XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta su sicurezza e degrado delle città

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 18 gennaio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Causin Andrea , Presidente ... 2 

Audizione della dottoressa Valeria Martano e del dottor Marco Rossi della Comunità di Sant'Egidio:
Causin Andrea , Presidente ... 2 ,
Martano Valeria , Comunità di Sant'Egidio ... 2 ,
Miccoli Marco (PD)  ... 7 ,
Martano Valeria , Comunità di Sant'Egidio ... 7 ,
Chiappori Andrea , Comunità di Sant'Egidio ... 11 ,
Causin Andrea , Presidente ... 15 ,
Chiappori Andrea , Comunità di Sant'Egidio ... 15 ,
Rossi Marco , Comunità di Sant'Egidio ... 15 ,
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 17 ,
Morassut Roberto (PD)  ... 17 ,
Causin Andrea , Presidente ... 18 ,
Martano Valeria , Comunità di Sant'Egidio ... 18 ,
Morassut Roberto (PD)  ... 19 ,
Causin Andrea , Presidente ... 19

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA CAUSIN

  La seduta comincia alle 14.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Comunico che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione del sistema audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati e, successivamente, sul canale satellitare della Camera dei deputati.

(Così rimane stabilito).

Audizione della dottoressa Valeria Martano e del dottor Marco Rossi della Comunità di Sant'Egidio.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione della dottoressa Valeria Martano e del dottor Marco Rossi, della Comunità di Sant'Egidio, che ringrazio di aver accolto l'invito della Commissione. È inoltre presente il dottor Andrea Chiappori, responsabile della Comunità di Sant'Egidio per Genova e la Liguria, che ringrazio della presenza.
  Do la parola alla dottoressa Valeria Martano, e successivamente al dottor Marco Rossi e al dottor Andrea Chiappori, con riserva per me e per i colleghi di rivolgere loro, al termine dei loro interventi, domande e richieste di chiarimento.

  VALERIA MARTANO, Comunità di Sant'Egidio. Buon pomeriggio. Vi ringrazio del tempo che avete voluto dedicare a questa audizione poiché il tema della Commissione ci vede molto interessati.
  Faccio innanzitutto una premessa per spiegare a che titolo la Comunità di Sant'Egidio parla di periferie. Quella della Comunità di Sant'Egidio per le periferie è stata una scelta originaria, fatta negli anni Settanta per la periferia di Roma. Siamo nati con un'attività sotto ponte Marconi, dove c'erano delle baracche e dove le cose sono rimaste tali molto a lungo. Abbiamo dunque una frequentazione con quella che allora veniva chiamata «l'altra Roma», quella delle borgate. Successivamente la nostra diffusione in Italia è iniziata con una scelta per Napoli nel 1973, dopo il colera, proprio per il discorso di essere presenti dove si verificava un problema di periferia. Anche la nostra «geopolitica nel mondo» (se vogliamo chiamarla così) segue il filo conduttore delle situazioni di difficoltà, con la nostra grande presenza in Africa.
  Siamo quindi un osservatorio particolare perché non siamo un centro studi, né una ONG con una mission dedicata, bensì una realtà collettiva che ha una presenza in alcune frontiere geografiche e umane e che, all'interno di questo, offre delle letture dei fenomeni sociali in evoluzione a volte anche in maniera precoce, proprio perché siamo partiti dalla base. Per esempio, nel 1984 facemmo un convegno qui alla Camera sulle migrazioni e sul razzismo nel futuro, in tempi in cui ancora non se ne parlava tanto. In Italia siamo nelle principali città metropolitane, con 95 centri nell'arco della penisola. Per darvi un quadro di lettura vorrei tuttavia fare una precisazione metodologica. Noi ci muoveremo parlando di alcuni temi generali e trasversali, con un focus su alcune tematiche cruciali, proponendo quelle che nella nostra esperienza potremmo definire delle best practice. Pag. 3
  Comincio da una lettura sulla situazione delle periferie.
  Effettivamente, Roma, per il numero di abitanti, non sarebbe una metropoli a livello mondiale. In Italia non abbiamo agglomerati quali possono essere Tokio, Manila o Città del Messico. Tuttavia, il volto che le nostre città stanno prendendo è quello delle metropoli globali dove c'è una periferia sempre più vasta e anonima a cui si affiancano comunità ovvero isole privilegiate e un centro vetrina per lo più turistico o di affari. Sono città fatte sempre più di quartieri isola, molto poveri di luoghi di incontro e spesso molto abbandonati dal punto di vista urbanistico. La gente vive sempre più tra il posto di lavoro, quando c'è, e i centri commerciali, con un'accentuazione dell'impoverimento del tessuto umano che è la vera protezione per i deboli. La difficoltà degli spostamenti sottrae tempo alla vita familiare. Quindi, nelle periferie il primo problema che forse incontriamo è quello di un mondo in cui la gente è sola, con un accentuato individualismo. Per i poveri e per i più deboli la solitudine diventa una povertà in più, per cui passiamo dalla solitudine a quello che viene chiamato l'isolamento sociale.
  Questo crea un problema a vari livelli. C'è un discorso ecologico, ovvero un problema di ambiente umano, per cui nelle periferie si vive male. Farò alcuni esempi sulla periferia di Roma. La dignità di una casa è ancora negata a molti. Gli anziani, in particolare, costituiscono un importante problema emergente e vengono sempre più espulsi dal tessuto sociale e collocati in istituzioni periferiche. Negli ultimi anni stiamo assistendo al prolificare di istituzioni alloggiative irregolari, molto spesso poste oltre gli anelli (per quanto riguarda Roma, il raccordo anulare) o comunque in estrema periferia o in aperta campagna, dove gli anziani vengono allontanati. Invece, c'è un problema dei giovani che si ritirano nel virtuale o in aggregazioni come bande connotate spesso da violenza. Si è parlato non a torto di «morte del prossimo». Credo che questo sia uno dei tratti di cui tenere conto quando si parla, appunto, delle periferie.
  Io individuo tre temi emergenti a questo livello. Il primo è il degrado urbanistico, nel senso che c'è un abbandono fisico delle nostre periferie, con infrastrutture cadenti e il verde non curato. Spesso non ci sono spazi verdi, quindi non è possibile avere zone di incontro, oltre a strade dissestate e lavori incompiuti.
  C'è un secondo problema, ovvero la crisi delle reti sociali. È un problema molto serio e sul quale stiamo lavorando molto. Infatti, l'associazionismo è molto ridotto rispetto a venti o trenta anni fa, a cui si aggiunge la crisi della presenza dei partiti istituzionali sul territorio. Restano le parrocchie e i centri anziani che aggregano tuttavia una certa fascia di anziano, quello che oggi diremmo l'anziano giovane, non quello old old. Poi ci sono aggregazioni di tipo etnico e religioso, che sono i nuovi luoghi di culto, quindi moschee, comunità di tipo neopentecostale o anche da definire. Non raramente il controllo del territorio, soprattutto nelle parti più periferiche, è esercitato da reti di piccola o grande criminalità. Poi vedremo nel dettaglio questo che cosa porta.
  Il terzo punto è la polverizzazione delle povertà, anche non nelle periferie fisiche. Si è parlato di «periferizzazione dei centri urbani», ma utilizzerei la parola che usa Papa Francesco «le periferie esistenziali», quelle che sono anche dietro le porte apparentemente non periferiche.
  Qui individuiamo tre categorie. Una l'ho già nominata, sono gli anziani soprattutto se soli o ridotti in solitudine o istituzionalizzati; la seconda sono i giovani, soprattutto i giovani NEET, che ormai costituiscono 1,3 milioni di persone in Italia. La terza povertà esistenziale è quella degli immigrati o dei nuovi europei, cioè di quella fascia di vecchia immigrazione ormai semintegrata sulla quale però bisognerebbe fare un discorso. C'è pertanto bisogno di ricostruire le reti, a partire anche dal coinvolgimento gratuito e volontario, e di sottrarre all'inquinamento ambientale e umano spazi di bellezza e di umanità. Questo è l'approccio di Sant'Egidio, ovvero creare luoghi di integrazione a partire dai deboli e rinnovare con loro e tramite loro il volto Pag. 4delle periferie, scoprendo che ci sono problemi che possono invece rivelarsi delle energie. Questo si articola sia in una presenza diffusa con interventi mirati, sia creando sinergie con altri soggetti del privato sociale, pubblici e istituzionali per trovare delle risposte.
  Passo a parlare di Roma, una città la cui area metropolitana – come sapete meglio di me – ha poco più di 4.300.000 unità, di cui 1,5 milioni nell’hinterland. Questo costituisce una novità perché la periferia si è spostata oltre il raccordo anulare ed è cresciuta molto negli ultimi anni, mentre il numero complessivo di abitanti di Roma diminuisce. Ci troviamo davanti al problema di un centro che si va svuotando. La popolazione della città invecchia. È interessante notare che l'indice medio di invecchiamento è di 162, cioè 162 over 65 ogni 100 bambini tra gli 0 e i 14 anni, con un picco al centro storico che arriva a 220, mentre in alcuni municipi, come il Municipio VI, dove c'è Tor Bella Monaca, l'indice scende sotto 100, con 93 ultrasessantacinquenni ogni 100 bambini. Invece, la realtà degli immigrati è giovane. Sono circa 364.000 persone, con un indice di 27,3. Questo è un dato che va considerato perché questa fascia di gioventù immigrata, analizzata dal punto di vista demografico, rappresenta, nonostante le problematicità, una potenzialità importante per il futuro della città.
  Come dicevo, le borgate non esistono più. Avevamo una città – quella che abbiamo conosciuto negli anni Settanta – con comunità di borgata molto identificate. All'interno delle borgate esistevano i gruppi degli allora immigrati. Penso al Trullo, dove c'era una zona per i calabresi e una per i marchigiani. Primavalle aveva una sua connotazione, Garbatella un'altra. Oggi abbiamo un'enorme crescita, anche un po’ anonima e molto disordinata. Alcuni studi – penso a quello fatto da Francesco Erbani nel suo libro Roma. Il tramonto della città pubblica – evidenziano come Roma sia cresciuta non tanto lungo direttrici razionali, legate alle infrastrutture o ai trasporti, ma lungo direttrici di interessi privati, su aree edificabili che hanno portato a quartieri a volte a macchia di leopardo, con una grossa difficoltà a garantire la mobilità: questo è accaduto nella zona sud. Oltre il raccordo anulare ci sono infatti una serie di agglomerati piuttosto separati l'uno dall'altro, che non sono lungo la linea della metropolitana, per cui non è facile collegarli.
  Peraltro, c'è un problema nei quartieri di edilizia pubblica: siamo testimoni del fatto che gli spazi che dovevano essere utilizzati per scopi sociali nei quartieri di edilizia pubblica sono a tutt'oggi in molta parte in stato di abbandono oppure utilizzati in maniera non regolare. Uno dei motivi, a parte la crisi dell'associazionismo, è anche il fatto che non è mai stato concluso lo scambio di volumi tra l'allora Iacp, oggi Ater, e il Comune di Roma, per cui ci sono molte aree di cui non si conosce l'attribuzione. In alcuni quartieri della periferia di Roma, noi stessi abbiamo in uso locali che abbiamo sottratto al degrado e che utilizziamo come centri di aggregazione, di servizio sociale e di aiuto, ma questo accade in maniera semiregolare, nel senso che esiste un'assegnazione provvisoria nelle more dell'accordo; queste assegnazioni sono state fatte, in alcuni casi, più di 25 anni fa, cosa che evidentemente genera una precarietà anche per il privato sociale che vuole intervenire.
  Un'altra criticità della periferia romana è la differenza della distribuzione degli immigrati. Alcuni municipi hanno una grande incidenza di stranieri sul totale dei residenti, altri invece ne hanno pochissima. In particolare, pensiamo al Municipio VI, dove c'è Tor Bella Monaca, che ha uno tra i più alti indici di disagio sociale – calcolato mettendo insieme i tassi di disoccupazione, la concentrazione giovanile e la scolarizzazione – ed è anche una delle zone con il massimo abbandono scolastico della capitale, con una grossa presenza di immigrati, soprattutto rumeni e cinesi. È interessante notare che l'abbandono scolastico trova una sua corrispondenza nella distribuzione delle scuole nella zona. Nel Municipio VI ci sono quattro scuole superiori, ma c'è un'altissima concentrazione di giovani; invece nel centro storico, nel Municipio I, ci sono 19 istituti superiori. È Pag. 5evidente che questo riguarda una distribuzione datata della città, che non risponde più alla realtà. I giovani che vanno nelle scuole superiori o che vengono accompagnati nelle scuole superiori sono costretti a un pendolarismo che li distacca dal loro contesto sociale e umano, cosa che contribuisce a quell'isolamento di cui parlavamo prima.
  La più alta percentuale di stranieri è nella zona est di Roma (Municipio V e VI, ovvero Torpignattara, Tiburtina e tutti i quartieri che avete visitato), che è un continuum abitativo ad alta densità, particolarmente anonimo, lungo le vie consolari. Qui, effettivamente, esistono emergenze. C'è stata la questione di Tor Sapienza, esplosa nel novembre del 2015 a partire dalla presenza di un centro di immigrati, anche se poi si scoprì non essere dovuta all'intolleranza degli abitanti, ma all'orchestrazione di alcuni personaggi. Peraltro, le inchieste di «Mafia capitale» hanno evidenziato come ci fosse una certa regia dietro certi episodi di intolleranza. Invece, per quello che riguarda la zona sud c'è il problema della polverizzazione degli insediamenti. Abbiamo una città che diventa sempre più tante piccole isole. Questo, tra l'altro, si vede nell'identificazione, cioè non nell'essere romano, ma di «Tor Bella» o di «Laurentino», come si dice in periferia: ognuno si identifica più sulla dimensione piccola e vicina, ma allo stesso tempo non collettiva. Nella zona sud abbiamo come punto di grossa criticità il grande insediamento dei rom di Castel Romano. Si è infatti creato un agglomerato enorme e in grande difficoltà, sul quale stiamo lavorando molto da parecchio tempo per favorire la scolarizzazione, che incontra molte resistenze, non ultima il fatto che queste grosse concentrazioni non favoriscono il controllo sociale e l'integrazione.
  Il terzo caso esemplare su cui ci siamo soffermati è invece un caso di periferia al centro di Roma, il quartiere Esquilino. Qui abbiamo un'altissima concentrazione di stranieri e uno dei più alti tassi di vecchiaia. Molti sono cinesi, ma abbiamo anche altre componenti. Stiamo lavorando per creare l'integrazione tra anziani e stranieri con un programma dedicato.
  Vorrei poi passare a presentarvi a volo d'uccello l'intervento di Sant'Egidio a Roma, ovvero dove siamo e che cosa facciamo. A partire dalla lettura della mancanza di reti di prossimità, abbiamo cercato di costruire dei punti di riferimento, cioè di accendere dei luoghi nella periferia che potessero essere di aggregazione, di cultura e di educazione. Abbiamo 21 centri nella cintura periferica, da Ostia fino a Prima Porta. Con alcune difficoltà abbiano riaperto alcuni luoghi di culto che erano stati abbandonati, ovvero due chiese, una a Ostia e una nella zona di Tor Marancia. Sono luoghi che erano stati occupati o abbandonati, dove oggi si sviluppano alcune iniziative tra generazioni. Una di queste attività è la scuola della pace, un'attività educativa complementare e integrativa del lavoro scolastico. Infatti, lavoriamo in sinergia con le scuole. Questo è un tipo di attività molto importante perché le scuole sono un presidio sul territorio, forse il più vicino. Attraverso l'integrazione, i programmi di alternanza scuola-lavoro e i POF, abbiamo fatto in modo di promuovere l'integrazione soprattutto tra minori italiani e immigrati e il reinserimento scolastico, laddove c'è un alto tasso di abbandono o di dispersione.
  Un'altra presenza di Sant'Egidio nella periferia è quella costituita dalla scuola di lingua e cultura italiana, che è gratuita e aperta agli immigrati, tenuta da personale volontario, ma riconosciuta dal MIUR: essa lavora in sinergia con l'università per stranieri di Perugia, quindi può dare certificazioni valide. Con la regione abbiamo poi i corsi di mediazione interculturale. Abbiamo iniziato con questa scuola nel centro di Roma, ma oggi abbiamo sette centri in periferia (tra cui Torpignattara, Esquilino, Ostia, Torre Angela e Primavalle). Abbiamo circa 3200 iscritti, per cui questo ci sembra uno dei contributi importanti. Del resto, non è l'unica scuola. Penso a quella di Eraldo Affinati, ma ci sono diverse iniziative, spesso riferibili soprattutto a piccole associazioni o a parrocchie, con le quali si lavora in rete perché la lingua è uno degli Pag. 6strumenti prioritari per contrastare la marginalizzazione.
  Inoltre, Sant'Egidio fa un'attività di assistenza diretta che credo sia abbastanza nota a Roma e che, con la crisi, si è abbastanza intensificata sia con i centri che distribuiscono pacchi, viveri e cibo, sia con la mensa di via Dandolo. Abbiamo poi alcune soluzioni abitative per rispondere al problema degli anziani. Parlavo prima del tentativo di espellere gli anziani dal tessuto sociale, con l'istituzionalizzazione in luoghi collocati soprattutto in periferia oppure oltre il raccordo anulare. Il nostro tentativo invece è stato quello di aiutare il più possibile gli anziani a rimanere nelle proprie case oppure a fornire modelli di abitabilità. Abbiamo due esperimenti di alloggi protetti. Abbiamo un edificio in cui c'è una comunità alloggio per persone non autosufficienti all'ultimo piano, dove è garantita l'assistenza 24 ore su 24, e alloggi protetti, dove l'anziano può rimanere in un ambiente garantito, ma autonomo. Uno dei grandi problemi che ci troveremo ad affrontare è che quando c'è la perdita dell'autonomia non esiste la possibilità di preservarla il più a lungo possibile laddove c'è bisogno di protezione. Poi abbiamo l'esperimento del co-housing, sul quale si sta lavorando molto e che è una delle soluzioni possibili anche dal punto di vista economico.
  Spero di non prendere troppo tempo. Se posso andare avanti, per non fare un quadro troppo generico, vorrei dare due o tre esempi di quelle che chiamavo le best practice.
  Una è il museo laboratorio di Tor Bella Monaca, dove dal 2008 la comunità ha aperto un laboratorio di arte integrata in uno degli ex lavatoi delle case popolari, con artisti disabili e non. In realtà, sono soprattutto artisti disabili anche perché la vocazione del quartiere era proprio quella della disabilità. Abbiamo laboratori di arte sparsi in tutta la cintura periferica, ma quello di Tor Bella Monaca è anche un museo. Gli artisti disabili lavorano con altri artisti a livello nazionale e internazionale. Ci sono centri disabili che partecipano regolarmente alle attività, quindi il luogo interagisce sia con le scuole sia con l'università. L'Università Roma Tre organizza regolarmente visite e incontri degli studenti con gli artisti disabili del laboratorio. Questo è un modo per connettere centro e periferia. Gli artisti di Tor Bella Monaca hanno esposto al Quirinale in occasione della festa dei 150 anni dell'Unità, sono stati alla Biennale di Venezia e recentemente hanno chiuso una mostra al Maxxi. Questo significa che non ci si sta muovendo solo nel campo assistenziale, ma si tratta di riconoscere che le fasce di debolezza e fragilità nell'ambito sociale costituiscono un'energia, una risorsa culturale e umana che può dare molto e che, in una visione di integrazione, può offrire molto alla vita sociale.
  Bisogna insomma creare dei centri nelle periferie perché uno dei problemi delle periferie – torno un po’ indietro – è proprio quello di creare dei centri. Dobbiamo andare verso città policentriche. Questo è il trend internazionale, dovuto proprio all'urbanizzazione massiva. Sono ormai alcuni anni che la popolazione delle città ha superato quella delle campagne a livello globale, quindi l'idea di una città che abbia un centro e una periferia e chiaramente desueta. Oggi dobbiamo colmare questo gap perché abbiamo un centro che diventa vetrina e si svuota e una periferia in cui non esistono questi luoghi di aggregazione. Quindi, dobbiamo creare questi punti. In questo senso, il museo laboratorio di Tor Bella Monaca mi sembra un interessante esperimento di integrazione, tra l'altro a partire da una fascia estremamente debole.
  Un altro esperimento in questo senso è quello della città ecosolidale. Nel quartiere Testaccio a Roma, abbiamo costituito una città ecosolidale, ovvero un'ampia zona di riciclo ambientale, ma anche umano. In sostanza, si raccolgono cose che vengono riciclate e riutilizzate, quindi si contrasta la questione dello scarto. Tuttavia, abbiamo anche un riciclo umano perché in queste attività vengono impiegate persone ex senza fissa dimora o che hanno avuto problemi di detenzione. Siamo così arrivati a un inserimento lavorativo di circa 70 persone con la costituzione di una cooperativa. Pag. 7
  Ho accennato, a proposito di Esquilino, al discorso degli anziani come periferia esistenziale, fenomeno che esiste particolarmente nei centri urbani. Una risposta all'istituzionalizzazione, come dicevo, è creare nuovi modelli. A questo proposito, abbiamo dato vita nel centro ad Esquilino, ma anche a Testaccio e a Trastevere, al programma «Viva gli anziani» che ora si sta replicando anche in altre città d'Italia, a Catania e altrove, che ancora una volta parte dal riutilizzare le energie che vengono, in questo caso, da giovani immigrati, molto numerosi in questi quartieri, per riattivare delle reti sociali. Questo vuol dire ricreare attorno all'anziano la rete di sorveglianza. Pensiamo alle morti che ci sono state in solitudine. Quest'anno, nella zona San Giovanni, c'è stato il caso di una persona anziana morta in casa e ritrovata dopo molti giorni.

  MARCO MICCOLI. A Porta di Roma un'anziana è stata trovata dopo due anni.

  VALERIA MARTANO, Comunità di Sant'Egidio. Porta di Roma è un'altra di quelle periferie con un problema enorme di solitudine, con grandissime cubature costruite, ma gli alloggi occupati sono pochissimi e le piazze d'incontro non ci sono: l'unica rete è il centro commerciale. Infatti, è un quartiere che si aggrega unicamente intorno al centro commerciale (Ikea, Leroy Merlin), quindi il problema dell'isolamento sociale è molto elevato. Lo stesso accade a Parco Leonardo, che ha un problema simile. È il discorso che facevamo prima riguardo a volumi costruiti senza una pianificazione, ma in base a degli accordi o interessi che non rispondono evidentemente a vere e proprie esigenze abitative perché sono collocati male. Porta di Roma è una situazione drammatica da questo punto di vista.
  L'obiettivo di «Viva gli anziani» è, appunto, fare un monitoraggio attivo e globale, non sulla base del reddito, ma dell'età. Tutti gli anziani ultrasettantenni di un'area vengono monitorati, con l'aiuto telefonico e con attivazione delle reti di negozianti, in modo da evitare non solo le morti in solitudine, che sono un caso estremo, ma anche altri problemi. Nelle zone in cui c'è questo programma abbiamo rilevato una riduzione del ricorso alle reti ospedaliere. L'anziano solo va al pronto soccorso anche se ha la febbre, mentre quello che ha una rete di prossimità a cui ricorrere riduce il ricorso ai pronto soccorso. Se pensiamo che l'attesa media nel pronto soccorso di Roma è di 3 o 4 giorni prima di trovare un posto, questo significa anche che questi programmi permettono una riduzione della spesa. Oggi a Roma monitoriamo 12.973 anziani e ne abbiamo 5832 in carico. Questi sono i dati di novembre 2016. C'è una differenza tra monitorati e in carico: i monitorati sono gli anziani che vivono in famiglia, quindi hanno già una rete, o sono autosufficienti, per cui basta un semplice monitoraggio; in carico sono invece gli anziani che hanno bisogno di un intervento come l'aiuto nella spesa, per cui deve intervenire l'operatore.
  L'ultima cosa che volevo dire su Roma riguarda il discorso sull'emergenza alloggi: mentre abbiamo cubature inutilizzate, abbiamo anche un'emergenza alloggiativa per i senza fissa dimora, problema esploso molto recentemente con il grande freddo. Su questo, oltre a cercare di garantire un'assistenza capillare e diffusa, abbiamo sviluppato alcune esperienze. Ne volevo citare una perché mi sembra interessante dal punto di vista di come una realtà di volontariato puro come Sant'Egidio possa interagire con le istituzioni. Nel Municipio IX una ex scuola inutilizzata per il decremento demografico è stata messa a disposizione della Comunità di Sant'Egidio e della Caritas con spese minime per l'erario, anche perché le utenze della scuola erano relative a una parte completamente non utilizzata. Oggi viene utilizzata da alcuni anni per l'emergenza freddo. L'assistenza, la selezione degli ospiti e la garanzia sono a carico del volontariato, mentre l'istituzione offre la struttura. L'anno precedente a quello in cui abbiamo aperto questa esperienza nella zona del IX Municipio avemmo nove morti per freddo; oggi, sperando che continui così, sono almeno quattro anni che non si è verificata nessuna Pag. 8morte nel periodo invernale. Dunque, anche costi minimi si possono fare cose utili.
  Per concludere su Roma, riteniamo che sia importante creare nelle periferie presidi di aggregazione e di cultura, ovvero punti di riferimento, laddove quelli tradizionali sono venuti a mancare. Solo così la periferizzazione si trasforma in effettivo policentrismo. Un altro punto importante è combattere in maniera concreta l'isolamento degli anziani, con interventi sia a livello urbanistico sia con misure di sostegno alla domiciliarità. Occorre inoltre favorire esperimenti di inserimento scolastico e lavorativo. Qui c'è un problema sulle abitazioni precarie: spesso per motivi di ordine pubblico e di lotta al degrado vengono allontanate famiglie che hanno trovato abitazioni precarie. Tuttavia, in questo modo si interrompono dei percorsi virtuosi di inserimento scolastico e lavorativo che pure vengono messi in atto dalle reti sociali. Inoltre, c'è bisogno di una maggiore presenza dello Stato sul territorio. So che qui si è parlato del problema delle occupazioni degli alloggi, ma vorrei dire che non riguarda soltanto i grossi edifici che vengono occupati in massa: c'è una presenza pervasiva nei quartieri di edilizia pubblica, dove esistono reti criminali che hanno un controllo sul territorio veramente spaventoso. Posso dire personalmente di tre casi in cui sono stata testimone oculare, laddove, al ritorno dal funerale, persone assegnatarie di appartamenti di edilizia popolare, hanno trovato persone dentro casa. In un caso c'era solo il piede di porco sotto la porta; nell'altro caso c'era già una persona dentro casa ed è stato piuttosto complicato mandarla via: questo purtroppo è abbastanza consueto. Esiste un controllo del territorio da parte di alcune reti, per cui quando si libera un appartamento non si aspetta che venga riassegnato in maniera regolare, ma viene immediatamente occupato, evidenziando anche una capacità di segnalazione piuttosto veloce. Infine, vorrei fare un punto sulla gestione del patrimonio: ci sono ascensori che non funzionano nelle comunità e nei quartieri della periferia, con disabili anziani bloccati in casa. Insomma, esiste una cura del patrimonio che andrebbe tenuta meglio.
  Adesso dovrei parlare di Milano, dove ci troviamo in una situazione un pochino diversa da Roma. Mentre Roma decresce, i residenti di Milano aumentano per la prima volta dagli anni Ottanta, quindi ci si trova di fronte a una maggiore domanda soprattutto di casa, oltre che di servizi. Si sta molto lavorando sulla ricerca di nuove soluzioni abitative e sul ripensamento dei quartieri anche a livello urbanistico. Ci sono alcune parti della città costruite in maniera povera, quindi anche socialmente favoriscono lo sviluppo di vite altrettanto povere. C'è un problema molto serio di edilizia popolare sfitta perché molti appartamenti non sono più a norma, quindi c'è un bisogno abbastanza urgente di un intervento o forse di tanti piccoli interventi che possano consentire il riutilizzo di questa energia al momento inutilizzata. Spiegherò dopo come la Comunità di Sant'Egidio ha lavorato su questo. Ci sono cooperative che si stanno muovendo in questo senso, ma c'è molto da fare. Ora, noi dobbiamo salvare le periferie perché, come dicevamo prima, sono il vero luogo dove si vive. Tuttavia, spesso usiamo la parola periferia nel senso di degrado, mentre le periferie sono le grandi scommesse urbane dei prossimi decenni.
  Anche a Milano c'è un grosso problema di occupazioni abusive che hanno creato tensioni sociali. Qui però la lettura è duplice perché da una parte ci sono occupazioni che riguardano immobili spesso degradati anche di privati, ma dall'altra queste sono talvolta anche espressione della ricerca di protagonismo dei gruppi giovanili o di centri sociali. Quindi, sono fenomeni che andrebbero letti in filigrana perché spesso si dà una lettura o bianca o nera di certi eventi. Qui torno al discorso delle sperimentazioni nella periferia. Anche a Milano ci sono processi di trasformazione dei quartieri, con zone residenziali che si trasformano, processi che vanno accompagnati. Su questo è stato fatto un piano di riqualificazione a livello comunale. Per parlare del punto di vista del lavoro e della presenza di Sant'Egidio nelle periferie di Pag. 9Milano, faccio la premessa che la lista che ho fatto per Roma è un modello che Sant'Egidio ripropone in tutte le città. Oggi abbiamo deciso di concentrarci ciascuno su un punto, altrimenti avremmo fatto un elenco anche noioso. A ogni modo, per quello che riguarda Milano, vorrei mettere a fuoco innanzitutto il discorso degli stranieri e dei rom. C'è una dinamicità demografica della città, che riguarda soprattutto gli immigrati, di cui vengono spesso accentuate le parti problematiche. Ora, non vogliamo dire che i problemi non sono complessi e che le cose si risolvono sempre in maniera facile, ma non si può avere una lettura semplicistica, altrimenti si arriva a una percezione errata o di insicurezza eccessiva. In realtà, la stragrande maggioranza degli immigrati a Milano – questa è anche la nostra esperienza – è integrata e contribuisce a far crescere la città. Questo si è visto anche nei momenti di crisi. Infatti, la crisi economica non ha scoraggiato l'impresa di carattere individuale, soprattutto quelle su iniziative di immigrati. Tuttavia, bisogna notare che anche l'ossigeno economico degli immigrati sta diminuendo. A Milano questo si nota particolarmente, proprio per questa accentuazione sul lavoro, ma è un dato nazionale. C'è un minore afflusso di immigrati: i residenti stranieri sono diminuiti non solo a Milano. Questo è un trend non positivo perché denota la minore attrattività dell'Italia negli ultimi anni, con il rischio che gli immigrati più dinamici e produttivi si allontanino. Indubbiamente, una politica seria di integrazione dovrebbe tentare in tutti i modi di trattenere questa che, sia demograficamente, sia dal punto di vista dell'imprenditorialità, è un'energia da convogliare nei termini dell'integrazione e non della sovrapposizione con gli italiani.
  Un tema rilevante su cui bisognerebbe riflettere – noi stiamo cercando di farlo – è quello delle scuole, dove c'è un'altissima concentrazione di alunni di origine immigrata. In alcune scuole milanesi si arriva al 90 per cento. Tuttavia, c'è un duplice fenomeno, dal momento che alcuni di questi bambini sono immigrati per modo di dire perché sono seconde o terze generazioni, quindi sono nati in Italia. Qui c'è un deficit giuridico sul quale abbiamo lavorato tante volte. Il discorso dello ius soli e dello ius culturae aiuterebbe l'integrazione perché questi bambini sarebbero cittadini, ma in Italia non lo sono. Questo dà una lettura deformata della realtà. Un problema interessante da valutare è quello della concentrazione: ci sono alcune aree in cui si arriva a una concentrazione così alta di immigrati che è veramente difficile parlare di integrazione. In alcune aree urbane ci sono impulsi contrastanti rispetto al discorso dell'integrazione. Si è parlato di «mixofilia» e «mixofobia» come due atteggiamenti contrastanti.
  Per semplificare il focus su Milano, anche qui vorrei esporre tre case studies relativi alla presenza, all'intervento e alla proposta di Sant'Egidio.
  Il primo riguarda il IV municipio, in particolare la zona di Corvetto, dove siamo da circa vent'anni. Bisogna dire che questo municipio è quarto come indice di rapporto tra italiani e stranieri, ma il quartiere di Corvetto è quello in cui sono concentrati tutti gli stranieri. Proprio per questa concentrazione particolare di stranieri c'è una percezione di insicurezza, come si è detto, anche perché potremmo paragonarlo alla zona Esquilino di Roma, avendo anch'esso la più alta concentrazione di anziani. La convivenza tra anziani e immigrati è però da accompagnare perché non si può immediatamente trasformare in qualcosa di positivo se non esiste una mediazione di enti o di associazioni. Questo è il lavoro che cerchiamo di fare noi. Sant'Egidio lavora infatti in questo senso per l'incontro tra le generazioni. Abbiamo dato vita in molti posti in Italia – in zone come Corvetto questo è particolarmente significativo – a un movimento che si chiama «Gente di pace». Anche gli immigrati tendono a aggregarsi per etnie e provenienze, mentre il movimento «Gente di pace» accoglie immigrati in maniera trasversale dal punto di vista etnico, linguistico e religioso, favorito dall'attività di insegnamento della lingua e della cultura italiana che abbiamo nella nostra scuola. Questi giovani stranieri o «nuovi europei», come ci piace di più, Pag. 10diventano un sostegno e un'assistenza per gli anziani, un accompagnamento. Questo educa alla convivenza, anche attraverso le scuole della pace.
  Un'altra attività che viene svolta è l'integrazione ed educazione alla convivenza religiosa. Questo è un tema molto importante e particolarmente cruciale in queste zone. Faccio l'esempio a quanto accaduto a Corvetto il 5 gennaio scorso, ripreso da tutti i media, ovvero il rogo dell'albero di Natale. Ebbene, in quell'occasione la comunità ha organizzato una manifestazione pubblica in cui coinvolti sono stati coinvolti giovani, immigrati, bambini e famiglie italiane perché è importante – per questo più volte sono tornata sul discorso della cultura – creare una narrazione positiva che si contrapponga a quella che è soltanto emergenziale di certi fenomeni. Questi fenomeni hanno una loro positività. Noi abbiamo potuto verificare infatti la positività anche nella reazione della popolazione locale.
  L'importanza di questo incontro tra generazioni, tra anziani e stranieri, a noi sembra una chiave, quindi sarebbe importante sviluppare una rete di servizi che assuma gli stranieri e li utilizzi. Peraltro, è quello che avviene nelle famiglie in maniera solidaristica. Il fenomeno delle badanti è un modello tutto italiano, ma potrebbe diventare un modo di integrare la debolezza dell'anziano per farne un trasmettitore di cultura con la debolezza dell'immigrato, che avrebbe la possibilità di aiutare gli anziani e di vivere in una situazione dignitosa, ma anche di fare da cintura di trasmissione culturale che favorisce l'integrazione degli stranieri.
  L'altro esempio che vorrei fare riguarda l'integrazione dei rom, in particolare il caso di via Rubattino. Nella zona sono stati effettuati molti sgomberi di campi negli anni passati. Ci sono stati un centinaio di sgomberi all'anno, quindi i rom si sono spostati in piccole baracche in questa zona. La Comunità di Sant'Egidio ha attivato, in sinergia con le scuole, che – ripeto – sono effettivamente un presidio importantissimo sul territorio, un comitato di mamme e maestre che ha lentamente risolto una serie di problemi abitativi. Credo che si tratti della più grande integrazione abitativa dei rom fatta negli ultimi anni, sicuramente a Milano e forse in Italia. Non ho i dati per dirlo, ma ne ho il serio sospetto perché abbiamo 60 famiglie che oggi vivono in casa, sottratte al degrado dei campi, all'isolamento sociale e a una vita che inevitabilmente porta con sé molte problematiche. Non entro nel discorso dei rom nelle altre città, tuttavia crediamo che il problema dei campi si risolve solamente in questo modo, cioè offrendo soluzioni abitative distribuite sul territorio, con un accompagnamento della comunità, della rete sociale e delle scuole, che ha dato e sta dando risultati molto importanti. Peraltro, avere 60 famiglie rom a casa vuol dire anche avere 76 uomini e 33 donne che lavorano, nonché 89 bambini che vanno in vacanza con le scuole e con le associazioni, quindi si tratta di un'integrazione completa. Non si tratta soltanto di dare casa perché la presenza delle associazioni e la creazione delle reti permette tutto questo.
  L'ultimo caso che vorrei citare a proposito di Milano è quello del Municipio 2, con la famosa via Padova di cui si parla in maniera contrastante, soprattutto per episodi di criminalità o comunque di tensioni interetniche. Quella viene percepita come la zona di massima concentrazione dei musulmani, invece la massima concentrazione di stranieri riguarda i filippini. Dico questo solo per dire che occorre guardare dentro i fenomeni. Ovviamente, non si può negare che lì ci sia un problema di dialogo e di integrazione della comunità musulmana. Abbiamo stabilito relazioni positive con il centro islamico di via Padova, frequentato soprattutto da egiziani e magrebini, tuttavia va detto la moschea ha lo sfratto esecutivo, per cui bisognerebbe ragionare su come garantire che certe presenze, adeguatamente monitorate, possano esprimersi in maniera aperta, quindi anche controllabile e controllata, piuttosto che spingerle sempre più ai margini, favorendone la possibile acquisizione da parte di elementi più radicali. Insomma, lasciare i centri underground non ci sembra la cosa migliore. Lì c'è da fare dunque un lavoro di Pag. 11prevenzione del radicalismo, intervenendo molto sull'integrazione. Questo è quello che facciamo soprattutto a partire dalle donne giovani immigrate.
  C'è un'altra emergenza di cui si parlato di meno e soltanto in maniera sporadica in riferimento ad alcuni fatti di cronaca. Ad agosto scorso c'è stato l'omicidio, da parte di bande collegate con le maras centroamericane, di Albert, un ragazzo albanese ormai integrato in Italia e che conoscevamo. Ciò ha aperto uno squarcio sul problema della pervasività di questa criminalità organizzata e del livello di queste bande giovanili che si rifanno al narcotraffico latinoamericano, e sulla presenza delle maras a Milano. C'è stato qualcosa di simile anche a Genova: purtroppo, sono vere e proprie forme di mafia molto pericolose e molto violente. A questo riguardo, vi accenno che in febbraio ci sarà un convegno a Milano organizzato dalla nostra Comunità che si intitola «Il Salvador a Milano», anche per aprire un discorso su questo fenomeno di cui, se non si prendono subito le misure, si rischia che nei prossimi anni sarà un'emergenza sociale di dimensioni piuttosto serie, com'è attualmente in Centroamerica.
  Per concludere su Milano, una delle cose su cui va messo l'accento è l'importanza di creare reti anche tra associazioni. Cito soltanto l'esempio di Binario 21, che è diventato Memoriale della Shoah per iniziativa della Comunità di Sant'Egidio e con la convergenza non solo della comunità ebraica, ma anche di tante associazioni di diverso segno, colore e inclinazione. Nell'emergenza migranti questo è diventato un luogo di accoglienza temporanea di migranti che ha visto il concorso di una grande parte di società civile. Mi fermo qui. Spero di avervi presentato quella che consideriamo la chiave, ovvero la reinterpretazione delle fragilità come energie nell'ambito di un lavoro di rete di accompagnamento, che è quello che la Comunità di Sant'Egidio tenta di fare.

  ANDREA CHIAPPORI, Comunità di Sant'Egidio. Anzitutto vi ringrazio dell'invito, molto interessante per noi anche perché ci ha permesso di fermarci a considerare il lavoro che la Comunità sta facendo nelle periferie di tante città italiane. Ringrazio anche la dottoressa Martano perché ha già illustrato molte cose che quindi posso omettere.
  Vorrei iniziare presentando alcune caratteristiche molto sintetiche della città di Genova che aiutano a comprendere i fenomeni che cercherò di descrivere brevemente.
  Innanzitutto, bisogna dire che Genova, così come la vediamo oggi, ha un passato abbastanza recente, nel senso che esiste da 90 anni, cioè dal 1926, quando è stata creata l'unificazione di tutti i piccoli comuni che erano attorno alla città di Genova, che ora è il centro della città, quindi si è creata quella che per qualche anno è stata detta «la grande Genova». La grande Genova ha conosciuto un periodo iniziale di forte sviluppo, in particolare nel dopoguerra ed è arrivata a contare circa 870-900.000 abitanti. La crescita si è arrestata tra l'inizio e la metà degli anni Settanta, per cui oggi Genova conta lo stesso numero di abitanti che aveva nel 1931, cioè 580.000, compresi gli immigrati che sono giunti nella nostra città. Questo vuol dire che negli ultimi quarant'anni Genova ha perso 300.000 abitanti ed è un dato che va assolutamente considerato. Proprio per queste caratteristiche di unificazione di comuni e di territori autonomi in passato, Genova ha un tessuto diverso da città come Roma e Milano, come abbiamo ascoltato, ma anche da città come Napoli perché potremmo dire che non ha grandi periferie bensì periferie molteplici. All'interno della città ci sono infatti periferie anche laddove non si potrebbe immaginare.
  Vorrei fare due esempi, senza entrare nel dettaglio, di forme di periferia che esistono all'interno della città. La prima categoria sono i quartieri nati già come periferia come i quartieri collinari degli anni Settanta e Ottanta, nati già con la chiara caratteristica di rimanere periferie. Le zone disponibili in quel periodo per lo sviluppo della città erano abbastanza impervie sulle colline o all'interno delle due valli che ne costituiscono il territorio, quindi questi quartieri sono rimasti come sono Pag. 12nati, cioè sconnessi dal resto della città e con molte difficoltà per l'aggregazione sociale. Sono costituiti da palazzoni anonimi, dove è molto complesso costruire relazioni. Spesso, come diceva la dottoressa Martano, l'unica presenza istituzionale è stata la scuola, sebbene con grandi difficoltà.
  Un altro aspetto caratteristico più recente riguarda i quartieri semiperiferici che, in quella logica del policentrismo che aveva caratterizzato la nascita della città di Genova così come la vediamo oggi, hanno perso il loro vero significato di cintura tra il centro e la periferia lontana. Questi hanno conosciuto una grave crisi, per cui da semiperiferici sono diventati estremamente periferici, pur essendo molto vicini al centro della città. Questi quartieri offrivano una vita sociale ricca, con occasioni culturali, teatri, cinema, biblioteche e presìdi di presenza di uffici pubblici, ma negli ultimi 10-15 anni tutto questo si è cancellato e sono diventati vere e proprie periferie a ridosso stretto della città. Questo degrado è stato causato da diversi motivi. Vorrei sottolinearne solo due. Il primo è la deindustrializzazione. Infatti, quando a Genova – purtroppo o per fortuna – è venuta meno la grande industria che ha creato occupazione, ma anche tantissimo inquinamento, sono iniziati a nascere i grandi centri commerciali che hanno tolto vivacità al commercio al dettaglio, per cui questi quartieri hanno perso il loro significato. Purtroppo, c'è una lettura di questo fenomeno che ritengo profondamente sbagliata perché spesso si dice che la crisi di questi quartieri sia dovuta all'insediamento di comunità di persone provenienti da altri Paesi. In realtà, è esattamente il contrario. Risulta chiaro infatti che le cause della crisi di questi quartieri sono state ben altre, ovvero la deindustrializzazione e il cambiamento delle pratiche con cui si svolge il commercio. In conseguenza di questo, è crollato il valore degli immobili in questi quartieri, che prima erano praticamente equiparati al valore degli appartamenti in centro. Questo fenomeno ha fatto sì che gli immigrati provenienti soprattutto dal centro America si siano insediati in maniera molto consistente proprio in questi quartieri, grazie al fatto che il costo degli appartamenti in vendita o in affitto era precipitato per le cause dette prima. Purtroppo, l'equazione si fa invece al contrario, cioè si pensa che la crisi sia dovuta al fatto che sono arrivati gli stranieri, il che è completamente sbagliato.
  L'altra caratteristica di Genova, come di tante altre città del Mediterraneo, è il centro storico, che è stato oggetto di «gentrizzazione», come ha spiegato la dottoressa Martano, ovvero del tentativo di ricostruire i centri di antiche città, come è successo in parte a Roma, ma anche a Parigi e a Londra. Tuttavia, ristrutturando i centri città, la popolazione viene espulsa, mentre le case di grande pregio vengono vendute a società internazionali o a privati molto facoltosi che si insediano in queste zone centrali delle città. Ebbene, c'è stato anche a Genova un tentativo del genere, ma non è riuscito, forse principalmente a causa delle caratteristiche del centro storico genovese, che è per la maggior parte impraticabile dalle automobili. Esistono nel centro città molti immobili ristrutturati che restano vuoti e che non hanno possibilità di essere messi sul mercato, per cui cadono facilmente nel degrado. Purtroppo, nel centro città ci sono scuole in cui sono totalmente assenti i figli di italiani, cioè abbiamo classi composte esclusivamente da figli di famiglie immigrate. All'interno del centro storico c'è un fenomeno abbastanza consistente – non allarmante, ma comunque preoccupante – di crescita di piccole moschee fuori controllo, di sale di preghiera, di luoghi di culto e di sette neo-protestanti. Genova diventa quindi una città di periferie giustapposte che non trovano integrazione tra esse né con il centro città.
  Direi che oltre a questo è necessario citare due periferie che non hanno caratterizzazione topografica, ma piuttosto anagrafica, o forse potremmo definirle come fa Papa Francesco «periferie esistenziali», cioè condizioni di vita in cui si sperimenta la marginalizzazione e la delusione, che diventa incapacità progettuale. Qui l'irrilevanza delle proprie decisioni viene a manifestarsi in maniera molto chiara. Pag. 13
  Queste due periferie esistenziali sono, anzitutto, come ha già detto chi mi ha preceduto, gli anziani che rappresentano una grandissima periferia nella città di Genova, quasi un continente composto di tantissime persone molto avanti negli anni che vivono normalmente da sole in casa. Il processo di esclusione spesso si conclude con l'istituzionalizzazione, cioè anziani che hanno vissuto per 80-85 anni nella loro casa e nel loro quartiere finiscono i loro giorni in case di riposo anonime, magari in centro o anche più spesso nelle periferie della città. Più che un aspetto di periferia caratteristico di Genova, questa è un'occasione mancata perché siamo in una delle città più vecchie d'Italia e probabilmente di Europa, che però non è riuscita in questi anni a costruire un'alternativa alla condizione marginale di questi anziani. Potrebbe essere stato e potrebbe ancora essere un laboratorio molto interessante in cui sperimentare soluzioni di assistenza domiciliare e creare reti di responsabilità sociale condivisa che potrebbero essere anche esportate in altre città italiane che si avviano ad avere le stesse percentuali di anziani quali oggi a Genova.
  L'altra periferia esistenziale è quella dei giovani, che sono sempre meno e spesso costretti a cercare un futuro altrove o a vivere esistenze deprivate di esperienze significative. Tra questi faccio un cenno particolare ai giovani stranieri, dalla cui integrazione sociale, culturale ed economica dipende il futuro di Genova proprio in forza delle cose che ho detto all'inizio, ovvero del decremento di popolazione che la città registra in maniera apparentemente irreversibile. Le tendenze demografiche devono spingere verso l'integrazione di una periferia come quella dei giovani, che purtroppo continua a essere un corpo che non suscita interesse per le politiche dell'amministrazione. La città sembra dunque diventare sempre più costituita di circuiti che non si incontrano, che si tratti di quartieri privi di integrazione o di fasce sociali o anagrafiche.
  La Comunità di Sant'Egidio negli anni ha accentuato il proprio carattere popolare, consapevole del fatto che le reti di coesione sociale stanno progressivamente sparendo e che una società atomizzata come quella che si va costruendo è senza dubbio più debole di fronte alle sfide e ai pericoli che si presentano davanti a noi. Credo che nella Comunità di Sant'Egidio viviamo un'esperienza di corpo intermedio – anche se è un po’ strano definire la comunità come un corpo intermedio – che sta crescendo e realizzandosi come uno dei rarissimi esempi, appunto, di corpo intermedio. Come vediamo, i partiti e i sindacati hanno perso nel tempo la loro efficacia in questo senso, dunque credo ci sia una grande necessità di sviluppare realtà sociali di questo tipo perché sono esse stesse una risposta molto concreta al degrado urbano.
  Vorrei dire ancora una cosa mo’ di esempio e di valutazione generale. Nel quadro che ho descritto viene abbastanza naturale parlare di declino, ma è una parola che non si pronuncia mai. È difficilissimo sentire parlare di declino sia per Genova sia per altre città. Si preferisce parlare di degrado. Ecco, credo che questa sia semplicemente un'azione di cosmesi semantica, come se non nominare il vero nome della realtà che abbiamo di fronte significasse allontanarla o non doverla considerare troppo. Inoltre, vorrei sottolineare che quando si parla di degrado sì può facilmente individuare qualcuno che ha la colpa di questo degrado, mentre se si parla di declino si è posti di fronte alla necessità di scelte condivise che richiedono il contributo di tutti e di cui tutti sono responsabili. Ecco, penso che sarebbe molto importante questo passaggio per assumere una connotazione di verità nell'analizzare queste realtà.
  Di fronte a tutto questo, in assenza di una politica e di una società capace di scelte, cresce la paura che non è tanto nei confronti dello straniero, ma del futuro, di che cosa succederà domani. Anzitutto, si ha la sensazione che domani sarà peggio di oggi, anche perché oggi è peggio di ieri. In questo quadro, la paura diventa, a un livello collettivo, l'incapacità di scegliere e di agire. Anche se le cose possono cambiare rapidamente, le periferie genovesi non sembrano al momento animate da movimenti Pag. 14di protesta, ma piuttosto prese da una paralisi che le blocca, con un istinto conservativo che fa temere ogni cambiamento. A livello individuale invece la paura fa crescere problematiche di tipo diverso, eminentemente di tipo psichiatrico o comunque clinico. Pur mancando dati a livello cittadino, depressione e suicidio vedono la Liguria ai primi posti in Italia.
  Seppure questi aspetti ci facciano uscire dal discorso stretto sulle periferie, essi ci aiutano a capire i rischi connessi ai processi di marginalizzazione e di isolamento. Al tempo stesso, considerare questi aspetti ci aiuta a capire che la soluzione ai problemi delle periferie potrebbe essere riassunta dalla necessità di contrastare le forme di isolamento, che non si vincono incentivando soluzioni ormai vecchie o anacronistiche, ma entrando nella dinamica dei processi attuali per trovare i rimedi idonei.
  Vorrei rapidamente citare alcuni esempi di quartieri di periferia di cui ho trattato in maniera globale le caratteristiche. Anzitutto vorrei partire da due quartieri, il CEP e il Begato, che sono due esempi di insediamento recente. Sono stati infatti costruiti negli anni Settanta o anche precedentemente, ma sono nati già come periferie. Il quartiere CEP di Prà, che coincide con una unità urbanistica che si chiama Ca’ Nuova, attualmente ospita 6.300 abitanti, quindi è relativamente piccolo, ma è capace di riassumere in sé stesso tutte le peggiori statistiche della città di Genova. Il tasso di disoccupazione (20 per cento) è il più alto di tutta la città; l'indice di disagio sociale (9,5 per cento) fa invidia a percentuali che si rilevano nel sud Italia e anche in questo caso è il più alto della città; il tasso di scolarizzazione è giunto a livelli minimi. Qui la somma tra istruzione terziaria e superiore è del 31,5 per cento; i laureati sono il 5,3 della popolazione, mentre nelle zone del centro raggiungono il 43-44 per cento. È un quartiere in cui la Comunità di Sant'Egidio ha costruito una rete di aiuto a partire dai bambini, che si è estesa poi a famiglie e anziani, per diventare uno dei principali collaboratori della scuola che in questo quartiere è presente e svolge un ruolo fondamentale, come abbiamo già detto precedentemente. Del CEP di Prà, se interessa, posso dare altri dati.
  L'altro è il quartiere di Begato, che è situato nel Municipio 5 della Val Polcevera, che è una delle due valli che costituiscono il territorio della città. Sono due unità urbanistiche, una si chiama quartiere Diamante e l'altra Valtorbella. In questo quartiere i primi abitanti sono giunti nel 1984. Pensate che la Comunità di Sant'Egidio è presente da trent'anni, quindi dal suo nascere. Il quartiere è caratterizzato da edifici molto tipici, che si trovano un po’ in tutto il territorio della nostra Italia: edifici di colore grigio, di scarsa qualità edilizia, costruiti a forma di dighe. Ce ne sono due in particolare che costituiscono due vere e proprie dighe che ostruiscono la valle in cui nasce il quartiere e che hanno caratteristiche interne che potremmo dire quasi perverse. Pensate che ci sono degli appartamenti che, per essere raggiunti, richiedono di passare attraverso due o tre ascensori perché, essendo nati lungo la linea delle colline, hanno il portone molto lontano, quindi bisogna salire e poi scendere, altrimenti non ci si arriva. Attualmente nel quartiere di Begato vivono 4.619 persone. Come dicevo, la Comunità di Sant'Egidio è presente da più di trent'anni e – solo per darvi un dato – segue il 25 per cento dei giovani tra i 6 e i 14 anni, quindi svolge un lavoro molto consistente e decisivo, essendo quella l'età in cui, come ben sapete, i nostri ragazzi corrono i rischi maggiori.
  Vorrei dare una testimonianza personale. Noi siamo presenti in questo quartiere da trent'anni, ma purtroppo non siamo ancora riusciti a ottenere dagli enti pubblici un luogo idoneo dove svolgere la nostra attività, che oggi svolgiamo in piccole sale messe a disposizione dalle parrocchie del quartiere. Ciò mi induce a un quesito: non interveniamo in queste situazioni di degrado e di marginalità per motivi di mancanza di fondi necessari o perché c'è una cultura che manca e che ci impedisce di comprendere la necessità e l'urgenza di interventi decisivi in queste periferie degradate? Credo che non sarebbe molto difficile – considerando il fatto che all'interno di questo quartiere ci sono decine e Pag. 15decine di appartamenti inutilizzati, abbandonati e murati dalla stessa amministrazione pubblica – trovare un luogo idoneo dove poter far sviluppare l'attività di aiuto che la Comunità svolge a favore di questi minori: questo non avviene ormai da trent'anni e mi sembra particolarmente emblematico.
  Se non ho impiegato troppo tempo, vorrei fare l'esempio di altri due quartieri che sono...

  PRESIDENTE. Ci dispiace, ma abbiamo l'Assemblea tra venti minuti. Può ovviamente depositare i documenti che ritiene.

  ANDREA CHIAPPORI, Comunità di Sant'Egidio. Concludo, allora, con un'osservazione molto rapida. Vorrei sottolineare che siamo estremamente convinti che all'interno di questi quartieri è possibile intervenire e fare molto. L'attività e l'intervento degli enti pubblici è sicuramente molto più efficace, ma si rivela di grande inefficacia perché questi luoghi non sono né conosciuti né frequentati delle amministrazioni locali.

  MARCO ROSSI, Comunità di Sant'Egidio. Vi ringrazio dell'invito, dell'opportunità e dell'attenzione che eroicamente riuscirete ancora darmi.
  Quello di periferia a Napoli è un concetto nuovo. Non ripeto quello che avete sentito adesso da Andrea Chiappori. Le nostre sono città mediterranee. Napoli è stata una grande capitale mediterranea, dove la periferia nasce tra fine Ottocento e inizi Novecento, ma una città di periferie interessanti, plurali e in evoluzione. Se c'è un problema per Napoli è lo stereotipo che la domina. Sono stereotipi variabili nella storia, ma dominanti. Ci sono periferie al centro: Forcella, Sanità e Quartieri spagnoli non sono quartieri residenziali. Lo sapete anche voi che forse non siete napoletani. Sono realtà periferiche per gli indicatori socioeconomici e per la presenza della criminalità organizzata, ma sono al centro. Questo è molto interessante perché Napoli ha uno dei centri storici più grandi d'Europa (non oso paragonarlo a quello di Roma), che sta cambiando more neapolitano, cioè con un'azione non governata dall'amministrazione pubblica, ma che parte dal dinamismo del turismo, della società civile e dell'imprenditoria. Sono testimone di gruppi di turisti che attraversano i Quartieri spagnoli, che sono anche molto interessanti dal punto di vista storico-artistico. Ho trovato gruppi di bolognesi che mi chiedevano dov'è la Concezione a Montecalvario, che è un grande capolavoro di Domenico Antonio Vaccaro. Io gliel'ho indicata, ma erano oserei dire ingenuamente inconsapevoli di stare ai Quartieri spagnoli. Meglio così, perché l'immagine di qualche anno fa dei quartieri come regno delle faide tra le famiglie è vecchia e superata dai fatti. Avete sotto gli occhi la Sanità, che cambia a partire da un turismo intelligentemente governato e guidato, nonché da un grande serbatoio di storia e di cultura. Non sto dicendo che non ci sono problemi, ma la realtà è un po’ più articolata.
  Cosa c'è di peggio di Scampia? È un monstre nell'immaginario, amplificato anche con merito da una certa pubblicistica. Tuttavia, Scampia è plurale. A Scampia ci sono almeno sette quartieri. Ci sono dei parchi, che è un modo napoletano per dire dei piccoli compound dove vivono dipendenti pubblici anche delle forze armate. Ci sono i vecchi lotti della 167 dove vivono operai, pensionati e gente con lo stipendio, quindi direi piccola borghesia come noi, se è una definizione che ha ancora un valore, accanto alle case dei puffi e alle vele, che sono un esempio di archeologia del degrado, che ha anche un suo senso. Scampia cambia se si decidono a farci la facoltà universitaria.
  Ci sono i quartieri della zona orientale, che era una periferia industriale, il polo dell'arte bianca, San Giovanni e Ponticelli, una zona agricola a vocazione varia, che oggi è una zona in rapidissima trasformazione per la presenza dei cinesi. Infatti, i cinesi ne hanno fatto una base commerciale. Purtroppo la loro flotta commerciale ha lasciato Napoli per Malta ed è stata un'occasione persa per la città, ma di fatto è una zona cinese. La comunità cinese sta vivendo un'interessante evoluzione con una Pag. 16maggiore domanda di integrazione rispetto a quello che si è registrato.
  La periferia ovest – Napoli non ha il sud perché c'è il mare – è rione Traiano dove io ho conosciuto la povertà. Oggi è tornato quello che era in origine, cioè un quartiere con palazzine di mattoncini rossi, un po’ new town, anche con una certa eleganza: insomma, c'è un'evoluzione. Traiano non è solo il posto in cui un giovane spacciatore è stato ammazzato dai carabinieri, ma è qualcosa di diverso.
  Passo alle periferie interne trasversali. Napoli è ancora una città giovane, ma sta invecchiando rapidamente. Il problema di questi due segmenti opposti è che le risposte istituzionali e assistenziali sono molto scarse. Gli anziani che usufruiscono di assistenza domiciliare sono meno dell'1 per cento. Il 20 per cento degli ultrasettantenni ha la pensione minima, contro una media nazionale dell'11,2 per cento. Solamente il 2,5 per cento dei bambini con meno di due anni di età usufruisce di servizi per l'infanzia. Non sono pjezze ’e core i figli a Napoli, visto che la media italiana è del 13,5 per cento.
  Riguardo all'ordine pubblico non ho avuto modo di leggere gli ultimi dati, ma vi dico una registrazione a livello di città metropolitana: Napoli ha un tasso di delitti diffusi inferiore alla media nazionale. Detto in altri termini, a Napoli si fanno meno furti per popolazione residente di quanto avviene nel resto d'Italia. Poi, questo dato può essere letto in modi molto diversi perché potrebbe anche esprimere un certo controllo del territorio. Questo è possibile, infatti vi vedo molto favorevoli a questa ipotesi. Tuttavia, non la vediamo così drammaticamente. Quello che purtroppo è sicuro è il tasso di delitti violenti, che è doppio rispetto alla media nazionale perché c'è la camorra. Questa non è certo una scoperta potente. È però una camorra che – lo sapete anche voi leggendo i giornali e seguendo le notizie – sta cambiando volto per motivi oggettivi, perché i vecchi clan sono stati decapitati e c'è un cambio generazionale. C'è una camorra giovane più gangsterista e meno tradizionalista, e questo produce violenza. La camorra è il nodo di Napoli da sempre, ma oggi ancora di più.
  C'è una periferia estrema che è quella dei rom. È una piccola periferia perché stiamo parlando di 1.500 persone tra Napoli e provincia, con più del 50 per cento di bambini. La regione Campania è oggetto di una procedura sanzionatoria da parte dell'Unione europea perché non esiste se non un esempio di campo attrezzato. I rom nella città metropolitana di Napoli vivono in discariche della spazzatura in cui l'allacciamento all'energia elettrica è del tutto casuale, fortuito e pericoloso. Infatti, una bambina di un campo improvvisato a Giugliano è morta fulminata proprio per questo tipo di installazioni elettriche. È un piccolo popolo di bambini e giovani, con un'età media inferiore a 45 anni. Non sono nomadi – penso lo sappiate – ma si vogliono fermare.
  In relazione a istruzione, formazione e dispersione scolastica, il tradizionale abbandono del bambino che non si prende la terza media o la quinta elementare è in netto calo. Il problema è un altro: l'efficienza del sistema formativo. C'è un tasso elevato di abbandono precoce degli studi (26 per cento a Napoli, 15,8 in tutta Italia) e soprattutto livelli di competenza alfabetica e numerica – le vituperate prove Invalsi secondo me non vanno tanto vituperate – decisamente più bassi rispetto alla media nazionale. La forza di Napoli è una certa tenuta della società civile e, senza indulgere all'oleografia, di certi valori tradizionali. Secondo me, c'è una certa Gemeinschaft perché è vero che a Napoli il rapporto personale conta enormemente di più: forse è così anche a Bologna, ma a Napoli sicuramente. Parlerò con i bolognesi per saperlo. L'anziano che muore da solo capita nei quartieri già molto anziani, ma la rete tiene.
  Sant'Egidio si dedica ai bambini fin dall'inizio, dal 1973. Oggi abbiamo una rete di otto «scuole della pace» nei quartieri che vi ho detto. A Scampia ci stiamo dal 1978. Questa non è storia patria, ma 38 anni di presenza in un quartiere fortemente connotato dalla camorra vuol dire aver toccato, conosciuto e seguito più di 7.000 Pag. 17persone, cioè presuntuosamente più del 10 per cento della popolazione residente, seminando cultura, cercando di creare speranza, dando spiragli di una vita possibile e diversa. I bambini rom vogliono andare a scuola? Il nostro impegno con i rom a Napoli è molto forte: abbiamo un progetto che si chiama «Diritto alla scuola, diritto al futuro», con cui abbiamo garantito borse di studio a 653 bambini rom, molti dei quali hanno già terminato la media inferiore. Non conosco un metodo più efficace per l'integrazione di un gruppo periferico che non sia l'istruzione.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Dall'audizione del prefetto Gabrielli è venuto fuori, alla fine di tutto il racconto sui numeri, il fatto che riteneva che la migliore pratica che ha vissuto proprio qui a Roma fosse quella dei tavoli di lavoro in cui forze dell'ordine, istituzioni e associazionismo si confrontavano per valutare la progressione dei problemi o la positività delle azioni. Ora, mi interessa capire, rispetto al tema della costruzione di reti, se il vostro rapporto con le istituzioni è diverso, come sembra dai racconti che avete fatto, nei vari territori. Mi domando infatti se questa possa essere un'indicazione importante da far emergere dai lavori di questa Commissione e se ritenete sia uno strumento utile. Inoltre, per curiosità vorrei chiedervi una cosa che non riguarda voi, ma un altro tema che è venuto fuori specialmente per Milano. Io sono un'emiliana che vive a Milano. Nelle nostre prime valutazioni è emerso che nella gestione delle case popolari, ovvero nell'edilizia sociale, c'è una differenza secondo i comuni e gli enti regionali. Ecco, avete anche voi questa opinione? Ci potete dire qualcosa su questo? Uno dei problemi di fondo, anche in relazione al welfare e dunque alla casa sociale, è che ci sono anche nello stesso territorio modelli gestionali diversi e relazioni complicate. È così in tutta Italia o solo a Milano? Cosa ne pensate?

  ROBERTO MORASSUT. Il tema delle periferie romane è particolarmente complesso, anche dal punto di vista dimensionale della città, che – come noto – ha una dimensione territoriale pari alle nove grandi città metropolitane italiane, per cui a livello anche insediativo le periferie romane assumono caratteristiche particolari e problematiche, con uno sviluppo diverso e imparagonabile a quello delle altre città; tuttavia, la mia domanda è necessariamente specifica. Si è detto che alcune sofferenze sociali nascono anche dalle modalità di nascita e di crescita della periferia urbana; si è parlato di quartieri realizzati con enormi cubature e con «scambi», riferendosi anche a contributi recenti della letteratura urbanistica. Ora, siccome le parole hanno un senso se sono accompagnate da una valutazione statistica che deve essere più precisa possibile, la mia domanda è quali sono questi quartieri nati con gli scambi, in quale data sono stati deliberati e quando sono stati costruiti. Inoltre, di che scambi si tratta? Ci sono illegalità che ritenete siano state compiute in questi presunti scambi? Inoltre, vi chiedo una valutazione ancora più specifica. Negli anni 2000 c'è stato il passaggio da un piano regolatore del 1962, che prevedeva 5 milioni di abitanti e uno sviluppo edilizio di 120 milioni di metri cubi, a un piano regolatore che ha ridimensionato la capacità insediativa alla metà, cioè quella attuale, con un taglio di volumetrie per 65 milioni di metri cubi, naturalmente con una parte non realizzata. Ora, a cavallo di questa manovra urbanistica molto complessa, furono approvati programmi di recupero e riqualificazione urbana riferiti all'articolo 11 della legge n. 493 del 1997 e all'articolo 2 della legge n. 179 del 1993, per un totale di 2 miliardi di investimenti pubblici e privati. Sarebbe interessante – anzi credo che la nostra Commissione potrà fare degli approfondimenti su questo – capire che tipo di evoluzione e di realizzazione hanno avuto questi programmi nel corso degli ultimi dieci anni.
  Parliamo di asili nido, centri anziani, impianti sportivi, infrastrutture, opere pubbliche, servizi di nuovo tipo; insomma di un'importante manovra di potenziamento dei servizi in periferia, di cui però si è persa traccia. Allora, in questo racconto di Pag. 18Roma molto letterario e a volte giallista si perdono i dati di fatto e la storia di uno sviluppo anche distorto e anche delle più recenti amministrazioni, in cui scompaiono i numeri, le quantità, le date e i riferimenti amministrativi. Sarebbe quindi forse anche questa l'occasione per ricostruirlo, anche perché Roma è una città sovrastandard.
  Se guardiamo le tabelle avvalorate dal recente rapporto statistico del comune di Roma, amministrazione Raggi, questa è la città più verde d'Italia perché – non lo dico io, ma Raggi nel suo rapporto – ha due terzi del territorio tutelati, ovvero 88.000 ettari tutelati su 129.000 totali. È, inoltre, la città che ha una dotazione standard per abitante di 24 metri quadrati, che comprende il verde, i parcheggi e le urbanizzazioni primarie e secondarie. Il rapporto tra questi standard tra centro e periferia è nettamente a favore della periferia perché sono quartieri più moderni che risentono degli effetti della Bucalossi e della «legge ponte» degli anni Sessanta. Tuttavia, quanti di questi servizi sono realizzati, come sono gestiti e qual è la qualità dei servizi? Si vive certamente meglio in centro storico, ma il centro storico è la periferia consolidata degli anni Cinquanta, ovvero una città che ha 2 metri quadrati di standard per abitante. Allora, invito soprattutto voi che fate un lavoro preziosissimo e straordinario di sostegno nelle periferie così difficili di questa città anche a tener conto di una lettura più scientifica e a contribuire a questa letteratura per questioni non di giustizia, ma di efficacia della lettura e quindi dell'intervento.
  La periferia di Roma è potenzialmente ricchissima di servizi; ha degli spazi straordinari, ma qual è la capacità finanziaria per realizzare questi servizi e per gestirli? Il problema di gestione pubblico-privata è del tutto evidente. Ecco, vi pongo queste domande che mi paiono importanti per una lettura corretta.
  Non pretendo, ovviamente, una risposta. Tuttavia, siccome si è detto che Roma è una città cresciuta con degli scambi, avendo partecipato a una certa esperienza, vorrei capire quando sono nati questi quartieri, chi e quando li ha deliberati, come sono stati fatti questi scambi e se ci sono delle illegalità. Questa è una Commissione d'inchiesta, per cui vale la pena mettere la parola fine su questa questione. Se ci sono state delle operazioni pubblico-private all'interno della pianificazione urbanistica, dobbiamo dire se sono state caratterizzate da elementi di illegalità o con procedure urbanistiche illegali e quali effetti pubblici, semmai positivi, hanno determinato per la città. Questo mi pare giusto perché, siccome la lettura tendeva nella direzione opposta, sarei interessato a capire se questa opzione che è stata proposta si basa su degli elementi scientifici e statistici reali.

  PRESIDENTE. Visti i tempi, vi lascerei lo spazio per una breve replica, lasciandovi naturalmente la possibilità di integrare anche in forma scritta.

  VALERIA MARTANO, Comunità di Sant'Egidio. Non so se devo partire da quest'ultima domanda che mi sembra la più cruciale perché riguardo alle reti e ai tavoli torniamo alla questione che ho già affrontato. Come ho detto in premessa, non siamo un centro studi e partiamo soprattutto da esperienze dirette. Ho detto il volume e l'autore dell'analisi che stavo citando per correttezza perché per motivi professionali ho presente cosa vuol dire citare le fonti. Tuttavia, mi interessa molto rispondere alla sua domanda anche perché lei conosce molto bene la realtà. Noi ci siamo incontrati al Laurentino 38 per l'abbattimento degli ultimi tre ponti. Ricordo che lei era molto presente sul territorio.
  La parola «scambi», probabilmente inesatta, intende una cosa molto semplice. Le faccio l'esempio concreto di Laurentino 38: non penso si tratti di qualcosa di illegale, ma è un fatto concreto. Non sono un tecnico, però so, per aver seguito la questione, che lo Iacp allora ha costruito grazie a un accordo con il comune secondo il quale, a fronte del diritto di costruire, alcune parti edificate sarebbero state offerte come servizi sociali. Credo fosse nel 1975. Ora, potete farvi un giro per vedere che fine hanno fatto le zone sociali. Lei lo sa, perché a un certo punto, giustamente, l'amministrazione Pag. 19 ha deciso che una parte di queste opere doveva essere abbattuta, essendo diventata terra di nessuno. Allora, non credo che si tratti di un problema di legalità e comunque, sinceramente, non sono in grado di dirlo. Così mi è stata raccontata e così la dico. Io sono un utente, quindi non parlo per chi ha organizzato, né voglio avanzare denunce. Per quello che riguarda il Laurentino, la parte centrale di ponti erano edifici di edilizia privata destinati a uffici privati, mentre le parti estreme a uffici pubblici, quindi dovevano servire anche per attività di tipo sociale. Una parte rimaneva agli Iacp e andava a canone commerciale, mentre un'altra sarebbe stata acquisita dal comune di Roma che ne avrebbe fatto un uso sociale. Questo era il progetto. Poi è successo che all'amministrazione comunale servivano dei locali in più, per cui i primi due ponti sono diventati uffici. In questo senso si è parlato di «scambio». In sostanza, hanno usato la parte destinata ai privati per uffici pubblici, per cui avrebbero fatto un lavoro di questo tipo. Non l'ho inventato. Comunque, a tutt'oggi non esiste la possibilità di ottenere locali per un'associazione. Abbiamo portato casi diversi. A Genova non riescono ad avere locali, anche se sono pubblici. Noi non abbiamo avuto una regolarizzazione per anni perché non si sa chi ce la deve fare. Allora, io non voglio parlare di illegalità, ma credo che questo sia un problema, quindi vi rivolgiamo un appello perché per un privato sociale come il nostro, totalmente volontario e gratuito, non poter avere dall'istituzione il sostegno per poter utilizzare spazi che erano nati con vocazione sociale – poi non sono in grado di categorizzare – è un grosso disagio soprattutto per la popolazione. Parlo di Laurentino 38, ma potrei parlare di Serpentara che vive una situazione analoga. Altri locali sono devastati, sede di spaccio e terra di nessuno. Noi siamo arrivati in trincea e continuiamo a lavorare, ma avere la possibilità, se si rompe un tubo, di rivolgersi al comune o al legittimo proprietario, senza doverselo aggiustare da soli sentendosi sempre nella precarietà, sarebbe un grande aiuto. In questo senso ho voluto porre questo problema qui oggi, perché ritengo che da voi possano venire indicazioni utili che potrebbero sostenerci. Quando parlavo di «scambi» parlavo proprio di riorganizzazione. Non avevo nessuna intenzione di accusare nessuno.

  ROBERTO MORASSUT. Parla con una persona che fino a pochi mesi fa si è spesa con l'Ater per dare a Sant'Egidio un locale di strutture tecnologiche dismesse a Primavalle. L'Ater ha cambiato quattro volte vertici, ma non lo hanno fatto. Poi non so cosa sia accaduto perché ho perso di vista il problema. Tuttavia, a Laurentino 38 non ci sono degli scandali: è un intervento pubblico, quindi tutta roba del comune e dell'Ater. Ci sono gli uffici comunali. Non c'è nessuno scambio perché sono servizi. Semmai, il problema è la gestione del patrimonio pubblico che viene abbandonato perché il comune non ha le forze e i privati non hanno i soldi. Questo è il tema drammatico della periferie perché il patrimonio è sovrabbondante, almeno a Roma. C'è un problema enorme di gestione e di affidamento anche a realtà come la vostra, che sono eroiche ed egregie. Non lei, ma il libro che ha proposto pone questa questione degli scambi in una maniera assolutamente faziosa, che meriterebbe un approfondimento una volta per tutte, anche per rileggere la storia urbanistica recente, che non si può risolvere in 50 pagine di slogan.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.10.

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