Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni
Titolo: Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V - terza edizione
Serie: Documentazione e ricerche   Numero: 14
Data: 26/07/2022
Organi della Camera: I Affari costituzionali

 

Camera dei deputati

XVIII LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Documentazione e ricerche

Il riparto delle competenze legislative
nel Titolo V

La giurisprudenza costituzionale nelle materie di
competenza legislativa concorrente

Terza edizione

 

 

 

n. 14

 

 

26 luglio 2022

 


Il dossier è stato coordinato dal Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni

con la collaborazione dei Dipartimenti competenti

 

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INDICE

Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V

L’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma del 2001           3

Profili generali sul riparto delle competenze legislative alla luce della giurisprudenza costituzionale                                                    11

§  Le materie trasversali                                                                                   12

§  La “concorrenza di competenze” ed il principio di leale collaborazione              16

§  La “attrazione in sussidiarietà”                                                                    21

§  L’accesso delle Regioni alla Corte costituzionale in via principale: la “ridondanza”       23

§  L’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione                                    25

§  L’emergenza Covid-19 e il riparto di competenze legislative: primi elementi della giurisprudenza costituzionale                                                                      29

§  Dati statistici                                                                                                 34

Le materie di competenza concorrente: la principale giurisprudenza della Corte costituzionale nella definizione dei confini                                41

§  Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni                 41

§  Commercio con l’estero                                                                               44

§  Tutela e sicurezza del lavoro                                                                       50

§  Istruzione e università                                                                                  53

§  Professioni                                                                                                    71

§  Ricerca scientifica e tecnologica                                                                  75

§  Sostegno all’innovazione per i settori produttivi                                       77

§  Tutela della salute                                                                                         80

§  Alimentazione                                                                                              98

§  Ordinamento sportivo                                                                               101

§  Protezione civile                                                                                         104

§  Governo del territorio                                                                               110

§  Infrastrutture e trasporti                                                                            124

§  Energia                                                                                                        142

§  Previdenza complementare e integrativa                                                  155

§  Coordinamento della finanza pubblica                                                     158

§  Coordinamento del sistema tributario                                                      183

§  Beni e attività culturali                                                                               191

§  Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale                                                   197

 

 


Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V

 


L’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma del 2001

La revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001, ha profondamente rivisto il complessivo sistema dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali.

Al modello della Costituzione del 1948, in base al quale lo Stato aveva competenza legislativa in tutte le materie, fatta eccezione per alcune, espressamente elencate, in cui la potestà legislativa era riconosciuta alle regioni, previa comunque definizione dei principi fondamentali da parte della legislazione dello Stato, si è sostituito un nuovo modello che inverte il criterio sino a quel momento utilizzato per individuare gli ambiti della potestà legislativa assegnati allo Stato e alle Regioni.

Il vigente art. 117 Cost. delinea, infatti, una nuova ripartizione della funzione legislativa tra Stato e regioni.

Lo strumento per delimitare le sfere di attribuzione legislativa è rappresentato dalla elencazione delle materie individuate nei commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 117, in base alle quali si possono distinguere tre tipologie di competenza.

Vi è un primo elenco di materie la cui disciplina è demandata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Si tratta delle materie elencate nell'art. 117, secondo comma, nelle quali solo lo Stato può adottare delle leggi. Alle regioni, non è conseguentemente riconosciuto il potere di legiferare in tali materie.

 

Tali materie sono:

a)   politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;

b)   immigrazione;

c)    rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;

d)   difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;

e)   moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici [1] ; perequazione delle risorse finanziarie;

f)    organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;

g)   ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;

h)   ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;

i)    cittadinanza, stato civile e anagrafi;

l)    giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;

m)  determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;

n)   norme generali sull'istruzione;

o)   previdenza sociale;

p)   legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;

q)   dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;

r)   pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;

s)   tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

 

In un secondo elenco di materie, la potestà legislativa è ripartita tra Stato e Regioni, per cui si parla di legislazione concorrente. In particolare, per queste materie, “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117, terzo comma).

 

Si tratta delle seguenti materie: “rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale".

 

Infine, l'articolo 117, quarto comma, prevede che la potestà legislativa su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato spetta alle Regioni. Al riguardo, si parla di competenza generale ‘residuale’.

 

Il sistema di riparto delle competenze normative è completato dal principio di attribuzione della potestà regolamentare, che vede una riduzione della competenza statale, ampliandosi quella delle Regioni e degli enti locali: allo Stato spetta emanare i regolamenti nelle materie riservate alla sua competenza esclusiva, salva la possibilità di delega alle Regioni, mentre alle Regioni è attribuita la potestà regolamentare in ogni altra materia (e quindi anche in quelle di competenza concorrente). I comuni, le province, le città metropolitane hanno potestà regolamentare per la disciplina riguardante l’organizzazione e il funzionamento delle competenze loro attribuite (art. 117, sesto comma).

 

Ferme restando le particolari forme di autonomia delle Regioni a statuto speciale, la riforma del 2001 (art. 116, terzo comma, Cost.) ha previsto la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario, con legge dello Stato, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia relative a tutte le materie che il nuovo art. 117 attribuisce alla competenza concorrente di Stato e regioni e ad alcune tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali).

Si tratta di quello che è stato definito “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre.

Per procedere all'attribuzione di queste forme rafforzate di autonomia è necessaria una legge statale, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali.

 

La regione può autonomamente stabilire di far precedere la richiesta di avvio del procedimento di cui all'articolo 116, terzo comma, dallo svolgimento di un referendum consultivo, per acquisire l'orientamento dei propri cittadini. Sebbene la Costituzione non contempli espressamente tale possibilità e si sia a lungo discusso della sua legittimità, la Corte costituzionale si è pronunciata in senso favorevole con la sentenza n. 118 del 2015. La Suprema Corte - in occasione di un ricorso proposto dallo Stato contro due leggi della regione Veneto volte ad indire referendum consultivi per l'attivazione della procedura di cui all'art. 116, terzo comma, della Costituzione - ha delineato l'ambito entro cui è ammissibile il referendum consultivo in materia: occorre che ci si limiti a chiedere ai votanti se siano favorevoli, o meno, all'attivazione della procedura, senza che esso costituisca un escamotage per perseguire finalità non realizzabili attraverso l’attivazione della procedura di cui all'art. 116, terzo comma.

 

La legge deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti e deve recare un contenuto definito d'intesa con la Regione medesima.

La richiamata previsione costituzionale non ha però sino ad oggi avuto attuazione.

 

Il riconoscimento di forme di «autonomia differenziata» si è posto al centro del dibattito istituzionale sul rapporto tra Stato e Regioni a seguito delle iniziative intraprese dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che si sono registrate nella parte conclusiva della XVII legislatura.

Dopo aver sottoscritto tre accordi preliminari con il Governo a febbraio 2018, su richiesta delle tre regioni, il negoziato è proseguito ampliando il quadro delle materie da trasferire rispetto a quello originariamente previsto. Nel frattempo altre regioni hanno intrapreso il percorso per la richiesta di condizioni particolari di autonomia.

Sulle richieste pervenute e sul percorso di definizione delle intese si è aperto un ampio dibattito. Le questioni oggetto di discussione hanno riguardato, tra le altre, le modalità del coinvolgimento degli enti locali, il ruolo del Parlamento e l'emendabilità in sede parlamentare del disegno di legge rinforzato che contiene le intese, il rispetto del principio di sussidiarietà, nonché la definizione dell'ampiezza delle materie da attribuire per evitare che l'attuazione dell'art. 116, terzo comma, Cost., si risolva in una attribuzione fittizia di autonomia speciale alle Regioni ordinarie. Il tema è stato ulteriormente approfondito in relazione all'esigenza di associare il conferimento delle ulteriori forme e condizioni di autonomia sia alla previa definizione dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) nelle materie previste, sia alla definizione di strumenti di perequazione ai sensi degli articoli 117, secondo comma, lett. m) e 119, quinto comma, della Costituzione.

Per approfondire le questioni legate al percorso di attuazione del "regionalismo differenziato", la Commissione parlamentare per le questioni regionali ha svolto un’indagine conoscitiva, approvando, nella seduta del 12 luglio 2022, un documento conclusivo.

 

Il documento auspica la conclusione del processo di attuazione del regionalismo differenziato in corso, ritiene necessario dal punto di vista politico procedere all’approvazione di una legge-quadro che disciplini il procedimento di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e, nel contempo, invita a proseguire il negoziato in corso con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Secondo il documento “dovranno poi essere previste, nell’ambito della legge-quadro e fermo restando il rispetto dell’autonomia regolamentare delle Camere, modalità adeguate di coinvolgimento del Parlamento nel processo di stipula delle intese. Questo coinvolgimento potrebbe essere innanzitutto garantito attraverso la trasmissione alle Camere degli schemi preliminari delle intese prima della loro firma definitiva per le conseguenti deliberazioni parlamentari, garantendo in questo quadro un ruolo significativo per la Commissione parlamentare per le questioni regionali”. Inoltre, prosegue il documento, “parallelamente, è necessario compiere uno sforzo per giungere alla completa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nelle materie concernenti l’esercizio dei diritti civili e sociali”; ciò premesso, nell’ambito del regionalismo differenziato “potrebbe comunque darsi avvio al trasferimento di funzioni per le quali non sussiste l’esigenza di garantire LEP” mentre “per le materie LEP, la definizione di questi ultimi dovrebbe avvenire in tempi certi, ad esempio entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge-quadro”. Secondo il documento “rimane da approfondire quali possano essere le soluzioni alternative transitorie per consentire l’avvio del regionalismo differenziato in caso di ritardi nella predisposizione dei LEP. Si tratta di un tema complesso sul quale la Commissione non ritiene di esprimere un proprio indirizzo in questa fase. Esso però dovrà essere necessariamente affrontato nell’ambito dell’esame parlamentare della legge-quadro. Tra le ipotesi emerse nel corso dell’indagine vi è quella di procedere al trasferimento di funzioni anche nelle materie LEP, in attesa e in parallelo all’individuazione dei LEP, con invarianza di spesa storica, assumendo come riferimento i valori medi pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse funzioni.”

 

 

Con particolare riferimento agli aspetti dell’autonomia finanziaria, la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale ha svolto un ciclo di audizioni.

Merita poi segnalare che è stato inserito, tra i provvedimenti collegati alla manovra di bilancio 2023-2025, un disegno di legge sull’attuazione dell’autonomia differenziata (DEF 2022).

In ordine allo stato dei lavori e ai tempi per la presentazione alle Camere del disegno di legge in materia di autonomia differenziata, nel corso del question time svolto nella seduta dello scorso 29 giugno 2022, è emerso che il lavoro della Commissione di studio appositamente istituita presso il Dipartimento ha fornito agli uffici del Ministero per gli affari regionali e le autonomie analisi e spunti utili a una prima definizione del testo. Successivamente, tale bozza è stata oggetto di interlocuzioni dapprima con le regioni, poi con il Ministero del Sud, con alcuni enti di ricerca, come, per esempio, lo Svimez e nel mese di aprile 2022 il testo è stato oggetto di un'interlocuzione con il MEF che ha richiesto alcune modifiche che sono state integralmente recepite. Quindi, la Ministra ha annunciato che il disegno di legge quadro, oggetto attualmente di ulteriori limature e aperture a modifiche migliorative, potrà essere valutato nel suo complesso in tempi rapidi all'interno del Consiglio dei Ministri.

 

L’attuazione nelle procedure parlamentari

Sul piano della procedura parlamentare, le due Camere verificano in itinere la conformità di tutti i progetti di legge al proprio esame al riparto di competenze delineato dalla Costituzione dopo la riforma del 2001. La Giunta per il regolamento della Camera ha affidato tale compito alla Commissione affari costituzionali, nell’esercizio della sua funzione consultiva, ed ha esteso tale controllo anche agli emendamenti presentati in Assemblea (parere della Giunta del 16 ottobre 2001); analogo orientamento ha assunto la Giunta per il regolamento del Senato.

Non ha invece trovato attuazione – malgrado l’attività istruttoria svolta in tale direzione su iniziativa delle Giunte per il Regolamento delle due Camere – l’art. 11 della legge costituzionale di riforma, che avrebbe consentito l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie regionali e locali e l’attribuzione a tale Commissione del potere di incidere significativamente, con i propri pareri, sull’iter di approvazione delle leggi statali riguardanti le materie di competenza legislativa concorrente e l'autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali.

 

L’art. 11 della legge Cost. n. 3/2001 prevede che sino alla revisione delle norme del Titolo I della Parte seconda della Costituzione (riguardanti il Parlamento) i regolamenti della Camera e del Senato possono prevedere la partecipazione alla Commissione parlamentare per le questioni regionali di rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali.

Secondo l’art. 11 della legge di revisione, nel caso in cui i regolamenti parlamentari disciplinino la composizione integrata della Commissione, la stessa esprimerà pareri, aventi particolari effetti procedurali, sui progetti di legge nelle materie di cui al terzo comma dell'art. 117 (quelle di legislazione concorrente) e all’art. 119 (in materia di autonomia finanziaria di regioni, province e comuni). Infatti, per discostarsi dal parere della Commissione bicamerale integrata su tali progetti di legge l'Assemblea dovrà deliberare a maggioranza assoluta dei componenti.

 

Si ricorda che, con una modifica approvata in sede di conversione del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 (art. 15-bis), è stata integrata la previsione della legge n. 62/1953 recante Costituzione e funzionamento degli organi regionali, nella parte in cui disciplina l’attività della Commissione per le questioni regionali (art. 52) prevedendo espressamente che essa possa svolgere attività conoscitiva nonché procedere, secondo modalità definite da un regolamento interno, alla consultazione di rappresentanti della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, della Conferenza delle regioni e delle province autonome e delle associazioni di enti locali, nonché di rappresentanti dei singoli enti territoriali.

Nella seduta del 13 dicembre 2017 è stato quindi approvato dalla Commissione il Regolamento della Commissione parlamentare per le questioni regionali per la consultazione delle autonomie territoriali.

Il regolamento prevede forme di consultazione strutturata con la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, della Conferenza delle regioni e delle province autonome, dell’ANCI, dell’UPI e delle associazioni degli enti locali.

Tra le altre cose, l’articolo 2 prevede che nell’ambito dei lavori della Commissione sia prevista ogni semestre la convocazione di una sessione dedicata al confronto con le autonomie territoriali su questioni di carattere generale. L’articolo 3 dispone che la Commissione possa procedere alla consultazione delle autonomie territoriali nell’istruttoria per l’attività consultiva di sua competenza mentre gli articoli 4 e 5 prevedono la trasmissione da parte dei soggetti rappresentativi delle autonomie territoriali di segnalazioni e documenti alla Commissione.

Nel giugno 2020 e nel marzo 2021 si sono svolte le prime due sessioni di confronto con le autonomie territoriali.

Costante è infine la trasmissione alla Commissione di documenti da parte dei soggetti rappresentativi delle autonomie territoriali ai sensi dell’articolo 5 del regolamento.

 


Profili generali sul riparto delle competenze legislative alla luce della giurisprudenza costituzionale

Fin dall’approvazione nel 2001 della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione nella ripartizione di attribuzioni legislative tra Stato e Regioni si è posta l’esigenza di una chiara individuazione dei criteri di riparto della competenza statale e regionale.

La distinzione tra principi fondamentali e norme di dettaglio, in particolare, che costituisce il discrimine tra competenza statale e competenza regionale nelle materie di legislazione concorrente, appare ben chiara in linea astratta, ma ha comportato questioni interpretative una volta calata sul piano concreto delle singole e specifiche disposizioni.

In linea generale, in base alla giurisprudenza consolidata nel tempo, il vaglio di costituzionalità, che deve verificare il rispetto del rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio, “va inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi” (sentenze n. 272/2013, n. 16/2010, n. 237/2009 e n. 181/2006). Peraltro, il carattere di principio di una norma non è escluso, di per sé, dalla specificità delle prescrizioni, qualora la norma “risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” (sentenze n. 166/2021, n. 272/2014, n. 44/2014, n. 211/2012, n. 139/2012, n. 182/2011, n. 16/2010, n. 237/2009, n. 430/2007).

È sul piano concreto, come accennato, che insorgono le maggiori difficoltà interpretative, in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, la nozione di principio fondamentalenon ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le ‘materie’ hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. È il legislatore che opera le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l'interprete deve valutare nella loro obiettività.” (sentenza n. 50/2005). Ne consegue che “l’ampiezza e l’area di operatività dei principî fondamentali […] non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa. Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano” (sentenza n. 336/2005).

La sentenza n. 16/2010 ha altresì aggiunto che, “nella dinamica dei rapporti tra Stato e Regioni, la stessa nozione di principio fondamentale non può essere cristallizzata in una formula valida in ogni circostanza, ma deve tenere conto del contesto, del momento congiunturale in relazione ai quali l'accertamento va compiuto e della peculiarità della materia”. Con la sentenza n. 84/2017 la Corte ha in modo particolare posto in evidenza come la specifica previsione di livelli minimi di tutela si presenti coessenziale, in quanto necessaria per esprimere la regola (al riguardo, sentenza n. 430/2007) e la norma statale deve essere tale da lasciare uno spazio di intervento alle regioni nel definire la disciplina di dettaglio – conformemente a quanto stabilito dall’art. 117, terzo comma, Cost. – sia pure al solo fine di restringere le potenzialità (nel caso specifico) edificatorie. Con la sentenza n. 209 del 2020 la Corte ha precisato (in tal caso con riguardo alla materia di competenza concorrente “professioni”) che, ferma restando l’individuazione delle figure professionali in capo allo Stato, rimane nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale; pertanto, “laddove non direttamente incidente sulla istituzione e regolamentazione di nuove figure professionali, l’intervento delle regioni non può ritenersi precluso o limitato”.

 

Le materie trasversali

Va al contempo considerato che, come evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale sin dalla prima applicazione della riforma del 2001, tra le materie attribuite dall’art. 117, secondo comma, della Costituzione alla competenza legislativa esclusiva statale, ve ne sono alcune di carattere trasversale, che fanno riferimento non ad oggetti precisi, ma a finalità che devono essere perseguite e che pertanto si intrecciano con una pluralità di altri interessi, incidendo in tal modo su ambiti di competenza concorrente o residuale delle regioni (ex multis: sentenze n. 171 del 2012, n. 235 del 2011, n. 225/2009, n. 12 del 2009, n. 345/2004, n. 272/2004). Con riferimento a tali materie, sono stati coniati in dottrina ed utilizzati anche dalla giurisprudenza costituzionale i termini di “materie-funzioni” (cfr. sentenza n. 272 del 2004) o “materie-compito” (cfr. sentenza n. 336 del 2005) o finanche “materie non materie” (cfr. il “ritenuto in fatto” della sentenza n. 228 del 2004).

 

Le principali materie trasversali sono state individuate in:

-    tutela della concorrenza, materia della quale la giurisprudenza costituzionale ha costantemente sottolineato – stante il carattere «finalistico» della stessa – la «trasversalità», “corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento”, con conseguente possibilità di influire su altre materie attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni (sentenze n. 104/2021; n. 93/2017; 38/2013, 299 del 2012; n. 18 del 2012; n. 150 del 2011; n. 288 del 2010; n. 431, n. 430, n. 401, n. 67 del 2007 e n. 80 del 2006, n. 345 del 2004). Infatti, la materia tutela della concorrenza non ha solo un ambito oggettivamente individuabile che attiene alle misure legislative di tutela in senso proprio ma, dato il suo carattere «finalistico», anche una portata più generale e trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve essere valutata in concreto al momento dell'esercizio della potestà legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro rispettiva competenza (sentenza n. 291/2012). La nozione di tutela della concorrenza deve ritenersi comprensiva, peraltro, di tutte le misure legislative di promozione, dirette ad eliminare i vincoli alla libera esplicazione della concorrenza sia “nel mercato” sia “per il mercato” (sentenza n. 104/2021). Ad essa è inoltre sotteso “l'intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese” (sentenza n. 14/2004). L’esercizio della competenza esclusiva e trasversale della «tutela della concorrenza» può dunque intersecare qualsivoglia titolo di potestà regionale, seppur nei limiti necessari ad assicurare gli interessi cui essa è preposta, secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità (sentenza n. 41/2013; nello stesso senso, sentenze n. 104/2021, n. 325 del 2010, n. 452 del 2007, n. 80 e n. 29 del 2006, n. 222 del 2005). Occorre altresì verificare se le disposizioni regionali impugnate abbiano invaso la competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, dettando una disciplina contraria anche ai principi di derivazione europea: a questo scopo occorre tenere conto della ratio, della finalità, del contenuto e dell’oggetto della disciplina impugnata (da ultimo, sentenze n. 40 del 2017, n. 175 del 2016 e n. 245 del 2015);

-    tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, con riferimento alla quale la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che “non si può discutere di materia in senso tecnico, perché la tutela ambientale è da intendere come valore costituzionalmente protetto, che in quanto tale delinea una sorta di «materia trasversale», in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, fermo restando che allo Stato spettano le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” (ex multis: sentenze n. 262/2021, n. 77/2017, n. 278/2012, n. 171/2012, n. 20/2012, n. 235/2011, n. 191/2011, n. 225/2009, n. 12/2009, n. 378/2007). Secondo la Corte, dunque, la disciplina unitaria e complessiva dell’ambiente e dell’ecosistema inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto e deve garantire un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore. Sotto questo profilo, dunque, la competenza derivante da altre materie attribuite alla Regione diventa necessariamente recessiva, non potendo in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato (sentenze n. 9/2013, n. 278/2012 e n. 378/2007); la Corte ha altresì ribadito che, trattandosi di materia trasversale, implica, di per sé stessa, l’esistenza di “competenze diverse che ben possono essere regionali”. In tale ambito, pur rimanendo riservato allo Stato “il potere di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale”, non è esclusa la possibilità per le Regioni di intervenire per la cura “di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali senza, però, potere “apportare deroghe in peius rispetto ai parametri di tutela dell’ambiente fissati dalla normativa statale” (n. 218 del 2017). Inoltre, il carattere trasversale della materia, e quindi la sua potenzialità di estendersi anche nell’ambito delle competenze riconosciute alle Regioni, mantiene salva la facoltà di queste di adottare, nell’esercizio delle loro attribuzioni legislative, norme di tutela più elevata” (così la sentenza n. 7 del 2019);

-    determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, anch’essa ritenuta non una materia in senso stretto, ma “una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle” (ex multis, sentenze n. 164/2012 e n. 282/2004); tali competenze sono riconducibili a quelle norme che contengono un riferimento trasparente agli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera: la determinazione di tali standard deve essere garantita, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto; e la relativa competenza, «avendo carattere trasversale, è idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore statale deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di determinate prestazioni, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle (sentenze n. 192 del 2017, n. 125 del 2015, n. 111 del 2014, n. 207, n. 203 e n. 164 del 2012)»;

- armonizzazione dei bilanci pubblici, i cui principi – quali i principi contabili dettati dal D.Lgs. n. 118 del 2011 – sono al centro di un «intreccio polidirezionale delle competenze statali e regionali in una sequenza dinamica e mutevole della legislazione» (sentenza n. 6 del 2017 e n. 184 del 2016) afferente ai parametri costituzionali posti a presidio degli interessi finanziari, cosicché il D.Lgs. n. 118 del 2011 non contiene disposizioni ispirate soltanto all’armonizzazione dei bilanci. Dette disposizioni riguardano anche altri parametri quali, nel caso di specie, il principio dell’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 Cost. Dunque, l’armonizzazione si colloca contemporaneamente in posizione autonoma e strumentale rispetto al principio dell’equilibrio del bilancio ex art. 81 Cost.

 

Uguale carattere “espansivo” deve essere riconosciuto anche ad altre materie di competenza esclusiva statale, quali l’ordinamento penale (sentenza n. 185/2004), l’ordinamento civile (sentenze n. 233/2006, n. 380/2004 e n. 274/2003), politica estera e rapporti internazionali dello Stato e rapporti dello Stato con l’Unione europea (sentenze n. 232/2017 e n. 239/2004).

 

Parallelamente, anche alcune delle materie di competenza concorrente hanno manifestato nel tempo il loro carattere trasversale, così riverberando i loro effetti, sia pure solo con norme di principio, su materie specifiche e in parte riconducibili ad ambiti di competenza residuale delle regioni.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, una disposizione statale di principio, adottata in materia di legislazione concorrente “può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale e determinare una – sia pure parziale – compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative e amministrative delle Regioni” (ex plurimis, sentenze n. 44/2014, n. 237/2009, n. 159/2008, n. 181/2006 e n. 417/2005).

Viene, in tale quadro, in rilievo la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, alla base dei ripetuti interventi statali volti al contenimento delle spese degli enti territoriali, che si sono fatti più incisivi negli ultimi anni anche in considerazione della situazione di crisi economico-finanziaria (si v. infra). Vi sono ulteriori materie ascritte alla competenza concorrente che si sono prestate, nel tempo, ad incidere su ambiti propri di altre materie riservate alle regioni, fra le quali si richiamano, ad esempio, la tutela della salute, le professioni e la ricerca scientifica (si v. infra).

In altri casi, infine, il confine tra gli ambiti di competenza statale e quelli di competenza concorrente è molto sottile in base al dettato normativo ed è stato rafforzato e delimitato sulla base di un’ampia giurisprudenza costituzionale: è ad esempio il caso di “norme generali sull’istruzione”, di competenza esclusiva statale e “istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale”, di competenza concorrente (si v. infra).

La “concorrenza di competenze” ed il principio di leale collaborazione

La complessità dei fenomeni sociali oggetto di disciplina legislativa rende dunque molto spesso difficile la riconduzione di una normativa ad un’unica materia, determinandosi invece un intreccio tra diverse materie e diversi livelli di competenza che la Corte stessa non ha esitato a definire “inestricabile”.

Come rilevato nella fondamentale sentenza n. 50 del 2005, in caso di interferenze tra norme rientranti in materie di competenza statale ed altre di competenza concorrente o residuale regionale, “può parlarsi di concorrenza di competenze e non di competenza ripartita o concorrente. Per la composizione di siffatte interferenze la Costituzione non prevede espressamente un criterio ed è quindi necessaria l’adozione di principi diversi”. I principi enucleati dalla Corte sono il principio di prevalenza, che può applicarsi “qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre” (nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 114 del 2017, n. 44 del 2014, n. 118 del 2013, n. 334 del 2010, n. 237 del 2009), ed il principio di leale collaborazione, “che per la sua elasticità consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni” ed impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni, a salvaguardia delle loro competenze (nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 71 del 2018, n. 44/2014, n. 234/2012, n. 187/2012, n. 88/2009, n. 50/2008, n. 213/2006, n. 133/2006, n. 231/2005, n. 219/2005).

Recentemente sul punto la Corte ha affermato, con la sentenza n. 35 del 2021, che il principio di leale collaborazione trova applicazione nel caso in cui “l’intreccio sia inestricabile tramite il principio di prevalenza”.

Numerosissimi sono i casi in cui è emersa la necessità di attivare procedimenti destinati ad integrare il parametro della leale collaborazione, in particolare attraverso il sistema delle Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali, all’interno del quale “si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse locali” (sentenza n. 31/2006; nello stesso senso, ex multis, sentenza n. 114/2009).

Secondo la Corte, «il principio di leale collaborazione deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni: la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. La genericità di questo parametro, se utile per i motivi sopra esposti, richiede tuttavia continue precisazioni e concretizzazioni. Queste possono essere di natura legislativa, amministrativa o giurisdizionale» (sentenza n. 31/2006).

Il principio di leale collaborazione, cui la Corte ha fatto ampio ricorso anche nei casi di c.d. “attrazione in sussidiarietà” (si v. immediatamente infra), è divenuto così un principio-cardine e costituisce una fondamentale chiave di lettura per delineare il quadro delle attribuzioni nei frequenti casi di intersezione e sovrapposizione tra competenze statali e competenze regionali.

Il principio di leale collaborazione è “suscettibile di essere organizzato in modi diversi, per forme e intensità” (sentenza n. 308/2003), a seconda del quantum di incidenza sulle competenze regionali.

Una nutrita giurisprudenza costituzionale ha spesso richiesto per l’adozione di una disciplina, segnatamente di carattere regolamentare, ma anche di natura legislativa, in ambiti normativi di pertinenza regionale, la previa intesa in sede di Conferenza unificata o di Conferenza Stato-regioni, al fine di garantire un contemperamento tra potestà statali e prerogative regionali; l’intesa è stata talora costruita come intesa “forte”, con un livello di codecisione paritaria tra Stato e Regioni (sentenza n. 383 del 2005). In tal senso si richiama la disposizione di cui all’articolo 8, comma 6 della legge n. 131 del 2003, che prevede la stipula di intese per favorire l'armonizzazione delle legislazioni di Stato e Regioni: per queste intese, a differenza di quanto previsto dal comma 3 dell'articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, non esiste una norma di chiusura che consenta al Consiglio dei ministri di procedere in caso di mancato raggiungimento.

La previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una “drastica previsione” della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, ma che siano necessarie “idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze” (ex plurimis, sentenze n. 56/2020, n. 179/2012, n. 121/2010, n. 24/2007, n. 339/2005).

In altri casi di minore impatto sulle competenze regionali, la Corte ha invece ritenuto sufficiente l’acquisizione di un parere della Conferenza (sentenze n. 232/2009 e n. 200/2009). In particolare, “nelle materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio” (sentenze n. 62/2013, n. 265 /2011, n. 254/2010, n. 182/2006, n. 336/2005 e n. 285/2005).

Ciò premesso, sulla base dei più recenti orientamenti, si può sostenere che la giurisprudenza costituzionale (si veda in particolare la sentenza n. 7 del 2016) appare orientata a ritenere la previsione dell'intesa la forma più idonea di coinvolgimento regionale in presenza di prevalenza di una materia di legislazione concorrente o di residuale competenza regionale, ovvero (sentenze n. 56 e n. 72 del 2019) in presenza di un "nodo inestricabile" di competenze esclusive, concorrenti e residuali nel quale non sia possibile stabilire una competenza prevalente, potendosi quindi procedere, sembra desumersi, negli altri casi (come la prevalenza di una competenza esclusiva statale) alla previsione del parere.

La giurisprudenza della Corte costituzionale, inoltre, non si è limitata a delimitare e chiarificare l’estensione del principio di leale collaborazione in relazione alle materie di competenza concorrente. In più occasioni, infatti, la Corte è intervenuta per salvaguardare tale principio anche in relazione al tipo di atto o di procedimento adottato al fine di garantire, ove necessario, un appropriato coinvolgimento dei diversi livelli di governo.

Nello specifico negli ultimi anni la giurisprudenza della Corte è stata caratterizzata da una mitigazione del risalente orientamento che non imponeva il principio di leale collaborazione al procedimento legislativo, prevedendo che le forme di coinvolgimento degli enti locali dovessero essere adottate solo per l’approvazione degli atti regolamentari previsti dalla legislazione statale.

Tale impostazione che esclude l’applicazione delle procedure di leale collaborazione al procedimento legislativo è stata da ultimo ribadita con le sentenze n. 37/2021, n. 65/2016 e n. 43/2016. Nondimeno la sentenza n. 251/2016 ha rappresentato una vera svolta giurisprudenziale in questo settore. La Corte ha nello specifico affermato che rispetto ai suoi precedenti orientamenti in cui il principio di leale collaborazione non si imponeva al procedimento legislativo: «(...) là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa.». In caso di delega legislativa di riforma organica di un settore in cui è riscontrabile un intreccio di materie incidenti su competenze regionali è necessario di conseguenza che al fine dell’esercizio della delega, i decreti legislativi da adottare siano frutto di un’intesa “forte” tra Stato e Regioni.

Tale impostazione è stata ribadita e definita nelle successive sentenze n. 35/2021 e n. 154/2017 e n. 155/2017.

Sulla questione la Corte è poi ritornata con la sentenza n. 169 del 2020. Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza recente in materia di delegazione legislativa e principio di leale collaborazione – fra cui la sentenza n. 261 del 2017, nonché la sentenza n. 251 del 2016 – la Corte dichiara l’infondatezza della questione perché ritiene che nel caso di specie sia stata comunque garantita la leale collaborazione in ragione della previsione, da parte del decreto legislativo, di un’intesa fra Stato e Regioni per l’approvazione del decreto ministeriale di attuazione (come imposto dalla sentenza n. 261 del 2017), sebbene l’intesa non sia stata effettivamente raggiunta. In particolare, la Corte ribadisce quanto era già stato affermato nella sentenza n. 261 del 2017, ovvero che «la disciplina del sistema camerale si colloca al crocevia di distinti livelli di governo, richiedendo, dunque, un adeguato coinvolgimento delle autonomie regionali». Si sottolinea altresì che la sentenza n. 251 del 2016 ha precisato che, «[n]el seguire le cadenze temporali entro cui esercita la delega, […] il Governo può fare ricorso a tutti gli strumenti che reputa, di volta in volta, idonei al raggiungimento dell’obiettivo finale [...] consiste[nte] nel vagliare la coerenza dell’intero procedimento di attuazione della delega, senza sottrarlo alla collaborazione con le Regioni»: ciò porta ad affermare che in generale “l’adeguatezza del coinvolgimento regionale [...] lungi dall’imporre un rigido automatismo, abbraccia necessariamente un orizzonte ampio, offerto dall’intero procedimento innescato dal legislatore delegante, da valutarsi alla luce dei meccanismi di raccordo complessivamente predisposti dallo Stato». Sulla base di tali capisaldi la Corte sviluppa il ragionamento che la conduce a ritenere non fondate le questioni prospettate nel caso di specie, osservando anche come la eventuale dichiarazione di illegittimità derivata della norma del decreto legislativo delegato porterebbe a sindacare la medesima disposizione normativa due volte per violazione del medesimo principio: “a valle” perché non ha previsto, nella attuazione tramite decreto ministeriale, un adeguato coinvolgimento delle autonomie regionali, “a monte” perché non concertata con le Regioni prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo».

Nella maggior parte dei casi, comunque, la sede in cui gli strumenti di leale collaborazione trovano la loro attuazione è in atti di natura secondaria.

A questo proposito, si segnala la sentenza n. 83/2016 con la quale la Corte ha fornito alcuni criteri per valutare se il principio di leale collaborazione sia stato violato o meno. Nello specifico giova ricordare come, ad avviso della Corte, la valutazione dell’effettività dell’attuazione del principio di leale collaborazione non debba limitarsi ad una valutazione della norma impugnata, ma debba essere effettuato alla luce di un’interpretazione sistemica delle disposizioni vigenti. Pertanto, il principio di leale collaborazione non esplica la propria efficacia solamente nei procedimenti normativi ma interessa tutti i profili di autonomia di cui godono gli enti territoriali.

Sullo stesso tema la sentenza n. 168 del 2021 ribadisce come “la disciplina dei piani di rientro dai disavanzi sanitari e dei relativi commissariamenti è connotata da un costante confronto collaborativo tra il livello statale e quello regionale”. Quanto detto esemplifica come, anche in questo ambito, il principio di leale collaborazione sia saldamente presente.

La “attrazione in sussidiarietà”

Un altro principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale che determina un’attribuzione di competenze per alcuni aspetti differente rispetto a quella desumibile dal tenore letterale dell’art. 117 Cost. è quello della c.d. attrazione in sussidiarietà, enunciato per la prima volta nella sentenza n. 303 del 2003.

A partire da tale sentenza, la Corte ha individuato, nel nuovo sistema delineato dalla riforma del 2001, un “elemento di flessibilitànellart. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida la stessa distribuzione delle competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne lesercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Dall’ “attitudine ascensionale” del principio di sussidiarietà discende che, quando listanza di esercizio unitario trascende anche lambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato.

Lallocazione delle funzioni amministrative si riflette anche sulla distribuzione delle competenze legislative: se la legge può assegnare l’esercizio delle funzioni amministrative allo Stato, essa, in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, può anche organizzarle e regolarle, al fine di renderne lesercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale. Ne consegue che lattrazione allo Stato delle funzioni amministrative comporta la parallela attrazione della funzione legislativa.

I principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dellinteresse pubblico sottostante allassunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità e rispetti il principio di leale collaborazione.

Allo stesso modo e negli stessi limiti sono giustificati interventi della legislazione statale in ambiti materiali di competenza residuale (sentenze n. 76 del 2009, n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006).

 

In particolare, la sentenza n. 6 del 2004 ha fissato le condizioni per l’applicazione del “principio di sussidiarietà ascendente”. Affinché la legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l’esercizio, è necessario che:

§   rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni;

§   detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni;

§   risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine;

§   risulti adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione;

§   preveda adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali.

Tale impostazione è stata confermata dalla successiva giurisprudenza (sentenze n. 7/2016 n. 62/2013, n. 88/2009, n. 248/2006 e n. 383/2005).

In particolare la sentenza n. 7/2016 ribadisce chiaramente ed esplicitamente l’orientamento giurisprudenziale adottato con la sentenza n. 6/2004. La Corte con la stessa pronuncia ha inoltre affermato, in relazione alla previsione di adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali, che: « nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – la legislazione statale (…) può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà” (sentenza n. 303 del 2003)».

 

L’attrazione in sussidiarietà ha trovato applicazione principalmente nei settori delle infrastrutture (sentenza n. 303/2003), dell’energia con (sentenze n. 4/2004 e n. 383/2005) con particolare riferimento nelle pronunce più recenti all’attività di estrazione di idrocarburi (sentenze n. 198/2017, n. 170/2017, n. 142/2016), dell’ordinamento della comunicazione (sentenza n. 163/2012) e del turismo (sentenze n. 80/2012, n. 76/2009, n. 13/2009, n. 94/2008, n. 339/2007, n. 88/2007 e n. 214/2006).

Con la sentenza n. 163 del 2012, in particolare, la Corte ha evidenziato che alla luce dell’istituto della chiamata in sussidiarietà lo Stato può esercitare funzioni sia amministrative che legislative in materie di competenza concorrente e residuale quando esigenze di esercizio unitario lo richiedano, purché l’intervento statale sia proporzionato e pertinente rispetto allo scopo perseguito e non leda il principio di leale collaborazione. Come più volte sottolineato tuttavia “nei casi di attrazione in sussidiarietà di funzioni relative a materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e Regioni, è necessario, per garantire il coinvolgimento delle Regioni interessate, il raggiungimento di un’intesa, in modo da contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni” (ex plurimis sentenze nn. 383 e 62 del 2005, n. 6 del 2004, n. 278 del 2010 e n. 165 del 2011).

L’accesso delle Regioni alla Corte costituzionale in via principale: la “ridondanza”

L’articolo 127 della Costituzione riserva alle Regioni la possibilità di impugnare, in via principale, le leggi dello Stato qualora ravvisi in queste una lesione della propria sfera di competenza. In questo ambito la giurisprudenza della Corte è orientata nel riconoscere, in alcuni casi, la facoltà delle Regioni ad impugnare, in via principale, disposizioni statali riguardanti anche parametri diversi da quelli contenuti nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione. In questi casi il ricorso delle Regioni è comunque ammissibile qualora dal parametro impugnato, pur non rientrando quelli contenuti nel Titolo V della Costituzione, sia possibile riscontrare violazioni tali da determinare una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, ridondando quindi sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. (sentenza n. 220/2013).

La cosiddetta giurisprudenza della “ridondanza” consente quindi alle Regione di ricorrere in via principale alla Corte, impugnando leggi statali in base alla presunta violazione di parametri diversi da quelli contenuti nel Titolo V della Costituzione, a condizione che le lamentate violazioni dei parametri impugnati siano tali da ridondare nel riparto delle competenze legislative delle Regioni (sentenze n. 128/2011, n. 326/2010, n. 116/2006, n. 280/2004).

La giurisprudenza consolidata della Corte è dunque orientata verso un’interpretazione sostanziale e non meramente formale della facoltà delle Regioni di impugnare la normativa statale potenzialmente lesiva delle loro competenze ex art. 127 Cost.

Di particolare interesse sono i casi in cui la giurisprudenza della ridondanza è stata utilizzata per dichiarare ammissibili questioni di legittimità inerenti il sistema delle fonti e il loro utilizzo da parte del legislatore (sentenze n. 220/2013, n. 22/2012). Ad esempio, con riferimento all’art. 77 Cost., la Corte ha riconosciuto che le Regioni possono impugnare un decreto-legge per motivi attinenti alla pretesa violazione del medesimo articolo 77 (ad esempio, carenza dei requisisti di necessità ed urgenza) «ove adducano che da tale violazione derivi una compressione delle loro competenze costituzionali» (sentenze n. 6/2004, n. 303/2003).

La censura basata su parametri non attinenti al riparto di competenze è ammissibile anche se solo potenzialmente fondata rispetto ad una norma contenuta nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione. La questione infatti, all’esito di uno scrutinio di merito, potrebbe risultare non fondata rispetto ai parametri competenziali, ma essere ritenuta preliminarmente ammissibile proprio per la sua potenziale incidenza su questi ultimi. Solo se dalla stessa prospettazione del ricorso emerge l’estraneità della questione rispetto agli ambiti di competenza regionale – indipendentemente da ogni valutazione sulla fondatezza delle censure – la questione deve essere dichiarata inammissibile (sentenze n. 8/2013, n. 220/2013).

L’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione

L’inattuazione dell’articolo 119 Cost., che riconosce agli enti territoriali autonomia finanziaria di entrata e di spesa, si ripercuote anche sul riparto di competenze legislative delineato dall’articolo 117 Cost.

È infatti innegabile l’esistenza di un nesso tra l’esercizio di competenze legislative e, dunque, l’attuazione di politiche pubbliche, da una parte, e la responsabilità finanziaria connessa a quelle politiche, dall’altra.

Nelle materie di competenza regionale – residuale o concorrente – spetta dunque alle regioni il reperimento delle risorse necessarie per finanziare le relative politiche.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, «l’art. 119 Cost. vieta al legislatore statale di prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 168 del 2008, nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 168 del 2009, nn. 63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005).

Così almeno secondo il disegno costituzionale. Questo orientamento ha dovuto peraltro fare i conti con l’inattuazione dell’articolo 119 Cost. e dunque con l’attuale assenza di una compiuta autonomia finanziaria delle regioni.

La c.d. legge delega sul federalismo fiscale (L. n. 42/2009) ha dato avvio al processo di attuazione dell’art. 119 Cost., ma questo processo non è stato ancora completato.

La Corte Costituzionale ha in proposito evidenziato che “nella perdurante inattuazione della legge n. 42 del 2009, che non può non tradursi in incompiuta attuazione dell’art. 119 Cost., l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa (sentenze n. n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011). Tali interventi si configurano infatti come «portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla attuale grave crisi economica nazionale e internazionale» (sentenza n. 121 del 2010), che ben possono essere ritenute giustificazioni sufficienti per legittimare l’intervento del legislatore statale limitativo della competenza legislativa residuale delle Regioni, (così le sentenze n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011, in materia di trasporto pubblico locale).

Sempre la Corte ha rilevato che “il mancato completamento della transizione ai costi e fabbisogni standard, funzionale ad assicurare gli obiettivi di servizio e il sistema di perequazione, non consente, a tutt’oggi, l’integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previsti dall’art. 119 Cost.” (sentenza n. 273/2013).

La Corte dunque “ha ben presente, al riguardo, il disposto dell’art. 119, quarto comma, Cost., secondo cui le funzioni attribuite alle Regioni sono finanziate integralmente dalle fonti di cui allo stesso art. 119 (tributi propri, compartecipazioni a tributi erariali e altre entrate proprie). Ritiene peraltro che, in mancanza di norme che attuino detto articolo […] l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso, oltre a rispondere ai richiamati principi di eguaglianza e solidarietà, riveste quei caratteri di straordinarietà, eccezionalità e urgenza conseguenti alla situazione di crisi internazionale economica e finanziaria” (sentenza n. 10/2010).

Si consideri poi che la legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio, ha delimitato in vario modo l'autonomia finanziaria degli enti territoriali, a partire dalla modifica dello stesso art. 119 e dallo spostamento della “armonizzazione dei bilanci pubblici” dall'ambito delle materie concorrenti a quello delle materie di competenza legislativa esclusiva statale.

Del resto, il richiamo al generale contesto di recessione economica è ripetuto in numerose sentenze degli ultimi anni, al fine di giustificare un’interpretazione estensiva delle competenze del legislatore nazionale.

Secondo la Corte, infatti, «la situazione eccezionale di crisi economico-sociale» non è priva di incidenza sul riparto costituzionale delle competenze, perché ha «ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare» la propria competenza legislativa esclusiva nella materia “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (sentenza n. 62/2013).

Sempre in considerazione della difficile congiuntura economica, la Corte ha progressivamente ampliato gli ambiti di intervento del legislatore statale in un’altra materia “trasversale” come il coordinamento della finanza pubblica, avallando, nei fatti, le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli anche molto puntuali per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali (sentenze n. 23/2014 e n. 198/2012).

Un più ampio potere del legislatore statale è stato riconosciuto anche nei confronti delle regioni a statuto speciale, ritenendo la Corte che in un contesto di grave crisi economica il legislatore possa discostarsi dal modello consensualistico nella determinazione delle modalità del concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica (sentenze n. 23/2014 e n. 193/2012).

 

Al riguardo, nelle conclusioni della Relazione semestrale sull’attuazione del federalismo fiscale (approvata dalla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale nella seduta del 18 gennaio 2018) si evidenzia che “la molteplicità delle questioni ancora aperte in ordine all’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione richiederà un’opera di attenta concertazione tra i diversi soggetti istituzionali. Saranno necessari, ma non sufficienti, alcuni adeguamenti istituzionali e amministrativi. Ancor più sarà necessario realizzare una politica della responsabilizzazione di ogni livello di governo. A tal fine, l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione rimane uno strumento potente. Probabilmente, con il venir meno dell’emergenza economico-finanziaria sarà possibile avviare e auspicabilmente portare a compimento la stabilizzazione del quadro normativo e finanziario di riferimento. È una condizione per porre fine alla lunga transizione”.

 

Si ricorda che la legge delega n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale ha avuto un seguito parziale con la definizione di atti di fonte secondaria e che la sua attuazione è stata rinviata più volte; da ultimo, il decreto-legge 137 del 2020 (articolo 31-sexies), nelle more del riordino del sistema di finanza locale, ha ulteriormente differito (dal 2021 al 2023) l’entrata in vigore dei meccanismi di finanziamento delle funzioni regionali diretti ad assicurare autonomia di entrata alle regioni a statuto ordinario e la conseguente soppressione dei trasferimenti statali.

 

A decorrere da tale anno le fonti di finanziamento delle regioni per l'erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) nelle materie della sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico locale (per la spesa di parte capitale) dovranno essere costituite da entrate di tipo tributario (opportunamente rimodulate ed eventualmente perequate) ed entrate proprie, vale a dire che dovrebbe essere completamente superato il sistema dei trasferimenti erariali e della perequazione basata sulla spesa storica.

Nell'attuale regime le fonti di finanziamento delle regioni a statuto ordinario sono costituite dai tributi propri, dalla compartecipazione al gettito dell'IVA, dalle entrate proprie (quelle derivanti da beni, attività economiche della regione e rendite patrimoniali), dai trasferimenti perequativi per i territori con minore capacità fiscale per abitante e, infine, dalle entrate da indebitamento, che sono però riservate a spese di investimento (art. 119, Cost.).

 

Allo stato attuale, l'attuazione della legge delega n. 42 del 2009 è avvenuta solo in parte e il processo volto alla compiuta affermazione dei principi del federalismo fiscale è stato sinora caratterizzato da ritardi, incertezze, soluzioni parziali e reiterati differimenti: in particolare, la fiscalizzazione dei trasferimenti, diretta a superare il meccanismo della finanza derivata, è stata concretamente realizzata solo per il comparto comunale; la perequazione delle risorse basata sui fabbisogni e sulle capacità fiscali è stata avviata esclusivamente per i comuni delle regioni a statuto ordinario; la perequazione infrastrutturale e il percorso di convergenza ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP) fanno registrare perduranti inadempienze. La legge delega ha avuto più completa attuazione, invece, con riferimento alla riforma della contabilità nell'ambito del processo di armonizzazione dei bilanci pubblici. La sollecitazione a realizzare i LEP è presente anche in alcune sentenze della Corte (si veda ad esempio la sentenza n. 220 del 2021).

Nel corso dell'ultimo biennio si sono tuttavia registrati segnali incoraggianti per quanto riguarda la definizione dei LEP in ambito sociale: infatti nelle due ultime leggi di bilancio sono state stanziate risorse ulteriori, nell'ambito del Fondo di solidarietà comunale, espressamente finalizzate al raggiungimento di obiettivi di servizio nei settori degli asili nido e dei servizi sociali.

 

Con la legge di bilancio per il 2022, inoltre, è stato normativamente definito il contenuto dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, così chiarendo che i livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) sono costituiti dagli interventi, dai servizi, dalle attività e dalle prestazioni integrate che la Repubblica assicura con carattere di universalità su tutto il territorio nazionale per garantire qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione, prevenzione, eliminazione o riduzione delle condizioni di svantaggio e di vulnerabilità. I rinvii normativi all'interno del comma definiscono i LEPS e la platea a cui sono indirizzati.

Tuttavia, nel quadro del federalismo fiscale la definizione dei LEPS non si traduce necessariamente nella previsione di un livello di uniforme di servizi sia dal punto di vista delle modalità di erogazione che dal punto di vista del numero degli utenti. Una volta garantita la possibilità di accesso ai servizi, infatti, la partecipazione effettiva potrà variare in funzione delle preferenze e dei bisogni determinati dalle condizioni socio-economiche di ogni singola realtà locale.

 

Come si legge nelle conclusioni della relazione semestrale sull’attuazione del federalismo fiscale (approvata dalla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale nella seduta del 15 dicembre 2021), l’insorgere dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha rapidamente e profondamente mutato il quadro delle priorità politiche con conseguenze significative anche sul processo di attuazione del federalismo fiscale. Inoltre, il repentino rallentamento delle attività economiche, a seguito delle restrizioni dirette a contenere l’ondata pandemica, ha fortemente inciso sulle finanze degli enti territoriali.

Tuttavia, il progressivo superamento dell’emergenza epidemiologica e l’auspicabile ritorno a una situazione di normalità sul piano economico e finanziario, unitamente ai benefici attesi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, dovrebbero consentire di superare definitivamente la fase emergenziale sul versante della finanza territoriale, in modo da rilanciare il cammino verso la piena attuazione del federalismo fiscale e la valorizzazione del principio di autonomia finanziaria.

 

In merito al PNRR, si ricorda che una parte significativa delle varie Missioni del Piano coinvolge le autonomie territoriali sia indirettamente come soggetti beneficiari, sia direttamente in qualità di soggetti attuatori. Lo spettro delle materie interessate è molto ampio e spazia – in via del tutto esemplificativa – dai trasporti alla tutela del territorio, dagli asili nido agli edifici scolastici, dalla sanità alle politiche del lavoro fino ai servizi sociali.

 

Da ultimo, si segnala che risulta in corso di esame (in seconda lettura alla Camera) una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare (già approvata a maggioranza assoluta in seconda lettura dal Senato), che integra il quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione al fine di introdurre il principio secondo il quale “la Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità”.

L’emergenza Covid-19 e il riparto di competenze legislative: primi elementi della giurisprudenza costituzionale

A partire dal 23 febbraio 2020 - data di emanazione del decreto-legge n. 6 del 2020, primo dei decreti-legge chiamati ad affrontare l’emergenza Covid-19 – è seguita l’adozione di numerosi provvedimenti di urgenza e specifiche misure a diversi livelli rientranti nell’ambito della “legislazione dell’emergenza”.

In proposito, nella Relazione della Corte costituzionale (aprile 2020) si è ricordato come la nostra Costituzione non contempli, a differenza di altri ordinamenti, come quello francese, tedesco o spagnolo, un diritto speciale per lo stato di emergenza. Ciò sulla base di una scelta consapevole che portò i Costituenti a non inserire «clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi in tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri».

Al contempo la Corte ha rammentato che è possibile adottare misure idonee ad affrontare una situazione di emergenza nel rispetto dei principi di “necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità”, criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve attuarsi la tutela “sistemica e non frazionata” dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. In tale contesto, inoltre, la Corte sottolinea con enfasi il ruolo svolto in momenti di emergenza dal principio di “leale collaborazione”.

Considerato il permanere e l’incidenza della pandemia, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla normativa, statale e regionale, adottata per far fronte ai problemi posti dalla diffusione del virus. In particolare le sentenze n. 37 e n. 198 del 2021 hanno affrontato il tema dell’inquadramento costituzionale delle misure di contrasto alla pandemia s sotto il profilo del riparto delle competenze tra Stato e Regioni e sotto il profilo del rapporto tra Governo e Parlamento.

Quanto al primo aspetto, con la sentenza n. 37 del 24 febbraio 2021 sulla legge della regione Valle d’Aosta n. 11 del 9 dicembre 2020, che aveva introdotto misure di contenimento della diffusione del contagio da COVID-19 diverse da quelle statali - legge sospesa in via cautelare con l’ordinanza della Corte costituzionale n. 4/2021 - la Corte ha svolto alcuni primi chiarimenti sul riparto di competenze legislative tra lo Stato e le regioni sugli interventi legislativi di contenimento e contrasto della pandemia.

La Corte ha ritenuto che il legislatore regionale, anche se dotato di autonomia speciale, non può invadere con una sua propria disciplina una materia avente ad oggetto la pandemia da COVID-19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di «profilassi internazionale» (art. 117, secondo comma, lettera q), Cost.), che è comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla.

Il radicamento nell’ordinamento costituzionale dell’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, in questa materia si fonda, secondo la ricostruzione operata dalla Corte, su «ragioni logiche, prima che giuridiche» (sentenza n. 5 del 2018), per le quali ogni decisione, per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, ha un effetto a cascata, potenzialmente anche significativo, sulla trasmissibilità internazionale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla.

Al contempo, la necessità di un coordinamento o di un’azione unitari possono emergere ai sensi dell’articolo 118 Cost. tutte le volte in cui, secondo il non irragionevole apprezzamento del legislatore statale, sia inidoneo il frazionamento su base regionale e locale delle attribuzioni. Ciò vale «per ogni profilo di gestione di una crisi pandemica.

Per la Corte, dunque, le autonomie regionali, ordinarie e speciali, non sono estranee alla gestione delle crisi emergenziali in materia sanitaria, in ragione delle attribuzioni loro spettanti nelle materie “concorrenti” della tutela della salute e della protezione civile, ma “nei limiti in cui esse si inseriscono armonicamente nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica”. Tra i compiti che le Regioni possono svolgere, a titolo esemplificativo, c’è quello di definire da chi sono composti gli organi regionali competenti a prestare la collaborazione richiesta dallo Stato e ad esercitare le attribuzioni demandate alle regioni.

Nella sentenza n. 37 la Corte ha chiarito un ulteriore aspetto di rilievo, osservando che il «modello offerto dalla legislazione vigente se da un lato appare conforme al disegno costituzionale, dall’altro non ne costituisce l’unica attuazione possibile. È perciò ipotizzabile che il legislatore statale, se posto a confronto con un’emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari, scelga di introdurre nuove risposte normative e provvedimentali tarate su quest’ultima».

Alla luce di tale ragionamento, la Corte ricorda che ciò è proprio quanto accaduto a seguito della diffusione del COVID-19, a partire dal decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13), con il quale il legislatore statale si è affidato ad una sequenza normativa e amministrativa che muove dall’introduzione, da parte di atti aventi forza di legge, di misure di quarantena e restrittive, per culminare nel dosaggio di queste ultime, nel tempo e nello spazio, e a seconda dell’andamento della pandemia, da parte di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Siffatto quadro normativo, che è stato ulteriormente sviluppato con il decreto-legge n. 19 del 2020 e il decreto-legge n. 33 del 2020, reca un vasto insieme di misure precauzionali e limitative, la cui applicazione è affidata a d.P.C.m., la cui adozione è preceduta, a seconda degli interessi coinvolti, dal parere dei Presidenti delle Regioni o, nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale, da quello del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (art. 2 del D.L. n. 19 del 2020).

Sul punto, la Corte, pur precisando che non è in questione la legittimità dei d.P.C.m., comunque assoggettati al sindacato del giudice amministrativo, precisa che la soluzione normativa scelta dal legislatore statale nell’esercizio della discrezionalità in una materia di sua competenza esclusiva (sentenza n. 7 del 2016), attiva un percorso di leale collaborazione con il sistema regionale e risulta «consona sia all’ampiezza del fascio di competenze regionali raggiunte dalle misure di contrasto alla pandemia, sia alla circostanza obiettiva per la quale lo Stato, perlomeno ove non ricorra al potere sostitutivo previsto dall’art. 120 Cost., è tenuto a valersi della organizzazione sanitaria regionale, al fine di attuare le proprie misure profilattiche».

Il meccanismo di contrasto alla pandemia introdotto dal legislatore statale prevede inoltre che nelle more dell’approvazione dei d.P.C.m., per contenere un aggravamento della crisi, il Ministro della salute può intervenire mediante il potere di ordinanza attribuito dall’art. 32 della legge n. 833 del 1978. L’art. 1 del d.l. n. 33 del 2020 ha inoltre attribuito uno spazio di intervento d’urgenza anche ai sindaci (comma 9), e, soprattutto, alle Regioni (comma 16), alle quali, nelle more dell’adozione dei d.P.C.m., compete l’introduzione di «misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte» dal d.P.C.m., ovvero anche “ampliative”, ma, per queste ultime, d’intesa con il Ministro della salute, e nei soli casi e nelle forme previsti dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

In tale ambito la Corte afferma il divieto per le Regioni, anche ad autonomia speciale, di interferire legislativamente con la disciplina fissata dal competente legislatore statale. Ciò che infatti la legge statale permette non è una politica regionale autonoma sulla pandemia, ma la sola disciplina (restrittiva o ampliativa che sia), che si dovesse imporre per ragioni manifestatesi dopo l’adozione di un d.P.C.m., e prima che sia assunto quello successivo, affinché non sorgano vuoti di tutela, quanto a circostanze sopravvenute e non ancora prese in carico dall’amministrazione statale.

Da ultimo, la Corte precisa che resta salvo l’esercizio delle attribuzioni regionali laddove esse non abbiano alcuna capacità di interferire con quanto determinato dalla legge statale e dagli atti assunti sulla base di essa per contenere e debellare il contagio.

 

Con la successiva sentenza n. 198/2021, la Corte ha avuto modo di ritornare sul d.l. n. 6 e, in maniera più estesa, sul d.l. n. 19 del 2020, soffermandosi in particolare sul rapporto tra Governo e Parlamento nella gestione della pandemia e sulla questione della natura giuridica dei d.P.C.m., di cui viene sancita la legittimità.

In particolare, la Corte ha evidenziato innanzitutto come il decreto-legge n. 19 del 2020 abbia operato una tipizzazione delle misure di contenimento potenzialmente applicabili per la gestione dell’emergenza nell’ambito della fonte primaria, a differenza del precedente decreto legge n. 6 che conteneva una “clausola di apertura verso indefinite ulteriori misure”.

La Corte sottolinea inoltre come la tipizzazione delle misure di contenimento sia stata corredata da ulteriori garanzie, quali la temporaneità delle misure restrittive (art. 1, co.1), la responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento (art. 2, co. 5), nonché l’indicazione di limiti alla discrezionalità del Presidente del Consiglio attraverso il richiamo ai «principi di adeguatezza e proporzionalità» (art. 1, co. 2) e la previsione del parere del Comitato tecnico-scientifico (art. 2, co. 1).

Per il giudice delle leggi, il contenuto tipico del dPCm e gli altri elementi evidenziati sono sufficienti a smentire l’ipotesi del giudice rimettente circa il conferimento di potestà legislativa al Presidente del Consiglio dei ministri in violazione degli articoli 76 e 77 Cost. Per la Corte, piuttosto, il decreto-legge n. 19 del 2020 si limita a prevedere una potestà amministrativa ad efficacia generale: non si configura in tal senso alcuna alterazione del sistema delle fonti del diritto, in quanto la fonte primaria si limita ad autorizzare il Presidente del Consiglio a dare esecuzione, tramite propri decreti, alle misure tipiche ivi previste.

Muovendo da queste considerazioni la Corte ha poi affrontato una questione ulteriore, relativa alla natura giuridica dei dPCm utilizzati per la gestione della pandemia: i provvedimenti del Presidente del Consiglio previsti dal decreto legge n. 19 del 2020 possono essere accostati “per certi versi” agli atti necessitati, in quanto emessi, come chiarito in premessa, in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto. Nel sottolineare ciò, la Corte chiarisce pertanto che i dPCM emergenziali non possono essere equiparati alle ordinanze contingibili e urgenti previste dal Codice della protezione civile (D.Lgs. n. 1 del 2018), che sono invece atti a contenuto libero.

Con tale sequenza di argomentazioni, la Corte conclude confermando che il modello di regolazione normativa della pandemia, affermato con il decreto-legge n. 19 del 2020, non coincide con il modello prefigurato del Codice della protezione civile. Per la Corte l’unico punto di intersezione tra i due modelli è rappresentato dalla dichiarazione dello stato di emergenza. Per il resto, l’uso di decreti legge che hanno rinviato la propria esecuzione ad atti amministrativi tipizzati rappresenta un modello alternativo, definito dal legislatore nell’esercizio della propria competenza per il contenimento della pandemia, che è competenza esclusiva dello Stato in quanto riconducibile alla materia della “profilassi internazionale”, come ricordato già dalla Corte nella precedente sentenza n. 37 del 2021.

Dati statistici

Nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, realizzata con la legge costituzionale n. 3/2001, è progressivamente aumentata la conflittualità tra gli enti dotati di potestà legislativa, come dimostrano le analisi del contenzioso tra Stato, Regioni e Province autonome in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale.

In particolare, l’esame dell’attività della Consulta dopo il 2001 evidenzia lo spazio crescente assunto dal giudizio in via principale (lo Stato e le Regioni e Province autonome presentano direttamente un ricorso di incostituzionalità avverso le leggi, rispettivamente, della Regione e dello Stato o di altra Regione), sia in termini assoluti (numero delle decisioni, ossia sentenze e ordinanze), sia in termini percentuali (in rapporto al totale delle decisioni della Corte).

 

Il grafico n. 1 mostra l’andamento in percentuale del giudizio in via principale a partire dal 2002.

 

Grafico n. 1 – Il giudizio in via principale in rapporto al totale delle decisioni (2002-2021). Fonte: elaborazione su dati della Corte costituzionale, Relazioni annuali

 

 

Complessivamente, dal 2002 al 2021, il giudizio in via principale è salito dal 5,6 al 40,6 per cento del totale delle pronunce della Corte, con un picco del 47,5 per cento, raggiunto nel 2012. In particolare, per quanto riguarda l’ultimo anno, si è passati infatti da 92 a 108 decisioni del giudizio in via principale. All’incremento del giudizio in via principale ha corrisposto un decremento del numero di decisioni del giudizio in via incidentale, come evidenzia il grafico n. 2.

 

Il grafico n. 2 evidenzia infatti il numero di decisioni di legittimità costituzionale ripartite tra giudizi in via principale e in via incidentale a partire dal 2002.

 

 

 

 

 

Grafico n. 2 – Le decisioni di legittimità costituzionale ripartite tra giudizi in via incidentale e in via principale (2002-2021).

Fonte: elaborazione su dati della Corte costituzionale, Relazioni annuali

 

 

All’interno del periodo considerato, sono individuabili diverse fasi.

I primi dati significativi sono riferibili al 2003. Come evidenziato dalla Corte, “nel corso del 2002 la maggior parte delle decisioni nel settore dei rapporti Stato-Regioni aveva riguardato ricorsi promossi nella vigenza del vecchio Titolo V, o problemi di diritto intertemporale, collegati al sopravvenire del nuovo parametro costituzionale, in assenza, tra l’altro, di disposizioni transitorie. ? invece nel 2003 che si affronta decisamente il merito delle questioni” [2] .

 

Fino al 2003, la gran parte del contenzioso costituzionale è occupato dal giudizio di legittimità in via incidentale, i cui dati hanno oscillato tra il 75 ed il 90% del totale delle pronunce, attestandosi su una media dell’83,64% per il periodo 1983-2002.

 

Il giudizio in via principale, infatti, si è attestato, per il periodo 1983-2002, ad una media del 7,29% (il 2002 si è posto leggermente al di sotto, con una percentuale di 5,61), con un picco negativo di 2,76% (nel 1998) ed uno positivo di 11,14% (nel 1988). Proprio nel 2003 tale giudizio ha conosciuto un notevole incremento, giungendo al 14,92%. Tale trend si è confermato anche negli anni immediatamente successivi: nel 2004 è salito al 21,75%, nel 2005 ha subito una lieve flessione in termini percentuali (20,95%) per poi arrivare nel 2006 ad occupare il 24,41% delle decisioni della Corte.

 

La crescita del contenzioso tra Stato e Regioni, in questa prima fase, è determinata dall’introduzione di nuove norme costituzionali nel Titolo V, che ha chiamato la Corte ad una complessa opera di interpretazione, nell’ambito della quale la precedente giurisprudenza forniva un ausilio limitato.

 

L’incremento registrato tra il 2003 e il 2006 ha subito un arresto nel biennio 2007-2008; in tali anni il giudizio di legittimità costituzionale in via principale subisce un calo non marginale (riportando il dato percentuale al di sotto del 20%) e, parallelamente, il giudizio in via incidentale presenta un significativo incremento, riavvicinandosi alla media dei venti anni precedenti al 2003. L’insieme di questi dati ha suggerito una relativa stabilizzazione del contenzioso tra Stato e Regioni derivante dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, stabilizzazione che si è attestata, comunque, su valori decisamente più alti rispetto a quelli constatati prima della riforma costituzionale.

 

Tuttavia, a partire dal 2009, secondo la Corte costituzionale si è aperta una nuova stagione di conflittualità Stato-Regioni, “in un contesto parzialmente diverso da quello degli anni 2003-2006, non fosse altro perché alcune delle difficoltà nell’attuazione del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che avevano suggerito una spiegazione dei dati tanto elevati raggiunti dal giudizio in via d’azione, sono state proprio in quel periodo superate” [3] .

Infatti, nel 2009 si era riscontrata una nuova crescita del contenzioso tra Stato e Regioni, che nel 2010 si è significativamente rafforzata, sino a giungere alle 141 decisioni nel 2010, 91 nel 2011 [4] , 150 nel 2012, 149 nel 2013.

Nel 2012 e nel 2013, per la prima volta della storia della Corte, il giudizio in via principale ha espresso la quota più rilevante del contenzioso costituzionale. Il dato assoluto si è mantenuto costante (150 pronunce nel 2012 e 149 nel 2013). Percentualmente si è invece registrata una lieve diminuzione (dal 47,46% del 2012 al 45,7% del 2013).

 

Relativamente agli anni successivi 2014-2021, si registra invece una diminuzione del numero dei ricorsi in via principale, accanto ad un incremento delle questioni sollevate in via incidentale, che continua a far registrare il dato più rilevante del contenzioso costituzionale.

 

Pertanto, come la Corte costituzionale ha avuto modo di confermare nelle Relazioni annuali, i valori del biennio 2012-2013 “restano sempre delle eccezioni che hanno esibito una temporanea inversione di peso tra il giudizio incidentale e quello principale all’interno del contenzioso costituzionale” [5] .

 

In ogni caso, le 104 decisioni adottate in via principale nel 2016 e le 100 nel 2017, le 91 nel 2018, le 95 nel 2019, le 92 nel 2020 e le 108 del 2021 hanno confermato nel tempo la prevalenza del giudizio in via incidentale.

In relazione ai dati dell’ultimo biennio, si segnala che le decisioni adottate nel 2021 in sede di giudizio principale (108) hanno segnato un cospicuo aumento (+17,4%) rispetto al 2020 (92). Lo stesso valore in termini percentuali in rapporto al totale delle decisioni, pari al 40,6%, è aumentato rispetto al 2020 (32,7%) e rappresenta un dato superiore alla media degli ultimi 15 anni, che si attesta intorno al 30-35%.

 

L’andamento del giudizio di legittimità costituzionale può essere apprezzato anche considerando, per le decisioni rese nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, il numero delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale, a confronto con il medesimo dato nei giudizi in via incidentale.

Il numero delle sentenze e quello delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale non coincidono in quanto ciascuna sentenza può contenere più dispositivi di illegittimità costituzionale. Generalmente le dichiarazioni di illegittimità costituzionale investono uno o più articoli o commi o lettere; più raramente riguardano un atto legislativo nel suo complesso.

 

 

 

Tabella n. 1/a – Numero dichiarazioni di illegittimità costituzionale nelle decisioni rese nei giudizi in via principale.

 

Anno

Totale decisioni (ordinanze e sentenze)

Dichiarazioni di illegittimità costituzionale

2021

2020

2019

108

92

95

106 (64 sentenze)

72 (44 sentenze)

75 (42 sentenze)

2018

91

89 (50 sentenze)

2017

100

108 (53 sentenze)

2016

104

71 (41 sentenze)

2015

113

42 (36 sentenze)

2014

91

90 (49 sentenze)

2013

149

208 (95 sentenze)

2012

150

120 (73 sentenze)

2011

91

84 (57 sentenze)

2010

141

109 (67 sentenze)

2009

82

77 (37 sentenze)

 

 

Tabella n. 1/b – Numero dichiarazioni di illegittimità costituzionale nelle decisioni rese nei giudizi in via incidentale.

 

Anno

Totale decisioni (ordinanze e sentenze)

Dichiarazioni di illegittimità costituzionale

2021

2020

2019

141

163

171

50 (40 sentenze)

48 (44 sentenze)

58 (45 sentenze)

2018

142

42 (39 sentenze)

2017

158

39 (29 sentenze)

2016

158

40 (34 sentenze)

2015

145

44 (38 sentenze)

2014

171

46 (34 sentenze)

2013

145

48 (42 sentenze)

2012

141

33 (35 sentenze)

2011

196

39 (35 sentenze)

2010

211

50 (42 sentenze)

2009

225

34 (31 sentenze)

 

Riepilogando i dati più recenti (anno 2021), nel giudizio in via incidentale sono state rese 115 sentenze e 26 ordinanze (rispettivamente 81,56% e 18,44%); nel giudizio in via principale, sono state rese 91 sentenze e 17 ordinanze (rispettivamente 84,26% e 15,74%).

Per quanto riguarda i ricorsi, nella maggior parte delle ipotesi, i giudizi in via principale sono promossi dallo Stato avverso leggi regionali o provinciali. Pertanto, come evidenzia la tabella che segue, nei giudizi in via principale le “questioni” poste alla Corte sono dirette, in netta maggioranza, verso normative regionali o provinciali.

 

Tabella n. 2 – Giudizi in via principale: l’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale. Fonte: elaborazione su dati della Corte costituzionale.

 

Anno

Totale decisioni

Fonti legislative
statali

Leggi e delibere statutarie Regioni ordinarie

Leggi Regioni speciali e Province autonome

2021

2020

2019

108

92

95

29

34

22

46

44

53

23

14

20

2018

91

26

44

21

2017

100

31

48

21

2016

104

50

44

10

2015

113

62

39

12

2014

91

28

54

9

2013

149

27

106

16

2012

150

57

78

15

 

 


Le materie di competenza concorrente: la principale giurisprudenza della Corte costituzionale nella definizione dei confini

Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni

La materia rapporti internazionali e con lUnione europea delle Regioni rientra tra le materie di competenza concorrente tra Stato e regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma.

 

 

 

lente

 

 

La giurisprudenza costituzionale ha spesso considerato la competenza concorrente in materia di rapporti internazionali e con lUnione europea delle Regioni unitamente alla disposizione dell’art. 117, quinto comma, a mente del quale le Regioni e le Province autonome, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.

Può essere altresì richiamato l’art. 117, nono comma, Cost., secondo il quale nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.

La sentenza della Corte costituzionale n. 378 del 2007 ha inoltre affermato il principio della unitarietà della rappresentazione della posizione italiana nei confronti dell’Unione europea.

 

Giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza costituzionale in materia di “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni” si è soffermata sugli aspetti relativi alla partecipazione delle regioni ai processi decisionali europei e alle iniziative che le regioni hanno provato ad adottare nel campo della cooperazione internazionale.

Secondo la Corte, la disciplina statale delle modalità di partecipazione delle Regioni, sia ordinarie che speciali, alla c.d. «fase ascendente» dei processi decisionali comunitari trova il proprio titolo abilitativo nel quinto comma dell'art. 117 della Costituzione, che però istituisce anche una competenza statale ulteriore e speciale rispetto a quella contemplata dall'art. 117, terzo comma, consistente nel dettare in via esclusiva «norme di procedura» (sentenza n. 239 del 2004).

Inoltre, “in base al principio sancito dai commi terzo e quinto dell'art. 117 della Costituzione - i quali attribuiscono allo Stato la competenza a disciplinare i rapporti delle Regioni e delle Province autonome con l'Unione europea e a definire le procedure di partecipazione delle stesse, nelle materie di loro competenza, alla formazione degli atti comunitari - spetta allo Stato […] il potere di interloquire con la Commissione europea.

E’ stata conseguentemente dichiarata costituzionalmente illegittima una disposizione legislativa della provincia autonoma di Trento, che attribuisce al Presidente della Giunta la competenza a tenere i “rapporti” con la Commissione europea in relazione alla valutazione di incidenza dei progetti sulle zone speciali di conservazione di piani o progetti non direttamente connessi o necessari alla gestione del sito, non potendo la Provincia autonoma di Trento ascrivere direttamente alla propria competenza il potere di mantenere “rapporti” con l'Unione europea, prescindendo dalle leggi dello Stato (sentenza n. 378/2007).

 

La Corte costituzionale ha altresì censurato le norme regionali che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinare gli obiettivi della cooperazione internazionale e gli interventi di emergenza ed il potere di individuare i destinatari dei benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione, giacché tali norme, implicando l'impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione internazionale, sono riconducibili alla materia politica estera, di competenza esclusiva statale, e non alla materia rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni (sentenza n. 285/2008).

 

Con la sentenza n. 238 del 2004 la Corte ha al contempo sviluppato alcuni punti fermi, sul piano generale, in tema di esercizio da parte delle Regioni del c.d. «potere estero», rilevando, in primo luogo, che i «criteri» e le «osservazioni» che l’organo governativo è abilitato a formulare rispetto alle iniziative e alle attività regionali ai fini dell’esecuzione degli accordi internazionali e alla stipulazione di intese con enti territoriali interni ad altri Stati sono sempre e soltanto relativi alle esigenze di salvaguardia delle linee della politica estera nazionale e di corretta esecuzione degli obblighi di cui lo Stato è responsabile nell’ordinamento internazionale; né potrebbero travalicare in strumenti di ingerenza immotivata nelle autonome scelte delle Regioni.

 


Commercio con l’estero

 

Il testo vigente della Costituzione annovera il commercio con l’estero tra le materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.

 

 

 

lente

 

 

La giurisprudenza costituzionale si è espressa in poche occasioni sulla materia “commercio con l’estero”. Merita però rilevare che, sulla base della configurabilità delle misure adottate quali strumenti di politica economica indirizzati allo sviluppo economico nazionale, la giurisprudenza costituzionale ha ricondotto alcune disposizioni sulla tutela del made in Italy (in particolare, con riguardo a norme riguardanti fondi) nell’alveo della materia “tutela della concorrenza”, di pertinenza statale, piuttosto che in quella del commercio con l’estero, di competenza concorrente tra lo Stato e le regioni (sentenza n. 175 del 2005). La Corte ha evidenziato che la circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie come non la comporterebbe, ad esempio, con il commercio con l’estero un intervento statale in tema di “dogane” o di “rapporti internazionali”.

 

Giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza costituzionale che presenta attinenza con la materia del commercio con l’estero ha riguardato soprattutto i profili attinenti alla tutela del made in Italy, ambito materiale che però è stato prevalentemente ricondotto dalla Corte costituzionale, sulla base di una serie di valutazioni, sviluppate in modo particolare nella sentenza n. 175 del 2005, nell’alveo della tutela della concorrenza, di pertinenza statale.

In particolare, con la suddetta sentenza, intervenendo sulle disposizioni di cui all'art. 4, commi 61 e 63, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Fondo per il sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del "made in Italy"), la Corte costituzionale ha osservato che il carattere asseritamente modesto dal punto di vista finanziario dell’intervento non è certamente decisivo per escludere la sua riconducibilità alla materia della tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ma può, al più, costituire un indizio in tale senso: ed infatti la Corte ha, in altra occasione, sottolineato che «proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico […] ma anche in quell’accezione dinamica […] che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenza n. 14 del 2004).

Di conseguenza, la Corte ha in più occasioni precisato (sentenza n. 272 del 2004) che «non spetta ad essa valutare in concreto la rilevanza degli effetti economici derivanti dalle singole previsioni di interventi statali […] stabilire, cioè, se una determinata regolazione abbia effetti così importanti sull’economia di mercato […] tali da trascendere l’ambito regionale […] ma solo che i vari strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi».

In sintesi, la Corte ha evidenziato come le scelte del legislatore sono, sotto tale profilo, censurabili solo quando «i loro presupposti siano manifestamente irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi» (sentenza n. 14 del 2004) e, pertanto, «il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla “tutela della concorrenza” e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali» (sentenza n. 272 del 2004). La norma in questione è stata dunque ritenuta per la sua natura, un “ragionevole e proporzionato” intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio “made in Italy”, un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità: ad avviso della Corte, dunque, dove è evidente la presenza di un rapporto, che certamente non può ritenersi irragionevole (e, tanto meno, manifestamente irragionevole), tra lo strumento impiegato e l’obiettivo (di sviluppo economico del Paese) che si è prefisso il legislatore statale, così come è evidente che sussiste il requisito dell’adeguatezza per ciò solo che lo strumento impiegato, per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo (sentenza n. 303 del 2003).

La Corte costituzionale ha quindi precisato, con riguardo al caso di specie, che seppure il comma 61 dell’art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004) mira dichiaratamente alla diffusione all’estero nei mercati mediterranei, dell’Europa continentale e orientale del “made in Italy”, tale previsione, lungi dall’implicare la riconducibilità alla ovvero una commistione con la materia del commercio con l’estero, esprime soltanto l’auspicata ripercussione sul commercio con l’estero dell’intervento statale volto alla diffusione di un’idea di qualità dei prodotti (in generale) di origine italiana. La circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie come non la comporterebbe, ad esempio, con il commercio con l’estero un intervento statale in tema di “dogane” o di “rapporti internazionali”.

 

Tale assunto è stato poi confermato dalla recente sentenza n. 61 del 2018, la quale – intervenendo si nuovo su una incentivazione del made in Italy - ribadisce che l’art. 117 Cost. distribuisce le competenze legislative in base a uno schema imperniato sull’enumerazione di quelle statali, mentre «con un rovesciamento completo della previgente tecnica del riparto sono ora affidate alle Regioni, oltre alle funzioni concorrenti, le funzioni legislative residuali»; la Corte afferma anche che “l’interesse nazionale non è più sufficiente di per sé a giustificare «l’esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all’art. 117 Cost. Nel nuovo Titolo V l’equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità né di merito alla competenza legislativa regionale».

Al tempo stesso, la Corte, richiamando inoltre precedenti pronunce, sostiene peraltro che “nondimeno la limitazione dell’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente comporterebbe la svalutazione di istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una maggiore flessibilità nella ripartizione di competenze, come fissata dall’art. 117 Cost.”. L’intervento statale non deve risolversi in un’integrale appropriazione di funzioni costituzionalmente assegnate alla Regione, bensì perseguire una linea di politica economica generale che giustifica una parziale sovrapposizione.

La Corte elenca infine alcuni criteri riconducibili al principio di leale cooperazione tra Stato ed enti territoriali. Il rispetto di tali criteri prefigura un intervento proporzionato dello Stato, non invasivo della competenza regionale.  

Tali indici sono: a) requisito della strutturalità dell’intervento in grado di gettare le fondamenta per un miglioramento generale interessante il territorio nazionale; b) non sovrapponibilità con i diversi interventi perequativi previsti dall’art. 119, terzo comma, Cost.; c) coinvolgimento delle autonomie territoriali attraverso attività concertative e di coordinamento orizzontale che devono essere condotte in base al principio di lealtà; d) tendenziale “neutralità economico-finanziaria” nei riguardi delle collettività locali e dei pertinenti territori, intesa come inidoneità ad alterare gli equilibri distributivi delle risorse; e) chiarezza e trasparenza negli obiettivi prefissati e nei meccanismi finalizzati a rendere ostensibili i risultati dell’intervento statale.

 

Per avere una visione integrale della legittimità della legislazione volta alla tutela del made in Italy, occorre segnalare che l’iniziativa regionale trova un limite non tanto (o non più) nelle competenze statali, ma nella logica dell’ordinamento dell’Unione europea. Giova in questo senso ricordare che il primo comma dell’articolo 117 della Costituzione ribadisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.

Con questa premessa, merita di essere segnalato il caso della legge n. 55/2010 sulla commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri, che ha dettato una disciplina ad hoc a tutela della produzione italiana nei settori in questione. La legge, in vigore dal 1° ottobre 2010, ancora oggi risulta inapplicata e inapplicabile, alla luce della mancata approvazione dei relativi decreti attuativi, mai adottati in virtù del giudizio negativo espresso dalle Istituzioni europee. La Commissione europea, con nota della Direzione Generale Impresa e Industria n. 518763 del 28 luglio 2010, ha manifestato un parere decisamente contrario alla compatibilità della misura con il diritto comunitario, attese le restrizioni che avrebbe potuto causare alla concorrenza ed alla libera circolazione delle merci sul territorio europeo. Successivamente, l'Agenzia delle Dogane (nota n. 119919/RU del 22 settembre 2010) e la Presidenza del Consiglio dei Ministri (direttiva del 30 settembre 2010) hanno esplicitato che la legge 55/2010 non sarà ritenuta applicabile sino a quando non saranno emanati i regolamenti attuativi, invitando tutte le amministrazioni pubbliche eventualmente interessate dalla normativa in oggetto ad attenersi a questo indirizzo interpretativo.

 

Una conferma della cogenza del limite comunitario è stata fornita proprio dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 191 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge regionale n. 9 del 2011 della Regione Lazio, che aveva previsto la realizzazione di un apposito elenco, disponibile sul sito istituzionale della Regione, articolato in tre sezioni: “Made in Lazio – tutto Lazio”, “Realizzato nel Lazio” e “Materie prime del Lazio”.

L’illegittimità costituzionale della legge è stata dichiarata dalla Corte sulla base delle seguenti considerazioni: «Le disposizioni degli articoli da 34 a 36 del TFUE – che, nel caso in esame, rendono concretamente operativo il parametro dell’art. 117 Cost. – vietano […] agli Stati membri di porre in essere restrizioni quantitative all’importazione ed alla esportazione, e qualsiasi misura di effetto equivalente. Nella giurisprudenza della Corte di giustizia (che conforma quelle disposizioni in termini di diritto vivente, ed alla quale occorre far riferimento ai fini della loro incidenza come norme interposte nello scrutinio di costituzionalità), la “misura di effetto equivalente” (alle vietate restrizioni quantitative) è costantemente intesa in senso ampio e fatta coincidere con “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari”. Orbene, la legge della Regione Lazio, mirando a promuovere i prodotti realizzati in ambito regionale, garantendone siffatta origine, produce, quantomeno “indirettamente” o “in potenza”, gli effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci che, anche al legislatore regionale, è inibito di perseguire per vincolo dell’ordinamento comunitario».

 


 

Tutela e sicurezza del lavoro

L’art. 117 della Costituzione include la materia della tutela e sicurezza del lavoro tra gli ambiti di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

 

 

 

lente

 

 

Fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2008 (Testo unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro), la giurisprudenza della Corte costituzionale è stata impegnata a dipanare le difficoltà connesse alla ripartizione di competenze tra Stato e regioni, determinata dal fatto che alcuni aspetti della materia tutela e sicurezza del lavoro possono, direttamente o indirettamente, essere ricondotti alla potestà esclusiva dello Stato.. In linea generale, la giurisprudenza costituzionale distingue gli aspetti riconducibili alla materia “ordinamento civile” (come quelli inerenti alla disciplina del contratto di lavoro e al diritto sindacale), oggetto di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.), da quelli relativi alle materie “tutela e sicurezza del lavoro”, rientranti nella competenza legislativa concorrente.

A seguito della sistemazione normativa realizzata con il testo unico, il contenzioso costituzionale è stato efficacemente prevenuto grazie alla traduzione normativa del principio di “leale collaborazione” tra Stato e regioni, che ha indotto il legislatore, consapevole dell’esistenza di un’interferenza di competenze tale da non poter consentire l’assegnazione della materia all’uno o all’altro titolo competenziale, a prevedere un ampio ricorso alla contrattazione dei contenuti normativi in sede di Conferenza Stato-regioni.

 

 

 

Giurisprudenza costituzionale

Nell’ambito della materia del lavoro, la giurisprudenza costituzionale distingue gli aspetti correlati alla materia ordinamento civile (come quelli inerenti alla disciplina del contratto di lavoro e al diritto sindacale), oggetto di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.), da quelli relativi alle materie tutela e sicurezza del lavoro, rientranti nella competenza legislativa concorrente. In questo quadro si collocano le sentenze della Corte costituzionale n. 359 del 2003 e nn. 50 e 384 del 2005.

La sentenza n. 359 del 2003 rappresenta il primo intervento della Corte costituzionale in tema di lavoro dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e per prima pone in luce come uno stesso aspetto in materia di lavoro possa essere ricondotto, a seconda del profilo che si considera, nell’ambito della competenza esclusiva statale o di quella concorrente. La richiamata sentenza ha avuto ad oggetto una legge regionale in materia di mobbing (L.R. Lazio 16/2002), adottata in mancanza di una qualsiasi disciplina statale della materia. In tale occasione, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge, la Corte ha operato una distinzione, osservando che “la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell' “ordinamento civile” (materia che l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, riserva alla competenza esclusiva statale) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione). Per altro verso, tuttavia, con riguardo all'incidenza che gli atti vessatori possono avere sulla salute fisica (malattie psicosomatiche) e psichica del lavoratore (disturbi dell'umore, patologie gravi), la disciplina che tali conseguenze considera rientra nella “tutela e sicurezza del lavoro”, nonché nella “tutela della salute”, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire (entrambe materie di potestà concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione).

Le sentenze nn. 50 e 384 del 2005, intervenendo sulla riforma del mercato del lavoro operata dal D.Lgs. 276/2003 (c.d. riforma Biagi), hanno ulteriormente sviluppato il quadro definitorio della materia tutela e sicurezza del lavoro, confermando che la sua estensione viene limitata dal concorrere di altre disposizioni che definiscono le relazioni tra Stato e regioni, previste dal secondo comma dell’art. 117 (e, quindi, di competenza statale esclusiva).

Nella sentenza n. 50 del 2005, la Corte ha chiarito, innanzitutto, che, a prescindere da quale sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia tutela e sicurezza del lavoro, non si dubita che in essa rientri la disciplina dei servizi per l’impiego e, in particolare, quella del collocamento. Occorre però aggiungere che, essendo i servizi per l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti per l’esercizio della potestà statale di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la “tutela della concorrenza” (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.).

Inoltre, poiché la competenza a disciplinare un apparato sanzionatorio va attribuita al medesimo soggetto cui compete disciplinare la materia cui le sanzioni amministrative si riferiscono, se viene in considerazione la tutela e la sicurezza sul lavoro, tra i principi fondamentali che allo Stato compete vanno inclusi quelli cui si deve informare il sistema sanzionatorio (sentenza n. 50 del 2005 e arg. ex sentenze n.144 e 234 del 2005; 130 del 2008; 153, 247, 254 del 2014 e ordinanza n. 12 del 2015).

Nella sentenza n. 384 del 2005 la Corte ha evidenziato il principio secondo cui la vigilanza sul lavoro non rientra nella materia di potestà concorrente della tutela e sicurezza del lavoro, ma deve essere connotata, di volta in volta, in relazione al suo oggetto specifico: su questa base, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della L. 30/2003, il quale delega, tra l’altro, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto della disciplina vigente sulle ispezioni in materia di previdenza sociale e di lavoro. Ha dichiarato, invece, costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 1, ultimo periodo, del D.Lgs. 124/2004, nella parte in cui non prevedeva che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali concernente le modalità di attuazione e funzionamento della banca dati che raccoglie le informazioni concernenti i datori di lavoro ispezionati, dovesse adottarsi previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (sentenza recepita dalla nuova formulazione del suddetto comma operata dall’art. 36-bis, c. 10, del D.L. 223/2006).


 

Istruzione e università

 

Nell’articolo 117 della Costituzione, l’ambito dell’istruzione è contemplato sia nel secondo sia nel terzo comma, necessariamente fra loro connessi: in particolare, in base al terzo comma, l’istruzione rientra tra le materie di competenza concorrente, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale, che rientra, dunque, nella competenza residuale delle regioni.

In base al secondo comma, lett. n), invece, le norme generali sull’istruzione rientrano tra le materie di competenza esclusiva dello Stato.

 

La materia università, invece, non è espressamente citata nell’art. 117 Cost., ma trova fondamento nell’art. 33, il cui sesto comma dispone che le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

 

Neanche il diritto allo studio è espressamente citato nel vigente art. 117 Cost., ma trova fondamento nell’art. 34, i cui commi terzo e quarto dispongono che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

 

Parimenti, nell’art. 117 Cost. non vi sono riferimenti all’ambito relativo all’edilizia scolastica, nella cui disciplina, però, come ha chiarito la Corte costituzionale, si intersecano più materie, quali il “governo del territorio”, “l'energia” e la “protezione civile”, tutte rientranti nella competenza concorrente.

 

Infine, le norme che intervengono sulla disciplina del personale scolastico e universitario rientrano nella materia "ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali", di cui allo stesso secondo comma, lett. g), Cost.

 

 

lente

 

 

Con riferimento all’istruzione, la Corte costituzionale ha dovuto tracciare un quadro generale di riferimento per l’interpretazione del sistema delle competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione.

In particolare, la Corte – intendendo preliminarmente distinguere le “norme generali sull’istruzione”, di competenza esclusiva dello Stato, dai “principi fondamentali” in materia di istruzione, destinati ad orientare le regioni negli ambiti di competenza concorrente – ha precisato che “le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale”. In tal senso, le norme generali si differenziano dai “principi fondamentali”, i quali, “pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose” (sentenza n. 279/2005).

Successivamente, la Corte ha precisato che appartengono alla categoria delle disposizioni espressive di principi fondamentali quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, discipline, pur tese ad assicurare l’esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio, da un lato non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema di istruzione che caratterizza le norme generali, dall’altro necessitano “per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale”. In particolare, nel settore dell’istruzione “lo svolgimento attuativo dei predetti principi è necessario quando si tratta di disciplinare situazioni legate a valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle regioni, anche sotto il profilo socio-economico” (sentenza n. 200/2009).

In questa cornice si inquadrano, in particolare, le pronunce della Corte in materia di programmazione della rete scolastica, che pertiene alla competenza concorrente (sentenze nn. 92/2011 e 147/2012).

Per quanto concerne l’università, la Corte costituzionale ha evidenziato, in particolare, che un intervento “autonomo” statale è ammissibile in relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (sentenza n. 423/2004).

Di conseguenza, la stessa Corte ha censurato, ad esempio, disposizioni regionali che che prevedevano l'istituzione di nuovi corsi di studio universitario (sentenza n. 102/2006).

Al contempo, ha precisato che l’autonomia di cui all’art. 33 Cost. non attiene allo stato giuridico dei docenti universitari, i quali sono legati da rapporto di impiego con lo Stato e sono di conseguenza soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare (sentenze nn. 310/2013 e 22/1996).

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 279/2005, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale di numerose disposizioni del d.lgs. 59/2004 – recante norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo di istruzione – ha tracciato un quadro generale di riferimento per l’interpretazione del quadro delle competenze delineato dalla Costituzione in materia di istruzione.

In particolare, la Corte – intendendo preliminarmente distinguere la categoria delle “norme generali sull’istruzione”, di competenza esclusiva dello Stato, da quella dei “principi fondamentali” in materia di istruzione, destinati ad orientare le regioni negli ambiti di competenza concorrente – ha precisato che “le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale”. In tal senso, le norme generali si differenziano dai “principi fondamentali”, i quali, “pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose”.

 

La Corte è tornata sull’argomento con la sentenza n. 200/2009 – volta a stabilire la legittimità costituzionale di talune disposizioni dell’art. 64 del D.L. 112/2008 (L. 133/2008) –, con la quale ha evidenziato che una chiara definizione vincolante – ma ovviamente non tassativa – degli ambiti riconducibili al ’concetto’ di “norme generali sull’istruzione è ricavabile dal contenuto degli artt. 33 e 34 Cost.

In particolare, la Corte ha evidenziato che il legislatore costituzionale ha inteso individuare già negli artt. 33 (in base al quale, tra l’altro, alla Repubblica è affidato il compito di dettare le norme generali sull’istruzione) e 34 Cost. le caratteristiche basilari del sistema scolastico, relative:

a) alla istituzione di scuole statali per tutti gli ordini e gradi (art. 33, secondo comma, Cost.);

b) al diritto di enti e privati di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato (art. 33, terzo comma, Cost.);

c) alla parità tra scuole statali e non statali sotto gli aspetti della loro piena libertà e dell'uguale trattamento degli alunni (art. 33, quarto comma, Cost.);

d) alla necessità di un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuola o per la conclusione di essi (art. 33, quinto comma, Cost.);

e) all'apertura della scuola a tutti (art. 34, primo comma, Cost.);

f) alla obbligatorietà e gratuità dell'istruzione inferiore (art. 34, secondo comma, Cost.);

g) al diritto degli alunni capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. 34, terzo comma, Cost.);

h) alla necessità di rendere effettivo quest'ultimo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (art. 34, quarto comma, Cost.).

 

La Corte ha, inoltre, rilevato che rientrano nelle norme generali sull’istruzione anche gli ambiti individuati dalla L. 53/2003.

Si tratta, in particolare, di:

a) definizione generale e complessiva del sistema educativo di istruzione e formazione, delle sue articolazioni cicliche e delle sue finalità ultime;

b) regolamentazione dell'accesso al sistema e termini del diritto-dovere alla sua fruizione;

c) previsione generale del contenuto dei programmi delle varie fasi e dei vari cicli del sistema e del nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la “quota nazionale”;

d) previsione e regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli;

e) definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all'esito dei percorsi formativi, nonché per il passaggio ai percorsi scolastici;

f) definizione generale dei “percorsi” tra istruzione e formazione che realizzano diversi profili educativi, culturali e professionali (cui conseguono diversi titoli e qualifiche, riconoscibili sul piano nazionale) e possibilità di passare da un percorso all'altro;

g) valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento degli studenti;

h) princípi della valutazione complessiva del sistema;

i) modello di alternanza scuola-lavoro [6] , al fine di acquisire competenze spendibili anche nel mercato del lavoro;

l) princípi di formazione degli insegnanti.

 

La Corte ha altresì rilevato che, in via interpretativa sono, in linea di principio, considerate norme generali sull'istruzione, fra le altre, quelle sull'autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche (di cui all'art. 21 della L. 59/1997), sull'assetto degli organi collegiali (di cui al d.lgs. 233/1999), sulla parità scolastica e sul diritto allo studio e all'istruzione (di cui alla L. 62/2000) [7] .

Infine, la Corte ha ritenuto qualificabili come “norme generali sull’istruzione” quelle recate dall’art. 64, co. 4, lett. da a) ad f), del D.L. 112/2008 (L.133/2008) – riguardanti la razionalizzazione e l’accorpamento delle classi di concorso, la ridefinizione dei curriculi, la revisione dei criteri di formazione delle classi, la rimodulazione dell’organizzazione didattica delle scuole primarie, la revisione dei criteri per la definizione degli organici, la revisione dell’assetto organizzativo-didattico dei centri di formazione per gli adulti –, in quanto disposizioni che contribuiscono a delineare la struttura di base del sistema di istruzione, che non necessitano di un’ulteriore normazione a livello regionale. Le stesse, infatti, pur avendo un impatto indiretto su profili organizzativi del servizio scolastico, rispondono alla esigenza essenziale di fissare standard di qualità dell'offerta formativa volti a garantire un servizio scolastico uniforme sull'intero territorio nazionale.

 

Nella stessa sentenza n. 200/2009, la Corte ha, invece, evidenziato che appartengono alla categoria delle disposizioni espressive di principi fondamentali della materia dell’istruzione quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio, da un lato non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema di istruzione che caratterizza le norme generali, dall’altro necessitanoper la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale”. In particolare, “la relazione tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] va intesa […] nel senso che alla prima spetta prescrivere criteri ed obiettivi, essendo riservata alla seconda l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi”.

Nello specifico settore dell’istruzione, la Corte ha, dunque, ritenuto che “lo svolgimento attuativo dei predetti principi è necessario quando si tratta di disciplinare situazioni legate a valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle regioni, anche sotto il profilo socio-economico”.

Conseguentemente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni recate dalle lett. f-bis) ed f-ter) del co. 4 dell’art. 64 del D.L. 112/2008 (L. 133/2008), in materia di dimensionamento della rete delle istituzioni scolastiche, ambito ritenuto di competenza concorrente.

Al riguardo, infatti, la Corte, richiamando la sentenza n. 13/2004 e la sentenza n. 34/2005, ha evidenziato che “è da escludersi che il legislatore costituzionale del 2001 abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che era già ad esse conferita”, sia pure soltanto sul piano meramente amministrativo, dall’art. 138 del d.lgs. 112/1998 [8] .

Più in generale, la Corte ha sottolineato che la definizione del riparto di competenze amministrative attuato con il citato d.lgs. fornisce un tendenziale criterio utilizzabile per la individuazione degli ambiti materiali che la riforma del Titolo V ha attribuito alla potestà legislativa concorrente o residuale delle regioni.

Nello specifico, la Corte, guardando all'obiettivo perseguito dalle lett. f-bis) ed f-ter) del co. 4 dell’art. 64 del D.L. 112/2008 (L. 133/2008) – concernenti, più nel dettaglio, la definizione di criteri e modalità per il dimensionamento della rete scolastica e l’attivazione di servizi qualificati per la migliore fruizione dell’offerta formativa, nonché, nel caso di chiusura o accorpamento degli istituti scolastici aventi sede nei piccoli comuni, la previsione da parte di Stato, regioni ed enti locali, di misure finalizzate alla riduzione del disagio degli utenti – ha sottolineato che la preordinazione dei criteri volti alla attuazione del dimensionamento della rete scolastica ha una diretta ed immediata incidenza su situazioni strettamente legate alle varie realtà territoriali ed alle connesse esigenze socio-economiche di ciascun territorio, che ben possono e devono essere apprezzate in sede regionale, senza che, dunque, possano venire in rilievo aspetti che ridondino sulla qualità dell'offerta formativa e sulla didattica.

L’attribuzione al legislatore regionale delle norme di dettaglio in materia di programmazione della rete scolastica è stata ribadita anche nelle sentenze n. 92/2011 e n. 147/2012.

In particolare, con la prima sentenza citata la Corte ha annullato l’art. 2, co. 4 e 6, del DPR 89/2009 – emanato (prima della pubblicazione della sentenza n. 200/2009) in attuazione del citato art. 64, co. 4, del D.L. 112/2008 – concernente la revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, evidenziando che non spettava allo Stato disciplinare l’istituzione di nuove scuole dell’infanzia e di nuove sezioni della scuola dell’infanzia, nonché la composizione di queste ultime, attenendo gli argomenti, in maniera diretta, al dimensionamento della rete scolastica sul territorio.

Con la seconda sentenza, la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, co. 4, del D.L. 98/2011 (L. 111/2011) che aveva disposto l’aggregazione in istituti comprensivi, a decorrere dall’a.s. 2011-2012, di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado prevedendo che, per il conseguimento dell’autonomia, i citati istituti comprensivi dovevano avere un numero minimo di 1.000 alunni, ridotti a 500 per particolari realtà.

In tal caso, la Corte ha rilevato che “è indubbio che la disposizione in esame incide direttamente sulla rete scolastica e sul dimensionamento degli istituti”, materia che non può ricondursi nell’ambito delle norme generali sull’istruzione e va, invece, ricompresa nella competenza concorrente relativa all’istruzione.

 

Più di recente, con sentenza n. 5/2018, la Corte – esaminando le eccezioni di costituzionalità riferite ad alcuni articoli del D.L. 73/2017 (L. 119/2017), relativi all’obbligo vaccinale dei minori e alla conseguente esclusione dalla frequenza della scuola dell’infanzia in caso di non ottemperanza – ha rilevato che “le disposizioni in materia di iscrizione e adempimenti scolastici (artt. 3, 3-bis, 4 e 5 del d.l. n. 73 del 2017, come convertito dalla legge n. 119 del 2017) si configurano come «norme generali sull’istruzione» (art. 117, secondo comma, lettera n, Cost.). Infatti, esse mirano a garantire che la frequenza scolastica avvenga in condizioni sicure per la salute di ciascun alunno, o addirittura (per quanto riguarda i servizi educativi per l’infanzia) non avvenga affatto in assenza della prescritta documentazione. Pertanto, queste norme vengono a definire caratteristiche basilari dell’assetto ordinamentale e organizzativo del sistema scolastico (sentenze n. 284 del 2016, n. 62 del 2013, n. 279 del 2012) e ricadono nella potestà del legislatore statale”.

 

Per altro verso, la Corte, nella sentenza n. 50/2008 – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 635 della L. 296/2006, che aveva disposto un incremento, per complessivi € 100 mln, a decorrere dal 2007, degli stanziamenti iscritti nelle unità previsionali di base “Scuole non statali” dello stato di previsione dell’allora MIUR [9] , da destinare prioritariamente alle scuole per l’infanzia –, ha ricordato che il settore dei contributi relativi alle scuole paritarie incide sulla materia della “istruzione” attribuita alla competenza legislativa concorrente (sentenza n. 423/2004). Ha, altresì, sottolineato come, già prima della riforma del Titolo V, l’art. 138, co. 1, lett. e), del d.lgs. n. 112/1998 avesse conferito alle regioni le funzioni amministrative relative ai «contributi alle scuole non statali», nel cui ambito devono essere ricomprese anche le scuole paritarie. Consegue da ciò che sarebbe “implausibile che il legislatore costituzionale abbia voluto spogliare le Regioni di una funzione che era già ad esse conferita”.

“Da quanto esposto discende che la norma, nella parte in cui prevede un finanziamento vincolato in un ambito materiale di spettanza regionale, si pone in contrasto con gli artt. 117, quarto comma, e 119 della Costituzione. La natura delle prestazioni contemplate dalla norma censurata, le quali ineriscono a diritti fondamentali dei destinatari, impone, però, che si garantisca continuità nella erogazione delle risorse finanziarie. Ne consegue che devono rimanere «salvi gli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti» (così anche la citata sentenza n. 423 del 2004)."

 

Sullo stesso argomento è, poi, intervenuta la sentenza n. 298/2012, riguardante l’art. 33, co. 16, della L. 183/2011, che aveva autorizzato – per le finalità, tra l’altro, di cui all'art. 2, co. 47, della L. 203/2008 (L. finanziaria 2009) – la spesa di € 242 mln per l’anno 2012 a sostegno delle scuole paritarie, con prioritaria destinazione a favore di quelle dell’infanzia. In tal caso, la Corte ha dichiarato non fondata la questione e, per quanto concerne, in particolare, il profilo del coinvolgimento regionale, ha evidenziato che l’art. 2, co. 47, della L. 203/2008 (intervenuto dopo la sentenza n. 50/2008) disponeva, fermo il rispetto delle prerogative regionali in materia di istruzione scolastica, che con decreto interministeriale, sentita la Conferenza Stato-regioni, dovevano essere stabiliti i criteri per la distribuzione alle regioni delle risorse finanziarie occorrenti alla realizzazione delle misure relative al programma di interventi in materia di istruzione [10] . Pertanto, “La ripartizione delle risorse finanziarie fra le varie Regioni avviene, dunque, secondo criteri determinati, entro un termine prestabilito, con il parere della Conferenza Stato-Regioni: Conferenza che rappresenta la sede istituzionale nella quale è possibile far valere le differenti istanze regionali”.

 

Con riferimento all’edilizia scolastica, la Corte costituzionale, con sentenze nn. 62/2013, 284/2016 e, da ultimo, 71/2018, ha chiarito che nel relativo ambito si intersecano più materie, quali il “governo del territorio”, “l'energia” e la “protezione civile”, tutte rientranti in ambiti di competenza concorrente.

In particolare, con la sentenza 284/2016, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 153, della L. 107/2015 – che ha previsto che con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, d'intesa con la Struttura di missione per l'edilizia scolastica, dovevano essere ripartite tra le regioni le risorse destinate dal co. 158 alla costruzione di scuole innovative e dovevano essere individuati i criteri per l'acquisizione da parte delle stesse regioni delle manifestazioni di interesse degli enti locali proprietari delle aree oggetto di intervento e interessati alla costruzione degli edifici – nella parte in cui non prevedeva che il decreto fosse adottato sentita la Conferenza unificata.

La ripartizione delle risorse era stata operata con DM 593 del 7 agosto 2015.

L’allora MIUR ha peraltro ritenuto sanato il vizio procedurale rilevato dalla Corte, in considerazione del fatto che il DM 3 novembre 2015, n. 860, con il quale era stata annunciata l'indizione, con decreto del competente direttore generale, del "Concorso di idee per la realizzazione di scuole innovative”, era stato adottato sentendo la Conferenza Unificata.

 

Con la sentenza n. 71/2018, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 85, della L. 232/2016 (L. di bilancio 2017) – che ha disposto che l’INAIL doveva destinare risorse per la realizzazione di nuove scuole innovative e che con DPCM dovevano essere individuate le regioni ammesse alla ripartizione, assegnate le risorse disponibili e stabiliti i criteri di selezione dei progetti – nella parte in cui non prevedeva che il DPCM fosse adottato d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

La Corte ha, tuttavia, evidenziato che la particolare rilevanza sociale del servizio scolastico e, più specificamente, della realizzazione di nuove scuole che rispondano ai requisiti della sicurezza strutturale e antisismica, e l'inerenza dello stesso a diritti fondamentali dei suoi destinatari, impongono che sia garantita continuità nell'erogazione delle risorse finanziarie e che restino, di conseguenza, «salvi gli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti».

 

Al contempo, con sentenza n. 62/2013, la Corte – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, co. 7, del D.L. 5/2012 (L. 35/2012), impugnato per asserita violazione del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost. in quanto, con riferimento alla modernizzazione del patrimonio immobiliare scolastico, demandava l’adozione delle norme tecniche-quadro, contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia, energetica e didattica, ad un decreto interministeriale, da emanare previo parere della Conferenza unificata, anziché previa intesa – ha confermato l’orientamento secondo cui “nelle materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio (sentenze n. 265 del 2011, n. 254 del 2010, n. 182 del 2006, n. 336 e n. 285 del 2005). In tali casi la disciplina statale costituisce principio generale della materia (sentenze n. 254 del 2010 e n. 182 del 2006)”.

 

In tema di istruzione e formazione professionale, nella sentenza n. 50/2005 la Corte ha chiarito, in linea generale, che “la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale riguarda l’istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi”, mentre non è compresa nell’ambito della suindicata competenza né in altre competenze regionali la disciplina della istruzione e della formazione aziendale che i privati datori di lavoro somministrano in ambito aziendale ai loro dipendenti, rientrando, invece, nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile.

In tale quadro, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 60 del d.lgs. 276/2003, recante la disciplina dei tirocini estivi di orientamento, in quanto la stessa, dettata senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni, atteneva alla formazione professionale di competenza esclusiva delle regioni.

Nello stesso ambito, con la sentenza n. 309/2010, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, co. 2 e 3, della L. della regione Toscana 32/2002, come sostituito dall’art. 3 della L.R. 63/2009, con il quale, al fine di assolvere all’obbligo di istruzione, era stato introdotto un percorso di formazione professionale diverso rispetto a quello individuato dalla disciplina statale, con ciò violando le norme generali sull’istruzione e il principio di leale collaborazione. In particolare, la Corte ha rilevato che lo stesso legislatore statale ha definito “generali” le norme sul diritto-dovere di istruzione e formazione, contenute nel d.lgs. 76/2005, e che l’obbligo di istruzione appartiene a quella categoria di “disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio di istruzione”.

 

Relativamente alla disciplina del personale scolastico, la Corte, con sentenza n. 76/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della L. della regione Lombardia 7/2012 che disponeva in merito all’assunzione – seppure a tempo determinato – di personale docente alle dipendenze dello Stato. In particolare, secondo la Corte, “ogni intervento normativo finalizzato a dettare regole per il reclutamento dei docenti non può che provenire dallo Stato, nel rispetto della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., trattandosi di norme che attengono alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato”.

 

 Riguardo i concorsi della scuola dell’infanzia e primaria per l’insegnamento di sostegno, la Corte, con la sentenza n. 89/2022, ha giudicato non fondata la questione di legittimità dell’art.1 co.18 ter del D.L. 126/2019 che prevede l’ammissione con riserva dei soggetti iscritti ai percorsi di specializzazione all’insegnamento di sostegno avviati entro la data di entrata in vigore della legge di conversione, non in possesso del titolo di specializzazione.

La Corte, preliminarmente, ha ricordato che la fissazione del possesso dei requisiti di ammissione alla data di scadenza di presentazione delle domande rappresenta un principio generale della legislazione sui contratti pubblici, ma non costituisce una scelta costituzionalmente obbligata, potendo il legislatore indicare una data diversa e anteriore, entro i limiti della non manifesta irragionevolezza e dell’università di trattamento tra i candidati.

Nel caso di specie, risulta ragionevole la previsione che consente l’ammissione con riserva al concorso degli iscritti al corso di specializzazione, purché questi abbiano competenze tali da poter far ritenere molto probabile uno scioglimento positivo della riserva.

 

Con riguardo ai docenti delle scuole paritarie, la Corte, con sentenza n. 180/2021, ha statuito che la mancata previsione, in esse, di un’attività procedimentale che regoli la selezione ed il reclutamento degli insegnanti, impedisce una completa equiparazione del loro rapporto di lavoro a quello dei docenti della scuola statale in regime di impiego pubblico privatizzato.

La mancanza di un simile meccanismo selettivo non consente di tener conto dei principi dell’articolo 97 Cost., validi per le amministrazioni pubbliche; dunque è legittima la scelta del legislatore, ai fini dell’applicazione degli istituti che regolano la carriera degli insegnanti (ricostruzione della carriera a fini concorsuali e di mobilità, trattamento giuridico ed economico), di assimilare solo in modo parziale la disciplina del rapporto di lavoro dei docenti delle scuole paritarie e di quelle statali.

Inoltre, la Corte ha chiarito che l’eventuale equiparazione del rapporto di lavoro prestato presso le scuole paritarie non rientra nell’ambito della L. 62/2000, attuativa dell’art. 33 comma 4 e volta invece a garantire agli alunni delle scuole paritarie i medesimi standard qualitativi, sia in relazione all’offerta didattica che al valore dei titoli di studio conseguibili.

 

 

Con sentenza n. 122/2018, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 1, co. 2, della L. della Provincia autonoma di Bolzano 14/2016, riguardante la valutazione dei dirigenti scolastici, nella parte in cui escludeva il carattere sempre collegiale dell'organo chiamato a svolgere le verifiche e ad esprimere la proposta di valutazione, nonché nella parte in cui attribuiva all'intendente scolastico il potere di approvare, “su richiesta” del dirigente scolastico, “anche una forma di valutazione alternativa per la valutazione del servizio annuale e globale”. In particolare, ha sottolineato che la legislazione statale ha previsto e disciplinato la struttura del procedimento di valutazione dei dirigenti scolastici, in primo luogo, nell'art. 25, co. 1, del d.lgs. 165/2001, le cui disposizioni, in base all’art. 1, co. 3, «costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione».

 

Per quanto concerne l’università, la Corte, con sentenza n. 423/2004 ha sottolineato che “si deve ritenere, innanzitutto, che un intervento “autonomo” statale è ammissibile in relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, sesto comma, Cost.). Detta norma ha, infatti, previsto una “riserva di legge” statale (sentenza n. 383 del 1998 [11] ), che ricomprende in sé anche quei profili relativi all’attività di ricerca scientifica che si svolge, in particolare, presso le strutture universitarie”.

 

Conseguentemente, con sentenza n. 102/2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, co. 2, lett. b), della L. della regione Campania 13/2004, nella parte in cui prevedeva l'istituzione da parte della regione di nuovi corsi di studio universitario (scuole di eccellenza e master) e relativi titoli, in quanto la disposizione interveniva “in un settore (della materia) dell'istruzione – quello della disciplina degli studi universitari – nel quale alle università è affidata, ai sensi dell'art. 33, ultimo comma, della Costituzione, la competenza a definire, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, i propri ordinamenti che ovviamente ricomprendono le scelte relative all'istituzione dei singoli corsi”. Risulta invece consentito alle Regioni stipulare delle convenzioni con gli atenei per sostenere l’attivazione di nuovi corsi di laurea. Tale previsione, come sancito dalla sentenza n. 132 del 2021, è valida anche per i corsi di laurea in medicina e chirurgia. La creazione di un nuovo corso di laurea infatti porta, solo in potenza e non in atto, ad un aumento dei posti per le immatricolazioni (quantitativo che deve essere inderogabilmente fissato a livello ministeriale, quindi statale).

 

Ancora, con sentenza n 42/2021 la Corte ha dichiarato incostituzionale i l’art. 15, comma 1, della legge prov. Trento n. 13 del 2019, nella parte in cui introduceva il comma 4-bis, lettera b), nell’art. 2 della legge prov. Trento n. 29 del 1993. Tale disposizione prevede che «[c]on riferimento ai test di ingresso ai corsi universitari la Provincia, nell’ambito dell’intesa di cui al comma 1, può promuovere […] b) una riserva di un numero di posti non inferiore al 10 per cento per candidati residenti in provincia di Trento, nell’ipotesi di parità di merito con candidati non residenti».

La disposizione, ritenuta in contrasto con l’art. 3 Cost., incide oggettivamente sui termini di godimento del diritto allo studio universitario, per il fatto di prefigurare in astratto un criterio di preferenza, incentrato sul requisito della residenza nel territorio provinciale, in grado di determinare l’esclusione di candidati non residenti collocati nelle graduatorie per l’accesso ai corsi universitari a parità di punteggio sulla base dei requisiti di merito.

Infatti, come ricorda la Corte, “il diritto allo studio comporta (…) il diritto di accedere ai gradi più alti degli studi” (art. 34 Cost., terzo comma). Inoltre, il godimento del diritto è correlato funzionalmente all’autonomia statuita dall’art. 33, sesto comma, che infatti non assume rilievo solo per i profili organizzativi interni, ma anche per la necessaria implicazione con i diritti costituzionalmente garantiti di accesso all’istruzione universitaria. (sentenze 42/2017 e 383/1998)

Al contrario, la Corte, con la sentenza n. 151/2020, ha riconosciuto la legittimità del requisito della residenza per l’accesso a concorsi ovvero a determinate attività di rilievo pubblico allorché tale requisito costituisca mezzo idoneo all’ assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato, come sancito dall’art. 35, comma 5-ter, del d.lgs. n. 165 del 2001

Nello specifico, la sentenza n. 151 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 2, del d.lgs. n. 64 del 2017, impugnato, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 Cost., nella parte in cui prevedeva il requisito della residenza nel paese ospitante da almeno un anno per i concorrenti, stranieri e italiani, che partecipano alle procedure concorsuali per l’affidamento da parte delle scuole italiane all’estero di alcuni insegnamenti obbligatori secondo l’ordinamento italiano, in quanto strettamente funzionale alle esigenze di gestionali del sistema delle scuole italiane all’estero.

 

Per altro verso, con sentenza n. 87/2018, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, co. 269, 270 e 272 della L. 232/2016 – in base ai quali, in particolare, ciascuna regione doveva razionalizzare l’organizzazione degli enti erogatori dei servizi per il diritto allo studio  mediante l’istituzione di un unico ente erogatore dei medesimi servizi, al bilancio del quale dovevano essere attribuite le risorse del Fondo integrativo statale per la concessione delle borse di studio – in quanto la previsione, che poneva un obbligo puntuale in capo alle regioni, incideva su ambiti afferenti alla competenza legislativa regionale, quali l'”organizzazione amministrativa della regione” (sentenze 293/2012, 95/2008 e 387/2007) e il “diritto allo studio” (sentenze 2/2013, 61/2011, 299/2010, 134/2010, 50/2008, 300/2005 e 33/2005).

 

Sempre in materia di diritto allo studio, invece, la Corte, con sentenza n 40/2022, ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità relativa al comma 16 dell’art. 6-bis del d.l. n. 137 del 2020, come convertito nella L. 176 del 2020, secondo cui «con decreto del Ministero dell’università e della ricerca sono stabilite le modalità di attuazione del comma 15», in base al quale «al fine di sostenere, nel limite dello stanziamento di cui al presente comma, le strutture destinate all’ospitalità degli studenti universitari fuori sede, ai collegi universitari di merito accreditati di cui al decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, è riconosciuto un contributo di 3 milioni di euro per l’anno 2021».

La Corte ha chiarito che, nel caso di specie, nonostante la misura statale intervenga sul diritto allo studio, appartenente all’ambito di competenza legislativa regionale residuale, non sussista violazione del principio di leale collaborazione.

Infatti, lo Stato, con il d.lgs. n. 68 del 2012, previa intesa in Conferenza Stato-Regioni necessaria al fine di assicurare un esercizio unitario, ha realizzato un’attrazione in sussidiarietà delle funzioni relative non solo al riconoscimento e all’accreditamento, ma anche al finanziamento dei collegi universitari accreditati.

 

Relativamente ai docenti universitari, la Corte, con sentenza n. 310/2013, ha confermato quanto già evidenziato nella sentenza n. 22/1996 – precedente la riforma del titolo V Cost. –, ricordando che l’autonomia di cui all’art. 33 Cost. non attiene allo stato giuridico dei docenti universitari, i quali sono legati da rapporto di impiego con lo Stato e sono di conseguenza soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare.

Sempre nell’ambito della docenza universitaria, la Corte, con la sentenza n. 165/2020, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 6, della legge n. 240 del 2010 impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost, in quanto prevedeva la temporanea facoltà per gli atenei, anziché l’obbligo, di utilizzare (fino a dicembre 2021) la procedura di valutazione riservata ai ricercatori a tempo determinato di tipo B anche per la chiamata nel ruolo di professori di seconda fascia dei ricercatori universitari a tempo indeterminato in possesso di abilitazione scientifica nazionale.

La disposizione censurata estendeva l’applicazione del meccanismo descritto all’art. 24 comma 5 della suddetta legge ai ricercatori a tempo indeterminato, consentendo alle università di ricorrervi discrezionalmente, sempre nei limiti delle risorse disponibili.

In particolare, il comma 5 prevedeva per i ricercatori di tipo B un meccanismo automatico dell’avanzamento in presenza di determinate condizioni (abilitazione nazionale ed esito positivo della valutazione dell’ateneo), o, in mancanza, l’uscita dall’università in mancanza delle suddette condizioni.

In conclusione, la Corte ha affermato che la disposizione censurata ha introdotto un “non irragionevole” bilanciamento tra l’interesse dei ricercatori a tempo indeterminato e quello degli atenei ad operare autonomamente le proprie scelte, nei limiti delle esigenze didattiche e delle risorse disponibili.


 

Professioni

Assetto delle competenze e questioni principali

La materia delle professioni rientra tra gli ambiti di legislazione concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

 

 

 

lente

 

 

Con riferimento alla materia professioni, la Corte costituzionale, con costante giurisprudenza, ha riconosciuto che per i profili ordinamentali che non hanno uno specifico collegamento con la realtà regionale si giustifica una uniforme regolamentazione sul piano nazionale. Per la Corte, l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato. Non è dunque nei poteri delle Regioni dare vita a nuove figure professionali e l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale.

Sempre per la Corte, ulteriori profili attinenti alla legislazione sulle professioni sono invece riconducibili alla materia “tutela della concorrenza”, di competenza legislativa esclusiva statale. Ad esempio è stata censurata una legge regionale laddove essa prevede l'obbligo - da parte di professionisti provenienti da altre regioni - di applicare tariffe determinate a livello regionale, ostacolando la competitività tra gli operatori. Peraltro, la legge regionale che comporta l'obbligo di iscrizione nell'albo della regione in cui si intende esercitare una determinata professione non prevede un obbligo di sostenere nuovamente le prove di abilitazione necessarie e dunque non configura un intralcio al libero regime concorrenziale.

 

 

 

 

Giurisprudenza costituzionale

Con riferimento alla materia delle professioni, posta tra le materie di legislazione concorrente dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, la Corte costituzionale, con costante giurisprudenza, ha riconosciuto che per i profili ordinamentali che non hanno uno specifico collegamento con la realtà regionale - da cui la Corte fa derivare la natura concorrente - si giustifica una uniforme regolamentazione sul piano nazionale. Ad esempio, sulla base di considerazioni di tale tenore, la Corte, con sentenza n. 98/2013 (richiamata costantemente nelle sentenze successive), ha censurato una legge regionale recante definizione delle attività di alcune figure professionali, in quanto “la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato”. La Corte, nella citata pronuncia, conferma come la competenza delle Regioni debba limitarsi “alla disciplina di quegli aspetti che presentino uno specifico collegamento con la realtà regionale: tale principio [...] si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale, da ciò derivando che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali”. Sulla medesima linea argomentativa si muovono anche pronunce più recenti, come le sentenze n. 147 del 2018, n. 172 del 2018 e n. 228 del 2018. In quest’ultima, in particolare, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost, la legge reg. Puglia 2017, n. 60, in materia di clownterapia, che individua e disciplina la figura professionale del clown di corsia, definendone il percorso formativo, e prevede l'istituzione di un apposito registro regionale per i soggetti che svolgono l'attività di clownterapia. Ribadendo la competenza statale nell’individuazione delle figure professionali la Corte ha specificato che tra gli indici sintomatici della istituzione di una nuova professione “vi è quello della previsione di appositi elenchi, disciplinati dalla Regione, connessi allo svolgimento della attività che la legge regolamenta, giacché l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale, prescindendosi dalla circostanza che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento dell'attività cui l'elenco fa riferimento”. (In tal senso anche le sentenze n. 98 del 2013, n. 217 del 2015, n. 93 del 2008, n. 300 del 2007, n. 57 del 2007 e n. 355 del 2005).

Nella medesima sentenza la Corte ha precisato che “in materia di professioni, il nucleo della potestà statale si colloca nella fase genetica di individuazione normativa della professione, cosicché la legge definisce i tratti costitutivi peculiari di una particolare attività professionale e le modalità di accesso ad essa, in difetto delle quali ne è precluso l'esercizio”. (Nello stesso senso le sentenze n. 108 del 2012, n. 230 del 2011, n. 271 del 2009, n. 300 del 2007 e n. 449 del 2006).

Con riguardo alla potestà normativa regionale, nella sentenza n. 209 del 2020 la Corte ha comunque precisato che, fermo il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali è riservata allo Stato, rimane «nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale». Pertanto, l’esercizio della potestà legislativa regionale, laddove non direttamente incidente sulla istituzione e regolamentazione di nuove figure professionali, non può ritenersi precluso o limitato (nel caso di specie la Corte ha ritenuto legittimo l’intervento normativo della Regione Marche che, a fronte della previsione nella legge n. 3 del 2018 delle istituende professioni dell’osteopata e del chiropratico, ha rimesso agli enti del servizio sanitario regionale la facoltà di avviare progetti sperimentali per l’inserimento dei trattamenti osteopatici nell’ambito delle discipline ospedaliere).

L’orientamento giurisprudenziale della Corte è stato ulteriormente confermato nella recente sentenza n. 241 del 2021, in cui la Consulta, pur dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla regolamentazione del servizio di psicologia di base della Regione Campania in quanto non innovativa rispetto al riconoscimento statale della professione di psicologo, ha inteso ribadire in chiari termini come l’individuazione delle figure professionali sia “un principio invalicabile dalla legge regionale”. Resta in ogni caso ferma la competenza delle Regioni, sopra ricordata, sugli aspetti collegati alla specifica realtà regionale, laddove sussistano.

La questione si interseca peraltro con quella riguardante la potestà legislativa delle Regioni in materia di formazione professionale, come evidenziato dalla stessa Corte nella sentenza n. 88 del 2021. Nel caso di specie era stata sollevata questione di legittimità costituzionale di una legge della Regione Toscana sul presupposto che le norme impugnate avrebbero istituito un nuovo profilo professionale, non ancora previsto dal legislatore nazionale, denominato «autista con attestato di soccorritore». Tale presupposto non è stato rilevato dalla Consulta, che ha dichiarato infondata la questione; il ricorso ha fornito tuttavia alla Corte l’occasione per fissare una linea di demarcazione tra competenze statali e competenze regionali in questo ambito, statuendo che “le Regioni possono regolare corsi di formazione relativi alle professioni già istituite dallo Stato (sentenza n. 271 del 2009) e che l’esercizio di tale attribuzione regionale può «venire realizzato nell’interesse formativo di qualunque lavoratore, anche al di fuori di un tipico inquadramento professionale di quest’ultimo, purché con ciò non si dia vita ad una nuova professione, rilevante in quanto tale nell’ordinamento giuridico» (sentenza n. 108 del 2012)”.

 

Di particolare interesse possono essere gli ulteriori profili nella legislazione sulle professioni che sono invece riconducibili alla materia tutela della concorrenza. Ad esempio, nella sentenza n. 219/2012 la Corte censura una legge regionale laddove essa prevede l'obbligo - da parte di professionisti provenienti da altre Regioni - di applicare tariffe determinate a livello regionale, ostacolando la competitività tra gli operatori e invadendo l'ambito della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza riservata allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. D'altra parte la sentenza n. 282/2013 ha stabilito che la legge regionale che comporta l'obbligo di iscrizione nell'albo della Regione in cui si intende esercitare una determinata professione non viola la competenza statale in materia in quanto non prevede un obbligo di sostenere nuovamente le prove di abilitazione necessarie e dunque non configura un intralcio al libero regime concorrenziale.

Non è invece consentito alla Regione richiedere un’autorizzazione supplementare, rispetto a quanto stabilito dalla normativa statale, per l’esercizio di un’attività imprenditoriale sul proprio territorio perché ciò, violando l’assetto dato dal legislatore statale in un ambito ad esso riservato e che pertanto «il legislatore regionale non è legittimato ad alterare»,  finirebbe con il «frapporre ostacoli di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale, nonché, in base ai principi europei sulla libertà di prestazione dei servizi, in qualsiasi Paese dell’Unione europea» (sentenza n. 129/2021; nel caso di specie la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una norma di legge della Regione Puglia in base alla quale le imprese esercenti attività di noleggio di autobus con conducente avrebbero dovuto presentare, prima dell’avvio dell’attività in Puglia, un’apposita segnalazione certificata di inizio attività allo Sportello unico delle attività produttive del comune nel cui territorio l’impresa ha sede legale o la principale organizzazione aziendale).


 

Ricerca scientifica e tecnologica

L’articolo 117, terzo comma, della Costituzione include la materia ricerca scientifica e tecnologica fra gli ambiti di competenza concorrente.

A sua volta, l’art. 9 della Costituzione affida alla Repubblica e, dunque, a tutte le sue articolazioni, il compito di promuovere la ricerca scientifica e tecnica.

 

 

 

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Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato la ricerca scientifica alla competenza legislativa concorrente, la Corte costituzionale ha dapprima evidenziato che “la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una ‘materia’, ma anche un ‘valore’ costituzionalmente protetto (artt. 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati” (sentenza n. 423/2004).

Successivamente, la Corte ha evidenziato che, qualora la ricerca verta su materie di competenza esclusiva statale, a queste occorre riferirsi per stabilire la competenza legislativa. In buona sostanza la ricerca scientifica, qualora si delimiti l’area su cui verte e si individuino le finalità perseguite, riceve da queste la propria connotazione (sentenza n. 133/2006).

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale ha evidenziato che “la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una ‘materia’, ma anche un ‘valore’ costituzionalmente protetto (artt. 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati” (sentenza n. 423/2004).

Alla luce di tale considerazione, in particolare, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 4, co. 159, della L. 350/2003, che, nel destinare nuove risorse per il triennio 2004-2006 al sostegno e all’ulteriore potenziamento dell'attività di ricerca scientifica e tecnologica, aveva rinviato la determinazione delle misure dei contributi, della tipologia degli interventi ammessi e dei destinatari ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

Infatti, ha ritenuto, anzitutto, che “un intervento ‘autonomo’ statale è ammissibile in relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, sesto comma, Cost.). Detta norma ha, infatti, previsto una ‘riserva di legge’ statale (sentenza n. 383 del 1998), che ricomprende in sé anche quei profili relativi all’attività di ricerca scientifica che si svolge, in particolare, presso le strutture universitarie”.

Inoltre, la Corte ha rilevato che, al di fuori di questo ambito, lo Stato conserva una propria competenza in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un migliore espletamento, sia organizzando direttamente le attività di ricerca, sia promuovendo studi finalizzati.

Infine, ha evidenziato che il legislatore statale può sempre, in caso di potestà legislativa concorrente, non solo fissare i principi fondamentali, ma anche attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio – nel rispetto dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza – mediante una disciplina che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini.

 

Nella sentenza n. 133/2006 la Corte ha poi evidenziato che la materia “ricerca scientifica” presenta delle peculiarità. In particolare, “alla materia della ricerca scientifica è sotteso un valore la cui promozione può essere perseguita anche con una disciplina che precipuamente concerna materie diverse. E, correlativamente, si è affermato che, qualora la ricerca verta su materie di competenza esclusiva statale, a queste occorra riferirsi per stabilire la competenza legislativa (sentenze n. 423/2004 e n. 31/2005). In buona sostanza la ricerca scientifica, qualora si delimiti l’area su cui verte e si individuino le finalità perseguite, riceve da queste la propria connotazione”.

 


 

Sostegno all’innovazione per i settori produttivi

Assetto delle competenze e questioni principali

La materia sostegno all’innovazione per i settori produttivi, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, è riservata alla potestà legislativa concorrente.

 

 

 

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La Corte costituzionale in diverse sentenze ha ricondotto le disposizioni volte ad accelerare il processo di circolazione della conoscenza ed accrescere la capacità competitiva delle piccole e medie imprese e delle piattaforme industriali a materie spettanti alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (in particolare, alla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi) ed a quella residuale (industria). Nelle stesse occasioni la Corte ha ribadito che anche in tali materie possono esservi quelle “esigenze di carattere unitario” che legittimano l'avocazione in sussidiarietà sia delle funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia della relativa potestà normativa per l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni. Tuttavia l'attrazione al centro delle funzioni amministrative, mediante la “chiamata in sussidiarietà”, richiede, per costante giurisprudenza costituzionale, che l'intervento legislativo preveda forme di leale collaborazione con le Regioni.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale si è pronunciata in merito all’istituzione dell'Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione, (l'art. 1, comma 368, lettera d), numero 4, della legge 23 dicembre 2005, n. 266) strumentale ad «accelerare il processo di circolazione della conoscenza ed accrescere la capacità competitiva delle piccole e medie imprese e delle piattaforme industriali», nonché ad «assistere le piattaforme industriali in ogni fase del percorso di ricerca, applicazione ed ingegnerizzazione di una nuova tecnologia». Riconducendo la relativa disciplina a materie spettanti alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (in particolare, alla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi) ed a quella residuale (industria), la Corte ha ribadito che sussistono quelle “esigenze di carattere unitario” che legittimano l'avocazione in sussidiarietà sia delle funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori (tra le molte, sentenze n. 214 del 2006, n. 383, n. 270, n. 242 del 2005, n. 6 del 2004), sia della relativa potestà normativa per l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni (sentenza n. 285 del 2005), che è stata realizzata con modalità tali da escluderne l'irragionevolezza.

In relazione alla norma concernente l'Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione, l'attrazione appare giustificata dalla considerazione che lo svolgimento dell'attività di promozione dell'integrazione fra il sistema di ricerca ed il sistema produttivo, attraverso la valorizzazione e la diffusione di nuove conoscenze, tecnologie, brevetti ed applicazioni industriali prodotti su scala nazionale ed internazionale presuppone, all'evidenza, un'attività unitaria.

Tuttavia, la Corte ribadisce che “l'attrazione al centro delle funzioni amministrative, mediante la “chiamata in sussidiarietà”, benché sia giustificata, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, richiede tuttavia che l'intervento legislativo preveda forme di leale collaborazione con le Regioni (soprattutto sentenza n. 214 del 2006; ma anche sentenze n. 425, n. 406, n. 213 del 2006)”. Non essendo contemplate forme di leale collaborazione con le Regioni nella disposizione oggetto del giudizio di legittimità, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità.

In materia può altresì citarsi la sentenza n. 308 del 2009, nella quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull'art. 4, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, nella parte in cui non prevede il ricorso allo strumento dell'intesa allorché demanda ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, la disciplina delle modalità di costituzione e funzionamento dei fondi che possono essere istituiti per lo sviluppo di programmi di investimento destinati alla realizzazione di iniziative produttive con elevato contenuto di innovazione. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto infondata la questione in quanto “la mera previsione della possibilità di istituire fondi di investimento per lo sviluppo di iniziative produttive non è idonea a ledere le competenze regionali neppure sotto il profilo della leale collaborazione, potendo, secondo il principio già affermato da questa Corte, «la lesione derivare non già dall'enunciazione del proposito di destinare risorse per finalità indicate in modo così ampio e generico, bensì (eventualmente) dalle norme nelle quali quel proposito si concretizza, sia per entità delle risorse sia per modalità di intervento sia, ancora, per le materie direttamente e indirettamente implicate da tali interventi» (sentenze n. 453 e n. 141 del 2007)”.

Anche nella sentenza n. 74 del 13 aprile 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il comma 140 dell'articolo 1 della legge di stabilità per il 2017 (legge n. 232/2016), recante l’istituzione nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze di un apposito fondo da ripartire per assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese (cd. Fondo infrastrutture), nella parte in cui non si richiede un’intesa con gli enti territoriali in relazione ai decreti di riparto del Presidente del Consiglio dei ministri riguardanti settori di spesa rientranti nelle materie di competenza regionale, per violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost. e del principio di leale collaborazione.

In sintesi, la Corte giustifica la previsione con legge statale di fondi settoriali in materie regionali in applicazione del meccanismo della “chiamata in sussidiarietà”, richiedendo tuttavia che la stessa legge preveda contestualmente il coinvolgimento degli enti territoriali nell’adozione dell’atto che regola l’utilizzo del fondo (sentenze n. 71 del 2018, n. 79 del 2011, n. 168 del 2008, n. 222 del 2005 e n. 255 del 2004). Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, infatti, lo Stato può attribuire al livello centrale una funzione amministrativa e allo stesso tempo regolarne l’esercizio con propria legge, anche in materie regionali, a condizione che sia assicurato il coinvolgimento del livello di governo territoriale interessato (singola regione, Conferenza Stato-regioni, Conferenza Stato-città o Conferenza unificata) tramite un’intesa (ex multis, sentenze n. 170 e n. 114 del 2017, n. 142, n. 110 e n. 7 del 2016, n. 262 del 2015, n. 278 del 2010, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003). È così garantito il rispetto del «principio di leale cooperazione quale sistema di composizione dialettica tra esigenze di interventi unitari ed esigenze di garanzia per l’autonomia e la responsabilità politica delle Regioni in una prospettiva di funzionalità istituzionale» (sentenza n. 61 del 2018).


 

Tutela della salute

Assetto delle competenze e questioni principali

L’articolo 117 della Costituzione in tema di salute riserva la materia tutela della salute alla competenza legislativa concorrente. Al contempo, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, è attribuita alla competenza esclusiva del legislatore statale.

 

 

 

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Dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato che la materia tutela della salute è “assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” (così, ex plurimis, sentenze n. 270/2005, 181/2006). In essa rientra anche l’organizzazione sanitaria, considerata “parte integrante” della tutela della salute (così espressamente sentenza n. 371/2008): pertanto le Regioni possono legiferare in tema di organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei “principi fondamentali” stabiliti dallo Stato (siano essi formulati in appositi atti legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via interpretativa: così già in sentenza n. 282/2002).

Del resto, l'intreccio e la sovrapposizione di materie, quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela della salute ed il coordinamento della finanza pubblica, (sentenze n. 187/2012, n. 330/2011 e n. 200/2009), fa sì che la disciplina della materia sia interamente improntata al principio di leale cooperazione.

La giurisprudenza costituzionale ha costantemente sottolineato inoltre come l’esigenza di coniugare una necessaria opera di contenimento della spesa deve essere raccordata con la garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il rispetto del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli utenti (sentenze n. 279 del 2006, n. 271 del 2008 e n. 330 del 2011).

Così l’ambito di intervento delle Regioni è stato oggetto più volte di limitazioni da parte del legislatore statale, che può legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il conseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (a partire dalla sentenza n. 36 del 2005, fino alle più recenti sentenze n. 51 del 2013, n. 79 del 2013, n. 104 del 2013, n. 91 del 2012).

Si ricorda infine che con la sentenza n. 37 del 24 febbraio 2021 la Corte costituzionale ha fornito alcuni primi chiarimenti sul riparto di competenze legislative tra lo Stato e le regioni sugli interventi legislativi di contenimento e contrasto della pandemia, da ricondurre in primo luogo alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di «profilassi internazionale» (art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.), ambito comprensivo di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso ovvero a prevenirla (si veda supra).

 

Giurisprudenza costituzionale

La Costituzione italiana protegge la salute come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività (art. 32).

In tal senso, il diritto alla salute rientra a pieno titolo nella più ampia categoria dei diritti sociali, la cui tutela impegna tutti i livelli di governo ad assicurare le condizioni minime di salute e il benessere psicofisico dell’individuo.

La legge costituzionale n. 3 del 2001 di modifica del Titolo V ha ridisegnato le competenze di Stato e regioni in campo sanitario ponendo la tutela della salute nell’ambito delle materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni e attribuendo allo Stato la definizione su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

La stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 510/2002 ha sottolineato che "con la riforma del Titolo V il quadro delle competenze è stato profondamente rinnovato e in tale quadro le Regioni possono esercitare le attribuzioni, di cui ritengano di essere titolari, approvando [...] una propria disciplina legislativa anche sostitutiva di quella statale".

Infatti, immediatamente dopo la Riforma del Titolo V, molte pronunce della Corte hanno riconosciuto alle regioni la potestà di adottare, in materia sanitaria, una propria disciplina, anche sostitutiva di quella statale. Si vedano in questo senso, le sentenze n. 282 del 2002, la n. 12 del 2004 e la n. 162 del 2004: in quest'ultima, la Corte ha sostenuto che le norme statali che prescrivono la certificazione di idoneità sanitaria per gli addetti alle industrie alimentari, benché non abrogate, potevano essere superate da forme di controllo diverse, e più adeguate, previste dalla legislazione regionale, potendo, il legislatore regionale, effettuare un'analisi della legislazione statale al fine di enucleare i principi fondamentali vigenti.

 

Ambito della potestà normativa delle Regioni

Una prima indicazione restrittiva in ordine a tale potestà delle regioni è riscontrabile nella sentenza n. 359 del 2003, sul mobbing (già richiamata sub ‘tutela e sicurezza del lavoro): secondo la Corte, la Regione non può esercitare la propria potestà normativa, in quanto l'assenza di principi fondamentali costituirebbe di per sé un fattore idoneo ad impedirne l'esercizio. In tale ottica, la Corte opera l’ampliamento della nozione di "principi fondamentali della materia" proprio con la finalità di garantire una disciplina uniforme, a livello nazionale, della tutela della salute. La salute della persona - afferma la Corte - è un “bene che per sua natura non si presterebbe ad essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali” (sentenza n. 361 del 2003). Sulla base di tale principio, la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità della legge della Regione Piemonte che, in assenza di determinazioni nazionali, incide direttamente sul merito di scelte terapeutiche (sentenza n. 338 del 2003, in tema di lobotomia e terapia elettroconvulsivante, sentenza n. 59 del 2006 in tema di divieto di fumo), fino ad affermare che la competenza regionale nel campo della tutela della salute non può consentire, in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti di una Regione medesima, interventi preclusivi che pregiudichino il medesimo interesse della salute nei territori limitrofi (sentenza n. 62 del 2005 sullo smaltimento di rifiuti radioattivi). In questa ultima sentenza, la compressione della potestà legislativa regionale è stata giustificata, considerando la disciplina statale come ‘punto di equilibrio’ tra contrapposte esigenze: analogo principio è stato enunciato nelle sentenze n. 307 del 2003, n. 331 del 2003 e n. 336 del 2005 (limiti di esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici). Più recentemente, la Corte (sentenza n. 137 del 2019) è intervenuta a confermare l’indirizzo della riserva al legislatore statale in tema di principi fondamentali concernenti il diritto alla salute, con particolare riferimento al compito di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario, sulla base dei dati e delle conoscenze medico- scientifiche disponibili” (v. anche sentenze nn. 5 del 2018 e 169 del 2017), “perché attinente alla riserva di legge statale in materia di trattamenti sanitari”, connessa al principio di eguaglianza. Nello specifico, con la sent. n. 137/2019 è stato dichiarato illegittima per violazione degli artt. 3, 32 e 117, terzo comma, Cost., l’art. 1, comma 2, della legge pugliese n. 27 del 2018 che, in particolari condizioni epidemiologiche o ambientali, demandava alle direzioni sanitarie ospedaliere o territoriali, sentito il medico competente, la valutazione dell’opportunità di prescrivere vaccinazioni normalmente non raccomandate per la generalità degli operatori.

Dopo la riforma del Titolo V, la concorrenza tra la competenza residuale regionale in materia di “assistenza ed organizzazione sanitaria” e la competenza concorrente in materia di tutela della salute diviene oggetto di molte controversie, che la Consulta risolve utilizzando il “criterio della prevalenza”, fatto operare in favore della competenza più ampia, ovvero della materia riferibile alla tutela della salute.

La Consulta ha evidenziato come il “sistema italiano di tutela della salute si sviluppa su due livelli di governo, quello statale e quello regionale”. Per una gestione efficiente del sistema sanitario è dunque imprescindibile un concorso armonioso tra i due livelli, un concorso armonioso e rispettoso delle specifiche e diverse competenze (così le sentenze n. 62 del 2020 e n. 142 del 2021). Sul tema, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato che la materia tutela della salute è “assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” (così, ex plurimis, sentenze nn. 270/2005 e 181/2006), tanto che in essa rientra anche l’organizzazione sanitaria, considerata parte integrante della tutela della salute (così espressamente, sentenza 371/2008): pertanto le Regioni possono legiferare in tema di organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dallo Stato (siano essi formulati in appositi atti legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via interpretativa: così già in sentenza n. 282/2002).

Alla luce di ciò, si è precisato che l’organizzazione del servizio sanitario inerisce, invece, ai metodi e alle prassi di razionale ed efficiente utilizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali destinate a rendere possibile l’erogazione del servizio (sentenza n. 105 del 2007). Tale orientamento è stato confermato, peraltro, dalla sentenza n. 301 del 2013, in cui si ribadisce che, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la libera professione intramuraria, ascrivibile alla competenza legislativa ripartita in materia di sanità ed assistenza sanitaria ed ospedaliera, si radica nella più ampia materia della tutela della salute, di competenza concorrente [12] .

Tuttavia, la Corte ha giudicato illegittima, per violazione dell’art. 97, quarto comma, Cost. una norma legislativa della Regione Puglia (sent. n. 110 del 2017) che ha previsto la possibilità per le Aziende sanitarie locali, per far fronte, tra l’altro, alle esigenze assistenziali relative al servizio di assistenza domiciliare integrata, e compatibilmente con i relativi piani assunzionali, di assumere personale già adibito a tali servizi, mediante chiamata in servizio con contratti a tempo determinato annuali rinnovabili. Le motivazioni della sentenza hanno considerato infatti che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Analogamente, la sentenza n. 72 del 2017 censura una norma di legge della regione Basilicata che lede la riserva che il legislatore nazionale ha assegnato in via esclusiva all’autonomia collettiva di poter derogare alle disposizioni in materia di durata massima settimanale del lavoro e del riposo giornaliero del personale sanitario.

La Corte, invece, ha considerato come afferente alla materia dell’organizzazione sanitaria e della formazione professionale la previsione della Regione Toscana contenuta nella legge n. 83 del 2019. La legge in questione prevedeva la presenza, nell’equipaggio delle ambulanze gestite da soggetti diversi dalle aziende sanitarie, dalle amministrazioni statali e dalla Croce Rossa, di un autista con attestato di soccorritore di livello base ovvero avanzato. La sentenza n. 88 del 2021 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate su questa previsione dal Presidente del Consiglio dei ministri.

 

 

Principi fondamentali statali di tutela della salute

Anche in materia di tutela della salute, la Corte Costituzionale, si è quindi adoperata per distinguere le norme espressione di principi fondamentali dalle norme di dettaglio, attribuendo le prime alla competenza statale e le seconde alla competenza regionale. In tal senso, la sentenza n. 181 del 2006, sottolinea come la norma statale prescriva criteri ed obiettivi, mentre la disposizione regionale individui gli strumenti concreti per raggiungere quegli obiettivi. Pertanto, alla norma statale è lasciata la nomina del direttore di struttura sanitaria in una rosa di candidati, mentre alla norma regionale è dato il compito di giungere alla individuazione, operata da apposita commissione, dei tre candidati. Tale posizione, ascrivente la disciplina degli incarichi di direttore generale delle aziende sanitarie alla competenza statale, è stata ribadita anche dalla sentenza n.209 del 2021. Con la sentenza n. 371 del 2008, la Corte ha anche chiarito quanto già delineato nella sentenza n. 181 del 2006, ossia che “nelle materie di competenza ripartita è da ritenere vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto specifico e dettagliato, è da considerare per la finalità perseguita, in rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione con le norme-principio che connotano il settore”.

La sentenza n. 137 del 2019 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento agli artt. 3, 32 e 117, commi secondo, lett. q), e terzo, Cost. della legge della Regione Puglia n. 27 del 2018 che, al fine di prevenire e controllare la trasmissione delle infezioni occupazionali e degli agenti infettivi ai pazienti, ai loro familiari, agli altri operatori e alla collettività, con apposito provvedimento deliberativo della Giunta regionale, ha previsto l’individuazione di reparti dove consentire l’accesso ai soli operatori vaccinati ai sensi delle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale (PNPV) vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale. La Corte ha rilevato l’erroneità del presupposto interpretativo del ricorrente secondo cui le norme in esame imporrebbero obblighi vaccinali ulteriori rispetto a quelli stabiliti dal legislatore statale, sulla base di deliberazioni della Giunta e con previsioni assistite da sanzioni amministrative. Tali disposizioni sono state, piuttosto, ricondotte nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, quale “parte integrante della competenza legislativa regionale in materia della tutela della salute” (v. anche sentt. nn. 54 del 2015 e 371 del 2008), che “la Regione ha esercitato in modo non eccentrico rispetto alle previsioni contenute nella disciplina statale in materia di obblighi vaccinali” ai sensi del D.L. n. 73 del 2017, nonché al vigente PNPV.

 

Va poi ricordato come durante il periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19 che ha reso necessaria una gestione unitaria della crisi sanitaria di carattere internazionale, la Corte è intervenuta con l'Ordinanza n. 4 del 14 gennaio 2021 per effetto della quale è stata sospesa interamente la legge della Regione autonoma Valle d'Aosta del 9 dicembre 2020 (pubblicata nel bollettino regionale dell'11.12.2020, poi pubblicata in GU del 18.12.2021).  Questa legge regionale ha inteso definire la cornice legislativa per regolamentare con ordinanze, sulla base delle indicazioni fornite dall'Unità di supporto all'emergenza, la situazione di rischio sanitario nella Regione, adattando le misure necessarie per contenere i contagi da COVID-19 sul territorio, con efficacia dal 12 al 20 dicembre 2020.

In base al giudizio della Consulta, la legge regionale valdostana avrebbe potuto comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico considerati gli interventi di contrasto alla pandemia adottati a livello nazionale, oltre che il rischio di un grave pregiudizio per la salute delle persone. Peraltro, sotto il profilo della ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, l'ordinanza richiama la competenza esclusiva dello Stato ex articolo 117, comma 2, lett. q) in merito alla cd. profilassi internazionale, ribadendo la tutela nazionale del diritto fondamentale alla salute.

 

Più in generale, la Corte ha difeso l’esigenza logico-giuridica di una disciplina nazionale di contrasto delle pandemie e di una visione unitaria delle misure necessarie. Infatti, nel riconoscere che “la competenza legislativa per il contenimento della pandemia spetta in esclusiva allo Stato giacché attinente alla profilassi internazionale”, la sentenza n. 37 del 2021 ha posto in rilievo come la rapidità e l’imprevedibilità con cui il contagio pandemico si è diffuso ha postulato “nuove risposte normative e provvedimentali” a seguito della diffusione del COVID-19 e “ha imposto l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire”.

Analogamente la sentenza n. 198 del 2021 ha evidenziato, dichiarando non fondate alcune questioni di costituzionalità in relazione alle norme emergenziali di cui agli artt. 1, 2 e 4 del D.L. n. 19 del 2020, come “il Parlamento ben ha potuto coniare un modello alternativo per il tramite della conversione in legge di decreti-legge che hanno rinviato la propria esecuzione ad atti amministrativi tipizzati”, anche in ragione dei rilievi del Consiglio di Stato che, in sede consultiva su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per l’annullamento di alcuni d.P.C.m. attuativi del medesimo D.L. n. 19, ha sottolineato che la legislazione sulle ordinanze contingibili e urgenti e lo stesso codice della protezione civile non assurgono al rango di leggi rinforzate e pertanto si possono delineare – come fatto dal decreto-legge n. 19 del 2021 – modelli alternativi.

 

Per altri versi, la Corte ha giudicato non fondate alcune questioni di legittimità costituzionale promosse dalle regioni Veneto e Liguria relativamente a previsioni normative riguardanti una serie di tagli alla spesa sanitaria e la rinegoziazione dei contratti per l’acquisto dei beni e servizi nell’ottica di un risparmio per la finanza pubblica. Al riguardo, l’importante sentenza n. 169 del 2017 ha chiarito numerosi punti, innanzitutto, affermando che le previsioni di riduzione della spesa definite a livello statale pongono obiettivi di carattere macroeconomico temporalmente limitati, lasciando sufficienti alternative alla Regione per realizzare la programmazione delle spese.

Per quanto riguarda la pretesa violazione del principio di leale collaborazione che deriverebbe dall’assenza di una effettiva intesa con riferimento al taglio della spesa del SSN per il 2015 - circostanza che ha di fatto imposto alle Regioni una determinazione unilaterale dello Stato -, la Corte ha richiamato la sentenza n. 65 del 2016 con la quale aveva già respinto alcune impugnative regionali. La sentenza, oltre a riconoscere che l'imposizione di risparmi di spesa rientri a pieno titolo nell'esercizio statale della funzione di coordinamento della finanza pubblica (come peraltro affermato in precedenza anche dalla sentenza n. 218 del 2015) purché in un ambito temporalmente definito, argomenta come il meccanismo legislativo dei tagli lineari non impone di effettuare riduzioni di identica dimensione in tutti i settori, bensì di intervenire in ciascuno di questi, limitandosi ad individuare un importo complessivo di risparmio e lasciando alle Regioni il potere di decidere l'entità dell'intervento in ogni singolo ambito.

Inoltre, la mancanza di una esplicita previsione di un termine finale discenderebbe dall'orizzonte triennale proprio della manovra che ne definisce il contenuto; in proposito, tuttavia, "se la temporaneità della soluzione normativa scelta dal legislatore è coerente con l'esigenza di assicurare nel breve periodo il concorso delle regioni alla risoluzione di una grave situazione di emergenza economica del Paese […], nondimeno deve essere rinnovato al legislatore l'invito a corredare le iniziative legislative incidenti sull'erogazione delle prestazioni sociali di rango primario con un'appropriata istruttoria finanziaria" [13] .

Circa il preteso effetto “sugli impegni di spesa già assunti” [14] , benché le disposizioni strumentali alla riduzione di spesa individuate dal legislatore statale appaiano consentire una pluralità di soluzioni, in rapporto ai LEA quali prestazioni sanitarie indefettibili, la Corte sottolinea si possa imporre la riduzione delle risorse degli enti territoriali per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica (ex multis, sentenza n. 36 del 2004) a patto che la riduzione sia ragionevole e tale da non pregiudicare le funzioni assegnate all’ente territoriale. Infatti “l’eccessiva riduzione delle risorse e l’incertezza sulla loro definitiva entità […] non consentono una proficua utilizzazione delle stesse” (sentenza n. 10 del 2016), e ciò anche in ragione delle difficoltà nel finanziamento delle funzioni regionali dovute alla mancata attuazione del federalismo fiscale, come disegnato della legge n. 42 del 2009.

Ferma restando quindi la discrezionalità politica del legislatore nella individuazione dei livelli essenziali, non è possibile limitarne concretamente l’erogazione attraverso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica, in quanto l’effettività del diritto ad ottenere l’erogazione di prestazioni indefettibili “non può che derivare dalla certezza delle disponibilità finanziarie per il soddisfacimento del medesimo diritto” (sentenza n. 275 del 2016). Sul punto la Corte è ritornata con la sentenza n. 142 del 2021, in questa occasione la Corte ha ripreso la già citata sentenza n. 275 del 2016 ed ha aggiunto che “l’effettività del diritto alla salute è assicurata dal finanziamento e dalla efficace erogazione della prestazione”. Emerge quindi come l’erogazione delle prestazioni afferenti ai LEA non possa essere comprimibile per esigenze finanziarie.

 

A conferma della coerenza della giurisprudenza della Corte, per altro verso, la sentenza n. 103 del 2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma statale che, in contrasto con il principio di transitorietà, ha prorogato per la seconda volta una misura di riduzione della spesa sanitaria delle Regioni, dilatandone la durata di un ulteriore anno (fino al 2020) e di fatto estendendo a sei anni l’arco temporale della stessa misura, originariamente prevista per il quadriennio dal 2015 al 2018. L’estensione dell’ambito temporale di precedenti manovre, infatti, “potrebbe sottrarre al confronto parlamentare la valutazione degli effetti complessivi e sistemici di queste ultime in un periodo più lungo (sentenza n. 169 del 2017)”. Con questa stessa sentenza, la Corte ha inoltre colto l’occasione per sottolineare come non sia rispettoso del principio di leale collaborazione il rifiuto, da parte delle autonomie speciali, della sottoscrizione degli accordi bilaterali con lo Stato per sancire il loro contributo al risanamento del settore sanitario, determinando un’ulteriore riduzione del livello del fabbisogno sanitario nazionale delle regioni a statuto ordinario.

 

Da ultimo, la Consulta, con la sentenza n. 179 del 2021, è tornata ad intervenire per delimitare l’ambito normativo regionale in materia di tutela della salute, nello specifico ha precisato l’estensione della materia ricomprendendo nella stessa – come da costante giurisprudenza (sentenze  n.  129  del  2012,  n.  233  e  n.  181  del  2006) –  la disciplina degli incarichi della dirigenza sanitaria. Nel caso specifico, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art.1 della legge n. 30 del 2020 della regione Marche.

La previsione è stata censurata nella misura in cui prevedeva che i direttori di dipartimento potessero essere individuati tra i dirigenti delle professioni sanitarie. Tale previsione regionale si poneva – così è stato giudicato - in contrasto con una previsione statale, contenuta nell’art. 17-bis, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992, la quale richiedeva che la scelta dei direttori di dipartimento fosse fatta tra i dirigenti con incarichi di direzione delle strutture complesse aggregate al dipartimento.

La restrittiva disciplina statale in materia è inderogabile, essendo la disciplina in esame un principio fondamentale in materia di tutela della salute. La Corte ha precisato, inoltre, che la previsione contenuta nell’articolo 17-bis, del d.lgs. n. 502 del 1992, è volta a garantire un’uniforme professionalità sul territorio nazionale dei direttori di dipartimento, ciò è funzionalmente collegato alla tutela dei diritti sociali costituzionalmente garantiti.

La previsione contenuta nella legge n. 30 del 2020 della Regione Marche è stata pertanto dichiarata illegittima; derogando un principio fondamentale in materia di “disciplina degli incarichi della dirigenza sanitaria” prefigurava, infatti, un rischio di nomina di figure professionali non sufficientemente qualificate.

Il principio di leale collaborazione

Sotto un diverso profilo, la Corte ha affrontato il tema della partecipazione delle regioni alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (in ambito sanitario LEA), affermando, con la sentenza n. 88 del 2003, la necessaria partecipazione degli enti territoriali all’individuazione di tali livelli. Successivamente, la sentenza n. 134 del 2006 ha ribadito che lo Stato non può disciplinare i livelli essenziali in violazione del principio di leale collaborazione, sostituendo all'Intesa un mero parere della Conferenza Stato-Regioni. Con la stessa sentenza la Corte si è pronunciata anche sulla determinazione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici di processo e di esito, nonché quantitativi, dei livelli essenziali di assistenza. La Corte definisce tali standard come integrazioni e specificazioni dei livelli essenziali delle prestazioni, e giudica “non definibile, almeno in astratto, un livello di specificazione delle prestazioni che faccia venire meno il requisito della loro essenzialità, essendo questo tipo di valutazioni costituzionalmente affidato proprio al legislatore statale”.

Nella sentenza n. 187/2012, la Corte costituzionale rileva che “la disciplina del settore sanitario, del resto, è interamente improntata al principio di leale cooperazione. A partire dal 2000, lo Stato e le Regioni stipulano particolari intese, denominate «Patti per la salute», volte a garantire l’equilibrio finanziario e i livelli essenziali delle prestazioni per il successivo triennio”.

Con riferimento alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, la Corte ha sottolineato che la competenza statale concerne la fissazione del livello strutturale e qualitativo delle prestazioni e solo in circostanze eccezionali può spingersi all’erogazione di provvidenze o alla gestione di sovvenzioni direttamente da parte dello Stato (sentenza n. 192/2017); la determinazione degli standard in particolare deve essere garantita, con carattere di generalità, “per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di determinate prestazioni, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle” (sentenza  n. 231/2017).

Per quanto riguarda i LEA aggiuntivi rispetto a quelli fissati a livello nazionale, la giurisprudenza costituzionale ne ha ammesso l’implementazione da parte regionale, purché essi non siano in contrasto con il principio di contenimento della spesa pubblica sanitaria quale principio di coordinamento della finanza pubblica. A questo proposito, la Corte ha rilevato un contrasto tra l’erogazione di prestazioni aggiuntive nelle regioni in disavanzo sottoposte ai Piani di rientro con gli obiettivi di risanamento economico sottesi al Piano di rientro medesimo (sentenza n. 104 del 2013).

 

La disciplina del meccanismo di contribuzione degli assistiti ai costi delle prestazioni sanitarie (cd. ticket) è ascrivibile, secondo la giurisprudenza costituzionale, sia alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, di competenza esclusiva dello Stato, sia alla tutela della salute ed al coordinamento della finanza pubblica, oggetto di competenza concorrente; l'intreccio e la sovrapposizione di materie non consentono di individuare una materia prevalente (sentenze n. 187/2012, n. 330/2011 e n. 200/2009). Ne consegue che in tale ambito lo Stato non può esercitare la potestà regolamentare, la quale è ad esso attribuita solo nelle materie nelle quali abbia competenza esclusiva (sentenza n. 187/2012).

La giurisprudenza costituzionale ha sottolineato inoltre come l’esigenza di coniugare una necessaria opera di contenimento della spesa deve essere raccordata con la garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il rispetto del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli utenti (in materia di ticket la sentenza n. 279 del 2006, successivamente le sentenze n. 271 del 2008 e n. 330 del 2011).

Secondo la Corte costituzionale “la misura della compartecipazione deve essere omogenea su tutto il territorio nazionale, giacché non sarebbe ammissibile che l’offerta concreta di una prestazione sanitaria rientrante nei LEA si presenti in modo diverso nelle varie Regioni, considerato che dell’offerta concreta fanno parte non solo la qualità e quantità delle prestazioni che devono essere assicurate sul territorio, ma anche le soglie di accesso, dal punto di vista economico, dei cittadini alla loro fruizione” (sentenza n. 187/2012; nello stesso senso, sentenza n. 203 del 2008). E ciò vale anche rispetto alle Regioni a statuto speciale che sostengono il costo dell’assistenza sanitaria nei rispettivi territori, in quanto «la natura stessa dei cosiddetti LEA, che riflettono tutele necessariamente uniformi del bene della salute, impone di riferirne la disciplina normativa anche ai soggetti ad autonomia speciale» (sentenze n. 187/2012 e n. 134 del 2006).

In un caso la Corte ha peraltro ritenuto che l'omogeneità delle forme di compartecipazione alla spesa non è contraddetta da norme che “si limitano a consentire una contenuta variabilità dell'importo del ticket fra Regione e Regione, pur sempre entro una soglia massima fissata dallo Stato” (sentenza n. 341/2009).

 

Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra nella materia della tutela della salute, di competenza concorrente tra Stato e Regioni, l’organizzazione dei servizi farmaceutici (ex multis, sentenze n. 132 del 2013, n. 231 del 2012, n. 150 del 2011, n. 295 del 2009 e n. 87 del 2006).

In particolare, sono stati ritenuti “principi fondamentali” in materia di tutela della salute i criteri di contingentamento delle sedi farmaceutiche e del concorso per la loro assegnazione (sentenze n. 231 del 2012, n. 150 del 2011, n. 295 del 2009, n. 87 del 2006, n. 352 del 1992, n. 177 del 1988), nonché le norme in materia di illeciti amministrativi relativi alla tutela della salute (sentenza n. 361 del 2003). La sentenza n. 132 del 2013 ha ribadito che devono essere considerati “principi fondamentali” la determinazione del livello di governo competente alla individuazione e localizzazione delle sedi farmaceutiche, la individuazione dei requisiti di partecipazione ai concorsi per l’assegnazione delle sedi, la definizione delle fattispecie illecite e delle relative sanzioni nel commercio dei farmaci. Questi criteri sono finalizzati ad assicurare un’adeguata distribuzione dell’assistenza farmaceutica sull’intero territorio nazionale, garantendo, al contempo, che sia mantenuto elevato il livello di qualità dei servizi e che non vi siano aree prive della relativa copertura. Inoltre, l’uniformità di queste norme, soprattutto con riferimento alla definizione delle fattispecie illecite e delle relative sanzioni, mira alla protezione di un bene, quale la salute della persona, “che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali” (sentenze n. 132 del 2013 e n. 361 del 2003)”.

Alla materia di competenza concorrente tutela della salute la Corte ha ascritto inoltre il riconoscimento del diritto di scelta dell'assistito tra le strutture sanitarie pubbliche e private, negando la riconducibilità della materia alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”. L'esistenza del diritto di libera scelta si deve accompagnare, a tutela dell'utente, ad una disciplina generale, uniforme in tutto il territorio nazionale, destinata a rendere possibile la verifica degli standard di qualificazione delle strutture, mediante la fissazione di requisiti minimi affinché le stesse siano autorizzate e accreditate (sentenza n. 387 del 2007; nello stesso senso, sentenza n. 132 del 2013).

La giurisprudenza costituzionale ha, in particolare, chiarito come «subito dopo l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario», sicché deve concludersi che «il principio di libera scelta non è assoluto e va contemperato con gli altri interessi costituzionalmente protetti, in considerazione dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore ordinario incontra in relazione alle risorse finanziarie disponibili» (sentenze n. 248 del 2011, n. 94 del 2009, n. 200 e n. 111 del 2005).

Sul rapporto tra sanità pubblica e privata la Corte ha avuto modo di ritornare, recentemente, con una serie di sentenze. Con la sentenza n. 195 del 2021 la Corte ha stabilito che il rapporto pubblico-privato dell’offerta sanitaria ha carattere progressivo, inoltre ha stabilito che le strutture private possono operare solo se soddisfano certi standard qualitativi, fissati a livello statale, modificabili, a livello regionale, solo in melius.

All’interno della sanità privata, per quanto riguarda i requisiti da soddisfare per l’erogazione dei servizi, le sentenze n. 36 e n. 195 del 2021, chiariscono la differenza tra il regime delle autorizzazioni e il regime degli accreditamenti. Se per l’autorizzazione è necessario solamente soddisfare certi standard qualitativi, per l’accreditamento occorre soddisfare requisiti ulteriori ed accettare il sistema di pagamento a prestazione. Nello specifico, per l’accreditamento rileva il fabbisogno di assistenza programmato per garantire l’erogazione dei LEA. I due procedimenti – di autorizzazione e di accreditamento – sono tra di loro autonomi, essendo ciascuno finalizzato alla valutazione di indici di fabbisogno diversi e non sovrapponibili. Tali processi non possono essere sospesi, sarebbe infatti una misura illegittima, in quanto introdurrebbe una indebita barriera all’ingresso nel mercato. La sentenza n. 7 del 2021 ha, per tale ragione, dichiarato illegittima la misura della Regione Friuli-Venezia Giulia che sospendeva la presentazione delle domande di autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture fino alla conclusione del processo di accreditamento delle strutture già realizzate.

 

Ancora riguardo i principi statali, si ritiene che le disposizioni legislative statali che prevedono i piani di rientro sanitari nelle regioni in disavanzo, finalizzati a verificare la qualità delle prestazioni ed a raggiungere il riequilibrio dei conti dei servizi sanitari regionali interessati, sono principi fondamentali della materia di coordinamento finanziario. Da ciò consegue che un principio fondamentale in materia concorrente, quale il coordinamento finanziario, incide sull'intero spettro della competenza legislativa regionale in altra materia concorrente, quale la tutela della salute (n. 163 del 2011).

 

Il tema dei piani di rientro

In tema di piani di rientro e di possibili interferenze con le funzioni esercitate dal Governo per il risanamento del disavanzo sanitario regionale, in mancanza della previa intesa richiesta per il principio di leale collaborazione, la Corte ha inoltre censurato (sentenza n. 117 del 2018) una disposizione legislativa della Regione Campania, riaffermando il principio che, nella Regione commissariata per il risanamento dal disavanzo sanitario, la funzione del Commissario ad acta è quella di assicurare contemporaneamente l'unità economica della Repubblica e i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie (LEA). Si precisa in particolare che il ruolo della Regione commissariata per il risanamento del disavanzo sanitario "non può consistere in una sovrapposizione legislativa e amministrativa alle funzioni commissariali, ma deve limitarsi a compiti di impulso e vigilanza per la garanzia dei LEA e a una trasparente e corretta trasposizione delle entrate e degli oneri finanziari per la sanità nel bilancio regionale".

 

Con la sentenza n. 87 del 2019 la Corte sottolinea l’attribuzione alle Regioni del potere di nomina del commissario straordinario delle aziende e degli enti del Servizio sanitario regionale, per comprovati motivi e in caso di vacanza dell’ufficio di direttore generale, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, Cost. rispetto alla legge della Regione Puglia n. 15 del 2018.

Ricostruendo il quadro normativo che disciplina la nomina del direttore generale degli enti del SSR, frutto di una progressiva evoluzione legislativa, si precisano i requisiti per la stessa nomina, al fine di ridurre l’ampio potere discrezionale che il D.lgs. n. 502 del 1992 ha attribuito al Presidente della Regione. In tale direzione il D.L. n. 158 del 2012 ha previsto la formazione di appositi elenchi regionali di idonei alla nomina di direttore generale, da cui poi attingere i candidati, previo avviso pubblico e relativa selezione effettuata da una commissione costituita dalla Regione. Con il successivo d.lgs. n. 171 del 2016, poi, non solo si è previsto un elenco nazionale degli idonei – istituito presso il Ministero della salute e aggiornato ogni due anni – ma si è attribuito alle Regioni il compito di effettuare un’ulteriore selezione, sulla base di apposito avviso, a cui possono partecipare unicamente gli iscritti nell’elenco nazionale, con valutazione dei titoli e colloquio. A giudizio della Corte si tratta di previsioni che “costituiscono principi fondamentali nella disciplina della dirigenza sanitaria e, più in generale, nella materia della tutela della salute”, e “di principi ispirati (…) dall’esigenza di meglio qualificare il profilo di tali dirigenti e di ridurre l’ambito della discrezionalità politica, che pur in qualche misura permane, nella scelta degli stessi, al fine di tutelare l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (v. sentt. n. 159 del 2018 e n. 190 del 2017)”. In tal senso appare chiara la ragione per cui la Corte, con la sentenza n. 209 del 2021, ha dichiarato illegittima la previsione della Regione Sardegna che istituiva un elenco regionale di idonei alla carica di direttore generale delle ASL.

 

Per altri versi, con la Sentenza n. 255 del 2019 la Corte ha sancito che spetta allo Stato la nomina del Commissario ad acta per il Piano di rientro del Servizio sanitario regionale, nomina che non deve necessariamente riguardare il Presidente della Giunta regionale.

È dichiarato che spettava allo Stato e, per esso, al Consiglio dei ministri, nominare con la delibera del 7 dicembre del 2018, il Commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi del Servizio sanitario della Regione Molise. Non viola il principio di ragionevolezza e del buon andamento dell'amministrazione, né comprime le competenze legislative e amministrative regionali nelle materie della tutela della salute e del coordinamento della finanza pubblica, la nomina di persona diversa dal Presidente della Giunta regionale, in quanto, non vi è obbligo ex lege di nominare quest'ultimo come commissario ad acta, e sussistono i presupposti per instaurare e mantenere il commissariamento della Regione. Sul punto, con la sentenza n. 209 del 2021, è ritornata la Corte dichiarando illegittima la previsione della legge sarda n. 24 del 2020, questa prevedeva la facoltà di scegliere i commissari straordinari degli enti sanitari regionali anche al di fuori dell’elenco nazionale degli idonei alla carica di direttore generale. Quest’ultima opzione, ha ribadito la corte, è una possibilità prevista solo nel caso della Regione Calabria, Regione cui sono applicate attualmente delle misure straordinarie.

 

In tema di nomina del Commissario ad acta, inoltre, la Corte ha dichiarato che la partecipazione della Regione non si estende all’individuazione nominativa del Commissario (Sentenza n. 200 del 2019).

È stato dichiarato dalla Corte che spettava allo Stato e, per esso, al Consiglio dei ministri, nominare il Commissario ad acta e il subcommissario per l'attuazione del vigente piano di rientro dai disavanzi del servizio sanitario della Regione Calabria, anche senza la partecipazione del Presidente della Giunta regionale alla riunione del Consiglio dei ministri.

Tale forma di coinvolgimento del rappresentante regionale, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 131 del 2003, non esaurisce infatti le modalità - che il legislatore può diversamente disciplinare con normative di settore relative a specifici tipi di intervento sostitutivo - attraverso le quali è attuato il principio di leale collaborazione. Nella specie, la disciplina dei piani di rientro e dei connessi commissariamenti è improntata ad un costante confronto collaborativo tra il livello statale e quello regionale, la cui sede di elezione è rappresentata dall'azione congiunta del Comitato paritetico e del Tavolo tecnico regionali, organismi la cui stessa composizione, improntata a una compenetrazione tra la componente statale e quella regionale, garantisce di per sé il pieno coinvolgimento della Regione in merito all'analisi dell'andamento del proprio Piano di rientro. Deve, del resto, considerarsi che le facoltà di audizione e partecipazione della Regione non si estendono all'individuazione nominativa del Commissario e del subcommissario, la cui scelta spetta in via esclusiva al Governo.

 

Il costante confronto collaborativo tra i livelli statale e regionale nella disciplina dei piani di rientro dai disavanzi sanitari e dei relativi commissariamenti è stato, peraltro, sottolineato nella Sent. n. 168 del 2021, la quale ha precisato che “la disciplina dei piani di rientro dai disavanzi sanitari e dei relativi commissariamenti è connotata da un costante confronto collaborativo tra il livello statale e quello regionale, la cui sede di elezione è rappresentata dall’azione congiunta del Comitato paritetico permanente per la verifica dei Livelli essenziali di assistenza e del Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali (…): organismi la cui stessa composizione, improntata a una compenetrazione tra la componente statale e quella regionale, garantisce di per sé il pieno coinvolgimento della Regione in merito all’analisi dell’andamento del proprio piano di rientro” (sentenze nn. 233 e 200 del 2019).


 

Alimentazione

L’alimentazione rientra tra le materie di competenza legislativa concorrente, nelle quali, in base all’art. 117, terzo comma, Cost., lo Stato detta i principi generali, la cui attuazione è assegnata alle Regioni. Tuttavia, per il rispetto dei vincoli comunitari in materia, divenuti nel corso del tempo sempre più stringenti, le funzioni amministrative sono ripartite, ex art. 118 Cost., tra lo Stato, le regioni e gli enti locali in base ai criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

In questo senso, la disciplina europea ha demandato alle amministrazioni nazionali l’esercizio dei compiti di controllo e sanzionatori previsti dalla normativa in materia, al fine di assicurare il rispetto di obblighi quali quelli di etichettatura, pubblicità e rintracciabilità dell’origine dei prodotti.

 

 

 

lente

 

 

La materia alimentazione è stata oggetto di sentenze della Corte costituzionale solo in casi sporadici e perlopiù in connessione con altre materie, tra le quali dominante risulta il richiamo alla materia della “tutela della salute”.

 

 

Giurisprudenza costituzionale

Con la sentenza n. 162 del 2004 - in ordine alla legittimità dell’abolizione, in alcune regioni, delle certificazioni di idoneità sanitaria - la Corte ricorda che la legislazione in materia di tutela della disciplina igienica degli alimenti è stata profondamente trasformata dalla adozione di una serie di direttive della Comunità europea, recepite dal legislatore statale, che hanno introdotto modalità diverse di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari, affiancando al previgente sistema, delineato dall’art. 14 della legge 283/1962, un diverso sistema, basato su vasti poteri di controllo e di ispezione, che si riferiscono fra l’altro anche al comportamento igienico del personale che entra in contatto con le sostanze alimentari. Per questo, la legislazione regionale può scegliere fra le diverse possibili modalità date a garanzia dell’igiene degli operatori del settore. Resta invece vincolante a parere della Corte, “l’autentico principio ispiratore della disciplina in esame, ossia il precetto secondo il quale la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri”. La scelta delle Regioni di sopprimere l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, pertanto, non determina di per sé la violazione di tale principio fondamentale, dal momento che le mutate condizioni igieniche e sanitarie dei processi di produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari, discendenti dall’adozione della normativa comunitaria, hanno riformato completamente il settore della tutela dell'igiene dei prodotti alimentari. In conseguenza di ciò, la Corte afferma che le precedenti prescrizioni non possono più considerarsi principi fondamentali della materia “esse, infatti, devono essere ritenute nulla più che semplici modalità nelle quali può essere concretizzato l’autentico principio ispiratore della normativa in esame". La Corte ricorda in sostanza che, “qualora nelle materie di legislazione concorrente i principi fondamentali devono essere ricavati dalle disposizioni legislative statali esistenti, tali principi non devono corrispondere senz’altro alla lettera di queste ultime, dovendo viceversa esserne dedotta la loro sostanziale consistenza  e ciò tanto più in presenza di una legislazione in accentuata evoluzione” [15] .

 

Con la sentenza n. 467 del 2005 la Consulta ha stabilito che, posta la propria competenza legislativa in una determinata materia, la Regione disciplina la stessa con norme cogenti per tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano sul territorio regionale. Poiché le Regioni hanno competenza legislativa concorrente sia in materia di tutela della salute che di alimentazione, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., le leggi dalle stesse validamente emanate, nel rispetto dei princípi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, devono avere effetto nei confronti di tutti i soggetti istituzionali che esercitano potestà amministrative ad esse riconducibili, con possibili riflessi anche sull'organizzazione di queste. È stata conseguentemente dichiarata infondata una questione di costituzionalità relativa ad una disposizione regionale che poneva a carico di tutte le amministrazioni pubbliche l’obbligo di fornire pasti differenziati a soggetti aventi problemi connessi con l’alimentazione.

 

La Corte costituzionale ha considerato peraltro (sent. n. 104 del 2014) la disciplina regionale relativa all'accesso all'attività commerciale nel settore merceologico alimentare, che prevedeva, diversamente dalla normativa statale, la frequenza di un corso professionale ad hoc ovvero una pregressa specifica esperienza nel settore alimentare ovvero ancora il possesso di un titolo per il cui conseguimento sia previsto lo studio di materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti. Tale disciplina è stata ricondotta alla materia tutela della salute, attribuita alla competenza legislativa concorrente, ponendosi quale misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori e la relativa questione di costituzionalità è stata dichiarata infondata.

Più di recente, la Consulta è intervenuta sui “distretti del cibo” (sent. 72 del 2019) sottolineando che “l’elenco delle finalità che il legislatore statale intende perseguire attraverso l’istituzione dei distretti del cibo (…) mostra che la disciplina statale interviene in un vasto ambito di materie, interessando competenze non soltanto statali, ma anche concorrenti e regionali”. Si evidenzia che le diverse finalità incrociano varie attribuzioni materiali di competenza elencate dall’art. 117 Cost., quali la promozione dello sviluppo territoriale, la coesione e l’inclusione sociale, l’integrazione delle attività caratterizzate da prossimità territoriale, la finalità di garantire la sicurezza alimentare, di diminuire l’impatto ambientale delle produzioni, di ridurre lo spreco alimentare e di salvaguardare il territorio e il paesaggio rurale attraverso il sostegno alle attività agricole e agroalimentari. Ciascuno di questi obiettivi deve essere ricondotto o all’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato (ad esempio alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), oppure a competenze di natura concorrente in materia di «alimentazione» (sentenze n. 168 del 2008, n. 213 del 2006 e n. 467 del 2005) e di «sostegno all’innovazione per i settori produttivi» (sentenze n. 74 del 2018 e n. 165 del 2007).

 

 


 

Ordinamento sportivo

 

L’articolo 117, terzo comma, della Costituzione include la materia ordinamento sportivo tra gli ambiti di legislazione concorrente.

 

 

lente

 

 

Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, la Corte costituzionale ha chiarito che nell’ambito della materia ordinamento sportivo rientra senza dubbio la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive. Lo Stato deve, perciò, limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali, spettando invece alle regioni la regolamentazione di dettaglio, salvo una diversa allocazione, a livello nazionale, delle funzioni amministrative, per assicurarne l’esercizio unitario, in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 118, primo comma, della Costituzione (sentenza n. 424/2004).

 

Giurisprudenza costituzionale

Con sentenza n. 424/2004 la Corte costituzionale, evidenziando che non si può dubitare che la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive rientri nella materia dell’ordinamento sportivo, ha chiarito che “lo Stato deve limitarsi alla determinazione, in materia, dei principi fondamentali, spettando invece alle regioni la regolamentazione di dettaglio, salvo una diversa allocazione, a livello nazionale, delle funzioni amministrative, per assicurarne l’esercizio unitario, in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 118, primo comma, della Costituzione”.

Alla luce di ciò, la Corte ha ritenuto che le disposizioni contenute nell’art. 90, co. 24, 25 e 26 della L. 289/2002, che erano state impugnate da parte di alcune regioni, non invadevano le competenze regionali, in quanto recanti principi fondamentali.

In particolare, la Corte ha qualificato principi fondamentali della materia:

-    il co. 24, che assicura la possibilità di utilizzo degli impianti sportivi da parte di tutti i cittadini;

-    il co. 25, che è diretto a garantire che la gestione degli impianti sportivi degli enti territoriali, quando i medesimi non vi provvedano direttamente, avvenga di preferenza mediante l’attribuzione a determinati organismi sportivi;

-    il co. 26, teso a favorire la massima fruibilità, da parte delle associazioni sportive dilettantistiche, degli impianti sportivi scolastici, compatibilmente con le esigenze dell'attività della scuola.

Con la stessa sentenza, invece, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, co. 204, della L. 350/2003, recante un finanziamento finalizzato alla promozione dei programmi dello sport sociale e a favorire lo svolgimento dei compiti istituzionali degli enti di promozione sportiva, in quanto per l’adozione dei criteri di riparto non prevedeva il necessario coinvolgimento delle regioni.

 

Con sentenza n. 254/2013, la Corte ha, invece, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, co. 1 e 2, del D.L. 83/2012 (L. 134/2012), che aveva previsto l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Fondo per lo sviluppo e la capillare diffusione della pratica sportiva, finalizzato alla realizzazione di nuovi impianti o alla ristrutturazione di quelli già esistenti, disponendo che i criteri per l’erogazione delle risorse fossero definiti con decreto di natura non regolamentare, adottato dal Ministro per gli affari regionali, il turismo e lo sport, di concerto con quello dell’economia e delle finanze, sentiti il CONI e la Conferenza unificata.

In particolare, la Corte ha rilevato che la destinazione del Fondo in questione atteneva all’ambito materiale di competenza concorrente dell’ordinamento sportivo e ha ribadito che, in base all’art. 119 Cost., il legislatore statale non può prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. “Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 168 del 2008, nonché, in termini sostanzialmente coincidenti, ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008, n. 201 del 2007 e n. 118 del 2006). Ciò, in particolare, quando la finalizzazione è, come in questo caso, specifica e puntuale”. Le eccezioni a questa regola sono due: gli interventi speciali previsti dal quinto comma del medesimo art. 119 Cost. o al verificarsi di esigenze di gestione unitaria che giustificano un’attrazione in sussidiarietà (sentenze n. 74 del 2019, n. 79 del 2011 e n. 168 del 2008). Nel caso dell’attrazione in sussidiarietà, l’avocazione allo Stato della potestà di istituire fondi o finanziamenti vincolati in materie regionali concorrenti e residuali impone la previsione di congegni atti a garantire la leale collaborazione, generalmente tramite la previsione dell’intesa in Conferenza Stato-Regioni.

L’orientamento giurisprudenziale in parola è stato confermato a più riprese dalla Corte costituzionale. Ad esempio, con sentenza n. 40/2022, è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 137 del 2020, nella parte in cui non dispone che il provvedimento del Capo del Dipartimento per lo Sport della Presidenza del Consiglio, atto a regolare l’utilizzo del Fondo istituito al comma 1 dello stesso articolo (il “Fondo per il sostegno delle Associazioni Sportive Dilettantistiche  e delle Società Sportive Dilettantistiche”), sia adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Analogamente, la sentenza 123/2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 562, della L. 178/2020, nella parte in cui si assegnava ad un decreto dell’autorità di governo competente in materia di sport il compito di individuare i criteri di gestione delle risorse del fondo di cui al comma 561 dell’art.1 della stessa legge (il “Fondo destinato a potenziare l’attività sportiva di base nei territori per tutte le fasce della popolazione e ad ottimizzare gli interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria attraverso l’esercizio fisico”), senza contemplare un coinvolgimento regionale per mezzo di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.


 

Protezione civile

La protezione civile rientra tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

 

 

lente

 

 

Sulla materia della protezione civile la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto lo Stato legittimato a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme primarie. La Corte ha infatti ritenuto che le previsioni in materia di stati di emergenza e potere di ordinanza (recate, dapprima, dall’abrogata legge 225/1992 ed ora dal decreto legislativo n. 1 del 2018) sono «espressive di un principio fondamentale della materia della protezione civile, sicché deve ritenersi che esse delimitino il potere normativo regionale» (sentenza n. 284 del 2006).

Riguardo alle questioni attinenti all’edilizia nelle zone sismiche e alla ricostruzione nelle zone colpite da eventi sismici, l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo ha chiarito – da un lato – che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» attraverso la chiamata in sussidiarietà di funzioni amministrative (sentenze n. 56 del 2019, n. 201 del 2012 e n. 254 del 2010) e – dall’altro – che la protezione civile, la quale ingloba anche aspetti attinenti alla ricostruzione, di particolare rilievo ove la calamità consista in un evento sismico, “appartiene alla competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., e incrocia altresì la materia governo del territorio” e che pertanto “la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato, deve prevedere un idoneo coinvolgimento delle Regioni” (sentenza n. 246 del 2019).

 

Giurisprudenza costituzionale

Riguardo alla disciplina degli stati di emergenza e del potere di ordinanza, con la sentenza n. 284 del 2006, la Corte ha ricordato quanto già rilevato in precedenti pronunce, ossia che le previsioni contemplate nell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992 (che disciplinava gli stati di emergenza e il potere di ordinanza) e 107 del D. Lgs. n. 112 del 1998 (che elenca le funzioni in materia di protezione civile di competenza statale) sono «espressive di un principio fondamentale della materia della protezione civile, sicché deve ritenersi che esse delimitino il potere normativo regionale, anche sotto il nuovo regime di competenze legislative» delineato dopo il 2001. Nella pronuncia, si sottolinea che lo Stato è, dunque, legittimato a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme primarie.

 

Nell’ambito della normativa sulla ricostruzione delle zone colpite da eventi sismici, rilevano, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’intreccio di competenze, la possibile chiamata in sussidiarietà di funzioni amministrative, il ruolo trasversale della competenza statale e la necessità del coinvolgimento regionale. Su tali profili la Corte riepiloga i propri orientamenti nella sentenza n. 246 del 2019, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), numero 1-bis), e lettera b-ter), del decreto-legge n. 109 del 2018, nella parte in cui ha previsto, rispettivamente, che le ordinanze del commissario straordinario per la ricostruzione dei territori colpiti dagli eventi sismici che, a partire dal 24 agosto 2016, hanno interessato le regioni Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo (di cui all’art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 189 del 2016), sono adottate sentiti i Presidenti delle Regioni interessate anziché previa intesa con gli stessi e che le priorità degli interventi di cui all’art. 14, comma 4, dello stesso decreto-legge sono stabilite dal commissario straordinario sentiti i vice commissari (cioè i Presidenti di Regione) anziché previa intesa con gli stessi.

In primo luogo, secondo la sentenza n. 246 del 2019, alla funzione di protezione civile, definita dall’art. 1 del d.lgs. n. 1 del 2018 (Codice della protezione civile) come l’insieme di competenze e attività volte a tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai pericoli o danni derivanti da eventi calamitosi, accede anche il risanamento del territorio e l’avvio della ricostruzione di aree colpite da eventi sismici. A giudizio della Corte “la protezione civile, che ingloba quindi anche aspetti attinenti alla ricostruzione, di particolare rilievo ove la calamità consista in un evento sismico, appartiene alla competenza concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., e incrocia altresì la materia “governo del territorio”, anch’essa di competenza concorrente (sentenza n. 68 del 2018). In caso di calamità di ampia portata, riconosciuta con la dichiarazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale, è possibile la chiamata in sussidiarietà di funzioni amministrative mediante la loro allocazione a livello statale (sentenza n. 303 del 2003)”.

In materia di edilizia in zona sismica, l’orientamento giurisprudenziale della Corte è nel senso che “le norme sismiche“ dettano una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale (sentenze nn. 101 del 2013, 201 del 2012 e 254 del 2010)”. Tale orientamento è espresso anche nella sentenza 56 del 2019, in cui la Corte ha affermato che “le norme tecniche sulle costruzioni, aventi il fine di tutelare l’incolumità pubblica (in particolare, quelle antisismiche), rientrano nella protezione civile e nel governo del territorio” (sentenze nn. 68 del 2018, 232 e 60 del 2017, 272 del 2016, 189 del 2015, 101 del 2013). Alla luce di quanto detto con riferimento alla necessaria unitarietà della disciplina delle norme in materia di edilizia nelle zone sismiche, si segnala che la Corte ha recentemente ampliato l’elenco dei suddetti principi. Tra questi principi, come stabilito dalla sentenza n. 2 del 2021, rientra la “necessità di dare preavviso degli interventi edilizi in zona sismica (…) oltre che la necessità per le Regioni di rispettare le definizioni di interventi rilevanti, di minore rilevanza o privi di rilevanza”.

Altro principio, segnalato dalla Consulta nella sentenza n. 115 del 2021, è quello per cui “è obbligatorio il controllo diretto sui progetti” per gli interventi rilevanti in zona sismica.

In secondo luogo, la citata sentenza 246 del 2019 ha ribadito che nelle materie concorrenti “possono essere attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale (sentenza n. 284 del 2016)” e che, tuttavia, “anche in situazioni di emergenza la Regione non è comunque estranea, giacché, nell’ambito dell’organizzazione policentrica della protezione civile, occorre che essa stessa fornisca l’intesa per la deliberazione del Governo e, dunque, cooperi in collaborazione leale e solidaristica (sentenza n. 8 del 2016)”. Nella sentenza 246 del 2019 si precisa, inoltre, che “la protezione civile, proprio perché inevitabilmente tocca competenze anche regionali, ha altresì assunto un ruolo di competenza statale trasversale, seppur concorrente, idonea a condizionare o a limitare l’esercizio di competenze regionali in altri settori, come quello relativo al governo del territorio e, più specificamente, agli interventi edilizi in zone sismiche”.

 Secondo la Corte, “a doppio titolo, pertanto, la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato, deve prevedere un idoneo coinvolgimento delle Regioni: da una parte, la chiamata in sussidiarietà a livello centrale di funzioni amministrative in materia di protezione civile in caso di emergenza di rilievo nazionale richiede il rispetto del principio di leale collaborazione; dall’altra parte, tale necessario coinvolgimento viene in rilievo anche perché l’avvio della ricostruzione incrocia altresì la competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio”.

Sulla necessità di rispettare il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, quando interviene, tra l’altro, la competenza concorrente nella materia “protezione civile”, rileva, altresì, quanto stabilito dalla sentenza n. 56 del 2019 sulla disciplina per la messa in sicurezza di edifici e strutture pubbliche, che ha dichiarato illegittimo, per violazione del principio di leale collaborazione e degli artt. 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione, l’art. 1, comma 1080, della legge n. 205 del 2017, nella parte in cui non richiedeva l’intesa in sede di Conferenza unificata in relazione al decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ivi previsto per la definizione dei criteri e delle modalità di accesso al Fondo per la progettazione degli enti locali istituito dal precedente comma 1079, rivolto al cofinanziamento della redazione dei progetti di fattibilità tecnica ed economica e dei progetti definitivi degli enti locali per opere destinate alla messa in sicurezza di edifici e strutture pubbliche e ricondotto alle materie concorrenti del governo del territorio e della protezione civile e alla materia esclusiva statale della sicurezza. Pertanto, è stato applicato, con riferimento alla sua disciplina, l’istituto della concorrenza di competenze, non potendo ritenersi prevalente l’attinenza alla materia della sicurezza. Benché la competenza statale sulla sicurezza comprenda la tutela dell’incolumità delle persone (sentenze nn. 77 del 2013, 183 del 2012 e 21 del 2010), la disciplina de quainterseca in modo rilevante, oltre alla materia esclusiva statale della sicurezza, anche le materie concorrenti del governo del territorio e della protezione civile”. In presenza di una concorrenza di competenze, si impone dunque un coinvolgimento regionale, tramite intesa in sede di Conferenza unificata, nell’adozione del decreto ministeriale previsto dal comma 1080 (sentenze nn. 185, 87 e 78 del 2018, 168 del 2008).

Sempre a proposito della concorrenza di competenze, la Corte, nella sentenza n. 2 del 2021, ha sottolineato che “la normativa statale stabilisce infatti doveri procedimentali in capo all’amministrazione regionale che rappresentano essi stessi il punto di equilibrio di un bilanciamento tra tutti i molteplici interessi in gioco, che non può essere modificato dal legislatore regionale”.

Ribadisce quanto sopra esposto, in particolare sulla competenza statale a dettare i principi fondamentali relativamente agli interventi edilizi in zona sismica, anche la sentenza n. 264 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, di alcune norme della L. R. Calabria n. 37 del 2018 e  della L.R. Calabria n. 37 del 2015, in quanto sottraevano all’autorizzazione preventiva regionale alcune parti progettuali degli interventi edilizi in zone sismiche. Con tale sentenza la Corte sottolinea che “le censurate disposizioni sono risultate in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio e protezione civile racchiusi  negli artt. 93, comma 1, e 94, comma 1, del TUE (D.P.R. 380/2001) ove, rispettivamente, si impone a chiunque intenda procedere, nelle zone sismiche, a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni di darne preavviso scritto allo sportello unico (che provvede a trasmetterne copia al competente ufficio tecnico della regione) e si vieta, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità, di iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio regionale.

In proposito, già in precedenza, con le sentenze n. 182 del 2006 e n. 64 del 2013, la Corte aveva ricordato che il principio della previa autorizzazione scritta di cui all’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001 trae “il proprio fondamento dall’intento unificatore del legislatore statale, il quale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali”.

 

In tale ambito, merita, inoltre, richiamare quanto stabilito nella sentenza n. 68 del 2018 in cui la Corte ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della L.R. Umbria n. 1 del 2015 nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente come invece previsto dalla normativa nazionale, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche (art. 89 del TUE – D.P.R. 380/2001). La Corte ha ribadito che il citato art. 89 del TUE “è norma di principio in materia non solo di governo del territorio, ma anche di protezione civile, in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica (fra le altre, sentenza n. 167 del 2014).

 

Merita infine ricordare quanto affermato nella sentenza n. 32 del 2006 in cui la Corte ha ribadito l'orientamento interpretativo e ricostruttivo sull'identificazione della materia tutela dell'ambiente, che si presenta «sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti» (sentenza n. 214 del 2005), con la conseguenza che essa si connette in modo quasi naturale con la competenza regionale concorrente della «protezione civile».


 

Governo del territorio

Nell’assetto costituzionale vigente, la materia governo del territorio è attribuita alla competenza concorrente tra Stato e regioni, di cui all’articolo 117, terzo comma.

 

 

lente

 

 

Il governo del territorio rappresenta una delle più significative materie di legislazione concorrente, su cui la Corte è ripetutamente intervenuta.

Chiarito che il nucleo duro della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia (cfr. ex plurimis, sentenze n. 102 e n. 6 del 2013, n. 309 e n. 192 del 2011; n. 340 del 2009; nonché sentenze n. 303 e n. 362 del 2003), lo sforzo della giurisprudenza è stato quello di delimitare all’interno e all’esterno una materia molto ampia (cfr. sentenze n. 307 del 2003 e n. 196 del 2004), anche alla luce del fatto che alcune materie limitrofe, come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia sono espressamente previste quali autonomi titoli di legittimazione legislativa.

Per quanto concerne il contenuto interno, la Corte ha avuto modo di desumere dalla normativa primaria, alla luce del dettato costituzionale, alcuni principi fondamentali interni alla materia (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 264/2019, n. 309/2011, n. 341 del 2010, n. 340 del 2009, n. 196 del 2004).

Al tempo stesso, dalla giurisprudenza costituzionale è emerso chiaramente come il “governo del territorio” incontri anche numerosi limiti provenienti “dall’esterno”, ossia da altre materie con cui inevitabilmente finisce per intrecciarsi. Ciò, in quanto, l’ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una rilevanza in termini di impatto territoriale va ricercato, non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività (cfr. sentenza n. 383 del 2005).

Di qui una certa difficoltà a tracciare una delimitazione precisa della materia (come riconosciuto esplicitamente nella sentenza n. 219 del 2021), che spesso si intreccia ad altri ambiti materiali riconducibili a competenze legislative diverse, quali, in particolare, la tutela dell’ambiente (“materia-obiettivo” in cui non è precluso in assoluto l’intervento regionale, purché questo sia volto all’implementazione del valore ambientale e all’innalzamento dei suoi livelli di tutela: cfr. sentenza n. 66 del 2018), l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, la tutela della salute, l’energia, la protezione civile, nonché a settori come quello dei lavori pubblici (che “non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono”: cfr., da ultimo, sentenza n. 56 del 2019).

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale è intervenuta con diverse pronunce per risolvere le questioni interpretative che si sono poste fin dall’inizio in ordine alla delimitazione della materia governo del territorio.

Il “nucleo duro” della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e all’edilizia (cfr. sentenze n. 303 e n. 362 del 2003) [16] . Al tempo stesso, all’indomani della riforma, la Corte ha messo in evidenza come la materia vada ben oltre questi aspetti, affermando che il governo del territorio “comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti e attività” (cfr. sentenza n. 307 del 2003). L’ampiezza della materia del governo del territorio è stata poi riconosciuta anche nella sentenza n. 196 del 2004, laddove la Corte l’ha ricondotta all’“insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio”.

La portata unitaria e complessa della nozione di territorio, su cui gravano più interessi pubblici (non solo di governo, ma anche di fruizione del territorio), è stata ulteriormente richiamata dalla Corte nella sentenza 219/2021.

 

Più in dettaglio, nel merito della giurisprudenza costituzionale, la Corte ha cercato di desumere dalla normativa primaria, alla luce del dettato costituzionale, i principi fondamentali interni al governo del territorio, risolvendo caso per caso il problema della qualificazione normativa delle singole disposizioni come norme di principio.

Secondo la giurisprudenza, sono da considerarsi principi fondamentali le disposizioni che definiscono le categorie di interventi edilizi perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (sentenza n. 309/2011) [17] . Sul punto la Corte è tornata, recentemente, con le sentenze n. 2, 124 e 245 del 2021.

Nelle sentenze nn. 49, 231 e 282 del 2016 la Corte sottolinea che i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale (sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n. 102 del 2013, n. 303 del 2003), e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA) e per la SCIA che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi (sentenze n. 121 del 2014, n. 188 e n. 164 del 2012). Con la sentenza n. 259 del 2014 la Corte ha altresì ribadito che “la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)”.

Nella sentenza n. 68 del 2018 viene ricordato che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente "governo del territorio", vincolando così la legislazione regionale di dettaglio» (sentenza n. 282 del 2016; nello stesso senso, fra le tante, sentenze n. 231 del 2016, n. 49 del 2016 e n. 259 del 2014). Pertanto, «pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia» (sentenza n. 231 del 2016).

 

Sono qualificabili come principi anche: l’onerosità del titolo abilitativo (sentenza n. 303 del 2003 e n. 231 del 2016); la tempestività delle procedure e la riduzione dei termini per l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica (cfr. sentenze n. 129 e n. 265 del 2006); la qualificazione delle infrastrutture di reti di comunicazioni elettroniche come opere di urbanizzazione primaria (sentenza n. 336 del 2005); il principio della distanza minima tra fabbricati fissata con legge statale, fatta salva la derogabilità in presenza di determinate condizioni riferibili all’assetto del territorio (sentenze nn. 232/2005, 185/2016, 50/2017, 13/2020 e 70/2020 [18] ); la verifica della doppia conformità – in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità – nonché la previsione del pagamento di una somma per l’ottenimento del titolo abilitativo (sentenze nn. 101/2013, 107/2017, 232/2017, 2/2019, 64/2020 e 247/2020).

La Corte ha inoltre affermato che «la demolizione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio del Comune, con le sole deroghe previste dal comma 5 dell'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, costituisce un principio fondamentale della legislazione statale che vincola la legislazione regionale di dettaglio in materia di "misure alternative alle demolizioni"» (sentenze nn. 140/2018, 86/2019 e 233/2020). Sono altresì principi fondamentali il ricorrere a schemi “tipo” di regolamenti edilizi (sentenza n. 125/2017) così come le disposizioni contenute nel Capo IV della Parte II del D.P.R. 380/2001, intitolato «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche» (sentenza n. 282/2016). In proposito occorre sottolineare che secondo la consolidata giurisprudenza richiamata dalla sentenza n. 264/2019 (sentenze nn. 246/2019, 60/2017, 167/2014 e 300/2013), “la disciplina degli interventi edilizi in zona sismica è riconducibile all’ambito materiale del governo del territorio, nonché a quello relativo alla protezione civile per i profili concernenti la tutela dell’incolumità pubblica [19] . In entrambe le materie, di potestà legislativa concorrente, spetta allo Stato fissare i principi fondamentali [20] .

Ulteriori principi risiedono nell’art. 89 del D.P.R. 380/2001 (che richiede il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati) che, secondo quanto ricordato dalla Corte con la sentenza n. 68 del 2018, rappresenta una norma di principio in materia non solo di «governo del territorio», ma anche di «protezione civile», in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica (fra le altre, sentenza n. 167 del 2014). Lo stesso dicasi per l’art. 9 del medesimo decreto che, pur dettando specifici e puntuali limiti alla possibilità di realizzare interventi edilizi in assenza di strumenti urbanistici, «non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia» (sentenza n. 87 del 2017 e n. 68 del 2018). Ciò in ragione della sua peculiare funzione, che consiste nell’«impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale» (sentenza n. 87 del 2017 e n. 68 del 2018). La giurisprudenza della Corte ha aggiunto all’elenco dei principi fondamentali anche: il vaglio dell’autorità amministrativa per i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili (sentenza n. 124 del 2021), l’obbligo di non iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla presentazione della cd. superSCIA (sentenza n. 245 del 2021), i criteri per la determinazione della giusta indennità, specie i presupposti che regolano l’edificabilità legale (sentenza n. 64 del 2021) e la necessaria “doppia conformità” per il rilascio del permesso di sanatoria (sentenza n. 77 del 2021). Quest’ultimo principio è valido anche per gli interventi in zona sismica, come stabilito dalla sentenza n. 2 del 2021.

 

Oltre a ritagliare la materia dall’interno per verificare il corretto riparto di potestà legislativa tra Stato e Regione, la Corte ha evidenziato come la materia «governo del territorio» venga in considerazione in numerosi casi, anche incidentalmente, in quanto finisce con il connettersi con altre materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato o con altre materie di potestà concorrente.

Pertanto, la Corte ha respinto la pretesa, spesso avanzata dalle regioni, di utilizzare come autonomo parametro la competenza in tema di «governo del territorio», in relazione a tutte le attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale. Infatti, in tali casi, il parametro deve essere identificato, non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al «governo del territorio» e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati (sentenza n. 383 del 2005). Tali intrecci di competenze sono stati di volta in volta sciolti dalla Corte costituzionale, modellando ulteriormente i profili della materia in esame.

In alcuni casi, la Corte ha valutato l’intreccio tra competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e competenza concorrente in materia di governo del territorio, con riferimento alla possibilità di derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici ed alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile (sentenza n. 114 del 2012).

In più pronunce, la Corte ha affermato che nella disciplina del condono edilizio convergono la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale e la competenza concorrente in tema di governo del territorio (sentenze n. 49 del 2006 e n. 70 del 2005). Ciò comporta che «alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio, certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell’art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante […] di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo» (sentenza n. 196 del 2004 e, analogamente, sentenze n. 233/2015 e n. 208/2019).

Sul punto la Corte ha avuto modo di precisare ulteriormente (con la sentenza n. 73 del 2017) che esula dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» (sentenza n. 290 del 2009) oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato» (sentenze n. 196 del 2004 e n. 117 del 2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale (sentenza n. 233 del 2015).

La Corte ha mantenuto un orientamento costante anche nella sentenza n. 181 del 2021, nella quale ha aggiunto che i condoni “sono misure extra ordinem destinate ad operare una tantum”. Appare dunque, chiaramente, come in questo ambito il legislatore regionale possa agire “solo ed esclusivamente nel rispetto delle scelte di principio adottate dal legislatore statale” (così la sentenza n. 77 del 2021).

Risulta altresì illegittima la previsione contenuta nella legge veneta n. 50 del 2019 in cui si prevede che mediante presentazione di SCIA, e previo pagamento di sanzione pecuniaria, si possano regolarizzare delle parziali difformità edilizie (così la sentenza n. 77 del 2021). L’illegittimità della predetta norma risiede nella circostanza che consentiva de facto gli stessi effetti di una sanatoria straordinaria.

Un concorso di competenze tra governo del territorio e determinazione dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali viene ravvisato nella disciplina in tema di segnalazione certificata di inizio attività in materia edilizia, che, secondo la Corte, rientra nel «governo del territorio». Tuttavia, a prescindere dal rilievo che in tale materia spetta comunque allo Stato dettare i principî fondamentali, è vero del pari che nel caso di specie il titolo di legittimazione dell’intervento statale nella specifica disciplina della SCIA si ravvisa nell’esigenza di determinare livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, compreso quello delle Regioni a statuto speciale. In altri termini, si è in presenza di un concorso di competenze che vede prevalere la competenza esclusiva dello Stato, essendo essa l’unica in grado di consentire la realizzazione dell’esigenza suddetta (sentenza n. 203 del 2012).

Analogo intreccio di competenze viene ravvisato nella materia dell’edilizia residenziale pubblica, rispetto alla quale la Corte chiarisce che gli spazi normativi coperti dalla potestà legislativa dello Stato sono da una parte la determinazione di quei livelli minimali di fabbisogno abitativo che siano strettamente inerenti al nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana (ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m)) e dall’altra parte la fissazione di principi generali, entro i quali le Regioni possono esercitare validamente la loro competenza a programmare e realizzare in concreto insediamenti di edilizia residenziale pubblica o mediante la costruzione di nuovi alloggi o mediante il recupero e il risanamento di immobili esistenti. L’una e l’altra competenza (la prima ricadente nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, la seconda in quella concorrente del governo del territorio) si integrano e si completano a vicenda, giacché la determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate (sentenze n. 166 del 2008, n. 94 del 2007 e n. 451 del 2006).

Un ulteriore limite esterno al governo del territorio deriva dalla materia della sicurezza, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett. h). Ciò in quanto, se nel governo del territorio rientrano gli usi ammissibili del territorio e la localizzazione di impianti o attività, ne restano esclusi i profili legati alla sicurezza degli edifici. Per la Corte, la disciplina degli impianti relativi agli edifici, quale che ne sia la destinazione d’uso, involge l’individuazione dei requisiti essenziali di sicurezza sia in fase di installazione, sia nelle successive fasi di manutenzione e gestione, in modo che sia assicurato l’obiettivo primario di tutelare gli utilizzatori degli impianti medesimi, garantendo la loro incolumità, nonché l’integrità delle cose. In quest’ambito è coinvolta, non solo la determinazione dei principi fondamentali, ma anche la regolamentazione tecnica di dettaglio (sentenza n. 21 del 2010).

Si richiama altresì la sentenza n. 56 del 2019 che, ravvisando una concorrenza di competenze e ritenendo non prevalente l’attinenza alla materia della sicurezza, ha giudicato fondata la richiesta di un coinvolgimento regionale.

Anche con la sentenza n. 54 del 2021, la Corte ha risolto un caso d’intreccio tra le materie di governo del territorio, sicurezza e tutela della salute. Nella sentenza in questione la Consulta ha stabilito che le leggi regionali, su aspetti specifici non disciplinati dal legislatore statale, possono dettare una propria disciplina a tutela delle esigenze di salubrità ed igiene (nel caso specifico il legislatore veneto aveva introdotto specifici requisiti di altezza e aeroilluminazione per il recupero di sottotetti a fini abitativi).

Numerosi risultano anche gli esempi di intreccio con la materia relativa alla tutela dell’ambiente, che attraversa, con la sua vocazione finalistica, una pluralità di competenze regionali, tra cui il governo del territorio assume un particolare rilievo. Ciò in quanto il territorio, quale componente dell’ambiente, è oggetto di disciplina di entrambe le attribuzioni di potestà legislativa.

Secondo la sentenza n. 66 del 2018, tale trasversalità richiede una strategia istituzionale ad ampio raggio, che si esplica in un’attività pianificatoria estesa sull’intero territorio nazionale. In tal senso, l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di tale “materia-obiettivo” non implica una preclusione assoluta all’intervento regionale, purché questo sia volto all’implementazione del valore ambientale e all’innalzamento dei suoi livelli di tutela.

Così, in materia di attività a rischio di incidente rilevante, la Corte ha riconosciuto la competenza della tutela ambientale, a cui si collega l’interesse del governo del territorio, inteso come disciplina degli adempimenti necessari per l’edificazione e la localizzazione degli stabilimenti in cui si svolgono le attività ad alto rischio (sentenze n. 407 del 2002 e n. 248 del 2009).

In materia di gestione dei rifiuti radioattivi, alla competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, si affianca, su di un piano di concorrenza, la competenza in materie di governo del territorio, per quanto concerne la localizzazione degli impianti. Si tratta, infatti, di localizzare e costruire strutture sul territorio regionale, sicché si rende costituzionalmente necessario un coinvolgimento sia del sistema regionale complessivamente inteso, quanto alla individuazione del sito, sia della Regione interessata, quanto alla «specifica localizzazione e alla realizzazione» delle opere (sentenza n. 33 del 2011).

Con riferimento alla bonifica e alla rigenerazione urbana del comprensorio Bagnoli-Coroglio, con la sentenza n. 126 del 2018 la Corte – dopo aver evidenziato che la disciplina censurata intreccia diverse competenze, statali e regionali, in particolare la «tutela dell’ambiente» e il «governo del territorio» – ha ricordato che in casi del genere “occorre individuare l’ambito materiale che possa considerarsi prevalente e, qualora ciò non sia possibile, la concorrenza di competenze comporta l’applicazione del principio di leale collaborazione, che deve permeare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (tra le tante, sentenze n. 251, n. 21 e n. 1 del 2016, n. 44 del 2014, n. 334 del 2010, n. 50 del 2008 e n. 50 del 2005)”.

Da segnalare, sotto il diverso profilo dell’intreccio tra competenze legislative regionali e funzioni amministrative proprie degli enti locali, è anche la sentenza n. 179 del 2019, in tema di rigenerazione urbana e contenimento del consumo di suolo, in cui la Corte – dopo aver ricordato che la funzione di pianificazione urbanistica rimane assegnata, in linea di massima, ai comuni, ossia al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria – ha sottolineato che, tuttavia, ciò non significa che la legge regionale non possa intervenire a disciplinarla, anche in relazione agli ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla, anche in deroga agli strumenti urbanistici locali, in nome della verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio.

Di rilievo appare anche quanto evidenziato dalla Corte nella recente sentenza 202/2021, a proposito della incomprimibilità ad opera del legislatore regionale dell’autonomia dei comuni nell’esercitare la funzione fondamentale loro assegnata in materia di pianificazione urbanistica ed edilizia in ambito comunale e di partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale. Con tale pronuncia la Corte evidenzia altresì la contestuale possibilità che, a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali, la legge regionale, in quanto fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, preveda interventi in deroga a tali strumenti (sentenza n. 245 del 2018).

 

In altre sentenze, la Corte ha posto in evidenza come talune discipline si pongano al crocevia tra governo del territorio e diversi titoli competenziali, tutti di tipo concorrente.

Le competenze più frequentemente evocate, nel loro operare congiunto, sono la tutela della salute ed il «governo del territorio» (sentenza n. 336 del 2005). Rientrano in tali ipotesi, in particolare gli investimenti nel campo dell’edilizia sanitaria (sentenze n. 99 del 2009, n. 45 del 2008, n. 105 del 2007) [21] .

Anche nella disciplina dell’edilizia scolastica si intersecano più materie, “quali il governo del territorio, l’energia e la protezione civile, tutte rientranti nella competenza concorrente Stato-Regioni di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.”. In simili materie, “allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio” (sentenze nn. 265 del 2011, 254 del 2010, 182 del 2006, 336 e 285 del 2005). Tali orientamenti, già espressi dalla sentenza n. 62 del 2013, sono stati ripresi dalla sentenza n. 284 del 2016.

È stata inoltre messa in evidenza la sussistenza di una connessione della materia in esame con quella relativa alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, soprattutto sotto il profilo della localizzazione degli impianti energetici. In questo filone di pronunce, il conflitto di competenze è stato risolto di volta in volta mediante il criterio di prevalenza dell’interesse pubblico sotteso alla disciplina di specie. In tale contesto, la Corte ha ricondotto alla materia “energia” le norme che disciplinano la costruzione e l’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare e quelle che individuano le tipologie degli impianti di produzione (sentenza n. 278 del 2010), ovvero in relazione alla disciplina dei procedimenti autorizzatori in materia di energia eolica (sentenza n. 119 del 2010).

Con la sentenza n. 69 del 2018 la Corte ha ricordato che il principio di derivazione europea della massima diffusione degli impianti di energia a fonte rinnovabile può trovare eccezione in presenza di esigenze di tutela della salute, paesaggistico-ambientale e dell’assetto urbanistico del territorio (sentenze n. 13 del 2014 e 224 del 2012), ma la compresenza dei diversi interessi coinvolti, tutti costituzionalmente rilevanti, ha come luogo elettivo di composizione il procedimento amministrativo.

Il governo del territorio può interferire altresì con la materia agricoltura, ad esempio in relazione all’inedificabilità sui terreni agricoli che, per effetto dell’infezione provocata dal batterio della xylella fastidiosa o del complesso del disseccamento rapido dell’olivo (co.di.r.o.), hanno subito l’espianto di ulivi (sentenza n. 105 del 2017) o in relazione all’attività agrituristica: secondo la sentenza n. 96 del 2012 rientrano nella materia «governo del territorio» i limiti alla utilizzabilità per fini agrituristici dei fabbricati rurali posti dalla legge per regolare in modo razionale l’inserimento nei territori agricoli di attività connesse, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, destinate alla ricezione ed all’ospitalità (sentenza n. 96 del 2012).

Il potere di intervento delle Regioni in materia di “governo del territorio” non si estende invece alla disciplina dell’autorizzazione paesaggistica che, essendo finalizzata alla protezione ambientale, è assoggettata a «una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 189 del 2016, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2008), che rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto dell’ambiente (sentenza n. 641 del 1987, punto 2.2. del Considerato in diritto). La competenza esclusiva statale risponde a ineludibili esigenze di tutela e “sarebbe vanificata dall’intervento di una normativa regionale che sancisse in via indiscriminata l’irrilevanza paesaggistica di determinate opere, così sostituendosi all’apprezzamento che compete alla legislazione statale” (sentenza n. 246 del 2017).

La Corte ha avuto inoltre modo, con la sentenza n. 83 del 2016, di ribadire che la difesa del suolo è riconducibile alle materie della tutela dell’ambiente e del governo del territorio (sentenze n. 109 del 2011, n. 341 del 2010 e n. 232 del 2009) e quindi, con riferimento specifico alle funzioni statali di programmazione e finanziamento degli interventi di prevenzione del rischio idrogeologico, ha ritenuto necessario il coinvolgimento delle regioni, in virtù del principio di leale collaborazione (sentenza n. 232 del 2009, richiamata su questo punto dalla sentenza n. 341 del 2010).

 

La Corte ha infine ribadito (con la sentenza n. 113 del 2018) che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato, ciò in aderenza all’art. 9 Cost., che sancisce quale principio fondamentale quello della tutela del paesaggio, inteso come morfologia del territorio, cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo. In sostanza, ricorda la Corte, “è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale (sentenza n. 367 del 2007). […] Quanto agli usi civici in particolare, la competenza statale nella materia trova attualmente la sua espressione nel citato art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, le cui disposizioni fondamentali questa Corte ha qualificato come norme di grande riforma economico-sociale (sentenze n. 207 e n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164 del 2009 e n. 51 del 2006)”.

Con la sentenza n. 68/2018 la Corte sottolinea che il principio di prevalenza del piano paesaggistico sugli atti di pianificazione a incidenza territoriale posti dalle normative di settore (stabilito dall’art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004) costituisce espressione del «principio secondo il quale, nella disciplina delle trasformazioni del territorio, la tutela del paesaggio assurge a valore prevalente» (sentenza n. 11 del 2016). E aggiunge che «l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica è “assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale, in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale”» (sentenze n. 64 del 2015, e n.197 del 2014; v. anche, fra le altre, sentenze n. 210 del 2016 e n. 211 del 2013).

Con la sentenza n. 240/2020 è stato inoltre precisato che in tema di pianificazione paesaggistica è necessario un confronto costante, paritario e leale tra Regione e Stato in funzione di un’intesa di carattere generale che assicuri una tutela unitaria del paesaggio.

Con la sentenza n. 130/2020 è stato altresì sottolineato che la tutela dei beni culturali e del paesaggio, d'altronde, richiede una strategia istituzionale ad ampio raggio, che si esplica in un'attività pianificatoria estesa sull'intero territorio nazionale affidata congiuntamente allo Stato e alle Regioni (sentenze nn. 66/2018 e 86/2019).

Con la recente sentenza 219/2021, la Corte ha evidenziato che la pianificazione paesaggistica assume, alla luce della vigente normativa, un valore di limite insuperabile da parte dello stesso legislatore regionale che volesse, in nome della rigenerazione urbana ed edilizia, disporre deroghe indefinite agli strumenti urbanistici comunali.

 

Occorre infine ricordare anche gli intrecci con il settore dei lavori pubblici che “non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono” e “possono essere ascritti, di volta in volta, a potestà legislative statali o regionali” (sentenze nn. 137 del 2018, 45 del 2010, 401 e 256 del 2007, 303 del 2003). Così la sentenza n. 56/2019 ha ricondotto il Fondo per la progettazione degli enti locali (commi 1079 e 1080 della legge n. 205 del 2017) alle materie concorrenti del governo del territorio e della protezione civile e alla materia esclusiva statale della sicurezza e, in conseguenza di ciò, la Corte ha imposto il coinvolgimento regionale, nella forma dell’intesa in sede di Conferenza unificata, nell’adozione del decreto ministeriale attuativo.


 

Infrastrutture e trasporti

Assetto delle competenze e questioni principali

Nell’assetto costituzionale vigente, le materie porti e aeroporti civili e grandi reti di trasporto e di navigazione sono attribuite alla competenza concorrente tra Stato e regioni, di cui all’articolo 117, terzo comma.

 

 

     lente

 

 

Per le grandi reti di trasporto e di navigazione e i porti e aeroporti civili la giurisprudenza della Corte costituzionale ha applicato il principio della “chiamata in sussidiarietà”, ammettendo l'intervento statale in materie pure attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni, a condizione che siano individuate adeguate procedure concertative e di coordinamento orizzontale tra lo Stato e le regioni (le intese; ex plurimis la sentenza n. 79/2011). La Corte ha applicato il principio della “chiamata in sussidiarietà” anche per le infrastrutture strategiche legittimando pertanto l’intervento statale al fine di soddisfare esigenze unitarie (sentenza n. 303 del 2003) e sottolineando la necessità di ricorrere ad adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni nel rispetto del principio di leale collaborazione (sentenza n. 179 del 2012). In proposito, la predeterminazione di un termine irragionevolmente breve per il raggiungimento dell’intesa, non accompagnato da adeguate procedure per garantire il prosieguo delle trattative tra i soggetti coinvolti nella realizzazione dell’opera, è stato reputato un insuperabile motivo di illegittimità costituzionale (sentenza n. 274 del 2013).

La materia connessa del trasporto pubblico locale è invece riconosciuta dalla Corte costituzionale come di competenza residuale delle regioni (sentenza n. 222/2005). In proposito, la sentenza n. 273/2013 ha però riconosciuto la legittimità dell’intervento statale per il finanziamento del settore, in considerazione della perdurante inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione, a causa della mancata individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei costi standard; in questo quadro l’intervento statale è giustificato dall’esigenza “di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa”. Opera inoltre sulla materia anche il principio di “attrazione in sussidiarietà”.

 

Giurisprudenza costituzionale sulle infrastrutture strategiche

Per quanto riguarda le infrastrutture strategiche, primaria importanza riveste la già citata sentenza n. 303 del 2003, che ha respinto una serie di ricorsi presentati dalle regioni concernenti sia la legge delega (legge n. 443 del 2001, cd. “legge obiettivo”), sia il decreto legislativo n. 190 del 2002. La sentenza, oltre ad affermare i principi richiamati all’inizio della scheda relativi alla “chiamata in sussidiarietà” e al principio di leale collaborazione, rileva che “la disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività”. Relativamente alle censure che le regioni sollevano avverso il comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, la Corte, pertanto, afferma: “non di lesione di competenza delle regioni si tratta, ma di applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”. Di particolare interesse è, inoltre, il giudizio che attiene alla collocazione della “materia” dei lavori pubblici: “la mancata inclusione dei “lavori pubblici” nella elencazione dell’art. 117 Cost., a seguito dell’assetto di competenze delineato dopo il 2001, diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti”.

Sulla materia dei lavori pubblici un’altra sentenza fondamentale è la sentenza 401/2007 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili o infondate, per la maggior parte, le censure prospettate dalle Regioni, facendo sostanzialmente salvo il riparto di competenze legislative fra Stato Regioni e Province autonome così come delineato dal decreto legislativo n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici di lavori, forniture e servizi) nel quale, tra l’altro, è confluita la disciplina delle infrastrutture strategiche. In tale pronuncia la Corte ha ritenuto che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione, essendo funzionalizzata al perseguimento dell'interesse pubblico, si caratterizza per la esistenza di una struttura bifasica: al momento tipicamente procedimentale di evidenza pubblica, ascrivibile alla materia tutela della concorrenza segue un momento negoziale riconducibile alla materia ordinamento civile. La Corte ha, inoltre, affermato due principi di carattere generale suscettibili di essere estesi all’intera attività contrattuale della pubblica amministrazione. Il primo attiene all’esclusione della configurabilità di una materia relativa ai lavori pubblici nazionali, già affermata nella sentenza n. 303 del 2003, e l’altro riguarda l’irrilevanza del profilo soggettivo (ovvero della natura statale o regionale del soggetto che indice la gara o al quale è riferibile un determinato bene o servizio) al fine di definire le competenze statali o regionali, dovendosi piuttosto “fare riferimento, invece, al contenuto delle norme censurate al fine di inquadrarlo negli ambiti materiali indicati dall'art. 117 Cost.”.

Con la sentenza n. 16 del 2010 è stato precisato che la nozione di infrastrutture non si presta ad essere ricondotta in quella di ‘materie’, prevista dall’art. 117 Cost. Per infrastrutture, invece, devono intendersi le opere finalizzate alla realizzazione di complessi costruttivi destinati ad uso pubblico, nei campi più diversi, che incidono senza dubbio su materie di competenza legislativa concorrente (governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica ai fini del reperimento e dell’impiego delle risorse), ma coinvolgono anche materie di competenza esclusiva dello Stato, come l’ambiente, la sicurezza e la perequazione delle risorse finanziarie. In tale sentenza la Corte, nel giudicare circa le modalità di ripartizione del cd. Fondo infrastrutture (di cui all’articolo 6-quinquies del D.L. 112/2008) e dichiarando infondata la questione di illegittimità posta da alcune regioni relativamente alla previsione del semplice parere della Conferenza unificata in luogo dell’intesa. In tal caso la Corte sottolinea che “l’esigenza di esercizio unitario, idonea a giustificare l’affidamento al CIPE della ripartizione del Fondo […], discende dalla normativa comunitaria che, con l’obiettivo di ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali emerse in particolare nei Paesi e nelle Regioni in ritardo di sviluppo, e quindi di accelerare la convergenza degli Stati membri e di dette Regioni migliorando le condizioni per la crescita e l’occupazione (Regolamento CE n. 1083 del 2006, primo considerando, nonché art. 3, commi 1 e 2, lett. a), impone l’intervento statale per una valutazione del contesto generale delle diverse realtà”. La Corte fa presente che ai sensi dell’art. 6-sexies, comma 5, del citato D.L. n. 112 del 2008, lo strumento di attuazione di quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 6-quinquies è costituito dalle intese istituzionali di programma: si tratta, dunque, di un incisivo strumento di partecipazione che, correlato al parere della Conferenza unificata, attribuisce spazio e ruolo adeguati all’intervento regionale.

Con la già citata sentenza n. 79 del 2011 la Corte ha affermato che lo Stato può legittimamente revocare i finanziamenti per la realizzazione di infrastrutture strategiche d’interesse nazionale, senza previa consultazione della Regione interessata. Si trattava, in proposito, del finanziamento statale concesso e deliberato dal CIPE per la metropolitana di Parma. Con riferimento alle procedure di localizzazione di infrastrutture strategiche d’interesse nazionale, “si deve rilevare come la necessità di osservare le procedure collaborative, che sfociano nell’intesa tra Stato e Regione, riguardi soltanto la fase di decisione e di localizzazione dell’opera, la quale astrattamente rientrerebbe nella competenza residuale delle Regioni, ma che, in seguito all’attrazione in sussidiarietà determinata dal suo inserimento tra le infrastrutture strategiche, si sposta nell’ambito della competenza statale”. L’intesa nella fase di progettazione e di localizzazione è indispensabile per dare validità ad uno spostamento di competenza legislativa ed amministrativa; la stessa intesa, uguale e contraria, non è invece necessaria se lo Stato decide di revocare il proprio finanziamento, senza tuttavia impedire alla Regione di esercitare la sua competenza, legislativa e amministrativa, sul medesimo oggetto. La decisione statale di escludere unilateralmente l’opera dal novero di quelle ritenute strategiche sul piano nazionale – e di revocare, di conseguenza, il relativo finanziamento – non incide sulle competenze legislative e amministrative della Regione, che ha piena facoltà di realizzarla con fondi propri. Con la revoca del finanziamento statale – a seguito di valutazione di politica economica non censurabile in sede di sindacato di legittimità costituzionale – vengono meno le ragioni che avevano giustificato l’attrazione in sussidiarietà.

Da ultimo, appare opportuno segnalare la sentenza n. 179 del 2012 nella quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 3, lettera b), del D.L. n. 78 del 2010, nella parte in cui prevede che, in caso di dissenso espresso in sede di conferenza di servizi da una Regione o da una Provincia autonoma, in una delle materie di propria competenza, ove non sia stata raggiunta, entro il breve termine di trenta giorni, l’intesa, «il Consiglio dei ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate», senza che siano previste ulteriori procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze. La Corte ha ricostruito la giurisprudenza per richiamare, da un lato, l’esistenza di un’esigenza unitaria che legittima l’intervento del legislatore statale anche in ordine alla disciplina di procedimenti complessi estranei alle sfere di competenza esclusiva statale affidati alla conferenza di servizi, e per escludere, dall’altro, che l’intera disciplina della conferenza di servizi, e dunque anche la disciplina del superamento del dissenso all’interno di essa, sia riconducibile ad una materia di competenza statale esclusiva, tenuto conto della varietà dei settori coinvolti, molti dei quali sono innegabilmente relativi anche a competenze regionali (es.: governo del territorio, tutela della salute, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali). L’esigenza di esercizio unitario deve comunque “obbedire alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza costituzionale, fra le quali questa Corte ha sempre annoverato la presenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni”.

Con la sentenza n. 122 del 2013 è stato giudicato il ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Provincia di Trento nei confronti del Governo in relazione alla nota del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 27 giugno 2012 di inserimento dell’autostrada Valdastico Nord nella nuova rete transeuropea dei trasporti. La pronuncia, nel respingere il ricorso provinciale siccome fondato su un «erroneo presupposto interpretativo», ha sostenuto la spettanza allo Stato del potere di «proporre l’inserimento del tratto autostradale Valdastico Nord nella rete transeuropea dei trasporti, in quanto tale inserimento non pregiudica la necessaria acquisizione dell’intesa con la Provincia autonoma».

La sentenza n. 274 del 2013 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale - per violazione del principio di leale collaborazione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale - dell’art. 16, comma 10-bis, del D.L. n. 83 del 2012, il quale, al fine di garantire l’approvazione in tempi certi del progetto definitivo del prolungamento a nord dell’autostrada A31, già compresa nelle Reti transeuropee dei trasporti (TEN-T), prevedeva che l’intesa generale quadro prevista dall’art. 161, comma 1, del decreto legislativo n. 163 del 2006, dovesse essere raggiunta entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto censurato. La Corte ha ricordato che “l’autostrada in questione non può essere realizzata senza previa intesa, sia in quanto l’opera è inserita nel Programma Infrastrutture Strategiche (per il quale l’intesa stessa è prescritta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001), sia, più in generale, per il rispetto dovuto allo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol ed alle sue norme di attuazione”. A giudizio della Corte, comunque, a prescindere da ogni considerazione, «costituisce un insuperabile motivo di illegittimità costituzionale la predeterminazione di un termine irragionevolmente breve, non accompagnato da adeguate procedure per garantire il prosieguo delle trattative tra i soggetti coinvolti nella realizzazione dell’opera, in caso di mancato raggiungimento di un accordo nel breve periodo di tempo concesso dal legislatore». Infatti, in coerenza col proprio consolidato orientamento, il suddetto termine è «così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa” (sentenza n. 179 del 2012), cosicché la sua rapida decorrenza contrasta irrimediabilmente con la logica collaborativa che informa la previsione stessa dell’intesa».

La legge di bilancio 2017 (legge 232/2016) ha previsto al comma 140 l'istituzione, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, di un Fondo con una dotazione di 1.900 milioni di euro per l'anno 2017, 3.150 milioni per l'anno 2018, 3.500 milioni per l'anno 2019 e 3.000 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2020 al 2032, per assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese in plurimi settori di spesa. La sentenza n. 74/2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui non prevede un’intesa con gli enti territoriali in relazione ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri riguardanti settori di spesa rientranti nelle materie di competenza regionale. In particolare, la Corte “giustifica la previsione con legge statale di fondi settoriali in materie regionali in applicazione del meccanismo della “chiamata in sussidiarietà”, richiedendo tuttavia che la stessa legge preveda contestualmente il coinvolgimento degli enti territoriali nell’adozione dell’atto che regola l’utilizzo del fondo (sentenze n. 71 del 2018, n. 79 del 2011, n. 168 del 2008, n. 222 del 2005 e n. 255 del 2004).

Giurisprudenza costituzionale sulle grandi reti di trasporto e di navigazione

Con riferimento a tale materia devono ritenersi applicabili in via generale i principi della giurisprudenza costituzionale in merito alla ‘chiamata in sussidiarietà’ sviluppatisi in particolare nell’ambito della materia “governo del territorio”. In proposito, si ricorda che la Corte, in merito al principio di sussidiarietà ritenuto titolo giustificativo dell’intervento statale in materie formalmente attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, ha precisato in diverse occasioni che l’attrazione in sussidiarietà comporta la necessità che lo Stato coinvolga le Regioni stesse «poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003).

In questo quadro, con riferimento ad aspetti specifici, si possono segnalare le seguenti prese di posizione della Corte costituzionale:

·     in materia di legislazione portuale, la sentenza n. 79/2011 ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla regione Emilia Romagna in ordine all’istituzione, con l’articolo 4, comma 6, del decreto-legge n. 40/2010 di un fondo per le infrastrutture portuali in quanto per la ripartizione del fondo veniva previsto il parere del CIPE, ma non l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o l’intesa con le singole Regioni interessate. Al riguardo, la Corte ha ricordato che il Fondo concerneva interventi che rientrano nella materia «porti e aeroporti civili», rimessa alla competenza legislativa concorrente dal terzo comma dell’art. 117 Cost. Tuttavia, poiché si tratta di porti a rilevanza nazionale, si deve ritenere che la competenza legislativa in materia sia attratta in sussidiarietà allo Stato. In proposito la sentenza ricorda che la Corte ha ritenuto ammissibile la previsione di un fondo a destinazione vincolata anche in materie di competenza regionale, residuale o concorrente, precisando che «il titolo di competenza statale che permette l’istituzione di un Fondo con vincolo di destinazione non deve necessariamente identificarsi con una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117 Cost. (cioè di competenza esclusiva dello Stato), ma può consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di “chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost. (sentenza n. 16 del 2010, in conformità a sentenza n. 168 del 2008). Tuttavia dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata discende l’illegittimità di disposizioni che non prevedano alcuna forma di leale collaborazione tra Stato e Regione, che deve invece esistere per effetto della deroga alla competenza regionale. Fermo restando pertanto il potere dello Stato di istituire un Fondo per le infrastrutture portuali di rilevanza nazionale, si deve aggiungere che la ripartizione di tale fondo è subordinata al raggiungimento di un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, per i piani generali di riparto delle risorse allo scopo destinate, e con le singole Regioni interessate, per gli interventi specifici riguardanti singoli porti.

A conferma dell’illegittimità di disposizioni che non prevedano alcuna forma di leale collaborazione tra Stato e Regione si ricorda la sentenza n. 261 del 2015 la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014 che, nel disciplinare la procedura di adozione del Piano strategico della portualità e della logistica, non aveva previsto che il piano stesso venisse adottato in sede di Conferenza Stato-Regioni.

Viene tuttavia confermata dalla sentenza n.208 del 2020 la non difformità dalla disciplina costituzionale della istituzione della nuova «Autorità di sistema portuale dello Stretto» ad opera del decreto-legge n. 119 del 2018, che, in quanto deliberata con legge e nell’esercizio della potestà legislativa dello Stato, non comporta problemi di leale collaborazione con le Regioni. La Corte su questa base ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Calabria che contestava, in particolare, la competenza dell’Autorità, con sede a Messina, sui porti di Villa San Giovanni e di Reggio Calabria. La Corte precisa inoltre che l’istituzione di una nuova Autorità, con sede a Messina e comprensiva anche dei due porti calabresi, non può essere considerata neppure irragionevole per le possibili interferenze con la disciplina della Zona economica speciale (ZES) della Calabria. Non si può inoltre sostenere, come fa invece la regione Calabria, che l’unica soluzione costituzionalmente legittima sia la coincidenza tra le circoscrizioni territoriali dell’Autorità di sistema portuale e quelle della ZES, poiché il legislatore ha regolato espressamente i casi in cui taluni dei porti inclusi nell’area della ZES rientrino nella competenza territoriale di un’Autorità con sede in altra Regione, come appunto nella fattispecie. Con la successiva sentenza n. 187 del 2021, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso della Regione Siciliana, per violazione del principio di leale collaborazione, in relazione all’istituzione di un Comitato di indirizzo per l’amministrazione delle Zone Economiche Speciali (ZES), presieduto da un commissario straordinario nominato dal Governo, anziché dal Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale; le disposizioni sopravvenute (contenute nel decreto legge c.d. semplificazioni n. 77 del 2021), infatti, introducono una nuova procedura di nomina, nel cui ambito è proprio prevista un'intesa con il Presidente della Regione interessata;

·     alla materia portuale può essere anche in parte ricondotta la sentenza n. 21 del 2016 che ha previsto l’illegittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014 relativa alla configurazione giuridica delle strutture ricettive note come “marina resort” alle quali è assegnato un regime fiscale favorevole on riguardo al trattamento IVA. In tal caso la Corte ha rilevato come l’intervento coinvolgesse materie nelle quali erano ravvisabili vari livelli di competenza tra i quali era impossibile individuare una prevalenza (competenza esclusiva statale in materia tributaria, competenza concorrente nella materia portuale, competenza residuale in materia di turismo). Pertanto in tal caso deve trovare applicazione il principio generale secondo il quale in ambiti caratterizzati da una pluralità di competenze, qualora non sia possibile determinare la prevalenza, la legittimità del legislatore statale è riconosciuta solo nel rispetto del principio di leale collaborazione che, nel caso di specie, richiede l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. La sentenza n. 161 del 2020 ha inoltre rilevato la non fondatezza delle questioni di illegittimità di alcune disposizioni normative della legge della Regione Siciliana 7 giugno 2019, n. 8, che disciplina vari aspetti concernenti i cosiddetti marina resort. La Corte ha rilevato come le disposizioni introdotte non incidevano “sui requisiti per l'ottenimento della concessione”, ed erano estranee “all'ambito dei criteri e delle modalità di affidamento delle concessioni che connota la sfera di competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza”.

·        in materia di concessioni demaniali marittime, la sentenza n. 108 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost., delle norme della legge regionale siciliana n. 17 del 2021 che consentivano, per tutte le istanze di concessioni demaniali marittime presentate entro la data di entrata in vigore della legge reg. Siciliana n. 32 del 2020 (indicata nel 18 dicembre 2020), di derogare alle previsioni dei piani di utilizzo delle aree demaniali marittime (PUDM), consentendo ai comuni il rilascio di nuove concessioni anche in assenza dell’adozione dei PUDM. La Corte rileva che tutte le concessioni relative al demanio marittimo devono risultare conformi al piano paesaggistico ed essere sottoposte al relativo procedimento autorizzativo, anche nell'ipotesi in cui la legge regionale preveda deroghe rispetto alle disposizioni previste dal PUDM vigente nel singolo territorio comunale;

·     sempre in materia di legislazione portuale, la sentenza n. 378/2005 ha dichiarato incostituzionale la disposizione del comma 1-bis dell’articolo 8 della legge n. 84/1994, introdotto dall’articolo 6 del decreto-legge n. 136/2004, la quale prevedeva che qualora entro trenta giorni non si fosse raggiunta l'intesa con la regione interessata, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti indicasse il presidente dell'autorità nell'ambito di una terna formulata dal presidente della giunta regionale, tenendo conto anche delle indicazioni degli enti locali e delle camere di commercio interessati. Ove il presidente della giunta regionale non avesse provveduto alla indicazione della terna entro trenta giorni dalla richiesta allo scopo indirizzatagli dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, questi avrebbe richiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre la questione al Consiglio dei ministri, che avrebbe provveduto con deliberazione motivata. In proposito, la Corte costituzionale ha evidenziato che “il meccanismo escogitato per superare la situazione di paralisi determinata dal mancato raggiungimento dell'intesa è tale da svilire il potere di codeterminazione riconosciuto alla Regione, dal momento che la mera previsione della possibilità per il Ministro di far prevalere il suo punto di vista, ottenendone l'avallo dal Consiglio dei ministri, è tale da rendere quanto mai debole, fin dall'inizio del procedimento, la posizione della Regione che non condivida l'opinione del Ministro e da incidere sulla effettività del potere di codeterminazione che, ma (a questo punto) solo apparentemente, l'art. 8, comma 1, continua a riconoscere alla Regione”;

·     in materia di trasporto marittimo, la sentenza n. 230/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 19, del decreto-legge n. 95/2012 nella parte in cui non prevedeva l’intesa, bensì la semplice consultazione, per le modifiche e integrazioni delle convenzioni per la gestione del servizi pubblico di trasporto marittimo con la Sardegna; infatti, se da un lato la materia appare riconducibile alla tutela della concorrenza, di esclusiva competenza statale (art. 117, secondo comma, lettera e) Cost.), dall’altro lato, l’adozione di intese appare necessaria per garantire il rispetto dell’articolo 53 dello statuto speciale della Regione Sardegna, il quale prevede che la Regione sia “rappresentata nella elaborazione delle tariffe ferroviarie e della regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi ed aerei che possano direttamente interessarla”.

 

Nel settore aeroportuale, sono di rilievo due pronunzie sul sostegno finanziario della regione Abruzzo alla Società Abruzzese Gestione Aeroporto (SAGA Spa).

Con la sentenza n. 299 del 2013 è stata dichiarata l’incostituzionalità degli articoli 1 e 2 della legge regionale n. 69 del 2012 che disponeva un sostegno economico all’aeroporto di Pescara senza prevedere la previa notifica della misura alla Commissione europea ai sensi degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in materia di divieto degli aiuti di Stato. In questo modo si configurava infatti una violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, il quale stabilisce che le Regioni, al pari dello Stato, debbano esercitare la propria potestà legislativa anche nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. La questione era stata sollevata in via principale dallo Stato e per esso dal Presidente del Consiglio.

Viceversa, con l’ordinanza n. 181 del 2020  la Corte ha dichiarato inammissibile l’incidente di legittimità degli artt. 1 e 2 della legge dell’Abruzzo n. 19 del 2015, «Interventi in favore della Società Abruzzese Gestione Aeroporto (SAGA Spa)», che prevedevano un aiuto al funzionamento dell'aeroporto, sotto forma di sottoscrizione di aumento di capitale ed erano state sollevate, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. La questione era stata sollevata – in questo caso - dalla Corte dei conti in sede di giudizio di parificazione: la Corte costituzionale ha ritenuto che la Corte dei conti non avesse chiarito a sufficienza per quale motivo la pretesa violazione delle norme europee sugli aiuti di Stato fosse preclusivo per la Corte medesima di svolgere il suo giudizio di legittimità sul rendiconto regionale.

Con riferimento alla disciplina delle aviosuperfici e dei campi di volo, la sentenza n. 162/2013 ha stabilito l’incostituzionalità della disposizione della legge della Regione Lazio n. 9/2012 che prevede ipotesi di responsabilità in materia di sicurezza della pubblica incolumità, di uso del territorio e di tutela dell’ambiente per i piloti dei velivoli e ulteriori ipotesi a carico del gestore delle aviosuperfici, per quanto riguarda le strutture facenti parte della stessa nella fase di decollo e di atterraggio dell’aeromobile. Questi aspetti sono stati infatti ritenuti riconducibili alla materia di esclusiva competenza statale “ordinamento civile e penale” (art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.) e non alla materia di legislazione concorrente porti e aeroporti civili (art. 117, terzo comma, Cost.).

Infine la sentenza 7 del 2016 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 1, comma 11, del decreto-legge n. 133 del 2014 che assegnava un termine acceleratorio ai fini dell’approvazione da parte del ministero delle infrastrutture e dei trasporti dei contratti di programma tra l’ENAC e i gestori aeroportuali senza prevedere alcun coinvolgimento dell’amministrazione regionale interessata. La Corte ha ritenuto che la forma di coinvolgimento più idonea nella fattispecie fosse quella del parere.

 

Nel settore ferroviario la medesima sentenza n. 7 del 2016 ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni del decreto-legge n. 133 del 2014 che, nel disciplinare alcune procedure per la gestione di grandi infrastrutture di trasporto, non aveva previsto che l’approvazione dei relativi progetti dovesse avvenire con un adeguato coinvolgimento della regione Puglia (nella forma dell’intesa). I commi 2 e 4 dell’articolo 1 infatti nel definire le procedure di realizzazione delle opere prevedono esclusivamente lo strumento concertativo della conferenza di servizi per superare eventuali dissensi delle amministrazioni a vario titolo coinvolte nell’intervento. Tale forma di coinvolgimento non è stata ritenuta adeguata a garantire il rispetto delle prerogative costituzionali della regione coinvolta: la Corte ha quindi stabilito che l’approvazione dei progetti non possa prescindere dall’intesa con la regione. Secondo un ragionamento analogo è stato dichiarato illegittimo il comma 10-bis della medesima disposizione che attribuiva al MIT (oggi MIMS) il compito di redigere il Piano di ammodernamento dell'infrastruttura ferroviaria, con il quale individua, secondo criteri di convenienza economica per il sistema-Paese, le linee ferroviarie da ammodernare. La Corte ha richiesto, vista la natura del documento, che anche su di esso debba essere raggiunta l’intesa in sede di Conferenza Stato regioni.

 

La Giurisprudenza costituzionale in materia di trasporto pubblico locale: l’attrazione in sussidiarietà e i suoi limiti

 

In materia di trasporti, merita ricordare che la materia del trasporto pubblico locale è assegnata alla competenza legislativa residuale delle regioni, come affermato dalla Corte costituzionale in particolare con la sentenza n. 222/2005. In proposito, la Corte è successivamente intervenuta con le seguenti pronunce:

·          la sentenza n. 273/2013 del 6 novembre 2013, si è espressa sulla costituzionalità del Fondo per il finanziamento del trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle regioni a statuto ordinario, il c.d. Fondo TPL, alimentato allora da un'aliquota di compartecipazione su gasolio e benzina di autotrazione ed istituito dalla legge di stabilità 2013 (legge n. 228/2012). Rispetto a numerosi aspetti della disposizione la regione Veneto aveva infatti sollevato una questione di legittimità costituzionale per la presunta violazione degli articoli 117 e 119 della Costituzione e, in particolare, del divieto, conseguente al riparto di competenze tra Stato e regioni, di istituzione di fondi a destinazione vincolata statali in materia di competenza legislativa concorrente o residuale delle regioni, come è il trasporto pubblico locale. La Corte ha però rigettato il ricorso, rilevando come non si tratti di un fondo a destinazione vincolata in quanto la finalità del fondo è quella di assicurare in via generale il concorso finanziario dello Stato al trasporto pubblico locale senza vincolare il legislatore regionale a uno specifico impiego delle risorse stanziate in tale settore materiale, ascrivibile alla potestà legislativa regionale. La Corte ha inoltre rilevato la perdurante inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione, a causa della mancata individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e dei costi standard; pertanto, in questa situazione “l’intervento dello Stato è ammissibile nei casi in cui, come quello di specie, esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa”. Come già affermato dalla Corte in precedenti sentenze (sentenza n. 121/2010) “siffatti interventi si configurano […] come portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’articolo 119 e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla grave crisi economica nazionale e internazionale”. Coerentemente con questa impostazione la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 244, della legge n. 190 del 2014 nella parte in cui non prevedeva l’intesa in sede di competenza Stato-Regioni che dispone il riparto tra le regioni di risorse a titolo di concorso per il rinnovo del parco veicolare su gomma. Il coinvolgimento “forte”, nella forma dell’intesa, discende anche dal fatto che, pur prevedendo la norma specifici criteri di riparto, non ne specifica l’incidenza né la ponderazione.

·          In materia di ripartizione delle risorse del Fondo per il rinnovo dei mezzi del trasporto pubblico locale, la Corte con la sentenza n. 74 del 2019 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 71, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 nella parte in cui non ha previsto che il decreto interministeriale, concernente le modalità di utilizzo su base regionale delle risorse ivi previste, fosse emanato previa intesa in sede di Conferenza unificata;

·          la sentenza n. 41/2013 si è invece soffermata sul rapporto tra la competenza regionale in materia di trasporto pubblico locale e i poteri dell’Autorità di regolazione dei trasporti, istituita dall’articolo 37 del decreto-legge n. 201/2011. In proposito, la Corte ha affermato che “le funzioni conferite all’Autorità di regolazione dei trasporti, se intese correttamente alla luce della ratio che ne ha ispirato l’istituzione, non assorbono le competenze spettanti alle amministrazioni regionali in materia di trasporto pubblico locale, ma le presuppongono e le supportano. Valgono anche in questo caso i principi affermati dalla Corte in una fattispecie analoga [cioè con riferimento alle competenze dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, ora Autorità nazionale anticorruzione ndr]: «le attribuzioni dell’Autorità non sostituiscono né surrogano alcuna competenza di amministrazione attiva o di controllo; esse esprimono una funzione di garanzia, in ragione della quale è configurata l’indipendenza dell’organo» (sentenza n. 482 del 1995). Compito dell’Autorità dei trasporti è, infatti, dettare una cornice di regolazione economica, all’interno della quale Governo, Regioni e enti locali sviluppano le politiche pubbliche in materia di trasporti, ciascuno nel rispettivo ambito”.

·          la sentenza n. 264/2013 è intervenuta in materia di autotrasporto pubblico non di linea. In particolare, è stata dichiarata l’incostituzionalità della disciplina della Regione Molise (L.R. n. 25/2012) in quanto, attraverso la costituzione di un ruolo dei conducenti di autoservizi pubblici non di linea, l’iscrizione al quale era condizione necessaria per l’esercizio dell’attività sul territorio regionale, si determinava “un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale […] con ciò violando anche il principio di parità di trattamento […] sotteso alla previsione dell’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento”. Anche in questo caso si configurava quindi una violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

·          Con riferimento ai limiti delle competenze regionali, la sentenza n. 5 del 2019 ha dichiarato illegittime, in quanto considerate in violazione della competenza esclusiva statale in materia di concorrenza, le disposizioni della regione Piemonte che introducevano dei limiti per le imprese svolgenti servizi di trasporto mediante noleggio di autobus con conducente (di cui alla legge n. 218 del 2013) per l’utilizzo di bus con età superiore a 15 anni e più di un milione di chilometri e, con valutazioni sostanzialmente analoghe, le sentenze n. 64 del 2018 e n. 95 del 2019 che hanno dichiarato illegittime norme della regione Puglia che fissavano sanzioni più severe rispetto alla normativa nazionale nel caso di mancanza dei requisiti per l’esercizio del servizio e specifici obblighi per le medesime imprese di cui alla legge n. 218 del 2013. Analogamente, con sentenza n. 129 del 2021, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione della competenza esclusiva statale, delle norme della Puglia (legge regionale n. 27 del 2019) in materia di attività di noleggio di autobus con conducente nella parte in cui disciplinano, diversamente dal Codice della strada, le sanzioni per tale attività svolta abusivamente. La Corte ha ribadito che la disciplina della circolazione stradale rientra nella competenza esclusiva statale, inerendo a varie materie ad essa riservate in base all'art.117, secondo comma, Cost., in particolare alla lettera h), relativa alla materia "ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale" (sentenze n. 77 del 2013, n. 223 del 2010 e n. 428 del 2004).

·          Un ulteriore profilo che giustifica l’intervento statale è quello riguardante la compresenza di altri principi trasversali che, essendo inestricabilmente legati alla disciplina del trasporto pubblico locale giustificano l’attrazione in sussidiarietà, con particolare riferimento, nella maggior parte dei casi, alla materia trasversale della tutela della concorrenza. La questione è stata da ultimo affrontata in via sistematica nella sentenza n. 56 del 2020. Con tale pronunzia, avente a oggetto alcune disposizioni della riforma dei servizi di trasporto non di linea mediante noleggio con conducente (NCC) previste dal decreto-legge n.135 del 2018, per quanto attiene al profilo di interesse, la Corte ha confermato il principio dell’attrazione in sussidiarietà nell’ambito delle competenze statali in tema di concorrenza, della disciplina dei limiti esistenti tra più attività economiche contigue ma delle quali una rappresenta un servizio pubblico (il servizio taxi) mentre l’altra (il noleggio con conducente) un’attività di mercato (seppur soggetta ad autorizzazione), confermando quindi la legittimità dell’intervento statale sulla materia e precisando che tale intervento deve “rispettare i limiti dell’adeguatezza e della proporzionalità rispetto al fine perseguito e agli obiettivi attesi (ex plurimis, sentenze n. 137 del 2018, n. 452 e n. 401 del 2007)” In tal caso la Corte ritiene che tra le possibili misure di intervento lo Stato “prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi”. Sulla base di tali principi la Corte ha dichiarato l’illegittimità della disposizione con la quale si disponeva che l'inizio e il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente debba avvenire presso una delle rimesse, con ritorno alle stesse (nuova formulazione del comma 4 dell'art. 11 della legge n. 21 del 1992). La Corte costituzionale ha in particolare sostenuto che tale obbligo "si risolve infatti in un aggravio organizzativo e gestionale irragionevole, in quanto obbliga il vettore, nonostante egli possa prelevare e portare a destinazione uno specifico utente in ogni luogo, a compiere necessariamente un viaggio di ritorno alla rimessa "a vuoto" prima di iniziare un nuovo servizio. La prescrizione non è solo in sé irragionevole – come risulta evidente se non altro per l'ipotesi in cui il vettore sia chiamato a effettuare un servizio proprio dal luogo in cui si è concluso il servizio precedente – ma risulta anche sproporzionata rispetto all'obiettivo prefissato di assicurare che il servizio di trasporto sia rivolto a un'utenza specifica e non indifferenziata, in quanto travalica il limite della stretta necessità, considerato che tale obiettivo è comunque presidiato dall'obbligo di prenotazione presso la sede o la rimessa e da quello, previsto all'art. 3, comma 2, della legge n. 21 del 1992, di stazionamento dei mezzi all'interno delle rimesse (o dei pontili d'attracco). La Corte dichiara inoltre “per la loro stretta connessione all’obbligo di iniziare e terminare ogni viaggio alla rimessa”, illegittime anche le norme che derogano in casi particolari allo stesso obbligo.

Con la sentenza n. 112 del 2022, la Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale di una serie di norme della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in materia di trasferimento delle licenze taxi e delle autorizzazioni NCC prima del limite del quinquennio dal rilascio e di determinazione dei canoni delle concessioni demaniali marittime per i beni demaniali dello Stato; si tratta rispettivamente delle seguenti:

- l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale 30 dicembre 2020, n. 25, per violazione della competenza legislativa statale in materia di tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, in quanto consentiva ai titolari di autorizzazione per NCC e i titolari di licenza taxi, una deroga temporanea al limite quinquennale fissato per il trasferimento delle licenze dall'art. 9, comma 1, della legge n. 21 del 1992, finalizzato alla salvaguardia del concorso pubblico come mezzo per ottenere le licenze taxi e le autorizzazioni NCC (già nella sentenza n. 56 del 2020 la Corte aveva affermato il principio secondo cui la fissazione delle condizioni di accesso degli operatori al settore rientra nella tutela della concorrenza  e nella precedente sentenza n. 452 del 2007 aveva individuato l’assegnazione delle licenza taxi come titolo dell’intervento statale);
- l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 11, della stessa legge regionale, per violazione della competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, nella parte in cui disciplinava l'importo annuo minimo del canone dovuto per l'utilizzazione dei beni appartenenti al demanio marittimo statale e nella parte in cui fissava un criterio di determinazione del canone riguardante beni del demanio marittimo statale.


 

Energia

Nel riparto di competenze legislative derivante dal Titolo V, la materia produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia è attribuita alla competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni.

 

 

 

lente

La potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni in materia di energia ha conosciuto una serie di interventi del giudice costituzionale, che, divenuti sempre più numerosi dal 2004, hanno finito per incidere profondamente sulle relazioni tra i livelli territoriali di governo, nell’ottica di un approccio al settore energetico, inteso non tanto come “materia”, quanto, invece, quale “politica energetica nazionale”, nel quale spetta allo Stato la fissazione dei principi fondamentali (C. Cost. sent. n. 383/2005).

In linea generale, il giudice costituzionale giustifica e legittima, con riferimento al settore energetico, la norma che attribuisce maggiori poteri amministrativi ad organi statali, in quanto ritenuti gli unici a cui non sfugge la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia e quindi idonei ad operare in modo adeguato per ridurre eventuali situazioni di gravi carenze a livello nazionale, seppure a determinate condizioni. Secondo costante giurisprudenza, infatti, la disciplina statale può conferire allo Stato il potere di emanare degli indirizzi ed anche di incidere indirettamente ed in modo significativo sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali (C. Cost. sent. n. 383/2005 e C. Cost. sent. n. 303/2003).

La giurisprudenza della Corte costituzionale riconosce in astratto sempre ammissibile l’avocazione sussidiaria da parte dello Stato di funzioni amministrative e legislative concernenti l’individuazione (e anche la realizzazione) degli interventi in materia di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione. In concreto, però, al fine di valutare la legittimità dell’attrazione in sussidiarietà, deve essere effettuato un giudizio sulla proporzionalità degli interventi stessi.

La “natura strategica” degli interventi “urgenti ed indifferibili” può soddisfare il principio di proporzionalità, se l’intervento statale è finalizzato a garantire l’effettività dell’attuazione e realizzazione «in modo unitario e coordinato» degli interventi individuati.

Trattandosi di iniziative di rilievo strategico, può dunque esservi uno spostamento di competenze amministrative a seguito dell’attrazione in sussidiarietà. Al riguardo, la Corte ha costantemente affermato il principio del doveroso coinvolgimento delle regioni e degli enti locali nei processi decisionali di elaborazione e realizzazione delle politiche energetiche (tra le più recenti pronunce, si richiama la sent. 170/2017).

In particolare, il giudice costituzionale ha affermato che il principio di sussidiarietà consente alla legge “di operare come fattore di flessibilità in un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie”, secondo concezione dinamica – quindi procedimentale e consensuale - della sussidiarietà e dell'adeguatezza. Pertanto, “l'esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà (C. Cost. sent. n. 303/2003).

L’intesa viene valutata dal giudice delle leggi, nella sua giurisprudenza, come “l’atto maggiormente espressivo del principio di leale collaborazione”, “costruita in modo da evitare per quanto possibile che la decisione sia adottata unilateralmente da una delle parti”. La disciplina normativa di tutte le forme collaborative e dell’intesa stessa spetta “al legislatore statale anche quando la legge nazionale si debba limitare ai principi fondamentali, con riferimento all’energia” (sentenza 1 del 2010 e sent. n. 131/2016).

Posta la competenza concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», spetta comunque «allo Stato intervenire in via esclusiva sugli aspetti riconducibili agli ambiti di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e) Cost. - come per le procedure di assegnazione delle concessioni (ad. es. idroelettriche e del gas), che rientrano nella tutela della concorrenza (C. Cost. sentenza n. 1 del 2008 e sentenza 117 del 2022).

 

 

Giurisprudenza costituzionale

Per affrontare la questione del riparto di competenze in materia energetica, non si può che partire da una premessa, inerente “i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario” di cui al primo comma dell’articolo 117 Cost.

 

L’articolo 194 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) introduce una base giuridica specifica per il settore dell'energia, basata su competenze condivise fra l'UE e i Paesi membri.

La politica energetica dell'Unione, nel quadro del funzionamento del mercato interno e tenendo conto dell'esigenza di preservare e migliorare l'ambiente, si articola essenzialmente su quattro linee di intervento: a) garantire il funzionamento del mercato dell'energia, b) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento energetico nell'Unione, c) promuovere il risparmio energetico, l'efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili, d) promuovere l'interconnessione delle reti energetiche.

L'articolo 194 TFUE riconosce invero, in capo ad ogni Stato membro, il diritto di «determinare le condizioni di utilizzo delle sue fonti energetiche, la scelta tra varie fonti e la struttura generale del suo approvvigionamento energetico» (paragrafo 2).

Tuttavia, tale ultima previsione va contemperata con le ulteriori disposizioni del Trattato che attengono alle competenze unionali in materia di politica dell'ambiente (articoli 11 e da 191 a 193 del TFUE), venendo infatti fatta salva l'adozione, a date condizioni, quali il requisito dell'unanimità in seno al Consiglio, di misure aventi una sensibile incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura generale dell'approvvigionamento energetico, (articolo 192, paragrafo 2, lettera c), TFUE).

 

La politica energetica nazionale si inserisce, dunque, in una strategia comune europea, la quale, soprattutto nei suoi più recenti sviluppi, Green New deal e Piano di ripresa e resilienza dell’Unione, è volta a privilegiare lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica.

 

“I vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario” di cui al primo comma dell’articolo 117 Cost. sono peraltro anche di natura concorrenziale, come più volte hanno ribadito le Istituzioni europee e la Corte Costituzionale.

La riforma operata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ha dunque introdotto la competenza concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», ma spetta comunque «allo Stato intervenire in via esclusiva sugli aspetti riconducibili agli ambiti di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e) Cost. - come per le procedure di assegnazione delle concessioni, che rientrano nella tutela della concorrenza (C. Cost. sentenza n. 1 del 2008) -, oltre che stabilire i principi fondamentali per la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia (sentenza 383 del 2005. Si rinvia, sul punto, anche alla recente sentenza 117 del 2022, cfr. infra).

 

Ciò premesso, nella giurisprudenza costituzionale, l’interpretazione del terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione, che tra le materie di legislazione concorrente pone la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, ha portato ad identificare tale espressione con la nozione di “settore energetico” o di “politica energetica nazionale”.

 

La Corte costituzionale ha avuto modo di soffermarsi in molteplici occasioni sul rapporto tra Stato e Regioni relativamente alle questioni concernenti il settore energetico [22] .

 

Quanto alla delimitazione della materia produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la Corte, con la sentenza n. 383/2005, ha avuto modo di affermare che “l'espressione utilizzata nel terzo comma dell'art. 117 Cost. deve ritenersi corrispondere alla nozione di “settore energetico” di cui alla legge n. 239 del 2004, così come alla nozione di “politica energetica nazionale” utilizzata dal legislatore statale nell'art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), che era esplicitamente comprensiva di “qualunque fonte di energia”. Su questa premessa, la legge n. 239 del 2004, riordinando l'intero settore energetico e determinandone i principî fondamentali, si riferisce espressamente nell'art. 1, comma 2, lettere a), b) e c), anche alle attività relative agli oli minerali ed al gas naturale, nonché genericamente alla distribuzione dell'energia elettrica.

In secondo luogo, la stessa “distribuzione locale dell'energia” è utilizzata dalla normativa comunitaria e nazionale come possibile articolazione - a fini gestionali - della rete di distribuzione nazionale (cfr. il decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 –“Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica”); per di più essa è determinata nella sua consistenza dagli organi e attraverso le procedure operanti a livello nazionale e comunque sottoposta alla legislazione nazionale e ad una normativa tecnica unitaria.

Si tratta quindi di una nozione che – sia pure rilevante a livello amministrativo e gestionale - non può legittimare “l'individuazione di una autonoma materia legislativa sul piano del riparto costituzionale delle competenze fra Stato e Regioni”.

 Per meglio comprendere i limiti della potestà regionale nel settore dell’energia, oltre ai già ricordati vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, occorre  tener presente che in molti casi la disciplina della materia quasi inevitabilmente coinvolge altri valori  costituzionali, quali la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela della libertà di impresa, la tutela della concorrenza, la salvaguardia dell'ordine pubblico e della sicurezza o la tutela dell'ambiente.

 

Per questa complessa serie di ragioni, che in qualche modo condizionano il ruolo regionale, la Corte ha però ritenuto di sottolineare che le competenze regionali richiedono un adeguato riconoscimento del principio di leale collaborazione. Con la citata sentenza n. 383 del 2005, la Corte si è pronunciata sui ricorsi promossi dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento avverso numerose disposizioni del decreto legge 29 agosto 2003, n. 239, recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale (convertito con modificazioni, dalla legge n. 290 del 2003), e della legge di riordino del settore energetico (legge 23 agosto 2004, n. 239). La sentenza, ha parzialmente accolto i motivi di ricorso, con dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge n. 239/2003. In due casi, la dichiarazione di incostituzionalità consegue al riconoscimento della natura di dettaglio delle disposizioni del decreto-legge, non idonee come tali ad integrare gli estremi di principi fondamentali in materia di legislazione concorrente.

Il filo conduttore della sentenza è tuttavia la ricognizione, ai sensi dei principi affermati nella precedente sentenza n. 6/2004, dei requisiti necessari ad assicurare in concreto, in relazione alle fattispecie concrete oggetto di impugnazione, la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione.

In questa ottica, la Corte ha dichiarato incostituzionali numerose disposizioni del decreto-legge n. 239/2003, per la parte nella quale non prevedono che i poteri attribuiti agli organi statali debbano essere esercitati d’intesa, a seconda dei casi, con la Conferenza Unificata Stato - Regioni e Stato-città di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, oppure direttamente con le Regioni e le Province interessate.

Particolare rilievo assume poi la definizione da parte della Corte delle caratteristiche che le intese in questione debbono assumere, con la sottolineatura del carattere necessariamente paritario delle stesse.

 

L’orientamento della Corte espresso in tale sentenza è stato costantemente ribadito in più di una pronuncia successiva concernente la disciplina procedurale per la realizzazione delle infrastrutture energetiche.

Si richiama, in proposito, la recente sentenza n. 131/2016, in cui la Corte afferma come essa in varie occasioni abbia avuto modo di pronunciarsi su norme statali che disciplinano la realizzazione di tali infrastrutture, subordinandole all’intesa con le Regioni (fra esse, lo stesso art. 1, comma 7, lettera n della legge n. 239 del 2004 su cui si è pronunciata la sentenza n. 117 del 2013), e le ha qualificate come norme recanti principi fondamentali della materia (con riguardo agli artt. 1, commi 7, lettera g, e 8, lettera b, numero 2, della medesima legge n. 239 del 2004 e all’art. 52-quinquies del D.P.R. n. 327 del 2001 il riferimento è alla sentenza n. 182 del 2013). Si tratta di norme – afferma la Corte - che ridefiniscono, «in modo unitario ed a livello nazionale, i procedimenti di localizzazione e realizzazione» delle opere, «in base all’evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative, a fronte di esigenze di carattere unitario» (sentenza n. 119 del 2014), ma anche in relazione «ai criteri indicati dall’art. 118 Cost. per la allocazione e la disciplina delle funzioni amministrative, nonché al principio di leale collaborazione (ex plurimis, sentenze n. 331 del 2010, n. 383 del 2005 e n. 6 del 2004)» (sentenza n. 182 del 2013).

Il legislatore statale ha dunque preso atto dell’interferenza, negli ambiti considerati, di competenze dello Stato e delle Regioni e ha individuato «lo strumento per risolvere i possibili conflitti nell’atto maggiormente espressivo del principio di leale collaborazione» (sentenza n. 117 del 2013).

Tale è l’intesa, costruita in modo da evitare, per quanto possibile, che la decisione sia adottata unilateralmente da una delle parti. La disciplina normativa di tutte le forme collaborative e dell’intesa stessa spetta al legislatore statale anche quando «la legge nazionale si debba limitare ai principi fondamentali, con riferimento all’energia» (sentenza n. 331 del 2010). A tal proposito la Corte ha precisato che «determinare le forme ed i modi della collaborazione, nonché le vie per superare l’eventuale stallo ingenerato dal perdurante dissenso tra le parti, caratterizza, quale principio fondamentale, l’assetto normativo vigente e le stesse opportunità di efficace conseguimento degli obiettivi prioritari, affidati dalla Costituzione alle cure del legislatore statale» (sentenza n. 331 del 2010).

I principi sopra esposti sono anche alla base della più recente sentenza n. 170/2017, con la quale la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 38, comma 7, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, nella parte in cui non prevede un adeguato coinvolgimento delle Regioni nel procedimento finalizzato all'adozione del decreto ministeriale volto a stabilire le modalità di conferimento del titolo concessorio unico per le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, nonché le modalità di esercizio delle relative attività.

 

Con particolare riferimento alle procedure di autorizzazione alla costruzione e all’esercizio degli impianti, la Corte, con la sentenza n. 6 del 2004, relativa al contenzioso costituzionale sorto tra Stato e Regioni sulle disposizioni contenute nel decreto-legge n. 7 del 2002, convertito dalla legge n. 55 del 2002, recante "Misure urgenti per garantire la sicurezza del settore elettrico nazionale", ha sciolto alcuni dubbi interpretativi relativi al rapporto fra le competenze legislative e le funzioni amministrative dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali in materia.

La disciplina statale impugnata, conosciuta come “decreto sblocca centrali bis", è stata adottata dal Governo al fine di consentire che i processi di costruzione di nuove centrali (superiori ai 300MW) e di ampliamento di quelle già esistenti, potessero avviarsi nonostante gli impedimenti frapposti dalle autorità locali competenti a rilasciare le autorizzazioni. In questo senso, proprio al fine di evitare il pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale e di garantire la necessaria copertura del fabbisogno nazionale, come recita il testo di legge, si è provveduto ad istituire un'autorizzazione unica rilasciata dal Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello sviluppo economico) in luogo delle autorizzazioni, concessioni ed atti di assenso comunque denominati, previsti dalle norme vigenti. La disciplina statale, peraltro, non ha precluso il coinvolgimento delle regioni, perché ha previsto che le opere da autorizzare fossero definite in un accordo da raggiungere in sede di Conferenza Stato-Regioni, rendendo partecipe del procedimento la singola Regione interessata. Segnatamente, dunque, la Corte, nel dichiarare infondati i ricorsi delle Regioni Umbria, Basilicata e Toscana avverso il citato decreto legge n. 7 del 2002, ha confermato il proprio indirizzo giurisprudenziale in base al quale per giudicare della legittimità costituzionale della norma impugnata bisogna non già considerare la conformità rispetto all'articolo 117 Cost., bensì valutarne la rispondenza da un lato ai criteri indicati dall'articolo 118 Cost. per la allocazione e la disciplina delle funzioni amministrative, dall'altro al principio della leale collaborazione.

 

La Corte con la sentenza n. 46 del 2021 ha precisato la definizione di “fonti energetiche rinnovabili”. Le fonti in questione si caratterizzano per il fatto che il loro utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future. Tali fonti energetiche godono – come sopra illustrato, sulla base dei principi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea - di un favor, ciò implica l’esistenza dei principi, a esse riferite, di massima diffusione e di semplificazione dei procedimenti autorizzatori.

Con riferimento alle procedure semplificate per la conclusione dei procedimenti amministrativi inerenti la costruzione e l’esercizio degli impianti alimentati a fonti rinnovabili, con la sentenza 194/2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 7 agosto 2009, n. 22, che attribuiva ai Comuni la competenza autorizzativa degli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico, secondo le procedure semplificate stabilite dalle “linee guida” regionali. La Corte ha accolto la tesi del Presidente del Consiglio dei Ministri secondo la quale la norma regionale, pur richiamando la disciplina statale, poneva una normativa contrastante con quella nazionale di settore, costituita dall’art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 e ss. mod. e int..

La Corte ha, in particolare, osservato – con riguardo alla regolamentazione dei titoli abilitativi per la costruzione ed esercizio di impianti a fonti rinnovabili – che è riconoscibile l’esercizio della legislazione di principio dello Stato in materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” (cui va ricondotta la disciplina degli insediamenti di impianti eolici e fotovoltaici: sentenze n. 282 del 2009, n. 364 del 2006), per esigenze di uniformità e di esercizio unitario di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello nazionale (sentenza n. 383 del 2005), come più in generale nelle materie di competenza concorrente (sentenza n. 119 del 2010).

L’autorizzazione unica prevista dal d.lgs. n. 387 del 2003, derogabile a favore di procedure semplificate, determina, del resto, una procedura uniforme mirata a realizzare le esigenze di tempestività e contenimento dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi inerenti alla costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, che resterebbe vanificata ove ad essa si abbinasse o sostituisse una disciplina regionale, anche se concepita nell’ambito di una diversa materia (ordinanza n. 203 del 2006).

Con la successiva sentenza n. 99 del 2012, la Corte ha affermato che «Il legislatore statale, attraverso la disciplina delle procedure per l’autorizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, ha introdotto princìpi che, per costante giurisprudenza, non tollerano eccezioni sull’intero territorio nazionale, in quanto espressione della competenza legislativa concorrente in materia di energia, di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione».

Tali princìpi, come ribadito anche nella sentenza 69/2018, sono contenuti nel d.lgs. n. 387 del 2003 e nel d.lgs. n. 28 del 2011. Nella pronuncia testé citata la Corte ha censurato la disciplina dalla Regione Veneto (art. 111, co. 2, L.R. n. 30/2016), che, nello stabilire in via generale, senza istruttoria e valutazione in concreto dei luoghi in sede procedimentale, distanze minime per la collocazione degli impianti, non previste dalla disciplina statale, non garantisce il rispetto di questi princìpi fondamentali e non permette un’adeguata tutela dei molteplici e rilevanti interessi coinvolti.

Sui procedimenti autorizzatori rispetto le fonti energetiche rinnovabili la Corte è tornata con la sentenza n. 177 del 2021. In questa sentenza, si sottolinea nello specifico come non siano ammesse differenziazioni regionali al procedimento di autorizzazione unica, essendo questo funzionale al perseguimento dei principi di semplificazione e celerità.

 

Sempre per ciò che attiene alle fonti rinnovabili, con la sentenza n. 13 del 2014 la Corte ricorda che essa ha già avuto modo di affermare che il principio di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, derivante dalla normativa europea e recepito dal legislatore nazionale, «trova attuazione nella generale utilizzabilità di tutti i terreni per l’inserimento di tali impianti, con le eccezioni, stabilite dalle Regioni, ispirate alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti nell’ambito delle materie di competenza delle Regioni stesse. Non appartiene invece alla competenza legislativa della stessa Regione la modifica, anzi il rovesciamento, del principio generale».

 

Per quanto riguarda gli interventi urgenti ed indifferibili nella materia energetica di carattere strategico nazionale, con la sentenza n. 165 del 2011 la Corte ha dichiarato che, per giurisprudenza costante, “nei casi di attrazione in sussidiarietà di funzioni relative a materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e Regioni, è necessario, per garantire il coinvolgimento delle Regioni interessate, il raggiungimento di un’intesa, in modo da contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni (ex plurimis, sentenze n. 383 del 2005 e n. 6 del 2004)”. La Corte considera dunque le intese tra Stato e Regioni su tali materie come intese forti, che necessitano, in caso di dissenso, di “idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze (ex plurimis, sentenze n. 121 del 2010, n. 24 del 2007, n. 339 del 2005). Solo nell’ipotesi di un ulteriore esito negativo di tali procedure mirate all’accordo, può essere rimessa al Governo una decisione unilaterale (sentenza n. 33 del 2011)”.

Con la sentenza n. 182 del 2013, la Corte - nell’individuare l’ambito di competenza di una norma regionale relativa alla “gestione del territorio” e alla “produzione e trasporto nazionale dell’energia” - in base al presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative, ha privilegiato le “esigenze di carattere unitario” invocate dalla legislazione nazionale, ritenute “ancora più pressanti” in zone a rischio sismico. Lo strumento attraverso il quale realizzare il coinvolgimento di entrambi gli Enti è l’intesa e quindi una disposizione regionale che violasse il principio di leale collaborazione sottraendo la scelta al confronto e prevedendo “a priori” l’incompatibilità fra la localizzazione e la realizzazione di gasdotti e oleodotti di maggiori dimensioni e le zone sismiche di prima categoria, sebbene maggiormente garantista, dovrebbe essere dichiarata incostituzionale.

 

Inoltre, per quanto attiene alla concessione di distribuzione dell’energia, la Corte ha avuto modo di rilevare, con la sentenza n. 248/2006, come viga “nell'ordinamento il principio fondamentale, espresso ora dall'art. 1, comma 2, lettera c), della legge n. 239 del 2004, secondo cui l'attività distributiva dell'energia è attribuita «in concessione».

Le concessioni di grandi derivazioni d’acqua per uso energetico sono anch’esse un servizio, fornito dietro retribuzione ai sensi della direttiva sui servizi 2006/123/CE, articolo 12 (cd. direttiva Bolkestein) e del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE), articolo 49, sulla libertà di stabilimento e articolo 56 TFUE. Tale servizio deve dunque essere concesso nel rispetto della tutela della concorrenza sulla base di una procedura di selezione tra i candidati potenziali, con garanzie di imparzialità e di trasparenza e, pubblicità. L'autorizzazione deve essere rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico accordare altri vantaggi al prestatore uscente.

La Corte Costituzionale ha così ascritto alla materia «tutela della concorrenza», di competenza legislativa esclusiva statale (ex art. 117, secondo comma, lett. e) Cost.) l'intera disciplina delle procedure di gara pubblica, comprensiva della tempistica, della definizione del contenuto dei bandi, nonché dell'onerosità delle concessioni messe a gara nel settore idroelettrico, in quanto volta a garantire l'accesso degli operatori economici al mercato secondo condizioni uniformi sul territorio nazionale (Sent. n. 28/2014).

Nella recente sentenza n. 117 del 2022, la Corte ha ribadito il suo orientamento per cui spetta comunque «allo Stato intervenire in via esclusiva sugli aspetti riconducibili agli ambiti di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e) Cost. - come per le procedure di assegnazione delle concessioni, che rientrano nella tutela della concorrenza (C. Cost. sentenza n. 1 del 2008), oltre che stabilire i principi fondamentali per la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia.

Con la sentenza in questione, la Corte ha deciso su alcune questioni di legittimità costituzionale che il Governo aveva posto, a fine 2020, con riferimento alla legge provinciale 21 ottobre 2020, numero 9, in materia di grandi derivazioni a scopo idroelettrico.

In quella sede la Corte ha rilevato come l’art. 1, comma 833, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018) abbia esteso la competenza legislativa provinciale alle modalità e alle procedure di assegnazione delle concessioni per grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico.

Contestualmente, ha precisato che tale competenza deve essere esercitata “[n]el rispetto dell’ordinamento dell’Unione europea e degli accordi internazionali, nonché dei principi fondamentali dell’ordinamento statale (..), ma in ogni caso l’art. 13 dello Statuto – come modificato dalla legge di bilancio 2018 - non autorizza in alcun modo le Province autonome a superare i limiti fissati dall’art. 4 del medesimo statuto per l’esercizio di una competenza legislativa primaria”.

Tali limiti sono il rispetto dei «principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e alle «norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica». Anche al cospetto delle autonomie speciali, permangono inalterate, almeno a livello di principio, le ragioni in favore di una regolazione uniforme degli aspetti più rilevanti della materia. Esse riguardano, certamente, il rispetto dei vincoli europei quanto all’affidamento (anche) a privati di beni e servizi pubblici, perché la tutela effettiva della concorrenza e della trasparenza rappresenta un interesse primario dell’Unione europea, come dimostrato dalla specifica legislazione comunitaria nella materia della produzione di energia elettrica.

La Corte ha dunque censurato talune norme della legge della provincia autonoma di Trento, relative alla fase della selezione delle offerte - fase che non vede affatto la partecipazione di tutte le amministrazioni, anche non provinciali, interessate, secondo la logica invece accolta dal principio del procedimento unico invece configurato dal legislatore statale (art. 12, comma 1-ter, lettera m), D.lgs. 79/1999 di recepimento della Direttiva 96/92/CE e ss. mod. e int.), e da intendersi quale norma fondamentale.


 

Previdenza complementare e integrativa

Nel vigente testo costituzionale, la previdenza sociale è attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. o), mentre la materia della previdenza complementare ed integrativa, è oggetto di competenza concorrente (art. 117, terzo comma).

 

 

 

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L’esigenza di una disciplina unitaria ed omogenea in materia di previdenza sociale, che ricomprenda anche la previdenza complementare ed integrativa, è stata evidenziata in varie occasioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in particolare nella sentenza n. 26 del 2013.

 

Giurisprudenza costituzionale

L’esigenza di una disciplina unitaria ed omogenea in materia di previdenza sociale, che ricomprenda anche la previdenza complementare ed integrativa, è stata evidenziata dalla Corte costituzionale, che negli anni ha più volte ribadito la competenza esclusiva statale sull’intera materia.

Con la sentenza n. 189 del 2011 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 della L.R. Basilicata 31/2010 - che attribuiva una qualificazione di lavoro subordinato ad un rapporto di lavoro essenzialmente precario, quale quello presso le segreterie particolari degli amministratori regionali, al fine di incrementare il trattamento pensionistico dei dipendenti - in quanto incideva “in modo chiaro nella materia della previdenza sociale che, in base a quanto disposto dall’art. 117, secondo comma, lettera o), Cost., rientra nella competenza esclusiva dello Stato”, richiamando così la necessità di dar luogo ad una disciplina unitaria della materia.

Le sentenze n. 325 del 2011 e n. 98 del 2013 sono intervenute in merito all’ambito di applicazione della disciplina previdenziale statale. Nella prima, la Corte costituzionale ha censurato l’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina previdenziale statale, relativa al personale delle pubbliche amministrazioni, ai dipendenti pubblici nominati assessori regionali, in quanto “non spetta alla legislazione regionale disporre una equiparazione del trattamento previdenziale degli assessori regionali non consiglieri con quello degli assessori che ricoprano la carica di consigliere. Ove tale equiparazione fosse effettuata con legge regionale, come nel caso in esame, non solo si avrebbe una lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, ma si determinerebbero difformità nella disciplina del trattamento previdenziale dei dipendenti pubblici da una regione all’altra”. Nella seconda delle sentenze richiamate, la Corte ha affermato che solo lo Stato può estendere l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione di disposizioni oggetto di competenza legislativa esclusiva statale, tra cui specificamente quello della previdenza sociale.

Nella sentenza n. 26 del 2013, in merito alla legittimità costituzionale degli articoli 4, comma 2, e 7, comma 5, della L.R. Sardegna 27/2011 (Riforma della legge istitutiva di un fondo per l’integrazione del trattamento di quiescenza, di previdenza e di assistenza del personale dipendente dall’Amministrazione regionale) la Corte ha evidenziato la stretta connessione tra la materia della previdenza sociale e quella della previdenza complementare e integrativa. Proprio questa connessione fa sì che la materia della previdenza complementare ed integrativa possa essere attratta in un ambito rientrante nella competenza esclusiva statale: nel caso di specie, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla competenza concorrente, la regione Sardegna aveva comunque toccato un aspetto collegato al principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, attribuito alla competenza esclusiva statale dall’ultima parte dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

In questa sede merita ricordare anche le sentenze n. 82 del 2018 e n. 138 del 2019 che hanno dichiarato costituzionalmente illegittime, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. o), Cost., le disposizioni di alcune leggi del Veneto, della Provincia autonoma di Bolzano e della Regione Trentino-Alto Adige che intervenivano in materia di previdenza sociale, ribadendo che in tale ambito vi è una competenza legislativa esclusiva statale.

In particolare, le richiamate sentenze n. 82 e 138 hanno giudicato illegittime per i suddetti motivi, rispettivamente, una disposizione della Regione Veneto che, ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza, disponeva che i dirigenti e i dipendenti della neoistituita Agenzia veneta per l’innovazione nel settore primario mantenessero l’iscrizione alla Gestione Dipendenti Pubblici dell’INPS, e alcune leggi della Provincia autonoma di Bolzano e della Regione Trentino-Alto Adige che consentivano ai dirigenti dei predetti enti territoriali di conservare, come assegno personale pensionabile, indennità di direzione e coordinamento a vario titolo percepite dopo la cessazione dei relativi incarichi.


 

Coordinamento della finanza pubblica

La materia del coordinamento della finanza pubblica rientra tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

 

 

 

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Il coordinamento della finanza pubblica costituisce una materia estremamente rilevante in quanto ad essa una copiosa giurisprudenza costituzionale ha costantemente ricondotto le disposizioni statali volte al contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali.

Sulla materia si rileva peraltro una evoluzione nella giurisprudenza della Corte costituzionale degli ultimi anni, nel senso dell’ampliamento degli ambiti di intervento del legislatore statale.

Secondo il primo orientamento della Corte, il legislatore statale può stabilire solo un limite complessivo che lasci agli enti territoriali ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenze n. 36 del 2004 e n. 417 del 2005), mentre non può fissare limiti puntuali relativi a singole voci di spesa, vincolando Regioni e Province autonome all’adozione di misure analitiche e di dettaglio, perché verrebbe a comprimere illegittimamente la loro autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia (sentenze n. 36 del 2004; n. 417 del 2005; n. 169 del 2007; n. 120 e n. 159 del 2008; n. 237 del 2009).

Più recentemente, tuttavia, anche in considerazione della situazione di eccezionale gravità del contesto economico e finanziario, la Corte ha fornito una lettura estensiva delle norme di principio nella materia del coordinamento della finanza pubblica. Pur ribadendo, in via generale, che possono essere ritenuti principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica le norme che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica – intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente, e non invece di interventi che prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento di tali obiettivi – la Corte ha, nei fatti, avallato le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli specifici per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali (sentenze nn.198 e 262 del 2012, n.236 del 2013, n.23 del 2014, nn.38 e 69 del 2016 e n.154 del 2017).

Per quanto concerne l’equilibrio dei bilanci degli enti territoriali, la recente giurisprudenza si è orientata nel senso della riaffermazione della vincolatività del principio costituzionale a fronte di norme idonee a consentirne l’elusione, soprattutto in relazione agli enti locali in situazione di dissesto o pre-dissesto.

Giurisprudenza costituzionale

Finalità e limiti del coordinamento della finanza pubblica

La Corte costituzionale, sin dalle prime sentenze rese all’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V, e poi nella fase successiva all’avvio del processo di attuazione dell’art. 119 Cost. e alla legge n. 42 del 2009 (Legge delega sul federalismo fiscale), ha costantemente ricondotto le disposizioni statali volte ad imporre vincoli ai bilanci di regioni ed enti locali alle finalità di coordinamento della finanza pubblica, riconoscendo che “il legislatore statale può legittimamente imporre alle Regioni vincoli di bilancio – anche se questi ultimi vengono indirettamente ad incidere sull’autonomia regionale di spesa – per ragioni di coordinamento finanziario volte a salvaguardare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali condizionati anche da obblighi comunitari” (sentenze n. 139 e n. 237 del 2009; n. 52 del 2010; più recentemente nelle sentenze n. 215 e n. 247 del 2021). Ciò in virtù dell’assunto in base al quale “non può dubitarsi che la finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali sia parte della finanza pubblica allargata” (sentenze n. 425 del 2004 e n. 267 del 2006), ancor più rilevante alla luce della configurazione dei vincoli posti dal diritto dell’Unione europea (sentenza n. 60 del 2013), nel quadro dell’unità economica della Repubblica (sentenze n. 78 del 2011 e nn. 28, 51, 79 e 104 del 2013).

In particolare, nella sentenza n. 414/2004 la Corte ha ritenuto che il coordinamento della finanza pubblica si configura non tanto quale “materia” in senso proprio, quanto piuttosto come “competenza funzionale”, alla stregua di altri ambiti di legislazione concorrente (es. ambiente), in quanto non individua propriamente oggetti, bensì peculiari e strategiche finalità in vista delle quali la potestà legislativa statale, trova, di volta in volta, il proprio fondamento costituzionale, a garanzia dell'equilibrio finanziario complessivo della Repubblica, pur salvaguardando il margine di autonomia dei diversi enti da cui essa è costituita.

Con la sentenza n. 169/2007 la Corte ha affermato che per qualificare una disposizione quale principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica occorre verificare la sussistenza dei requisiti di esclusiva attinenza dell'intervento legislativo statale all'equilibrio di finanza pubblica e, in secondo luogo, del rispetto dell'autonomia degli enti territoriali.

Nella sentenza n. 120/2008 la Corte ha rilevato che il necessario concorso delle Regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica (adottati con l’adesione al patto di stabilità) postula che il legislatore statale possa intervenire con il solo limite della palese arbitrarietà e della manifesta irragionevolezza delle misure adottate.

 

La lettura “finalistica” del coordinamento della finanza pubblica ed i vincoli derivanti dagli impegni comunitari hanno rappresentato i riferimenti interpretativi ai quali la Corte si è ispirata nella valutazione della legittimità dei vincoli imposti alle autonomie territoriali nell’ambito del c.d. “patto di stabilità interno” (prima) e del pareggio di bilancio (poi) [23] (sentenze nn. 4/2004, n. 17/2004, n. 36/2004 e n. 37/2004, 198/2012, 23/2014, 35/2014)

Da un lato la Corte (sentenze n. 376/2003, nn. 36 e 260/2004, n. 35/2005 e n. 417/2005) ha sottolineato il rilievo della natura e del carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento (v. anche sentenza n. 36/2004), che può comportare la previsione a livello centrale non solo delle norme fondamentali, ma altresì di poteri puntuali eventualmente necessari, affinché la finalità di coordinamento, per sua natura eccedente le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali, possa essere concretamente realizzata.

La Corte ha altresì ammesso (sentenze n. 121/2007 e n. 376/2003) che il coordinamento finanziario può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo.

 

Su questo terreno ha inciso anche la riforma costituzionale del 2012 [24] , la quale – oltre ad avere trasferito nella competenza esclusiva dello Stato l'armonizzazione dei bilanci pubblici – ha previsto all'articolo 97 che (tutte) "le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico". Inoltre, l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa, sancita dall'articolo 119 Cost., è ora soggetta al "rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci" e al concorso volto "ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea".

 

Dall’altro, tuttavia, la Corte ha individuato dei limiti all’intervento statale, non mancando di sottolineare l’illegittimità di norme statali che non possono essere considerate principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica. Ponendo un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa, questo genere di norme rappresentano, infatti, una indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 Cost. alle autonomie territoriali, in quanto la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi. Misure analitiche comprimono illegittimamente l’autonomia finanziaria ed esorbitano dalla formulazione dei soli principi fondamentali della materia (sentenze n. 159/2008, n. 169/2007, n. 157/2007, n. 121/2007, n. 36/2004, n. 390/2004, n. 417/2005 n. 449/2005, n. 88/2006 e n. 95/2007).

 

Nella giurisprudenza costituzionale più recente, alla tradizionale lettura del coordinamento della finanza pubblica quale limite di segno “negativo”, utilizzato per avallare interventi statali volti al contenimento (purché transitorio [25] ) della spesa pubblica, si è affiancato un indirizzo volto a una lettura “positiva” o “virtuosa” del precetto costituzionale, in quanto funzionale al miglioramento complessivo del sistema economico.

Nella sentenza n. 8/2013 la Corte ha giustificato una norma statale che introduceva una misura premiale (concernente il rispetto del patto di stabilità interno) a favore delle regioni che sviluppavano «adeguate politiche di crescita economica» (nella specie, attuazione dei principi di liberalizzazione delle attività economiche), rilevando che la crescita economica giova anche alla finanza pubblica.

Nella sentenza n. 272/2015 la Corte ha precisato che «la materia del coordinamento della finanza pubblica, infatti, non può essere limitata alle norme aventi lo scopo di limitare la spesa, ma comprende anche quelle aventi la funzione di “riorientare” la spesa pubblica, per una complessiva maggiore efficienza del sistema». La Corte, riconoscendo alla previsione impugnata [26] «lo scopo di incentivare una più corretta gestione della spesa pubblica, nell’interesse delle imprese ma anche del sistema complessivo pubblico-privato», riconduce la disposizione al «principio di coordinamento della finanza pubblica, sia nella parte in cui fissa i termini, sia nella parte in cui stabilisce la sanzione» (sulla stessa linea si colloca la sentenza n. 137 del 2018).

Nella sentenza n. 38/2016 la Corte ha legittimato un coordinamento finanziario di estremo dettaglio, rilevando come “la specificità delle prescrizioni, di per sé, non può escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” (nello stesso senso anche la sentenza n. 137/2018). Nel caso di specie la Corte ha attribuito natura di principio alle disposizioni statali che prevedevano l’obbligo di destinare i proventi derivanti da dismissioni patrimoniali a programmi di realizzazione e acquisto di nuovi alloggi (nonché di manutenzione di alloggi esistenti), dichiarando l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Puglia che consentiva di utilizzare una quota dei proventi da alienazione di alloggi al pagamento di imposte gravanti sugli immobili medesimi (ossia per spese di natura corrente).

Nella sentenza n. 69/2016 la Corte ha ricondotto la norma impugnata dalla Regione Veneto [27] all’ambito di competenza del coordinamento della finanza pubblica in quanto diretta al “recupero di risorse allo stato inutilizzate e [di] stimolo alla ripresa dell’economia e dell’occupazione in un momento di particolare difficoltà per il Paese”.

Infine, nella sentenza n. 154/2017 la Corte ha definito il concetto di coordinamento dinamico della finanza pubblica, specificando che le singole misure finanziarie adottate per il governo di quest’ultima sono soggette a periodico adeguamento; ne consegue che non è dato riconoscere, in generale, un affidamento tutelabile in ordine alla immutabilità delle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni (si veda anche la sentenza n. 5/2018).

 

Condizioni e limiti del concorso alla finanza pubblica

Il riferimento costituzionale per la regolazione dei rapporti finanziari tra lo Stato e gli altri enti territoriali è rappresentato dall’articolo 119 della Costituzione, che attribuisce agli enti territoriali autonomia finanziaria di entrata e di spesa, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci e dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea.

Dal complesso dei mezzi di finanziamento così istituiti discende che ciascun ente territoriale è chiamato all’autosufficienza finanziaria per l’esercizio delle funzioni ad esso affidate, mediante: tributi propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali, secondo il criterio della territorialità dell’imposta, e risorse derivanti dal fondo perequativo. Queste tre fonti di entrata devono soddisfare il fabbisogno dell’ente, secondo il principio del finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e delle funzioni fondamentali degli enti locali, idoneo ad assicurare la necessaria correlazione tra funzioni e risorse (ad esempio: sentenze n. 22/2012; n. 82/2012, n. 188/2015; n. 151/2016).

Sull’equilibrio tra risorse disponibili e finanziamento integrale delle funzioni pubbliche si ripercuotono inevitabilmente gli effetti delle manovre di finanza pubblica, definite con l'intervento legislativo dello Stato, che comportano una inevitabile compressione delle risorse a disposizione degli enti territoriali, per effetto dei tagli connessi alla revisione della spesa o al concorso alla finanza pubblica. Le numerose misure che, a vario titolo, impongono agli enti territoriali vincoli e limiti al governo dei conti pubblici hanno alimentato un frequente contenzioso costituzionale, in particolare dopo l’entrata in vigore del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), che ha costituito il primo di una serie di decreti-legge c.d. anticrisi intervenuti, a più riprese, in materia di governo dei conti pubblici, che hanno inciso sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali, determinando un accentramento, rispetto al passato, delle decisioni di finanza pubblica, a fronte dei vincoli posti dal diritto dell’Unione europea e dal c.d. Fiscal Compact.

Va rammentato che il contributo finanziario degli enti territoriali al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica è stato nel tempo assicurato sia attraverso misure di riduzione delle risorse attribuite alle amministrazioni locali (riduzione del Fondo di solidarietà comunale e del Fondo sperimentale di riequilibrio provinciale o di risorse a qualunque titolo spettanti alle regioni) sia mediante strumenti miranti ad inasprire gli obiettivi di bilancio delle diverse amministrazioni ad invarianza di risorse loro attribuite (patto di stabilità interno, poi pareggio di bilancio). A partire dal D.L. n. 95/2012 per le regioni e dal D.L. n. 66/2014 per gli enti locali, il concorso alla finanza pubblica degli enti territoriali è stato assicurato anche mediante la richiesta di significativi risparmi di spesa corrente.

L’obbligo di partecipazione delle Regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica – che ha peraltro assunto valenza costituzionale a seguito dell’approvazione della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 volta ad introdurre il principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale – postula che il legislatore statale sia legittimato ad imporre agli enti territoriali vincoli alle politiche di bilancio – anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti – per ragioni di coordinamento finanziario, volte a salvaguardare, anche attraverso il contenimento della spesa corrente, l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (tra le ultime, sentenze n. 182/2011, n. 236/2013, n. 36 e n. 88 del 2014, n. 218/2015, n. 65 e n. 1 del 2016), anche alla luce del parametro dell’unità economica della Repubblica (sentenze n. 78/2011; n. 28, n. 51, n. 79 e n. 104 del 2013).

La Corte ha, inoltre, più volte precisato che le norme incidenti sull’assetto finanziario degli enti territoriali non possono essere valutate in modo “atomistico”, ma solo nel contesto della manovra complessiva, che può comprendere norme aventi effetti di segno opposto sulla finanza delle regioni e degli enti locali (ex multis, sentenze n. 82/2015, n. 26/2014, n. 27/2010, n. 155/2006, n. 431/2004).

Sin dalle prime decisioni rese all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, la Corte ha ricondotto le disposizioni dettate dal legislatore statale in vista del contenimento della spesa degli enti territoriali alle finalità di coordinamento della finanza pubblica, nel solco di un consolidato orientamento che sottolinea la necessità di armonizzare i poteri di spesa e la potestà impositiva di regioni ed enti locali con le imprescindibili esigenze di coordinamento della finanza pubblica, anche al prezzo di comprimere l’autonomia finanziaria degli enti territoriali (sotto diversi profili, sentenze nn. 296, 297 e 311 del 2003; n. 4, n. 17 e n. 37 del 2004; n. 162/2007; n. 102/2008; n. 289/2008).

Tale interpretazione finalistica del coordinamento della finanza pubblica si è consolidata a seguito dell’approvazione della legge costituzionale n. 1/2012 sul pareggio di bilancio, sia alla luce del nuovo testo dell’articolo 81 Cost. da essa risultante, che per effetto del comma premesso dalla legge medesima all’art. 97 Cost., il quale richiama tutte le pubbliche amministrazioni, incluse le autonomie speciali (sulle autonomie speciali v. sentenze n. 46/2015, n. 407/2016, n. 62/2017 e n. 103/2018), in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico (sentenze n. 60/2013 e n. 88 e 188 del 2014).

Per costante giurisprudenza costituzionale, l’imposizione di risparmi di spesa rientrerebbe, dunque, a pieno titolo nell’esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica, attribuita alla competenza statale dall’art. 117, terzo comma, Cost. Nel corso del tempo è stata così accertata la conformità a Costituzione di disposizioni contenute prevalentemente in leggi finanziarie o di stabilità e nei c.d. decreti-legge anticrisi, incidenti anche in modo penetrante sulle autonomie. Tali provvedimenti sono stati spesso ritenuti necessario riflesso del coordinamento finanziario alla stregua dei vincoli posti dal diritto dell’Unione europea, legittimando forti limitazioni di spesa degli enti territoriali (ex plurimis, sentenze n. 69 del 2011; n. 139 del 2012; n. 88 del 2014; n. 143 del 2016).

La giurisprudenza costituzionale ha però contestualmente precisato, sin dalle prime sentenze in materia, che il legislatore statale può stabilire solo un limite complessivo di riduzione che lasci agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenze n. 36/2004 e n. 417/2005), ma non può vincolare le autonome territoriali all’adozione di misure analitiche e di dettaglio, perché verrebbe a comprimere illegittimamente la loro autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia (sentenze, tra le ultime, n. 237/2009, n. 182/2011, n. 139/2012, n. 217/2012, n. 22/2014, n. 43/2016) [28] ,

 

Un significativo aspetto che emerge dalla pronunce della Corte è che l’incidenza dell’intervento statale sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali non è priva di limiti, nel senso che lo Stato non può ridimensionare gli stanziamenti finanziari al punto tale da impedire lo svolgimento delle funzioni amministrative dell’ente pubblico territoriale, in violazione dei canoni della ragionevolezza e del principio del buon andamento di cui all'articolo 97 Cost..

Secondo la giurisprudenza costituzionale, il legislatore statale, in nome del principio del coordinamento della finanza pubblica, può intervenire sulle spese e sui saldi di bilancio degli enti territoriali, con il limite tuttavia della palese arbitrarietà e della manifesta irragionevolezza della variazione, che deriverebbe dall’impossibilità, per gli enti territoriali, di esercitare le funzioni fondamentali (sentenze n. 10/2016, n. 188/2015 e n. 241/2012).

La Corte riferendosi alle “esigenze complessive” e valutando il rapporto tra “complessivi bisogni regionali di spesa ed insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte”, richiede che non vi sia grave alterazione tra queste poste, a seguito dell'intervento statale. Tale principio ha trovato espresso riconoscimento in una costante giurisprudenza della Corte costituzionale sviluppatasi nell’ambito dei rapporti tra Stato e Regioni nonché nei confronti degli enti locali (sentenze 138/1999, 241/2012, 188/2015). Il criterio maggiormente utilizzato dalla Consulta nel corso degli anni al fine di vagliare il superamento di detto limite da parte del potere legislativo è stato quello della “adeguata o congrua corrispondenza tra risorse e funzioni pubbliche.

In talune delle pronunce sopradette tale tema ha avuto specifico rilievo con riguardo alle province, evidenziandosi come i progressivi limiti imposti all’indirizzo di spesa degli enti territoriali, al fine di fronteggiare gli oneri finanziari imposti in sede europea, stesse rendendo sempre più difficile assicurare il necessario parallelismo tra funzioni e risorse, come emerge dalle più recenti tendenze della giurisprudenza costituzionale.

Ciò è apparso con particolare evidenzia in relazione all’importante processo di riorganizzazione che a seguito della c.d. “legge Del Rio” n. 56 del 2014 stava investendo le province e le città metropolitane. In particolare, con la sentenza n. 10 del 2016 la Corte costituzionale, intervenendo nuovamente a breve distanza dalla sentenza n. 188 del 2015 in materia di tagli di bilancio agli enti locali, in riferimento ad alcuni interventi restrittivi del legislatore regionale, ha ribadito il principio fondamentale in base al quale l’attribuzione di funzioni agli enti locali deve essere necessariamente accompagnata da adeguate risorse finanziarie per l’esercizio delle stesse. La pronuncia assume un’importanza centrale nell’ambito dell’autonomia finanziaria degli enti locali sub-regionali, soprattutto in riferimento all’adeguatezza delle risorse assegnate agli stessi per garantire servizi al cittadino.

Va sottolineato, peraltro, come in taluni casi le norme che hanno inciso sull’autonomia organizzativa e finanziaria delle Province hanno resistito al vaglio costituzionale anche in considerazione della programmata soppressione delle Province e previa cancellazione dalla Carta costituzionale come enti costitutivi della Repubblica. In tal senso si è infatti espressa la sentenza n. 143/2016, laddove alcune disposizioni di progressiva riduzione e razionalizzazione delle spese delle Province previste dalla legge di bilancio 2015 sono state ritenute non censurabili, tenuto conto della programmata loro soppressione. Soppressione che, com’è noto, non ha poi avuto luogo in esito alla consultazione referendaria, riconfermandosi pertanto – a contrario – quanto affermato dalle pronunce prima sopracitate.

In due recenti sentenze del 2017, la Corte ha tuttavia precisato – in riferimento alle risorse destinate alle prestazioni sanitarie tese a garantire i LEA – come l’inadeguatezza delle risorse rispetto ai servizi non possa soltanto essere affermata dagli enti (nel caso le regioni), ma debba essere anche essere dimostrata. Con la sentenza n. 169/2017 viene infatti affermato che in caso di lamentata compressione dell’erogazione di prestazioni sanitarie indefettibili, l’onere di dimostrare la lesione di precetti costituzionali fa capo alle autonomie territoriali, che devono fornire dati finanziari che consentano “di dimostrare la ricaduta lesiva della norma impugnata sulla spesa costituzionalmente necessaria”. Analogamente la successiva sentenza n. 192/2017 ha ritenuto infondate le censure regionali sull’insufficienza del concorso statale alla spesa sanitaria, in quanto non è stata provata adeguatamente l’oggettiva impossibilità di esercitare le funzioni regionali in materia, né risulterebbe indicato “il diverso importo allo scopo necessario”, limitandosi le censure a rinviare a precedenti atti normativi.

In termini analoghi la Corte si era peraltro già espressa nella sentenza n. 206 del 2016 – dichiarando la norma immune da censure – in relazione alla riduzione di risorse provinciali e trasferimento delle stesse all’entrata del bilancio dello Stato disposta dalla legge di stabilità 2015, osservando che la lamentata lesione all’esercizio delle funzioni dell’ente deve essere corredata del necessario onere probatorio. Tale pronuncia ha inoltre precisato, confermando numerose precedenti pronunce (ex multis, n. 26/2014 e 82/2015 già in precedenza citate), che le norme incidenti sulla finanza degli enti territoriali non possono essere valutate in modo “atomistico” ma solo nel contesto della manovra complessiva, che può comprendere anche norme aventi segno opposto sulla finanza degli enti – come poi verificatosi, osserva la Corte, con il successivo decreto-legge n. 78/2015 e con la successiva legge di stabilità 2016.

Un secondo aspetto che viene ad evidenziarsi concerne la natura permanente della riduzione di spesa. Secondo il costante indirizzo della Corte, norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla condizione, tra l’altro, che:

§  si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente (ex multis, tra le più recenti, sentenze n. 65/2016, n. 218 e n. 189 del 2015; nello stesso senso, sentenze n. 44/2014, n. 236 e n. 229 del 2013, n. 217, n. 193 e n. 148 del 2012, n. 182/2011);

§  non prevedano strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi.

Sulla questione del concorso, in particolare, delle regioni al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, è intervenuto più volte, su istanza delle regioni interessate, il giudice costituzionale, i cui ripetuti pronunciamenti delineano un quadro in cui, nell'affermarsi la legittimità della richiesta da parte dello Stato del concorso regionale, vengono anche delineati alcuni limiti da osservarsi in ordine allo stesso.

Il criterio generale risultante dalle pronunce è quello secondo cui le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, a condizione che si limitino a prevedere misure con carattere transitorio.

In particolare, con le sentenze n. 43 e n. 64 del 2016, si è espressamente confermata la legittimità di interventi statali di contenimento della spesa pubblica regionale, purché l'arco temporale di operatività delle misure fosse definito ovvero, sebbene non espresso, esso potesse essere considerato limitato nell'arco di un triennio, corrispondente all'orizzonte temporale usuale delle manovre di bilancio. La stessa considerazione ha portato alla declaratoria di legittimità (sentenza n. 141 del 2016) di misure di contenimento di spese che si limitano ad estendere di una annualità il confine temporale di operatività della misura, mantenendosi in tal modo il rispetto del canone della transitorietà.

Nel contempo, tuttavia, in tale sentenza la Corte ha espressamente evidenziato – in termini di monito al legislatore – come il ricorso alla tecnica normativa dell'estensione dell'ambito temporale di precedenti manovre, mediante aggiunta di un'ulteriore annualità a quelle originariamente previste, finisca per porsi, se indefinitamente ripetuto, in contrasto con il canone della transitorietà, canone al quale il ricorso a tale tecnica normativa potrebbe prestarsi ad un ossequio solo formale. In termini analoghi si è espressa la successiva sentenza n. 154 del 2017, che nel ritenere legittima l'estensione annuale di un contributo regionale, ha rinnovato l'invito al legislatore ad evitare iniziative le quali, anziché ridefinire, secondo le ordinarie scansioni temporali dei cicli di bilancio, il quadro delle relazioni finanziarie tra lo Stato e regioni (ed enti locali), alla luce nuove esigenze di finanza pubblica, "si limitino ad estendere, di volta in volta, l'ambito temporale di precedenti manovre".

Il mancato rispetto, in una più recente norma, costituita dall'art. 1, comma 527, della legge n. 232 del 2016 (legge di bilancio 2017), del sopradetto limite alla transitorietà ha portato da ultimo, con la sentenza n. 103 del 2018, alla declaratoria di incostituzionalità della norma in questione, con la quale si introduce una terza proroga (al 2020) di un contributo di 750 milioni di euro imposto alle Regioni ordinarie dal decreto-legge n. 66 del 2014 (art. 46, comma 6, primo periodo) in tal modo raddoppiandosi i confini temporali della misura finanziaria originaria, limitati al triennio dal 2015 al 2017. La Corte ha affermato a tal fine come "il raddoppio della durata del sacrificio imposto, da tre a sei anni, risulti in frontale contrasto con il principio di transitorietà." Infatti, ribadisce la sentenza, "norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla condizione, tra l'altro, che si limitino a prevedere un contenimento complessivo della spesa corrente dal carattere transitorio". In sostanza, fermo restando il potere del legislatore statale di programmare risparmi anche di lungo periodo relativi al complesso della spesa pubblica aggregata, la Corte ritiene che venga sottratta al trasparente confronto parlamentare la valutazione delle ricadute di lungo periodo di una manovra economica, tutte le volte in cui la relativa durata venga raddoppiata, attraverso la tecnica normativa dell'aggiunta progressiva di ulteriori annualità a quelle inizialmente previste.

 

Condizioni e limiti della spending review

Gli obblighi assunti in sede europea e la prolungata crisi economica hanno reso necessaria, nell’ultimo decennio, un’azione complessiva di revisione e riduzione della spesa pubblica (spending review) mirata ad eliminare degli sprechi ed a rendere più efficiente l’allocazione delle risorse verso obiettivi primari.

Questa copiosa produzione di norme statali volte a ridurre le spese pubbliche, coinvolgendo anche il livello delle autonomie locali, ha generato un notevole contenzioso costituzionale tra Stato e regioni.

Nel corso degli ultimi anni la giurisprudenza della Corte Costituzionale si è consolidata su un indirizzo interpretativo volto a ritenere, a determinate condizioni, che politiche statali di riduzione delle spese pubbliche possono legittimamente incidere anche sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali (si vedano ad esempio le sentenze n. n. 376/2003, n. 36/2014, n. 88/2014, n. 1/2016, n. 65/2016 e, da ultimo, n. 129/2016 .

La Corte costituzionale ha tuttavia precisato che tali interventi sono da ritenersi legittimi solo se vengono rispettati alcuni limiti e condizioni.

In primo luogo, occorre che gli interventi limitativi dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali devono garantire comunque il coinvolgimento degli enti, nel rispetto del principio di leale collaborazione. In particolare, la sentenza n. 129/2016 ha dichiarato illegittimo l’art. 16, comma 6, del D.L. n. 95/2012 (uno dei decreti di spending review del Governo Monti) nella parte in cui lo Stato prevede la riduzione delle risorse per gli enti locali senza alcuna forma di coinvolgimento di tali enti. In particolare è stato ritenuto illegittimo il mancato coinvolgimento della Conferenza Stato-Città e autonomie locali nella fase di determinazione delle riduzioni di spesa imposte a ciascun comune, seppur limitatamente all’anno 2013, unitamente alla mancanza di un termine per l’adozione del decreto ministeriale. Vero è – ha osservato la Corte – che i procedimenti di collaborazione tra enti debbono sempre essere corredati da strumenti di chiusura che consentano allo Stato di addivenire alla determinazione delle riduzioni dei trasferimenti, anche eventualmente sulla base di una sua decisione unilaterale, al fine di assicurare che l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica sia raggiunto pur nella inerzia degli enti territoriali; ma tale condizione non può giustificare l’esclusione sin dall’inizio di ogni forma di coinvolgimento degli enti interessati.

In secondo luogo, occorre che gli interventi limitativi dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali non siano tali da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni degli enti (sentenze n. 10/2016, n. 188/2015, n. 241/2012. e n. 87/2018) La Corte costituzionale, nel confermare sulla base della propria pregressa giurisprudenza che le politiche statali di riduzione delle spese pubbliche possano incidere anche sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali, precisa al contempo come tale incidenza debba in linea di massima essere mitigata attraverso la garanzia del coinvolgimento degli enti interessati nella fase di distribuzione del sacrificio e nella decisione sulle relative dimensioni quantitative, e non può essere tale da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni agli stessi affidate.

 

Inoltre, le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali devono, per qualificarsi come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, lasciare aperto uno spazio per l’esercizio dell’autonomia regionale, evitando di prevedere in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento degli obiettivi.

In altri termini, i vincoli imposti con tali norme possono «considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un “limite complessivo [di risparmio], che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”(sentenza n. 182/2011; v. anche sentenze nn. 417/2005, 449/2005, 88/2006, 289/2008; 169/2007, 297/2009, 43/2016 e 182/2011).

 

Nella sentenza n. 43/2016 la Corte, ad esempio, afferma che il legislatore statale, con una «disciplina di principio», può legittimamente «imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti» Questi vincoli, affinché possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali, devono riguardare «l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo “in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale” – la crescita della spesa corrente.

Nella sentenza n. 182/2011 la Corte ha giudicato rispettoso dell’autonomia finanziaria regionale l’art. 6, comma 14, del D.L. n. 78 del 2010, perché la disposizione, nel porre un limite alla spesa per autovetture valevole rigidamente nei confronti delle amministrazioni statali, ne aveva previsto l’applicabilità alle Regioni esclusivamente a titolo di principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica. Per effetto di ciò continuava a spettare alle Regioni, nel vasto ambito delle voci di spesa incise dal D.L. n. 78/2010, scegliere se e in quale misura colpire proprio quelle analiticamente indicate dall’art. 6, comma 14, sempre che, all’esito di questa operazione, ne risultasse un risparmio complessivo non inferiore a quello conseguente all’azione congiunta delle varie prescrizioni statali.

Nella sentenza n. 38/2016 la Corte ha legittimato un coordinamento finanziario di estremo dettaglio, rilevando come “la specificità delle prescrizioni, di per sé, non può escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione”.

 

Qualora invece non venga lasciato alla Regione alcun margine di sviluppo dell’analitico precetto statale e, quindi, non sia riconosciuta la facoltà per l’ente di adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente, la norma statale non può essere ritenuta espressiva di un principio di coordinamento della finanza pubblica (sentenze nn. 139/2012 e 43/2016).

 

Coerentemente con tale indirizzo, nella sentenza n. 87/2018 la Corte, pur ammettendo che “è vero che talvolta ha dato una lettura estensiva dei principi di coordinamento finanziario”, come nel caso, ad esempio, “delle misure di razionalizzazione, anche mediante soppressione o accorpamento, dei enti o agenzie (sentenza n.236/2013) o degli interventi per la riduzione delle Comunità montane (sentenza n.237/2009)”, ha osservato che si trattava di misure “che non stabilivano direttamente il mezzo attraverso cui conseguire il risultato, limitandosi a fissare soglie ed obiettivi di riduzione dei costi, nonché a prevedere indicatori in base a cui adottare interventi di riordino”.

Diversamente, nella sentenza n. 43/2016 (già citata), la Corte ha ritenuto illegittima la norma del decreto-legge 66/2014 che vincolava, a decorrere dal primo maggio 2014, le amministrazioni pubbliche (tra cui la Regione Veneto, ricorrente), a contenere la spesa per le autovetture e i buoni taxi entro il 30 per cento della spesa sostenuta per tali voci nell’anno 2011. Tale norma è stata ritenuta in contrasto con gli articoli 117 e 119 della Costituzione “perché non lascia alla Regione alcun margine di sviluppo dell’analitico precetto che è stato formulato”, nel senso che non viene riconosciuta “la facoltà per la Regione di adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente”.

Ancora, nella sentenza n. 33/2019, la Corte ha dischiarato l’illegittimità costituzionale del dell’art. 14, comma 28, del decreto-legge n.78 del 2010, che impone ai comuni fino a 5.000 abitanti l’obbligo di gestione associata dei servizi connessi alle funzioni fondamentali, osservando che la previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali “sconta in ogni caso un’eccessiva rigidità”, in quanto “non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina”.

 

L’equilibrio di bilancio

Il terreno di confronto tra autonomie territoriali e Stato sui profili di spesa è stato dapprima il "Patto di stabilità interno" e a decorrere dall'anno 2015 per le regioni a statuto ordinario, e dall'anno 2016 per gli enti locali, il "pareggio di bilancio", ovvero lo strumento attraverso cui lo Stato chiama – nelle leggi di bilancio annuali (ancor prima nelle leggi finanziarie e di stabilità) e non solo – il sistema delle territorialità a concorrere al rispetto degli obblighi di carattere finanziario assunti in sede comunitaria.

La nuova regola contabile dell’equilibrio di bilancio per regioni ed enti locali è stata introdotta dalla legge n. 243 del 2012 che agli articoli da 9 a 12 ha dettato le disposizioni per assicurare l'equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali e il concorso dei medesimi alla sostenibilità del debito pubblico, dando così attuazione, con riferimento agli enti territoriali, a quanto previsto dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio.

In particolare, il nuovo articolo 97, comma 1, della Costituzione stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”.

L’obbligo del concorso al conseguimento dei saldi e degli obiettivi di finanza pubblica vale anche per le autonomie speciali.

 

La Corte costituzionale si è più volte espressa sulla nuova disciplina, con riferimento principalmente ad impugnative relative alla legge rinforzata n. 243 del 2012. Impugnative che, va premesso, con la sentenza della Corte n. 88 del 2014 sono state ritenute ammissibili in ragione della circostanza che la legge suddetta, pur essendo da considerarsi rinforzata in ragione della particolare maggioranza richiesta per la sua approvazione, non differisce dal rango di legge ordinaria attuativa della legge costituzionale.

Nella sentenza la Corte si è espressa diffusamente sulla disciplina del pareggio, rilevando in premessa come il nuovo sistema di finanza pubblica disegnato dalla legge Cost. n. 1 del 2012 abbia una sua interna coerenza ed una sua completezza. Si ritiene, inoltre, che l’insieme delle disposizioni da essa recate renda la nuova disciplina non solo espressione della competenza esclusiva statale di armonizzazione dei bilanci pubblici, ma altresì dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica connessi con la salvaguardia degli equilibri di bilancio.

Tale riforma impone pertanto vincoli non solo allo Stato ma anche a tutte le amministrazioni pubbliche che concorrono al bilancio consolidato, nel rispetto degli impegni presi in sede europea, e quindi poggia anche sui principi costituzionali di solidarietà ed uguaglianza. Unitamente a quelli di unitarietà dell’ordinamento, i principi in questione, da sempre sottesi alla disciplina della finanza pubblica, si sono con la legge 243 rafforzati e, su questo assunto, la pronuncia ha ritenuto non trovassero riscontro alcune censure avanzate circa la lesione dell’autonomia finanziaria e del principio di leale collaborazione, poiché i limiti all’indebitamento ( di cui in particolare all’articolo 10 della legge) trovano applicazione nei confronti di tutte le autonomie, ivi comprese le speciali, senza necessità di concertazione.

Nondimeno, in tale quadro la Corte ha rilevato come il rinvio ad una fonte secondaria contenuto nel suddetto articolo (vale a dire l’emanazione di un DPCM previa intesa con la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica) può dirsi conforme a Costituzione soltanto se ad essa si demanda la disciplina di aspetti meramente “tecnici”, motivo per il quale la norma della legge di attuazione (art.10) è incostituzionale nella parte in cui non prevede che i criteri e le modalità per l’attuazione abbiano esclusivamente natura “tecnica”.

Con riferimento poi ad una altra disposizione della legge (articolo 12, comma 3) la Corte ha dichiarato violato il principio di leale collaborazione nella parte in cui si prevede che, nelle fasi favorevoli del ciclo economico, un D.P.C.M. determini il contributo di Regioni e di enti locali al Fondo di ammortamento per i titoli di Stato, sentita la Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica. Secondo la Corte, «considerate l’entità del sacrificio imposto e la delicatezza del compito cui la Conferenza è chiamata», l’adozione del decreto dovrebbe fare seguito ad un’intesa e non essere meramente successiva all’ottenimento di un parere non vincolante. A dover essere coinvolta è, inoltre, la Conferenza unificata e non la Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica, dal momento che occorre «garantire a tutti gli enti territoriali la possibilità di collaborare alla fase decisionale».

 

Nella stessa sentenza, la Corte ha affermato che la competenza esclusiva dello Stato introdotta dalla legge costituzionale, vale a dire quella dell’armonizzazione dei bilanci pubblici, (che sino alla modifica operata con la legge medesima si presentava unitamente con quella del coordinamento della finanza pubblica), non può essere interpretata così estensivamente da coprire l’intero ambito materiale regolato dalla legge n. 243 del 2012: ad esempio la disciplina dell’indebitamento delle autonomie territoriali, viene dalla Corte da sempre ricondotta al coordinamento della finanza pubblica.

 

Sulle disposizioni della legge di attuazione del principio del pareggio di bilancio concernenti gli enti territoriali (vale a dire gli articol1 da 9 a 12), dopo la sentenza n.88/2014 ora richiamata, la Corte è poi più volte nuovamente intervenuta, in primo luogo con la sentenza n. 235 del 2017. Questa interviene sulla nuova formulazione dell’articolo 11 dettata dalla legge n.164 del 2016, con la quale è stata eliminata l’originaria stesura di tale articolo, nella quale si prevedeva, al fine dell’eventuale concorso dello Stato al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni nelle fasi avverse del ciclo economico, l’istituzione, di un apposito Fondo straordinario e ne disciplinava le modalità della sua alimentazione. La nuova formulazione prevede, invece, che il concorso statale avvenga «[…] secondo modalità definite con leggi dello Stato, nel rispetto dei principi stabiliti dalla presente legge». Tale nuova formulazione è stata però ritenuta illegittima dal giudice costituzionale, in quanto elusiva dell’obbligo, che l’articolo 5 della legge costituzionale n.1 del 2012 sul pareggio di bilancio ha posto a carico della legge 243, di disporre espressamente in questa le modalità attraverso cui il concorso dello Stato dovrà operare. L’illegittimità deriva dalla circostanza che la vigente formulazione non individua alcuna modalità attraverso cui lo Stato concorre al finanziamento, in quanto si limita a demandare a una futura legge ordinaria ciò che essa stessa avrebbe dovuto disciplinare, degradando così la fonte normativa della disciplina – relativa alle modalità del concorso statale al finanziamento dei livelli essenziali - dal rango della legge rinforzata a quello della legge ordinaria, con ciò eludendosi la riserva di legge rinforzata disposta dalla legge costituzionale sopradetta. La declaratoria di illegittimità comporta al momento, non essendo finora intervenute nuove disposizioni sull’articolo 11, la mancanza di una disciplina sul concorso in questione.

La Corte è poi intervenuta con la sentenza n. 252/2017 sull’articolo 10 della legge 243, relativo al ricorso all’indebitamento da parte delle regioni e degli enti locali con particolare riguardo al comma 5 dello stesso, che affida ad un D.P.C.M., da adottare d’intesa con la Conferenza unificata, la disciplina dei “criteri e modalità di attuazione” dell’articolo, “ivi incluse le modalità attuative del potere sostitutivo dello Stato,” in caso di inerzia da parte di regioni e province autonome. In proposito il giudice costituzionale ha nuovamente censurato (come già statuito con la precedente sentenza n.88 del 2014 sul testo dell’articolo previgente alle modifiche apportate con la legge n.164/2016 prima citata) la mancata previsione che i criteri e le modalità di attuazione debbano avere carattere natura esclusivamente “tecnica”, dovendo rimanere precluso ogni esercizio di un potere discrezionale da parte del D.P.C.M.. è stata egualmente censurata la parte del comma 5 in questione che affida a tale atto anche le ipotesi in cui può essere esercitato il potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni o delle Province autonome e le modalità di esercizio dello stesso, in quanto tali ipotesi debbono essere previste da un atto fornito di valore di legge.

La disciplina del pareggio di bilancio è stata interessata da interventi della Corte anche con riferimento ad alcuni degli istituti contabili mediante cui il pareggio medesimo si è declinato nella disciplina di formazione e gestione delle regole di bilancio degli enti territoriali, attraverso il consistente corpus normativo costituito dalla armonizzazione contabile introdotta – a modifica del T.U. degli enti locali – dal D. Lgs. n.118 del 2011, come poi consistentemente modificato dal D. Lgs. n. 126 del 2014.

Ciò è avvenuto, in particolare, con riferimento agli istituti dell’avanzo di amministrazione e del fondo pluriennale vincolato, in relazione ai quali il giudice costituzionale è intervenuto con decisioni che sembrano orientate a ridurre la vincolatività degli stessi sulla gestione di bilancio degli enti territoriali ma, allo stesso tempo, a riaffermare la vincolatività del principio costituzionale a fronte di norme idonee a consentirne l’elusione.

La sentenza n. 247/2017 interviene sull’avanzo di amministrazione, il quale, com’è noto, costituisce il saldo della gestione annuale di bilancio dell’ente, il cui utilizzo – in caso di saldo positivo (avanzo) – ovvero il ripiano – in caso di saldo negativo (disavanzo) – è regolato dalle regole contabili, in modo da disciplinare la natura del risultato in questione come elemento di collegamento intertemporale tra i bilanci degli esercizi successivi. In particolare la sentenza fa riferimento alla circostanza che il vincolo del pareggio (art. 9 della L. n. 243/2012), esclude l’avanzo di amministrazione dalle entrate computabili ai fini del conseguimento dell’equilibrio di bilancio, atteso che tale risultato deriva da risorse non imputabili alla competenza economica dell’esercizio: ciò non consente quindi agli enti di utilizzare nell’esercizio corrente la quota di avanzo conseguita nell’anno precedente. Sul punto la Consulta ha dichiarato la legittimità delle norme sopradette, fornendone però nel contempo una interpretazione “costituzionalmente orientata”. Nel riconoscere che l’esclusione dell’avanzo in questione dal saldo soggetto al pareggio costituirebbe, ove fosse permanente, una immotivata penalizzazione finanziaria degli enti virtuosi, la Corte afferma che tale esclusione risulta giustificabile unicamente in via transitoria, vale a dire con riferimento al bilancio di previsione. Una volta invece che l’avanzo risulti consolidato, vale a dire accertato in sede di rendiconto, lo stesso può essere iscritto in bilancio tra le entrate del nuovo esercizio in corso, in quanto – precisa la sentenza – il risultato di amministrazione è parte integrante del concetto di equilibrio di bilancio.

Sulla stessa linea, con la sentenza n. 101/2018 la Corte è giunta ad una declaratoria di incostituzionalità, relativa all’articolo 1, comma 466, della legge di bilancio 2017 (legge n. 232 del 2016), nella parte in cui questo stabilisce, con riferimento al fondo pluriennale vincolato di entrata e di spesa, che (a partire dal 2020), ai fini del conseguimento dell’equilibrio di bilancio, le spese vincolate provenienti dai precedenti esercizi debbano trovare finanziamento nelle sole entrate di competenza. La norma in questione stabilisce, in particolare, che a decorrere dal 2020, tra le entrate e le spese finali è incluso tale fondo, “finanziato dalle entrate finali”: precisazione quest’ultima che, secondo la Corte, comporta che le somme vincolate nei precedenti esercizi, siano esse provenienti dall’avanzo di amministrazione o dagli altri cespiti soggetti a utilizzazione pluriennale (come nel caso di quelli iscritti nel fondo in esame), “debbano trovare finanziamento nelle sole entrate di competenza”.

Precisa ancora la sentenza che ove alcune norme della legge 243 del 2012 precludessero l’utilizzazione, negli esercizi successivi, dell’avanzo di amministrazione o dei fondi destinati a spese pluriennali (come quello previsto dal comma 466 in questione), il pareggio verrebbe a configurarsi come “attivo strutturale inertizzato” cioè inutilizzabile per destinazioni già programmate e, come tale, costituzionalmente non conforme agli articoli 81 e 97 della Costituzione. La sentenza in esame appare confermare ed estendere ad una nuova fattispecie quanto già affermato, pur senza pervenire a declaratoria di illegittimità, con la precedente pronuncia n. 247/2017, ribadendo come il vincolo dell’equilibrio di bilancio di competenza non può rendere inutilizzabile le risorse destinate a finanziare investimenti pluriennali la cui copertura è ascrivibile a precedenti esercizi. Circostanza questa ravvisabile sia nell’avanzo di amministrazione, entro prefissate condizioni, sia nel fondo pluriennale vincolato, strumento finanziario di gestione degli investimenti che arrivano a pagamento in annualità successive all’anno di attivazione.

Varie sentenze della Corte sono state volte a riaffermare la vincolatività del principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio a fronte di norme idonee a consentirne l’elusione, soprattutto in relazione agli enti locali in situazione di dissesto o pre-dissesto.

 La sentenza n. 107/2016 rileva l'incompatibilità con la Costituzione, ed in particolare con il principio dell'equilibrio di bilancio, delle misure legislative che tendono a perpetuare nel tempo il deficit strutturale attraverso plurimi rinvii, così da impedire un effettivo risanamento dell'ente territoriale.

Con la sentenza n. 18/2019 la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, che consentiva agli enti locali in predissesto di riformulare o rimodulare i piani di riequilibrio finanziario pluriennale, con restituzione delle anticipazioni di liquidità su un arco temporale di trent’anni.

La sentenza n. 4/2020 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di disposizioni statali (art. 2, co. 6, del DL n. 78/2015 e art. 1, co. 814, della legge n. 205/2017) che hanno consentito agli enti destinatari delle anticipazioni di liquidità, finalizzate ai pagamenti dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni, di utilizzare la relativa quota accantonata nel risultato di amministrazione.

Da ultimo, nella sentenza n. 115/2020 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, co. 2-ter, del DL n. 34/2019, in quanto nel prevedere che la riproposizione del piano di riequilibrio deve contenere il ricalcolo complessivo del disavanzo (oggetto del piano modificato), “ferma restando la disciplina prevista per gli altri disavanzi”, introduce un “meccanismo di manipolazione del deficit che consente [..] di sottostimare, attraverso la strumentale tenuta di più disavanzi, l'accantonamento annuale finalizzato al risanamento e, conseguentemente, di peggiorare, anziché migliorare, nel tempo del preteso riequilibrio, il risultato di amministrazione”.

 

Il contenimento dei costi della politica e degli apparati amministrativi

Nel 2021 la Corte, con una serie di pronunce, ha stabilito una serie di principi, nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica, specificamente finalizzati al contenimento dei costi della politica e degli apparati amministrativi.

La sentenza n. 44 del 2021 ha stabilito che costituisce principio fondamentale in materia la previsione relativa alla rideterminazione, secondo il metodo di calcolo contributivo e in via permanente, degli importi dei vitalizi spettanti agli ex titolari di cariche regionali; rideterminazione i cui criteri e parametri erano stati demandati a un’intesa da sancire in sede di Conferenza Stato-Regioni, a fini di armonizzazione delle normative regionali. Per tale ragione, il legislatore regionale – nel caso di specie, quello siciliano – non può derogare, in particolare, al carattere strutturale e senza limiti temporali della suddetta rideterminazione.

Coerentemente con l’orientamento giurisprudenziale costante in base al quale lo Stato ha la possibilità di agire sulla spesa con norme puntuali sulle proprie amministrazioni e con norme di principio sulle amministrazioni regionali, si pone la sentenza n. 145 del 2021.

Con la sentenza n. 171 del 2021, invece, la Corte ha stabilito che quanto sancito con il DL n. 34 del 2019, ossia il principio per cui le nuove assunzioni devono esser legate alla sostenibilità finanziaria e non allo storico dell’organico, è un principio di coordinamento della finanza pubblica.

Di tenore analogo, rispetto le statuizioni della Corte precedentemente riportate, è anche la sentenza n. 215 del 2021, con cui la Corte ha dichiarato illegittima l’esclusione delle spese sostenute dai gruppi consiliari dal limite di finanza pubblica relativo al personale a tempo determinato (previsione contenuta nella legge abruzzese n. 40 del 2010). I limiti di spesa previsti, nel caso di specie, dall’articolo 9, comma 28, del DL n. 78/2010, sono qualificati come principi di coordinamento della finanza pubblica, rivolgendosi complessivamente a tutte le spese per il personale assunto a tempo determinato, sia appartenente genericamente alla Regione, che ai suoi organi, per quanto dotati di autonomia contabile e gestionale. Sotto questo profilo, la Corte ha ribadito che “il rendiconto dei gruppi consiliari non ha una consistenza finanziario-contabile esterna al bilancio della Regione, ma ne rappresenta una parte integrante e necessariamente coordinata, sia in sede previsionale, sia in sede consuntiva”. Pertanto, l’esclusione delle spese sostenute dai gruppi consiliari dal limite di finanza pubblica, stabilito dallo Stato nell’esercizio della propria competenza in materia di determinazione dei principi del coordinamento della finanza pubblica, incide sulla corretta copertura delle spese medesime, laddove invece “i vincoli alla spesa per il personale sono strategici ai fini del conseguimento degli equilibri sostanziali di bilancio pubblico consolidato e pertanto sono inderogabili”, salvo che non sia lo stesso legislatore nazionale a rimodularne gli ambiti o ad abrogarne l’efficacia.

La spesa sanitaria

Per quanto riguarda, in particolare, il fronte della spesa sanitaria, la Corte ha recentemente segnalato, in numerose pronunce, che la vincolatività dei piani di rientro dai deficit sanitari è da considerarsi espressione del principio fondamentale relativo al contenimento della spesa pubblica sanitaria, direttamente correlato al principio di coordinamento della finanza pubblica (sentenza n. 130 del 2020). Tali piani, pertanto, non sono derogabili dalla Regione attraverso la previsione di ulteriori spese non obbligatorie per motivi non inerenti alla garanzia dei livelli essenziali di assistenza (LEA), oggetto dei suddetti piani di rientro (sentenza n. 36 del 2021).

Nella sentenza n. 142 del 2021 la Corte ha ribadito che la disciplina dei piani di rientro dai deficit sanitari è riconducibile a due ambiti di potestà legislativa concorrente: la tutela della salute, da un lato, e il coordinamento della finanza pubblica, dall’altro. Attraverso i piani di rientro, le Regioni e lo Stato raggiungono un accordo per il miglioramento dell’erogazione dei servizi sanitari e per il contenimento della spesa pubblica sanitaria, coniugando le misure di riequilibrio in materia di erogazione dei LEA con quelle finalizzate a garantire l’equilibrio di bilancio sanitario. Alla luce del quadro normativo emergente dalla legislazione statale adottata in materia, sussiste un divieto, per le Regioni soggette ai piani di rientro dal disavanzo, di incrementare la spesa per motivi non inerenti alle prestazioni essenziali. Si trattava, nel caso oggetto di declaratoria di incostituzionalità, di una disposizione di legge della Regione Puglia che prevedeva l’introduzione del dirigente psicologo nel piano triennale di fabbisogni del personale delle ASL, corrispondente a uno standard di assistenza superiore a quelli essenziali previsti dal piano di rientro dal deficit sanitario stipulato dalla Regione con lo Stato. Ad avviso della Corte, pertanto, la disposizione censurata violava il principio secondo cui, nel corso della fase di rientro dal suddetto deficit, è precluso alla Regione e agli enti finanziati per assicurare le prestazioni sanitarie sul territorio di riferimento, di deliberare spese volte all’erogazione di livelli di assistenza superiori a quelli essenziali.

Con riferimento, invece, alla legge della Regione Veneto n. 10 del 2020 – Regione non sottoposta a piano di rientro da deficit sanitari – la sentenza n. 132 del 2021 ha specificato che la disposizione che preveda la chiamata dei professori di ruolo e dei docenti a contratto non è riconducibile all’ambito dei LEA, non corrispondendo ad alcuna delle prestazioni così qualificate dal D.P.C.M. in materia. Né tale chiamata di docenti universitari può considerarsi, ad avviso della Corte, strumentale all’erogazione dei medesimi LEA, dal momento che l’attività di assistenza ospedaliera e quella didattico-scientifica, pur legate da un nesso funzionale, non sono riconducibili ad unità sul piano materiale e concettuale. Non può giustificarsi, pertanto, l’imputazione dei costi per la chiamata dei docenti universitari alle spese allocate in bilancio per l’erogazione e la garanzia dei LEA, misura che si pone in contrasto con il principio, più volte ribadito dalla Corte, dell’indefettibile individuazione e allocazione delle risorse inerenti ai livelli essenziali delle prestazioni e dell’integrale vincolo all’erogazione di questi.


 

Coordinamento del sistema tributario

Nel vigente testo costituzionale la materia del coordinamento del sistema tributario rientra tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

La riforma operata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ha comportato l’assegnazione di poteri in materia di entrata e di spesa agli enti territoriali (regioni, province, comuni, città metropolitane) e di correlate funzioni normative, da esercitarsi nel quadro definito dalla legislazione statale. Tale assetto di rapporti, nel quale a ciascun ente è riconosciuta autonomia finanziaria entro i limiti necessari a mantenere l’unitarietà dell’ordinamento e la solidarietà tra le articolazioni territoriali della Repubblica, si riassume nella formula del “federalismo fiscale”.

Nel conferire autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni, il nuovo assetto costituzionale ha conferito ad essi risorse autonome, in aggiunta a compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, nonché il potere di stabilire e applicare tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

 

 

 

lente

 

 

Per ciò che attiene al coordinamento del sistema tributario, nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha cercato di enucleare il significato delle disposizioni costituzionali introdotte dalla riforma del 2001 sull’autonomia di entrata delle Regioni.

Per quanto riguarda, in generale, l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione e l’esplicazione della potestà legislativa regionale relativamente all’istituzione di tributi propri, la Corte ha segnalato l’urgenza di realizzare il sistema di finanza regionale ivi prefigurato, per realizzare le previsioni del nuovo Titolo V e prevenire “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza n. 370 del 2003).

Il necessario presupposto per l'attuazione del disegno costituzionale è stato rintracciato nell'intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, deve fissare i principi cui i legislatori regionali devono attenersi e determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario, definendo gli spazi e i limiti entro i quali può esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali. Per quanto riguarda in particolare i tributi locali, la riserva di legge stabilita dall’articolo 23 della Costituzione comporta la necessità di definire l'ambito in cui può esplicarsi la potestà regolamentare degli enti sub-regionali, sforniti di poteri legislativi, e il rapporto fra quest’ultima e la legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario. La Corte ha quindi concluso che “non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale” (sentenza n. 37 del 2004). Questa conclusione è stata confermata nelle sentenze n. 241 del 2004 (sulla delega per la riforma del sistema fiscale statale) e n. 261 del 2004 (sulla determinazione delle basi di calcolo dei sovracanoni per la produzione di energia idroelettrica).

Per quanto riguarda la specificazione della nozione di tributo proprio, la Corte ha affermato costantemente che nell’attuale quadro normativo non si danno tributi che possano essere definiti propri delle regioni, nel senso inteso dall’articolo 119 della Costituzione. Infatti, attualmente esistono soltanto tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla sola particolarità che il loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina di questi “tributi regionali” non è divenuta oggetto di legislazione concorrente, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma appartiene alla competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che disciplina i casi e i limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa regionale. Spetta quindi al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti.

Con la sentenza n. 296 del 2003 la Corte ha dichiarato, ad esempio, che l’IRAP non può qualificarsi tributo proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale articolo 119 della Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la disciplina soltanto nei limiti consentiti dalla normativa statale, non rilevando in contrario la devoluzione del relativo gettito alle regioni stesse. Concetto ribadito nella sentenza n. 50 del 2012 in cui la Corte ha precisato “che l’IRAP, anche dopo la sua «regionalizzazione, non è divenuta «“tributo proprio” regionale – nell’accezione di tributo la cui disciplina è liberamente modificabile da parte delle Regioni (o Province autonome) ? ma resta un tributo disciplinato dalla legge statale in alcuni suoi elementi strutturali e, quindi, in questo senso, “erariale”», e che lo Stato «continua a regolare compiutamente la materia e a circoscrivere con precisione gli ambiti di intervento del legislatore regionale» (sentenze n. 357 del 2010 e n. 216 del 2009). Nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha proseguito nell’opera di enucleazione del significato delle nuove disposizioni, al fine di precisarne la collocazione nel sistema giuridico e di determinare l’ambito di azione della potestà legislativa regionale la quale, ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, deve espletarsi in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

 

Giurisprudenza costituzionale

Nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale si è sforzata di enucleare il significato delle nuove disposizioni e di precisarne la collocazione nel sistema giuridico.

Per quanto riguarda, in generale, l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione e l’esplicazione della potestà legislativa regionale relativamente all’istituzione di tributi propri, la Corte costituzionale ha segnalato l’urgenza di realizzare il sistema di finanza regionale ivi prefigurato, “al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni” e per prevenire “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza n. 370 del 2003).

La sentenza n. 37 del 2004 ha indicato come necessario presupposto per l'attuazione del disegno costituzionale “l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali”. Per quanto riguarda in particolare i tributi locali, la riserva di legge stabilita dall’articolo 23 della Costituzione comporta la necessità di definire l'ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti sub-regionali, sforniti di poteri legislativi, e il rapporto fra quest’ultima e la legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario. La Corte ha quindi concluso che “non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale”. Si deve pure ricordare come la Corte abbia ritenuto, con giurisprudenza costante, che i principi fondamentali fissati dalla legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica siano applicabili anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome (ex plurimis, sentenze nn. 64 del 2016, 156 del 2015, 229 del 2011, 120 del 2008, e 169 del 2007).

Per quanto riguarda la specificazione della nozione di tributo proprio, la Corte ha affermato costantemente che nell’attuale quadro normativo non si danno tributi che possano essere definiti propri delle regioni, nel senso inteso dall’articolo 119 della Costituzione. Infatti, attualmente esistono soltanto tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla sola particolarità che il loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina di questi “tributi regionali” non è divenuta oggetto di legislazione concorrente, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma appartiene alla competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che disciplina i casi e i limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa regionale. Spetta quindi al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti. Tale potestà deve tuttavia esercitarsi in armonia con i nuovi princìpi costituzionali: in particolare, non potrebbe sopprimere, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti alle regioni e agli enti locali dal vigente ordinamento, né configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica tali princìpi (sentenza n. 37 del 2004).

La prima pronunzia a questo proposito è contenuta nella sentenza n. 296 del 2003 che, su ricorso del Governo avverso la legge della regione Piemonte 5 agosto 2002, n. 20, ha dichiarato illegittime le disposizioni ivi contenute in materia di imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e di tassa automobilistica.

La Corte ha dichiarato che l’IRAP non può qualificarsi tributo proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale articolo 119 della Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la disciplina soltanto nei limiti consentiti dalla normativa statale in proposito, non rilevando in contrario la devoluzione del relativo gettito alle regioni stesse. Spetta quindi alle regioni soltanto una limitata facoltà di variare l’aliquota e di disciplinare le procedure applicative secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997. Quest’impostazione è stata confermata dalle sentenze n. 241 e n. 381 del 2004, che hanno deciso ricorsi delle regioni avverso leggi statali intervenute in materia di IRAP e di addizionali regionali all’IRPEF. Più recentemente, la Corte ha confermato tale orientamento con la sentenza 128 del 2019.

Analogamente, in materia di tassa automobilistica, la Corte, nella citata sentenza n. 296 del 2003, ha affermato che alle regioni è stato attribuito “il gettito della tassa, unitamente alla attività amministrativa connessa alla sua riscossione, restando invece ferma la disciplina statale per ogni altro aspetto sostanziale della tassa stessa”. La disciplina sostanziale dell’imposta non è divenuta quindi oggetto di legislazione concorrente ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione. Le successive sentenze nn. 297 e 311 del 2003, 455 del 2005, 451 del 2007, 199 e 242 del 2016, e 118 del 2017 hanno confermato questa impostazione.

Con la sentenza n. 31 del 2019 la Corte si esprime in materia di compartecipazioni (con riferimento al gettito della tassa automobilistica nella Regione autonoma Sardegna), dichiarando la riserva erariale illegittima, dal momento che l’art. 8 dello statuto speciale non contempla alcuna ipotesi derogatoria al regime di compartecipazione fissa alle entrate, con la conseguenza che ogni atto che esclude un tributo dalla compartecipazione sarebbe illegittimo per violazione dello stesso art. 8 e, conseguentemente, dello stesso art. 7 dello statuto. Per le medesime ragioni risulterebbero altresì violati gli artt. 116, 117, terzo comma, e 119 Cost., che riconoscono e tutelano l’autonomia economico-finanziaria delle Regioni.

Più recentemente, con la sentenza 122 del 2019, la Corte ha precisato che il legislatore ha attribuito alla tassa automobilistica una valenza differenziata, sia rispetto ai tributi propri autonomi, sia rispetto ai tributi propri derivati, configurandola come un tributo proprio derivato particolare, parzialmente “ceduto”, in quanto alle Regioni è riconosciuto un più ampio margine di autonoma disciplina, limitato dal vincolo, unidirezionale, di non superare il limite massimo di manovrabilità stabilito dalla legge statale. In tal modo, la tassa automobilistica, si configura come un tertium genus, rispetto al quale le Regioni possono sviluppare una propria politica fiscale che possa rispondere a specifiche esigenze di differenziazione. Conseguentemente le Regioni sono libere di introdurre esenzioni fiscali dal bollo auto in quanto l’ampliamento del regime di esenzione della tassa automobilistica non eccede l’autonomia impositiva regionale, non risultando in contrasto nemmeno con i principi dell’ordinamento tributario cui comunque, anche nei maggiori margini di manovrabilità, la legislazione regionale è vincolata.

 

Nei medesimi termini sono state decise controversie riguardanti il tributo speciale per il deposito dei rifiuti solidi in discarica (previsto dalla legge n. 549 del 1995). Le sentenze n. 335 e n. 397 del 2005 hanno dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni di legge regionale che, rispettivamente, rimettevano a deliberazione della Giunta regionale il metodo di determinazione del tributo (art. 44, comma 3, della legge della regione Emilia-Romagna 14 aprile 2004, n. 7) e ne disponevano l’aumento oltre il termine fissato dalla legge dello Stato (art. 1 della legge della Regione Molise 31 agosto 2004, n. 18). Anche questo tributo deve infatti considerarsi statale e non proprio della regione, che può dunque legiferare solo nei casi e nei limiti previsti dalla legge dello Stato. Tale orientamento è stato confermato, da ultimo, nella sentenza n. 85 del 2017.

Verte in materia di IRAP, ma afferma un principio di più generale applicazione, la sentenza n. 431 del 2004, con cui la Corte costituzionale ha deciso il ricorso della regione Veneto avverso l’articolo 19 della legge n. 289 del 2002 (legge finanziaria per il 2003), che prorogava agevolazioni fiscali relative all’IRAP nel settore agricolo. La Corte ha rigettato infatti la tesi, sostenuta dalla regione, secondo cui ogni intervento sul tributo che, o per modificazione delle aliquote o per variazioni delle agevolazioni previste, comporti un minor gettito per le Regioni, dovrebbe essere accompagnato da misure compensative a ristoro della finanza regionale. Secondo il giudice delle leggi, la manovra fiscale dev’essere considerata nel suo insieme e non è quindi possibile, sotto questo profilo, valutare singole disposizioni. La tesi è stata ribadita in occasione di un altro giudizio (sentenza n. 155 del 2006) relativo a disposizioni dell’articolo 1, commi 347 e seguenti, della legge n. 311 del 2004 (legge finanziaria per il 2005) direttamente o indirettamente incidenti sulla determinazione della base imponibile dell’IRAP.

 

Appare significativo segnalare anche quanto disposto con la sentenza n. 102 del 2008, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico (prevista dall’articolo 2 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006 e successive modifiche) e dell’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico (prevista dall’art. 3 della medesima legge regionale e successive modifiche).

La Corte ha rilevato “la contraddizione fra la ratio ispiratrice del tributo regionale censurato e la scelta di politica fiscale del legislatore statale di limitare la tassazione alle sole plusvalenze realizzate nel quinquennio”, peraltro “accentuata dal rilievo che la norma denunciata, in entrambe le sue formulazioni, realizza un'ingiustificata discriminazione tra i soggetti aventi residenza anagrafica all'estero e i soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna aventi residenza anagrafica in Italia, violando così gli artt. 3 e 53 Cost.”.

Con la sentenza n. 152 del 2018 la Corte riconosce la facoltà, attribuita alle autonomie speciali, di istituire tributi propri con riferimento a presupposti già coperti dall’imposizione erariale, ipotesi invece preclusa alle Regioni ordinarie in forza di quanto esplicitato dall’art. 7, comma 1, lettera b), n. 3 della legge n. 42 del 2009. Peraltro, mentre per le Regioni ordinarie, la competenza legislativa regionale in materia appare condizionata dal necessario rispetto dei «principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» dettati dalla legge nazionale, primo tra tutti quello del divieto della doppia imposizione; per le autonomie speciali l’unica specifica condizione richiesta per legittimamente istituire e disciplinare i tributi propri regionali è che il tributo proprio sia «in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato» (sentenza n. 102 del 2008).

 

Con la sentenza 262 del 2020 la Corte interviene su una norma regionale che, disponendo un’esenzione dall’IRPEF dei compensi percepiti dai volontari della Leva civica lombarda, realizza un’integrazione della disciplina di un tributo statale che viola l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in relazione alla materia del sistema tributario dello Stato. Ad avviso della Corte, tale norma si pone in frontale violazione della ratio anche insita nella riserva alla sfera di competenza esclusiva statale del sistema tributario dello Stato, sulla cui disciplina le Regioni non possono interferire, nemmeno con riguardo al «relativo regime agevolativo, che costituisce un’integrazione della disciplina [medesima] (sentenze n. 30 del 2012 e n. 123 del 2010)» (sentenza n. 17 del 2018). Non è preclusa alle Regioni la possibilità di realizzare, in linea con l’autonomia impositiva ad esse riconosciuta dall’art. 119 Cost., propri interventi di politica fiscale, anche di tipo agevolativo, ma questi, in coerenza con i presupposti che giustificano tale autonomia, possono inerire solo e unicamente a tributi il cui gettito è ad esse assegnato; mai, invece, a tributi il cui gettito pertiene allo Stato.

 

Con la sentenza 32 del 2019, confermando quanto stabilito con la sentenza n. 29 del 2018, la Corte riconduce la disciplina della “rottamazione delle cartelle” alla materia della riscossione mediante ruoli, rilevando che l’intervento del legislatore statale non è principalmente diretto a disciplinare i tributi e le relative sanzioni, e la stessa incidenza su queste ultime costituisce un passaggio necessario in vista della finalità perseguita, che è quella della riorganizzazione della procedura esecutiva in questione, cosicché ricorrono le condizioni che legittimano l’esercizio della potestà legislativa concorrente dello Stato del «coordinamento […] del sistema tributario» ai sensi degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione e va quindi esclusa la lamentata lesione delle competenze regionali in materia di autonomia finanziaria, con riferimento all’impugnato comma 4 dell’art. 1 del decreto-legge n. 148 del 2017.

 


 

Beni e attività culturali

Nell’articolo 117 della Costituzione, l’ambito è contemplato sia nel secondo sia nel terzo comma, necessariamente fra loro connessi: in particolare, in base al secondo comma, lett. s), la tutela dei beni culturali rientra tra le materie di competenza esclusiva dello Stato.

In base al terzo comma, invece, la valorizzazione dei beni culturali e la promozione e organizzazione di attività culturali rientrano tra le materie di legislazione concorrente.

 

 

lente

 

 

Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali e alla competenza legislativa concorrente la valorizzazione degli stessi, la Corte costituzionale ha evidenziato che la tutela dei beni culturali e, in generale, lo sviluppo della cultura, corrispondono a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni” (sentenze nn. 478/2002, 307/2004 e 140/2015).

In particolare, la Corte ha evidenziato la possibilità per le regioni di integrare la normativa in materia di tutela dei beni culturali, con misure diverse ed aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale (sentenze nn. 401/2007 e 194/2013).

Con riferimento alla promozione e organizzazione di attività culturali, affidata alla competenza legislativa concorrente, la Corte costituzionale ha chiarito che in tale ambito rientrano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura e, dunque, anche le attività di sostegno degli spettacoli (sentenza n. 255/2004) e quelle di sostegno delle attività cinematografiche (sentenza n. 285/2005).

Al contempo, ha stabilito che gli interventi volti a ridefinire il quadro ordinamentale e l’impianto organizzativo delle fondazioni lirico-sinfoniche rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, afferendo alla materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. g), Cost. (sentenza n. 153/2011).

 

Giurisprudenza costituzionale

Con riferimento al riparto di competenze sopra delineato, con la sentenza n. 9/2004 la Corte Costituzionale, evidenziato, in via preliminare, che “la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono state considerate attività strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili”, ha reso una definizione delle due funzioni:

·        la tutela “è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale”;

·        la valorizzazione “è diretta, soprattutto, alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa”.

Successivamente all’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Corte, nella sentenza n. 232/2005, ha richiamato, ai fini del riparto di competenze, le disposizioni in esso contenute: secondo la Corte, infatti, il testo legislativo ribadisce l’esigenza dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela dei beni culturali (art. 4, co. 1) e, nel contempo, stabilisce che siano non soltanto lo Stato, ma anche le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni ad assicurare e sostenere la conservazione del patrimonio culturale e a favorirne la pubblica fruizione e la valorizzazione (art. 1, co. 3).

Con la sentenza n. 138/2020, la Corte ha ulteriormente precisato la portata delle nozioni di “tutela” e di “valorizzazione” dei beni culturali.

Nello specifico, la tutela ricomprende la regolazione ed amministrazione giuridica dei beni culturali e l’intervento operativo di protezione e difesa dei beni stessi; la valorizzazione, invece, viene definita come il complesso delle attività di intervento integrativo e migliorativo ulteriori, finalizzate alla promozione, al sostegno della conoscenza, fruizione e conservazione del patrimonio culturale, nonché ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione di esso, anche da parte delle persone diversamente abili.

 

In una prospettiva più ampia, nelle sentenze nn. 478/2002 e 307/2004 – ripercorrendo quanto già evidenziato, nel contesto del previgente titolo V, parte seconda, della Costituzione, con le sentenze nn. 276 del 1991, 348 del 1990, 562 e 829 del 1988 (esplicitamente citate nella sentenza n. 307/2004) – la Corte ha affermato che lo sviluppo della cultura, nonché, per quanto qui interessa, la tutela dei beni culturali, corrispondono a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni”.

In particolare, nella sentenza n. 401/2007 la Corte ha evidenziato la possibilità per le regioni di integrare la normativa in materia di tutela dei beni culturali, con misure diverse ed aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale.

Tale posizione è stata ripresa nella sentenza n. 194/2013, concernente il giudizio di legittimità costituzionale di parti della legge della regione Lombardia 16/2012, concernente la valorizzazione dei reperti mobili e dei cimeli appartenenti a periodi storici diversi dalla prima guerra mondiale. In particolare, la Corte – sottolineato come sia indubitabile che soltanto la disciplina statale possa assicurare, in funzione di tutela (e in considerazione della unitarietà del patrimonio culturale), le misure più adeguate, con la previsione di specifici procedimenti e di dettagliate procedure di ricognizione e di riscontro delle caratteristiche dei beni – ha precisato [29] che la potestà legislativa delle regioni può essere legittimamente esercitata, non in una posizione antagonistica rispetto allo Stato, ma in funzione di salvaguardia diversa ed aggiuntiva, in riferimento a quei beni che non sono qualificati come “culturali” dalla normativa statale ma che possono, invece, presentare un qualche interesse “culturale” in relazione al patrimonio storico e culturale di una determinata comunità regionale o locale.

  Nella sentenza n. 140/2015, la Corte ha poi precisato che, nonostante la diversificazione fra tutela e valorizzazione, “l’ontologica e teleologica continuità delle suddette aree determina, nella produzione legislativa, la possibilità […] che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello Stato e delle regioni”. “In tale contesto, l’impossibilità di comporre il concorso di competenze statali e regionali mediante l’applicazione del principio di prevalenza, in assenza di criteri contemplati dalla Costituzione e avendo riguardo alla natura unitaria delle esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione che deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie”.

Con riguardo alla promozione e organizzazione di attività culturali, si ricorda, anzitutto, che, con sentenza n. 71/2018, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1, co, 627, della L. 232/2016 (L. di bilancio 2017) – che ha istituito nello stato di previsione del Mibact il Fondo nazionale per la rievocazione storica, con una dotazione di € 2 mln per ciascuno degli anni 2017, 2018, 2019, al quale potevano accedere regioni, comuni, istituzioni culturali e associazioni – nella parte in cui non prevedeva che il decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo con il quale dovevano essere determinati i criteri di accesso al Fondo fosse adottato d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

Successivamente, l’art. 7, co. 9 e 10, del D.L. 162/2019 (L. 8/2020), stabilizzando il Fondo nazionale per la rievocazione storica e autorizzando la spesa di € 2 mln annui dal 2020, ha disposto che la disciplina applicativa doveva essere determinata con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, da adottare d’intesa con la Conferenza Stato-regioni.

 

In precedenza, la Corte aveva chiarito che le attività culturali riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura e, dunque, anche le attività di sostegno degli spettacoli (sentenza n. 255/2004) e quelle di sostegno delle attività cinematografiche (sentenza n. 285/2005).

In particolare, nella sentenza n. 255/2004 la Corte aveva evidenziato la necessità ineludibile di una riforma profonda della disciplina del finanziamento allo spettacolo dal vivo, caratterizzata da una procedura accentrata di ripartizione del Fondo unico per lo spettacolo (FUS), per adeguarla alla mutata disciplina costituzionale derivante dal nuovo titolo V della Costituzione. La Corte sottolineava che "per i profili per i quali occorra necessariamente una considerazione complessiva a livello nazionale dei fenomeni e delle iniziative […] dovranno essere elaborate procedure che continuino a svilupparsi a livello nazionale, con l'attribuzione sostanziale di poteri deliberativi alle Regioni od eventualmente riservandole allo stesso Stato, seppur attraverso modalità caratterizzate dalla leale collaborazione con le Regioni".

Successivamente alla sentenza della Corte, è stata approvata la L. 239/2005 che – come già detto – ha previsto che i decreti ministeriali concernenti i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo dal vivo sono adottati d'intesa con la Conferenza unificata.

Tali modalità di adozione dei decreti ministeriali in questione sono state confermate, più di recente, anche in tal caso come già detto, dall’art. 9, co. 1, del D.L. 91/2013 (L. 112/2013).

 

Nella sentenza n. 285/2005, la Corte, pur evidenziando "come il livello di governo regionale – e, a maggior ragione, quello infraregionale – appaiano strutturalmente inadeguati a soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico" e, dunque, ritenendo legittimo, sulla base della cosiddetta "chiamata in sussidiarietà", un intervento dello Stato avente ad oggetto sia funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia la potestà normativa per l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni, ha ritenuto indispensabile ricondurre ai moduli della concertazione necessaria e paritaria fra organi statali e Conferenza Stato-regioni tutti i numerosi poteri di tipo normativo o programmatorio caratterizzanti il nuovo sistema di sostegno ed agevolazione delle attività cinematografiche. Sono state, pertanto, dichiarate costituzionalmente illegittime diverse disposizioni della L. 28/2004, di riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, nella parte in cui non prevedevano l'intesa con la Conferenza Stato-regioni.

 

Con riferimento alle iniziative di revisione del settore lirico-sinfonico, la Corte, nella sentenza n. 153/2011 – nel ritenere non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, per quanto qui interessa, sull’art. 1 del D.L. 64/2010 (L. 100/2010) –, ha chiarito che le stesse afferiscono alla materia «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali», attribuita dall’art. 117, secondo comma, lett. g), della Costituzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Ciò discende dalla natura di tali enti che, benché trasformati in fondazioni di diritto privato a seguito del d.lgs. 367/1996, presentano numerosi indici di connotazione pubblica: si tratta, in particolare, della preminente rilevanza dello Stato nei finanziamenti, del conseguente assoggettamento al controllo della Corte dei conti, del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, dell’inclusione nel novero degli organismi di diritto pubblico soggetti al Codice dei contratti pubblici. Alla natura non controversa di soggetti di diritto pubblico la Corte ritiene che si accompagni il carattere nazionale dei medesimi.

 


 

Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale

Nel riparto di competenze legislative derivante dal titolo V, la materia casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale è rimessa alla competenza concorrente tra Stato e Regioni.

Nel corso della XVII Legislatura il settore bancario (con riferimento alla struttura, alle caratteristiche ed alla governance) è stato oggetto di numerosi interventi di riforma, nati dall'esigenza di adeguare il sistema italiano alla nuova normativa europea, come conseguenza della crisi economico-finanziaria e alla luce del rinnovato contesto socioeconomico e di vigilanza. Tali interventi hanno riguardato le banche popolari, le banche di credito cooperativo e le fondazioni bancarie (queste ultime attraverso un processo di autoriforma).

 

 

lente

 

 

La Consulta, con sentenza n. 287 del 2016, ha dichiarato manifestamente inammissibili e non fondate alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alle nuove norme sulle banche popolari, rilevando in particolare che l’impianto generale della riforma rientra nei limiti delle attribuzioni del legislatore statale, nell’ottica della competenza esclusiva dello Stato in ordine alla tutela del risparmio e della concorrenza e con riferimento all’ordinamento civile.

 

Giurisprudenza costituzionale

Per quanto riguarda la disciplina delle banche popolari, come anticipato in apertura la Consulta, con sentenza n. 287 del 2016, ha dichiarato manifestamente inammissibili e non fondate alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alle nuove norme, rilevando in particolare rilevato che l’impianto generale della riforma rientra nei limiti delle attribuzioni del legislatore statale, nell’ottica della competenza esclusiva dello Stato in ordine a tutela del risparmio e della concorrenza e con riferimento all’ordinamento civile.

Successivamente, con ordinanza del 15 dicembre 2016, il Consiglio di Stato ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa ad alcune prescrizioni della riforma delle banche popolari, tra cui il diritto di recesso per i soci e la facoltà concessa alle banche, su autorizzazione della Banca d’Italia anche in deroga alle norme del codice civile, di sospenderlo o di rimborsarlo solo in parte, ove  nel caso in cui il pagamento andasse a indebolire i ratio patrimoniali. La questione è stata rimessa dunque alla Corte Costituzionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 99 del 21 marzo 2018, si è pronunciata sulle predette questioni di costituzionalità sollevate dal Consiglio di Stato, relative alla disposizione - introdotta dalla riforma del 2015 - che comporta limitazioni al rimborso in caso di recesso del socio a seguito della trasformazione della banca in società per azioni, ritenendole infondate e confermando la sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza per il decreto legge. Inoltre, la Consulta ha affermato che normativa impugnata - che, in attuazione di quella europea sui requisiti prudenziali, prevede la possibilità per le banche di introdurre limitazioni al rimborso in caso di recesso del socio - non lede il diritto di proprietà. Ha affermato inoltre che, quanto ai poteri normativi affidati alla Banca d’Italia, essi rientrano nei limiti di quanto consentito dalla Costituzione.

Si segnala infine che la Corte costituzionale ha da tempo stabilito che la disciplina delle fondazioni di origine bancaria è estranea alla materia concorrente “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per essere ricondotta invece a quella, statale, dell’ordinamento civile (sentenze nn. 300 del 2003 e 438 del 2007; si ricorda, peraltro, che una delle prime sentenze nel rapporto tra materia bancaria ed ordinamento civile è la n. 72/1965).

 

Con la sentenza 17 del 2020 la Corte interviene sul carattere regionale delle banche di credito cooperativo, affermando che sebbene la riforma introdotta dal decreto-legge n. 18 del 2016 ha inteso salvaguardare lo scopo mutualistico delle BCC e, entro certi limiti, gli spazi di autonomia gestionale delle singole banche, tuttavia tali circostanze non determinano automaticamente la conservazione del carattere regionale di una banca. Pur rispettando l’autonomo interesse sociale di ciascuna BCC aderente al gruppo, il contratto di coesione disciplina, infatti, i poteri di direzione strategica e i presidi di controllo del rischio, che sono attribuiti a livello nazionale alla capogruppo. Inoltre, la prevista garanzia solidale incrociata tra la capogruppo e le banche partecipi del gruppo, di cui al nuovo art. 37-bis, comma 4, del t.u. bancario, comporta di per sé una disciplina uniforme della vigilanza.

 



[1] È stata la legge costituzionale n. 1 del 2012 a spostare la competenza “armonizzazione dei bilanci pubblici” dall’ambito di legislazione concorrente a quello della competenza esclusiva statale.

[2]    Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2003 (2 aprile 2004).

[3]    Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2009 (25 febbraio 2010).

[4]    Rispetto al trend di crescita, è da segnalare la relativa contrazione del giudizio in via principale nel 2011, che è sceso nuovamente sotto la soglia delle 100 decisioni e che, in termini percentuali, ha visto una diminuzione rilevante del suo peso. Tuttavia, secondo i dati messi a disposizione dalla Corte, a trarre beneficio da questa diminuzione sono stati i conflitti (soprattutto quello tra poteri dello Stato), oltre ovviamente ai giudizi sull’ammissibilità del referendum ed alle ordinanze di correzione di errori materiali. Il giudizio in via incidentale è rimasto, invece, quasi costante in termini percentuali, pur essendo diminuite le decisioni totali, che sono scese, per la prima volta dal 1981, sotto la soglia delle 200 unità. Si v. Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2011.

[5]   Così conferma la Corte costituzionale in Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2019 (28 aprile 2020).

[6]     Al riguardo, si ricorda che l’art. 1, co. 784, della L. di bilancio 2019 (L. 145/2018) ha ridenominato i percorsi di alternanza scuola-lavoro in “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”.

[7]    Con sentenza n. 33/2005, invece, la Corte costituzionale, pronunciandosi (fra l’altro) sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 9 e 10, della L. 62/2000 (anteriore, dunque, alla riforma del Titolo V) – in base al quale, al fine di rendere effettivo il diritto allo studio e all’istruzione per tutti gli alunni delle scuole statali e paritarie, lo Stato doveva adottare un piano straordinario di finanziamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, da utilizzare a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione, mediante l’assegnazione di borse di studio di pari importo, eventualmente differenziate per ordine e grado di istruzione – aveva ritenuto non fondata la censura riferita alla presunta invadenza dello Stato in un ambito, quello dell’assistenza scolastica, all’epoca esplicitamente attribuito alla competenza regionale. In particolare, la Corte aveva evidenziato che la disposizione censurata – in quanto volta a rendere effettivo il diritto allo studio anche per gli alunni delle scuole paritarie, dalla stessa legge disciplinate – costituiva un principio fondamentale della materia “assistenza scolastica” e quindi era idonea a porre un vincolo all'esercizio delle competenze regionali.

[8]    L’art. 138 del d.lgs. 112/1998 ha delegato alle regioni le funzioni amministrative – prima attribuite allo Stato – relative, tra l’altro, alla programmazione della rete scolastica, assicurando il coordinamento con la programmazione dell’offerta formativa.

[9]     Il D.L. 1/2020 (L. 12/2020) ha istituito il Ministero dell’istruzione e il Ministero dell’università e della ricerca, con conseguente soppressione del Ministero dell'istruzione dell'universita' e della ricerca (MIUR).

[10] Al riguardo, si ricorda che, contestualmente a quanto disposto dall’art. 2, co. 47, della L. 203/2008 (L. finanziaria 2009), la L. 204/2008 (L. di bilancio 2009) aveva inserito nello stato di previsione dell’allora MIUR – esclusivamente per l’esercizio 2009 –, nell’ambito della Missione Istruzione scolastica, un nuovo programma 1.10 – Interventi in materia di istruzione, con una dotazione di € 120 mln. Le risorse erano state allocate nel capitolo 1299 – Somme da trasferire alle regioni per il sostegno delle scuole paritarie, di nuova istituzione. Negli anni successivi, il cap. 1299 è stato allocato nel programma 1.9 “Istituzioni scolastiche non statali” (nel quale era presente anche il cap. 1477, Contributi alle scuole paritarie comprese quelle della Valle d’Aosta, le cui risorse erano erogate – sulla base dell’autorizzazione di spesa recata dall’art. 1, co. 13, della L. 62/2000 – direttamente alle scuole). L’autorizzazione di spesa di cui all’art. 2, co. 47, della L. finanziaria 2009 è stata rifinanziata fino al 2013. A decorrere dal 2014 le risorse da destinare al sostegno alle scuole paritarie (ad esclusione di quelle delle province autonome di Trento e di Bolzano) sono allocate – a seguito di quanto disposto dall’art. 1, co. 169, della L. 190/2014 – unicamente sul cap. 1477.

[11] Prima della riforma del titolo V Cost. la Corte, con la sentenza n. 383/1998, aveva rimesso alla legge statale la disciplina dell’accesso ai corsi universitari, sottolineando che l’ultimo comma dell’art. 33 Cost. assume una funzione di “cerniera”, attribuendo al legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all’autonomia universitaria relativi tanto all’organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all’istruzione universitaria.

[12] La sentenza n. 301 del 2013, a seguito di un ricorso della Provincia autonoma di Trento, interviene censurando una norma statale che disponeva una disciplina autoapplicativa in materia di libera professione intramuraria, in quanto “non ha preso in considerazione in alcun modo la specificità della provincia sotto il profilo delle procedure di adeguamento ai sopravvenuti principi statali”. La previsione di una clausola di salvaguardia dello speciale regime di autonomia che avesse permesso di applicare la legislazione statale nei limiti e con le modalità previste dallo statuto speciale, a detta della Corte, avrebbe rimosso ogni ostacolo all’applicazione della speciale procedura di adeguamento prevista dalle norme di attuazione.

[13] In particolare le sentenze n. 65 e n. 141 del 2016 sottolineano entrambe l’indirizzo costante della giurisprudenza costituzionale secondo cui norme statali che fissino limiti alla spesa delle regioni e degli enti locali possono qualificarsi come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla condizione, tra l’altro, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente (ex multis, tra le più recenti, sentenze n. 218 e 189 del 2015; nello stesso senso, sentenze n. 44 del 2014, n. 236 e 229 del 2013, n. 217, n. 193 e n. 148 del 2012, n. 182 del 2011).

[14] Al riguardo si sottolinea che le censure delle Regioni devono comunque essere sorrette da idonei elementi obiettivi (sulla prova della violazione delle attribuzioni regionali, ex multis, sentenze n. 205, n. 151, n. 127 e n. 65 del 2016, n. 89 del 2015, n. 26 del 2014).

[15] La posizione è stata ribadita nella sentenza n. 95/2005, dove la Corte precisa come l’autentico principio ispiratore che resta vincolante è quello secondo cui la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri, e come tale principio sia comunque fatto salvo dall’applicazione delle altre prescrizioni in materia di igiene dei prodotti alimentari.

[16] L’ambito disciplinato dal Testo unico in materia edilizia è ricompreso per giurisprudenza costante nella competenza concorrente in materia di «governo del territorio» (sentenze n. 196 del 2004, n. 362 e n. 303 del 2003; sentenza n. 233 del 2015). In questo settore, la Corte ha da sempre annoverato molteplici disposizioni dello stesso testo unico tra i principi fondamentali del “governo del territorio” (ex plurimis, sentenze n. 282, n. 272, n. 231 e n. 67 del 2016, n. 259 e n. 167 del 2014, n. 64 del 2013 e n. 309 del 2011).

[17] L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. Pertanto, secondo la Corte, la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.

[18] Nella sentenza n. 50/2017 la Corte ricorda che “la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo ? il governo del territorio ? che ne detta anche le modalità di esercizio (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011)”. Nella sentenza n. 70/2020 la Corte ribadisce la natura di principio fondamentale del comma 1-ter dell’art. 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 “per ciò che concerne la vincolatività delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968, derogabili solo a condizione che le eccezioni siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 86 del 2019)”.

[19]    La giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che “le norme tecniche sulle costruzioni, aventi il fine di tutelare l’incolumità pubblica (in particolare, quelle antisismiche), rientrano nella protezione civile e nel governo del territorio” (sentenze nn. 68 del 2018, 232 e 60 del 2017, 272 del 2016, 189 del 2015, 101 del 2013).

[20] La sentenza n. 272 del 2016 si sofferma in particolare sulla previsione dell’art. 94 del D.P.R. 380/2001 (che già le sentenze n. 64 del 2013 e n. 312 del 2010 avevano riconosciuto quale principio fondamentale), il quale, nel prescrivere che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione, riveste una posizione «fondante» del settore dell’ordinamento al quale pertiene (ex plurimis, sentenze n. 282 del 2009, n. 364 del 2006, n. 336 del 2005). Nella sentenza n. 68 del 2018 viene ricordato che, in linea con la costante giurisprudenza costituzionale, «le disposizioni di leggi regionali che intervengono sulla disciplina degli interventi edilizi in zone sismiche devono essere ricondotte all’ambito materiale del “governo del territorio”, nonché a quello relativo alla “protezione civile”, per i profili concernenti la tutela dell’incolumità pubblica (in termini la sentenza n. 167 del 2014)» (sentenza n. 60 del 2017). La Corte ha anche affermato (nella medesima sentenza n. 68 del 2018) che «assumono la valenza di principio fondamentale le disposizioni contenute nel TUE che prevedono determinati adempimenti procedurali, a condizione che questi ultimi rispondano ad esigenze unitarie, particolarmente pregnanti di fronte al rischio sismico (in termini la sentenza n. 282 del 2016, la sentenza n. 300 del 2013 e quella n. 182 del 2006)» (sentenza n. 60 del 2017). Proprio in considerazione della necessità di garantire «una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico» (sentenza n. 232 del 2017) sull’intero territorio nazionale, la Corte ha precisato che eventuali «deroghe al D.P.R. n. 380 del 2001 per interventi edilizi in zone sismiche possono essere previste solo con disposizioni statali» (sentenza n. 300 del 2013) e ha, pertanto, dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali volte a esentare taluni interventi edilizi in zone sismiche dagli adempimenti prescritti dal D.P.R. n. 380 del 2001, in difformità rispetto alle indicazioni del legislatore statale (fra le altre, sentenza n. 300 del 2013).

[21] Sotto altro aspetto, principio fondamentale in materia di tutela della salute e di governo del territorio è stata considerata, nella sentenza n. 339 del 2007, la definizione dei criteri ai quali deve attenersi l’autorità sanitaria ai fini della valutazione di idoneità dei locali al trattamento ad alla somministrazione di alimenti all’interno delle aziende agrituristiche.

[22] In proposito, si richiama il lavoro predisposto dal Servizio Studi della Corte Costituzionale “Produzione, trasporto, distribuzione nazionale dell’energia”, nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, nel quale è raccolta la giurisprudenza della Corte relativa al settore energetico, negli anni 2002-2015, ripartita per ambiti di intervento (fonti rinnovabili, produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, progettazione e localizzazione degli impianti, etc..). A tale lavoro ci si richiama nel presente paragrafo.

[23] Sulla giurisprudenza costituzionale relativa al pareggio di bilancio di regioni ed enti locali si rinvia al successivo paragrafo “Il pareggio di bilancio”.

[24] Legge costituzionale n.1/2012.

[25] Sul necessario carattere transitorio dei limiti di spesa imposti alle autonomie si rinvia al successivo paragrafo “Condizioni e limiti del concorso alla finanza pubblica”

[26] Si tratta dell’art. 41, comma 2, del D.L. n. 66 del 2014, che prevede la sanzione consistente nell’impossibilità di procedere ad assunzioni di qualsiasi tipo per le P.A. che registrano tempi di pagamento dei debiti verso privati superiori a certe soglie.

[27] Si tratta dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 4 e 9, del D.L. n. 133 del 2014 (cd. Sblocca Italia).

[28] Cfr. al riguardo quanto più estesamente illustrato nel successivo paragrafo relativo alla spending review.

[29] Riprendendo un ragionamento già presente nella sentenza n. 94/2003.