Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni
Titolo: Promozione del regolare soggiorno e dell'inclusione sociale e lavorativa degli stranieri non comunitari
Riferimenti: AC N.13/XVIII
Serie: Progetti di legge   Numero: 132
Data: 10/04/2019
Organi della Camera: I Affari costituzionali


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Promozione del regolare soggiorno e dell'inclusione sociale e lavorativa degli stranieri non comunitari

10 aprile 2019
Schede di lettura


Indice

Contenuto|La dimensione del fenomeno migratorio|Relazioni allegate o richieste|Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite|Compatibilità con la normativa dell'Unione europea (a cura dell'Ufficio rapporti con l'Unione europea)|Profili di diritto comparato (a cura del Servizio Biblioteca-Ufficio legislazione straniera)|


Contenuto

La proposta di legge A.C. 13, di iniziativa popolare, è stata presentata alla Camera nella XVII legislatura (il 27 ottobre 2017); successivamente è stata mantenuta all'ordine del giorno nella XVIII legislatura ed assegnata alla competente Commissione in sede referente ai sensi dell'articolo 107, comma 4, del Regolamento della Camera. 

La proposta interviene interviene, sotto diversi profili, sulla disciplina legislativa in materia di immigrazione dettata, in primo luogo, dal testo unico immigrazione con la finalità - evidenziata nella relazione illustrativa - di "superare l'attuale modello di gestione dell'immigrazione in Italia".  Il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (TU immigrazione  di cui al D.Lgs. 286/1998) è stato adottato in attuazione alla delega contenuta nella c.d. legge Turco-Napolitano (articolo 47, comma 1) e costituisce ancora oggi una delle fonte primarie della materia. In esso sono definiti i principi della vigente disciplina sulle politiche migratorie fondati in particolare su: programmazione dei flussi migratori; contrasto immigrazione clandestina; integrazione stranieri regolari. 

Secondo la relazione illustrativa, i punti cardine della proposta legislativa si fondano sull'introduzione di un permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione attraverso l'attività d'intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari; la reintroduzione del sistema dello  sponsor  già previsto dalla legge Turco-Napolitano;  la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare allorché sia dimostrabile l'esistenza in Italia della disponibilità di un'attività lavorativa o di comprovati legami familiari o l'assenza di legami concreti con il Paese di origine, sul modello della Spagna e della Germania; un sistema d'accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati che sia diffuso su tutto il territorio con piccoli numeri e che punti a rafforzare il legame tra territorio, accoglienza e inclusione; nuove misure di inclusione attraverso il lavoro di richiedenti asilo e rifugiati; l'introduzione di nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali dei cittadini stranieri; l'elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo; l'abrogazione del reato di clandestinità. 
 

La proposta di legge modifica l'attuale sistema di gestione delle politiche migratorie, basato sulla programmazione dei flussi di ingresso dei cittadini stranieri, proponendo l'abrogazione delle quote di ingresso definite annualmente, sulla base delle previsioni di richiesta di lavoro, con un apposito decreto del Presidente del Consiglio, il c.d. decreto flussi (articolo 4).

In luogo delle quote annuali vengono introdotti due nuovi canali di ingresso (articolo 1).

Il primo è basato sull'attività di intermediazione svolta da una serie di soggetti istituzionali autorizzati (quali i centri per l'impiego, camere di commercio ecc.) che si impegnano a promuovere l'incontro tra offerta di lavoro da parte di cittadini stranieri e richiesta di lavoro da parte di datori di lavoro in Italia. Il lavoratore selezionato da tali soggetti è autorizzato all'ingresso nel Paese e gli è rilasciato un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro.

Il secondo canale è costituito dalla prestazione di garanzia per l'accesso al lavoro (la c.d. sponsorizzazione) da parte di soggetti pubblici (quali regioni, enti locali, associazioni no-profit, sindacati) e privati, finalizzato all'inserimento nel mercato del lavoro del lavoratore straniero con la garanzia di risorse finanziarie adeguate e la disponibilità di un alloggio per il periodo di permanenza sul territorio, agevolando in primo luogo quanti abbiano già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o abbiano frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale.

E' prevista, inoltre, una terza possibilità per gli stranieri già presenti, a qualunque titolo, nel territorio del Paese. A costoro, in presenza di condizioni che ne dimostrino l'effettivo radicamento e integrazione nel Paese, è riconosciuto il permesso di soggiorno per comprovata integrazione di due anni. Il permesso può essere rinnovato esclusivamente se l'interessato ha svolto nel frattempo una attività lavorativa o ha partecipato a misure di politica attiva del lavoro.

Viene introdotta (articolo 5) anche la possibilità di convertire il permesso di soggiorno per richiesta di asilo nel permesso di soggiorno per comprovata integrazione.

Completano la proposta di legge una serie di misure volte a promuovere l'effettiva integrazione sociale degli stranieri.

In primo luogo, viene riconosciuto allo straniero l'elettorato attivo e passivo nelle elezioni e referendum locali (articolo 2).

In secondo luogo, si interviene sulla disciplina dei contributi versati dai lavoratori extracomunitari che cessano l'attività lavorativa in Italia prevedendo che possano godere dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati al momento della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, anche in deroga al requisito dell'anzianità contributiva minima di venti anni. Inoltre, viene eliminato il limite anagrafico per la pensione di vecchiaia (articolo 3).

Si provvede, inoltre, ad estendere l'accesso all'assistenza sanitaria  in favore di tutti i minori stranieri, a prescindere dalla regolarità del soggiorno,  e agli stranieri indigenti  (articolo 6) e a garantire l'accesso alle prestazioni di assistenza sociale a tutti gli stranieri in possesso di regolare permesso di soggiorno (articolo 7).

Infine, la proposta di legge in esame abroga il reato di ingresso e soggiorno illegali, di cui all'articolo 10-bis TU, fermo restando l'applicazione delle norme vigenti in materia di respingimenti es espulsioni (articolo 8).

Si ricorda che la I Commissione della Camera ha avviato, nella seduta del 3 aprile 2019, un'indagine conoscitiva in materia di politiche dell'immigrazione, diritto d'asilo e gestione dei flussi migratori.
Nel programma dell'indagine si richiama l'esigenza di affrontare, tra le altre, le tematiche della programmazione dei flussi, della regolarizzazione e l'ingresso controllato dei migranti, dell'apertura canali regolari di ingresso per lavoro, per ricerca lavoro, per accesso al diritto di asilo, nonché della realizzazione di canali umanitari in favore dei soggetti che hanno bisogno di protezione o di  resettlement, evidenziando come l'indagine possa costituire l'occasione per una verifica circa l'applicazione delle previsioni normative in termini di programmazione dei flussi annuali di ingresso, nonché per evidenziare buone prassi e criticità. Al riguardo viene ricordato che il Testo unico per l'immigrazione prevede di programmare quote di ingresso per migranti. L'analisi del fabbisogno oggettivo nazionale appare dunque utile - secondo quanto evidenziato nel programma dell'indagine - al fine di meglio calibrare queste quote e superare le regolarizzazioni fatte dai passati Governi con strumenti ordinari ed alternativi alla domanda di asilo (spesso fatta in maniera strumentale) per avere regolare accesso al territorio nazionale. 


Permessi di soggiorno per ricerca di lavoro e per comprovata integrazione. Sponsorizzazione (art. 1)

L'articolo 1 introduce nel testo unico due nuove tipologie di permessi di soggiorno (permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di lavoro e permesso di soggiorno per comprovata integrazione). Inoltre, disciplina l'attività di intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri e ripristina la prestazione di garanzia per l'accesso al lavoro. A tal fine, introduce 3 nuovi articoli al TU immigrazione. Le disposizioni sono collegate con l'abolizione delle quote di ingresso di cui all'articolo 4 (vedi oltre).

I due nuovi permessi di soggiorni integrano la tipologia di permessi disciplinati dalla normativa vigente, tra cui si ricordano il permesso di soggiorno per:
  • lavoro;
  • lavoro autonomo;
  • lavoro stagionale;
  • studio;
  • ricongiungimento familiare;
  • protezione internazionale;
  • richiesta asilo.
 Si ricorda, in proposito, che il D.L. 113/2019 (art. 1) ha abrogato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendolo con permessi di soggiorno speciali rilasciati per particolari motivi:
  • per cure mediche;
  • per motivi di protezione sociale per le vittime di violenza o di grave sfruttamento;
  • per le vittime di violenza;
  • per situazioni di contingente ed eccezionale calamità;
  • in casi di particolare sfruttamento del lavoratore straniero;
  • per atti di particolare valore civile;
  • per i casi di non accoglimento della domanda di protezione internazionale e al contempo di non sottoponibilità dello straniero ad espulsione.

Permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di lavoro

Il nuovo articolo 22-bis del TU - introdotto dall'art. 1 della pdl in esame - istituisce il permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di lavoro, con l'obiettivo di favorire l'inserimento lavorativo di stranieri non comunitari nel sistema produttivo nazionale e a contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina (comma 1). Il permesso di soggiorno è rilasciato dallo sportello unico per l'immigrazione agli stranieri selezionati dai soggetti autorizzati all'attività di intermediazione tra datori di lavoro italiani e cittadini stranieri.

Il comma 2 del nuovo articolo 22-bis del D.Lgs. 286/1998 autorizza i seguenti soggetti (purché dotati di idonee sedi all'estero) allo svolgimento dell'attività di intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari:

  • i centri per l'impiego costituiti dalle regioni e province autonome, le agenzie per il lavoro e gli altri soggetti autorizzati allo svolgimento delle suddette attività, iscritti in apposito Albo (ex artt. 4 e 6 del D.Lgs. 276/2003), i servizi per il lavoro accreditati presso le regioni e province autonome, iscritti nell'Albo nazionale dei soggetti accreditati istituito dall'ANPAL (ex art. 12 del D.Lgs. 150/2015), nonché i fondi paritetici interprofessionali nazionali (che finanziano percorsi formativi o di riqualificazione professionale per soggetti disoccupati o inoccupati) (lettere a), b) e c);
  • le rappresentanze diplomatiche e consolari all'estero (lett. d);
  • le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura (lett. e);
  • le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) e le associazioni e gli enti che svolgono attività a favore degli immigrati iscritti nell'apposito registro (di cui all'art. 42 del medesimo D.Lgs. 286/1998), autorizzate dal Ministro del lavoro con apposito decreto (di cui al comma 9 dell'articolo in esame) (lett. f).

Tali soggetti presentano allo sportello unico per l'immigrazione della provincia in cui sono ubicati una richiesta nominativa per l'autorizzazione al rilascio del permesso temporaneo per ricerca di lavoro a stranieri da essi selezionati, al fine di consentire lo svolgimento di colloqui volti al collocamento presso datori di lavoro residenti nel territorio nazionale (comma 3). La richiesta deve essere accompagnata da un'idonea documentazione recante:

  • la disponibilità in capo al lavoratore di mezzi economici o di altri mezzi di sussistenza idonei per la durata del soggiorno e per l'eventuale ritorno nel Paese di provenienza;
  • una dichiarazione dello straniero che lo impegni a rimpatriare in caso di mancata stipulazione di un contratto di lavoro entro il termine di durata del permesso di soggiorno.

Inoltre, può essere allegata alla richiesta una dichiarazione del livello di conoscenza della lingua italiana da parte dello straniero (comma 4).

Lo sportello unico per l'immigrazione rilascia, entro 60 giorni dalla richiesta, previo parere del questore, l'autorizzazione al permesso di soggiorno la cui durata non può essere superiore a 12 mesi. Lo stesso sportello unico trasmette la documentazione, compreso il codice fiscale, ai competenti uffici consolari, ove possibile in via telematica (comma 5).

Il permesso di soggiorno non può essere rilasciato e, se rilasciato, viene revocato, nei seguenti casi (comma 6):

  • condanna del datore di lavoro negli ultimi 5 anni, anche con sentenza non definitiva per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, trasporto di stranieri nel territorio dello Stato (art. 22, comma 5-bis TU);
  • falsificazione dei documenti presentati ai fini del rilascio del permesso di soggiorno (art. 22, comma 5-ter TU);
  • nel caso in cui lo straniero sia considerato una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

 Lo straniero richiede il visto al consolato italiano presso lo Stato di origine o di stabile residenza. Successivamente, entro 8 giorni dall'ingresso in Italia, sottoscrive presso lo sportello unico per l'immigrazione il contratto di soggiorno per la ricerca del lavoro con uno degli intermediari autorizzati di cui sopra (comma 7).

Le informazioni anagrafiche relative ai lavoratori ai quali è concesso il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro sono trasmesse dalle questure all'INPS, tramite collegamenti telematici. L'INPS provvede ad inserire le informazioni nell'Archivio anagrafico dei lavoratori extracomunitari, disciplinato dall'articolo 22, comma 9, TU (comma 8).

I requisiti minimi di solidità economica e organizzativa dei soggetti autorizzati all'attività d'intermediazione saranno fissati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Lo stesso Ministro istituisce un'apposita sezione dell'Albo informatico delle agenzie per il lavoro, riservato agli intermediari autorizzati (comma 9).

Il comma 10 conferisce le seguenti ulteriori funzioni all'ANPAL (l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che coordina le politiche del lavoro per le persone in cerca di occupazione e la ricollocazione dei soggetti disoccupati):

  • definizione degli standard di servizio in relazione alle attività dei soggetti autorizzati all'attività di intermediazione tra datori di lavoro italiani e cittadini stranieri non comunitari (di cui precedente comma 2), con esclusione delle Agenzie per il lavoro (lett. a);
  • monitoraggio e valutazione delle attività previste dal nuovo art. 22-bis, disponendo che, a tal fine, l'ANPAL abbia accesso a tutti i dati amministrativi e statistici detenuti dalle amministrazioni e dagli enti pubblici (lett. b);
  • redazione, almeno annuale, di rapporti sullo stato di attuazione delle singole misure previste dal nuovo art. 22-bis (lett. c).

Il comma 11 dispone che l'ANPAL provvede allo svolgimento delle suddette funzioni nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Prestazione di garanzia per l'accesso al lavoro

 

Il nuovo articolo 22-ter TU - introdotto dall'art. 1 della pdl in esame - ripristina il sistema della prestazione di garanzia per l'accesso al lavoro (c.d. sponsor) da parte di soggetti pubblici e privati, finalizzato all'inserimento nel mercato del lavoro del lavoratore straniero con la garanzia di risorse finanziarie adeguate e la disponibilità di un alloggio per il periodo di permanenza sul territorio, agevolando in primo luogo quanti abbiano già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o abbiano frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale.

Si tratta di un sistema già previsto dall'articolo 23 del Testo unico (riprodotto pressoché integralmente dalla proposta in esame) e successivamente soppresso dalla legge 189/2002 (la c.d. legge Bossi-Fini) e sostituito con la previsione di attività di istruzione e formazione professionale nei Paesi di origine che costituiscono titoli di prelazione per l'accesso al lavoro dei cittadini stranieri. 

L'attuale art. 23 TU prevede che nell'ambito di programmi approvati dal Ministero del lavoro e dell'istruzione, in collaborazione con diversi soggetti, quali regioni, organizzazioni imprenditoriali, enti operanti nel settore dell'immigrazione, possono essere previste attività di formazione professionale e istruzione di  lavoratori stranieri nei Paesi di origine, al fine sia dell'inserimento lavorativo in Italia, sia dello sviluppo delle attività produttive nel Paese di origine. Ogni anno nel decreto flussi (vedi art. 4 della pdl in esame) è riservata una quota di ingresso per i lavoratori che hanno frequentato tali corsi di formazione o istruzione. Nell'ultimo decreto (DPCM 12 marzo 2019)  sono stati ammessi in Italia 500 cittadini stranieri non comunitari residenti all'estero (su 30.850 in totale), che abbiano completato programmi di formazione ed istruzione nei Paesi d'origine ai sensi dell'art. 23 TU.

I soggetti autorizzati a prestare garanzia sono:

  • i cittadini italiani e stranieri con permesso per soggiornanti di lungo periodo in Italia;
  • gli enti locali,
  • le associazioni professionali e sindacali,
  • gli enti e le organizzazioni del volontariato operanti nel settore dell'immigrazione da almeno tre anni;
  • le associazioni e gli enti che svolgono attività a favore degli immigrati iscritti nel registro istituito presso la Presidenza del Consiglio ai sensi dell'articolo 42 TU.

Con decreto dei Ministri dell'interno e del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro 3 mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono definiti i requisiti patrimoniali e organizzativi necessari per poter prestare l'attività di garanzia, le modalità di rilascio della prestazione di garanzia, il numero massimo di sponsorizzazioni che ogni singolo soggetto può effettuare in un anno e le agevolazioni nei confronti degli stranieri che hanno già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o hanno frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale. Il medesimo decreto può istituire un elenco degli enti e delle associazioni ammessi a prestare la garanzia.

I soggetti autorizzati presentano la richiesta di sponsorizzazione alla questura della provincia di residenza e devono dimostrare di poter effettivamente assicurare allo straniero un alloggio, la copertura dei costi per il sostentamento e l'assistenza sanitaria per la durata del permesso di soggiorno. Una volta accolta la richiesta viene rilasciata l'autorizzazione all'ingresso dello straniero che consente di ottenere, previa iscrizione alle liste di collocamento, un permesso di soggiorno per un anno a fini dell'inserimento nel mercato del lavoro.

 

Permesso di soggiorno per comprovata integrazione

 

Il nuovo articolo 22-quater - introdotto dall'art. 1 della pdl in esame - istituisce il permesso di soggiorno per comprovata integrazione che può essere rilasciato allo straniero già presente nel territorio dello Stato a qualsiasi titolo che dimostri di "essere radicato nel territorio nazionale e integrato nel tessuto civile, sociale e ordinamentale del Paese".

I parametri per valutare il livello di integrazione individuati dalla disposizione in esame sono i seguenti:

  • l'immediata disponibilità al lavoro;
  • il grado di conoscenza della lingua italiana;
  • la frequentazione di corsi di formazione professionale;
  • i legami familiari o altre circostanze di fatto o comportamenti idonei a dimostrare un legame stabile con il territorio.

E' esclusa la concessione del permesso di soggiorno in presenza di procedimenti penali per reati particolarmente gravi.

Il permesso ha una durata di due anni ed è rinnovabile a condizione che lo straniero abbia stipulato contratti di lavoro subordinato della durata complessiva di almeno un anno nel corso dei due anni precedenti la richiesta di rinnovo.

In assenza di un contratto, il permesso è ugualmente rinnovato se lo straniero dimostri:

  • di aver reso la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego, di cui all'articolo 19 del D.Lgs. 150/2015;
  • di aver sottoscritto il patto di servizio personalizzato e le conseguenti obbligazioni relative alle attività da svolgere, tra le quali i laboratori di orientamento e i corsi di formazione o riqualificazione professionale, di cui all'articolo 20 del medesimo D.Lgs. 150/2015;
  • di non essersi sottratto, senza giustificato motivo, alle convocazioni dei centri per l'impiego e di non avere rifiutato le congrue offerte di lavoro, di cui all'articolo 25 del D.Lgs. 150/2015 e al DM 10 aprile 2018.

Il rilascio del permesso di soggiorno per comprovata integrazione è effettuato con le stesse modalità previste per il rinnovo del permesso di soggiorno ordinario.

Nel caso ricorrano una delle condizioni viste sopra in proposito dell'art. 22-bis, comma 6, il permesso di soggiorno non viene rilasciato e, se rilasciato, viene revocato.

Infine, si prevede che i soggetti che gestiscono i progetti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) possono essere accreditati a erogare i servizi al lavoro e d'intermediazione, negli ambiti regionali di riferimento, secondo i criteri definiti dalle singole regioni e province autonome ai sensi dell'articolo 12 del D.Lgs. 150/2015.


Diritto di voto degli stranieri nelle elezioni locali (art. 2)

L'articolo 2 riconosce agli stranieri l'elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative "e nelle altre elezioni locali", e il diritto di partecipare ai referendum locali. A tal fine viene introdotto un comma 4-bis all'articolo 2 del TU immigrazione. Il diritto è riconosciuto esclusivamente agli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo (comma 1).

La materia del soggiorno di lungo periodo degli stranieri provenienti da Paesi terzi è disciplinata dalla direttiva 2003/109/CE, recepita nell'ordinamento italiano dal D.Lgs. 3/2007 che ha novellato il testo unico in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998, artt. 9 e 9-bis).

I cittadini di Paesi terzi, soggiornanti legalmente e ininterrottamente per cinque anni nel territorio di uno Stato membro, acquistano lo status di soggiornante di lungo periodo e hanno diritto ad un permesso di soggiorno speciale detto "permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo", che ha sostituito la "carta di soggiorno", dal contenuto analogo, prevista in precedenza.

Ai fini del rilascio del permesso lo straniero deve dimostrare la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio.

Lo status di soggiornante di lungo periodo è permanente, salva revoca o perdita a date condizioni ed è rilasciato entro novanta giorni dalla richiesta. Esso reca con sé alcuni diritti, circa la parità di trattamento nell'esercizio di un'attività lavorativa, la tutela contro l'allontanamento, il soggiorno negli altri Stati membri, il ricongiungimento con i familiari.

Il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è rilasciato anche agli stranieri titolari dello status di protezione internazionale.

Il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è subordinato al superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana, tranne nel caso di permesso di soggiorno rilasciato per lo svolgimento di attività di ricerca e nel caso di straniero titolare di protezione internazionale.

Gli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE rilasciato a altro Stato membro può chiedere di soggiornare sul territorio nazionale per un periodo superiore di 3 mesi  e per motivi di lavoro, studio, formazione o per altro scopo lecito (art. 9- bis TU).
 
Potrebbe essere valutata l'opportunità di chiarire se la disposizione si applichi esclusivamente ai possessori di soggiorno UE di lungo periodo rilasciati dalle autorità italiane (art. 9 TU) od anche quelli rilasciati da altro Paese UE (art. 9-bis).

Il comma 2 dispone in ordine alla modifica del regolamento di attuazione del TU (DPR 394/1999) da effettuare entro 3 mesi dalla entrata in vigore del provvedimento in esame al fine di rendere effettivo l'esercizio del diritto di voto.

 Preliminarmente, occorre tenere presente che la disposizione, dal momento che si inserisce nel testo unico immigrazione, non si applica ai cittadini UE. Infatti, le norme del testo unico si applicano, salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e agli apolidi (art. 1, comma 1, TU). I cittadini dell'Unione europea, com'è noto, hanno diritto di voto attivo e passivo alle elezioni del Parlamento europeo e a quelle comunali, alle stesse condizioni previste per i cittadini, con l'unica differenza che non possono ricoprire la carica di sindaco e di vicesindaco.

Per un inquadramento di carattere generale si ricorda che l'articolo 10 della Costituzione prevede, al secondo comma, che la condizione giuridica dello straniero sia regolata dalla legge in conformità alle norme ed ai trattati internazionali.
Ai sensi di tale disposizione la condizione giuridica dello straniero risulta tutelata da una riserva di legge così detta "rinforzata": è infatti previsto che le norme riguardanti lo status dello straniero debbano essere emanate con legge che a sua volta deve conformarsi a quanto previsto dalle norme internazionali generali e dai trattati stipulati dall'Italia.
Oltre a tale tutela riguardante il regime delle fonti destinate a disciplinare la condizione giuridica dello straniero, la Costituzione offre ai cittadini stranieri presenti nel territorio del nostro Paese anche una tutela di carattere sostanziale.
Nella sua giurisprudenza la Corte costituzionale non ha attribuito particolare valore discriminante, ai fini della definizione della situazione giuridica degli stranieri, al tenore letterale delle singole disposizioni costituzionali, ritenendo che il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. sia pienamente applicabile anche agli stranieri quando si tratti di stabilire la titolarità in capo a tali soggetti dei diritti fondamentali.
La Corte ha tuttavia ammesso che la posizione dello straniero possa essere legittimamente differenziata per quanto riguarda le modalità di godimento dei diritti fondamentali. È quindi ragionevole, a parere della Corte, che la legge disponga, valutata la particolarità della situazione, un trattamento diverso per lo straniero, che non costituisce una illegittima discriminazione ai suoi danni, poiché la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude che nelle situazioni concrete possano presentarsi, fra soggetti eguali, differenze di fatto che il legislatore può regolare con una discrezionalità che è limitata unicamente dalla razionalità del suo apprezzamento (sentenze 120/1967, 104/1969, 503/1987).


Per quanto riguarda il riconoscimento agli stranieri del diritto di voto, la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale fatta a Strasburgo nel 1992 tra i Paesi membri del Consiglio d'Europa (ratificata dall'Italia con legge 8 marzo 1994, n. 203), garantisce agli stranieri residenti nei Paesi aderenti una serie di diritti civili e politici: in particolare con il capitolo A della Convenzione si impegnano le Parti a riconoscere agli stranieri, alle stesse condizioni previste per i cittadini, le libertà di espressione, di riunione e di associazione, ivi compresa quella di costituire sindacati e affiliarsi ad essi, ferme restando le eventuali limitazioni per ragioni attinenti alla sicurezza dello Stato, alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e ad altri casi di particolare rilievo.

L'Italia si è allo stato impegnata ad applicare, oltre al capitolo A, anche il capitolo B della Convenzione che impegna i Paesi aderenti a consentire la creazione di organi consultivi in seno alle collettività locali comprendenti un numero significativo di residenti stranieri, ai quali deve essere data la possibilità di discutere sui problemi di loro interesse per il tramite di rappresentanti eletti o nominati da gruppi associati.

Relativamente al capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 5 febbraio 1992, che afferma che «ogni Stato contraente si impegna, salvo quanto stabilito dalla disposizione di cui all'articolo 9, paragrafo 1, a concedere a ogni residente straniero il diritto di voto e di eleggibilità ad elezioni delle autorità locali, posto che egli soddisfi i medesimi requisiti giuridici che si applicano ai cittadini e, inoltre, che sia legalmente e abitualmente residente in quello Stato nei cinque anni precedenti le elezioni», l'Italia si è avvalsa della facoltà (prevista dalla stessa Convenzione) di non aderire a tale parte dell'accordo ritenendosi che l'applicazione di essa avrebbe comportato la modificazione di norme dell'ordinamento interno anche di ordine costituzionale.

Va peraltro ricordato che un riferimento a tale possibilità (pur se, allo stato, non operativo) è tuttora presente nell'ordinamento: il testo unico sull'immigrazione, all'art. 9, co. 4, dispone che gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e titolari della carta di soggiorno possono partecipare alla vita pubblica locale, "esercitando anche l'elettorato quando previsto dall'ordinamento" ed in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione di Strasburgo del 1992.

Relativamente all'impatto di tali previsioni nel vigente assetto costituzionale è stato posto in rilievo, in talune occasioni, come le attuali previsioni costituzionali non consentirebbero l'estensione agli stranieri del riconoscimento dei diritti propriamente politici, il cui esercizio deve pertanto intendersi riservato ai soli cittadini italiani. Si tratta in particolare del diritto di elettorato attivo e passivo (art. 48 Cost.), della facoltà di richiedere i referendum previsti dagli art. 75 e 138 della Costituzione, del diritto di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50 Cost.), del diritto all'accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici (art. 51 Cost.).
Talune interpretazioni hanno invece isolato, all'interno dei diritti politici, quelli direttamente afferenti all'esercizio della sovranità ex art. 1 Cost. – primo fra i quali l'elettorato attivo e passivo alle elezioni politiche – i quali soltanto risulterebbe impossibile estendere ai cittadini stranieri senza un intervento di revisione costituzionale. Secondo questa tesi, per attribuire il voto nelle elezioni locali agli stranieri residenti in Italia sarebbe dunque sufficiente un intervento legislativo ordinario.
Va comunque ricordato che - con modifiche normative intervenute negli anni -  è stato attribuito ai cittadini stranieri appartenenti ai Paesi della Comunità europea il diritto di elettorato passivo per le elezioni dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento europeo La legge 18 gennaio 1989, n. 9 ha modificato a tal fine gli artt. 4 e 6 della legge 24 gennaio 1979, n. 18, che disciplina l'elezione dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento europeo. Al tempo dell'entrata in vigore di tale disciplina, l'Italia era l'unico tra i Paesi comunitari ad ammettere tale possibilità, che quindi era prevista al di fuori da qualsiasi condizione di reciprocità. Attualmente la possibilità di elettorato attivo e passivo dei cittadini comunitari in qualsiasi Paese dell'Unione in occasione dell'elezione del Parlamento europeo è stabilita per tutti gli Stati membri sulla base del Trattato dell'Unione europea.
L'articolo 19 (ex art. 8 B), del Trattato che istituisce la Comunità europea prevede infatti che i cittadini dell'Unione residenti in un Paese membro di cui non siano cittadini hanno il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali ed alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza, alle stesse condizioni previste per i cittadini di questo Stato.
La direttiva 94/80/CEE del 19 dicembre 1994 ha stabilito le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell'Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza.
La direttiva si pone in diretta attuazione del principio contenuto nel citato art. 19 del Trattato ed è essenzialmente finalizzata a sopprimere la condizione del possesso della cittadinanza, richiesta dalla maggioranza dei Paesi membri per l'esercizio del diritto di voto attivo e passivo alle elezioni municipali, prevedendo a tal proposito che i cittadini comunitari possano esercitare il diritto di voto nei Paesi nell'Unione alle stesse condizioni previste per i cittadini del Paese ospitante anche per quanto concerne la disciplina in materia di età per l'esercizio del diritto di voto, di capacità elettorale, di cumulo dei mandati, di iscrizione nelle liste elettorali, di residenza etc. La direttiva prevede inoltre che lo straniero comunitario eserciti il diritto di voto nel Paese ospitante solo qualora manifesti una esplicita volontà in questo senso e dà facoltà agli stati membri di riservare l'eleggibilità alla carica di sindaco e vicesindaco ai propri cittadini: è precisato infine che gli enti locali italiani cui si applicherà la nuova disciplina sono il comune e la circoscrizione.
La legge 6 febbraio 1996, n. 52 (legge comunita ria 1994) ha delegato, all'art. 11, il Governo ad emanare decreti legislativi volti alla concreta attuazione della direttiva.
In attuazione di tale delega è stato emanato il decreto legislativo 12 aprile 1996, n. 197, il quale disciplina le modalità per la presentazione al sindaco, da parte dei cittadini di uno Stato membro dell'Unione che intendano partecipare alle elezioni per il rinnovo degli organi del comune e della circoscrizione, della domanda di iscrizione nella lista elettorale aggiunta, istituita presso lo stesso comune, nonché le modalità per la presentazione della propria candidatura a consigliere comunale e circoscrizionale. Viene invece esclusa la possibilità per lo straniero comunitario di candidarsi alla carica di sindaco.

Il riconoscimento del diritto di voto degli stranieri provenienti da paesi extra-UE alle elezioni locali è stato oggetto negli anni passati di alcuni interventi da parte di regioni ed enti locali, su cui si è espressa anche la Corte costituzionale.

In particolare, il diritto di voto nei referendum regionali agli immigrati è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale che ha riconosciuto nell'area delle possibili determinazioni delle regioni la scelta di coinvolgere in altre forme di consultazione o di partecipazione soggetti che comunque prendano parte consapevolmente e con almeno relativa stabilità alla vita associata, anche a prescindere dalla titolarità del diritto di voto o anche dalla cittadinanza italiana (Sentenza 29 novembre - 6 dicembre 2004, n. 379, con cui la Corte costituzionale afferma la legittimità dell'art. 15, co, 1, dello statuto dell'Emilia-Romagna che garantisce a tutti i residenti, compresi gli immigrati, il diritto di voto nei referendum regionali).

Parimenti, la Consulta ha dichiarato legittima la facoltà dello statuto regionale  di promuovere l'estensione del diritto di voto, stante il carattere di natura culturale e politica e non certo normativa di enunciazioni statutarie di questo tipo. La Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 2004 ha stabilito che va dichiarata inammissibile, tra le altre, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6, dello statuto della regione Toscana: secondo il quale «la Regione promuove, nel rispetto dei principi costituzionali, l'estensione del diritto di voto agli immigrati».

In taluni casi, invece, a fronte di modifiche statutarie comunali (es. comune di Genova o comune di Forlì) che hanno disposto l'estensione ai cittadini extracomunitari dell'elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e circoscrizionali il Governo ha annullato la delibera anche a seguito delle pronunce del Consiglio di Stato che ha riconosciuto (si veda il caso di Genova) la sussistenza dei presupposti per l'annullamento dell'atto (in tale occasione l'atto di annullamento è stato adottato con il D.P.R. 17 agosto 2005. Il parere del Consiglio di Stato-Sez. I è il n. 9771/04 del 16 marzo 2005).
Il Consiglio di Stato aveva infatti evidenziato che il richiamo previsto dall'art. 9 del testo unico immigrazione (v. supra), contenuto nelle modifiche statutarie, non varrebbe a rendere in tal modo operante la Convenzione che non è stata ratificata proprio in relazione alla sezione riguardante il diritto di voto: è invece necessario che il legislatore statale indichi «almeno i criteri di base per l'esercizio della normazione secondaria». Si consentirebbe inoltre una varietà di scelte, anche in relazione all'individuazione degli aventi diritto, che condurrebbe a vanificare la prevista competenza esclusiva dello Stato, che «persegue finalità di uniformità almeno tendenziale della disciplina sul territorio nazionale». Se queste valutazioni hanno condotto ad escludere la competenza statutaria in riferimento all'estensione del diritto di voto per l'elezione del consiglio comunale.

Si ricorda infine che disposizioni sul riconoscimento allo straniero dell'elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative sono contenute in proposte di legge presentate, nella legislatura in corso, presso il Senato (pdl costituzionale A.S. 359 Rampi) e presso la Camera (A.C. 1076 Quartapelle Procopio, volta alla ratifica ed esecuzione del capitolo C della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992)


Liquidazione della prestazione pensionistica di vecchiaia (art. 3)

L'articolo 3 interviene sulla disciplina dei contributi versati dai lavoratori extracomunitari che cessano l'attività lavorativa in Italia.

 In particolare, novellando l'art. 22, comma 13, TU (vedi infra), la disposizione in esame:

  • conferma che i lavoratori extracomunitari (con contratto di lavoro diverso da quello stagionale) che cessano l'attività lavorativa in Italia e lasciano il territorio nazionale conservano i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e possono goderne, indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità, al momento della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, anche in deroga al requisito dell'anzianità contributiva minima di venti anni;
  • elimina il riferimento, attualmente contenuto nel richiamato comma 13, al perfezionamento del requisito anagrafico per il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia, fissato, dal 2019, a 67 anni (da adeguare alla speranza di vita);
    l'eliminazione del riferimento a tale età operata con la novella in questione sembrerebbe attribuire ai superstiti il diritto alla pensione anche in caso di decesso anteriore al compimento dell'età anagrafica richiesta   per la pensione di vecchiaia, a differenza di quanto attualmente previsto dalla circ. INPS 45/2003 (vedi infra)
  • introduce la facoltà per i medesimi soggetti di richiedere la liquidazione:
    • dei contributi che risultino versati in suo favore presso forme di previdenza obbligatoria nei soli casi in cui la materia sia regolata da accordi o da convenzioni internazionali;
    • dell'80% dei contributi che risultino versati qualora optino per un definitivo rientro nel Paese d'origine nell'ambito di progetti di rimpatrio volontario assistito
 
Sulla base del combinato disposto del richiamato art. 22, c. 13, del D.Lgs. 286/1998 (come modificato dall'art. 18 della L. 189/2002), della circolare INPS 45/2003 e della circolare INPS 35/2012 (volta ad armonizzare la disciplina in materia previdenziale riferita a taluni istituti al D.L. 201/2011), i lavoratori stranieri assunti dopo il 1° gennaio 1996 (che hanno diritto alla liquidazione della pensione di vecchiaia con il sistema contributivo), in caso di rimpatrio, possono percepire la pensione di vecchiaia a 67 anni di età (da adeguare alla speranza di vita), a prescindere dalla maturazione del requisito contributivo (dunque, anche se hanno meno di 20 anni di contribuzione). I lavoratori stranieri assunti prima del 1996 (che hanno diritto alla liquidazione della pensione di vecchiaia con il sistema retributivo o misto) possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia a 67 anni di età (da adeguare alla speranza di vita) con 20 anni di contribuzione.
Per quanto riguarda la pensione ai superstiti, la richiamata circolare INPS 45/2003 dispone che questa:
  • non spetta nel caso in cui il decesso sia anteriore al compimento dell'età anagrafica richiesta per la pensione di vecchiaia, considerato che la posizione contributiva deve ritenersi efficace solo al raggiungimento della predetta età;
  • ricorrendo le condizioni previste dalle disposizioni vigenti per la generalità dei lavoratori, spetta nel caso di decesso verificatosi successivamente al compimento della suddetta età.

Abolizione delle quote di ingresso (art. 4)

L'articolo 4 reca l'abolizione delle quote annuali di ingresso degli stranieri. A tal fine viene abrogato il comma 4 dell'articolo 3 del TU immigrazione che prevede appunto l'individuazione di quote annuali massime di lavoratori da ammettere nel territorio nazionale con un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (comma 1, lett. a). La disposizione va coordinata con l'introduzione dei nuovi canali di accesso indicati dall'articolo 1 (vedi sopra).

 

Nel nostro ordinamento, l'immigrazione dei cittadini stranieri non appartenenti all'Unione europea è regolata secondo il principio della programmazione dei flussi. Ogni anno il Governo, sulla base della necessità di manodopera interna, stabilisce il numero di stranieri che possono entrare nel nostro Paese per motivi di lavoro.
In particolare, la gestione dei flussi di immigrazione è realizzata attraverso una serie di strumenti, quali il documento programmatico triennale (art. 3, commi 1-3 TU) e il decreto annuale sui flussi (art. 3, comma 4 TU).
Il documento programmatico sulla politica dell'immigrazione viene elaborato dal Governo ogni tre anni ed è sottoposto al parere delle Commissioni parlamentari competenti. Esso contiene un'analisi del fenomeno migratorio e uno studio degli scenari futuri; gli interventi che lo Stato italiano intende attuare in materia di immigrazione; le linee generali per la definizione dei flussi d'ingresso; le misure di carattere economico e sociale per favorire l'integrazione degli stranieri regolari.
Il decreto sui flussi è lo strumento attuativo del documento programmatico, con cui il Governo stabilisce ogni anno, sulla base delle indicazioni contenute nel documento programmatico triennale e dei dati sull'effettiva richiesta di lavoro da parte delle realtà locali, elaborati da un'anagrafe informatizzata tenuta dal Ministero del lavoro, le quote massime di stranieri da ammettere in Italia per motivi di lavoro. In esso sono previste quote riservate per i cittadini provenienti da Paesi a forte pressione migratoria con i quali l'Italia ha sottoscritto accordi specifici di cooperazione in materia di immigrazione. Il decreto è adottato entro il 30 novembre di ciascun anno, previo parere delle competenti commissioni parlamentari.
Una norma di salvaguardia prevede che qualora non sia possibile emanare il decreto (per esempio in assenza del documento programmatico triennale) il Presidente del Consiglio può adottare un decreto transitorio con una procedura più veloce e senza il parere delle Camere. Tale decreto, però, non può superare le quote stabilite nell'ultimo decreto (ordinario o transitorio) emanato.
Il testo unico prevedeva un terzo strumento: il decreto annuale per l'accesso alle università italiane degli studenti stranieri. Il decreto-legge 145/2013 ha liberalizzato l'ingresso degli studenti residenti all'estero con la soppressione del contingentamento del numero dei visti per motivi di studio rilasciati ogni anno. Ha, inoltre, previsto altre misure per agevolare l'ingresso e la permanenza di ricercatori e di lavoratori qualificati provenienti da Paesi terzi.
 L'ultimo documento programmatico adottato è stato quello per il triennio 2004-2006 (D.P.R. 13 maggio 2005). Di conseguenza negli anni successivi è stato possibile adottare il decreto flussi nell'ambito delle quote già definite negli anni precedenti, come previsto dalla norma di salvaguardia, e, di fatto, in misura decrescente e con una preponderanza di lavoratori stagionali.
L'ultimo decreto flussi, DPCM 12 marzo 2019 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 9 aprile 2019, n. 84), ha fissato le quote dei lavoratori stranieri che per l'anno 2019 possono fare ingresso in Italia per lavorare, prevalentemente per motivi di lavoro stagionale. Come nel 2018, il decreto stabilisce una quota massima di ingressi pari a 30.850 unità, 18.000 delle quali riservate agli ingressi per motivi di lavoro stagionale. Le restanti 12.850 unità sono invece, come ogni anno, in piccola parte riservate all'ingresso di lavoratori appartenenti a determinate categorie (lavoratori di origine italiana, lavoratori autonomi, lavoratori che hanno seguito all'estero corsi di formazione ex art. 23 TU immigrazione) e, per la restante parte, riservate alle conversioni del permesso di soggiorno, già posseduto ad altro titolo, in permesso di soggiorno per lavoro.

 

L'articolo 4, inoltre, reca diverse disposizioni di coordinamento che modificano in più punti il TU immigrazione, al fine di espungere i riferimenti alle quote annuali di ingresso, abolite dalla lettera a) (comma 1, lett. b)-h).

Da segnalare, tra queste, la modifica all'articolo 21 TU, che reca norme sulla determinazione dei flussi di ingresso dei lavoratori. La norma vigente prevede che l'ingresso per motivi di lavoro subordinato avvenga nell'ambito delle quote definite dai decreti flussi e che questi prevedano restrizioni per i lavoratori provenienti da Paesi che non collaborano nel contrasto alla immigrazione clandestina. Il provvedimento in esame prevede che l'ingresso per motivi di lavoro subordinato non avvenga nell'ambito delle quote, bensì nell'ambito dei criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso stabiliti dal documento di programmazione triennale sulle politiche dell'immigrazione e che il medesimo documento rechi anche indicazioni circa le restrizioni da applicare ai fini del contrasto alla immigrazione clandestina.

Come si è accennato sopra, nel sistema vigente il documento di programmazione individua le azioni e gli interventi che lo Stato si propone di svolgere in materia di immigrazione, tra cui criteri generali finalizzati proprio alla determinazione delle quote di ingresso attraverso l'adozione dei decreti flussi annuali.


Conversione del permesso di soggiorno per richiesta asilo in permesso di soggiorno per comprovata integrazione (art. 5)

L'articolo 5 introduce la possibilità di convertire il permesso di soggiorno per richiesta asilo (che attualmente consente di svolgere attività lavorativa a determinate condizioni, ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro) nel nuovo permesso di soggiorno per comprovata integrazione, introdotto dal provvedimento in esame all'articolo 1.

Inoltre, si prevede la partecipazione del richiedente asilo a iniziative di carattere formativo, di riqualificazione o di politica attiva concordate con i centri per l'impiego.

A tal fine, vengono sostituiti i commi 2 e 3 dell'articolo 22 del D.Lgs. 142/2015 recante le procedure di esame delle domande di protezione internazionale e le modalità di accoglienza dei richiedenti in attuazione delle direttive comunitarie 2013/32 e 2013/33.

 

Si osserva, in proposito, che il comma 3 dell'articolo 22 riguardante la possibilità del richiedente asilo di frequentare corsi di formazione professionale è stato abrogato dal D.L. 113/2018.

 

Attualmente, l'articolo 22 del D.Lgs. 142/2015 prevede che il permesso di soggiorno per richiesta asilo consente lo svolgimento di una attività lavorativa, solamente dopo 60 giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso e se il ritardo non può essere attribuito al richiedente (comma 1) e che non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro (comma 2).

Il comma 3, come accennato non più vigente, prevedeva che i richiedenti, che usufruivano delle misure di accoglienza potessero frequentare corsi di formazione professionale, se previsti dal programma dell'ente locale dedicato all'accoglienza del richiedente.

La disposizione in esame ripristina tale possibilità per i richiedenti asilo e prevede inoltre che essi possano essere assunti con contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale (ai sensi dell'articolo 43 del D.Lgs. 81/2015).

Se in stato di disoccupazione, gli interessati sono tenuti alla immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla sottoscrizione del patto di servizio personalizzato alla stregua dei richiedenti il permesso di soggiorno per motivi di integrazione (vedi sopra).


Accesso degli stranieri all'assistenza sanitaria (art. 6)

La norma in commento modifica l'articolo 35 del TU prevedendo in primo luogo che i minori stranieri, a prescindere dalla condizione di regolarità di soggiorno, accedono al Servizio sanitario nazionale, comprese le prestazioni del pediatra di libera scelta e del medico di medicina generale, con le medesime modalità previste per i minori italiani. Si prevede inoltre che agli stranieri indigenti, non iscrivibili al Servizio sanitario nazionale, è rilasciato uno specifico codice ai fini dell'accesso alle prestazioni fornite dal Servizio sanitario nazionale e previste dai livelli essenziali di assistenza (LEA).

L'art. 34 del TU immigrazione prevede l'obbligo di iscrizione al Servizio sanitario nazionale per gli stranieri regolarmente soggiornanti e per i minori stranieri non accompagnati (v. infra), mentre il successivo articolo 35 (in cui è confluito l'art. 33 della legge n. 40 del 1998) già prevede l'assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale, ai quali devono essere assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorchè continuative, per malattia ed infortunio. Inoltre, ad essi sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. Sono, in ogni caso, garantiti per i cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all'ingresso e al soggiorno, i servizi sanitari di:
a)         tutela della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane;
b)         tutela della salute dei minori in esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 (ratificata e resa esecutiva dalla legge n. 176 del 1991).
In proposito, la Risoluzione del Parlamento europeo A7-0032/2011, ai punti 5 e 22, invita gli Stati Membri a garantire l'iscrizione obbligatoria al SSN di tutti i minori stranieri (anche senza il permesso di soggiorno) e in tal modo di permettere loro di beneficiare della parità di accesso al sistema sanitario, in ragione degli interessi del minore.
c)         le vaccinazioni secondo la normativa e nell'ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni;
d)         gli interventi di profilassi internazionale;
e)         la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventuale bonifica dei relativi focolai.
Sono considerate a carattere preventivo anche le prestazioni erogate dai Servizi per le Tossicodipendenze ( SerT e SerD) e le prestazioni nei confronti di soggetti con HIV.
Per le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale devono essere corrisposte, dai soggetti tenuti al pagamento di tali prestazioni, le tariffe determinate dalle regioni e province autonome, ma in ogni caso, per i richiedenti stranieri non in regola, qualora privi di risorse economiche sufficienti, le prestazioni sanitarie sono erogate senza oneri a loro carico, fatte salve le quote di partecipazione alla spesa a parità con i cittadini italiani. Infatti, fermo restando il finanziamento delle prestazioni ospedaliere urgenti o comunque essenziali a carico del Ministero dell'interno, agli oneri derivanti dalle prestazioni sopra indicate, nei confronti degli stranieri privi di risorse economiche sufficienti, si provvede nell'ambito delle disponibilità del Fondo sanitario nazionale, con corrispondente riduzione dei programmi riferiti agli interventi di emergenza.
La giurisprudenza aveva più volte affermato (in particolare Corte di Cassazione Sez. I Civile, sent. n. 1531 del 24 gennaio 2008 e Sez. unite civili, sent. n. 14500 del 10 giugno 2013) che devono ritenersi garantite tutte le prestazioni essenziali per la vita della persona straniera, in quanto prevalente il valore universale e costituzionale della salute rispetto all'interesse dello Stato ad espellere dal territorio nazionale lo straniero privo di permesso di soggiorno.

In relazione alla prima delle modifiche proposte dalla norma in esame (comma 3-bis) si ricorda che - parallelamente alla presentazione della proposta di legge in esame - il Parlamento ha approvato la legge sui minori stranieri non accompagnati n. 47 del 2017 (art. 14) che, modificando l'art. 34 del TU immigrazione, ha esteso (oltre agli stranieri regolarmente soggiornanti) anche ai minori non accompagnati (cioè presenti in Italia senza i genitori o una famiglia a cui sono affidati) la garanzia piena dell'assistenza sanitaria, prevedendone la loro iscrizione obbligatoria e gratuita al Servizio sanitario nazionale anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno, a seguito delle segnalazioni di legge dopo il loro ritrovamento nel territorio nazionale. La legge prevede che il permesso di soggiorno deve essere rilasciato a ogni minore straniero non accompagnato, rintracciato nel territorio nazionale e segnalato alle autorità competenti, su richiesta dello stesso minore, direttamente o attraverso il responsabile della struttura di accoglienza, anche prima della nomina del tutore. Il permesso rilasciato è valido fino alla maggiore età (articolo 10 della legge 47/2017). La circolare del Ministero dell'interno del 24 marzo 2017, n. 10337 ha chiarito che il permesso di soggiorno per minore età deve essere rilasciato anche se non è disponibile il passaporto o altro documento d'identità o nazionalità.  

Va al contempo tenuto presente che il DPCM del 12 gennaio 2017, che ha definito i nuovi Livelli essenziali di assistenza (cd. "LEA"), stabilisce, all'art. 63, comma 4, che "I minori stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno sono iscritti al Servizio sanitario nazionale ed usufruiscono dell'assistenza sanitaria in condizioni di parità con i cittadini italiani".

Il nuovo comma 3-bis prevede che i minori stranieri, fino al compimento del 18mo anno di età, abbiano accesso al Servizio sanitario nazionale, comprese le prestazioni del pediatra di libera scelta e del medico di medicina generale, al pari dei minori italiani. La parificazione è prevista anche se il minore straniero è in condizione di non regolarità sul territorio nazionale.

Alla luce delle modifiche normative nel frattempo intervenute la disposizione in esame appare dunque volta a prevedere - con norma di rango legislativo primario - l'equiparazione ai fini dell'accesso al SSN di tutti i minori stranieri (anche se accompagnati e a prescindere dalla regolarità del soggiorno) ai minori italiani e, sulla base della legge 47/2017, ai minori stranieri non accompagnati.

 Si valuti pertanto l'opportunità  di coordinare la modifica proposta dal comma 3-bis - che incide sull'art. 35 del TU immigrazione -  con quanto previsto dall'art. 34, comma 1, lett. b-bis) del medesimo TU, introdotto dalla citata legge 47/2017.

Ai fini dell'accesso alle prestazioni fornite dal SSN, agli stranieri indigenti, che risultino non iscrivibili al SSN, è rilasciato un codice denominato STP (straniero temporaneamente presente), nel caso in cui si tratti di soggetto extracomunitario o un codice denominato ENI (europeo non iscrivibile) nel caso di soggetto comunitario (comma 3-ter). Tali stranieri possono effettuare l'iscrizione al medico di medicina generale al fine di dare continuità alle cure (comma 3-quater).

 

Il codice STP, attribuito su base regionale con validità semestrale e rinnovabile, è riconosciuto su tutto il territorio nazionale con riferimento agli stranieri irregolari, in sede di prima erogazione dell'assistenza, anche in assenza di documenti di identità validi. Serve ad identificare la persona migrante anche per il rimorso delle prestazioni effettuate da parte delle strutture pubbliche e private accreditate ( Circ. Ministero salute 24 marzo n. 5). Insieme all'STP, in genere, viene sottoscritta un'autodichiarazione di indigenza che esonera dalla partecipazione alla spesa sanitaria.
Il codice ENI è rilasciato invece ai cittadini privi di tessera sanitaria e di residenza e perciò non iscrivibili al Servizio sanitario e consente le cure ambulatoriali e ospedaliere, urgenti o comunque essenziali, anche se continuative, per malattia e infortunio, oltre che interventi di medicina preventiva e prestazioni di cura ad esse correlate. I soggetti con codice ENI possono ricevere cure a carico delle istituzioni sanitarie del proprio Stato, con copertura dei costi regolata dagli strumenti normativi comunitari quali: a) il pagamento diretto dal sistema sanitario di appartenenza a quello del Paese di cura (assistenza diretta) ovvero il rimborso al paziente delle spese interamente pagate dallo stesso ai prestatori di assistenza del Paese di cura (assistenza indiretta).
 

Infine, il nuovo comma 3-quinquies prevede l'adeguamento delle legislazioni di settore delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, per dare "piena attuazione alle norme del presente articolo".

 


Accesso degli stranieri alle misure di assistenza sociale (art. 7)

L'articolo 7 reca una norma di carattere generale che dispone che "tutte le disposizioni di legge che disciplinano i requisiti per l'accesso alle prestazioni di assistenza sociale che costituiscono diritti soggettivi da parte di cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea devono intendersi sostituite dalle disposizioni dell'articolo 41 del testo unico immigrazione".

L'art. 41 – a cui la norma in esame attribuisce dunque una "valenza rinforzata" rispetto a tutte le altre disposizioni di legge attualmente vigenti sulla materia - dispone che gli stranieri titolari della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno di lungo periodo) o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti.

Si ricorda che, con i più recenti interventi normativi, l'accesso degli stranieri extra-UE ad alcune prestazioni, come il Reddito di cittadinanza e la Carta famiglia, è stato condizionato al possesso di requisiti di soggiorno e residenza quali il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e la residenza in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo.

 

Attualmente, la materia del soggiorno di lungo periodo degli stranieri provenienti da Paesi terzi è disciplinata dalla direttiva 2003/109/CE, recepita nell'ordinamento italiano dal D.Lgs. 3/2007 che ha novellato il testo unico in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998, artt. 9 e 9-bis). I cittadini di Paesi terzi, soggiornanti legalmente e ininterrottamente per 5 anni nel territorio di uno Stato membro, acquistano lo status di soggiornante di lungo periodo e hanno diritto ad un permesso di soggiorno speciale detto "permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo", che ha sostituito la "carta di soggiorno", dal contenuto analogo, prevista in precedenza. Ai fini del rilascio del permesso lo straniero deve dimostrare, salvo determinati casi, la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio. Il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è a tempo indeterminato, salva revoca o perdita a date condizioni, ed è rilasciato entro novanta giorni dalla richiesta anche agli stranieri titolari dello status di protezione internazionale.

I soggiornanti di lungo periodo sono equiparati ai cittadini dello Stato membro in cui si trovano ai fini, tra l'altro, del godimento dei servizi e prestazioni sociali (art. 11 della direttiva 2003/109/CE) e che si riconosce ai titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo di poter «usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l'accesso alla procedura per l'ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale» (art. 1 del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3).

Scendendo più nel dettaglio, si ricorda che l'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale è regolato, in Italia, da fonti normative nazionali, regionali e comunali, che determinano nel dettaglio i requisiti per l'accesso alle prestazioni sociali erogate dai diversi livelli di governo. A livello nazionale, l'art. 41 del TU immigrazione è stato integrato dal disposto dell' art. 80, comma 19, della legge finanziaria 2001 (legge 388/2000) che ha specificato che "ai sensi dell'articolo 41 dlgs 286/98, l'assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concesse, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno (come detto attualmente permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo ex art. 9 TU); per le altre prestazioni e servizi sociali l'equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno".
 
    La giurisprudenza costituzionale ha nel tempo chiarito l'applicazione delle norme ora citate, scrutinando soprattutto la disposizione della legge finanziaria 2001 in riferimento alle diverse tipologie di provvidenze di volta in volta sottoposte al giudizio incidentale di legittimità costituzionale.  Nel caso di provvidenze  destinate a favorire soggetti portatori di menomazioni invalidanti e che dunque incidono su diritti fondamentali quali la tutela della salute, la salvaguardia  delle persone in condizione di fragilità nonché la tutela dell'eguaglianza sostanziale, la Corte ha riconosciuto la intollerabilità di un sistema che subordinava la fruizione di benefici sostanziali al possesso della carta di soggiorno, vale a dire a un requisito di carattere temporale del tutto incompatibile con la indifferibilità e la pregnanza dei relativi bisogni. 

In più occasioni la Corte (si veda da ultimo la sentenza n. 106 del 2018) ha evidenziato come lo status di cittadino non sia di per sé sufficiente al legislatore per operare nei suoi confronti erogazioni privilegiate di servizi sociali rispetto allo straniero legalmente risiedente da lungo periodo.

La Corte in diverse occasioni ha infatti rilevato che le politiche sociali ben possono richiedere un radicamento territoriale continuativo e ulteriore rispetto alla sola residenza (sentenza n. 432 del 2005; ordinanza n. 32 del 2008) ma ciò sempreché un tale più incisivo radicamento territoriale, richiesto ai cittadini di paesi terzi ai fini dell'accesso alle prestazioni in questione, sia contenuto entro limiti non arbitrari e irragionevoli (sentenze nn. 222 del 2013, 133/2013 e 40/2011). In particolare, al legislatore, sia statale che regionale, sarebbe consentito attuare una disciplina differenziata per l'accesso a prestazioni eccedenti i limiti dell'essenziale, al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse economiche da destinare al maggior onere conseguente, purché i canoni selettivi adottati rispondano al principio di ragionevolezza, in quanto «è consentito [...] introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una "causa" normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005).

Se la determinazione del lasso di tempo necessario all'effettiva equiparazione tra cittadino e straniero residente di lungo periodo è lasciata alla discrezionalità del legislatore anche in relazione al tipo di servizio pubblico, la giurisprudenza della Corte ha ritenuto irragionevoli alcune disposizioni che richiedono come requisito necessario una permanenza nel territorio di molto superiore a quella necessaria all'ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo (5 anni).

Con la sentenza n. 168 del 2014, in riferimento ad una legge della Regione Valle d'Aosta/Vallèe d'Aoste, la Corte ha avuto modo di affermare che «la previsione dell'obbligo di residenza da almeno otto anni nel territorio regionale, quale presupposto necessario per la stessa ammissione al beneficio dell'accesso all'edilizia residenziale pubblica (e non, quindi, come mera regola di preferenza), determina un'irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell'Unione, ai quali deve essere garantita la parità di trattamento rispetto ai cittadini degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva 2004/38/CE), sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, in virtù dell'art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109/CE, godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l'accesso alla procedura per l'ottenimento di un alloggio».

Da ultimo, con la sentenza 106/2018 la Corte è intervenuta sulla previsione della legge regionale della Liguria che richiedeva un periodo di residenza di 10 anni nel territorio della regione per il migrante intenzionato ad accedere all'assegnazione di un alloggio popolare rilevando in tale caso una irragionevolezza e mancanza di proporzionalità risolventesi in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari.

Per le prestazioni non rientranti all'interno dei livelli essenziali, ex art. 117, secondo comma, lett. m) della Costituzione la giurisprudenza della Corte riconosce dunque al legislatore la facoltà di sottoporre l'erogazione del beneficio allo straniero a requisiti molto stringenti, come, ad esempio, una residenza sul territorio superiore ai 5 anni ma in ogni caso il controllo a cui tali norme sono sottoposte è quello del principio di ragionevolezza piena.

 Sotto una diversa angolatura ed in riferimento a differenti misure di carattere assistenziale, deve essere richiamata anche la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo la quale, nei casi in cui si versi in tema di provvidenze destinate a fronteggiare esigenze di sostentamento della persona, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondata su requisiti diversi dalle condizioni soggettive per essere ammessi, «finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo», per come in più occasioni interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza n. 187 del 2010).

Con una serie di pronunce la Corte ha affrontato il tema di misure destinate a fronteggiare esigenze di sostentamento della persona e discriminazioni tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato (ex plurimis, le sentenze nn. 230/2015; 22/2015; 40/2013; 329/2011, 187/2010, 11/2009 e 306/2008). In queste sentenze, la Corte ricorda che «qualsiasi discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all'art. 14 della CEDU» (sentenza n. 40 del 2013).

Nella sentenza n. 4 del 2013, in relazione a provvidenze a tutela dei non autosufficienti, la Corte ha affermato che «non è possibile presumere in modo aprioristico che stranieri non autosufficienti, titolari di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo - in quanto già presenti in precedenza sul territorio nazionale in base a permesso di soggiorno protratto per cinque anni - versino in stato di bisogno o disagio maggiore rispetto agli stranieri che, sebbene anch'essi regolarmente presenti nel territorio nazionale, non possano vantare analogo titolo legittimante». Pertanto, secondo la Corte «mentre è possibile subordinare, non irragionevolmente, l'erogazione di determinate prestazioni sociali, non dirette a rimediare a gravi situazioni di urgenza, alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero alla permanenza nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, una volta che il diritto a soggiornare alle predette condizioni non sia in discussione, l'accesso a una misura sociale non può essere differenziato in ragione della "necessità di uno specifico titolo di soggiorno" o di "particolari tipologie di residenza volte ad escludere proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni di bisogno e di disagio che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si propone di superare perseguendo una finalità eminentemente sociale"».

Con la sentenza n. 22 del 2015, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione di cui all'art. 80, comma 19, della legge n. 388/2000 (Legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordinava al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione di cui all'art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all'Opera nazionale per i ciechi civili) e dell'indennità in favore dei ciechi parziali, di cui all'art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508, osservando che la specificità dei connotati invalidanti delle persone non vedenti rendeva ancora più arduo, rispetto alle altre invalidità, subordinare la fruizione del beneficio al possesso della carta di soggiorno, cioè a un requisito di carattere meramente temporale, del tutto incompatibile con la indifferibilità e la pregnanza dei relativi bisogni.

Ancora, la sentenza n. 230 del 2015 ha dichiarato incostituzionale in parte qua l'art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, che condizionava la concessione agli stranieri, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, della pensione di invalidità civile per sordi e della relativa indennità di comunicazione al requisito della titolarità della carta di soggiorno. La Corte ha ritenuto che tale requisito fosse censurabile sotto una pluralità di profili. L'erogazione condizionata allo straniero di «prestazioni economiche peculiari, che si fondano sull'esigenza di assicurare (…) un ausilio in favore di persone svantaggiate, in quanto affette da patologie o menomazioni fortemente invalidanti per l'ordinaria vita di relazione e, di conseguenza, per le capacità di lavoro e di sostentamento», a un requisito come quello di soggiorno di lunga durata nel territorio dello Stato, è risultata in contrasto anzitutto con il principio di uguaglianza sostanziale, perché frustrava le «esigenze di tutela che, proprio in quanto destinate al soddisfacimento di bisogni primari delle persone invalide, appaiono per sé stesse indifferenziabili e indilazionabili sulla base di criteri meramente estrinseci o formali». La norma, inoltre, comprometteva anche i doveri di solidarietà sociale, che in una prospettiva costituzionalmente orientata sono inderogabili; la tutela del diritto alla salute, «anche nel senso dell'accessibilità ai mezzi più appropriati per garantirla»; nonché una «protezione sociale più ampia e sostenibile». La Corte ha invece confermato la legittimità della scelta di condizionare l'erogazione della pensione di invalidità in esame alla «presenza di condizioni reddituali limitate, tali, perciò, da configurare la medesima come misura di sostegno per le indispensabili necessità di una vita dignitosa», nonché all'accertamento che il soggiorno dello straniero «risulti, oltre che regolare, non episodico né occasionale».

 Più di recente, con la sentenza n. 50 del 2019, la Corte costituzionale ha specificato che «entro i limiti consentiti dall'art. 11 della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), cui ha conferito attuazione il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 […], e comunque nel rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo assicurati dalla Costituzione e dalla normativa internazionale, il legislatore [può] riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l'erogazione della provvidenza» (sentenza n. 222 del 2013).

Ne segue che la Costituzione impone di preservare l'uguaglianza nell'accesso all'assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall'altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di «un bisogno primario dell'individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale» (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona. Per questa parte, infatti, ha evidenziato la Corte nella sentenza n. 50 del 2019, la prestazione non è tanto una componente dell'assistenza sociale (che l'art. 38, primo comma, Cost. riserva al «cittadino»), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.).


Abolizione del reato di immigrazione clandestina (art. 8)

L'articolo 8 abroga il reato di ingresso e soggiorno illegali, previsto dall'articolo 10-bis del TU immigrazione (comma 1). Il comma 2 provvede ad espungere dal TU i riferimenti all'articolo 10-bis. Infine, il comma 3 reca una disposizione di salvaguardia che fa salve le norme vigenti in materia di respingimento ed espulsioni nei confronti dello straniero entrato irregolarmente nel territorio dello Stato.

Si ricorda che attualmente il reato di ingresso e soggiorno illegale è punito a titolo di contravvenzione con l'ammenda da 5 mila a 10 mila euro ed è attribuito alla competenza del giudice di pace; la fattispecie penale è stata inserita all'art. 10-bis del TU immigrazione dalla legge 94/2009 (art. 1, comma 16, lett. a), parte integrante del c.d. "pacchetto sicurezza" approvato all'inizio della XVI legislatura.

L'articolo 10- bis è stato modificato da ultimo dal decreto-legge 113/2018 per adeguarlo alla soppressione del permesso di soggiorno per protezione umanitaria, disposta dal medesimo D.L. 113. Nella formulazione vigente, l'articolo 10- bis prevede che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere in caso di riconoscimento di protezione internazionale o di concessione di uno dei permessi speciali (per cure mediche, protezione sociale, sfruttamento ecc.) introdotti dal citato D.L. 113 in sostituzione di quello di protezione umanitaria.

 

In materia è intervenuta la Corte di giustizia dell'Unione europea con la sentenza 6 dicembre 2012, C-430/11 (caso Sagor). Con questa sentenza la Corte UE ha ravvisato l'incompatibilità di alcune disposizioni del testo unico in materia di immigrazione con la direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva "rimpatri") recepita dall'ordinamento ad opera del decreto-legge 89/2011.

Il reato di immigrazione illegale in quanto tale non è oggetto di sindacato della sentenza Sagor che ha ribadito il proprio orientamento secondo il quale la direttiva rimpatri non vieta che il diritto di uno Stato membro qualifichi il soggiorno irregolare quale reato e lo punisca con sanzioni penali. Tuttavia, la Corte individua nella procedura penale connessa alla punizione del reato alcune misure che compromettono l'applicazione delle norme previste dalla direttiva, "privando quest'ultima del suo effetto utile".

La prima misura risiede nella previsione, contenuta nella legge sulla competenza penale del giudice di pace, che la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi. Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro sostitutivo oppure si sottrae ad esso si applica l'obbligo di permanenza domiciliare al massimo di 45 giorni (art. 55, D.Lgs. 274/2000). Secondo la Corte la previsione dell'obbligo della permanenza domiciliare applicata allo straniero irregolare contraddice il principio della direttiva secondo il quale l'allontanamento deve essere adempiuto con la massima celerità. Infatti, l'articolo 8 della direttiva prevede che gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria (da 7 a 30 giorni). E' vero che il giudice può sostituire la pena dell'ammenda con l'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (art. 16, comma 1, TU immigrazione). Ma in questo caso l'espulsione è immediata; infatti l'art. 16, comma 2, TU fa rinvio per le modalità di espulsione all'art. 13, comma 4, TU, relativo espulsione con accompagnamento alla frontiera, e "immediata", come definita dal successivo comma 5.

E qui interviene la seconda censura della Corte che ribadisce che la facoltà di sostituire l'ammenda con l'espulsione non è di per sé vietata dalla direttiva, ma tuttavia l'espulsione immediata, ossia senza la concessione di un periodo di tempo per la partenza volontaria, può essere disposta esclusivamente in presenza di precise condizioni (quali il pericolo di fuga ecc.) e che "qualsiasi valutazione al riguardo deve fondarsi su un esame individuale della fattispecie in cui è coinvolto l'interessato" e quindi non può applicarsi automaticamente allo straniero per il solo fatto di essere in posizione irregolare e condannato per il reato di immigrazione clandestina.

Con la finalità di adeguamento dell'ordinamento interno alla sentenza della Corte è intervenuto l'articolo 3 della legge europea 2013-bis (n. 161/2014) che ha provveduto a modificare in talune parti il testo unico immigrazione.

In particolare, l'articolo 3, comma 1, lett. c) della L. 161/2014 ha inserito un comma 3-septies dell'articolo 13 del TU che disciplina l'espulsione amministrativa. Il nuovo comma precisa che la pena della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità per il reato di immigrazione clandestina (ed anche per i reati connessi alla violazione dell'obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale di cui all'articolo 14, commi 5-ter e 5-quater) non ostano alla espulsione prevista dal medesimo articolo 13, e che questa "è eseguita in ogni caso"; i giorni residui dei domiciliari e o di lavoro di pubblica utilità si convertono in una corrispondente quota di pena pecuniaria.

Con la modifica all'articolo 16 ad opera delle lettere f) e g) viene previsto che, per il reato di immigrazione clandestina, l'espulsione che il giudice di pace può comminare a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione (articolo 16, comma 1) comporti il divieto di reingresso per una periodo da tre a cinque anni (attualmente non può essere inferiore a 5 anni), ma tuttavia non viene modificato il comma 2 dell'articolo 16 che dispone che l'espulsione è disposta secondo le modalità di cui all'articolo 13, comma 4 (espulsione immediata).

 

Si ricorda infine che la legge in materia di pene detentive non carcerarie e di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili (L. n. 67 del 2014) recava all'articolo 2 una delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio dei reati. Tra i principi e criteri direttivi per l'esercizio della delega, vi era anche l'abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale, da trasformare in illecito amministrativo (art. 2, comma 3, lettera b). Il D.Lgs. 7/2016, di attuazione della delega, non è intervenuto sul punto. La delega per l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina è dunque scaduta.


La dimensione del fenomeno migratorio

Secondo le stime dell'Istituto nazionale di statistica, sono 5 milioni 224 mila gli stranieri residenti nel nostro Paese al 1° gennaio 2019, con un aumento dell'17,4‰, e rappresentano l'8,7% della popolazione. Il saldo migratorio con l'estero risulta positivo per 190 mila unità e i flussi in ingresso sono per lo più dovuti a cittadini stranieri: 302 mila persone (ISTAT, Indicatori demografici, 7 febbraio 2019).

 

Per quanto riguarda le nazionalità di provenienza, secondo i dati del 2017 riportati dall'ISTAT (Bilancio demografico 2017, 13 giugno 2018), sono presenti complessivamente nel nostro Paese poco meno di 200 nazionalità. La collettività più numerosa è quella romena con 1.190.091 residenti, il 23,1% del totale. Seguono i cittadini dell'Albania (440.465, l'8,6%), del Marocco (416.531, l'8,1%), della Cina (290.681, il 5,7%) e dell'Ucraina (237.047, il 4,6%).

 

Più del 50% degli stranieri residenti in Italia è cittadino di un paese europeo (2,6 milioni di individui), oltre il 30% (1,6 milioni) di un Paese dell'Unione europea. Tra i cittadini europei, provengono dagli Stati dell'Europa centro orientale non appartenenti all'UE più di 1 milione di persone. Gli Stati africani sono rappresentati per un ulteriore 21,3%, prevalentemente cittadini di Paesi dell'Africa settentrionale (12,7%) e occidentale (7,3%); più o meno la stessa quota sul totale (20,5%) spetta ai cittadini dei paesi asiatici (oltre 1 milione di persone per entrambi i continenti). Il continente americano conta oltre 370 mila residenti in Italia (7,2%), quasi tutti cittadini di Paesi dell'America centro meridionale (6,9%).

 

L'ISTAT stima come nel lungo periodo la presenza straniera nell'evoluzione demografica del Paese dovrebbe mantenersi costante: si prevede che nel 2065 la popolazione residente in Italia si attesti a 54,1 milioni con una oscillazione, dovuta a variabili demografici, da un minimo di 46,4 milioni ad un massimo di 62 milioni. Il saldo naturale della popolazione risentirebbe positivamente delle migrazioni. Sempre nello scenario mediano dell'ISTAT l'effetto addizionale del saldo migratorio sulla dinamica di nascite e decessi comporterebbe 2,6 milioni di residenti aggiuntivi nel corso dell'intero periodo preso in considerazione (ISTAT, Il futuro demografico del Paese. Previsioni regionali della popolazione residente al 2065, 3 maggio 2018).

Per quanto riguarda l'immigrazione irregolare, pur in assenza di statistiche ufficiali, la stima dei migranti irregolari presenti in Italia nel 2017 - secondo uno studio dell'OECD - varia tra le 279 mila e 461 mila persone, tra il 7,2 e l'11,8 % del totale degli stranieri residenti e tra lo 0,5 e lo 0,8 % della popolazione totale; nel complesso dell'Unione europea sono stimati tra 1,9 e 3,8 milioni di irregolari, tra il 6,6 e il 13,9 % del totale degli stranieri e tra lo 0,4 e lo 0,8 % della popolazione totale (OECD, International Migration Outlook 2018, p. 173, dati riferiti al 2008).


Relazioni allegate o richieste

Trattandosi di una proposta di legge di iniziativa popolare è corredata, come le altre proposte di legge, della relazione illustrativa.

In particolare, l'art. 49 della legge n. 352 del 1970 prevede che la proposta di iniziativa popolare deve contenere il progetto redatto in articoli accompagnato da una relazione che ne illustri le finalità e le norme.


Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite

La proposta di legge interviene sulla materia "immigrazione", riservata alla competenza legislativa esclusiva ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettera b) della Costituzione. 


Compatibilità con la normativa dell'Unione europea (a cura dell'Ufficio rapporti con l'Unione europea)


Documenti all'esame delle istituzioni dell'UE

Si segnala che, nell'ambito del pacchetto normativo volto ad aggiornare l'intero Sistema comune europeo di asilo, è tuttora all'esame delle istituzioni legislative europee una proposta di direttiva (COM(2016)465) volta a riformare la direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale

La proposta mira, tra l'altro, a ridurre il termine per l'accesso al mercato del lavoro da un massimo di nove mesi a un massimo di sei mesi a decorrere dalla data in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale, se non è stata presa una decisione amministrativa sulla domanda a norma della proposta di regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione (COM(2016)467) e se il ritardo non può essere attribuito al richiedente.

La proposta esclude, d'altra parte,  dall'accesso al mercato del lavoro i richiedenti che probabilmente non saranno riconosciuti beneficiari di protezione internazionale a motivo del fatto che le loro domande sono verosimilmente infondate La proposta precisa che l'accesso al mercato del lavoro, una volta accordato, deve essere effettivo e che una volta concesso l'accesso al mercato del lavoro, i richiedenti abbiano diritto a un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro, analogamente agli altri cittadini di Paesi terzi che lavorano nell'Unione. Il nuovo regime è volto a stabilire espressamente che il diritto alla parità di trattamento non dà origine ad un diritto di soggiorno dei richiedenti nei casi in cui la domanda di protezione internazionale è stata respinta. Nelle condizioni di lavoro indicate dalla proposta rientrano quanto meno la retribuzione e il licenziamento, le prescrizioni relative alla salute e alla sicurezza sul luogo di lavoro, l'orario di lavoro e le ferie, in considerazione dei contratti collettivi in vigore. La proposta conferisce inoltre ai richiedenti la parità di trattamento per quanto riguarda la libertà di associazione e di adesione, l'istruzione e la formazione professionale, il riconoscimento delle qualifiche professionali e la sicurezza sociale La proposta prevede la possibilità di limitare la parità di trattamento in materia di istruzione e formazione professionale all'istruzione e alla formazione direttamente connesse a una specifica attività lavorativa La proposta consente altresì di limitare la parità di trattamento dei richiedenti per quanto concerne gli assegni familiari e i sussidi di disoccupazione.


Profili di diritto comparato (a cura del Servizio Biblioteca-Ufficio legislazione straniera)

Germania

Con la Legge sull'integrazione (Integrationsgesetz) del 31 luglio 2016, entrata in vigore il successivo 6 agosto, sono state introdotte una serie di misure volte a migliorare l'integrazione nella società e ad agevolare l'inserimento nel mercato del lavoro degli stranieri richiedenti asilo o aventi diritto alla protezione internazionale. Ai fini dell'applicazione delle nuove norme il Governo federale ha stanziato sette miliardi di euro per il biennio 2016-2018.

Il principio alla base della riforma è quello di "Promuovere ed esigere" (Fördern und Fordern), nel senso di offrire sostegno economico chiedendo però di attivarsi e cooperare. La nuova disciplina prevede infatti, per i richiedenti asilo che dimostrano capacità e volontà di integrarsi nella società tedesca e che hanno alte probabilità di restare in Germania, un accesso rapido e semplificato ai programmi di integrazione e alle opportunità lavorative e, viceversa, una riduzione dei benefici nei confronti di coloro che non collaborano al loro processo di integrazione. Il periodo di attesa per partecipare ai corsi di integrazione (corsi di lingua tedesca e corsi di base sulla storia, la società, il sistema giuridico e i valori della Germania), proposti dall'Ufficio federale per l'immigrazione e i rifugiati (Bundesamt für Migration und Flüchtlinge- BAMF), è ridotto da 3 mesi a 6 settimane e i posti disponibili sono aumentati da 20.000 a 200.000, mentre il numero di ore dei corsi sull'integrazione è passato da 60 a 100 ore. Qualora il richiedente asilo rifiuti di partecipare a tali corsi senza una giusta causa, gli sono ridotte o eliminate le prestazioni sociali. A partire dal gennaio 2005, quando è entrata in vigore la Legge sull'immigrazione (Zuwanderungsgesetz), e fino alla fine del primo semestre del 2018 sono stati avviati 144.358 corsi di integrazione, di cui 18.915 nel 2017 e 7.988 nei primi sei mesi del 2018. Secondo i dati statistici pubblicati dal BAMF e aggiornati al 30 giugno 2018, dei 108.270 nuovi iscritti ai corsi di integrazione nel primo semestre 2018, oltre 22.000 sono siriani, più del 20%. Seguono afghani (7,7%), iracheni (7%), turchi (4,3%), eritrei (3,6%) e iraniani (3,1%). I nuovi iscritti, per il 46,3% uomini e per il 52,7% donne, sono concentrati soprattutto nella Renania Settentrionale-Vestfalia (24,2%), nel Baden-Württemberg (14,1%), nella Baviera (14%) e in Assia (10,1%).

Con la nuova disciplina sull'integrazione, il permesso di residenza permanente o a tempo indeterminato (Niederlassungserlaubnis) è rilasciato ai rifugiati dopo 5 anni - in precedenza veniva automaticamente concesso dopo 3 anni dall'ottenimento della protezione internazionale – se questi hanno dimostrato la volontà di integrarsi partecipando ai corsi di integrazione e raggiungendo il livello A2 di conoscenza della lingua tedesca e se sono in grado di provvedere quasi autonomamente al proprio mantenimento. Tuttavia, al fine di fornire un maggiore incentivo al processo di integrazione, il permesso di soggiorno permanente viene rilasciato dopo 3 anni se il rifugiato raggiunge il livello C1 di conoscenza della lingua tedesca e se dà prova di ulteriori requisiti di integrazione e autonomia.

In base al § 9 della Legge sul soggiorno degli stranieri (Aufenthaltsgesetz - AufenthG) con il permesso di residenza, che garantisce allo straniero il soggiorno illimitato nel tempo e nello spazio, è possibile accedere a qualsiasi tipo di posto di lavoro (eccetto alcune professioni, come ad esempio quella del medico e dell'impiegato statale).

Nella maggior parte dei casi tale permesso non viene rilasciato subito, fatta eccezione per le persone altamente qualificate (Hochqualifizierte Ausländer, § 19 AufenthG). Per ottenerlo occorre però che lo straniero soddisfi i seguenti requisiti:

  • possedere un permesso di soggiorno (Aufenthaltserlaubnis) da cinque anni;
  • garantire il proprio sostentamento;
  • svolgere da almeno 60 mesi un'attività lavorativa soggetta all'obbligo di versamento dei contributi previdenziali;
  • non aver commesso infrazioni contro la sicurezza e l'ordine pubblico;
  • essergli consentita un'occupazione da lavoratore dipendente:
  • possedere le autorizzazioni necessarie per l'esercizio permanente dell'attività lavorativa;
  • conoscere sufficientemente la lingua tedesca;
  • conoscere gli aspetti fondamentali dell'ordinamento giuridico e sociale della Germania e le condizioni di vita esistenti nel territorio federale;
  • avere a disposizione un'abitazione sufficientemente grande per sé e per la propria famiglia.

Per i coniugi conviventi è sufficiente che sia solo uno dei due a trovarsi in un rapporto di lavoro soggetto al versamento dei contributi previdenziali, mentre ai figli – che siano nati in Germania o che siano giunti in Germania insieme ai genitori - vengono applicate disposizioni straordinarie: in linea di massima essi hanno diritto al rilascio del permesso di residenza permanente se, al compimento dei 16 anni, possiedono già da 5 anni un permesso di soggiorno.

In deroga al requisito del possesso di un permesso di soggiorno da cinque anni, è possibile ottenere la concessione del permesso di residenza in tempi più brevi: i laureati presso una università tedesca hanno diritto, a certe condizioni, al rilascio del permesso di residenza dopo solo due anni (§ 18b AufenthG); ai titolari di una Carta blu UE, che dimostrino conoscenze sufficienti della lingua tedesca a livello B1 già dopo 21 mesi, è concesso un permesso di residenza dopo 33 mesi di lavoro (§ 19a, comma 6 AufenthG); i lavoratori autonomi, che abbiano realizzato la loro attività con successo, possono ottenere il permesso di residenza a tempo indeterminato dopo tre anni (§ 21, comma 4 AufenthG).

Le disposizioni contenute nella nuova Integrationsgesetz modificano, in particolare, il Terzo libro del Codice sociale (Sozialgesetzbuch – SGB) introducendo al § 132 una regolamentazione speciale volta a promuovere la formazione professionale e l'apprendistato degli stranieri. I sussidi statali previsti a tale scopo, di cui ai §§ 56 ss., sono estesi anche ai richiedenti asilo (rispettivamente dopo 3 o 15 mesi di permanenza) e agli stranieri c.d. tollerati (geduldete Ausländer) con sospensione temporanea dell'espulsione, che risiedano legalmente e ininterrottamente in Germania da 12 mesi oppure da 6 anni. Tale regime speciale è a tempo determinato e riguarda le misure applicate e le sovvenzioni statali richieste entro il 31 dicembre 2018. Anche gli stranieri tollerati hanno quindi la possibilità di svolgere un tirocinio formativo retribuito presso un'azienda per un periodo di tre anni, durante il quale viene garantito il diritto a restare in territorio tedesco. Con la nuova Legge sull'integrazione è stato inoltre eliminato il limite di 21 anni per iniziare il tirocinio formativo. Terminato il tirocinio, allo straniero viene concesso un periodo di 6 mesi per trovare un'occupazione adeguata e, nel caso riceva un'offerta di lavoro a tempo indeterminato, questi otterrà un nuovo permesso di soggiorno della durata di due anni.

La nuova disciplina in materia di integrazione ha posto le premesse giuridiche e finanziarie per l'avvio di un Programma lavorativo (Arbeitsmarktprogramm) specificamente dedicato alle "Misure sull'integrazione dei rifugiati" (Flüchtlingsintegrationsmaßnahmen - FIM). Il contenuto di tale programma, frutto di un accordo amministrativo tra l'Agenzia federale del lavoro (Bundesagentur für Arbeit - BA) e il Ministero federale del lavoro e degli affari sociali (Bundesministerium für Arbeit und Soziales – BMAS) è stato delineato nella direttiva ministeriale (Richtlinie für das Arbeitsmarktprogramm "Flüchtlingsintegrationsmaßnahmen") del 20 luglio 2016. Il Programma prevede la creazione di posti di lavoro ad hoc per i richiedenti asilo in attesa dell'esito della domanda di protezione internazionale. Si tratta di lavori, o meglio di occasioni lavorative a breve termine, della durata massima di sei mesi e di 30 ore settimanali, e con una bassa retribuzione (80 centesimi l'ora oltre all'eventuale rimborso spese), perché la loro finalità è quella di consentire ai richiedenti asilo di acquisire esperienza lavorativa, familiarizzare con il mercato del lavoro tedesco e occupare il periodo di attesa in modo utile. Il lavoro consiste principalmente in attività da svolgere presso il centro di accoglienza (Aufnahmeeinrichtung), come ad esempio lavori di pulizia, di preparazione dei pasti o di servizio ai tavoli. Il Programma è finanziato dal Governo federale (BMAS) ed è destinato a tutti i richiedenti asilo maggiorenni adatti a queste specifiche mansioni. Il rifiuto di prendere parte al programma senza una giusta causa (ad esempio un impiego regolare, l'inizio di un tirocinio formativo o la frequenza degli studi universitari) comporta la riduzione delle prestazioni sociali. Come espressamente stabilito dal § 5 della direttiva ministeriale, la scadenza del Programma è fissata al 31 dicembre 2020.

Le nuove disposizioni dell'Integrationsgesetz regolamentano inoltre l'obbligo di residenza (Wohnsitzverpflichtung): al fine di promuovere una durevole integrazione, lo straniero avente diritto all'asilo, cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato o il diritto alla protezione sussidiaria, o al quale sia stato concesso per la prima volta un permesso di soggiorno, è obbligato, per tre anni, a prendere la residenza nel Land a cui è stato assegnato ai fini dello svolgimento della procedura di asilo. Alle autorità dei Länder è quindi consentito imporre una residenza obbligatoria o addirittura vietare di risiedere in talune zone per un periodo massimo di tre anni, tenendo sempre in debita considerazione l'eventuale svolgimento di un'attività lavorativa o di formazione professionale. La possibilità di distribuire equamente sul territorio l'onere di provvedere ai nuovi residenti consente di evitare, secondo quanto evidenziato in diversi interventi, la concentrazione di rifugiati della stessa nazionalità in un'unica zona, fatto che potrebbe nuocere al loro processo di integrazione e condurre alla creazione di ghetti.

 

Spagna

La Spagna ha approvato la Ley Orgánica 4/2000, de 11 de enero, sobre derechos y libertades de los extranjeros en España y su integración social, che ha apportato novità significative in relazione al riconoscimento dei diritti degli stranieri.

In particolare l'art. 2 ter, relativo all'integrazione degli immigrati (integración de los inmigrantes), prevede che i poteri pubblici promuovano la piena integrazione degli stranieri nella società spagnola, in un quadro di convivenza di diverse identità e culture, senza limiti diversi dal rispetto della Costituzione e della legge.

Le pubbliche amministrazioni devono incorporare l'obiettivo dell'integrazione tra gli immigrati e la società di accoglienza, con carattere trasversale a tutte le politiche e i servizi pubblici, promuovendo la partecipazione economica, sociale, culturale e politica degli immigrati nei termini previsti dalla Costituzione, dagli Statuti di autonomia e dalle altre leggi, in condizioni di parità di trattamento. In particolare, esse favoriscono, attraverso azioni di formazione, la conoscenza e il rispetto dei valori costituzionali e statutari della Spagna, dei valori dell'Unione europea, così come dei diritti umani, delle libertà pubbliche, della democrazia, della tolleranza e dell'uguaglianza tra donne e uomini, e sviluppano misure specifiche per promuovere l'inserimento nel sistema educativo, garantendo in ogni caso la scolarizzazione nell'età dell'obbligo, l'apprendimento delle lingue ufficiali e l'accesso al mondo del lavoro come fattori essenziali di integrazione.

L'Amministrazione generale dello Stato coopera con le Comunità autonome e con i comuni per raggiungere tali scopi come parte di un Piano strategico pluriennale che include tra i suoi obiettivi l'integrazione dei minori stranieri non accompagnati. In ogni caso, l'Amministrazione generale dello Stato, le Comunità autonome e i comuni collaborano e coordinano le loro azioni in questo campo, prendendo come riferimento i rispettivi piani di integrazione.

In conformità con i criteri e le priorità del Piano strategico per l'immigrazione, il Governo e le Comunità autonome presentano congiuntamente programmi d'azione biennali alla Conferenza settoriale sull'immigrazione per rafforzare l'integrazione sociale degli immigrati. Tali programmi sono a carico di un fondo statale per l'integrazione degli immigrati, che è finanziato annualmente e che può includere formule di cofinanziamento da parte delle amministrazioni riceventi.

L'art. 9 della Legge organica 4/2000 sancisce il diritto all'istruzione (derecho a la educación). Gli stranieri di età inferiore ai sedici anni hanno diritto e dovere all'istruzione, che include l'accesso all'istruzione di base, gratuita e obbligatoria. Anche gli stranieri di età inferiore ai diciotto anni hanno diritto all'istruzione post-obbligatoria. Questo diritto comprende l'ottenimento del corrispondente titolo accademico e l'accesso al sistema pubblico di borse di studio e sovvenzioni alle stesse condizioni dei cittadini spagnoli. In caso di raggiungimento dell'età di diciotto anni nel corso dell'anno scolastico, essi mantengono tale diritto fino al suo completamento.

Gli stranieri di età superiore ai diciotto anni hanno diritto all'istruzione in conformità con le disposizioni della legislazione scolastica. In ogni caso, gli stranieri residenti di età superiore ai diciotto anni hanno il diritto di accedere alle altre fasi di istruzione post-obbligatoria, per ottenere le qualifiche corrispondenti e al sistema pubblico di borse di studio alle stesse condizioni dei cittadini spagnoli.

Le autorità pubbliche operano affinché gli stranieri possano ricevere insegnamenti per la loro migliore integrazione sociale.

Gli stranieri residenti in Spagna responsabili di minori in età di obbligo scolastico devono dimostrare tale scolarizzazione, mediante un rapporto rilasciato dalle autorità autonomiche competenti, nelle domande di rinnovo della loro autorizzazione o nella domanda di soggiorno di lunga durata.

L'art. 10 della Legge organica 4/2000 sancisce il diritto al lavoro e alla sicurezza sociale (derecho al trabajo y a la Seguridad Social).

Gli stranieri residenti che soddisfano i requisiti stabiliti nella Legge organica 4/2000 e nelle disposizioni attuative hanno il diritto di esercitare un'attività retribuita per conto proprio o di un altro, nonché di accedere al sistema di sicurezza sociale, in conformità con la legislazione vigente.

Gli stranieri possono accedere al pubblico impiego secondo i termini stabiliti dalla normativa sullo statuto di base del dipendente pubblico (Ley 7/2007, de 12 de abril, del Estatuto Básico del Empleado Público, dal 2015 sostituito dal Real Decreto Legislativo 5/2015, de 30 de octubre, por el que se aprueba el texto refundido de la Ley del Estatuto Básico del Empleado Público).

L'art. 25 bis della Legge organica 4/2000 enumera i vari tipi di visto (visados):

visto di transito;

permesso di soggiorno;

permesso di residenza;

permesso di residenza e lavoro;

permesso di residenza e lavoro temporaneo;

permesso per studenti;

permesso per ricercatori.

L'art. 33 disciplina il regime di ammissione per motivi di studio (régimen de admisión a efectos de estudios). Può essere autorizzato lo straniero il cui unico o principale scopo è svolgere, tra le altre, una delle seguenti attività di natura non salariale:

iniziare o proseguire gli studi;

svolgere attività di ricerca o di formazione;

partecipare a programmi di scambio per studenti in qualsiasi centro educativo o scientifico, pubblico o privato, ufficialmente riconosciuto.

L'art. 36 disciplina l'autorizzazione per residenza e lavoro (autorización de residencia y trabajo). Per esercitare un'attività lucrativa, lavorativa o professionale, gli stranieri di età superiore ai sedici anni devono disporre della relativa autorizzazione amministrativa preventiva per risiedere e lavorare. L'autorizzazione al lavoro è concessa insieme a quella di residenza, tranne nel caso di condannati stranieri che stanno scontando pene o in altri casi eccezionali. L'efficacia della residenza iniziale e dell'autorizzazione al lavoro è condizionata alla registrazione del lavoratore alla sicurezza sociale.

Quando lo straniero intende lavorare per conto proprio o per conto terzi, esercitando una professione per la quale è richiesto un titolo speciale, la concessione dell'autorizzazione è condizionata al possesso e, se del caso, all'omologazione del titolo corrispondente. Per l'assunzione di uno straniero, il datore di lavoro deve richiedere l'autorizzazione, che in ogni caso deve essere accompagnata da un contratto di lavoro che garantisca la prosecuzione dell'attività durante il periodo di validità dell'autorizzazione.

Nel settembre 2011 il Consiglio dei ministri ha approvato, su proposta del Ministro del lavoro e dell'immigrazione, il nuovo Piano strategico per la cittadinanza e l'integrazione 2011-2014 (Plan Estratégico de Ciudadanía e Integración 2011-2014), il cui obiettivo principale è rafforzare la coesione sociale, in un contesto migratorio caratterizzato dalla riduzione dei flussi.

Esso mira a rafforzare gli strumenti e le politiche di integrazione, nonché i servizi pubblici e di partecipazione, per garantire l'accesso a tutti i cittadini in condizioni di uguaglianza.

L'integrazione degli immigrati è una delle sfide più importanti affrontate dalla società spagnola e un pilastro fondamentale della politica globale in materia di immigrazione del Governo, insieme alla lotta contro l'immigrazione clandestina, il collegamento dell'immigrazione legale alle esigenze del mercato del lavoro e la cooperazione allo sviluppo dei paesi di origine.

Il Piano strategico per la cittadinanza e l'integrazione 2011-2014 considera l'integrazione come un processo di adattamento reciproco e progetta una politica basata su azioni indirizzate a tutti i cittadini, sia immigrati sia autoctoni.

Il Piano strategico include misure per rispondere a sfide quali la gestione della diversità, il rafforzamento del capitale umano e le pari opportunità per garantire la coesione sociale.

Il Piano prende in considerazione sei aree specifiche di intervento:

Accoglienza; Occupazione e promozione economica; Istruzione; Salute; Servizi sociali e inclusione; Mobilità e sviluppo.

Relativamente all'area Occupazione e promozione economica (Área de Empleo y Promoción Económica, pp. 128-146 del documento) vengono indicati alcuni obiettivi:

  • promuovere l'attività economica al fine di generare opportunità di lavoro a livello locale;
  • promuovere l'accesso all'occupazione adattando le competenze della popolazione attiva alle esigenze e alle opportunità del mercato del lavoro;
  • ridurre la situazione di precarietà e di segmentazione del mercato del lavoro;
  • promuovere la parità di trattamento e la lotta al razzismo e alla discriminazione nel mercato del lavoro e nelle imprese.
  • Relativamente all'area Istruzione (Área de Educación, pp. 147-63 del documento) vengono indicati i seguenti obiettivi:
  • garantire l'accesso e la permanenza nel sistema educativo in condizioni di uguaglianza indipendentemente dall'origine;
  • promuovere il successo scolastico nelle fasi obbligatorie e non obbligatorie e contribuire alla riduzione delle disuguaglianze;
  • adattare e rafforzare le capacità delle scuole e delle comunità educative di costruire spazi di convivenza sociale e interculturale;
  • promuovere l'integrazione della scuola con l'ambiente circostante come spazio per la convivenza territoriale e comunitaria;
  • contribuire all'educazione civica degli studenti in modo da prevenire gli episodi di razzismo e xenofobia nel quadro di un modello di convivenza interculturale basato sui diritti umani;
  • rafforzare la pluralità di agenti nel sistema educativo;
  • migliorare le procedure di accreditamento professionale e di omologazione dei titoli.

Il Piano strategico non risulta rinnovato per gli anni successivi, fatto che ha suscitato numerose critiche anche a livello internazionale. Nel febbraio 2019 la Ministra del lavoro, delle migrazioni e della sicurezza sociale Magdalena Valerio ha sottolineato la necessità di approvare un nuovo Piano strategico.

La Segreteria di Stato per le migrazioni (Secretaría de Estado de Migraciones) è l'organo del Ministero del lavoro, delle migrazioni e della sicurezza sociale incaricato dell'attuazione della politica del Governo in materia di stranieri, immigrazione ed emigrazione.