economico e sociale sul numero di uomini e donne che sono membri del consiglio di amministrazione e del consiglio di sorveglianza alla fine dell'esercizio finanziario, nonché sulle categorie di dipendenti in posizioni dirigenziali che devono essere determinate dalla società; sugli obiettivi sotto forma di risultati concreti programmati; sul piano per raggiungere questi obiettivi e se uno o più obiettivi non sono stati raggiunti, indica le motivazioni per i quali gli obiettivi non sono stati raggiunti.

Una società appartenente a un gruppo non è tenuta a rispettare tali obblighi a condizione che gli obblighi in questione vengano adempiuti dalla società capogruppo. Se si applica l'art. 142 ter, parr. 2 o 3, non è necessario fissare alcun obiettivo per il consiglio di vigilanza o gli amministratori senza incarichi esecutivi.

Quest’ultima disposizione, che si applica alle società quotate in borsa, prevede, in particolare, che fino a quando il consiglio di vigilanza non è composto per almeno un terzo da uomini e per almeno un terzo da donne, una persona la cui nomina non renderebbe più equilibrato il rapporto tra il numero di uomini e donne nel consiglio di vigilanza non può essere nominata amministratore delegato, a meno che non vi sia una nuova nomina entro otto anni dall'anno di nomina o si verifichino le circostanze eccezionali di cui all'art. 135 bis, par. 5, del codice (“per circostanze eccezionali si intendono solo le circostanze in cui la deviazione dalla politica retributiva è necessaria per servire gli interessi a lungo termine e la sostenibilità della società nel suo complesso o per garantirne la redditività”). Se il numero dei membri del consiglio di vigilanza non è divisibile per tre, si tiene conto del numero superiore adiacente che è divisibile per tre ai fini della determinazione del numero dei membri in questione. Le disposizioni in questione non si applicano se il consiglio di vigilanza è composto da una sola persona. In caso di applicazione dell'art. 129 bis (società che scelgono il modello del consiglio di amministrazione), le disposizioni precedenti si applicano mutatis mutandis agli amministratori senza incarichi esecutivi.

Il Regno Unito non ha adottato alcuna quota di genere a livello normativo: l’impulso a sviluppare best practice in tale ambito è stato infatti innescato da alcuni rapporti di natura governativa ed è stato successivamente sviluppato in sede autodisciplinare.

In Spagna, ai sensi della Ley Orgánica para la igualdad efectiva de mujeres y hombres del 2007, le società commerciali che non possono pubblicare il bilancio in forma abbreviata devono cercare di includere nel proprio consiglio di amministrazione un numero di donne che consenta di ottenere una presenza equilibrata tra donne e uomini nell’arco di otto anni dalla sua entrata in vigore (art. 75). Con disposizione interpretativa, la medesima legge intende per “composizione equilibrata” la situazione in cui nessun genere sia rappresentato per più del 60% e per meno del 40% (Disposición adicional primera). Al contempo, l’indicazione della quota è stata trasposta nel codice di buon governo (ed. 2015), che ha introdotto il target del 30% di donne entro il 2020, aumentato al 40% entro il 2022 (ed. 2020). L’art. 529 bis della Ley de Sociedades de Capital prevede che il consiglio di amministrazione delle società quotate assicuri che i procedimenti di selezione dei propri componenti favoriscano la diversità rispetto a questioni quali età, genere, disabilità o formazione ed esperienza professionale, e non comportino discriminazioni ma, in particolare, facilitino la selezione di consigliere in un numero che permetta di raggiungere una presenza equilibrata di donne e uomini.

Dati e statistiche

Per quanto riguarda le società quotate italiane, il Rapporto di corporate governance 2020 della Consob rileva che, a fine 2020 la presenza femminile negli organi sociali degli emittenti quotati italiani raggiungeva quasi il 39% degli incarichi di amministrazione e di controllo.

I dati, che per gli organi amministrativi segnano il massimo storico, riflettono la prima applicazione della Legge n. 160/2019 che, come visto supra, ha previsto di riservare al genere meno rappresentato i due quinti dell'organo per sei rinnovi a partire dal 2020, quota più elevata rispetto a quella di un terzo prevista dalla legge 120/2011 per i tre rinnovi successivi all'agosto 2012. In applicazione della nuova legge, le 76 società che hanno rinnovato la composizione dell'organo amministrativo nel 2020 mostrano una presenza media di 4 donne, pari al 42,8% del board. La presenza femminile è in ogni caso solo marginalmente inferiore nelle altre società, non solo in quelle che hanno effettuato l'ultimo rinnovo in applicazione della Legge Golfo-Mosca (complessivamente 122 emittenti nei quali le donne rappresentano circa il 37% del board), ma anche in quelle che in tale occasione non erano tenute ad applicare alcun criterio di riparto di genere (26 imprese, in cui le donne rappresentano il 35% del board), in quanto neoquotate ovvero avevano completato i tre rinnovi previsti dalla Legge Golfo-Mosca.

 Con riguardo al ruolo svolto, nel 2020 il rapporto conferma come estremamente contenuta la frequenza con cui le donne ricoprono il ruolo di amministratore delegato (accade in 15 società, rappresentative di poco più del 2% del valore totale di mercato) e di presidente dell'organo amministrativo (26 emittenti pari al 18% della capitalizzazione complessiva, quasi la metà del dato per il 2019). In circa tre quarti dei casi le donne sono consiglieri indipendenti, in linea con gli anni precedenti; è aumentata inoltre la presenza di donne nominate dai soci di minoranza in applicazione del voto di lista, registrando nel 2020 il numero massimo di 84 amministratrici, nominate in 67 società ad elevata capitalizzazione. Infine, le donne sono più frequentemente titolari di più di un incarico di amministrazione (interlocker), circostanza che si verifica in un caso su tre: il dato risulta relativamente stabile nell'ultimo triennio dopo aver registrato una crescita significativa nel periodo 2013-2018.

 

Il rapporto Italy Board Index 2020 (SpencerStuart), effettuato su un campione di riferimento diverso (le prime 38 società italiane) rileva che,  con riferimento all’anno 2020, le donne risultavano essere il 35,7 per cento dei consiglieri del campione di riferimento, in linea con l’anno precedente; la percentuale di donne tra i consiglieri esecutivi era del 3 per cento.

Le posizioni di Consigliere erano ricoperte da 162 donne, con un rapporto “incarichi/donne” pari a 2,1 (con ogni consigliere donna che sedeva in media in 2,1consigli di amministrazione), lievemente inferiore di quello degli uomini (2,3). Con riferimento ai consiglieri di nuova nomina, il 42,1% era rappresentato da donne. Il rapporto ha individuato 32 consigliere di nuova nomina, di cui 15 elette per la prima volta negli ultimi 5 anni in un consiglio di amministrazione di una società quotata (pari al 47% delle consigliere elette). Al contrario, dei 72 consiglieri cessati nel 2019, 28 sono donne (il 38,9% circa), con dunque 4 donne in più nominate durante l’anno.

In tutte le prime 38 società quotate era dunque presente almeno una donna in CdA. Nel 41% delle società dell’Osservatorio la presenza percentuale delle donne supera il 35%, mentre nei rimanenti casi la percentuale delle donne presenti in CdA è minore del 35%. Il dato è in continuità con quello rilevato nel 2019 per il panel di 100 società.

 

Fonte: Italy Board Index 2020 (SpencerStuart)

 

Il rapporto infine sottolinea che le donne al vertice nelle 38 società più importanti in Italia che ricoprono ruoli esecutivi sono in tutto 5, ovvero rappresentano il 3% del campione ed il 7% delle cariche esecutive ricoperte: di queste 1 è un Presidente esecutivo, 1 Vice Presidente esecutivo, 2 sono Consiglieri che siedono in un Comitato esecutivo e 1 solo un è Amministratore Delegato. Le Presidenti non esecutive sono 7 e rappresentano dunque il 18% del totale.

 

L’8 marzo 2021 è stato pubblicato il Rapporto del menzionato Osservatorio interistituzionale sulla partecipazione femminile negli organi di amministrazione e controllo delle società italiane.

In esso si afferma che la presenza femminile nelle posizioni di vertice delle imprese italiane è nel complesso limitata, sebbene nell’ultimo decennio si siano registrati significativi progressi, in particolare per le società interessate dalle disposizioni della legge 120/2011.

La quota delle donne nei consigli di amministrazione all’inizio del periodo esaminato (2011) risultava piuttosto bassa per tutte le tipologie di società considerate, e cioè pari al 22 per cento nelle società di capitali e significativamente inferiore nelle società quotate e nelle banche, dove si attestava rispettivamente al 7 e al 6 per cento. La presenza delle donne negli organi amministrativi delle società è aumentata negli anni successivi, sebbene in misura eterogenea nelle diverse tipologie di società. Nei settori senza vincoli sulla composizione di genere, la quota delle donne negli organi amministrativi è rimasta stabile (nelle società private) o è cresciuta in misura modesta (nelle banche) arrivando nel 2019 al 24 e al 17 per cento, rispettivamente. Per le società quotate e le società a controllo pubblico, invece, il Rapporto osserva un aumento notevole della presenza femminile per effetto delle misure introdotte dalla legge Golfo-Mosca (la quota nel 2019 era pari rispettivamente al 37 e al 25 per cento). La minore presenza di donne negli organi amministrativi delle società a controllo pubblico rispetto alle società quotate è ritenuta in parte attribuibile alla diffusione tra le prime di numerose società con amministratore unico (38,6 per cento del totale nel 2019). In tali società solo il 10,4 per cento degli amministratori sono donne, mentre in quelle con un consiglio di amministrazione queste ultime sono il 27,4 per cento dei componenti.

Per quanto riguarda gli organi di controllo delle società, i dati rilevano una situazione piuttosto simile: nel 2011 la quota delle donne era molto bassa nelle banche e nelle società quotate (il 10 e il 7 per cento, rispettivamente), mentre era più elevata (il 17 e il 20 per cento rispettivamente) nelle società di capitali a controllo pubblico e in quelle private. La dinamica è in linea con quella osservata negli organi di amministrazione e, nel 2019, la presenza femminile ha raggiunto il 39 e il 33 per cento del totale degli incarichi nelle società quotate e a controllo pubblico, soggette alle quote di genere, mentre la crescita è stata moderata nelle banche e nelle società di capitali dove si colloca al 18 e al 22 per cento, rispettivamente.

In sostanza, secondo il Rapporto i progressi ottenuti grazie all’introduzione della normativa sulle quote di genere sono ragguardevoli e riconosciuti a livello europeo e internazionale. Anche nelle banche la presenza femminile negli organi amministrativi è aumentata nel periodo di riferimento, sebbene in maniera eterogenea, riflettendo il diverso regime in vigore per le banche quotate e per quelle non quotate (alla fine del 2019 la quota di donne era pari al 37 per cento nelle prime ed al 15 per cento nelle seconde). 

Tuttavia, a fronte di un innegabile avanzamento rispetto alla situazione ante legge 120/2011, si riscontrano ancora eterogeneità nella partecipazione femminile agli organi di amministrazione e controllo e ai processi decisionali delle società, a seconda dell’esistenza e della natura dei vincoli normativi in materia di quote di genere. Il Rapporto auspica dunque che le analisi condotte possano costituire il punto di partenza di un percorso più ampio, attraverso il quale il tema della parità di genere negli organi di governo e controllo delle organizzazioni aziendali possa essere ulteriormente approfondito e indagato e trovare soluzioni adeguate.

 


Violenza contro le donne

Nell’attuale XVIII legislatura è proseguita l’attività del legislatore volta a introdurre misure per prevenire i reati di violenza nei confronti delle donne, punire severamente i colpevoli ed offrire adeguata protezione alle vittime.

Tale attività si pone in linea di continuità rispetto all’evoluzione normativa già compiuta in materia nella scorsa legislatura, con la ratifica della Convenzione di Istanbul (legge n. 77 del 2013), le modifiche al codice penale e di procedura penale volte ad inasprire le pene di alcuni reati più spesso commessi nei confronti di donne (decreto-legge n. 93 del 2013), l'emanazione del primo “Piano d'azione straordinario contro la violenza di genere” e la previsione di stanziamenti per il supporto delle vittime[48].

 

La ratifica della Convenzione di Istanbul: legge n. 77 del 2013

L’analisi della più recente legislazione volta a contrastare la violenza contro le donne non può che iniziare dalla legge n. 77 del 2013, attraverso la quale l’Italia, nella scorsa legislatura, ha ratificato – tra i primi Paesi europei - la Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica - meglio nota come Convenzione di Istanbul - adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014.

La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante il cui principale obiettivo è quello di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza, nonché prevedere la cooperazione internazionale e il sostegno alle autorità e alle organizzazioni a questo scopo deputate.

Particolarmente rilevante è il riconoscimento espresso della violenza contro le donne quale violazione dei diritti umani, oltre che come forma di discriminazione contro le donne (art. 3 della Convenzione). La Convenzione stabilisce inoltre un chiaro legame tra l'obiettivo della parità tra i sessi e quello dell'eliminazione della violenza nei confronti delle donne ed interviene specificamente anche nell'ambito della violenza domestica, che non colpisce solo le donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali si applicano le medesime norme di tutela. La Convenzione individua negli Stati i primi a dover rispettare gli obblighi da essa imposti, i cui rappresentanti, intesi in senso ampio, dovranno garantire comportamenti privi di ogni violenza nei confronti delle donne.

Gli obiettivi della Convenzione sono elencati nel dettaglio dall'articolo 1: proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l'autonomia e l'autodeterminazione delle donne; predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica.

 

La tutela delle vittime di violenza domestica e di genere nella legge n. 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso)

Prevenzione, punizione e protezione delle vittime dei reati di violenza di genere sono gli obiettivi della legge n. 69 del 2019, approvata dal Parlamento in questa legislatura, e conosciuta dall’opinione pubblica con l’espressione Codice rosso, per sottolineare uno specifico percorso di tutela, anche processuale, delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica.

 

In particolare, per quanto riguarda il diritto penale, la legge ha introdotto nel codice quattro nuovi delitti:

 

Il Ministero dell'interno, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre 2021, ha pubblicato un opuscolo dal titolo Il Punto: La violenza contro le donne, in cui ha reso noti i dati sull’incidenza dei nuovi reati dalla data di entrata in vigore della legge al 31 ottobre 2021, riportati nella tabella seguente:

 

 

I dati sull'applicazione delle nuove fattispecie penali nei quindici mesi presi in considerazione dall’analisi evidenziano, in particolare:

- che il reato con il maggior numero di violazioni tra le nuove fattispecie è quello di cui all’art. 387-bis c.p. (Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa), che ha fatto registrare un incremento del 10% nel periodo gennaio-ottobre 2021 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente. Il maggior numero di infrazioni si riscontra in Sicilia, sia in numeri assoluti che in rapporto alla popolazione residente;

- che si è verificato un rilevante incremento di episodi criminali riconducibili al reato di cui all’art. 558-bis c.p. (Costrizione o induzione al matrimonio) nel periodo gennaio-ottobre 2021 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente (17 episodi contro 7), presumibilmente dovuto ad una maggiore consapevolezza delle vittime a seguito dell’introduzione della nuova norma. In questo caso le vittime sono donne per l’86%: tra queste il 68% è di nazionalità straniera ed il 36% è minorenne;

- che per il reato di cui all’art. 583-quinquies c.p. (Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso), che ha sostituito ipotesi delittuose precedentemente configurate come aggravanti del delitto di lesioni personali, è superiore l’incidenza delle vittime di sesso maschile (78%); di genere maschile è anche il 92% degli autori del reato. Da tali dati si desume che questa fattispecie non attiene precipuamente ad una dinamica uomo/donna;

- che il reato che ha subito l’incremento percentuale maggiore, pari al 45% nel periodo gennaio-ottobre 2021 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, è quello di cui all’art. 612-ter (Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti). Il maggior numero di violazioni in termini assoluti è stato commesso in Lombardia (435 casi su 2.329 totali), mentre in rapporto alla popolazione residente la regione in cui si sono registrati più casi è il Molise con 6,1 ogni 100.000 abitanti ed un’incidenza del genere femminile dell’81% (entrambi i dati risultano notevolmente superiori alla media nazionale di 3,9 casi ogni 100.000 abitanti ed un’incidenza del genere femminile pari al 73%). Le vittime sono prevalentemente maggiorenni (82%) e di nazionalità italiana (87%).

 

Con ulteriori interventi sul codice penale, la legge n. 69 del 2019 ha previsto modifiche al delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) volte a:

Inoltre, il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi è inserito nell'elenco dei delitti che consentono nei confronti degli indiziati l'applicazione di misure di prevenzione, tra le quali è inserita la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona da proteggere.

 

La legge ha modificato anche:

Infine, con una modifica all'art. 165 c.p., la legge n. 69 del 2019 ha previsto che la concessione della sospensione condizionale della pena per i delitti di violenza domestica e di genere sia subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero.

 

Una autorevole analisi delle modifiche al codice penale apportate dalla legge n. 69 del 2019 è contenuta nella relazione n. 62/2019, curata dall'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.

 

Per quanto riguarda la procedura penale, l’impianto della legge mira a velocizzare l'instaurazione del procedimento penale per i delitti di violenza domestica e di genere, conseguentemente accelerando l'eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime (c.d. Codice rosso).

A tal fine, la legge n. 69 del 2019 prevede, a fronte di notizie di reato relative a delitti di violenza domestica e di genere:

 

Notizie dettagliate su come le Procure della Repubblica si siano conformate al dettato legislativo che ha introdotto il termine di 3 giorni per l'assunzione di informazioni dalla persona offesa sono contenute nel Rapporto del Ministero della Giustizia su Un anno di Codice Rosso.

 

Con ulteriori interventi sul codice di procedura penale, inseriti nel corso dell'esame alla Camera, la legge, tra l'altro:

 

Infine, accanto alle modifiche al codice di procedura penale e al codice penale, la legge n. 69 del 2019 prevede ulteriori disposizioni volte:

 

Il nuovo ddl governativo per la prevenzione e il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica

Nella seduta del 3 dicembre 2021 (v. comunicato stampa) il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge recante “disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica”.

Il ddl, che è stato presentato in Senato il 16 febbraio 2022 e di cui non è ancora iniziato l’iter parlamentare, interviene con modifiche ai codici penale, di procedura penale, delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (d.lgs. n. 159/2011) e ad alcune leggi speciali al fine di rendere maggiormente efficace l’impianto delle misure di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne.

 

Tra le disposizioni introdotte dal disegno di legge si segnalano in particolare:

- ammonimento del questore: viene esteso ad ulteriori condotte che possono assumere valenza sintomatica rispetto a situazioni di pericolo per l'integrità psico-fisica delle persone, nel contesto delle relazioni familiari ed affettive. Le pene dei reati suscettibili di ammonimento sono aumentate quando il fatto è commesso da soggetto già ammonito;

- braccialetto elettronico: ne viene ampliato l’utilizzo, sia per gli arresti domiciliari, sia in caso di divieto di avvicinamento od obbligo di allontanamento dalla casa familiare. Chi non acconsente alla sua applicazione, subisce una misura cautelare più grave. In caso di manomissione del dispositivo, è prevista la custodia cautelare in carcere;

- arresto in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento: si introduce la c.d. flagranza differita ovvero viene considerato in stato di flagranza colui il quale risulta autore del reato sulla base di documentazione video fotografica dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto. L’arresto consegue non solo alla violazione della misura disposta in sede penale, ma anche a quella prevista dal giudice civile;

- fermo: può essere disposto dal p.m., con decreto motivato, nei confronti della persona gravemente indiziata di maltrattamenti contro i familiari, lesioni personali e stalking;

- misure di prevenzione personale: ne estende l'applicabilità ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati commessi nell'ambito dei fenomeni della violenza di genere e della violenza domestica (violenza sessuale, omicidio, deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso) e ai soggetti che, già ammoniti dal questore, risultino indiziati dei delitti di percosse, lesioni, violenza privata, minacce aggravate, violazione di domicilio e danneggiamento, commessi nell'ambito di violenza domestica;

- misure cautelari coercitive: se ne consente l’applicazione per tutti i casi di lesioni, quando ricorrono le aggravanti del Codice rosso;

- sospensione condizionale della pena: viene revocata in caso di mancata partecipazione del condannato al percorso di recupero;

- obbligo informativo sulle situazioni di pericolo: si estendono i reati per i quali scatta l’obbligo, da parte delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia dei reati, di informare la vittima sui centri antiviolenza presenti sul territorio e di metterla in contatto con questi centri, ove ne faccia richiesta;

- scarcerazione dell’imputato: i provvedimenti di cessazione della misura di sicurezza detentiva devono essere immediatamente comunicati alla persona offesa, al questore e al prefetto, per valutare eventuali misure di prevenzione e/o protezione della vittima;

- provvisionale a favore della vittima: viene introdotta la possibilità per i gravi delitti in tema di violenza di genere e violenza domestica di chiedere una provvisionale anticipata da imputare poi all’indennizzo definitivo. In caso di morte della vittima, la provvisionale può essere richiesta dagli aventi diritto.

Il Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (e le risorse per la sua attuazione)

Nella scorsa legislatura, con il decreto-legge n. 93 del 2013 (recante, tra le altre, disposizioni urgenti in per il contrasto della violenza di genere) il legislatore ha demandato al Governo l’adozione di piani straordinari per contrastare la violenza contro le donne.

La disciplina del Piano è stata in parte recentemente modificata dall’art. 1, comma 149, della legge di bilancio 2022 (legge n. 234/2021), che ne ha innanzitutto mutato la denominazione da Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere a Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Tale denominazione ricalca la terminologia utilizzata nella Convenzione di Istanbul; inoltre il Piano perde la qualifica di “straordinario” per diventare uno strumento “strategico” nel contrasto alla violenza sulle donne.

Ulteriori modifiche apportate dalla legge di bilancio riguardano:

-    l'elaborazione del Piano da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri o dell'Autorità politica delegata per le pari opportunità (non più dal Ministro per le pari opportunità), con cadenza almeno triennale (non più biennale) e previo parere (anziché previa intesa) in sede di Conferenza unificata;

-    l'istituzione di una Cabina di regia interistituzionale e di un Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri;

-    la soppressione dell'obbligo di trasmissione annuale alle Camere di una relazione sull'attuazione del Piano da parte del Ministro delegato per le pari opportunità.

 

Gli interventi di natura penale e processuale penale
nel decreto-legge n. 93 del 2013

 

A pochi mesi di distanza dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, nella scorsa legislatura il Parlamento ha convertito in legge il decreto-legge n. 93 del 2013, volto tra l’altro a prevenire e reprimere la violenza domestica e di genere.

Oltre a prevedere l’obbligo per il Governo di adottare un Piano d’azione contro la violenza di genere, il decreto-legge è intervenuto sul codice penale, introducendo un'aggravante comune per i delitti contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori o di una donna in gravidanza; modificando le aggravanti per i delitti di violenza sessuale per prevedere specifiche circostanze relative alla commissione dei delitti nei confronti di familiari; modificando il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), con particolare riferimento al regime della querela di parte e all’aggravante per fatto commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

Il decreto-legge ha inoltre modificato alcune previsioni del codice di procedura penale, intervenendo sulla disciplina delle intercettazioni (consentite anche nelle indagini per stalking), sulle misure dell’allontanamento - anche d'urgenza - dalla casa familiare e dell'arresto obbligatorio in flagranza dell'autore delle violenze, sugli obblighi di comunicazione da parte dell'autorità giudiziaria alla persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonché sulle modalità protette di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti particolarmente vulnerabili. Inoltre, con una modifica delle disposizioni di attuazione del codice di procedura, il decreto-legge ha inserito i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d'udienza.

Sempre a tutela delle vittime dei reati di violenza domestica e di genere, la riforma del 2013: ha introdotto la misura di prevenzione dell'ammonimento del questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking; ha esteso alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili l'ammissione al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito; ha riconosciuto agli stranieri vittime di violenza domestica la possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno ed ha infine stabilito che la relazione annuale al Parlamento sull'attività delle forze di polizia e sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica debba contenere un'analisi criminologica della violenza di genere.

 

Dopo l'emanazione nel 2015 del primo Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere e del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020, è stato recentemente adottato il terzo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il biennio 2021-2023.

 

Il Piano 2021-2023 ripropone la struttura del Piano precedente, con un’articolazione in 4 Assi tematiche (prevenzione, protezione e sostegno, perseguire e punire, assistenza e promozione) secondo le linee indicate dalla Convenzione di Istanbul, a ciascuna delle quali si ricollegano specifiche priorità.

Quanto alla prevenzione, le priorità sono: l’aumento del livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle cause e le conseguenze della violenza maschile sulle donne; il coinvolgimento del settore privato (social, piattaforme, mass media) sul ruolo di stereotipi e sessismo, anche in relazione alla cyberviolenza e alla diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti; la promozione dell’empowerment femminile; l’attivazione di azioni di emersione e contrasto della violenza contro donne vittime di discriminazione multipla; il rafforzamento per la prevenzione della recidiva per uomini autori di violenza; la formazione delle figure professionali che, a vario titolo, interagiscono con le donne vittime e con i minori nel percorso di prevenzione, sostegno e reinserimento; il raccordo delle misure normative anche nell’ambito della prevenzione della vittimizzazione secondaria.

Sul versante della protezione e del sostegno alle vittime, la priorità sono: la presa in carico delle donne vittime di violenza e dei minori vittime di violenza assistita; l’attivazione di percorsi di empowerment economico finanziario, lavorativo e autonomia abitativa; il monitoraggio ed il miglioramento dell’efficacia dei “Percorsi rivolti alle donne che subiscono violenza” attivi presso le aziende sanitarie e ospedaliere; il potenziamento della Linea telefonica nazionale gratuita antiviolenza 1522; la tutela e il sostegno psicosociale delle/dei minori vittime di violenza assistita; l’implementazione di soluzioni operative per garantire l’accesso ai servizi di prevenzione, sostegno e reinserimento, in particolare per le donne vittime di discriminazione multipla (migranti, richiedenti asilo e rifugiate).

Riguardo all’asse perseguire e punire, le priorità sono: garantire procedure e strumenti per la tutela delle donne vittime di violenza che consentano una efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità, di reiterazione e di recidiva; definire un modello condiviso di approccio, gestione e valutazione del rischio all’interno del reparto sicurezza; migliorare l’efficacia dei procedimenti giudiziari nell’applicazione di misure cautelari e della sospensione condizionale della pena; definire linee guida per l’analisi ed il monitoraggio qualitativo e quantitativo degli interventi svolti nell’ambito dei programmi per uomini maltrattanti.

Infine, nel campo dell’assistenza e della promozione, le priorità sono: l’implementazione del sistema informativo integrato per la raccolta e l’analisi dei dati sul fenomeno; l’implementazione di un sistema di monitoraggio e valutazione a livello nazionale degli interventi, delle politiche, delle attività e delle risorse; la predisposizione di linee guida, in accordo con le regioni, per uniformare a livello nazionale gli standard qualitativi e quantitativi dei servizi erogati dai centri antiviolenza, dalle reti territoriali e dal sistema socio sanitario; la costruzione di luoghi stabili di confronto e programmazione per gli organismi politici, le istituzioni e le strutture amministrative; la comunicazione e degli strumenti normativi e degli interventi operativi in sostegno alle donne vittime di violenza maschile.

 

Per quanto riguarda le risorse finanziarie a sostegno degli interventi previsti dal Piano, occorre fare riferimento alle risorse del Fondo per le pari opportunità che sono appostate - unitamente agli altri eventuali ulteriori interventi a carico del Fondo - nel cap. 2108 dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze (MEF), per essere successivamente trasferite al bilancio della Presidenza del Consiglio, dove il cap. 496 contiene le somme da destinare al Piano contro la violenza alle donne.

Nel bilancio di previsione 2022 della Presidenza del Consiglio il cap. 496 reca uno stanziamento di 39,1 milioni di euro.

Stanziamenti per il Piano nel bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio

                                                                                               (in mln di euro)

anno

2016

2017

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

stanziamento

18,0

21,7

35,4

33,1

27,6

31,5

39,1

36,0

36,0

 

Nella nota preliminare di accompagnamento del bilancio 2022 della Presidenza del Consiglio dei ministri si legge che le risorse disponibili per l’anno in corso (euro 39.099.181,00) saranno destinate a:

- iniziative connesse all’attuazione del Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023;

- iniziative per la prevenzione e il contrasto della violenza maschile contro le donne, comprese quelle di comunicazione e sensibilizzazione;

- riparto a favore delle Regioni nell'ambito della ripartizione delle risorse del "Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità", annualità 2022, di cui all'articolo 5-bis, comma 1, del decreto-legge n. 93 del 2013 (v. infra);

- attuazione delle misure concernenti il c.d. reddito di libertà, istituito a favore delle donne vittime di violenza (art. 105-bis del d.l. n. 34/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77/2020);

- istituzione e potenziamento dei centri per uomini autori di violenza (art. 26-bis del d.l. n. 104/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 126/2020);

- gestione del call center dedicato al numero verde nazionale di pubblica utilità 1522 a sostegno delle vittime di violenza di genere e stalking;

- potenziamento del monitoraggio delle politiche e dei progetti in materia di prevenzione e contrasto della violenza maschile sulle donne.

 

Inoltre, l'articolo 5-bis del decreto-legge n. 93 del 2013 prevede che annualmente le risorse del Fondo per le pari opportunità siano ripartite alle Regioni al fine di finanziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli, attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei Centri antiviolenza e dei servizi di assistenza (Case rifugio) alle donne vittime di violenza.

Da ultimo, il D.P.C.M. 16 novembre 2021 ha decretato la ripartizione del Fondo a favore delle regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano per l'anno 2021.

Le risorse, nella misura di 20 milioni di euro, sono state ripartite tra Regioni e Province autonome in base ai seguenti criteri:

a) 10 milioni per il finanziamento dei centri antiviolenza pubblici e privati già esistenti in ogni regione;

b) 10 milioni per il finanziamento delle case-rifugio pubbliche e private già esistenti in ogni regione.

 

Per quanto riguarda gli interventi riconducibili al contrasto alla violenza di genere, l’ultima legge di bilancio ha stanziato, per il 2022, ulteriori risorse con le seguenti finalizzazioni:

- 2 milioni di euro destinati, da un lato, all'istituzione e al potenziamento dei centri di riabilitazione per uomini maltrattanti e al loro funzionamento e, dall'altro, ad attività di monitoraggio e raccolta dati (commi 661-666);

- 5 milioni di euro destinati ai centri antiviolenza e alle case rifugio (comma 668);

- 10 milioni di euro destinati, da un lato, all'implementazione dei centri per il recupero degli uomini maltrattanti (5 milioni di euro) e, dall'altro, a interventi per favorire l'indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà (5 milioni di euro) (commi 669-670);

- lo stanziamento di 2 milioni di euro per il 2022 per interventi relativi ai percorsi di trattamento psicologico per il reinserimento nella società dei condannati per reati sessuali, per maltrattamenti contro familiari o conviventi e per atti persecutori (comma 667);

- il contributo pari a 200.000 euro per il 2022 in favore dell'Associazione DONNEXSTRADA, al fine precipuo di favorire la sicurezza ''per strada'' delle donne, prevenire comportamenti violenti e/o molesti attraverso lo sviluppo sulla rete intermodale dei trasporti di servizi di sostegno immediato e di prossimità alle potenziali vittime (comma 968).

 

Il sostegno economico alle vittime della violenza di genere

Nel corso della XVII legislatura è stata data piena attuazione alla direttiva 2004/80/CE, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, che vincola gli Stati membri UE a prevedere un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime.

Con la legge n. 122 del 2016 (Legge europea 2015-2016), peraltro poi modificata dalla legge europea 2017 (legge n. 167 del 2017), il legislatore ha riconosciuto il diritto all'indennizzo «alla vittima di un reato doloso commesso con violenza alla persona e comunque del reato di cui all'articolo 603-bis del codice penale [caporalato], ad eccezione dei reati di cui agli articoli 581 [percosse] e 582 [lesioni personali], salvo che ricorrano le circostanze aggravanti previste dall'articolo 583 del codice penale».

L'indennizzo è elargito per la rifusione delle spese mediche e assistenziali; per i reati di violenza sessuale e di omicidio l'indennizzo è comunque elargito, alla vittima o agli aventi diritto, anche in assenza di spese mediche e assistenziali.

Con decreto dei Ministri dell'interno e della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, del 22 novembre 2019, sono stati stabiliti gli importi dell'indennizzo riconoscibile alle vittime dei reati intenzionali violenti.

 

Reato

Importo indennizzo

Omicidio

50.000 euro

Omicidio commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa

60.000 euro (esclusivamente in favore dei figli della vittima)

Violenza sessuale, salvo che ricorra la circostanza attenuante del caso di minore gravità prevista dall'art. 609-bis, terzo comma, c.p.

25.000 euro

Lesioni personali gravissime di cui all'art. 583, comma 2, c.p.

Deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso di cui all'art. 583-quinquies c.p.

25.000 euro

 

Per i delitti per i quali è previsto l'indennizzo, tale somma può essere incrementata fino a ulteriori 10.000 euro per le spese mediche e assistenziali documentate.

Per ogni altro delitto, l'indennizzo è erogato solo per la rifusione delle spese mediche e assistenziali documentate, fino a un massimo di 15.000 euro.

Evoluzione del fenomeno e recenti dati statistici

L'ordinamento italiano non prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente verso le donne, né prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti abbiano la donna come vittima. Per il nostro diritto penale, se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo, e conseguentemente non è stato fino a pochi anni fa censito nelle statistiche giudiziarie.

Alla carenza di dati sull'incidenza dei reati che hanno le donne come vittime hanno ora ovviato l'Istituto nazionale di statistica e il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, che hanno reso disponibile, sul sito dell'ISTAT, un apposito portale internet, che fornisce un quadro informativo integrato sulla violenza contro le donne in Italia. È a questo portale che occorre riferirsi per i dati più aggiornati sulla violenza di genere, anche in prospettiva europea e internazionale.

 

Sul fronte parlamentare, dati e informazioni aggiornate sulla violenza di genere sono messe a disposizione dalla Commissione monocamerale di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere istituita anche in questa legislatura dal Senato (delibera del 16 ottobre 2018) che si prefigge proprio il compito di svolgere indagini sulle reali dimensioni, condizioni, qualità e cause del femminicidio, di monitorare la concreta attuazione della Convenzione di Istanbul, nonché di accertare le possibili incongruità e carenze della normativa vigente.

 

In esito ai propri lavori la Commissione ha sino ad oggi approvato i seguenti documenti:

- relazione su "Misure per rispondere alle problematiche delle donne vittime di violenza dei centri antiviolenza, delle case rifugio e degli sportelli antiviolenza e antitratta nella situazione di emergenza epidemiologica da COVID-19" (Doc XXII bis n. 1);

- relazione sui dati riguardanti la violenza di genere e domestica nel periodo di applicazione delle misure di contenimento per l'emergenza da COVID-19 (Doc XXII bis n. 2);

- relazione sulla Governance dei servizi antiviolenza e sul finanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio (Doc XXII bis n. 3);

- relazione su "Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria" (Doc XXII bis n. 4);

- relazione su "Contrasto alla violenza di genere: una prospettiva comparata" (Doc XXII bis n. 5);

- relazione sulle mutilazioni genitali femminili (Doc XXII bis n. 6);

- relazione su "La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018” (Doc XXII bis n. 7).

 

Un’accurata analisi dei delitti riconducibili al fenomeno della violenza maschile contro le donne viene svolta periodicamente dal Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell'interno, che sul sito web pubblica report settimanali e semestrali di monitoraggio dei più diffusi reati contro le donne.

L’analisi al momento più aggiornata su tali reati è quella contenuta nella pubblicazione Il Punto: La violenza contro le donne del 25 novembre 2021, precedentemente citata in relazione ai dati riguardanti i nuovi delitti introdotti dalla legge sul Codice rosso (v. sopra).

Il rapporto contiene anche statistiche sui c.d. reati spia della violenza di genere ovvero quei delitti che, essendo espressione di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, diretta contro una donna in quanto tale, sono indicatori di violenza di genere (atti persecutori, di cui all’art. 612-bis c.p., maltrattamenti contro familiari e conviventi, di cui all’art art. 572 c.p. e violenze sessuali, di cui agli artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p.). Il periodo esaminato è quello che va da gennaio ad ottobre 2021, raffrontato con il corrispondente periodo dell'anno precedente.

In valori assoluti, i dati dei reati commessi sono sostanzialmente sovrapponibili nei due periodi presi in esame (con una lieve flessione per gli atti persecutori ed i maltrattamenti ed un lieve aumento per le violenze sessuali). Si tratta, comunque, di valori costantemente elevati e che non fanno registrare flessioni; particolarmente elevata risulta essere l’incidenza delle vittime di sesso femminile, che va dal 73% nel caso degli atti persecutori, all'82% per i maltrattamenti, fino ad arrivare al 92% con riguardo alle violenze sessuali.

 

 

 

 

 


 

 

 


La pubblicazione del Ministero dell'interno contiene poi l’analisi sulla nazionalità e l'età delle vittime e degli autori dei reati e ulteriori dati sui provvedimenti di ammonimento da parte del questore.

In particolare, si evidenzia come nel periodo gennaio/ottobre 2021 ci sia stato un notevole incremento, rispetto al 2020, dei provvedimenti di ammonimento previsti dalla normativa sullo stalking (art. 8, D.L. n. 11/2009) ed in particolare quelli sulla violenza domestica (art. 3, D.L. n. 93/2013) mentre risultano in calo i provvedimenti di allontanamento d'urgenza dalla casa familiare (art. 384-bis c.p.p.).

 

 

 

Un ampio paragrafo è dedicato agli omicidi volontari di donne, con particolare focus su quelli riconducibili all’ambito familiare/affettivo (c.d. femminicidi). Per quanto concerne il dato generale sugli omicidi, nel periodo 1° gennaio - 31 ottobre 2021 sono stati registrati 246 omicidi, con 102 vittime donne, di cui 86 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 59 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Rispetto all’analogo periodo dell’anno 2020 si rileva un lieve incremento (+0,4%) nell’andamento generale degli eventi (da 245 a 246), mentre il numero delle vittime di genere femminile mostra un aumento significativo, passando da 95 a 102 (+7%).

 

 

Facendo invece un raffronto tra i dati relativi agli omicidi commessi in ambito familiare/affettivo nel periodo gennaio/ottobre 2021 con quelli del corrispondente periodo del 2020, si registra un aumento da 121 a 126 delitti (+4%); tra le vittime, quelle di genere femminile crescono da 82 a 86, con un incremento percentuale più marcato (+5%) rispetto al trend generale. Lo stesso incremento (+5%) peraltro si riscontra con riguardo alle donne vittime di partner o ex partner, che passano da 56 a 59.

 

 

Per quanto riguarda in particolare i femminicidi, dati ancora più aggiornati sono stati pubblicati dal Ministero dell’interno nel report settimanale sugli omicidi volontari del 21 febbraio 2022. Nel report vengono confrontati i dati relativi al periodo 1° gennaio 2021/ 20 febbraio 2021 con quelli dello stesso periodo dell’anno 2022, dai quali emergerebbe un drastico calo sia delle vittime donne in generale (15 nel 2021 / 10 nel 2022), sia di quelle uccise in ambito familiare/affettivo in particolare (13 nel 2021 / 9 nel 2022). Tuttavia lo stesso report evidenzia come la limitatezza dell’arco temporale preso in considerazione non consenta di elaborare dati statistici significativi.

Si riporta in ogni caso, per completezza di informazione, la tabella di raffronto tra i dati registrati nell’ultimo triennio (2019-2021) e quella dei periodi sopra indicati.

 

 

I dati pubblicati dal Ministero dell'Interno sono stati, come di consueto, oggetto di disamina nella relazione che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, Giovanni Salvi, ha presentato in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2022. Il Procuratore, dopo aver ricordato come, a fronte della costante diminuzione degli omicidi volontari, gli omicidi con vittime di sesso femminile restano stabili e ne aumenta quindi l’incidenza statistica (ormai superiore al 30%), afferma che l’azione di contrasto al crimine non si è finora dispiegata in modo efficace contro i femminicidi e, più in generale, contro i reati più frequentemente commessi a danno delle donne, nonostante le importanti misure assunte negli ultimi anni dal legislatore, in primis il Codice Rosso. Il Procuratore ha quindi indicato la necessità di coordinamento di tutti i soggetti coinvolti nel contrasto alla violenza di genere (autorità amministrative, ASL, centri antiviolenza, case-famiglia e case-rifugio) e tra tutte le autorità giudiziarie procedenti e la formazione specializzata e permanente degli operatori del diritto su queste tematiche quali soluzioni per contrastare efficacemente tutte le forme di violenza contro le donne.

 


Giurisprudenza costituzionale sull’accesso delle donne agli uffici e alle cariche pubbliche

Principi costituzionali

L’articolo 3 della Costituzione sancisce il principio di eguaglianza senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Alla Repubblica è affidato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Al contempo, norma fondamentale in tema di partecipazione alla vita politica è l'articolo 51, primo comma, della Costituzione, secondo il quale “tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.

A seguito di una modifica del 2003 (L. Cost. n. 1/2003), dovuta anche ad un orientamento espresso dalla Corte costituzionale in una sentenza del 1995 (v. infra) è stato aggiunto un periodo all’art. 51 Cost. in base al quale “A tal fine, la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

Si è in tal modo segnato un passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento uomo-donna alla prospettiva dinamica delle pari opportunità, con la finalità di raggiungimento di un'uguaglianza sostanziale come già riconosciuta dall'art. 3 e secondo lo spirito della Convenzione ONU per la eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) del 1979 nonché della Dichiarazione di Pechino del 1995, atti che mirano al raggiungimento di una parità de facto.

A livello sovranazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - che con il trattato di Lisbona ha assunto valore vincolante per il nostro ordinamento - prevede che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi e che il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (art. 23 inserito nel Capo III relativo all'uguaglianza).

L'articolo 117, settimo comma, Cost. (introdotto dalla L. Cost. n. 3/2001) prevede inoltre che "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive." Analogo principio è stato introdotto negli statuti delle regioni ad autonomia differenziata dalla legge costituzionale n. 2 del 2001.

I principali orientamenti della giurisprudenza costituzionale

La sentenza della Corte costituzionale n. 422/1995 sulle c.d. “quote rosa” in materia elettorale (ante riforma dell’art. 51 Cost.)

Secondo un primo orientamento della Corte costituzionale risalente alla metà degli anni Novanta, espresso nella sentenza n. 422 del 12 settembre 1995, la previsione di quote di genere in campo elettorale si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, sancito dagli articoli 3 e 51 della Costituzione.

La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme contenute nelle leggi per le elezioni politiche, regionali ed amministrative che stabilivano una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati[49]. Diversamente è stata valutata la disposizione contenuta nella legge elettorale del Senato, in quanto – ha argomentato la Corte – quest’ultima ha carattere essenzialmente programmatico, limitandosi a sancire il principio dell’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini.

Nella motivazione della sentenza, la Corte ha affermato che l’art. 3, primo comma e l’art. 51, primo comma Cost. (ante riforma del 2003) «garantiscono l’assoluta eguaglianza tra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità: ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la ‘candidabilità’». Infatti, la possibilità di essere candidato “non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto e beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo” sancito dall’art. 51 Cost. Secondo la Corte, viene pertanto a porsi in contrasto con i citati parametri costituzionali “la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati”.

In conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale le norme sopra richiamate volte alla tutela della rappresentanza femminile decaddero.

Dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1995 si pose la questione della necessità di modificare la Costituzione in modo da consentire interventi normativi sulle leggi elettorali tali da incentivare la presenza delle donne negli organismi rappresentativi elettivi.

Successivamente, il quadro costituzionale è mutato, anche in conseguenza della posizione espressa dalla Corte, fino a giungere alla modifica dell’art. 51 Cost.

 

La riforma costituzionale del Titolo V del 2001 ha riaffermato il principio della parità di accesso alle cariche elettive in ambito regionale e la legge costituzionale n. 1 del 2003 ha riconosciuto espressamente la promozione, con appositi provvedimenti, delle pari opportunità tra uomini e donne nella vita pubblica.

 

La prima sentenza della Corte sulle c.d. quote rosa interveniva a due anni da un’altra pronuncia importante (sentenza n. 109 del 1993) con la quale la Corte aveva riconosciuto la legittimità costituzionale delle azioni positive in favore delle donne, in particolare nel campo del sostegno all’imprenditoria femminile.

Secondo il ragionamento condotto dalla Corte in tale occasione, le incentivazioni finanziarie disposte dalla L. n. 215 del 1992 a favore di imprese a prevalente partecipazione femminile o condotte da donne, mirando a compensare (ovvero ad attenuare) lo squilibrio storicamente esistente a danno del sesso femminile nel campo dell'imprenditoria, rientrano fra le "azioni positive" finalizzate alla realizzazione dell'eguaglianza effettiva tra uomini e donne; perciò, trattandosi di una disciplina positivamente differenziata in vista dell'attuazione uniforme, su tutto il territorio nazionale, di un valore costituzionale primario, l'indiretta incidenza di essa sulle politiche di incentivazione promosse dalle regioni nei settori materiali di loro competenza, non può costituire motivo di illegittimità costituzionale, ma esige, piuttosto, la previsione di adeguati strumenti di cooperazione fra lo Stato e le regioni (o le province autonome).

Gli orientamenti giurisprudenziali successivi alla riforma dell’art. 51 Cost.

Dopo la sentenza del 1995, la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sul tema delle pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive con la sentenza n. 49 del 13 febbraio 2003, pronunciata dopo le riforme costituzionali del 2001 relative agli ordinamenti regionali ma prima della modifica dell'articolo 51.

Innovando notevolmente il proprio orientamento, la Corte ha ritenuto legittime le modifiche alla normativa per l’elezione dei consigli regionali approvate dalla regione Valle d’Aosta che stabiliscono che ogni lista di candidati all'elezione del Consiglio regionale deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi e che vengano dichiarate non valide dall'ufficio elettorale regionale le liste presentate che non corrispondano alle condizioni stabilite. La stessa Corte ha evidenziato che tale normativa deve essere valutata alla luce di un quadro costituzionale di riferimento che si è evoluto rispetto a quello in vigore all’epoca della pronuncia n. 422/1995.

Le disposizioni censurate, secondo il ragionamento svolto dalla Corte, “stabiliscono un vincolo non già all'esercizio del voto o all'esplicazione dei diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le liste elettorali, precludendo loro (solo) la possibilità di presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso. Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, e non incide su di essa. La scelta degli elettori tra le liste e fra i candidati, e l'elezione di questi, non sono in alcun modo condizionate dal sesso dei candidati”.

Ribadito che il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva, la Corte ha ritenuto che la “misura disposta dalla regione Valle D’Aosta può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell'intento di realizzare la finalità promozionale espressamente sancita dallo statuto speciale in vista dell'obiettivo di equilibrio della rappresentanza”. Infine, la Corte ha affermato che la finalità di conseguire una “parità effettiva” fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è “positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale” e che tale esigenza è espressamente riconosciuta anche nel contesto normativo dell’Unione europea ed internazionale.

 

Nella successiva ordinanza n. 39 del 2005, la Corte costituzionale affronta una questione sollevata dal Consiglio di Stato riguardante l'obbligo legislativamente previsto di inserire almeno un terzo di donne nelle Commissioni di concorso, quindi una vera quota di risultato sia pure prevista per un organo amministrativo. Il Consiglio di Stato richiama proprio la sentenza del 1995 a sostegno delle proprie argomentazioni nel senso dell'incostituzionalità della disposizione che prevedeva l'obbligo della presenza femminile. La Corte costituzionale ritiene peraltro che il richiamo alla sentenza del 1995 non è sufficiente alla luce della modifica dell'articolo 51 intervenuta nel 2003 e dichiara pertanto la questione manifestamente inammissibile per carenza di motivazione.

La sentenza 14 gennaio 2010, n. 4 sulla ‘doppia preferenza di genere'

La pronuncia più rilevante sul tema delle misure positive per promuovere le pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive è rappresentata dalla sentenza n. 4 del 2010, con cui la Corte, richiamando il principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo relativa all'introduzione della ‘doppia preferenza di genere' da parte della legge elettorale della Campania, in considerazione del carattere promozionale e della finalità di riequilibrio di genere della misura.

 

La L.R. Campania n. 4/2009, è la prima legge regionale ad introdurre la c.d. “preferenza di genere” nelle elezioni regionali, che poi verrà utilizzata ampiamente anche nelle altre regioni e per le elezioni dei membri italiani del Parlamento europeo, sulla base delle previsioni della legge n. 65 del 2014. Con tale espressione ci si riferisce alla possibilità per l’elettore di esprimere uno o due voti di preferenza e che, nel caso, di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile ed una un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza (art. 4, co. 3).

 

Con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 4, la Corte ha dichiarato che tale innovativa previsione non viola la Costituzione. Piuttosto, la finalità della nuova regola elettorale è dichiaratamente quella di ottenere un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi all’interno del Consiglio regionale, in linea con i principi ispiratori del riformato art. 51, primo comma, Cost., e dell’art. 117, settimo comma, Cost., nel testo modificato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (entrambi espressione del principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.).

È vero che la giurisprudenza costituzionale esclude che possano essere legittimamente introdotte nell’ordinamento misure che «non si propongano di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi» (sent. n. 422 del 1995). Tenendo ferma questa fondamentale statuizione, la Corte, in epoca precedente alla riforma dell’art. 51 Cost., ha precisato che i vincoli imposti dalla legge per conseguire l’equilibrio dei generi nella rappresentanza politica non devono incidere sulla «parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale» (sent. n. 49 del 2003).

Sulla scorta di questi precedenti, la Corte ha motivato la sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale basandosi sui seguenti argomenti:

·        la disposizione campana, per la sua formulazione, non prefigura il risultato elettorale, ossia non altera la composizione dell’assemblea elettiva rispetto a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori in assenza della regola contenuta nella norma medesima né attribuisce ai candidati dell’uno o dell’altro sesso maggiori opportunità di successo elettorale rispetto agli altri. In altri termini, la «nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta, quindi, di una misura promozionale, ma non coattiva»;

Infatti, «l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso. Solo se decide di avvalersi della possibilità di esprimere una seconda preferenza, la scelta dovrà cadere su un candidato della stessa lista, ma di sesso diverso da quello del candidato oggetto della prima preferenza. Nel caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda preferenza, ferma restando pertanto la prima scelta dell’elettore»[50];

·        i diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono inalterati. Il primo perché l’elettore può decidere di non avvalersi della possibilità di esprimere la seconda preferenza, che gli viene data in aggiunta al regime della preferenza unica, e scegliere indifferentemente un candidato di genere maschile o femminile. Il secondo perché la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre possibilità maggiori ai candidati dell’uno o dell’altro sesso di essere eletti, posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice».

 

Merita segnalare anche la sentenza n. 81 del 2012 con la quale la Corte esamina un conflitto di attribuzione fra enti proposto dalla Regione Campania, avente ad oggetto la sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, n. 4502 del 27 luglio 2011, che aveva annullato l’atto del Presidente della Giunta regionale di nomina di un assessore. Secondo quanto previsto infatti nella norma statutaria il Presidente della Giunta nella nomina degli assessori è tenuto ad assicurare “il pieno rispetto del principio di una equilibrata presenza di donne e uomini”, principio che il giudice amministrativo non riteneva soddisfatto con la nomina di undici assessori uomini e di una sola donna nell’esecutivo campano.

La Corte costituzionale dichiara inammissibile il conflitto, ma non manca di cogliere l’occasione per entrare nel merito della questione della equilibrata presenza di genere all’interno delle Giunte, sostenendo che la discrezionalità politica incontra un limite nell’esistenza di un vincolo giuridico derivante dal quadro normativo, costituzionale e legislativo, attualmente vigente in materia di equilibrio di genere anche con riferimento alla nomina dei componenti di una Giunta. La sentenza infatti riconosce indirettamente la natura prescrittiva delle norme poste in tema di parità di genere dallo Statuto Campano, “in armonia” con l’art. 51, primo comma, e 117, settimo comma, della Costituzione, e la loro natura di vincolo per il vertice dell’esecutivo.

La Corte e l’accesso agli uffici pubblici

Le possibilità di discriminazione delle donne in politica, nell’accesso alle cariche pubbliche, sono solo una delle manifestazioni di una serie di discriminazioni che hanno interessato le donne in diversi settori delle attività lavorative, sia nel settore pubblico che in quello privato, legate a stereotipi sulle professioni appannaggio dell’uno e dell’altro sesso.

La Corte costituzionale si è soffermata innanzitutto sulle c.d. discriminazioni dirette, cioè quelle previsioni di legge che pongono trattamenti esplicitamente differenti tra un genere e l’altro, affermate in molti casi da normative risalenti al periodo precedente l’entrata in vigore della Costituzione ed il suo articolo 51.

Tra queste, si può ricordare, per importanza, la sentenza n. 33 del 1960, con la quale venne dichiarata l’illegittimità della norma (articolo 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176) che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato (tra i quali, ad es., l’ufficio di prefetto e di magistrato), norma che fu considerata in aperto contrasto col principio di eguaglianza sancito nell'art. 3 e riaffermato, per quanto riguarda l'accesso agli uffici pubblici, nell'art. 51 della Costituzione.

 

Con la sentenza n. 33 del 1960, la Corte in particolare ebbe modo di chiarire che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa. L'art. 51 della Costituzione, con l'inciso "secondo i requisiti stabiliti dalla legge", non sta a significare che il legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discrezionalità, dettare norme attinenti al requisito del sesso, ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in casi determinati e senza infrangere il principio fondamentale dell'eguaglianza, l'appartenenza all'uno o all'altro sesso come requisito attitudinario, che faccia presumere, senza bisogno di ulteriori prove, gli appartenenti ad un sesso forniti della idoneità, che manca o esiste in misura minore negli appartenenti all'altro sesso, a ricoprire un ufficio pubblico determinato.

 

Non sono mancate pronunce “a rovescio”, nelle quali la Corte ha stigmatizzato l’esclusione degli uomini dall’esercizio di determinate professioni, come quella di insegnante nella scuola materna.

 

Con la sentenza n. 173 del 1983, la Corte dichiara illegittime per violazione dell'art. 3 della Costituzione le norme degli artt. 39 del r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, 41 dello stesso decreto (come modificato dall'art. 1 della legge 3 aprile 1958, n. 470) e degli artt. 6 del citato r.d. n. 1286 del 1933 e 9 della legge 18 marzo 1968, n. 444, che escludevano gli allievi maschi dalla frequenza delle scuole magistrali del grado preparatorio e i candidati privatisti maschi dai relativi esami di abilitazione, e contemplavano, per la scuola materna soltanto insegnanti donne - norme all’epoca ancora applicabili a casi, come quello di specie, anteriori alla legge n. 903 del 1977 sulla parità fra uomo e donna in materia di lavoro. In materia di scuola materna non si può certo presumere che gli uomini non siano idonei ad insegnarvi. La presenza di una componente maschile nel corpo insegnante può anzi arricchire la scuola materna del contributo di più varie risorse educative e di una maggiore apertura di tutta l'attività didattica alla realtà sociale.

 

In altri casi, la giurisprudenza della Corte ha individuato e sanzionato le ipotesi di discriminazione indiretta, laddove un trattamento giuridico apparentemente uniforme presenta una ricaduta diversa su un gruppo sociale ristretto o su un genere. In proposito, merita ricordare la sentenza n. 163 del 1993 con cui la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale – per contrasto con l’articolo 3, che sancisce il principio di uguaglianza, e con gli articoli 37 e 51, che stabiliscono il principio di parità di trattamento tra uomini e donne nei rapporti di lavoro e nell’accesso ai pubblici uffici, della Costituzione - dell'art. 4, n. 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 15 febbraio 1980, n. 3, nella parte in cui prevedeva, tra i requisiti per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della Provincia di Trento, il possesso di una statura fisica minima (1,65 m) indifferenziata per uomini e donne.

 

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 163 del 1993, ha ritenuto che «l'adozione di un trattamento giuridico uniforme - cioè la previsione di un requisito fisico per l'accesso al posto di lavoro, che è identico per gli uomini e per le donne, - è causa di una "discriminazione indiretta" a sfavore delle persone di sesso femminile, poiché svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in considerazione di una differenza fisica statisticamente riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso.»

La Corte, rafforza il principio secondo cui, fermo restando il particolare ruolo sociale della donna connesso ai valori della maternità e della famiglia, dall'insieme dei principi posti dall'art. 3, commi primo e secondo, Cost., e - in sede di specificazione applicativa - dagli artt. 37 e 51 Cost., deriva il divieto (significativamente enunciato anche dalla direttiva CEE n. 76/207 del 9 febbraio 1976) volto ad impedire qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, basata sul sesso in relazione alle condizioni di accesso nel posto di lavoro e, in particolare, nei pubblici uffici (si cfr. S. nn. 210/1986, 137/1986, 123/1969).

 


Altri elementi di giurisprudenza costituzionale
sulle questioni di pari opportunità

 

L’attenzione della Corte costituzionale su altre specifiche questioni legate alla condizione femminile, emersa più di recente, riguarda due filoni principali: il primo attiene alla maternità e alla piena affermazione dell’uguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia ed un secondo che riguarda il tema della violenza sulle donne.

Di seguito si sintetizzano alcune delle principali pronunce.

 

Sulla parità all’interno della famiglia la Corte, prima della riforma del 1975, nel concordare con “l'opinione che considerava il sistema del Codice civile non aderente in ogni sua parte allo spirito informatore della sopravvenuta Costituzione repubblicana, la quale ha tenuto conto della trasformazione verificatasi nella posizione della donna nella moderna società”, ha ripetutamente richiamato l'attenzione del legislatore sull'esigenza di un “sollecito adeguamento del sistema al nuovo ordine sociale” (v. sentenze n. 101 del 1965, nn. 49 e 71 del 1966, n. 144 del 1967). Non ritenne tuttavia possibile farne decadere singole disposizioni, “per l'incertezza che ne sarebbe derivata, data l'intima connessione che le lega fra loro e ne fa un tutto unitario”.

Al contempo, la Corte ha dato alcuni contributi significativi su questioni puntuali.

Si può ricordare, in particolare, la sentenza della Corte costituzionale n. 126 del 1968 - con cui è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 559 c.p., che prevedeva il reato per il solo adulterio femminile, ritenuto in contrasto con gli artt. 3 e 29 della Costituzione, il quale proclama l'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi - e la successiva sentenza n. 147 del 1969, con cui è stata tra l'altro dichiarata l'illegittimità dell'art. 560 c. p., che invece prevedeva la fattispecie dell’adulterio del marito, denominato "concubinato", con diverse e più attenuate condizioni di punibilità. In tale occasione, la Corte ha riconosciuto che si tratta di una deroga al principio di eguaglianza dei coniugi non essenziale per la garanzia dell'unità familiare, ma risolventesi, piuttosto, per il marito, in un privilegio; e questo, come tutti i privilegi, viola il principio di parità.

 

La distinzione della disciplina penale originava dal fatto che, mentre per quanto concerneva la possibilità dell'adulterio della moglie era considerato sufficiente il determinarsi di un solo rapporto sessuale illecito, diverso trattamento era stabilito per il marito. La punibilità dei rapporti sessuali extramatrimoniali di quest'ultimo veniva infatti a delinearsi solo nel momento in cui essi concretassero una vera e propria relazione stabile, sfociante nel cosiddetto concubinato.

Sulla norma la Corte era già intervenuta con la sentenza n. 64 del 1961, con la quale non si ravvisava alcuna violazione del principio di eguaglianza, giustificando il diverso trattamento adeguato alla valutazione dell’ambiente sociale, che reputava questa diversa punizione a garanzia dell’unità familiare.

 

In materia di cittadinanza, con la sentenza n. 87 del 1975 la Corte Costituzionale dichiarò l'illegittimità costituzionale della allora vigente legge sulla cittadinanza italiana (L. n. 555 del 1912) nella parte che prevedeva esclusivamente nei riguardi della donna che si mariti con uno straniero la cui cittadinanza le si comunichi a seguito del matrimonio, la perdita della cittadinanza italiana, indipendentemente dalla volontà della donna stessa.

Fra i punti fondamenti della sentenza, la Corte riconosce che una siffatta norma si ispirasse all’idea che la donna sia in uno stato di evidente inferiorità, privandola automaticamente, per il solo fatto di matrimonio, dei diritti di cittadina italiana: una siffatta concezione viene ritenuta illegittima per violazione degli artt. 3 e 29 Cost.

Con la successiva sentenza n. 30 del 1983 la Corte ha eliminato dall’ordinamento la disposizione relativa all’acquisto della cittadinanza per nascita da solo padre cittadino, nella parte in cui non prevedeva che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina. Ciò in quanto l'attribuzione a titolo originario della sola cittadinanza paterna lede la posizione giuridica della madre e non è necessaria a garantire l'unità familiare, risolvendosi in “superstite espressione di una inaccettabile diversità di posizione giuridica e morale dei coniugi”.

 

Nella seconda metà degli anni Ottanta vi è uno sviluppo ulteriore, che è quello della emersione del valore della genitorialità, cioè della fungibilità dei ruoli tra madre e padre, entro certi limiti. A questo percorso la Corte costituzionale ha dato un importante contributo, stabilendo nella sua giurisprudenza l’estensione anche ai padri di tanti istituti di tutela sociale che erano stati introdotti dalla legislazione avviata negli anni Settanta esclusivamente per le madri lavoratrici.

Tra le prime pronunce costituzionali si ricorda la sentenza n. 179 del 1993, che dichiarava costituzionalmente illegittima, l'art. 7 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, nella parte in cui non estendeva, in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice consenziente, il diritto ai riposi giornalieri previsti per l'assistenza al figlio nel suo primo anno di vita.

 

La Corte motiva il proprio orientamento in quanto conforme ai principi costituzionali espressi anche nella legislazione vigente - quali quello della tutela della maternità (l. n. 1204 del 1971), dell'autonomo interesse del minore (l. n. 176 del 1991), della parità tra i coniugi e tra uomini e donne in materia di lavoro (l. n. 903 del 1977) - e alla evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha sostenuto al diritto-dovere all'assistenza del figlio da parte di entrambi i coniugi, e, soprattutto, al superamento della concezione di una rigida distinzione dei ruoli fra di essi.

Già dal 1987 la Corte si era mossa in questa direzione, determinando l’estensione al padre lavoratore del diritto all'astensione obbligatoria ed ai riposi giornalieri, ove l'assistenza della madre sia divenuta impossibile per decesso o grave infermità (sentenza n. 1/1987).

Con successive sentenze sono state estesi ulteriori istituti sulla base dei medesimi presupposti:

-        sul riconoscimento al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice, del diritto all'astensione obbligatoria in caso di affidamento provvisorio, v. la sentenza n. 341/1991;

-        sul riconoscimento del diritto del padre di percepire in alternativa alla madre l'indennità di maternità, v. la sentenza 385/2005.

 

Tra le pronunce più recenti sull’uguaglianza di genere all’interno della famiglia si ricorda la sentenza n. 286 del 2016 sull’attribuzione del cognome materno, con la quale la Corte è intervenuta, dopo essere stata investita ripetutamente sulla questione[51], dichiarando l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano l’attribuzione del solo cognome paterno e consentendo la possibilità di aggiungere anche il cognome materno (sotto la spinta della Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva indicato la strada più corretta sia per tutelare l’uguaglianza dei coniugi, sia per tutelare l’identità dei figli). In tale occasione la Corte, pur riaffermando la necessità di ristabilire il principio della parità dei genitori, ha preso atto che, in via temporanea, «in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità», "sopravvive" la generale previsione dell'attribuzione del cognome paterno, destinata a operare in mancanza di accordo espresso dei genitori. Da ultimo, con l'ordinanza n. 18 del 2021 la Corte costituzionale ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell'art. 262, primo comma, del codice civile nella parte in cui, in mancanza di accordo dei genitori, impone l'acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.

 

L'ordinanza di autorimessione, e dunque la risposta a questo dubbio di costituzionalità, è per la Corte pregiudiziale per poter poi affrontare la questione di legittimità posta dal Tribunale di Bolzano, che ha chiesto alla Consulta di dichiarare incostituzionale l'art. 262 c.c. laddove non prevede, in caso di accordo tra i genitori, la possibilità di trasmettere al figlio il cognome materno invece di quello paterno.

A sostegno della decisione di autorimessione della questione di legittimità, la Corte ha infatti osservato che, qualora venisse accolta la prospettazione del Tribunale di Bolzano, in tutti i casi in cui manchi l'accordo dovrebbe essere ribadita la regola che impone l'acquisizione del solo cognome paterno. E poiché si tratta dei casi verosimilmente più frequenti, verrebbe ad essere così riconfermata la prevalenza del patronimico, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell'uguaglianza è stata riconosciuta, ormai da tempo, dalla stessa Corte, che ha più volte invitato il legislatore a intervenire.

Si ricorda che un tentativo di riformare la disciplina dell'attribuzione del cognome ai figli è stato effettuato in XVII legislatura con l'approvazione alla Camera di un progetto di legge che non ha poi concluso l'iter al Senato.

 

Un ulteriore filone di sentenze ha messo al centro della giurisprudenza costituzionale la salute e la dignità delle donne.

Al riguardo, si possono richiamare:

Ø  la sentenza n. 49 del 1971 che, prendendo atto del mutato sentimento della coscienza comune e tenuto anche conto del progressivo allargarsi della educazione sanitaria, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 553 del codice penale che puniva, prevedendo un’autonoma fattispecie di reato, l'incitamento o la propaganda di pratiche contro la procreazione;

Ø  la sentenza n. 27 del 1975, che ha depenalizzato il c.d. aborto terapeutico stabilendo che non poteva esistere “equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare”. La sentenza della Corte è stata tutta incentrata sulla garanzia di un'adeguata tutela della salute della donna gestante, laddove l’ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave alla salute della madre;

Ø  la sentenza n. 27 del 2009, prima di una serie di pronunce sulla L. 40 del 2004 concernente la procreazione medicalmente assistita: la sentenza in particolare sottolinea il contrasto della scelta di un numero prestabilito di embrioni destinati all’impianto con l'art. 32 Cost., per il pregiudizio recato alla salute della donna;

Ø  la sentenza n. 272 del 2017, con la quale la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., sollevata nella parte in cui non prevede che l’impugnazione, per difetto di veridicità, del riconoscimento del figlio minore (nato da madre surrogata all’estero) possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso. In tale contesto la Corte ha ripetutamente stigmatizzato la maternità surrogata definendola una “pratica vietata dalla legge, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” ed ha ribadito “[l]’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”.

 

Un tema delicato che la Corte ha avuto modo di affrontare riguarda inoltre il rapporto tra il carcere e le detenute madri, tra i soggetti più deboli in un istituto pensato prevalentemente al maschile, anche per ragioni di ordine quantitativo.

Sono stati molti gli interventi su tale tematica, quale la sentenza n. 239 del 2014 che, facendo leva sul bilanciamento tra le esigenze punitive dello Stato, anch’esse di livello costituzionale, e le esigenze del migliore interesse del minore, ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dalla medesima legge a favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni.

 

Nella sentenza n. 350 del 2003 viene affrontata specificamente la condizione di un figlio portatore di handicap, estendendo la possibilità della concessione della detenzione domiciliare anche nei confronti della madre condannata e, nei casi previsti del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di 'handicap' totalmente invalidante, a fronte di una normativa che stabiliva tale beneficio in caso di figli di età non superiore a dieci anni.

 

Infine, il tema della prostituzione è affrontato dalla Corte da ultimo in una recente sentenza del 2019, centrata sulla dignità della donna, conclusa con una pronuncia di non fondatezza. Le questioni sollevate erano rivolte alla configurazione come illecito penale del reclutamento e del favoreggiamento della prostituzione, anche quando si tratti di prostituzione liberamente e volontariamente esercitata.

In tale pronuncia la Corte evidenzia in particolare come risulti “inconfutabile che, anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di ‘vendere sesso’ trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una ‘scelta di vita’ quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede”.

La Corte non accoglie quindi la tesi in base alla quale la prostituzione volontaria rappresenterebbe una «modalità autoaffermativa della persona umana», ribadendo invece che le residue forme di compressione delle possibilità di sviluppo dell’attività di prostituzione è strumentale al perseguimento della tutela dei diritti fondamentali delle persone vulnerabili e della dignità umana (sentenza n. 141 del 2019).

 

Nella (sentenza n. 1 del 2022) prende in esame una disposizione che mantiene ferma la distinzione tra gli educatori di sesso maschile e femminile nell’ambito della dotazione organica delle strutture convittuali destinate separatamente agli alunni convittori e alle alunne convittrici.

La ratio della disposizione in scrutinio, secondo il rimettende, si rivelerebbe anacronistica e sproporzionata nel perseguire lo scopo di creare le condizioni idonee per uno svolgimento delle attività educative in modo paritario, confidenziale e libero da ogni soggezione per gli allievi e le allieve accolti nelle rispettive istituzioni convittuali.

Secondo la Corte, con tale disposizione il legislatore avrebbe inteso configurare un sistema educativo conforme al sistema delle strutture convittuali, “nel quale la distinzione tra educatori ed educatrici è speculare e funzionale alla separazione tra gli allievi convittori e le allieve convittrici”.

Ne consegue che “l’ablazione della norma censurata – che tale differenziazione assicura con riferimento a coloro che svolgono la funzione educativa – inciderebbe sulla funzionalità dell’assetto così congegnato, generando, di conseguenza, disarmonie nel sistema complessivamente considerato”.

In conclusione, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo in riferimento agli artt. 3 e 51 Cost., la Corte evidenzia come “la verifica della perdurante rispondenza della finalità presidiata dalla disposizione in esame agli orientamenti e ai valori radicati nella coscienza sociale richiederebbe una rimeditazione della disciplina delle istituzioni educative nella sua globalità, che spetta alla discrezionalità del legislatore. Ad esso solo compete di rimodulare il sistema normativo in esame, apprezzando, «quale interprete della volontà della collettività» (sentenza n. 84 del 2016), la persistente opportunità del filtro selettivo prescritto dalla disposizione in scrutinio attraverso una rivalutazione delle ragioni che sorreggono la distinta configurazione delle istituzioni convittuali per allieve e per allievi”.

 



[1]     Al fine di analizzare anche il profilo dell’impatto dell’emergenza COVID-19 sotto il profilo del divario di genere è stata inoltre costituita, presso il Dipartimento per le Pari Opportunità, una task force che ha pubblicato nel documento “Donne per un nuovo Rinascimento (2020)” le risultanze dei lavori svolti, individuando prime direzioni strategiche di intervento, quale contributo alle politiche di genere.

[2]     “Metodologia generale del bilancio di genere ai fini della rendicontazione, tenuto conto anche delle esperienze già maturate nei bilanci degli Enti territoriali”

[3] Attuata nell’ordinamento italiano con il decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 5.

[4]   Attuata nell’ordinamento italiano con la legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013).

[5]     Istituito nel dicembre del 2006, con l'obiettivo generale di sostenere e rafforzare la promozione della parità di genere, ivi compresa l'integrazione di genere, in tutte le politiche dell'UE e nazionali. L'Istituto si prefigge altresì l'obiettivo di combattere le discriminazioni fondate sul sesso e di svolgere un'opera di sensibilizzazione sul tema della parità di genere, fornendo assistenza tecnica alle istituzioni dell'UE mediante la raccolta, l'analisi e la diffusione di dati e strumenti metodologici.

[6]     Sul punto, per un approfondimento, si rinvia a Le statistiche dell’Istat sulla povertà: anno 2020”, edito a giugno 2021

[7]     Istat, Nidi e servizi integrativi per la prima infanzia: anno educativo 2019/2020, novembre 2021

[8]     I servizi del Settore sociale includono una molteplicità di prestazioni rivolte al territorio comunale e che interessano numerose fasce di utenza: i minori, i giovani, gli anziani, le famiglie, le persone con disabilità, le persone dipendenti da alcol o droghe, le persone con problemi di salute mentale, gli immigrati e i nomadi, nonché gli adulti con disagio socio-economico.

[9]     Il potenziamento degli asili nido nei comuni delle RSO e delle regioni Siciliana e Sardegna, negli importi sopra indicati, è finalizzati ad incrementare l’ammontare dei posti disponili negli asili nido, equivalenti in termini di costo standard al servizio a tempo pieno, in proporzione alla popolazione con età compresa tra 0 e 2 anni nei comuni nei quali il predetto rapporto è inferiore ai LEP. Fino alla definizione dei LEP, o in assenza degli stessi, il livello di riferimento del rapporto è dato dalla media relativa alla fascia demografica del comune individuata dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard contestualmente all'approvazione dei fabbisogni standard per la funzione "Asili nido”.

[10]   Istat, Memoria depositata in occasione dell’Audizione nel corso dell’esame delle proposte di legge 1818 (Murelli) e 1885 (De Maria) in materia di lavoro, occupazione e produttivita? presso la Commissione XI (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei Deputati, 12 novembre 2020

 

[11]   “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”.

[12]   Ministero della salute - Direzione Generale della ricerca e dell’innovazione in sanità, Medicina di genere e COVID-19, Bussole IRCSS 2/2020, aprile 2021.

[13]   Associazione italiana registri tumori/Fondazione AIOM, I numeri del cancro in Italia 2020, 2021

[14]   Misure per promuovere le pari opportunità e rafforzare il ruolo dei Comitati Unici di Garanzia nelle amministrazioni pubbliche.

[15]   Un'Unione dell'uguaglianza: la strategia per la parità di genere 2020-2025.

[16]   Il GEP è un piano strategico finalizzato a: condurre valutazioni d’impatto/audit di procedure e pratiche per identificare i pregiudizi (bias) di genere; identificare e implementare delle strategie innovative volte a correggere pregiudizi di genere; definire obiettivi e processi di monitoraggio dei progressi tramite degli indicatori.

[17]   Decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province.

[18]   L. 13 luglio 2015, n. 107, Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti.

 

[19]   Con riferimento a tale categoria, la Circolare INPS n. 32 del 2021 specifica che, ai fini del rispetto del requisito, è necessario che la lavoratrice risulti residente in una delle aree individuate dalla Carta degli aiuti a finalità regionale 2014-2020, approvata dalla Commissione europea in data 16 settembre 2014 e successivamente modificata con decisione della medesima Commissione C (2016) final del 23 settembre 2016. Al riguardo, non sono previsti vincoli temporali riguardanti la permanenza del requisito della residenza nelle aree svantaggiate appositamente previste nella suddetta Carta e che il rapporto di lavoro può svolgersi anche al di fuori delle aree indicate;

[20]   Per l’individuazione dei settori e delle professioni validi per il 2021 si veda il DM 16 ottobre 2020, n. 234.

[21]   Con riferimento a tale categoria, la già richiamata Circolare INPS n. 32 del 2021 precisa che, ai fini del rispetto del requisito, occorre considerare il periodo di 24 mesi antecedente la data di assunzione e verificare che in quel periodo la lavoratrice considerata non abbia svolto un’attività di lavoro subordinato legata a un contratto di durata di almeno 6 mesi ovvero un’attività di collaborazione coordinata e continuativa la cui remunerazione annua sia superiore a 8.145 euro o, ancora, un’attività di lavoro autonomo tale da produrre un reddito annuo lordo superiore a 4.800 euro.

[22]   Sul punto, la medesima Circolare INPS n. 32 del 2021 ha specificato che, sebbene la previsione normativa contenuta nella legge di bilancio 2021 (art. 1, co. 16, L. 178/2020) preveda letteralmente che l’esonero trovi applicazione “per le assunzioni di donne lavoratrici”, tale espressione è da intendersi come “per le assunzioni di donne lavoratrici svantaggiate”, secondo la disciplina dettata dalla richiamata L. 92/2012.

[23]   Per completezza, si ricorda che il monitoraggio sull’attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni rientra tra i compiti istituzionali dell’ Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche, istituito presso il Dipartimento della funzione pubblica con l’articolo 263 del decreto-legge n. 34 del 2020.

 

[24] Dati Commissione europea, ottobre 2021, Equal pay? Time to close the gap

[25] Dati Commissione europea, ottobre 2021, Equal pay? Time to close the gap

[26] Dati Eurostat, marzo 2021, Gender statistics

[27] Dati Commissione europea, ottobre 2021, Equal pay? Time to close the gap

[28]   cfr. Unioncamere, comunicato stampa del 20 novembre 2020

[29]   cfr. Unioncamere, comunicato stampa 15 novembre 2021.

[30]   Si rinvia al considerando n. 17) e alla raccomandazione n. 2) delle citate CSR. Si rinvia anche agli atti del Seminario “Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e le diseguaglianze di genere”. Intervento su “Approccio di genere nei PNRR di alcuni Paesi europei: convergenze e peculiaritàGermana Di Domenico, Dipartimento del Tesoro, Analisi economico finanziaria.

[31]   Cfr. Documento di lavoro della Commissione sulla proposta di decisione del Consiglio sul PNRR italiano, SWD(2021) 165 final, pag. 50.

[32]   Alle agevolazioni specificamente dirette alle imprese femminili, possono applicarsi, entro i limiti di cumulabilità derivanti dalla disciplina europea in materia di aiuti di Stato, ulteriori forme incentivanti generalmente previste per le imprese, quali, ad esempio, quelle a sostegno delle start up innovative o a sostegno delle imprese dislocate nelle aree del Mezzogiorno. In questo capitolo si darà conto delle misure ad hoc per le imprese femminili.

 

[33]   Nel caso dei rappresentanti delle amministrazioni locali, dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, tra i dipendenti esperti in materie economiche o giuridiche attinenti alle funzioni di indirizzo, analisi e impulso svolte dal Comitato stesso.

[34]   Risposta del Governo all’interrogazione a risposta scritta 4-11162 Alaimo Roberta, pubblicata Venerdì 18 febbraio 2022 nell'allegato B della seduta n. 641 della Camera dei deputati. Identica risposta del Governo per l’interrogazione 4/11020 Alaimo Roberta.

[35]   Di tale importo, 38,8 milioni sono destinati agli “Incentivi per la nascita delle imprese femminili” e 121,2 milioni agli “Incentivi per lo sviluppo e il consolidamento delle imprese femminili”, previsti rispettivamente dal Capo II e III del decreto attuativo del Fondo.

[36]   Smart & Start Italia è uno strumento di incentivazione per favorire la nascita e la crescita delle start-up innovative su tutto il territorio nazionale. È stato istituito dal MISE con decreto ministeriale del 24 settembre 2014, in attuazione del PON Imprese e Competitività 2014-2020.

Lo strumento finanzia piani di impresa con spese comprese tra 100 mila e 1,5 milioni di euro, per l'acquisto di beni di investimento e servizi, costi del personale e di funzionamento aziendale.

Sono ammissibili alle agevolazioni i piani di impresa aventi ad oggetto la produzione di beni e l'erogazione di servizi che presentano almeno una delle seguenti caratteristiche: significativo contenuto tecnologico e innovativo, ovvero sviluppo di prodotti, servizi o soluzioni nel campo dell'economia digitale, dell'intelligenza artificiale, della blockchain e dell'internet of things, ovvero valorizzazione economica dei risultati del sistema della ricerca pubblica e privata (spin off da ricerca). È previsto un finanziamento a tasso zero senza alcuna garanzia per l'80% delle spese ammissibili. Il finanziamento arriva al 90% se la start-up ha una compagine interamente costituita da giovani sotto i 36 anni o donne, o se tra i soci è presente un esperto con titolo di dottore di ricerca (o equivalente) che rientra dall'estero.

[37]   Risposta del Governo all’interrogazione a risposta scritta 4-11162 Alaimo Roberta, pubblicata Venerdì 18 febbraio 2022 nell'allegato B della seduta n. 641 della Camera dei deputati. Identica risposta del Governo per l’interrogazione 4/11020 Alaimo Roberta.

[38] Il Decreto-Legge n. 34/2019 ha demandato ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, da adottarsi di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, entro il 29 luglio 2020, la ridefinizione della disciplina di attuazione del Capo 01 del decreto legislativo n. 185/2000, prevedendo anche, per le imprese di più recente costituzione, l'offerta di servizi di tutoraggio e la copertura dei costi iniziali di gestione, per una percentuale comunque non superiore al 20 per cento del totale delle spese ammissibili.

[39]   Nel dettaglio, la Legge di bilancio 2020 (L. n. 160/2019 art. 1, comma 90, lett. d) ha disposto che i finanziamenti agevolati per l'autoimprenditorialità giovanile e femminile di cui al Capo 01 del D.lgs. n. 185/2000 possano essere integrati, nel rispetto della normativa dell'UE, con una quota a fondo perduto, concesso con procedura a sportello, in misura non superiore al 20 per cento delle spese ammissibili, a valere su risorse dei fondi strutturali e d'investimento europei (Fondi SIE), sulla base di convenzioni tra il Ministero dello sviluppo economico e le amministrazioni titolari dei programmi, sentito il Ministero dell'economia e delle finanze. A tale fine, la legge di bilancio ha stanziato 10 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2020 al 2023.

Per l'erogazione dei contributi a fondo perduto, possono essere utilizzate anche le risorse originariamente destinate a contributi della stessa natura che si rendessero eventualmente disponibili sul conto aperto presso la tesoreria dello Stato per la gestione delle agevolazioni in questione, quantificate dal gestore, INVITALIA, al 31 dicembre di ciascun anno dal 2019 al 2022. La disciplina attuativa della previsione è stata demandata ad uno o più decreti di natura non regolamentare del MISE, di concerto con il MEF

[40]   In base alla riforma contenuta nel D.L. n. 34/2019 e al successivo intervento contenuto nella Legge di bilancio 2020, la percentuale di copertura delle spese ammissibili è stata innalzata al 90% del totale e le agevolazioni possono essere concesse alle condizioni e nei limiti dei massimali degli aiuto di Stato stabiliti dall'articolo 22 (per le micro e piccole imprese in fase di avviamento, costituite da meno di 36 mesi) e 17 (per le micro e piccole imprese costituite da più di 36 mesi) del Regolamento UE di esenzione per categoria (GBER) Reg. n. 651/2014/UE

[41]   Il decreto-legge n. 34/2019 ha introdotto la cumulabilità delle agevolazioni con altri regimi di aiuti, nei limiti previsti dalla disciplina europea di riferimento (cfr. nuovo art. 4-ter nel decreto legislativo n. 185/2000)

[42]   D.L. 23 febbraio 2009 n. 11 Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori.

[43]   Lo stanziamento previsto dal D.L. 34 del 2020 solo per il 2020 è stato stabilizzato, confermandone l'importo di 4 milioni a decorrere dall'anno 2020, per effetto delle previsioni dell'art. 38-bis, comma 1, lett. a), D.L. 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126.

[44]    Si v. Ministero Affari esteri, Annuario statistico 2019.

[45]   Gli ultimi dati disponibili sono riferiti all’anno 2018 e la percentuale risulta in crescita dello 0,5 rispetto al 2017. Tale dato è inferiore anche se paragonato ai principali partner europei. In Germania ad esempio la presenza di donne diplomatiche ha raggiunto 7 il 40%. Anche nel Regno Unito, grazie all’adozione di una politica di target, si è raggiunto il 50% di colleghe e il 31% di donne Capo Missione.

[46]   Si ricorda che in base all’art. 104 della Costituzione sono membri di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura il Presidente della Repubblica, che lo presiede, il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di cassazione.

[47]   ll vice presidente ha un ruolo di grande rilevanza all'interno del Csm, sostituisce il Presidente in caso di assenza o impedimento ed esercita, oltre alle funzioni che gli attribuisce direttamente la legge, quelle che gli sono delegate dal Presidente.

[48]   Inoltre, nel corso della XVII legislatura, il Parlamento: a) ha previsto - con la legge n. 161 del 2017, di riforma del c.d. Codice antimafia - che anche agli indiziati di stalking possano essere applicate misure di prevenzione (sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, divieto di soggiorno in uno o più comuni e misure patrimoniali) e che, con il consenso dell'interessato, anche allo stalker possa essere applicato il c.d. braccialetto elettronico, una volta che ne sia stata accertata la disponibilità; b) ha modificato - con la legge n. 4 del 2018 - il delitto di omicidio aggravato dalle relazioni personali, di cui all'art. 577 c.p., prevedendo la pena dell’ergastolo se vittima del reato di omicidio è il coniuge, anche legalmente separato, l'altra parte dell'unione civile, la persona legata all'omicida da stabile relazione affettiva e con esso stabilmente convivente. Con la reclusione da 24 a 30 anni viene invece punito l'omicidio del coniuge divorziato o della parte della cessata unione civile.

[49]   Si tratta dell’art. 5, comma 2 e art. 7, comma 1 della L. 81/1993 e art. 2 della L. 415/1993 (elezioni amministrative) e dell’art. 4, comma 2, n. 2 del D.P.R. 361/1957, come modificato dall'art. 1 della L: 277/1993 (elezioni della Camera); art. 1, comma 6, della L. 43/1995 (elezioni delle regioni a statuto ordinario). Parimenti, furono dichiarate illegittime disposizioni analoghe previste per le elezioni comunali in alcune regioni a statuto speciale e segnatamente Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta.

[50]   Proprio poiché si tratta di una mera facoltà di cui gli elettori potrebbero giovarsi oppure no, «sarebbe astrattamente possibile, in seguito alle scelte degli elettori, una composizione del Consiglio regionale maggiormente equilibrata rispetto al passato, sotto il profilo della presenza di donne e uomini al suo interno, ma anche il permanere del vecchio squilibrio, ove gli elettori si limitassero ad esprimere una sola preferenza».

[51]   Già con l'ordinanza n. 61 del 2006 la Corte aveva affermato che «l'attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna».