Modifica all'articolo 71 del codice del Terzo settore 11 gennaio 2022 |
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Contenuto|Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite| |
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La VIII Commissione ha iniziato l'esame in sede referente della proposta di legge nella seduta del 3 aprile 2019 e lo ha concluso nella seduta del 7 aprile 2021 con l'approvazione del mandato al relatore a riferire in senso contrario all'Assemblea.
Nella seduta del 12 ottobre 2021 l'Assemblea ha deliberato il rinvio in Commissione della proposta di legge.
La norma recata dalla proposta di legge in esame è volta ad
escludere, per le
associazioni di promozione sociale che svolgono (anche occasionalmente) attività di culto, l'
applicazione della normativa di favore prevista (dall'art. 71, comma 1, del D.Lgs. 117/2017)
per il cambio di destinazione d'uso dei locali utilizzati come sedi degli enti del terzo settore.
L'art. 71, comma 1, del D.Lgs. 117/2017 dispone che "le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica".
In base all'art. 2 del D.M. 1444/1968, sono considerate zone territoriali omogenee:
A) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi;
B) le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq;
C) le parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali la edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità di cui alla precedente lettera B);
D) le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati;
E) le parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle in cui - fermo restando il carattere agricolo delle stesse - il frazionamento delle proprietà richieda insediamenti da considerare come zone C);
F) le parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale.
Al di fuori di tale disciplina di favore, invece, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile è considerato urbanisticamente rilevante (indipendentemente dal fatto che avvenga con o senza opere a tanto preordinate) e, come tale, necessita quindi di un titolo edilizio abilitativo.
Solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere.
L'art. 23
-ter del D.P.R. 380/2001 (Testo unico in materia edilizia) dispone che "salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale".
Il richiamo alle leggi regionali tiene conto del disposto dell'art. 10 del medesimo testo unico, ove, tra l'altro, si assoggettano a permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso" e si dispone che "le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività". Lo stesso articolo, al comma 3, dispone che "le regioni possono altresì individuare con legge ulteriori interventi che, in relazione all'incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire".
A titolo esemplificativo, si segnala che la legge regionale della Lombardia n. 12/2005 ("Legge per il governo del territorio"), all'art. 52, comma 3-
bis, stabilisce che i mutamenti di destinazione d'uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire.
Si tratta quindi di una disposizione che estende, anche al di fuori delle zone A (definite dall'art. 2 del D.M. 1444/1968), quanto previsto dal citato articolo 10 del D.P.R. 380/2001.
Si segnala, inoltre, che la citata legge regionale lombarda (n. 12/2005), come modificata dalla L.R. 3 febbraio 2015, n. 2, prevede, all'art. 70, alcuni principi in materia di edificazione dei luoghi di culto delle confessioni diverse da quella cattolica. Le nuove norme si applicano alle confessioni religiose che hanno stipulato un'intesa con lo Stato nonché, in virtù della riformulazione derivante dalla sentenza della Corte cost. n. 63/2016 (v.
infra), agli enti delle altre confessioni religiose.
Con la citata sentenza, la Corte costituzionale ha giudicato costituzionalmente illegittimi i requisiti previsti per gli enti delle confessioni religiose prive di intesa con lo Stato ("presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell'ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo" e "relativi statuti esprimono il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione").
Il mutamento di destinazione di edifici al fine di un loro utilizzo quali luoghi di culto è stato oggetto di numerose
pronunce giurisprudenziali volte, da un lato, a definire le caratteristiche in presenza delle quali l'edificio è da ritenersi destinato ad attività di culto, e, dall'altro, a considerare l'aspetto autorizzativo del citato mutamento di destinazione. Secondo il Consiglio di Stato (
sentenza n. 683/2011) "emerge come le deroghe al piano regolatore comunale non possano essere di tale entità da elidere le esigenze di ordine urbanistico sottese al piano e, in particolare, non possano legittimare eccezioni alle destinazioni di zona, sulle quali si fonda la struttura concettuale stessa del piano regolatore generale nelle scelte fondanti sull'uso del territorio. Appare quindi corretto affermare che anche i permessi in deroga debbano osservare tali principi e sono quindi legittimi nella misura in cui si allineano alle destinazioni d'uso ammesse dal piano regolatore all'interno delle singole zone". Sul punto si richiama anche la recente
sentenza del T.A.R. Veneto n. 91 del 27 gennaio 2015, ove si legge che "occorre distinguere il caso di […] esercizio di un'attività associativa all'interno di un capannone industriale-artigianale, nel quale si svolgono, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose, attività espressione dello
ius utendi del proprietario ed inidonea a comportare l'assegnazione dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale, da altri e ben diversi casi di mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni (cfr. Cons. Stato n. 5778/2011)".
Nella
sentenza n. 34812 del 17 luglio 2017, la Corte di cassazione ha ricordato che "è stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 8/5/2013), derivante dalla diversa destinazione impressa al bene. Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto. In linea generale, si osserva che l'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico (cfr., in proposito, Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini, Rv. 251984; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002, Catalano, Rv. 221951; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003, Censullo, Rv. 225515)".
Si ricorda che la costruzione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto, la loro ristrutturazione o il cambiamento di destinazione d'uso edilizio o di destinazione urbanistica sono stati oggetto di diverse proposte di legge esaminate congiuntamente, nella scorsa legislatura, dalla I Commissione (Affari costituzionali) della Camera (
A.C. 486 e abbinate). Il provvedimento è stato però respinto dall'Assemblea della Camera in seguito all'approvazione, nella
seduta del 28 novembre 2017, di una questione pregiudiziale di costituzionalità.
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Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definiteLa proposta di legge incide su un profilo rientrante nella materia "governo del territorio", che l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni. Il "nucleo duro" della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia (cfr. sentenze n. 303 e n. 362 del 2003)[1]. Al tempo stesso, all'indomani della riforma, la Corte ha messo in evidenza come la materia vada ben oltre questi aspetti, affermando che il governo del territorio "comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti e attività" (cfr. sentenza n. 307 del 2003). L'ambito disciplinato dal Testo unico in materia edilizia è ricompreso per giurisprudenza costante nella competenza concorrente in materia di «governo del territorio» (sentenze n. 196 del 2004, n. 362 e n. 303 del 2003; sentenza n. 233 del 2015). In questo settore, la Corte ha da sempre annoverato molteplici disposizioni dello stesso testo unico tra i principi fondamentali del "governo del territorio" (ex plurimis, sentenze n. 282, n. 272, n. 231 e n. 67 del 2016, n. 259 e n. 167 del 2014, n. 64 del 2013 e n. 309 del 2011). Secondo la giurisprudenza costituzionale, sono da considerarsi, tra gli altri, principi fondamentali della legislazione dello Stato le disposizioni che definiscono le categorie di interventi edilizi perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (sentenza n. 309/2011). Degna di nota anche la sentenza n. 63/2016 della Corte costituzionale, con la quale è stata censurata la legittimità costituzionale di alcune disposizioni della citata legge regionale lombarda n. 12/2005 (introdotte dalla successiva legge regionale n. 2/2015). Secondo la Corte "la normativa regionale illustrata, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, attiene senz'altro al «governo del territorio», cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 272, n. 102 e n. 6 del 2013). Nondimeno, la valutazione sul rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni, richiede di tenere conto, oltre che dell'oggetto, anche della ratio della normativa impugnata e di identificare correttamente e compiutamente gli interessi tutelati, nonché le finalità perseguite (ex plurimis, sentenze n. 140 del 2015, n. 167 e n. 119 del 2014). Il legislatore regionale, nell'esercizio delle sue competenze, qual è quella in materia di «governo del territorio» che qui viene in rilievo, non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione. Da questo punto di vista occorre ribadire che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi» (sentenza n. 195 del 1993). In questi limiti soltanto la regolazione dell'edilizia di culto resta nell'ambito delle competenze regionali. Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all'interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l'accesso al riparto dei luoghi di culto. Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l'effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con l'attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l'effettivo esercizio. Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere che la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell'applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge un'intesa ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost.". Assume, infine, rilievo (con riferimento al regime delle destinazioni d'uso degli immobili) il limite esterno alla materia "governo del territorio" derivante dalla materia della sicurezza, di competenza esclusiva statale ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lett. h), della Costituzione. Ciò in quanto, se nel governo del territorio rientrano gli usi ammissibili del territorio e la localizzazione di impianti o attività, ne restano esclusi i profili legati alla sicurezza degli edifici. Alla luce della finalità della proposta di legge in esame, può assumere anche rilievo il quadro costituzionale delle garanzie della libertà religiosa, definito dagli articoli 8, primo comma, 19 e 20 della Costituzione. In particolare, l'articolo 19 della Costituzione prevede che "tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda, e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume", mentre l'articolo 20 della Costituzione dispone che "il carattere ecclesiatico e il fine di religione d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, nè di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività".
Rileva in materia anche la giurisprudenza costituzionale sul principio di laicità, che la Corte costituzionale annovera tra i principi supremi dell'ordinamento costituzionale. Tale principio supremo trova fondamento negli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, ed implica la garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. In tale quadro, la Corte costituzionale ha ricordato (sentenza n. 195 del 1993) come la realizzazione dei servizi religiosi ha per effetto di rendere concretamente possibile, e comunque di facilitare, le attività di culto, che rappresentano un'estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa espressamente enunciata nell'art. 19 della Costituzione. Più di recente la Corte costituzionale ha ribadito (sentenza n. 67 del 2017) come l'ordinamento repubblicano sia contraddistinto dal principio di laicità, da intendersi, secondo l'accezione che la stessa giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all'esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità. […] Altresì consolidato è il principio per cui la disponibilità di spazi adeguati ove «rendere concretamente possibile, o comunque […] facilitare, le attività di culto» (sentenza n. 195 del 1993) rientra nella tutela di cui all'art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in pubblico o in privato il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume (sentenza n. 63 del 2016). Da ultimo, con la sentenza n. 254 del 2019 la Corte costituzionale ha sottolineato che "la libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l'uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo – in applicazione del citato principio di laicità – esso implica che le amministrazioni competenti prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all'esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell'accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993)". Nella medesima pronuncia la Corte (punto 6.3 del considerato in diritto) pone in evidenza il carattere assoluto della previsione, giudicata incostituzionale, dell'art. 72, co. 2, della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (che subordinava l'installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all'esistenza del piano delle attrezzature religiose) in ragione del fatto che essa riguardava "indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e potenzialmente irrilevante". |