XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 39 di Mercoledì 17 giugno 2015

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5 

Audizione del professor Marco Clementi:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5 
Clementi Marco  ... 6 
Grassi Gero (PD)  ... 8 
Clementi Marco  ... 8 
Grassi Gero (PD)  ... 8 
Clementi Marco  ... 8 
Grassi Gero (PD)  ... 8 
Clementi Marco  ... 8 
Grassi Gero (PD)  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Clementi Marco  ... 8 
Grassi Gero (PD)  ... 9 
Clementi Marco  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Clementi Marco  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Clementi Marco  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Clementi Marco  ... 12 
Grassi Gero (PD)  ... 13 
Clementi Marco  ... 13 
Grassi Gero (PD)  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Clementi Marco  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Corsini Paolo  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Corsini Paolo  ... 15 
Clementi Marco  ... 15 
Corsini Paolo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Clementi Marco  ... 16 
Corsini Paolo  ... 16 
Clementi Marco  ... 16 
Corsini Paolo  ... 16 
Clementi Marco  ... 16 
Corsini Paolo  ... 16 
Clementi Marco  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Clementi Marco  ... 16 
Corsini Paolo  ... 16 
Clementi Marco  ... 16 
Corsini Paolo  ... 17 
Clementi Marco  ... 17 
Corsini Paolo  ... 17 
Clementi Marco  ... 17 
Corsini Paolo  ... 17 
Clementi Marco  ... 17 
Lavagno Fabio (PD)  ... 17 
Clementi Marco  ... 17 
Lavagno Fabio (PD)  ... 17 
Clementi Marco  ... 17 
Lavagno Fabio (PD)  ... 17 
Clementi Marco  ... 17 
Lavagno Fabio (PD)  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Lavagno Fabio (PD)  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Lavagno Fabio (PD)  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Lavagno Fabio (PD)  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Corsini Paolo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Lavagno Fabio (PD)  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Lavagno Fabio (PD)  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Lavagno Fabio (PD)  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 18 
Clementi Marco  ... 19 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 
Clementi Marco  ... 19 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 
Clementi Marco  ... 19 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 
Clementi Marco  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 
Clementi Marco  ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 
Clementi Marco  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 
Clementi Marco  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Clementi Marco  ... 21 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Clementi Marco  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Galli Carlo (PD)  ... 21 
Clementi Marco  ... 22 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 22 
Clementi Marco  ... 23 
Grassi Gero (PD)  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 

Allegato 1. Ricostruzione della dinamica del sequestro dell'onorevole Aldo Moro e dell'uccisione dei cinque componenti della scorta, depositata dal professor Marco Clementi nel corso dell'audizione ... 24 

Allegato 2. Risposte del professor Marco Clementi ai quesiti trasmessigli per iscritto ... 25

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.30.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che con nota pervenuta il 12 giugno, il Procuratore generale facente funzioni di Roma, dottor Antonio Marini, ha chiesto di trasmettergli copia integrale e autentica degli atti relativi alla strage di via Fani e all'audizione, svolta dalla Commissione in seduta libera e segreta, del 10 giugno scorso.
  Al riguardo, nel corso della riunione odierna l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto – in ossequio al principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato – di trasmettere al dottor Marini: le relazioni della dottoressa Tintisona e del dottor Boffi presentate in seduta pubblica (ivi inclusa la documentazione distribuita nel corso della seduta ed i relativi allegati, ancorché classificati); la relazione della dottoressa Tintisona presentata in seduta segreta e concernente l'ingegner Alessandro Marini e la relativa documentazione di riferimento.
  Nel corso della medesima riunione si è altresì convenuto di approfondire ulteriormente le tematiche oggetto dell'audizione del 10 giugno, prevedendo a tal fine lo svolgimento di una apposita seduta da programmarsi nel mese di luglio e l'invio alla dottoressa Tintisona di alcuni quesiti scritti, che i componenti della Commissione sono invitati a trasmettere agli Uffici.
  Sempre con riferimento all'audizione del 10 giugno, segnalo che nel corso del suo svolgimento alcuni componenti hanno formulato in seduta segreta osservazioni concernenti questioni precedentemente affrontate in seduta pubblica. Non essendovi ragione di assoggettare tali parti a regime di segretezza, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ritiene opportuno procedere alla declassifica della terza e della quarta parte segreta della seduta, che – ove si concordi – saranno pertanto pubblicate nel resoconto.
  L'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha ritenuto di affidare alle competenti strutture della Polizia di Stato il compito di effettuare alcuni accertamenti istruttori concernenti i fazzoletti di carta rinvenuti sul cadavere di Aldo Moro, verosimilmente impiegati per tamponare le ferite ed impedire la fuoriuscita di sangue.
  Alla luce di quanto emerso nel corso della seduta segreta del 10 giugno, ulteriori accertamenti sono stati affidati al Servizio centrale antiterrorismo della Polizia.
  L'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha inoltre affidato al dottor Donadio e al dottor Siddi il compito di ascoltare, con l'assistenza della polizia giudiziaria, una persona informata dei fatti.
  Sempre nella riunione odierna è stato autorizzato lo svolgimento di una missione a Napoli, della durata massima di un giorno, da parte della dottoressa Picardi, del generale Scriccia e del maresciallo Pinna, in relazione alla nota da essi depositata il 3 giugno.
  Nella medesima riunione, si è deciso di acquisire alcuni documenti della Commissione stragi, custoditi presso l'Archivio storico del Senato, e si è convenuto di Pag. 4affidare al dottor Donadio e al tenente colonnello Giraudo il compito di escutere una persona informata dei fatti.
  Comunico, inoltre, che il 15 giugno è pervenuta una nota riservata della Direzione centrale della polizia di prevenzione, riguardante dati personali e recapiti di due persone, di cui la Commissione intende acquisire le dichiarazioni.
  Ricordo che nel corso della seduta dell'Assemblea della Camera del 10 giugno 2015 il deputato Claudio Cominardi ha richiesto che la Commissione proceda all'audizione dell'ex Segretario di Stato Henry Kissinger per riferire sui fatti oggetto dell'inchiesta. Faccio presente, al riguardo, di aver personalmente preso contatti, il giorno seguente, con il Ministro Gentiloni, avvalendomi della facoltà prevista dall'articolo 6, comma 3, del Regolamento interno della Commissione. Parallelamente, la segreteria della Commissione, di concerto con l'Ufficio rapporti con il Parlamento del Ministero degli affari esteri esteri, ha richiesto formalmente all'Ambasciata statunitense di indicare un possibile contatto per verificare la possibilità di svolgere l'audizione di Kissinger prima della sua partenza dall'Europa. Il 12 giugno l'Ambasciata statunitense ha inviato una risposta interlocutoria, nella quale si afferma che la richiesta è stata sottoposta al funzionario competente, il quale contatterà la segreteria della Commissione «in due time».
  L'8 giugno l'ispettore Maurizio Sensi ha prestato il prescritto giuramento e assunto quindi formalmente l'incarico di collaboratore della Commissione. Tale incarico sarà svolto secondo gli indirizzi già comunicati all'Ufficio di presidenza.
  Il 9 giugno è pervenuta la risposta del Ministro dell'interno alla richiesta di chiarimenti formulata dalla Commissione con riferimento fascicolo 11001/45 del Gabinetto del Ministero, recante l'intestazione «Aldo Moro». Sulla base degli accertamenti condotti dal dottor Allegrini, tale fascicolo, «pur elencato sia per il quinquennio 1976-1980 che per il successivo 1981-1985, non è mai giunto in Archivio centrale» dello Stato. Nell'appunto allegato alla citata lettera del Ministro Alfano si afferma che copia della documentazione relativa al quinquennio 1976-1980 è stata trasmessa dal Ministero alla Commissione stragi nel 1994, mentre gli originali sono stati versati, tra il 2011 e il 2013, all'Archivio centrale dello Stato. Quanto alla documentazione relativa al quinquennio 1981-1985, «è stato reperito il fascicolo 11001/145 “Roma. Processo Strage Via Fani ed Omicidio Aldo Moro”», articolato in due sottofascicoli, uno dei quali contenente un ulteriore sottofascicolo. Nell'appunto si precisa, altresì, che «il carteggio di cui sopra è stato confrontato con le copie contenute nel fascicolo della ricognizione avviata, a seguito della richiesta del Presidente del Consiglio in data 24 giugno 1998, riscontrando che in quest'ultimo compaiono 2 note, di cui in atto non risultano reperiti gli originali»; viene altresì fatto notare che – sempre nel 1998 – «l'unico documento ritenuto più attinente alla strage di Via Fani venne trasmesso» al presidente Pellegrino. Al riguardo, sono in corso alcuni approfondimenti, affidati al dottor Allegrini.
  Comunico, quindi, che:
   con lettera riservata pervenuta il 9 giugno il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha trasmesso una prima parte della documentazione richiesta dalla Commissione con note del 12 marzo e del 28 aprile scorsi;
   il colonnello Pinnelli ha depositato: con nota riservata pervenuta l'8 maggio, documentazione concernente il generale Bozzo, che sarà restituita all'Arma dei carabinieri una volta digitalizzata; il 10 giugno la documentazione riservata trasmessa dal Comando Carabinieri Tutela patrimonio culturale concernente Toni Chichiarelli e Luciano Dal Bello;
   il tenente colonnello Giraudo ha depositato: in data 4 giugno, quattro note segrete e quattro riservate riguardanti lo svolgimento di accertamenti in corso; il 9 giugno una relazione riservata concernente l'esito di alcuni accertamenti istruttori effettuati e la segnalazione dell'opportunità Pag. 5di escutere due persone informate dei fatti; il 10 giugno quattro ulteriori note riservate e tre segrete concernenti l'esecuzione di alcuni accertamenti istruttori; l'11 giugno una relazione riservata concernente l'esito dell'escussione di una persona informata dei fatti; con nota del 12 giugno, documentazione riservata;
   il dottor Donadio ha depositato: il 10 e l'11 giugno, due note riservate riguardanti alcuni accertamenti istruttori; il 12 giugno una ulteriore relazione riservata concernente lo svolgimento di alcuni adempimenti; il 15 giugno due relazioni, una riservata e una segreta, nelle quali si segnala l'opportunità di procedere ad alcune escussioni testimoniali; il 17 giugno un appunto istruttorio, di libera consultazione, concernente l'audizione del professor Marco Clementi;
   il 9 e il 17 giugno, il generale Scriccia ha depositato due relazioni riservate concernenti analisi di documentazione di interesse dalla Commissione.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione del professor Marco Clementi.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Marco Clementi, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  Il professor Clementi, che è ricercatore di storia dell'Europa orientale presso l'Università della Calabria, ha approfondito, tra i temi della sua attività di storico, anche alcuni ambiti di interesse della nostra Commissione, riguardanti sia il fenomeno brigatista in generale, al quale ha dedicato uno studio intitolato Storia delle Brigate Rosse, pubblicato nel 2007, sia specificamente il caso Moro, oggetto del suo volume La «pazzia» di Aldo Moro. Le sue conoscenze, quindi, potranno fornire un contributo utile alla nostra inchiesta, soprattutto per quanto riguarda la struttura organizzativa, le modalità operative e gli obiettivi delle Brigate Rosse.
  In particolare, chiedo al professor Clementi di concentrare il suo intervento su alcuni temi, che possono essere riassunti nei seguenti quesiti:
  Quali obiettivi, secondo i risultati delle sue ricerche, si proponevano le BR con il rapimento di Aldo Moro ?
  Quali erano le principali fonti di finanziamento delle BR all'epoca del sequestro ?
  Nel suo studio sul caso Moro lei ha assunto il criterio di «prestare fede, fino a prova contraria, a quanto affermato dai protagonisti della vicenda», ritenendo che eventuali lacune o contraddizioni siano dovute solo «alla necessità, nell'ottica dei brigatisti, di continuare a coprire persone non ancora implicate dal punto di vista giudiziario». Sulla base di quali elementi ha maturato la convinzione della sostanziale attendibilità di queste dichiarazioni ?
  Il comportamento delle BR durante i 55 giorni seguì una linea coerente o mostrò elementi di discontinuità tali da richiedere una spiegazione ?
  Lei ha sottolineato che «Moretti non era il capo, ma il gestore dell'operazione Moro e non poteva decidere praticamente nulla di importante di propria iniziativa, era l'organizzazione nel suo complesso ad assumere le scelte politiche; solo la telefonata del 30 aprile, che fu un'iniziativa concordata in qualche modo con Moro, avvenne senza che l'organizzazione ne fosse stata preventivamente avvertita». «Tutte le decisioni riguardanti la gestione generale del sequestro furono prese dall'esecutivo. In altre parole, non è possibile ridurre il rapporto Moro-Brigate Rosse a quello Moro-Moretti, perché in tal modo sfugge la complessità di una vicenda che riguarda un'intera organizzazione armata». Quali elementi può fornire alla Commissione in merito al comitato esecutivo Pag. 6delle BR, ai suoi componenti, ai suoi luoghi di riunione e alle discussioni svoltesi al suo interno ?
  Sulla base degli elementi a lei noti ritiene che Giovanni Senzani abbia svolto qualche ruolo in relazione al sequestro Moro ?
  È diffusa l'opinione che il Governo degli Stati Uniti guardasse con diffidenza Moro. Lei, invece, sostiene che all'epoca del rapimento l'amministrazione statunitense apprezzasse «la figura di Aldo Moro come quella del “maggior politico del Paese, l'unico in grado di garantire l'accordo, ovvero l'unico dotato delle capacità necessarie a coinvolgere i Comunisti nel governo senza una loro diretta partecipazione all'esecutivo. Aldo Moro, dunque, era tutt'altro che inviso agli statunitensi. Anzi, al contrario, si può affermare che fosse davvero uno dei politici italiani più stimati a Washington e in quel momento storico il più necessario alla logica di Yalta”». Può illustrarci con maggiori dettagli questa sua opinione ?
  Riguardo alla data in cui Moro venne ucciso, lei ha scritto: «Ci si è chiesti in molti perché proprio il 9 maggio, quando si doveva riunire la Direzione della DC, dalla quale si attendevano delle novità. La circostanza è sembrata la prova del fatto che non si volle attendere perché altrimenti Moro si sarebbe salvato. Tutto ciò è privo di fondamento». Vuole esporre alla Commissione i motivi di questa sua riflessione ?
  Nel luglio del 1978 Franco Piperno incontrò Mario Moretti a Roma. Nell'audizione presso la Commissione stragi, il 18 maggio 2000, Piperno disse: «Il luogo dell'incontro mi ha sorpreso. Era una casa. Le caratteristiche della casa e dei nostri ospiti, che peraltro non conoscevo, traducevano una certa trasversalità della presenza dei brigatisti a Roma». Alla domanda del presidente Pellegrino: «Lei, quindi, sta dicendo che quell'incontro avvenne in una casa alto-borghese ?» Piperno rispose affermativamente, ma non fece nomi. Riguardo al luogo esatto di quell'incontro tra Piperno e Moretti e all'identità della persona che mise a loro disposizione l'appartamento, lei ha scritto: «Nel gennaio 2004 è stato rivelato da un protagonista di chi si trattasse durante una pubblica discussione all'Università della Calabria sulla vicenda. Questa novità comunque non sposta i termini della vicenda». Le chiedo, quindi, di riferire alla Commissione quanto fu rilevato undici anni fa, se è nelle sue conoscenze.
  Questa è la prima parte delle domande. Lasceremo poi ai colleghi la possibilità di aggiungerne o di dire altro. La ringrazio ancora.
  Do la parola a Marco Clementi.

  MARCO CLEMENTI. Io ringrazio lei e ringrazio tutti i deputati e i senatori presenti. Cercherò di rispondere a queste domande attraverso una relazione che ho preparato, perché ovviamente le cose che sono state scritte fino al 2007 hanno subìto un'evoluzione, in particolar modo grazie alla direttiva Prodi e poi alla direttiva Renzi. In seguito a tali direttive è stata versata all'Archivio centrale dello Stato una grande mole di documentazione, che era per la maggior parte nella disponibilità delle Commissioni d'inchiesta, ma non nelle disponibilità degli studiosi.
  La mia ricerca comincia alla fine degli anni Novanta e ha un primo momento di sintesi nel libro La «pazzia» di Aldo Moro, pubblicato nel 2001 da una piccola casa editrice di Roma e quindi ripreso in due successive edizioni da RCS Libri. Nel 2007 ho dato alle stampe, come è stato ricordato, una Storia delle Brigate Rosse dalle origini allo sconfitta da parte dello Stato nel 1989.
  La ricerca storica è disciplinata da una metodologia che prevede ipotesi di lavoro, analisi delle fonti, una lettura attenta e critica degli atti a disposizione, il confronto incrociato dei medesimi e, in ultima battuta, la raccolta e l'ascolto critico – molto critico – delle testimonianze orali.
  Fino ad oggi le acquisizioni di nuova documentazione a partire dalla direttiva Prodi del 2008 non hanno posto in crisi l'impianto generale della mia ricerca, ma, anzi, hanno confermato il quadro e l'hanno arricchito. Lo stesso sta accadendo Pag. 7con la documentazione, che per ora ho potuto guardare in modo parziale, versata all'Archivio di Stato con la direttiva Renzi.
  Mi è parso, invece, di cogliere in atti all'interno di inchieste politiche e parlamentari una superficialità, anche se non generalizzata, ma incisiva anche mediaticamente, nell'uso terminologico, accompagnata da una scarsa attenzione ad atti che, invece, contengono da tempo risposte a domande che si ripetono nel corso degli anni. Incoerenza di fondo, inconsistenza nell'approccio critico, mancanza metodologica di indagine solida e consolidata appaiono in alcuni momenti caratteristiche peculiari di tali inchieste.
  Per esempio, si usa con troppa facilità la locuzione «rapporti con i servizi segreti». Faccio un esempio a caso, ma ne potrei fare altri dieci. Si dice che Mino Pecorelli avesse rapporti con i servizi segreti. Lo si scrive, ma non si specifica mai quali, di quale ufficio si sta parlando e si omette di riflettere sul fatto che forse poteva trattarsi di un solo membro del servizio, magari in possesso di informazioni parziali, anzi certamente in possesso di informazioni parziali – non esiste, infatti, come voi sapete meglio di me, l'agente segreto onnisciente – che, per motivi che possiamo solo ipotizzare, entra in contatto, se mai questo contatto ci sia stato, con il giornalista. Parlo di Pecorelli, un nome che entra ripetutamente nelle inchieste di più di una Commissione e che nulla ha a che vedere con le Brigate Rosse.
  Si parla di Mario Moretti come della «sfinge», riprendendo un'espressione del passato, nonostante Moretti in un primo momento non abbia fatto altro che rilasciare interviste a giornali italiani. Una è a L'Espresso, il 16 agosto 1987, a Giorgio Bocca: «Dal carcere Moretti fa sapere...». Tra l'altro, esiste un carteggio molto interessante tra Bocca e Moretti che risale a quegli anni. Sempre L'Espresso, il 10 maggio 1987, pubblica un'intervista di Mario Moretti a Scialoja, a pagina 14. Tre anni prima, il 2 dicembre 1984, era apparsa un'intervista a L'Espresso, sempre a Bocca, dal titolo «Io, Moro e le BR».
  Ricordo ancora le interviste a La Notte della Repubblica a Sergio Zavoli, con il quale esiste anche uno scambio di lettere, nonché la famosa intervista a Mosca e Rossanda e a giornali stranieri, per esempio a Konkret del giugno 2008, che vorrei fosse messa agli atti. Si tratta di un giornale tedesco in cui c’è un'intervista in tedesco, a pagina 24. C’è poi anche il cineasta Mosco Lévi Boucault, negli anni 2011-2012, per la rete televisiva ARTE, probabilmente la più grande rete televisiva europea.
  Anche chi vi sta parlando ha avuto la possibilità di conversare, tra il 2003 e il 2006, con Moretti. Nel corso di uno di quegli incontri ho avuto modo di vedere ricostruire dalla mano dello stesso Moretti le dinamiche di via Fani, dopo aver sentito da lui illustrazione di quale fosse il piano originale. Questa questione io l'ho ricordata nel libro del 2007, Storia delle Brigate Rosse, a pagina 202. Non è una novità. Si tratta di una ricostruzione che ora mostrerò, non prima di aver puntualizzato altre due questioni. Pensavo di poterla mostrare in slide, in realtà, ma credo che sia stata distribuita. Ovviamente, la lascerò agli atti (vedi allegato 1). L'originale l'ho io. Se volete, posso farvi avere anche l'originale, ma comunque questa è la fotocopia a colori dell'originale.
  Si dice anche, nel corso di queste audizioni, che Moretti è, tra i BR presenti in via Fani, quello che è stato meno in carcere. In realtà, è l'unico che si trova ancora in carcere, oltre alla signora Algranati, peraltro arrestata molto tempo dopo di lui, come tutti sappiamo. È, anzi, uno dei pochi brigatisti a non aver usufruito della possibilità di scrivere una lettera ai parenti delle vittime per avviare il percorso che normalmente si conclude con la libertà condizionale, pur avendo avuto diversi stimoli in proposito anche da persone vicine all'oggetto di questa Commissione.
  Eppure dal 1972 tutti gli attori, secondo alcune ricostruzioni, dai Carabinieri ai servizi – Dalla Chiesa compreso, dunque – avrebbero fatto in modo di tenere Moretti ai vertici dell'organizzazione, perché ovviamente Pag. 8(sto facendo dell'ironia, anche molto facile) nel 1978 avrebbe rapito Moro, la qual cosa non è credibile.
  Passo all'illustrazione del foglio che vi è stato fornito in fotocopia e che risale al 2006. Vi sono rappresentate via Fani e via Stresa. Io ho segnato con il numero 1 una donna che compie un gesto e attraversa la strada all'arrivo del convoglio Moro. La macchina con Moretti si mette in moto e, appena passa, il gruppo che io ho indicato con il numero 2 forma il cancelletto superiore. Moretti rallenta, rallenta il convoglio e cominciano gli spari, almeno a quanto stabilito dalla DIGOS di recente, mentre le macchine sono ancora in leggero movimento. Le quattro persone del gruppo di fuoco sono divise per macchine. Due sparano sull'Alfetta e due sulla 130 di Moro. Io ho indicato il gruppo con 3 per l'auto di Moretti, con 4 e 5 la scorta e con 6 e 7 i gruppi di due brigatisti ognuno.
  È tutto chiaro ?

  GERO GRASSI. Niente affatto.

  MARCO CLEMENTI. Che cosa non è chiaro ? I numeri 3, 4 e 5 sono posizionati sulla vostra destra. Abbiamo al 3 Moretti dentro la sua macchina da solo, al 4 la macchina che porta Moro, al 5 l'Alfetta di scorta. Alla sinistra il 6 e il 7 sono i quattro brigatisti che sparano, divisi per due, perché due devono sparare sull'obiettivo 4.

  GERO GRASSI. A lei chi l'ha detto che fossero quattro ?

  MARCO CLEMENTI. L'ha detto Moretti. Io sto riportando le parole di Mario Moretti.

  GERO GRASSI. Ho capito, ma c’è la magistratura che ha fatto una sentenza e dice diversamente. Perché lei prende Moretti ?

  MARCO CLEMENTI. Perché io sono uno storico e non faccio il giudice. Io vi sto spiegando quello che Moretti non ha mai fatto.

  GERO GRASSI. Ho capito.

  PRESIDENTE. Ho premesso che l'abbiamo audito perché è portatore di queste notizie. Se lo facciamo parlare... Le sentenze non impediscono la libertà di pensiero. Il professor Clementi è partito dal presupposto per cui – lo dico a tutti per memoria nostra – ritiene che sostenere che Moretti non abbia detto nulla sia errato e sta motivando questo. Facciamolo finire e poi gli facciamo le domande. Non è un reato di lesa maestà dire che fossero in quattro. Il professor Clementi ritiene che fossero in quattro.

  MARCO CLEMENTI. Più avanti, di fronte alla macchina di Moretti, con l'8 ho indicato il cancelletto inferiore, che si trova, quindi, in alto a destra, composto da una sola persona che controlla via Stresa e via Fani. Con il numero 9 indico l'auto che da via Stresa compie una retromarcia e sulla quale si fa salire Moro, una volta finita la sparatoria. Segue poi la freccia che indica la fuga in via Stresa verso via Trionfale.
  Alcune precisazioni vanno fatte in ordine alle ultime evidenze che sono venute fuori dall'audizione della DIGOS, audizione, per alcuni versi, decisiva, almeno per quanto riguarda il mio pensiero sulla ricostruzione dell'assalto di via Fani, che riconferma un impianto noto da tempo in alcuni punti non di seconda importanza.
  Per esempio, ci sono gli spari da destra. In proposito Morucci affermò, a suo tempo – siamo nel 1985 – che ci furono dei colpi sparati da destra. La dichiarazione di Morucci si trova all'Archivio centrale dello Stato, Gabinetto speciale, busta 20. «È certo», afferma Morucci nella sua memoria difensiva, «che le due persone che hanno sparato agli uomini dell'Alfetta e hanno ucciso Iozzino si sono subito dopo portate sulla destra dell'auto, esplodendo degli altri colpi dall'alto in basso, come risulta dalla perizia, ma su questo nessuno mi ha rivolto domande».
  Poi c’è il tamponamento. Da tempo nessuno parla più di tamponamento, almeno a livello di storiografia. Sempre in Pag. 9Gabinetto speciale, Archivio centrale dello Stato, faldone 24, troviamo un'informativa del 16 settembre 1993 in cui si dice: «Nello stesso momento la 128 di Moretti, giunta all'incrocio, si arresta, costringendo a una brusca frenata la vettura di Moro, che non tampona la 128».
  Del resto Moretti, durante la mia conversazione con lui, mi ha spiegato che il piano prevedeva proprio il non tamponamento. Prevedeva semplicemente di fermare la macchina da lui condotta allo stop per non destare alcun sospetto. Si trattava semplicemente di fermarsi come una normale auto che affronta uno stop e si ferma, senza fare frenate brusche che avrebbero messo in allarme la scorta di Moro.
  La scarsa attenzione ai particolari, alla precisione terminologica e al lessico contribuisce alla confusione, così come l'approssimativa conoscenza di atti che, invece, qualora ci fosse, aiuterebbe a concentrare l'attenzione su questioni dirimenti.
  Mi riferisco, per esempio, all'affermazione del senatore Grassi nel corso della presentazione di un libro nel quale parla di una richiesta di liberare Moro giunta da Beirut prima del rapimento dello stesso. Lei ricorderà, senatore, di aver fatto quest'affermazione. Comunque, è su YouTube e, quindi, se la può rivedere.

  GERO GRASSI. Solo per precisare, le ricordo che sono io che faccio le domande a lei e non lei a me. Questo per capirci.

  MARCO CLEMENTI. In Archivio, negli atti del versamento Renzi, si trova un documento che io considero importante per molti motivi. Il documento è sotto articolazione 1, faldone 14, volume 2, fascicolo 4309. L'intestazione è «Ufficio R, reparto D, 1626 segreto» e recita: «18 febbraio 1978: da Beirut messaggio cifrato non diramato ad enti collegati. Vicedirettore informato. Mio abituale interlocutore rappresentante FPLP Abbas incontrato stamattina habet vivamente consigliatomi non allontanarmi Beirut in considerazione eventualità dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbero coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste. Alt. At mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli interlocutore habet assicuratomi che FPLP» – ossia il Fronte popolare per la liberazione della Palestina – «opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici in genere soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario elementi per eventuali adeguate misure da parte nostra autorità. Alt. Fine».
  Tre sono le considerazioni di questo, a mio giudizio importante, documento. La prima è la conferma dell'esistenza e della validità del corso del lodo Moro, che, come tutti sapete, prevedeva l'esclusione dell'Italia come teatro di attentati in Europa. La seconda è la stretta collaborazione tra servizi italiani e FPLP. La terza è l'esclusione del riferimento all'imminenza del rapimento Moro, perché qui si sta parlando di un attentato, probabilmente dinamitardo – questa è un'ipotesi che si può fare – deciso a livello europeo. L'operazione non è stata decisa dall'IRA o dalle Brigate Rosse insieme alla RAF o ad altri. È un'operazione, stando alle sentenze della magistratura o comunque alle mie competenze e, quindi, ai miei convincimenti, italiana. Qui, invece, c’è chiaramente il riferimento a un possibile attentato nei confronti di un obiettivo che riguarda la situazione mediorientale.
  Un'altra questione riguarda la moto Honda e il motorino del teste Marini. La recentissima ricerca ha prodotto una serie di fatti sfuggiti in precedenza, il che è un bene. In proposito vorrei consegnare agli atti di questa Commissione una foto che raffigura il motorino del teste Marini dopo l'agguato.

  PRESIDENTE. È una foto che conosciamo bene.

  MARCO CLEMENTI. Aggiungo a questa foto un documento dei Carabinieri (Fondo Pag. 10caso Moro, busta 11, Archivio centrale dello Stato, fascicolo 14, protocollo 22142, il protocollo che rimane sempre aperto della sala operativa dei Carabinieri) del 20 aprile 1979, inchiesta sul MPRO: «Mandato di cattura per associazione sovversiva emesso contro 14 persone». L'operazione è svolta a Roma Nord, in zona contigua a via Fani. Vengono perquisite e arrestate 12 persone. Due delle 14 risultano latitanti. Tra queste al n. 6 troviamo Biancucci Giuseppe, nato a Roma l'1 ottobre 1955 e ivi residente in via Stresa 56, e al n. 9 Angelotti Roberta, nata a Roma l'11 ottobre 1958 e ivi residente in via Stresa 35.
  Secondo la mia ipotesi di lavoro, si trattava delle persone, se mai passò una moto, che quella mattina tornavano a casa, che sono note alle cronache giornalistiche con il soprannome di Peppo e Peppa e che nulla hanno a che vedere né con le Brigate Rosse, né con il rapimento di Aldo Moro.
  I punti centrali di una ricerca storica, di qualsiasi ricerca, sono la ricostruzione del contesto storico e della storia degli attori, precedente e successiva all'avvenimento in oggetto. Senza questi due elementi si perde la dinamica dei comportamenti degli altri attori o soggetti attivi, come i partiti e le forze dell'ordine.
  Per esempio, la CIA, consultata durante i giorni della crisi – ci troviamo sempre nel Gabinetto speciale del Ministero degli interni, busta 24, al punto 2 di un documento riservatissimo, con protocollo 3039/2172 – dice agli italiani che la consultano: «Ci manca una conoscenza storica approfondita della genesi ed evoluzione delle BR quale organizzazione, tale da poterne prevedere con una certa accuratezza le possibili mosse».
  Secondo alcune audizioni il complotto nei confronti di Moro sarebbe stato ad ampio raggio, coinvolge ordini dati a volanti della polizia nei pressi di via Fani – è stato detto anche questo – e comincia in qualche modo nel 1974 con le parole di Kissinger.
  La Guerra Fredda è una cosa troppo seria e complessa per liquidarla – parlo di me – con due battute, ma, se si guarda la carta europea, ci si rende conto che, per esempio, l'Unione Sovietica ha lasciato che nella sua parte gli equilibri politici venissero rotti in almeno due occasioni e mezzo, in Jugoslavia già nel 1948, in Albania e poi, in seguito, in Romania, senza intervenire militarmente. Nel 1987 ad Est Yalta, quindi, era saltata da un pezzo. Interviene in Cecoslovacchia e in Ungheria e in qualche modo minaccia la Polonia. Ci possiamo chiedere perché, ma la risposta mi sembra abbastanza chiara: il confine che l'URSS temeva e intendeva proteggere era quello con la Germania, per noti motivi.
  Se mettiamo insieme tutte le forze in campo, secondo le illazioni, o quelle che io ritengo illazioni, più note, troviamo una direzione internazionale – altro che scuola Hyperion – composta da servizi italiani, P2, CIA, Mossad e KGB, e tutto questo per non fare entrare il PCI nel Governo.
  Il paradosso – vi dico, però, che per uno studioso i paradossi non esistono – è che colui che è citato come elemento di disturbo, se non di eterodirezione, delle fasi investigative italiane, ossia il professor Pieczenik, nel documento che tratta delle sue indicazioni durante i giorni della crisi, mentre si trova in Italia, alla domanda (il documento si trova sempre nell'Archivio centrale dello Stato, Gabinetto speciale, Ministero degli Interni, busta 24): «È evidente che lo scopo principale è quello di infrangere l'unità della DC e del PCI. Cosa accadrebbe se la DC subisse questo trauma ?», risponde: «Lo scopo delle BR è quello di rompere l'unità all'interno della DC, in maniera che venga dichiarata una situazione ufficiale di emergenza che permetterebbe al PCI di entrare legittimamente in un governo formale». È esattamente il contrario di quello che viene affermato molto spesso. «Conseguentemente, dovrebbe prevedersi una violenta reazione della destra, che porterebbe alla guerra civile».
  Addirittura per il dottor Priore, secondo le parole che ha riportato il senatore Flamigni, «Il Governo italiano venne quasi subito esautorato da ogni potere nella gestione del sequestro, perché il caso Pag. 11era stato avocato a sé dalla rete Gladio della NATO, rete che in quel momento era gestita da un direttorio composto da Germania Federale, Francia e Gran Bretagna».
  Noi sappiamo che cos'era Gladio e a che cosa serviva. Se lo sappiamo, che cosa aveva a che fare Gladio con gli interessi delle Brigate Rosse ? Nulla, perché Gladio serviva, in caso di un'invasione straniera, a organizzare la guerriglia contro l'invasione. Questo era il compito di Gladio, non ne aveva altri. Non aveva, quindi, alcun interesse con le Brigate Rosse, le quali si interessavano, invece, dell'antiterrorismo, che è cosa ben diversa da un'antiguerriglia, a meno che le BR non avessero rapito Moro per i segreti da passare a un servizio nemico. Questa possibilità è ipotizzabile, ci può assolutamente stare, ma va controllata.
  A proposito dei segreti NATO, la Commissione interministeriale preposta nel 1983 a visionare le carte di Moro di via Savoia «ha ritenuto che non esistano documenti nazionali rilevanti sotto il profilo di segreto di Stato oltre a quelli già acquisiti dalla pubblica amministrazione e dalla precedente Commissione Dainotto». Ciò vuol dire che lo studio di Moro di via Savoia era già stato controllato – dopo la sua morte, ovviamente – e che erano stati trovati documenti sensibili, che erano stati posti in sicurezza. È da escludere, quindi, una delle tante ipotesi che sono circolate in questi anni, ossia che da via Savoia uscirono dei documenti sensibili. «Esistono, altresì,» continua quel rapporto «documenti classificati di Governi stranieri». Un atto che si trova nel file G 1987 della direttiva Renzi riporta l'elenco dei servizi segreti con i quali il nostro Governo ha intrattenuto rapporti durante la vicenda Moro. Si tratta dei servizi britannico, spagnolo, tedesco occidentale, francese, israeliano, statunitense, svizzero, lussemburghese, olandese, belga, greco, argentino, australiano, giapponese, canadese ed egiziano.
  Sempre nella direttiva Renzi c’è un altro documento interessante che riguarda i servizi. È il documento siglato G 2086, che si intitola «SISMI: apertura archivi dell'Est, 16 luglio 1990, protocollo 649». Cito: «Malgrado numerose iniziative, nulla di concreto è emerso sui rapporti tra BR e servizio cecoslovacco, nonostante la Cecoslovacchia sia stata per anni un centro di addestramento dove posa una base logistica. Il servizio cecoslovacco è in una fase di continuo rinnovamento per l'impossibilità di trovare uomini non compromessi con il passato» – era appena avvenuta la rivoluzione di velluto – «e professionalmente capaci. Questo mese» – siamo nel luglio del 1990 – «è stata compiuta una missione che offre interessanti prospettive, in quanto ci metterà in contatto con gli uomini che all'epoca forse hanno trattato l'argomento BR. Mentre la Cecoslovacchia sul piano BR è stata nel complesso deludente, prodiga è stata, invece, nel settore del controspionaggio. Il SISMI, l'unico tra i servizi occidentali, è riuscito a mettere le mani su una copiosa documentazione originale e autentica, che ci ha permesso di individuare tutta la rete informativa cecoslovacca in Italia».
  È stata detta anche un'altra cosa, ossia che la NATO temesse l'ingresso del PCI nella maggioranza, cosa che, a mio modo di vedere, ha un senso, ma per quale motivo lo teme ? Solo ed esclusivamente per i segreti militari, non perché sposti equilibri politici. Perché ? Perché sa benissimo che il PCI continua a ricevere i fondi da parte dell'Unione Sovietica e, quindi, ha un contatto diretto e privilegiato con l'Unione Sovietica.
  Adesso vi leggo un appunto dell'Autorità nazionale per la sicurezza siglato il 31 marzo 1978, in piena crisi Moro, dall'ambasciatore Malfatti, segretario generale del Ministero degli affari esteri, per quanto riguarda la parte sulla politica estera, e dall'ammiraglio Mainini, sottocapo di Stato maggiore della difesa per la parte militare, mentre per le questioni NATO è stato sentito l'ambasciatore presso l'Alleanza atlantica Catalano.
  Ecco che cosa scrivono. Il primo scrive: «Il rischio di sicurezza connesso al rapimento dell'onorevole Moro va considerato rispetto ad alcuni temi che potrebbero Pag. 12essere argomento di interrogatorio, che sono ipotizzabili anche attraverso comunicazioni contenute nei messaggi delle BR nn. 2 e 3. Il segretario generale del Ministero affari esteri, interpellato sulla possibilità che all'onorevole Moro possano essere strappati segreti connessi alla politica estera italiana o ai rapporti internazionali del nostro Paese, esclude l'esistenza di fatti riservati di rilevante importanza, in quanto tutto è praticamente noto attraverso la stampa normale e specializzata. In effetti, il ruolo dell'Italia non è tale da poter influire sugli equilibri internazionali e, quindi, da necessitare una specifica e così clamorosa azione di ricerca da parte di altra nazione».
  Passiamo al settore militare. «Nel settore militare di interesse esclusivamente nazionale non esistono elementi a conoscenza dell'onorevole Moro che possano costituire un rischio di sicurezza. L'uomo di Stato era indubbiamente a conoscenza di cose riservate nelle loro linee generali, ma evidentemente non poteva scendere nei dettagli operativi. Per quanto riguarda i nostri rapporti con la NATO, può essere ripetuto il discorso precedente, in quanto nessun uomo politico scende nei dettagli operativi. L'unico punto debole potrebbe essere quello che l'Italia è membro permanente del Nuclear Planning Group, ma il nostro ambasciatore presso la NATO esclude che l'onorevole Moro fosse a conoscenza di fatti capaci di incrinare la sicurezza dell'alleanza. Inoltre, va rilevato che la parte più riservata della strategia nucleare è rilasciata solo alle nazioni in possesso di un proprio armamento nucleare e che, pertanto, il targeting completo e le norme di impiego non sono a conoscenza di nessun elemento nazionale».

  PRESIDENTE. Posso interromperla, professore ? Poiché ci saranno anche colleghi che vogliono fare domande e lei ha una relazione scritta, se ci sono dei punti fondamentali che vuole aggiungere al microfono, va bene. Altrimenti ci può consegnare la relazione, noi la divulghiamo a tutti i colleghi, perché diventa pubblica, e magari, se ci sono approfondimenti, li richiediamo per iscritto. Se c’è qualche passaggio che lei vuole fare, anche per dare spazio...

  MARCO CLEMENTI. Manca una pagina. Comunque, posso saltare.

  PRESIDENTE. Se manca una pagina, finisca, così diamo spazio alle domande.

  MARCO CLEMENTI. Mi chiedo, dunque: la posizione politica dei partiti politici italiani da chi o da che cosa fu condizionata ? Da forze esterne ? Secondo me – ovviamente, è una risposta che vale per me e per quello che scaturisce dalle mie ricerche – dalla loro linea, tattica per quanto riguarda la DC e strategica per il Partito Comunista, per cui non si cede al ricatto di un gruppo armato. È una posizione legittima, che Moro non capisce e rifiuta e che combatte nelle sue lettere. È una posizione che prevede la possibilità di dover essere costretti a proseguire la politica di Moro senza Moro, qualora l'ostaggio fosse stato ucciso.
  Questo è un rischio che, per esempio, il Partito Comunista si sente di correre e lo fa, ripeto, legittimamente. In quei giorni le posizioni di Pravda, Izvestia e altri giornali sovietici sono assolutamente aderenti a quelle dei comunicati della segreteria del Partito Comunista.
  Il 1o aprile 1978 la Komsomolskaya Pravda pubblica un brano sulla vicenda, in cui si afferma: «DC e altri partiti italiani che fanno parte maggioranza Governo respingono ricatto provocatori e ogni idea negoziati con rapitori Aldo Moro. Est in gioco futura nostra Repubblica, sottolinea oggi fondo Unità. Quotidiano mette accento su necessità rafforzare unità fra tutte le forze democratiche». Riporta, cioè, esattamente quello che ha scritto L'Unità.
  La Pravda del 2 aprile scrive: «In opinione pubblica matura sempre più convincimento che il crimine terrorista rientri in piano attività eversive dirette a far vacillare ordinamento repubblicano in Italia. A ciò possono essere interessate soltanto forze reazionarie interne e internazionali, Pag. 13di cui scaturisce necessità mobilitazione vaste masse in difesa conquiste democratiche. «In fin dei conti, osserva L'Unità !» – scrive la Pravda – «sono proprio le masse popolari a costituire la vera barriera contro le forze eversive. Il Partito Comunista sta sviluppando in tutto il Paese campagna per mobilitazione masse popolari».
  In che cosa, dunque – vi prego di riflettere – il rapimento Moro costituirebbe una soluzione di continuità nella politica delle Brigate Rosse, nella loro lotta armata contro lo Stato ? Quale anomalia rappresenta nella strategia di un gruppo che attacca prima di tutto la Democrazia Cristiana, al punto che nel 1979 assalta la sede regionale del partito in piazza Nicosia con un'azione di guerriglia urbana molto più complessa di via Fani ? Il rapimento Moro non è forse in dialettica con il processo di Torino, che tra l'altro si era riaperto il 6 marzo 1978 ? Il rapimento del dottor Giovanni D'Urso non costituisce forse una continuità nell'azione BR di contrasto al sistema carcerario repressivo nel frattempo instaurato con le carceri speciali e il «circuito dei camosci» e anche le torture, cominciate il 17 maggio 1978, almeno secondo la sentenza del 15 ottobre 2013 della Corte d'appello di Perugia, nei confronti di Enrico Triaca ?
  Vi chiedo, infine, un'ultima cosa. Si è riflettuto abbastanza sulla telefonata che Moretti compì a casa Moro il 30 aprile 1978 ? Ve la leggo e vi chiedo se si tratta della telefonata di qualcuno che vuole uccidere l'ostaggio o che vuole trattare: «Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo, perché suo padre insiste nel dire che siete stati un po’ ingannati e probabilmente state ragionando su un equivoco. Finora avete fatto tutte cose che non servono assolutamente a niente. Noi crediamo invece che ormai i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non potremo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Quindi crediamo solo questo, che sia possibile un intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore in questo senso; se ciò non avviene, rendetevi conto che noi non potremo fare altro che questo. Mi capisce ? Mi ha capito esattamente ? Ecco, e quindi è possibile solo questo; lo abbiamo fatto semplicemente per scrupolo, nel senso che una condanna a morte non è una cosa che si possa prendere alla leggera neanche da parte nostra. Noi siamo disposti a sopportare le responsabilità che ci competono. Il problema è politico, quindi a questo punto deve intervenire la Democrazia Cristiana. Abbiamo insistito moltissimo su questo, perché è l'unica maniera per cui si possa arrivare eventualmente a una trattativa. Solo un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso, di Zaccagnini può modificare la situazione; noi abbiamo già preso la decisione, nelle prossime ore accadrà l'inevitabile, non possiamo fare altrimenti. Non ho nient'altro da dirle».
  Sono domande che io non ritengo di secondo piano, anzi, che mi sembrano molto più incisive, precise e attinenti di quelle riguardanti i presunti segreti, che, per chi opera nel campo della ricerca storica, non esistono. Esiste la momentanea mancanza di fonti e, a volte, quando le fonti ci sono, l'incapacità di leggerle.
  Grazie.

  GERO GRASSI. Presidente, si può intervenire per fatto personale ? Poiché sono stato citato, vorrei chiarire questo aspetto. Io gradirei che il professore rileggesse quel passaggio che mi riguarda.

  MARCO CLEMENTI. «Mi riferisco, per esempio, all'affermazione del senatore Grassi nel corso della presentazione di un libro nel quale parla di una richiesta di liberare Moro giunta da Beirut prima del rapimento stesso».

  GERO GRASSI. Tra i tanti errori, c’è che io non sono senatore, ma deputato.
  Quello che lei dice non è vero. Non è vero che io queste cose le abbia dette alla presentazione di un libro, perché è vero che le ho dette in Commissione. Quelle che ho detto alla presentazione del libro sono analoghe a quelle che ho detto in Commissione. Pag. 14Tra l'altro, le ho dette in presenza del Ministro della difesa Pinotti e ho chiesto che questo fosse accertato.
  Per sua conoscenza, io ho detto che risulta che il 2 marzo 1978 – non so se lei all'epoca seguisse già la vicenda – a cura dell'ammiraglio Remo Malusardi, capo della X Divisione SB del Ministero della difesa, dal Ministero della difesa partì un documento che venne imbarcato sulla nave Jumbo M il 6 marzo 1978 a La Spezia. Essa trasportava cinque passaporti falsi e un documento nel quale era scritto: «Destinato al colonnello Stefano Giovannone: prendere contatti immediati con i gruppi del terrorismo mediorientale per la liberazione di Aldo Moro». Io sottolineavo che questo documento fosse del 2 marzo rispetto al 16 marzo 1978.
  Finisco qui perché questo dibattito è stato fatto. Le dico anche che il Ministero della difesa ha detto che l'originale non esiste, ma io lo sapevo, perché risulta agli atti che il generale Gianadelio Maletti nel 1991 distrusse tutto l'archivio di Gladio. Esiste una copia autenticata da un notaio di questa documentazione.
  Io le consiglierei un tantino di prudenza nell'attribuire queste cose, che peraltro, dette in questa Commissione, suonano, secondo la mia valutazione, irriguardose nei confronti del ruolo che i commissari hanno in questa Commissione.
  Per il resto, per me l'incidente è chiuso, una volta che ho messo agli atti che lei ha detto una cosa completamente falsa.

  PRESIDENTE. Sì, ma non facciamo un battibecco.

  MARCO CLEMENTI. Intanto non accetto che quello che io ho detto sia irriguardoso nei confronti di nessuno.
  Dopodiché, io non ho detto una cosa falsa. Al limite, posso aver commesso un errore. Invece di provenire da Beirut il documento proveniva dall'Italia. La sostanza da un punto di vista storico non cambia.
  Io la invito a riflettere su come sia possibile che un documento partito dall'Italia – effettivamente ora ricordo che la questione è in questi termini – il 2 marzo per andare a Beirut, ora sappiamo da chi, ossia da Abbas, perché Giovannone era in contatto con Abbas, per quanto mi risulta, possa richiedere la liberazione di Aldo Moro. Io la invito a riflettere su questo, come invito a riflettere tutti i membri di questa Commissione: come è possibile ?

  GERO GRASSI. Chiedo scusa, ma qui non funziona così. Io sono esterrefatto. Lei non può invitare me a riflettere. Qui la Commissione di inchiesta sul rapimento Moro viene invitata a riflettere. No, lei faccia la sua relazione. Io le dico che quel documento non era diretto ad Abbas, che quel documento esiste e che sono io che, al limite, chiedo a lei perché si verifichino determinate cose. Non è così.
  Sulla relazione io non intervengo, perché qui non faccio lo storico. Io qui faccio Commissione d'inchiesta. La relazione la rispetto, l'ho ascoltata. Tamquam non esset. Tuttavia, per la parte che mi riguarda, lei certe cose non le può dire, anche perché il dibattito su questo argomento che lei mi ha inopportunamente contestato noi l'abbiamo già fatto in Commissione.

  PRESIDENTE. Dopo la precisazione dell'onorevole Grassi, che è già agli atti della Commissione, sul documento Arconte, chiarito che il Ministero della difesa ci ha risposto che l'originale non l'ha trovato e che ci deve ancora rispondere alla domanda se ci fosse una nave che a La Spezia partiva quella mattina – ancora non ci ha risposto – io non credo che il professore avesse alcun atteggiamento lesivo. Ha letto un documento che è agli atti dell'Archivio storico, che io credo potremmo acquisire e leggerci con calma. È un foglio aggiuntivo a quello di Arconte. Ci può essere utile per altre ragioni. Io personalmente non lo conoscevo, magari l'onorevole Grassi sì, ma, poiché risale al febbraio 1978, spiega alcune cose che io credo siano utili.

  PAOLO CORSINI. Per quel che mi riguarda credo che vada riconosciuto che lei ha fatto un'esposizione da studioso di Pag. 15storia. Credo che abbiamo una qualche sintonia, perché anch'io, prima di svolgere questo ruolo, di professione esercitavo il mestiere di storico.
  L'esposizione che lei ci ha sottoposto sotto questo profilo è estremamente interessante e, per taluni versi, anche controcorrente e, quindi, meritevole di attenzione, per quanto, a mio avviso, discutibile. Non è, tuttavia, su questo piano che io intendo sottoporle un quesito, che peraltro le era già stato sottoposto all'inizio dall'introduzione del presidente Fioroni.
  A conclusione della prefazione della seconda edizione del suo lavoro La «pazzia» di Aldo Moro, cioè l'edizione Rizzoli, dopo aver richiamato i lavori di Satta – da questo punto di vista la sua è una citazione che io apprezzo molto, perché ho seguito il lavoro del dottor Satta quando ero membro dalla Commissione di cui Satta era documentarista; ritengo, inoltre, che i due volumi che Satta ha pubblicato costituiscano dei riferimenti assolutamente rilevanti – lei elenca alcune (non molteplici) questioni che, a suo avviso, restano aperte. Per esempio, si riferisce alla questione relativa alla moto con i due brigatisti la mattina del 16 marzo, al tema della dinamica del trasporto di Moro da via Fani e via elencando.
  A un certo punto, a conclusione, proprio nelle ultime battute di questa prefazione, lei dice che «è ancora aperto il problema che riguarda il luogo esatto dell'incontro Piperno-Moretti avvenuto nell'estate del 1978 e soprattutto» – questo interessa molto a me – «l'identità dell'anfitrione che mise a loro disposizione un appartamento a Roma». Fin qui nulla quaestio.
  Poi, però, lei aggiunge: «Ebbene, riguardo a quest'ultimo punto, nel gennaio del 2004 è stato rilevato da un protagonista di chi si trattasse durante una pubblica discussione all'Università della Calabria sulla vicenda». Aggiunge che questa esposizione avviene nell'occasione della presentazione della prima edizione del suo volume agli studenti.
  In questa sede, cioè in una Commissione bicamerale d'inchiesta, viene spontaneo sottoporle un interrogativo.

  PRESIDENTE. Chi era ?

  PAOLO CORSINI. Il primo interrogativo che mi viene in mente, però, è un altro. Come mai l'autore cita il fatto, ma non cita il nome ? Questo è un interrogativo direi a margine rispetto al ruolo che io sto svolgendo in questo momento. Se il nome è stato rilevato in una sede pubblica, io non le domando perché lei qui non scriva questo nome, ma sono autorizzato a chiederle, permettendomi di ricordarle che lei sta parlando davanti a una Commissione d'inchiesta, chi sia esattamente questo nome. Chi è l'anfitrione ?

  MARCO CLEMENTI. Il motivo per cui non l'ho scritto è perché si tratta di un nome arabo, che io non ricordo e che non ho potuto scrivere in quel momento.

  PAOLO CORSINI. Io non intendo attribuire a lei alcuna colpa, tanto meno di negligenza. Tuttavia, un filologo sperimentato e professionale come lei... Io non voglio assolutamente paragonarmi a lei, perché lei è molto più bravo, ma, se io fossi stato presente – di professione faccio lo storico e sono abituato a controllare dei documenti e a fare delle verifiche – di fronte a un fatto così rilevante, cioè il nome dell'anfitrione che mette a disposizione l'appartamento nel quale avviene un avvenimento significativo come l'incontro Piperno-Moretti... Lei sa perfettamente che i rapporti tra Piperno e Moretti sono studiati e, per molti versi, al centro dell'attenzione degli inquirenti, ma anche degli studiosi che si occupano di questa vicenda.
  Ancor più mi stupisce la sua risposta. Se lei non lo ricorda perché c'erano problemi di trascrizione o ad assecondare la fonetica dell'esposizione, avrebbe potuto chiedere ai presenti di fornirle qualche indicazione e di metterla sulla pista per riconoscere quel nome.

Pag. 16

  PRESIDENTE. Io integro quello che dice il senatore Corsini con la domanda che fece Pellegrino a Piperno: «Lei, quindi, sta dicendo che quell'incontro avvenne in una casa alto-borghese ?» Io non so chi sia l'arabo, ma, leggendo la domanda, vedo che Piperno rispose, come abbiamo detto prima, senza dire il nome. Se non se lo ricorda lei, vediamo come fare a saperlo noi.

  MARCO CLEMENTI. C’è una spiegazione. Voglio contestualizzare il motivo per cui avvenne quell'incontro. Sul motivo dell'incontro ci sono due versioni differenti.
  Una versione è quella da cui scaturirebbe la famosa frase della «geometrica potenza» scritta da Piperno...

  PAOLO CORSINI. Attribuita a Piperno.

  MARCO CLEMENTI. ...che però va unita non ricordo se alla «magnifica bellezza» del 12 marzo 1977. In una sintesi, quella frase significava che, non secondo l'Autonomia, ma secondo l'idea di Piperno, si poteva unire la forza militare delle Brigate Rosse, che lui ampiamente sopravvalutava, con il movimentismo rappresentato dall'Autonomia.

  PAOLO CORSINI. Evoca il «calare il passamontagna» di qualche tempo dopo di Negri.

  MARCO CLEMENTI. Esiste anche un'altra versione, cioè che l'incontro sarebbe stato fatto perché c'era una richiesta di finanziamento di una rivista, che poi sarebbe stata la rivista Metropoli. Può darsi anche che siano successe entrambe le cose in questo incontro.
  Il problema è questo, almeno all'epoca. Il fatto è del 2004. Io non mi ricordavo l'anno. Me lo ricorda lei e io la ringrazio. Nelle situazioni in cui io venivo a conoscenza in modo casuale di nomi che in qualche modo potessero rientrare in una situazione in cui, invece di fare storia, io sarei stato costretto a fare giurisprudenza...

  PAOLO CORSINI. A fare, diciamo il «pistarolo».

  MARCO CLEMENTI. Sì, perché questa è una vicenda che non finisce mai. Uno storico ha veramente una barriera di fronte, a volte. Non può affrontare determinate questioni con tranquillità, perché, se scrive determinate cose, poi viene sicuramente convocato da un giudice, perché è a conoscenza di quelle cose. Io, quindi, dimenticavo automaticamente determinati nomi.
  Se me lo ricordassi, forse ora lo direi anche, ma non me lo ricordo proprio. Non ho detto che fosse un arabo. Ho detto che il nome suonava come il nome di un arabo. Suonava in quel modo, ma non lo ricordo assolutamente. Non so neanche la lettera con la quale inizia.

  PRESIDENTE. Non rammenta chi lo rese pubblico ?

  MARCO CLEMENTI. Ci fu un intervento durante la presentazione.

  PAOLO CORSINI. Le sue precisazioni metodologiche richiamano una discussione che gli studiosi conoscono, ossia la distinzione tra il vero e il certo in storia. Una cosa è il vero, una cosa è il certo. Non c’è dubbio. Potremmo citarci reciprocamente molti manuali e saggi su questo argomento.
  Le domando allora se è in grado di segnalare chi fosse presente all'assemblea – ci sarà stato oltre a lei un relatore, un presentatore, un coordinatore, qualcuno che presiedesse l'incontro – in modo che noi possiamo risalire ad altre testimonianze per tirare fuori questo nome.

  MARCO CLEMENTI. No. Mi ricordo che era presente Piperno. Mi ricordo che era presente un avvocato, che però è morto, ma di cui non ricordo il nome, che era stato probabilmente avvocato di spezzoni di Autonomia calabresi. So che questo signore è morto qualche anno fa.Pag. 17
  Non è difficile risalire, perché queste iniziative probabilmente rimangono in un archivio elettronico dell'Università.

  PAOLO CORSINI. Potremmo risalire ai nomi dei relatori, perlomeno.

  MARCO CLEMENTI. Si potrebbe risalire ai nomi dei relatori. Io mi ricordo questi.

  PAOLO CORSINI. Il personaggio che ha fatto questo nome è uno dei relatori o uno del pubblico ?

  MARCO CLEMENTI. Mi pare che fosse uno del pubblico.

  PAOLO CORSINI. Lei scrive che «è stato rivelato da un protagonista». «Un protagonista» che cosa vuol dire ? Un protagonista del movimento di allora ?

  MARCO CLEMENTI. Sì, del movimento. C'erano moltissime persone del movimento.

  FABIO LAVAGNO. Intervengo riguardo alla documentazione fornita. Se ho capito bene, quello distribuitoci è uno schizzo, una piantina fornita da Mario Moretti...

  MARCO CLEMENTI. Esattamente, è disegnata da lui.

  FABIO LAVAGNO. I numeri sono del 2006. I numeri li ha messi lei. Me lo sono segnato.

  MARCO CLEMENTI. Esattamente.

  FABIO LAVAGNO. Io chiederei al presidente se sia possibile, oltre che reiterare la richiesta di audizione di Mario Moretti, anche verificare con lo stesso se riconosce come autentica questa piantina. Visto che la qualità della fotocopia non è molto alta e noi abbiamo ascoltato la settimana scorsa una lunga presentazione da parte della DIGOS rispetto alla dinamica, che immagino lei conosca, le chiedo, visto che capisco realmente poco dalla qualità di questa fotocopia, se la ricostruzione scientifica sia in qualche modo sovrapponibile rispetto a questo schizzo di Moretti.

  MARCO CLEMENTI. Nelle linee generali, sì.
  Dopodiché, però, voglio aggiungere una cosa. Secondo quello che mi disse Moretti quando abbiamo conversato sulla questione, lui non ha visto quello che accadeva. Il piano prevedeva che Moretti uscisse dalla macchina e andasse ad affiancare la persona che doveva chiudere via Stresa e via Fani. Invece, sentendo da dietro che la macchina che portava l'onorevole Moro cercava di uscire – lui così interpreta il fatto; gli ultimi accertamenti della scientifica forniscono una versione leggermente diversa, ma comunque questa è la percezione che Moretti mi ha trasmesso – non è più uscito dalla macchina ed è rimasto con il piede sul freno. Pertanto, io credo che la sua visuale fosse molto parziale. Non credo assolutamente che fosse in grado di vedere e, infatti, nulla mi ha detto di chi ha sparato e come. Semplicemente mi ha detto che, una volta finita la sparatoria, è sceso e sono andati via.

  FABIO LAVAGNO. Ho un'altra questione e mi rivolgo al presidente. L'audito ci suggerisce ancora una volta Biancucci e Angelotti rispetto ai conducenti della moto Honda. Io chiederei – non so se sia stato fatto – di verificare se Biancucci e Angelotti, residenti in via Stresa, come ci viene ricordato oggi, fossero proprietari o avessero uso di moto...

  PRESIDENTE. Onorevole Lavagno, questa è una cosa che già la magistratura ha appurato. Mi pare di capire che non avessero la moto e che, se c'era, non erano lì quella mattina. Mi pare di ricordare che sia stato fatto un accertamento dall'autorità giudiziaria che ha escluso la pista di Peppo e Peppa.

  FABIO LAVAGNO. Noi possiamo riverificare presso il Pubblico registro automobilistico rispetto a questo ?

Pag. 18

  GERO GRASSI. Ce l'avevano.

  FABIO LAVAGNO. Ce l'avevano ? Evidentemente l'onorevole Grassi conosce la questione.

  GERO GRASSI. Ricordo in positivo e in negativo, ma c’è una sentenza, passata in giudicato, che dice che da quella moto hanno sparato e che non erano le due persone menzionate.

  FABIO LAVAGNO. Ho capito, ma io sto facendo un altro tipo di domanda, ossia se Peppo e Peppa, come sono noti giornalisticamente, fossero proprietari o avessero in uso una motocicletta. Chiederei di acquisire questo dato da parte della Commissione.

  PRESIDENTE. Acquisiamo il dato, ma, secondo me, c’è una sentenza che li esclude.

  PAOLO CORSINI. C’è una sentenza che li esclude in modo categorico.

  GERO GRASSI. C’è una sentenza passata in giudicato, così come c’è una sentenza, sempre quella sentenza che tutti dimenticano, qui e anche lì, che dice che la moto c’è. È una sentenza del 1991. Poiché non viene descritta...

  FABIO LAVAGNO. Io non sto contestando una sentenza passata in giudicato.

  GERO GRASSI. Non sto dicendo a lei.

  FABIO LAVAGNO. È solo per chiarirci, visto che siamo in una sede di un dato tipo.

  PRESIDENTE. Io credo che l'onorevole Lavagno applichi il principio che, se le sentenze passate in giudicato fossero state perfette, immacolate e certe, noi non avremmo fatto la Commissione d'inchiesta. Sta dicendo soltanto questo.
  Personalmente ho grande rispetto delle sentenze passate in giudicato, ma, poiché personalmente ho rimesso in discussione decine di sentenze passate in giudicato, se noi dovessimo prendere per buono tutto quello che nelle sentenze è stato detto, a noi rimarrebbe da indagare solamente sull'Iperuranio, non su Hyperion.
  Volendo andare a un approfondimento, l'onorevole Lavagno ci ha chiesto di verificare se fossero possessori di una moto. Verifichiamo e facciamo anche un approfondimento nelle carte giudiziarie per capire quali sono i motivi per cui l'hanno tolta.

  FABIO LAVAGNO. Mi ritrovo perfettamente nelle parole del presidente.

  PRESIDENTE. È inutile fare due ore di dibattito. Personalmente ho disposto oggi con l'Ufficio di presidenza l'audizione dell'uditore giudiziario che ha redatto il verbale di acquisizione del noto rullino fotografico consegnato al dottor Infelesi e poi scomparso. Nelle sentenze passate in giudicato non se ne è potuto tenere conto. Abbiamo oggi disposto l'audizione dell'uditore giudiziario. Non è che per questo io metta in discussione la sentenza. Può darsi che la sentenza meriti un approfondimento.
  Dico questo per chiarezza tra di noi. Noi dobbiamo decidere. Le sentenze possono essere oggetto di approfondimento, altrimenti non avremmo fatto la Commissione.
  La sentenza dice alcune cose e io le metto in discussione, ma le mettiamo in discussione anche quando ne dice altre. Poi alla fine faremo le nostre verifiche. Questo non genera reati di lesa maestà, altrimenti diventa complesso anche discutere tra di noi.
  Il collega ha chiesto un approfondimento. Facciamolo. Si tratta di tirare fuori le carte e di vedere con quale motivazione i due tizi siano stati esclusi. Sicuramente io mi ricordo di aver letto i motivi. Tiriamoli fuori. Se ci danno una cosa la vediamo, se non ci danno una cosa, approfondiremo sul perché.

  PAOLO BOLOGNESI. Io non sono uno storico, ragion per cui non ho il passo felpato del professor Clementi. Io chiedo Pag. 19come mai nel fare la sua analisi, tra l'altro un'analisi che segue quella che ha fatto la polizia scientifica una settimana fa e che, guarda caso, combacia discretamente, per quello che riguarda via Fani lei prende lo schema che le ha fatto Moretti. Nell'ambito di un discorso di questo tipo, storico, per quale motivo non si controllano le varie autopsie che sono state fatte ? Anche quelle sono documenti che avrebbero potuto essere, io credo, utili per ricostruire la verità, così come le dichiarazioni dei testimoni.
  Capisco che lei è uno storico e non un membro di una Commissione d'inchiesta, ma mi sembra che tutto l'aspetto diventi parziale anche nello scrivere la storia di questo avvenimento. Parliamo solo del fatto, per intenderci.
  Quanto agli altri aspetti, ossia al fatto che gli americani o i vari Stati europei considerassero Moro una persona altamente stimata e che tutto questo discorso dell'eventuale intervento straniero per contrastare questa operazione politica che veniva fatta in Italia non fosse assolutamente un'idea che potesse essere di Kissinger, io le chiedo come mette in relazione tutto l'aspetto di Pieczenik, che ha scritto libri e ha fatto conferenze dicendo: «Abbiamo fatto uccidere l'onorevole Moro». Erano tutti motivi politici per arrivare a impedire la creazione del Governo di unità nazionale e via di questo passo ? Come mette in relazione questo ?
  Vorrei che questi due aspetti fossero chiariti.

  MARCO CLEMENTI. Per quanto riguarda via Fani, nel corso delle mie ricerche io mi sono interessato agli aspetti tecnici di via Fani in modo non approfondito nel senso che dice lei. Non sono andato a vedermi le autopsie e i riscontri, perché ho fatto un altro tipo di ragionamento, un ragionamento per cui dei dati più macro mi fornivano una convinzione, che è mia personale e che può essere, ovviamente, opinabile.
  Tra l'altro, io la parola «verità» o «certezza» in storia non la uso mai. C’è un libro in russo che si intitola Istoria. Kak eto bylo na samom dele, cioè La storia è quello che è, come è avvenuto in verità. Non è così. La storia è tutt'altro che questo. La storia è una ricerca continua e, quindi, c’è una possibilità continua di aggiungere e togliere.
  Questa situazione è avvenuta casualmente. In realtà, io avrei dovuto essere audito, secondo la prima convocazione, prima della DIGOS. Poi è capitato che sia stato audito dopo. Questo quadro generale, come ho detto, l'ho già scritto nel 2007. Non è qualcosa che mi sono inventato oggi perché la DIGOS ha detto quello che ha detto. È nel libro del 2007.

  PAOLO BOLOGNESI. Le spiego. Il problema è la sequenza, quanto meno la sequenza delle cose come sono avvenute. Una settimana fa sono arrivati questi con il laser e hanno fatto determinate cose.

  MARCO CLEMENTI. È casuale. Non lo so io, adesso.

  PAOLO BOLOGNESI. Io non voglio discutere. Lo cito solo. Tutto qui.

  PRESIDENTE. Il professore l'ha detto all'inizio: il suo è un giudizio in controcorrente, come ha detto il senatore Corsini, rispetto al personaggio Moretti e alla sua affidabilità. Queste sono le sue dichiarazioni. È una sua opinione.

  MARCO CLEMENTI. Non so se sia controcorrente.

  PAOLO BOLOGNESI. Non è tanto il fatto che sia controcorrente. Non sto contestando questo. Sto chiedendo semplicemente per quale motivo, nel momento in cui ha descritto questo fatto, ha preso come buono questo, mentre altri dati che – secondo me, ma io non sono uno storico – avrebbero potuto essere determinanti non sono stati presi in considerazione. Sono dati che c'erano, peraltro, non è che non ci fossero. Lei ha citato due quintali di documenti. Non capisco per quale motivo abbia agito così.Pag. 20
  Nel momento in cui andiamo a ricostruire via Fani, tanto per essere chiari, la questione diventa determinante per taluni aspetti. Anche per un profano diventa determinante il fatto che ci fossero, anziché quattro terroristi che hanno sparato, sette, dieci o non so quanti altri. Questo aspetto diventa determinante.
  È chiaro che, nel trattare questo argomento in un caso come il caso Moro, diventa determinante poter avere su questo aspetto tecnico più fonti possibile per esprimere un parere da storico.

  MARCO CLEMENTI. Io la capisco e rispetto la sua idea. Il mio convincimento personale, però, è che non sia così determinante ricostruire nei minimi particolari la dinamica di via Fani, se non per questioni giudiziarie. Non lo è per motivi storici. Io credo che da un punto di vista storico la questione interessante sia ricostruire la dinamica complessiva dei 55 giorni all'interno di un contesto ancora più ampio, che è quello della storia delle Brigate Rosse e della lotta armata.

  PRESIDENTE. Noi siamo tutti interessati alla ricostruzione che abbiamo fatto e al dibattito sulla correttezza o no, sulla sostenibilità o no, della tesi che la polizia scientifica ci ha portato.
  Quando noi abbiamo deciso di audire il professor Clementi e oggi siamo finiti nel dibattito di via Fani, se voi avete seguito l'ordine delle mie domande e quella che ha fatto Corsini, che tra le mie era quella finale, noterete, però, che noi l'abbiamo audito come conoscitore delle BR che ha scritto una storia delle BR e che ha fatto anche un testo su Moro. Non l'abbiamo audito per sapere che ne pensa di via Fani. Adesso ho capito la domanda che gli ha fatto. Le ha risposto. Che vogliamo fare ?

  PAOLO BOLOGNESI. Per carità, il discorso è questo: nell'ambito di un discorso sulle BR e su come è stato ucciso Moro è chiaro che, nel momento in cui si lasciano passare determinate cose su via Fani e non si è chiarissimi fino in fondo, questo va a incidere anche sullo studio delle Brigate Rosse. Il fatto che lì ci potessero essere altre persone immediatamente può sminuire tutto questo discorso della solitudine delle Brigate Rosse senza Gladio e altre cose attorno.

  MARCO CLEMENTI. Lei si spiega benissimo, ma la mia risposta è questa: le ricerche storiche – poi, però vorrei rispondere anche sulla questione degli americani, perché mi sembra interessante – non vanno per tentativi a escludere. Non si parte da un'ipotesi, poi se ne fa un'altra e poi un'altra ancora. Si seguono delle piste di ricerca. Le piste di ricerca automaticamente, nel momento in cui uno trova delle... Io non parto mai da idee precostituite. Nel momento in cui trovo delle conferme o delle smentite a quello che sto studiando e al percorso che ho cominciato a seguire, vado avanti o ritorno indietro.
  All'interno di questo contesto la dinamica esatta di via Fani, se fossero dodici... Certo, se io trovassi un documento o qualcuno trovasse e portasse qui una serie di documenti – questo, però, non è mai accaduto in trentasette anni – che fornissero un quadro generale che dimostrasse in modo credibile che lì c'erano entità diverse dalle Brigate Rosse, io sarei il primo a dire che mi sono sbagliato. Fino adesso, però, a me non è capitato questo.
  Io non ho un'altra risposta. Questa è la mia risposta.

  PAOLO BOLOGNESI. L'autopsia è un documento, ed è piuttosto consistente. Era questa la domanda.

  MARCO CLEMENTI. Questa, però, è la mia risposta. Io ho scritto anche sull'omicidio di Peci, eppure non mi sono andato a vedere l'autopsia di Peci. Nessun altro che abbia scritto su Peci è andato a vedere l'autopsia di Peci, e questo vale per tutte le altre cose. Questo accade soltanto per Moro, perché è evidente che è la questione più importante.

  PRESIDENTE. Andiamo avanti. Lei voleva dire qualcosa sugli americani. Poi c’è una serie di domande, cui magari risponderà per iscritto, che io devo fare.

Pag. 21

  MARCO CLEMENTI. Le rispondo sugli americani. Nel corso del febbraio del 1978 Gardner incontra più volte due rappresentanti del Partito Comunista Italiano. Queste sono cose note. In quelle occasioni vengono rivisti gli equilibri politici all'interno del quadro politico italiano.
  Perché Moro è importante per gli americani ? All'inizio l'ho detto: per il PCI il compromesso storico è strategia, per Moro è tattica. Moro semplicemente prende atto di una cosa, ossia che il Partito Comunista prende il 33,3 per cento dei voti e, quindi, si rende conto che esistono due partiti che hanno vinto le elezioni politiche. A questo punto, Moro dice: «Noi non possiamo governare più da soli, non possiamo governare contro il Partito Comunista. Dobbiamo cercare una formula che metta insieme queste due cose».
  Se il Partito Comunista avesse preso il 10 per cento, Moro questo problema non se lo sarebbe posto. Lo pone agli Stati Uniti attraverso l'ambasciatore Gardner, che comprende la situazione e ha un atteggiamento di comprensione nei confronti di questa problematica, altrimenti l'Italia sarebbe diventata un Paese ingovernabile. La formula che viene scelta è una formula che comunque tiene fuori i comunisti dal Governo, ma li fa entrare nella maggioranza.
  Mentre per Berlinguer questo è il primo passo verso un ingresso successivo, o così lui sperava, dei comunisti all'interno del Governo, per Moro potrebbe essere – dipende dalle elezioni successive – il primo e ultimo passo. Se alle successive elezioni i comunisti arretrano, quella politica per lui salta. È finita lì.
  Su questa questione noi dobbiamo essere molto chiari. Perché Andreotti è a capo del Governo ? La persona che ha dialogato di più con i comunisti non è stato Moro. È stato Evangelisti. In un'intervista ha detto che stava un giorno sì e un giorno no a Botteghe Oscure in quei mesi.
  Questa è una questione che deve essere vista nel complesso. Se noi ci limitiamo semplicemente a sostenere che gli equilibri di Yalta sono quelli del 1948 fissi, quando poi non è così, perché saltano già nel 1948 con la Jugoslavia, rischiamo di rimanere impantanati in un'idea per cui diciamo che il rosso è il rosso, il nero è il nero e il bianco è il bianco.

  PRESIDENTE. Andiamo avanti, altrimenti facciamo un dibattito storico troppo ampio.

  MARCO CLEMENTI. Ha ragione.

  PAOLO BOLOGNESI. Su Pieczenik non dice niente ?

  MARCO CLEMENTI. Io veramente non so cosa risponderle. Io le ho letto quello che dichiara mentre è a Roma. La sua idea è quella che si debba delegittimare Moro agli occhi dell'opinione pubblica e anche agli occhi delle Brigate Rosse. Queste sono cose che Pieczenik dice mentre sta a Roma. Sono tutte in archivio.
  Nel momento in cui parte dall'Italia e se ne sta negli Stati Uniti d'America, quello che dice io francamente non so come prenderlo. Non lo prendo in considerazione, sinceramente. A me interessa quello che fa e dice mentre è qui.

  PRESIDENTE. Basta vedere la differenza tra quello che dice in TV e quello che diceva ascoltato dal magistrato in rogatoria. Se voi lo leggete, notate che smentisce se stesso.

  CARLO GALLI. Professore, ho una domanda. Vorrei essere sicuro di avere capito bene il risultato finale delle sue ricerche, quello che lei ci ha proposto qui.
  In merito alle Brigate Rosse lei ha detto – polemizzando, francamente, contro non so chi, ma non è importante – che il risultato della sua ricerca è che il rapimento Moro non è una brusca soluzione di continuità rispetto al modus operandi delle Brigate Rosse e alla loro strategia complessiva. Ripeto, non so contro chi lei dica questo.
  Lei sostiene questo elemento di continuità dell'operato delle Brigate Rosse citando piazza Nicosia e parlando di una Pag. 22dialettica dell'agire delle Brigate Rosse, da una parte, rispetto all'agire dello Stato, dall'altra, cioè ai processi che venivano celebrati in quei mesi e in quegli anni.
  Attraverso questo ragionamento lei esclude un elemento di eccezionalità del rapimento Moro e soprattutto un elemento di eccezionalità esterna, come se le Brigate Rosse fossero state manovrate da qualcuno per carpire segreti di Stato, segreti militari, che lei dice – e io sono d'accordo con lei – sicuramente uno statista non conosce e che probabilmente erano già ben noti a chi li doveva conoscere.
  Va tutto bene. Sono d'accordo, se ho capito bene la sua impostazione. C’è una falla, però, nel modo attraverso il quale lei dimostra, o pensa di dimostrare, questa sua tesi, o questo esito delle sue ricerche. Lei dice che dopo la morte di Moro sono stati trovati documenti riservati di carattere militare in un suo studio, il che dimostra che non ne sono usciti.
  Senza entrare nella validità storico-politica delle sue affermazioni, con alcune delle quali io sono d'accordo e con altre un po’ meno, io capisco che il suo punto di vista sia anche biograficamente diverso dal nostro, ma l'idea che l'Unione Sovietica fosse tanto liberale o poco attenta nei confronti della pattuizione di Teheran e di Yalta io non la condivido. Nel 1980 i sovietici hanno tenuto molto a sottolineare che la Polonia era cosa loro e l'hanno sottolineata contro un pontefice.
  Al di là di questo, direi che c’è proprio un non sequitur logico. Se io ho a casa mia due documenti segreti, vengo rapito e ucciso e poi, dopo la mia morte, si va a casa mia e si trova un documento segreto, nessuno potrà dire, se non lo sa, che non ne è uscito uno. Il suo ragionamento ha un momento di difficoltà. Vorrei capire da lei se ho capito bene nella ricostruzione che ho fatto e come spiega lei allora, in quel punto, la difficoltà che io le indico.

  MARCO CLEMENTI. Su questa cosa ha perfettamente ragione.

  PRESIDENTE. Ci sono delle domande aggiuntive ? Non so se facciamo in tempo nei dieci minuti che abbiamo, ma io gradirei rivolgerle domande su alcune questioni, se sono di sua conoscenza.
  Come ogni gruppo compartimentato, le BR hanno messo in campo un dispositivo definibile anti-infiltrazione ? Vorrei sapere in che cosa è consistito e se ha prodotto effetti.
  La mancata cattura di Moretti dopo l'azione di infiltrazione organizzata dai Carabinieri con l'ausilio del noto padre Girotto: lei ha trovato riscontro su come venne valutata all'interno dell'organizzazione ?
  Quali reazioni ha comportato la scoperta che il Dotti della Terrazza Martini di Milano, indicato dalla Cagol come punto di contatto e di finanziamento – fonte Franceschini – sia stato, in realtà, un uomo vicino alla struttura di Edgardo Sogno ?
  È vero o no che le BR sospesero Casimirri e Algranati, come lo stesso Casimirri lascia intendere, e, se sì, risulta dalla storia delle BR il perché ?
  L'organizzazione delle BR ha mai sospettato che Casimirri avesse un rapporto preferenziale con un ufficiale dei Carabinieri ?
  Quali canali venivano adoperati dall'organizzazione per il rifornimento di armi ? Risultano dai suoi studi canali di intermediazione in ambienti contigui alla banda della Magliana o canali simili contigui all'ambiente della ’ndrangheta ? In argomento, come valuta l'esplicita presa di distanza di Fenzi dai rapporti delle BR in Roma e con ambiti criminali ?
  Ha mai inquadrato moventi e contesto dei viaggi effettuati da Mario Moretti a Catania e a Reggio Calabria in epoca anteriore al sequestro Moro ?
  L'organizzazione ebbe elementi per ritenere che il tipografo Triaca, proprio militante, fosse un confidente della polizia ?
  Quale fu la politica della comunicazione delle BR e, in particolare, in base ai suoi studi, come si può inquadrare il rapporto tra le BR e le cosiddette radio libere e, in modo particolare, Radio Città Futura ?Pag. 23
  In ambiente BR risulta ed è stata da lei studiata, per caso, la diffusione da parte di Radio Città Futura di notizie sul rapimento di Aldo Moro la stessa mattina del 16 marzo 1978 ?
  Infine, vorremmo sapere se mai le fosse capitato di trovare all'interno dell'organizzazione delle BR riferimenti a rapporti con il capocentro del SISMI di Firenze, Federigo Mannucci Benincasa, in modo particolare tra lui e Senzani.
  Ovviamente, io non so se lei abbia avuto modo di studiare o no queste questioni, ma, visto che abbiamo esaurito il tempo e sta per iniziare l'Aula, io gliele trasmetterò per iscritto.

  MARCO CLEMENTI. Va bene.

  GERO GRASSI. Ad adiuvandum, i viaggi a Catania e Reggio Calabria non avvengono prima del rapimento, ma durante il rapimento, per essere più precisi. Altrimenti la storia chissà dove ci porta, se diciamo che avvennero prima.

  PRESIDENTE. Se ci sono stati durante, ci saranno stati anche prima. Secondo me, ci sono stati anche prima.
  Ringraziando il nostro ospite, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.55.

Pag. 24

ALLEGATO 1

Pag. 25

ALLEGATO 2

Risposte del professor Marco Clementi ai quesiti trasmessigli per iscritto.

A. Risposte ai quesiti posti dal presidente della Commissione nel corso dell'audizione e successivamente formulati anche per iscritto.

  1) Quali obiettivi, secondo i risultati delle sue ricerche, si proponevano le BR con il rapimento di Aldo Moro ?

  Le Brigate Rosse, nate tra Genova e Milano all'inizio degli anni Settanta, costituirono una delle formazioni che in Italia intrapresero la lotta armata. Crescendo in numero di militanti e in capacità di controllo territoriale, si spostarono progressivamente da obiettivi locali, come capi reparto o dirigenti di fabbrica (episodi che ebbero il loro apogeo con il rapimento di Ettore Amerio, capo del personale della Fiat Mirafiori, 10-18 dicembre 1973), ad azioni più complesse e clamorose, come il sequestro del magistrato Mario Sossi nella primavera del 1974 («Operazione Girasole»). L'intenzione era quella di colpire progressivamente apparati dello Stato, come la magistratura, responsabile secondo i brigatisti della ingiusta condanna dei membri di un altro gruppo armato, la 22 Ottobre, o parti della società civile (per esempio la campagna contro la «stampa di regime» del 1977). Dopo gli arresti del maggio 1972 a Milano e in coincidenza con quelli del 1974 di Curcio e Franceschini, le BR si dotarono di una nuova forma organizzativa e accanto alle colonne nacquero i fronti (per esempio quello delle carceri, della controrivoluzione, il logistico) e un comitato esecutivo (che sostituì il cosiddetto «nazionale»), composto normalmente da quattro persone. L'esecutivo svolgeva funzioni di coordinamento tra le colonne, proponeva gli obiettivi di rilievo o discuteva le proposte di attentati che giungevano dalla periferia. Con gli arresti di molti militanti e l'apertura del processo di Torino contro il cosiddetto nucleo storico, la strategia delle BR si concentrò nel tentativo di far saltare il processo, che dopo vari rinvii si riaprì il 9 marzo 1978. In questo contesto è importante ricordare l'omicidio dell'anziano avvocato Fulvio Croce, presidente dell'Ordine degli avvocati di Torino, avvenuto nel 1977. I brigatisti respingevano il «processo borghese» e dunque si rifiutavano di nominare avvocati di fiducia o accettare quelli di ufficio, dei quali era responsabile proprio Croce. Con lui, le BR vollero colpire un elemento simbolo, considerato di ostacolo alla loro strategia. Il quotidiano «la Repubblica» del 4 maggio 1977 intitolò A Torino vince la paura. Mancano i giudici, mentre l'allora giudice istruttore di Torino, Gian Carlo Caselli, in una successiva intervista ricordò che per il processo contro le BR non si trovavano sei giurati: «Ripeto sei, non cinquanta o cento» [Davide Steccanella, Gli anni della lotta armata, Bietti 2013, p. 153]. A tal proposito ricordo che Giuliano Ferrara, all'epoca dirigente del Pci di Torino, nel libro di Maurizio Caprara, Lavoro riservato. I cassetti segreti del Pci, Feltrinelli 1997, aveva rivelato che tra i suoi incarichi di allora c'erano state anche «alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all'incarico». In un'intervista rilasciata a decenni di distanza, lo stesso Ferrara ha ricordato quei giorni: «Certo che era una forzatura, una cosa totalmente non garantista, da emergenzialismo devastante. Per questo era un lavoro che facevamo segretamente, riservatamente. Però sentivo che avevo una forte giustificazione etica. D'altra parte facemmo anche il Pag. 26questionario antiterrorismo con la domanda numero 5 che invitava alla delazione. Insomma c'era una crisi dello Stato evidente che poi diventò parossistica durante il processo Moro, tra l'altro le date coincidono. Lo Stato era debole e flebile il progetto del compromesso storico» [http://insorgenze.net/2010/11/12/la-vera-storia-del-processo-di-torino-al-«nucleo-storico»-delle-brigate-rosse-la-giuria-popolare-venne-composta-grazie-allintervento-del-pci/].
 Dunque, pur mantenendo una linea di attenzione nei confronti del mondo delle grandi fabbriche del Nord (ne sono esempio gli innumerevoli attentati contro dirigenti di fabbrica che continuano anche nei primi anni Ottanta), nel corso della prima metà degli anni Settanta le BR si spostarono su obiettivi istituzionali e più propriamente politici. Al processo contro il nucleo storico decisero di contrapporre il processo a un personaggio politico di primo piano. Alle vecchie indagini su Giulio Andreotti, che risalirebbero al 1974, si affiancarono quelle su Amintore Fanfani e Aldo Moro. Quando fu deciso il rapimento di Moro (siamo nel 1977), che doveva avvenire in contemporanea con quello di Leopoldo Pirelli a Milano, giocò un ruolo non di secondo piano il fatto che questa azione venne considerata più facilmente realizzabile per motivi logistici: il luogo in cui abitava l'onorevole Moro e le vie di fuga, infatti, erano defilati rispetto al centro di Roma, al contrario dell'abitazione di Andreotti, che si trovava a pochi passi da piazza Navona, e di Fanfani che, secondo le BR, non dormiva regolarmente nello stesso posto.
 Nel novembre 1977 venne stampato un opuscolo, rinvenuto nella base milanese di via Monte Nevoso nell'ottobre del 1978, dove la linea di attacco allo Stato veniva ampliata da nuove considerazioni [Si tratta del reperto 140 F4. La corte del primo processo per il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro ha dichiarato: «Le analisi contenute nel documento [...] non lasciavano spazi per mediazioni» nel senso che le BR si preparavano ad un attacco diretto e decisivo contro lo Stato; Sentenza del processo Moro I, p. 749].
  Al rapimento di Aldo Moro mancavano ormai solo quattro mesi e il documento può essere interpretato come la minuta della risoluzione strategica del febbraio 1978, quella che avrebbe teorizzato la cosiddetta «campagna di primavera»; vi si legge: «Sempre più evidenti sono i segni della crisi che sconvolge l'intera catena dei paesi imperialisti» che «cercano oggi di modificare e adeguare i propri strumenti di dominio» per uscirne. I brigatisti ipotizzarono l'esistenza di un governo ombra mondiale formato dalla «Trilateral», ossia da rappresentati dei governi statunitense, giapponese e dell'Europa atlantica, che stava dirigendo la ristrutturazione della NATO, del Fondo monetario internazionale e di altre organizzazioni intergovernative, governo mondiale che sarebbe divenuto lo strumento di dominio sui singoli paesi; questi, peraltro, sempre secondo le BR, «stanno costruendo nuovi organismi del genere contro il terrorismo per pianificare su scala continentale l'attacco alle avanguardie di classe ed alle organizzazioni combattenti; ma soprattutto stanno trasformando i vari Stati nazionali in Stati Imperialisti delle Multinazionali». La catena internazionale del controllo era formata, sempre a dire delle BR, da un settore militare, uno economico e uno politico e rappresentava lo «strumento migliore per restaurare nuovi livelli di sfruttamento sulla classe operaia e, più in generale, per poter meglio svolgere il ruolo di oppressori dei popoli di tutto il mondo». La Democrazia cristiana costituiva l'asse portante del progetto di costruzione dello Stato imperialista delle multinazionali (SIM) in Italia e per questo doveva essere colpita. Il Partito comunista di Berlinguer era considerato, invece, un partito revisionista, ma non attivamente compartecipe del SIM. I comunisti di Botteghe Oscure erano stigmatizzati come delatori, provocatori e poliziotti di regime, ma la loro opera si stava ormai evidenziando «sempre più agli occhi della classe operaia Pag. 27come contraria ai propri bisogni e ai propri interessi e trova sempre maggiori difficoltà ad essere accettata»; il progetto di Berlinguer di compromesso storico, dunque, si sarebbe esaurito da sé, mentre la DC aveva cominciato un'opera di ristrutturazione interna che passava per il rinnovamento del gruppo dirigente e il rafforzamento di organismi collaterali quali Comunione e liberazione, l'Arces o il Mille, al fine di porsi come «il garante ed il gestore effettivo del SIM [...] il faro e il punto di riferimento». Di conseguenza era giunto il momento di «individuare e colpire gli uomini e le strutture che articolano il potere democristiano a tutti i livelli [...] a partire dagli organismi centrali e dalle strutture fondamentali, ma estendendo l'attacco ad ogni ingranaggio, ad ogni rotella della macchina democristiana, di tutta la Democrazia cristiana», fino a quei quadri periferici «già perfettamente in linea ed organici ai piani del SIM». Con Moro, dunque, le BR vollero colpire uno degli uomini più importanti della scena politica italiana, candidato alla presidenza della Repubblica e probabile successore del presidente Leone, nonché presidente della DC. La caratteristica fondamentale di Moro era sempre stata quella di saper adeguare la politica del partito alla situazione contingente e nel corso del 1977 egli era giunto alla conclusione che la DC e il PCI, usciti entrambi vincitori dalle elezioni politiche del 1976, dovessero collaborare al governo del Paese. Moro aveva un uomo della sua corrente alla segreteria, Benigno Zaccagnini, e in accordo con Giulio Andreotti aveva aperto un dialogo con Botteghe Oscure dopo trenta anni di contrapposizione. Rapire Aldo Moro, dunque, significò raggiungere contemporaneamente più obiettivi: processare un elemento di spicco del sistema che si voleva spazzare via con una rivoluzione, rompere la nascente solidarietà tra PCI e DC, costringere la DC a cercare un compromesso con la banda armata e, di conseguenza, ottenere un riconoscimento politico dal partito politico italiano più importante, nonché avere la possibilità di interrogare l'ostaggio e ricostruire, grazie alle sue eventuali «confessioni», l'organigramma, gli obiettivi e i meccanismi di funzionamento del SIM.

  2) Quali erano le principali fonti di finanziamento delle BR all'epoca del sequestro ?

  Secondo quanto ho potuto accertare, i finanziamenti delle BR furono costituiti inizialmente da rapine e, quindi, da un grande rapimento a scopo di estorsione, avvenuto all'inizio del 1977. Piero Costa, figlio dell'ex presidente di Confindustria, Angelo Costa, fu rapito il 12 gennaio e rilasciato in aprile dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo di lire, grazie al quale l'organizzazione fu in grado di finanziare la propria attività per alcuni anni a venire (nonché acquistare l'appartamento di via Montalcini a Roma, dove sarebbe stato tenuto in ostaggio l'onorevole Moro). L'azione venne rivendicata solo dopo la liberazione di Costa per condurre le trattative in una situazione di minore pressione da parte delle forze dell'ordine. Circa 60 milioni del riscatto furono ritrovati nella base milanese di via Monte Nevoso nel 1990, dietro l'intercapedine sfuggita alle forze dell'ordine nel 1978.

  3) Nel suo studio sul caso Moro lei ha assunto il criterio di «prestare fede, fino a prova contraria, a quanto affermato dai protagonisti della vicenda», ritenendo che eventuali lacune o contraddizioni «siano dovute solo alla necessità, nell'ottica dei brigatisti, di continuare a coprire persone non ancora implicate dal punto di vista giudiziario» (La «pazzia» di Aldo Moro, ed. 2006, p. 48). Sulla base di quali elementi ha maturato la convinzione della sostanziale attendibilità di queste dichiarazioni ?

  I versamenti compiuti negli archivi di Roma, l'Archivio centrale dello Stato e l'archivio di Stato di Roma, avvenuti negli ultimi anni grazie alla direttive Prodi e Renzi, Pag. 28hanno facilitato il lavoro dello storico, entrato finalmente in possesso di una vasta documentazione, in piccola parte presente anche nell'archivio del Senato, che permette di effettuare ricerche più approfondite rispetto al passato, specialmente per quanto riguarda l'azione dello Stato contro il terrorismo. All'incirca fino al 2010, purtroppo, tale disponibilità non esisteva e le fonti principali erano costituite dagli scritti di Aldo Moro, da quelli delle BR (rivendicazioni, direzioni strategiche, volantini propagandistici), dagli atti processuali, dalle audizioni davanti alle Commissioni parlamentari di inchiesta e, infine, dai ricordi dei protagonisti. La domanda verte proprio su questi ultimi. Ebbene, i libri scritti dai brigatisti (ma non solo, perché esistono anche volumi di memorie di persone appartenenti alle forze dell'ordine come, per esempio, Nei Secoli Fedele allo Stato, una lunga intervista di Ruggiero Michele al generale dell'Arma Nicolò Bozzo, le memorie di Francesco Cossiga, i Diari di Giulio Andreotti ecc.), permettevano di incrociare i contenuti di queste memorie con i risultati, per esempio, delle inchieste parlamentari o giudiziarie e con le dichiarazioni dei pentiti e collaboratori (in particolare di Patrizio Peci e di Antonio Savasta). Ebbene, fino ad oggi, ogni volta che si è trattato di coprire un brigatista non individuato, nel limite del possibile i suoi compagni lo hanno sempre fatto (il discorso non vale ovviamente per i pentiti). Per esempio, ancora non sappiamo chi fosse presente con Mara Cagol a Cascina Spiotta di Arzello in Piemonte il 5 giugno 1975, quando i Carabinieri scoprirono la prigione in cui era tenuto sequestrato Vallarino Gancia (altro sequestro a scopo di estorsione, per tornare al quesito precedente) e uccisero la ragazza dopo un conflitto a fuoco, nel corso del quale morì l'appuntato Giovanni D'Alfonso e rimase gravemente ferito il tenente Umberto Rocca. Si tratterebbe di un brigatista processato per altri reati, ma non per questo fatto. Tutto porta a sostenere che non si tratta di un silenzio finalizzato a coprire un nome «scomodo» ma, più semplicemente, atto ad evitare un processo per omicidio a chi, lo posso solo ipotizzare, abbia già scontato un periodo di carcere per altri motivi.
 Per anni i brigatisti implicati direttamente nella gestione del sequestro Moro, ossia Braghetti, Gallinari e Moretti, hanno negato l'esistenza di un quarto uomo. Molte sono state le ipotesi su questa figura (uomo di Gladio, dei servizi dell'Est, della CIA, Grande Vecchio), ma quando è stato individuato grazie ad Adriana Faranda, si scoprì trattarsi di un ex brigatista proveniente da Potere Operaio, Germano Maccari, transitato nell'organizzazione per un periodo non lungo e uscitone subito dopo la fine del sequestro.
 In un appunto per il Ministro dell'interno del 23 ottobre 1993 si informa che «la nota Adriana Faranda, dopo aver escluso ogni implicazione nella vicenda Moro di Giovanni Morbioli – indicato dal SISDE come il “quarto uomo” – ha redatto un altro verbale nel quale ha risposto a specifiche domande, concordate preventivamente tra l'A[utorità] G[iudiziaria] e la DIGOS, intese a delineare la figura, il percorso politico e le pregresse esperienze del carceriere, senza peraltro farne il nome». Alla domanda, se il «quarto uomo» si identificasse nel Maccari, la donna infine ebbe a rispondere: «Non lo escludo». Quindi, «lasciato il Palazzo di Giustizia, nel corso di un colloquio informale con personale della DIGOS, ha affermato la piena corresponsabilità del Maccari nella detenzione dell'on.le Moro. Immediatamente ricondotta negli Uffici Giudiziari, ha riferito a verbale tutto quanto a sua conoscenza in ordine all'evolversi della vicenda in via Montalcini e, in particolare, alla presenza del Maccari nella base, durante il sequestro [...]». Appare utile, trascrivere l'ultima dichiarazione che la Faranda ebbe a verbalizzare allora: «Escludo tassativamente che (in via Fani) vi fossero altre persone Pag. 29estranee alle BR che avessero qualsiasi ruolo nell'economia programmata dell'azione» [Archivio Centrale dello Stato, DGPS, Gabinetto Segreteria Speciale, b. 24, Appunto per l'on.le sig. ministro, Roma 23 ottobre 1993].
  Con riferimento alla nota storia della moto Honda, non si comprende per quale motivo la Faranda, che nell'occasione dichiarò anche che a sparare a Moro furono proprio Maccari e Moretti (non conosceva però le circostanze precise di quello specifico episodio), dovesse continuare a coprire eventuali brigatisti in transito per via Fani su una Honda, qualora ciò fosse stato di sua conoscenza. Maccari, come è noto, diede in seguito piena confessione e raccontò anche delle proprie responsabilità nell'uccisione dell'ostaggio, confermando le parole di Faranda, che appare dunque un teste assolutamente attendibile, anche in sede storica.
 In breve, in tutte le occasioni in cui i brigatisti hanno coperto dei complici, la eventuale successiva scoperta di altri partecipanti a una determinata azione ha sempre confermato che si trattava di brigatisti, mai di elementi alieni all'organizzazione o riconducibili, addirittura, a forze capaci di influenzare dall'esterno le BR. Lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per i collaboratori di giustizia, che non hanno mai nominato elementi estranei all'organizzazione. I più noti, Peci e Savasta, hanno aiutato a smantellare diverse colonne e a portare in carcere centinaia di militanti.
 Differente appare il discorso per chi si trovava in carcere dal 1974. Le dichiarazioni di questi elementi su cose accadute «fuori», sono poco attendibili, perché «per sentito dire» attraverso un meccanismo che non si riesce a ricostruire, oppure del tutto inventate, ovvero trattasi di ipotesi ricavate da ragionamenti comunque influenzati dal lungo periodo detentivo. Per questi brigatisti il mio modo di procedere è stato quello di separare nettamente tre gruppi di dichiarazioni memorialistiche: quelle fino al momento del loro arresto; le memorie riguardanti il carcere (dunque vissute in prima persona); quelle per sentito dire. Su queste ultime si è cercato di risalire alla fonte. Non è mai accaduto che la fonte, una volta trovata, abbia confermato ipotesi di complotti o, addirittura, di presenze estranee all'organizzazione. Ovviamente, su tutte le «memorie» gravano problemi di carattere epistemologico, che sono generali e valgono per ogni tipo di memorialistica. Ciò non toglie che il quadro generale risulti coerente e non in contraddizione con i carteggi disponibili oggi in archivio.

  4) Il comportamento delle BR durante i 55 giorni seguì una linea coerente o mostrò elementi di discontinuità tali da richiedere una spiegazione ?

  Sostanzialmente fu coerente. L'obiettivo generale è contenuto nella risoluzione strategica del febbraio. Gli obiettivi specifici sono dichiarati attraverso i comunicati. In particolare il comunicato n. 1, scritto secondo quanto mi risulta da Moretti direttamente in via Montalcini, afferma: «Intendiamo mobilitare la più vasta e unitaria iniziativa armata per l'ulteriore crescita della guerra di classe per il comunismo. Portare l'attacco allo stato imperialista delle multinazionali. Disarticolare le strutture, i progetti della borghesia imperialista attaccando il personale politico-economico-militare che ne è l'espressione. Unificare il movimento rivoluzionario costruendo il partito comunista combattente». All'inizio è vero che le BR lasciarono fosse Moro ad aprire un dialogo con le forze politiche. E il governo italiano istituì presso il Ministero dell'interno una unità di studio, incaricata di preparare per il ministro un'analisi dettagliata delle lettere di Moro [Archivio Centrale dello Stato, Caso Moro, busta 23B, Lettere dell'on. Moro e Relativi reperti grafoscopici. Per quanto riguarda la lettera a Cossiga, la prima del prigionieri, si legge: «Atto scrittorio attento alla forma. Il gesto è condizionato alla struttura in un impegno esteriore, sdoppiato dalla intrinseca personalità dello scrivente». Pag. 30L'analisi prosegue ponendo in evidenza lo stress e un certo grado di cedimento psichico (apatia abulica e rassegnata e passaggio finale ad un «ictus emotivo»]. Si ripeté quanto già accaduto durante il sequestro Sossi; è bene ricordare che Sossi venne liberato e in seguito ha sempre smentito di essere stato costretto dai suoi rapitori a scrivere o sottoscrivere lettere già preconfezionate.
  Due, però, sono i momenti di relativa discontinuità nella strategia delle BR durante i 55 giorni. Il primo si può osservare nel comunicato n. 6 del 15 aprile e, in particolare, nel seguente brano (in grassetto i passaggi che considero importanti):
   «L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano, ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione imperialista nel nostro paese, riesaminare i vari momenti delle trame di potere, da quelle «pacifiche» a quelle più sanguinarie, con cui la borghesia ha tessuto la sua offensiva contro il movimento proletario, individuare attraverso le risposte di Moro le specifiche responsabilità della DC, di ciascuno dei suoi boss, nell'attuazione dei piani voluti dalla borghesia imperialista e dei cui interessi la DC è sempre stata massima interprete, non ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze che non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari. Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle Multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato. Il perché è molto semplice. I proletari, gli operai, tutti gli sfruttati conoscono bene che cosa significa il regime democristiano, perché l'hanno vissuto e lo vivono sulla loro pelle; contro il potere della borghesia hanno sempre opposto la più strenua resistenza, hanno lottato e combattuto contro la schiavitù del lavoro salariato, per la liberazione delle infinite energie che un pugno di padroni e di multinazionali ha continuamente saccheggiato e rapinato, contro uno Stato che è sempre servito a perpetuare il dominio della classe più feroce che la storia abbia mai prodotto: la borghesia imperialista.
  Quali misteri ci possono essere del regime DC da De Gasperi a Moro che i proletari non abbiano già conosciuto e pagato con il loro sangue ? «Centrismo», «centro-sinistra», «strategia della tensione», «governo delle astensioni», ecc. sono i termini con cui la DC e i suoi complici si sono incaricati di mantenere sotto il giogo imperialista il nostro paese, di costringere il proletariato alle ferree condizioni di sfruttamento che la borghesia vorrebbe perpetuare in eterno, di condannare all'emarginazione e alla miseria quelle parti di proletariato che l'interesse del capitale multinazionale non ritiene «conveniente utilizzare», di scatenare il terrore e i massacri dei sicari fascisti e di Stato ogni qual volta la lotta proletaria ha messo in discussione il loro potere.
 In precedenza, le BR avevano sottolineato che sarebbero presto state in grado di estorcere a Moro i segreti del SIM ma, evidentemente, il presidente democristiano non era al corrente dell'esistenza della struttura ipotizzata dai suoi rapitori. Al contrario, Moro spiegò nel Memoriale che la politica italiana non fosse di così alto profilo e che egli non fosse a conoscenza di segreti sensibili nel campo della ristrutturazione capitalista o della strategia antiterroristica europea. È probabile che Moro cercasse in questo modo anche di ridimensionare il proprio ruolo all'interno del panorama politico italiano in modo da convincere le BR che l'obiettivo fosse sbagliato. Lo stesso presidente scrisse in una lettera molto dura di trovarsi prigioniero al posto e in nome di tanti altri compagni di partito, che accusava di essersi arroccati su una posizione intransigente che non capiva e non considerava propria della tradizione democristiana. Tuttavia, le BR dimostrarono la volontà di cercare con ogni mezzo una conclusione diversa della vicenda. Lo si vede con chiarezza nella telefonata di Moretti a casa Moro il 30 aprile 1978. Come ho in qualche modo rilevato nella relazione presentata in Commissione, dopo quelle parole le BR sarebbero state costrette a sospendere la decisione già presa, Pag. 31ossia uccidere l'ostaggio, qualora Zaccagnini avesse aperto anche solo alla possibilità di una trattativa attraverso un riconoscimento politico (o viceversa). Dal 30 aprile al 9 maggio, giorno dell'uccisione di Moro, trascorsero 8 giorni pieni, un tempo lungo in una situazione del genere, durante la quale, è bene ricordarlo (mi riferisco a tutti i 55 giorni), furono identificate dalle forze dell'ordine più di 8 milioni di persone su tutto il territorio italiano [ACS, Ministero degli Interni, Faldone 1, Operazioni di polizia]. L'iniziativa di Moretti, concordata solo con Balzerani, Morucci e Faranda, fu presa a mio giudizio per due motivi: evitare come detto la conclusione violenta del sequestro, che avrebbe segnato in qualche modo una sconfitta della linea strategica aperta con quell'azione (colpire il cuore dello Stato non portava a risultati concreti) e aprire anche all'opzione Morucci-Faranda, contrari all'uccisione di Moro.
 Le richieste dei brigatisti erano state previste dalle forze inquirenti. In una relazione redatta dai Carabinieri prima del 18 aprile e consegnata al Consiglio dei ministri il 27 aprile 1978 si legge che tra le richieste principali da parte BR ci sarebbero state: scambio di prigionieri o rilascio di detenuti. Riconoscimento politico diretto attraverso trattative con rappresentanti ufficiali del Governo della Dc o con emissari del Governo o della Dc. Dichiarazione politica di «stato di guerra», riconoscimento dello status di prigionieri politici, applicazione della convenzione di Ginevra. Tra gli altri provvedimenti richiesti si ipotizzava lo smantellamento delle carceri di sicurezza, il trasferimento di detenuti, la destituzione di Dalla Chiesa, modifiche al regime penitenziario; un riscatto in denaro o in beni da distribuirsi alla comunità erano considerate le ultime opzioni [ACS, Fondo Carabinieri, Sala Operativa, Caso Moro, b. 9, Ipotesi principali di richieste delle BR in Pratica permanente relativa a Rapimento on.le Moro (prot. 22142)]. Le forze dell'ordine, dunque, non manifestarono alcun dubbio sulla «genuinità» dell'azione delle BR e non risultano agli atti studi specifici nei 55 giorni che riguardano possibili coinvolgimenti di servizi segreti italiani o stranieri, se non come ipotesi formulate a causa di segnalazioni anonime, sempre prontamente smentite dopo i controlli di rito. Né sembrò crederlo l'allora presidente della Corte costituzionale, che il 9 maggio scrisse: «Non trovo nel linguaggio umano una parola capace di esprimere l'orrore suscitato da un fatto bestiale, come la soppressione di un prigioniero innocente e indifeso dopo oltre cinquanta giorni di raffinata tortura. L'assassinio dell'on. Moro, gelidamente consumato ad onta della preghiera in ginocchio del Papa... nulla ha in comune con i regicidi e gli attentati politici che pure ci sono nella storia. Dirigenti ed esecutori delle Brigate Rosse non sono soltanto forsennati fanatici; sono veri ossessi nel cui spirito è spenta ogni luce d'umanità» [ACS, ACS, Fondo Carabinieri, Sala Operativa, b. 9, Corte Costituzionale, Il presidente, Roma, 9 maggio 1978, fotocopia]. Infine, già il 18 marzo la direzione generale di Pubblica sicurezza presso il Ministero dell'interno aveva trasmesso al Comando generale dell'Arma una lista completa di fotografie di 18 terroristi appartenenti alle BR, tra i quali risultano effettivamente diversi uomini presenti in via Fani [ACS, Fondo Carabinieri, Sala Operativa, b. 10. Il documento, in varie forme ma dello stesso contenuto, si trova in diversi fascicoli].

  5) Lei ha sottolineato che «Moretti [...] non era il capo, ma il gestore dell'operazione Moro e non poteva decidere praticamente nulla di importante di propria iniziativa, era l'organizzazione nel suo complesso ad assumere le scelte politiche. Solo la telefonata del 30 aprile, che fu un'iniziativa concordata in qualche modo con Moro, avvenne senza che l'organizzazione ne fosse stata preventivamente avvertita» (La «pazzia» di Aldo Moro, ed. 2006, p. 21). «Tutte le decisioni riguardanti la gestione generale del sequestro furono prese dall'esecutivo. In altre parole, non è possibile ridurre il rapporto Moro-Brigate Rosse a quello Moro-Moretti, perché in tal modo sfugge la complessità di una vicenda che riguarda un'intera organizzazione armata» (Storia delle Brigate Rosse, p. 214). Quali Pag. 32elementi può fornire alla Commissione in merito al Comitato esecutivo delle BR, ai componenti, ai suoi luoghi di riunione e alle discussioni svoltesi al suo interno ?

  Moretti ha gestito il sequestro di Aldo Moro come rappresentante del comitato esecutivo, composto all'epoca da Azzolini, Bonisoli, lo stesso Moretti e Rocco Micaletto. Il comitato si riuniva, per quanto è nelle mie conoscenze, in Toscana, dove si recava Moretti per discutere dell'evoluzione del sequestro. Contestualmente, è bene ricordarlo, le BR continuarono a colpire (la vicenda Moro fa parte, come detto, della «campagna di primavera») ed anche in questo caso l'esecutivo decideva gli obiettivi o dava il proprio assenso. Dunque, Moretti era vincolato alle decisioni dell'intera organizzazione, tanto che la già ricordata telefonata del 30 aprile fu l'unico momento in cui egli assunse autonomamente un'iniziativa in grado di spostare la vicenda su binari differenti. Anche secondo le parole di Morucci, ripetute più volte nel corso dei processi e nei suoi libri, tutto dipendeva dall'esecutivo, dove si trovavano persone «più rigide di Moretti». Alla fine, vista l'opposizione di Morucci e Faranda all'uccisione dell'ostaggio, secondo le dichiarazioni di molti brigatisti venne svolta una votazione tra i componenti regolari dell'organizzazione, compresi quanti in quel momento si trovavano in carcere. I contrari alla liberazione di Moro furono, credo, solo Morucci, Faranda.

  6) Sulla base degli elementi a lei noti ritiene che Giovanni Senzani abbia svolto qualche ruolo in relazione al sequestro Moro ?

  Senzani gestì il sequestro del giudice D'Urso due anni più tardi e fondò il Partito Guerriglia, che doveva riunire in una sola sintesi organizzativa i brigatisti in carcere e quelli fuori. Al tempo del sequestro Moro, per quanto è nelle mie conoscenze, Senzani era un irregolare incaricato di gestire una base a Firenze. Nulla di più.

  7) È diffusa l'opinione che il Governo degli Stati Uniti guardasse con diffidenza Moro. Lei, invece, sostiene che all'epoca del rapimento l'amministrazione statunitense apprezzasse la figura di Aldo Moro come quella del «maggior politico del Paese, l'unico in grado di garantire l'accordo, ovvero l'unico dotato delle capacità necessarie a coinvolgere i Comunisti nel governo senza una loro diretta partecipazione all'esecutivo [...]. Aldo Moro, dunque, era tutt'altro che inviso agli statunitensi. Anzi, al contrario, si può affermare che fosse davvero uno dei politici italiani più stimati a Washington e in quel momento storico il più necessario alla logica di Yalta» (La «pazzia» di Aldo Moro, ed. 2006, p. 146). Può illustrarci con maggiori dettagli questa sua opinione ?

  Per quanto riguardava l'Italia all'epoca del rapimento di Aldo Moro, l'interesse principale degli Stati Uniti si concentrava intorno ad alcune questioni: l'impatto degli scandali sull'opinione pubblica e le relative conseguenze; il ruolo di alcuni politici italiani coinvolti negli episodi (uno, il ministro Gui, era un moroteo); il sostegno politico e finanziario alla Democrazia cristiana, che si continuava comunque a considerare l'unica difesa contro una possibile ascesa comunista ma alla quale, in una situazione di crisi e difficoltà come quella della metà degli anni Settanta, veniva consentita la ricerca di nuove formule di governo. Il solo limite insuperabile era costituito dall'ingresso formale dei comunisti nell'esecutivo, cosa che avrebbe comportato la fine dell'appoggio di Washington a Roma. Del resto, che le elezioni del 1976 avessero rappresentato uno scampato pericolo era stato enfatizzato in più di un rapporto inviato a Kissinger dall'ambasciatore USA in Italia, John Volpe, il quale, esagerando, le paragonò alle politiche del 1948. L'impegno statunitense nel corso di quella campagna Pag. 33elettorale era stato notevole a livello propagandistico, come documentano una serie di dispacci [Si veda per questi P. Mastrolilli, M. Molinari, L'Italia vista dalla Cia, Laterza, pp. 76 e seg.]. Gli Stati Uniti, tuttavia, auspicavano un prossimo rinnovamento della classe dirigente democristiana. In questo contesto riponevano grandi speranze nel segretario Zaccagnini a cui tutta l'opinione pubblica riconosceva probità personale. Prima delle elezioni del 1976 (quando, cioè, a Washington si ipotizzavano anche scenari in caso di sconfitta democristiana) la diplomazia statunitense riteneva che la strategia di Zaccagnini «difficilmente fermerà l'attuale deriva verso il compromesso storico col PCI». La «deriva» verso il compromesso con il PCI, dunque, non era attribuita direttamente ai morotei, anzi: a loro si ascriveva solo l'incapacità di contenerla. Una certa mancanza di impegno nell'opposizione al PCI, del resto, era stata registrata allora anche tra gli industriali e, in particolare, nella guida di Confindustria (Gianni Agnelli) che, sempre a giudizio degli americani, non si era impegnato in maniera sufficiente nel chiedere una svolta alla DC. La strategia statunitense, allora, si concentrò su una serie di obiettivi di media scadenza: rafforzare la DC incoraggiando un rinnovamento del partito; indebolire il PCI dimostrandone la natura autoritaria e non democratica; rafforzare nel PSI l'idea che il suo ruolo sarebbe stato più costruttivo per il Paese nel caso di una collaborazione con la DC e non, viceversa, di una sua alleanza con i comunisti; ovviamente, restava fondamentale il mantenimento dell'operatività delle strutture militari statunitensi in Italia. Come si vede, si trattava di obiettivi realizzabili, peraltro, non sconvolgenti per l'assetto politico del Paese; non solo non prevedevano svolte autoritarie, ma nel contesto di una dialettica democratica tra i partiti laici e la DC avevano come unico scopo quello di mantenere i comunisti fuori dall'esecutivo. Per quanto riguarda la figura di Moro, egli era giudicato dagli statunitensi, sempre prima delle elezioni del 1976, non del tutto adatto al perseguimento degli scopi enunciati in quanto sembrava loro afflitto (lo sottolineano nuovamente) «da un pessimismo fatalista a proposito dell'idea che il PCI non possa essere fermato». Si ribadiva, quindi, il concetto già visto della presunta scarsa capacità di Moro nel contenere il Pci, ma non di una sua volontà di attuare aperture nei confronti di Botteghe Oscure. Questa posizione USA subì alcuni cambiamenti dopo le elezioni del 1976. Intanto a Washington apprezzarono l'ascesa del giovane Bettino Craxi alla segreteria del PSI; quindi si trovarono nella necessità di valutare la nota intervista di Berlinguer al «Corriere della Sera» del 15 giugno 1976 nella quale il segretario comunista definì la NATO una buona protezione dietro alla quale costruire un socialismo democratico. Se un appoggio statunitense alla partecipazione diretta dei comunisti al governo continuava a rimanere escluso, il loro coinvolgimento attraverso la formula della «non sfiducia» era visto positivamente e si credeva che, per quanto riguardasse l'economia, la presidenza al PCI di due Commissioni parlamentari, Bilancio al Senato e Finanze alla Camera, avrebbe garantito «una maggiore efficienza [...] in materia di miglioramenti sociali e lotta all'evasione fiscale». Il terzo governo Andreotti, quindi, era accreditato di un programma economico razionale e realizzabile proprio per la presenza dei comunisti nelle istituzioni, anche se, qualora si fosse giunti a un successo anche parziale, si dava come probabile la richiesta comunista di un loro maggiore coinvolgimento. La «non sfiducia», dunque, era considerata dagli americani come una formula transitoria verso un approdo politico più duraturo, non esattamente individuabile, però, negli ultimi mesi del 1976. Nel corso del 1977 fu evidente che il governo Andreotti non avrebbe raggiunto gli obiettivi economici programmati e alla fine dell'anno l'idea di una diversa assunzione di responsabilità portò i comunisti a ritirare la «non sfiducia», costringendo Andreotti a presentare le dimissioni (era il 16 gennaio 1978 e a quel tempo le BR avevano già programmato il rapimento di Aldo Moro). Dopo tre giorni Andreotti ricevette dal Pag. 34presidente Leone l'incarico di formare un governo di solidarietà nazionale, una formula che costituiva un nuovo passo del PCI verso una piena partecipazione diretta alla gestione del Paese, sebbene lo scopo dei democristiani fosse l'ingresso di Botteghe Oscure nella maggioranza, ma non nell'esecutivo. Sei giorni prima delle dimissioni di Andreotti, il 10 gennaio 1978, la CIA sintetizzava l'esperienza della «non sfiducia» sostenendo che quel tipo di esperimento procedeva nella giusta direzione e notava che «i comunisti hanno operato come parafulmine del governo nei confronti dei sindacati e garantito un sostegno fondamentale in Parlamento su questioni chiave, mentre continuano a rafforzare l'impressione di allontanarsi dall'ortodossia». Secondo le previsioni dell'estensore del rapporto, però, il PCI avrebbe potuto aspirare a entrare nel governo solo dopo il passaggio dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, previsto in autunno, e nuove elezioni parlamentari, ipotizzabili per il 1979.
  Due giorni più tardi, il 12 gennaio, il Dipartimento di Stato USA nel corso del briefing pomeridiano rilasciò una dichiarazione sull'eurocomunismo che rappresentò il punto di maggiore attrito tra l'amministrazione statunitense e il governo italiano in quel periodo (almeno per quelle che sono le mie conoscenze attuali). Le affermazioni del Dipartimento ebbero molta eco in Italia e anche Moro avrebbe risposto con un articolo per «Il Giorno», rimasto inedito perché il problema risultò poi superato. Nella dichiarazione statunitense si affermava che gli avvenimenti italiani avevano aumentato la preoccupazione americana; gli alleati degli USA erano tutti Stati sovrani, in grado di assumere in piena autonomia le loro decisioni, ma Washington credeva comunque di «avere l'obbligo di esprimere sinceramente e con chiarezza» le proprie opinioni. I leader dell'amministrazione statunitense, si proseguiva, avevano espresso in diverse occasioni la loro posizione contraria a un ingresso dei comunisti nei governi dei Paesi amici. Gli USA e l'Italia, chiudeva la nota, avevano in comune profondi valori e interessi che, si credeva, non erano condivisi dai comunisti. Si concludeva con le parole che il presidente Carter aveva pronunciato la settimana precedente a Parigi: «Quando la democrazia deve affrontare sfide difficili [allora] i suoi leader devono dimostrare fermezza nel resistere alle tentazioni di trovare soluzioni tra le forze non democratiche» [La dichiarazione in Richard N. Gardner, Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall'ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004, pp. 201-202]. Come accennato, Moro scrisse un articolo per «Il Giorno», articolo poi non pubblicato ma comunque importante [L'articolo di Moro si intitolava A noi tocca decidere in piena autonomia, in A. Moro, La democrazia incompiuta, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 144-145]. In esso il presidente democristiano rimproverava la forma della nota di Washington: alcuni giudizi, a suo dire erano stati diffusi ignorando il «vincolo di discrezione» e «potrebbero turbare ed impacciare i sinceri amici dell'America i quali sono tanti, forse più che non si pensi, nel nostro Paese». Del resto, riconosceva Moro, era chiara l'impossibilità di poter influenzare con tali dichiarazioni processi politici complessi «legati a condizioni storiche, economiche, sociali, psicologiche e politiche, talvolta scarsamente comprensibili fuori confine». È molto probabile che l'articolo non sia stato pubblicato perché Moro ebbe modo di incontrarsi con l'ambasciatore statunitense in Italia il 2 febbraio. In quell'occasione, stando ai ricordi di Gardner, il presidente democristiano non era ancora in grado di individuare una chiara soluzione alla crisi di governo, ma era contrario alle elezioni politiche, perché avrebbero ulteriormente indebolito i partiti minori e polarizzato il quadro politico; riteneva che fosse necessario guadagnare tempo, almeno un anno, per giungere a nuove elezioni con la possibilità di indebolire il PCI; per ottenere questo risultato si dovevano far entrare i comunisti nella maggioranza, ma tenerli fuori dal governo. Nell'occasione si parlò della dichiarazione del 12 gennaio e Moro, osservò l'ambasciatore, «accolse le Pag. 35mie spiegazioni ed espresse la sua comprensione per la nostra iniziativa. Non fece né critiche né rimostranze. L'incontro fu molto cordiale e amichevole» [Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall'ambasciatore americano a Roma, cit.].
  Secondo quanto scritto da Moro nel Memoriale, sulle vicende che avevano riguardato la nuova maggioranza di governo, Gardner era stato «sobrio, ha più ascoltato che parlato, avendo cura di rifarsi alla nota dichiarazione del Dipartimento con tutte le sue articolazioni: non interferenza, non indifferenza, imprevedibilità della conseguenza». In una versione più strutturata del Memoriale, Moro scrisse che Gardner era stato molto corretto, che gli aveva sempre illustrato la posizione americana «di non interferenza e non indifferenza», ma di non poter precisare in cosa si sarebbe potuto esprimere quest'ultimo atteggiamento. Per Moro, dunque, la vicenda legata alla dichiarazione statunitense del 12 gennaio si era chiusa con ogni probabilità durante il suo ultimo incontro con l'ambasciatore statunitense. La nota, del resto, non riguardava direttamente la penisola, ma l'eurocomunismo in generale, e appare più come una presa di posizione di fronte a una situazione in movimento che non come un'ingerenza diretta degli USA nella politica di Roma. Del resto non conteneva minacce di ritorsione e poneva l'accento sulle ragioni dei comunisti, piuttosto che su quelle degli Stati Uniti. Essa rappresentò, tra l'altro, il massimo di invadenza in questo periodo così difficile per l'Italia, tanto da restare nelle settimane successive come il punto di riferimento per ulteriori dichiarazioni da parte di Villa Taverna. A quanto ricorda Gardner, inoltre, la dirigenza del PCI non aveva manifestato alcun segno di cambiamento dopo il 12 gennaio e rimaneva impaziente «come prima di approfondire ulteriormente i contatti con noi», mentre da parte degli Stati Uniti lo scopo di questa politica «di aperto scetticismo sugli obiettivi e sui valori del PCI» era quello «di spingere i comunisti a più profondi cambiamenti e ad alzare il prezzo ideologico che dovranno pagare per ottenere ulteriori concessioni da parte della DC e dell'Occidente». Gli USA, insomma, non stavano ostacolando con ogni mezzo l'avvicinamento del PCI all'area di governo, ma preparavano una politica adeguata alla realizzazione di una tale eventualità. Il responsabile dell’Italian Desk, Brunson McKinley, preparò per la fine di febbraio un rapporto nel quale si consigliava, nel caso il PCI fosse entrato nel governo, di richiedere a Botteghe Oscure un esplicito e pubblico impegno per il mantenimento delle basi statunitensi in Italia e nei confronti della NATO; si sarebbe dovuto evitare di mostrare solidarietà politica, economica o militare attraverso manovre congiunte o visite di Stato; esaminare i documenti riservati della NATO prima di farli conoscere ai comunisti; avvertire, se interrogati, tutti gli investitori che il giudizio sull'affidabilità del Paese era per il momento sospeso e rimandato «fino a quando fosse stato chiaro quali politiche avrebbe seguito effettivamente il nuovo governo». Era, però, necessario «evitare qualsiasi iniziativa che potesse apparire come una punizione nei confronti dell'Italia, aspettando nello stesso tempo di vedere se il PCI sarebbe stato in grado di rispettare gli standard richiesti a un alleato». In questa ottica, Gardner fu autorizzato ad allargare i propri contatti con i rappresentanti del Pci. Il presidente Napolitano ha ricordato nel suo libro Dal Pci al socialismo europeo [Laterza, 2005], il suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti nell'aprile del 1978 d'accordo con Berlinguer. Incontrò H. Kissinger, quindi tenne una serie di conferenze a Princeton, Yale e Washington, nonché al Council on Foreign Relations a New York. Al suo ritorno, scrive il presidente, «l'apprezzamento per il nostro così netto e forte impegno nella lotta contro le Brigate Rosse contribuì all'avvio di incontri riservati di notevole interesse politico tra l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Richard N. Gardner e un dirigente di primo piano del PCI quale io ero allora» [pp. 159-160].Pag. 36
  Durante le trattative per la formazione del IV Governo Andreotti, fu Moro e non Zaccagnini o Andreotti, più propensi ad accogliere le richieste di Botteghe Oscure, a respingere le preferenze e i veti su alcuni nomi, che i comunisti avevano notificato, tanto che all'interno del PCI permanevano ancora forti dubbi sul passaggio politico [si veda il libro di Corrado Belci e Guido Bodrato, 1978. Moro. La Dc. Il terrorismo, Roma, 2006, p. 144]. Il governo che il 16 marzo si presentava alla Camera era un monocolore democristiano, rappresentativo negli uomini, negli incarichi e nelle responsabilità, di tutte le correnti democristiane; un vero e proprio capolavoro di mediazione svolta da Moro all'interno del proprio partito.
  Come è possibile constatare oggi, nei rapporti della CIA scritti durante il sequestro, Moro fu sempre apprezzato per le sue capacità di mediazione tra i due maggiori partiti italiani e all'interno della DC, e proprio in quella drammatica situazione si enfatizzò che nessun altro politico fosse in grado di sostituirlo. La CIA osservò che il rapimento di Moro avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche per la stessa DC, sulla sua coesione interna e sulla sua «capacità di restare la maggiore forza politica italiana». Nello stesso rapporto si ribadì l'apprezzamento statunitense al tentativo di riforma economica del terzo governo Andreotti, benché in buona parte fallito, e non si diede un giudizio negativo sull'operato di Moro nel corso della crisi di governo, durante la quale era stato capace di riportare su binari stabili l'accordo programmatico tra DC e PCI; Aldo Moro, si legge, «principale figura della politica italiana, era arrivato alla conclusione che la collaborazione tra DC e PCI fosse l'unica via d'uscita per il dilemma del Paese», ma le condizioni necessarie a una tale svolta si erano realizzate soltanto durante il terzo governo Andreotti. Infatti il suo rapimento aveva rimesso in movimento il quadro politico e «i suoi oppositori nella Democrazia cristiana puntarono i piedi». Ciò non significava, però, che quel tipo di politica fosse stata un fallimento. La documentazione esistente permette di affermare che, storicamente, gli USA diedero il loro sostegno prima a una politica di collaborazione tra DC e PSI (anni Sessanta) e successivamente tra DC e PCI (anni Settanta), pur escludendo in questo caso l'assegnazione di ministeri al partito di Berlinguer. Segnalo il memorandum della Cia The Moro Kidnaping and Italian Politics, del 27 aprile 1978, nel quale l'agente americano autore del rapporto, tra l'altro, escluse ogni coinvolgimento dei servizi di Mosca o di Praga nell'accaduto.
  Un altro apprezzabile contributo alla chiarezza è dato dai leaks recentemente resi disponibili in rete al seguente indirizzo: https://search.wikileaks.org/plusd/cables/1978ROME08928–d.html.
  In uno si legge: «With Moròs kidnapping the Red Brigades have both a defeat and a victory. Political the Red Brigades have suffered a clear reverse. Their purported aim of driving apart the Communist and Christian Democrats, of provoking political repression, and of going the support of the ultra left has so far failed completely. Indeed the sum effect of the Moro case has been the reverse of what they evidently sought. Cooperation between the Christian Democrats and Communists has been close. All organized political groups in Italian society, including virtually all the radical left, have expressed strong, public opposition to the Red Brigades [...]. Italian Society at large has reacted from the moment of the kidnapping to the present with great unity and uniform revulsion. The Trade Unions have been on the vanguard of the opposition to the terrorists. Although the government has introduced certain decree laws on police powers which somewhat limit civil liberties, there has been no real repression [...]» [Sheryl P. Walter Declassified/Released US Department of State EO Systematic Review 20 Mar 2014].Pag. 37
  Ricordo infine che negli Stati Uniti d'America vige il Freedom of information act del 1966, che ha aperto gli archivi di Stato statunitensi a molti documenti riservati e coperti da segreto di Stato.

  8) Riguardo alla data in cui Moro venne ucciso, lei ha scritto: «Ci si è chiesti in molti perché proprio il 9 maggio, quando si doveva riunire la Direzione della DC, dalla quale si attendevano delle novità. La circostanza è sembrata la prova del fatto che non si volle attendere perché altrimenti Moro si sarebbe salvato. Tutto ciò è privo di fondamento» (Storia delle Brigate Rosse, p. 213). Vuole esporre alla Commissione i motivi di questa sua riflessione ?

  L'uccisione di Aldo Moro avvenne con molti giorni di ritardo rispetto a quanto stabilito dall'Esecutivo delle BR. Ne è prova indiretta la telefonata di Moretti del 30 aprile di cui si è detto più volte e che nel mio libro ho chiamato «il comunicato numero 10». A quanto risulta dalla dialettica interna alle BR e dalle dichiarazioni, per esempio, di un elemento come Morucci, contrario alla uccisione dell'ostaggio, Moretti sperava in una diversa conclusione della vicenda e fino alla fine lasciò aperto un canale politico di trattativa, dove per «canale» non si deve intendere una persona, ma la possibilità lasciata alla DC di fare una dichiarazione politica. Riporto nuovamente qualche passaggio della telefonata, evidenziando in grassetto i brani che ritengo più indicativi.  
  «Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo perché suo padre insiste nel dire che siete stati un po’ ingannati e probabilmente state ragionando su un equivoco. Finora avete fatto tutte cose che non servono assolutamente a niente. Noi crediamo invece che i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non possiamo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Quindi chiediamo solo questo: che sia possibile un intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore in questo senso. Se ciò non avviene, rendetevi conto che noi non potremo fare altro che questo. Mi ha capito esattamente ? [...] Ecco, quindi è possibile solo questo. Lo abbiamo fatto semplicemente per scrupolo nel senso che, sa, una condanna a morte non è una cosa che possa essere presa alla leggera neanche da parte nostra. Noi siamo disposti a sopportare le responsabilità che ci competono. [...] Il problema è politico e a questo punto deve intervenire la Democrazia cristiana. Abbiamo insistito moltissimo su questo, perché è l'unica maniera in cui si può arrivare eventualmente a una trattativa. [...] Solo un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso di Zaccagnini può modificare la situazione. Noi abbiamo già preso la decisione. Nelle prossime ore accadrà l'inevitabile, non possiamo fare altrimenti. Non ho niente altro da dirle».
 A nove giorni dalla conclusione della vicenda, Moretti chiese un intervento politico di Zaccagnini, il segretario della DC, più libero rispetto ad altri in quanto non occupava in quel momento cariche di governo. Se Zaccagnini avesse ceduto, se avesse dichiarato, per esempio, che in Italia esistevano dei prigionieri politici sotto processo a Torino, non appare azzardato ipotizzare che a quel punto le BR si sarebbero dovute fermare. Certo, non disponiamo di una risposta diretta, di una prova certa, ma porre la questione in questi termini non credo sia sbagliato.
 Il 9 maggio è un giorno come un altro. Poteva essere l'8, poteva accadere il 10. Ogni giorno di ritardo significava aumentare la possibilità di venire individuati dagli inquirenti (come detto, 8 milioni di persone vennero controllate in quei 55 giorni in tutta Italia e molte zone di Roma furono battute a tappeto da Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza), nonché alzare la tensione con l'esecutivo delle BR, che voleva Pag. 38chiudere la vicenda. Effettivamente, il 9 maggio è a suo modo una data simbolo (per esempio, è il giorno in cui in Unione Sovietica si festeggiava la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale), ma è anche il giorno in cui a Torino la corte del processo contro il nucleo storico delle BR entrò in camera di consiglio, elemento più importante per le BR di una ricorrenza come quella sopra descritta. Il 9 maggio si doveva riunire la direzione della DC nella sede di piazza del Gesù. Viene spontaneo, allora, chiedersi due cose: come mai Morucci, pur contrario alla uccisione di Moro, durante la riunione dell'8 maggio in via Chiabrera non usò l'argomento della direzione democristiana per ritardare, per esempio di almeno un altro giorno l'epilogo della vicenda ? E la direzione democristiana che cosa avrebbe deciso ? I protagonisti sono concordi nell'affermare che avrebbe aperto a una trattativa con le BR ? La risposta a questa seconda domanda sembra essere negativa. Certamente le BR non potevano saperlo, ma non può essere ignorato il fatto che, proprio il 9, tutta la DC si sarebbe riunita proprio a poche centinaia di metri da dove fu lasciato il corpo dell'ostaggio. Il tempo, per loro, era scaduto e con esso anche quello di una possibile tregua (peraltro, si deve dire, mai messa in atto durante i 55 giorni). Già il 12 maggio le BR ferirono gravemente a Milano Tito Bernardini, segretario della sezione della DC «Filippo Meda».

  9) Nel luglio del 1978 Franco Piperno incontrò Mario Moretti a Roma. Nell'audizione presso la Commissione stragi, il 18 maggio del 2000, Piperno disse: «Il luogo dell'incontro mi ha sorpreso. Era una casa. Le caratteristiche della casa e dei nostri ospiti – che peraltro non conoscevo – traducevano una certa trasversalità della presenza dei brigatisti a Roma». Alla domanda del Presidente Pellegrino: «Lei, quindi, sta dicendo che quell'incontro avvenne in una casa alto-borghese ?» Piperno rispose affermativamente, ma non fece nomi riguardo al luogo esatto di quell'incontro tra Piperno e Moretti e all'identità della persona che mise a loro disposizione l'appartamento. Lei ha scritto: «Nel gennaio 2004 è stato rivelato da un protagonista di chi si trattasse durante una pubblica discussione all'Università della Calabria sulla vicenda. Questa novità comunque non sposta i termini della vicenda» (La «pazzia» di Aldo Moro, ed. 2006, p. 26). Le chiedo, quindi, di riferire alla Commissione quanto fu rilevato undici anni fa, se è nelle sue conoscenze ?

  Come dirò anche rispondendo alle ultime due domande, non ricordo il nome che venne pronunciato. La questione che si pone, però, è certamente importante da un punto di vista epistemologico. Se quel nome fosse appartenuto a una personalità eccentrica rispetto alle vicende dell'Autonomia (perché fu l'Autonomia a mettere a disposizione l'appartamento nel centro di Roma, non le BR), ovviamente avrei cercato di approfondire la cosa. Al contrario, quel nome rientrava nel giro di persone conosciute in quell'ambito politico, sebbene non direttamente coinvolto in azioni politiche di una qualche importanza. Si trattava di persona amica dell'Autonomia romana, nulla più, che probabilmente neanche era a conoscenza dell'uso che si stava facendo in quel momento della casa. Non è stata né la prima né l'ultima volta che ho sentito fare nomi entrati molto perifericamente in inchieste, o non entrati del tutto, ma non li ho mai segnati e non li ricordo (si tratta peraltro di persone mai coinvolte in azioni di ferimento o uccisioni ma, altresì, importanti nei primissimi anni dentro l'organizzazione per il ruolo svolto a livello politico-organizzativo). Ho avuto decine di incontri pubblici con persone coinvolte in fatti di lotta armata e spesso ci si parlava alla fine, chiarendo alcuni punti – sempre secondari – di una qualche vicenda. Infine, a quanto ricordo, quello non fu l'unico incontro tra Moretti e l'Autonomia romana. Dopo l'uscita dalle BR di Morucci e Faranda, appartenenti al movimento vollero Pag. 39nuovamente vedere Moretti perché temevano che i brigatisti avessero condannato a morte i due (Morucci compì uno strappo non solo politico, perché si riprese le armi che sosteneva aver portato dentro le BR. Tra queste, la mitraglietta con cui si sparò a Moro). La questione della presunta condanna a morte risultò priva di fondamento e si concluse lì. Per quanto è nelle mie conoscenze, questa volta si videro in una trattoria del centro di Roma. Al contrario di quanto comunemente si pensa, uscire dall'organizzazione Brigate Rosse era possibile, relativamente facile, e molti lo fecero senza subire alcuna conseguenza (si pensi, per esempio, alla brevissima militanza di Lanfranco Pace). L'unica condizione, ovviamente, era la discrezione nei confronti della stessa. Il caso di Morucci e Faranda non fu l'unico (ricordo anche quelli di Corrado Alunni e Germano Maccari), ma certamente fu conflittuale sul piano politico. Per quanto ho letto, anche membri della Commissione stragi erano convinti che i due fossero stati condannati a morte dalle BR, cosa come detto risultata falsa, e in molti hanno continuato ad asserirlo nonostante le ripetute smentite dei due diretti interessati.
 Quando ad uscire dalle BR era un militante già latitante, cioè non più in grado di rientrare in una condizione di vita normale, l'organizzazione garantiva l'arma personale, se richiesta, dei soldi ed un minimo di supporto logistico iniziale. Questo tipo di atteggiamento estremamente «liberale» venne a volte sfruttato dalle forze dell'ordine dopo il 1980, quando i primi pentiti ne rivelarono le modalità. Ricordo, in particolare, l'episodio di Walter Di Cera, divenuto nel frattempo collaboratore, che diede appuntamento a due regolari della colonna romana nel centro di Roma, dove ad attenderli c'erano i carabinieri del ROS. La trappola fallì, perché i due militanti si accorsero della trappola e riuscirono ad allontanarsi con modalità rocambolesche dopo aver ingaggiato un violento conflitto a fuoco.

  10) Come ogni gruppo compartimentato, le BR hanno messo in campo un dispositivo definibile anti-infiltrazione  ? Vorrei sapere in che cosa è consistito e se ha prodotto effetti ?

  Sostanzialmente la compartimentazione serviva a proteggere l'organizzazione, più che da possibili infiltrazioni, dalle conseguenze in caso di arresti e confessioni. Un irregolare, ossia un brigatista non clandestino, di norma doveva conoscere solo due o tre volti di una colonna e, specialmente all'inizio, per lui le BR si riducevano a pochissime persone con le quali andava a distribuire volantini oppure a compiere un'azione, tornando poi alla sua vita «normale». A questo proposito si vedano il libro di Fenzi Armi e bagagli e quello di Fiore-Grandi L'ultimo brigatista. Solo i regolari erano interamente impegnati in un lavoro a «tempo pieno» all'interno delle BR e in tal caso l'organizzazione diventava il centro della loro vita, fornendo un salario, documenti falsi, abitazioni e tutto ciò di cui potesse avere bisogno un militante. In caso di arresto egli si doveva dichiarare prigioniero politico, rifiutare di rispondere alle domande e quindi cessare di svolgere un ruolo dirigente dentro le BR. L'ingresso nelle BR è sempre avvenuto a titolo personale; non sono mai entrati in blocco gruppi già formati. Ma gli aspiranti militanti erano conosciuti all'interno di quello che veniva chiamato «il movimento», al punto che alcuni carabinieri del nucleo di Dalla Chiesa si iscrissero all'Università della Calabria (e alcuni si laurearono), nel tentativo di entrare in contatto con presunte aree, anche marginali, della lotta armata.
 Nella storia delle BR gli «infiltrati» più noti sono quattro: Marco Pisetta, Silvano Girotto, un elemento citato da Patrizio Peci, ma di cui non conosco l'identità, e Renato Longo. Il primo nel 1972 portò gli inquirenti a smantellare la colonna milanese. Il secondo, nel 1974, all'arresto di Curcio (pianificato) e Franceschini (casuale), il terzo Pag. 40all'arresto di Peci e Micaletto, il quarto nel 1981 a quello di Moretti. Non appare invece un infiltrato, come si è sostenuto da più parti, Francesco Marra, di cui anche parlerò. Ecco una breve analisi dei casi.

PISETTA

  Pisetta rappresenta un classico caso di militante retourné, capovolto, in sostanza sotto ricatto, che viene indotto svolgere il doppio gioco dopo una iniziale, sincera anche se fragile, adesione. Egli venne arrestato il 2 maggio 1972 nell'ambito della grande retata contro le BR milanesi e fu rilasciato quattro giorni più tardi, dopo essere stato interrogato dal commissario Calabresi e dal giudice Guido Viola. Giovane guida alpina, era giunto a Milano con Curcio, che lo aveva conosciuto a Trento durante le occupazioni del 1968; con Curcio aveva pianificato un attentato dinamitardo contro un piccolo presidio militare americano sulla Paganella, mai realizzato, e nel 1969 era stato l'autore di due azioni a Trento. Nel corso della seconda, contro la locale sede dell'INPS, Pisetta aveva dimenticato una fotografia della sorella nella borsa contenente una rudimentale bomba. L'ordigno non esplose ed egli fu individuato e catturato una prima volta nel marzo 1970. Rilasciato, nel 1972 fu come detto arrestato di nuovo; in carcere scrisse una serie di deposizioni per conto dei Carabinieri che, consegnate al giudice genovese Mario Sossi, diedero il via all'operazione «Ulisse», che avrebbe portato all'arresto di Aristo Ciruzzi, Vittorio Togliatti e della moglie Marisa Calimodio e impedirono la scarcerazione dell'ex capo partigiano Giambattista Lazagna. Una parte delle sue rivelazioni, quindi, unite alle informazioni già a disposizione degli inquirenti, contribuirono alla creazione di un lungo memoriale, attribuito a Pisetta ma probabilmente costruito ad hoc dal Servizio di informazione democratica (SID, ex SIFAR) nella primavera del 1972. Il documento fu quindi pubblicato sulla rivista «Il Borghese» e sul «Giornale d'Italia». Il memoriale, comunque lo si interpreti, è importante perché costituisce una prova che nel 1972 le autorità fossero in possesso di moltissime informazioni sulle Brigate Rosse, cosa di cui ora abbiamo certezza, essendo disponibili in archivio relazioni sul fenomeno proprio di quell'anno [ACS, Ministero degli Interni, Gabinetto Speciale PS, Relazione del 1972 sul fenomeno brigatista]. Il documento si apre con una dichiarazione di intenti:
  «Io sottoscritto Pisetta Marco intendo rendere piena confessione su tutte le azioni che in uno spirito di malintesa giustizia, inculcatami da persone che per la loro educazione non avrebbero dovuto profittare della mia semplicità, ho compiuto e di cui ora sono fermamente pentito. Questa spinta interiore non mi è dettata unicamente dalla speranza di clemenza da parte delle autorità che dovranno giudicare le mie responsabilità [...] ma nella certezza di contribuire ad evitare sicuri danni che possano derivare alla nostra collettività dall'azione sconsiderata di gruppi di fanatici [...]. Grazie alle mie dichiarazioni il dottor Allegra [...] ha potuto assicurare alla giustizia il dottor Levati e i suoi complici, il Cattaneo, detto Lupo, responsabile del sequestro di Macchiarini e infine le persone che come me erano impiegate per conto delle Brigate Rosse nell'officina di Milano dove si procedeva alla costruzione di parti di armi e alla riparazione delle stesse».

  Pisetta racconta molte cose, entrando più volte in contraddizione con precedenti affermazioni. Coinvolge una parte di sinistra extraparlamentare nell'escalation che aveva portato infine alla lotta armata e fa diversi nomi, da Curcio a Saugo, da Rostagno a Sofri e Pietrostefani, da Lazagna, che era legato alla 22 Ottobre, a Corrado Simioni, Aristo Ciruzzi e Vittorio Togliatti fino a Mara Cagol e Franceschini. Trento ritorna Pag. 41continuamente come una città ancora attiva per i brigatisti, una sorta di base logistica dove si ritiravano o scambiavano armi ed esplosivo; per il futuro si ipotizzava una riorganizzazione delle colonne con l'apporto di Lotta Continua, che si sarebbe organizzata per la lotta clandestina. Alla fine della lettura del memoriale, esce rafforzata l'impressione di trovarsi di fronte a un tentativo di coinvolgere le maggiori sigle e gli uomini più noti dell'antagonismo sociale e politico di allora attraverso un racconto che li collegasse tutti all'interno di un grande disegno sovversivo generalizzato. In quelle settimane, del resto, si stava per aprire il processo contro la 22 Ottobre a Genova e il memoriale di Pisetta aiutava certamente l'accusa nel sostenere le proprie tesi.

GIROTTO

  Neanche per Girotto si può parlare di vera infiltrazione, ma solo di una trappola ben congegnata che, in quanto scattò quasi subito, impedì proprio lo svolgimento del classico lavoro di infiltrazione. Siamo nel 1974. Durante il sequestro Sossi il nome di Silvano Girotto era comparso su alcuni giornali italiani, tra cui «Panorama», che gli aveva anche dedicato un'inchiesta, presentandolo come un «guerrigliero comunista». Egli, indubbiamente, aveva avuto una vita molto avventurosa; dopo una serie di esperienze, nel 1963 era entrato in convento e nel 1969 aveva lasciato l'Italia per la Bolivia. Rientrato da Santiago del Cile nel novembre 1973 con la fama di rivoluzionario e guerrigliero assieme agli esuli di Unidad Popular e del Mapu Campesino, Girotto riprese i contatti con un suo vecchio conoscente, il sindacalista Alberto Caldi di Borgomanero, e attraverso questi con l'avvocato Riccardo Borgna, al quale espresse l'aspirazione di entrare nelle BR. Borgna, che aveva qualche conoscenza, lo mise in contatto con Enrico Levati, con il quale Girotto si incontrò nel luglio 1974. Secondo quanto ricostruito in seguito da «Panorama», quello fu il preludio a un nuovo passaggio, questa volta con Lazagna, che infine parlò di Girotto con alcuni membri delle BR. Dopo molti anni anche Girotto ricordò la circostanza: «Vengo inizialmente avvicinato dal dottor Levati il quale mi chiede se sono interessato a entrare in contatto con le Brigate Rosse. Rispondo affermativamente. Dopodiché il dottor Levati mi dà un appuntamento, a distanza di un paio di settimane, per farmi incontrare con una persona. Vado con lui, nella sua macchina, e mi porta a Novara in un condominio dove c’è un personaggio che non ho mai visto e che risulta poi essere questo avvocato Lazagna [Commissione stragi, audizione di Girotto, seduta del 10 febbraio 2000]». Girotto espresse il desiderio di aderire alle BR e in risposta «Lazagna osservò che io ero un grosso personaggio e che pertanto non potevo far parte della semplice base ma dovevo anzi essere subito immesso nel centro. Finalmente dissi a Levati che andava bene». Secondo Girotto, Lazagna era «un filtro qualificato con l'incarico di dare a Levati il nulla osta per procedere», e che sembrava inizialmente favorevolmente colpito, ma che in seguito espresse molte perplessità sul personaggio. Nonostante i dubbi, però, e nonostante il fatto che il nome di Girotto fosse stato chiaramente fatto circolare «ad arte» nel corso del sequestro Sossi (ma la cosa evidentemente era sfuggita alle BR), l'ultimo «filtro» fu superato e Girotto potè incontrarsi tre volte con Curcio e una anche con Moretti che, a dire di Curcio, ne ricavò una buona impressione [R. Curcio, A viso aperto, Milano, Mondadori, p. 100]. Il ricordo di Moretti, invece, coincide solo in parte con quanto letto finora: Girotto, secondo lui, «chiese un contatto con noi attraverso un partigiano di cui ci fidavamo (Lazagna). Lo incontrò un paio di volte Curcio, per inserirlo eventualmente nel fronte logistico in via di costruzione. Ne riferì al «nazionale» non negativamente ma un poco perplesso. Perplessi restammo tutti e Pag. 42decidemmo che all'incontro successivo andassi anche io. Rimasero le perplessità» e per questo «stabilimmo che avrebbe lavorato in contatto soltanto con Curcio in una struttura periferica, alla cascina Spiotta nei pressi di Asti» [Moretti, Una storia italiana, 4 edizioni. Moretti ha ribadito la circostanza anche nel corso di un incontro con chi scrive]. Certamente, prima dell'8 settembre 1974, giorno dell'arresto di Curcio e Franceschini, Girotto non vide mai Franceschini. Si tratta di un particolare importante, in quanto egli non poteva aver riferito ai carabinieri di Franceschini. Il quale, affermò in seguito di non aver mai stimato Girotto: «Esibiva troppo il suo passato di guerrigliero e si era presentato a noi senza seguire le normali precauzioni». A suo giudizio Moretti e Curcio tornarono «entusiasti» dal primo incontro con Girotto, mentre né lui né la Cagol erano convinti, sebbene dopo il resoconto di Moretti, anche Franceschini diede l'assenso al reclutamento [Franceschini, Mara, Renato e io, Milano, Mondadori, p. 116]. I ricordi dei dirigenti brigatisti sono in contraddizione e sembrano nascondere anche del risentimento personale. La ricostruzione proposta da Girotto, a sua volta, contraddice addirittura la fase attraversata dall'organizzazione. Secondo lui, infatti, durante il suo incontro con Moretti, questi avrebbe affermato che «siamo così carichi di odio che le nostre pistole sparano da sole», corretto da Curcio nel senso che «sì, però per il momento ci spariamo sui piedi, abbiamo bisogno di lui» [audizione di Girotto del 2000]. Al proposito vorrei ricordare, per precisione, che il senatore Gotor e l'onorevole Grassi, riprendendole, hanno citato queste due frasi nel corso dell'audizione del 10 giugno 2015, attribuendole rispettivamente a Moretti e Curcio e non a Girotto. Nell'occasione l'onorevole Grassi ha anche aggiunto le parole di Franceschini: «L'omicidio di Leonardi è stato un colpo di grazia». Qui mi consta fare due osservazioni. La prima è che non ci furono colpi di grazia, visto che l'agente Zizzi era ancora vivo quando giunsero le Forze dell'ordine. La seconda riguarda la fonte, ossia Franceschini, che non era presente in via Fani. A mio parere, si tratta semplicemente di una idea personale di Franceschini medesimo.
  Tornando alla citazione di Girotto, del resto, si ha una certa difficoltà a credere a una simile affermazione perché una frase come quella attribuita a Moretti (o la risposta di Curcio) non coincideva assolutamente con la pratica della lotta armata brigatista; le pistole delle BR, infatti, fino a quel momento non avevano affatto «sparato da sole», e ne costituisce una prova la reazione del gruppo dirigente all'uccisione dei due missini di Padova, avvenuta in seguito a una colluttazione nel 1974 e aspramente criticata all'interno dell'organizzazione, che fu costretta a «rivendicarla» per non delegittimare i propri militanti agli occhi del movimento.
  Le BR, comunque sia, decisero di inserire Girotto in una nuova struttura da dove, nel caso di inaffidabilità, non avrebbe potuto fare danni irreparabili, e si stabilì che fosse prelevato a Pinerolo l'8 settembre dal solo Curcio, che avrebbe dovuto condurlo proprio alla cascina Spiotta, dove sarebbe rimasto per un certo periodo in attesa di diventare operativo esclusivamente nel fronte logistico. L'8 settembre, dunque, dovevano incontrarsi Curcio e Girotto; Moretti e Franceschini furono informati della cosa solo sabato 7 settembre nel corso di una riunione svoltasi a Parma, dopo la quale Moretti tornò a Milano [Franceschini, op. cit., p. 117, dice: «Io e Mario sapemmo del previsto incontro solo il giorno prima, il sabato, quando ce lo disse lo stesso Renato»]; Franceschini, che sarebbe dovuto partire per Roma, rimase invece con Curcio, che avrebbe dovuto passare la notte a Parma. Contravvenendo alle regole dell'organizzazione, i due partirono per Torino insieme.
  Interviene, in questo contesto, uno dei pochissimi episodi rimasti non chiariti – almeno per quanto mi riguarda – nella storia delle BR, anche se un certo ragionamento è possibile farlo. Il 5 settembre Levati ricevette una telefonata anonima con la quale Pag. 43si avvertiva il medico di una trappola organizzata per l'8 contro Curcio. Non si è mai saputo chi abbia fatto quella telefonata né perché; le varie ipotesi (servizi israeliani, carabinieri ostili a Dalla Chiesa, servizi italiani), formulate anche da ex brigatisti, non hanno ancora trovato un riscontro certo. Quello che si capisce, però, è che l'anonimo telefonista non aveva alcuna possibilità di entrare in contatto diretto con le Brigate Rosse e che usò la stessa «porta d'ingresso» di Girotto, ossia Enrico Levati. Dunque, si può supporre che la telefonata, per aver usato lo stesso contatto e per voler avvertire di una trappola nella quale era coinvolto Girotto, giungesse da un ambiente che conosceva esattamente la portata di quell'operazione nei termini in cui si era sviluppata. Se il ragionamento è giusto, si restringe di molto la scelta dei possibili autori, limitandola alle forze dell'ordine e in particolare ai Carabinieri, o a una persona dell'ambiente della magistratura. Levati, che non aveva la possibilità di entrare in contatto diretto con le BR, si recò a Milano dove cercò di diffondere il messaggio alla Pirelli e alla Siemens. Moretti, venuto a sapere del pericolo solo quando rientrò da Parma a Milano, si recò nuovamente nell'appartamento dove aveva incontrato Curcio, convinto di trovarlo. Questi, come detto, aveva invece lasciato Parma per Torino assieme a Franceschini, dove i due passarono la notte nella base occupata dalla Cagol. Moretti trascorse la notte davanti alla base parmense assieme ad Attilio Casaletti (cosa logica, visto che per via della compartimentazione i due non conoscevano l'indirizzo della base torinese) e quindi si recarono di mattina presto a Pinerolo allo scopo di intercettare la macchina di Curcio; la precauzione di Curcio di percorrere strade non asfaltate vanificò, però, questo tentativo e Moretti non fu in grado di avvertire i compagni. Dopo una breve indagine interna le BR ricostruirono la successione dei fatti e il 17 settembre inviarono a «L'Espresso» un volantino in cui indicavano in Girotto il delatore: «I compagni Renato Curcio e Alberto Franceschini sono caduti nelle mani del SiD [...]. La loro cattura è avvenuta in seguito a un'imboscata tesagli attraverso Silvano Girotto, più noto come padre Leone», che dopo qualche giorno rispose direttamente alle BR dalle pagine di «Panorama»: «Ho collaborato coi Carabinieri spinto da un preciso impegno morale, sulla base di una presa di posizione politica. Con folle irresponsabilità stavate agevolando l'avanzata della melma fascista».

LONGO

  Neanche per Longo si può parlare di vera infiltrazione, bensì di «agente provocatore». Nel 1981 l'organizzazione delle Brigate Rosse vive un momento di crisi che porterà infine alla sua divisione in quattro gruppi distinti. La penuria di brigatisti e forse la fretta di vedere un risultato costrinsero Moretti ad avviare da solo i primi contatti nel tentativo di ricostruire a Milano una colonna dopo la scissione della «Walter Alasia», compito normalmente affidato agli irregolari che, però, in quel momento semplicemente non c'erano; tra gli altri, si presentò un tale Renato Longo, un «comune» già in passato informatore della Polizia, «presentato» all'organizzazione da una «brigata di campo» ossia dal carcere, che nel giro di poche settimane condusse le forze dell'ordine al massimo dirigente brigatista, arrestato il 4 aprile con Fenzi nei pressi della Stazione Centrale di Milano. Da notare che l'indicazione del nome di Longo proveniente a Moretti dal carcere costituisce una prova della fallacia del gruppo prigioniero che cercava di dirigere l'organizzazione esterna, per altro su basi politico-strategiche che individuavano i nuovi soggetti da reclutare nelle aree della marginalità sociale, il cosiddetto «proletariato illegale». Il contatto con Longo, rappresentò una grave leggerezza, una violazione delle norme di base che avevano fatto forti le BR in passato.

Pag. 44

MARRA

  Per quanto riguarda, invece, Francesco Marra, è bene sottolineare che l'infiltrazione di Marra non solo non risulta dimostrata da nessun documento o atto processuale, ma è stata sempre smentita da tutti i protagonisti, compreso un politico bene informato dei fatti come l'ex Ministro dell'interno Paolo Emilio Taviani, che ha affermato nel suo libro di memorie: «Si è parlato recentemente di un certo Marra detto Rocco che sarebbe stato infiltrato nelle BR dai carabinieri durante il sequestro Sossi. Non è vero. Ricordo che, al tempo del sequestro Sossi, Santillo mi parlò di un certo Rocco definendolo un balordo di cui le BR si servivano per tentare di ingannare i Carabinieri. Successivamente il generale Dalla Chiesa mi confermò l'informazione» [Paolo Emilio Taviani, Politica a memoria d'uomo, Bologna, il Mulino, 2002, p. 404]. Conferma in qualche modo il ragionamento quanto dichiarato da Silvano Girotto di fronte alla Commissione parlamentare d'inchiesta:
  «No, non ho conosciuto Francesco Marra. È possibile che abbia letto il suo nome nel corso di questi anni, ma non mi è rimasto impresso. L'immagine della mia azione di infiltrato è che ho bussato alla porta, i brigatisti mi hanno aperto e al posto mio sono entrati i carabinieri; nelle Brigate Rosse non ci sono stato proprio, ma ci ho parlato. Nei tre colloqui – perché di questo si tratta – non ho avuto la sensazione di altri infiltrati. Tenderei forse ad escluderlo vedendo come pendevano dalle mie labbra e dalle mie iniziative i carabinieri. Tutto, dal primo all'ultimo passo, il modo, il quando, è stato deciso da me. Nessuno tra i carabinieri era in grado di consigliarmi di fare qualcosa e non potevano fare altro che dirmi di stare attento. Nel vedere quanto i carabinieri dipendessero totalmente da me posso presumere che non ci fossero altri infiltrati, ma questa è una mia considerazione».
  Viene citata, quando si parla di Marra, una sentenza di primo grado della 6a Sezione penale di Milano del 5 luglio 2001, che assolse Sergio Flamigni, querelato da Marra per aver scritto nel libro Convergenze Parallele che lo stesso, «avanguardia comunista di Quarto Oggiaro», sarebbe stato con il nome in codice «Rocco» infiltrato nelle BR dall'Ufficio affari riservati e sarebbe stato «lasciato fuori da ogni inchiesta della magistratura» per continuare a compiere «numerose azioni a mano armata». All'udienza del 17 maggio il pubblico ministero concluse non doversi procedere per mancanza di querela con riferimento alla parte di imputazione «pur continuando a compiere numerose azioni a mano armata con il nome in codice di Rocco», mentre chiese l'assoluzione perché il fatto non costituisce reato con riferimento alla pretesa qualità di infiltrato di Marra. La sentenza fu di assoluzione di Flamigni, perché il fatto non costituisce reato. Durante il processo fu ricostruito che Marra nel 1972 aveva collaborato con il commissariato di Musocco in seguito ad un assalto fascista al Circolo Perini, nel corso del quale un gruppo di estremisti di destra sparò contro alcuni militanti di sinistra, tra cui lo stesso Marra; il quale rivendicò con orgoglio questa sua collaborazione, «trattandosi di delazione nei confronti di terroristi fascisti». Nel dibattimento, altresì, non si tentò di stabilire se Marra fosse stato o meno un militante delle BR, cosa da lui sempre negata, bensì se l'imputato Flamigni avesse o meno fatto buon uso delle fonti a sua disposizione. Per quanto riguarda la parte specifica della querela, il giudice stabilì che si sarebbe potuto concordare con la parte civile in ordine alla lesività della reputazione «se il Marra, rivendicando il suo ruolo all'interno delle Brigate Rosse, si lamentasse sotto il profilo che la falsa attribuzione di essere un infiltrato (una spia ?) sia in contrasto con le sue motivazioni ideali di combattente», ma così non era stato. Infine, «l'impossibilità di ricostruire la verità storica in modo assoluto, consente la formulazione di ipotesi non sempre documentabili secondo criteri Pag. 45di stretta oggettività» [Tribunale ordinario di Milano, Sezione 6a penale in composizione monocratica nella persona del giudice dottoressa Isabella Diani, sentenza n. 8046/01 del 5 luglio 2001]. L'assoluzione, dunque, non significa che, allora, Marra fosse un infiltrato. Del resto, nel corso del dibattimento non fu dimostrato alcun rapporto tra Marra stesso e l'Ufficio affari riservati, né venne ricostruita la fonte secondo la quale si tratterebbe di persona «con una sorta di specializzazione nella pratica delle gambizzazioni», come ha scritto più di uno studioso. Infine, chi sostenne la sua militanza nelle BR [Franceschini, Alfredo Buonavita, Giorgio Semeria e Arialdo Lintrami], afferma che lasciò l'organizzazione nel 1975. Il primo attentato di questo tipo avvenne proprio quell'anno, il 15 maggio, contro il senatore della DC Massimo De Carolis.
  Un altro caso, che non riguarda direttamente le BR, ma l'area contigua del MPRO (Movimento proletario resistenza offensivo) è quello di Paolo Santini, confidente e infiltrato a tutti gli effetti nella zona Nord di Roma e che fu all'origine di una retata che portò alla scoperta di una base in via Ostia, zona Trionfale. L'effetto di quella operazione portò anche allo smantellamento della brigata di Montespaccato e alla scoperta di una base situata in quel quartiere (arresto di Renato Arreni e di Antonio Giordano). Le confidenze di Santini portarono anche alla tragedia del suicidio di Marino Pallotto nel carcere di Viterbo. Questo tipo di infiltrazione rispondeva ad una strategia adottata da Dalla Chiesa; per tentare di aggirare l'impenetrabilità delle BR, il generale pensò di infiltrare confidenti in aree periferiche con la speranza che queste, in tempi successivi, venissero incluse nelle BR (come ho già detto, ci furono anche carabinieri che si iscrissero all'Università della Calabria e ne frequentarono i corsi e, secondo il generale Bozzo, qualcuno di loro si laureò; cfr. Nei secoli fedele allo Stato, Fratelli Frilli editori, scritto con il giornalista Michele Ruggiero nel 2006). Insomma si trattava di costruire sul lungo periodo la carriera militante dell'infiltrato affinché potesse avere tutte le credenziali per entrare in tempi successivi nell'organizzazione. Tuttavia, questa tecnica, almeno stando ai riscontri oggi conosciuti, non ha dato i frutti sperati perché le aree prescelte non sono mai approdate dentro le BR, che operavano la loro selezione con modalità molto oculate. Un discorso analogo può essere fatto per il confidente Rocco Ricciardi, vicino all'area di Marco Barbone, le FCA e successivi sviluppi. Anche qui Dalla Chiesa puntava sul possibile ingresso di questo gruppo nelle BR, azzardo che si concluse nell'uccisione di Walter Tobagi da parte del gruppo guidato da Barbone e denominatosi Brigata XXVIII Marzo, che con quella azione pensava di poter accreditarsi presso la colonna milanese «Walter Alasia». L'iniziativa non venne accolta dalla BR.
 Il reclutamento, è bene ripeterlo, avveniva su altri parametri, come la lunga conoscenza del candidato e la verifica del suo affidamento all'interno della normale lotta di fabbrica. L'aspirante brigatista, insomma, doveva essersi già conquistato una certa fiducia da parte del movimento ben prima di aderire alle BR. Una ulteriore prova di ciò consiste nel fatto che, quando tali criteri furono disattesi, come nel caso di Silvano Girotto o di Renato Longo, la cosiddetta «infiltrazione», ma meglio dire l'adescamento, riuscì e diede risultati immediati. Secondo le dichiarazioni del primo pentito Patrizio Peci, solo in un caso i Carabinieri riuscirono a infiltrare un elemento nelle BR direttamente dalla fabbrica; si trattò di un militante del PCI che condusse le forze dell'ordine alla colonna torinese e all'arresto proprio di Peci e Rocco Micaletto. Di tale elemento non conosco il nome, né possiedo altri riscontri documentali sulla sua azione. Da quanto mi risulta, Roberto Peci, fratello di Fabrizio, non è mai stato un infiltrato.

Pag. 46

  11) La mancata cattura di Moretti dopo l'azione di infiltrazione organizzata dai Carabinieri con l'ausilio del noto padre Girotto: lei ha trovato riscontro su come venne valutata all'interno dell'organizzazione ?

  Non si trattò della mancata cattura di Moretti, ma della cattura di Curcio e di quella, casuale, di Franceschini, come ho ricordato rispondendo alla domanda precedente. Il riscontro all'interno della organizzazione, all'epoca peraltro molto poco organizzata, fu ovviamente negativo per quanto riguarda Moretti. Lo scrive anche Curcio: «Non era previsto che Alberto [Franceschini] venisse a quell'incontro [...]. Negli anni successivi ho condotto una serie di indagini per capire la meccanica della vicenda e mi sono convinto che Moretti non è responsabile di colpe più gravi di quelle da addebitare a una certa sbadataggine e smemoratezza». [Curcio, op. cit., pp. 101 e 102].
 Dunque, pur nell'ipotesi di un dolo da parte di Moretti, peraltro escluso non solo da Curcio, ma dall'organizzazione, questo sarebbe stato concepito solo nei confronti di Curcio. Ma lo stesso fu liberato da Cagol e Moretti pochi mesi dopo; perché farlo arrestare per poi liberarlo ? La versione ufficiale diffusa dai Carabinieri immediatamente dopo l'arresto di Curcio fu tesa a coprire il nome di Girotto. Secondo la nota dei militari, ovviamente falsa, era stato proprio Franceschini a essere stato tenuto sotto controllo. Rovesciando la realtà, sostennero che nella rete, «inatteso», fosse caduto anche Curcio.

  12) Quali reazioni ha comportato la scoperta che il Dotti della Terrazza Martini di Milano, indicato dalla Cagol come punto di contatto e di finanziamento – fonte Franceschini – sia stato, in realtà, un uomo vicino alla struttura di Edgardo Sogno ?

  Per Roberto Dotti, si tratterebbe di un contatto riconducibile al 1970, quando sembra che Corrado Simioni lo abbia presentato alla Cagol. Dalle carte oggi a disposizione non si ricava alcuna informazione in grado di suggerire un'attività dello stesso Dotti all'interno delle BR, peraltro all'epoca neanche formate. Sembra più una storia da Superclan di Simioni (Superclan sta per Superclandestino). Per quanto è nelle mie conoscenze, escludo ogni suo coinvolgimento nel rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. Inoltre, non fu la Cagol a indicare Dotti come fonte di finanziamento; fu Franceschini a ricordare le parole che Simioni avrebbe detto alla Cagol: «Se c’è bisogno di soldi, di aiuto o per qualunque problema, per qualsiasi urgente necessità, lui è un nostro importante punto di riferimento, ti devi rivolgere a lui» [la fonte è riportata in Paolo Zidoni e Paolo Zanetov, Cuori rossi contro cuori neri]. L'episodio si inserisce in un altro contesto, quello del già menzionato Superclan, una specie di organizzazione nella quale transitarono diversi futuri brigatisti, messa in piedi dal gruppo di Simioni tra la fine del 1969 e l'inizio del 1970. A questa organizzazione è addebitato l'attentato all'ambasciata statunitense ad Atene, nel corso del quale morirono Maria Elena Angeloni e il cipriota Georgios Tsikouris il 2 settembre 1970. Secondo Curcio, vi avrebbe dovuto prendere parte la Cagol, ma all'ultimo momento si creò una frattura con Simioni.

  13) È vero o no che le BR sospesero Casimirri e l'Algranati, come lo stesso Casimirri lascia intendere, e, se sì, risulta dalla storia delle BR il perché ?

  No. Da quanto è nelle mie conoscenze, Casimirri e l'Algranati, che erano sposati, decisero di uscire dalle BR e lo fecero qualche mese dopo l'uscita di Morucci e Faranda. Quando la loro situazione si fece difficile in seguito all'arresto di Savasta, vennero Pag. 47forniti di documenti e denaro e si rifugiarono all'estero. Se la sospensione significa interruzione di qualsiasi attività operativa dal momento della loro uscita fino alla partenza, allora possiamo anche dire che ciò avvenne. Ma, come si evince dalla mia risposta, non si trattò di un provvedimento punitivo.

  14) L'organizzazione delle BR ha mai sospettato che Casimirri avesse un rapporto preferenziale con un ufficiale dei Carabinieri ?

  No, in alcun modo. La storia di un rapporto tra Casimirri e il generale Delfino venne ipotizzata da un articolo de «l'Unità», basato su un'affermazione del pubblico ministero Antonio Marini. L'articolo rimandava a una seduta della Commissione stragi in cui Marini ne aveva parlato, senza fare ufficialmente il nome. Il giorno dopo il presidente Pellegrino rilanciò la stessa notizia. Del 1999 è il libro di Francesco Pazienza Il disubbidiente, costruito sulla circostanza che il padre di Casimirri, alto funzionario del Vaticano, per le sue funzioni si sarebbe trovato ad incontrare il generale Delfino. L'articolo de «l'Unità» del 16 aprile 1998 era intitolato Delfino sapeva che stavano per rapire Moro.

  15) Quali canali venivano adoperati dall'organizzazione per il rifornimento di armi ?

  Stiamo parlando sempre delle BR al tempo del sequestro di Aldo Moro. Morucci ha ricordato più volte che le armi venivano comprate in Svizzera, dove era possibile farlo mostrando la carta di identità. Nel suo libro Mara, Renato ed io, Franceschini ha raccontato che alcune armi furono fornite loro da ex partigiani. Infine, potevano entrare con persone appena reclutate o attraverso rapine in armerie. Non mi risultano commerci di armi in Italia. L'unico episodio che conosco è la nota storia della barca Papago, che nel 1979 si reca di fronte a Beirut per riportare in Italia un carico di armi. È raccontata da Moretti nel suo Brigate Rosse. Una storia italiana e in Giorgio Guidelli, Porto d'armi. Comunque, siamo un anno dopo Moro.

  16) Risultano dai suoi studi canali di intermediazione in ambienti contigui alla Banda della Magliana o canali simili contigui all'ambiente della ’Ndrangheta ? In argomento, come valuta l'esplicita presa di distanza di Fenzi dai rapporti delle BR in Roma e con ambiti criminali ?

  Alla prima domanda la risposta è no. Anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Mancini, già importante membro della banda, escludono un rapporto di qualsiasi genere tra BR e banda della Magliana. Per la seconda, mi pare di ricordare che Fenzi faccia una differenza tra i brigatisti del Nord, che venivano dalla fabbrica, e quelli di Roma, una città dove tutto è contiguo e le barriere sociali sono meno visibili che altrove. Non credo si riferisse ad alcun rapporto operativo tra BR romane e ambienti criminali, bensì a rapporti personali tra qualche brigatista (penso alle amicizie di Morucci, come il «Frittatina», per altro fondamentali: si trattava di «coatti» romani con una empatia rivoluzionaria che insegnarono ai giovani militanti come si rubavano le macchine e altri accorgimenti di base) e a persone di quella malavita romana fatta da rapinatori (le famose batterie), con i quali militanti provenienti dalle periferie e borgate romane si conoscevano da ragazzi. Nulla più. Del resto ricordo personalmente che il fratello di Angelo Mancia, ucciso da ambienti della sinistra antifascista militante nel marzo 1980 per vendicare l'assassinio di Valerio Verbano, episodi avvenuti entrambi a Roma a distanza di un chilometro in linea d'aria, era molto amico di uno dei militanti Pag. 48di sinistra più noti del quartiere, addirittura futuro segretario della sezione del PCI «Mario Cianca». I loro rapporti si interruppero solo dopo l'uccisione di Angelo. Questo, tanto per dire cosa fosse Roma allora. A Milano la cosa sarebbe stata impossibile.

  17) Ha mai inquadrato moventi e contesto dei viaggi effettuati da Mario Moretti a Catania e a Reggio Calabria in epoca anteriore al sequestro Moro ?

  Non so a cosa si riferisca esattamente la domanda. Nel corso delle mie ricerche non ho mai «incontrato» un brigatista più a Sud di Napoli.

  18) L'organizzazione ebbe elementi per ritenere che il tipografo Triaca, proprio militante, fosse un confidente della polizia ?

  Assolutamente no. Enrico Triaca, arrestato il 17 maggio 1978, come ho ricordato durante l'audizione, fu torturato. Delle torture si racconta in un libro, Colpo al cuore. Dai pentiti ai «metodi speciali», Sperling & Kupfer, 2011, scritto con Nicola Rao da Nicola Ciocia, un alto funzionario di Pubblica sicurezza. Triaca stesso denunciò di essere stato torturato perché rendesse dichiarazioni accusatorie. Il Ministro dell'interno Francesco Cossiga si era dimesso da cinque giorni, l’interim del Viminale rimase nelle mani del Presidente del Consiglio Andreotti fino al 13 giugno successivo, quando si insediò Virginio Rognoni, che lasciò il posto solo nel 1983, nel momento in cui l'intera stagione delle torture contro i brigatisti ebbe termine. Tornando all'arresto del 1978, dagli uffici della Digos, dove era stato condotto inizialmente, Triaca fu portato nella caserma di Castro Pretorio. Qui venne a parlargli un funzionario che si presentò come un suo compaesano (Triaca è di origini pugliesi), quindi fu prelevato da una squadra di uomini travisati che lo incappucciarono e lo trasportarono in una sede ignota. Nel corso del tragitto iniziarono le minacce. Arrivato a destinazione fu violentemente pestato ed alla fine sottoposto alla tortura dell'acqua. Il clamore suscitato dalla scoperta della tipografia e del rinvenimento, appena una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, della macchina da scrivere a testina rotante con cui era stata redatta la risoluzione strategica del febbraio 1978, creò qualche problema agli inquirenti, perché mancava una confessione ufficiale, e legale. Si tentò di costringere il Triaca a una deposizione «spontanea», ma il funzionario incaricato fece degli errori ed in ogni caso la data in calce era successiva al ritrovamento della base. In quegli stessi giorni sui giornali cominciarono a filtrare ricostruzioni che dipingevano Triaca come una «inquietante figura», in contatto con la questura durante il sequestro («La Stampa», 19 giugno 1978), un «infiltrato» (il Messaggero, 17 giugno), mentre lo stesso giorno «Paese Sera» titolava Il tipografo delle BR aveva amici nella Ps. Per «la Repubblica», «c’è un informatore nella colonna romana».
 Anche sui tempi dell'indagine, che si concluse il 17 maggio 1978, 50 giorni dopo il suo avvio, ci sono state illazioni e polemiche. La Commissione presieduta da Pellegrino condusse delle verifiche per accertare se davvero gli arresti furono ritardati per favorire l'eterodirezione del sequestro. Il senatore Sergio Flamigni all'epoca, e recentemente il dottor Imposimato, che fu giudice istruttore e interrogò Triaca, sembra abbiano sposato questa tesi. Tuttavia, i risultati dell'inchiesta condotta dalla Commissione dicono che non ci furono ritardi. Dopo lunghi pedinamenti, le indagini ebbero una svolta il 1o maggio, quando Teodoro Spadaccini fu visto incontrare per la prima volta proprio Triaca. Si venne così a scoprire l'esistenza della tipografia e il successivo 7 maggio furono firmate le richieste di perquisizione, che dovevano scattare il 9 mattina. I Pag. 49provvedimenti contengono una correzione a mano che li posticipa di tre giorni, ma il ritrovamento del corpo del presidente Moro in via Caetani fece rimandare l'operazione, che sarebbe stata realizzata il 17 maggio.
 Il 16 giugno 1978 Triaca denunciò al procuratore capo Achille Gallucci le torture subite, ma venne incriminato per calunnia. Nel corso del processo tenutosi nel novembre successivo Triaca fu condannato a un anno e quattro mesi di carcere per questo reato, pena che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate Rosse e per il sequestro Moro. Verdetto ribadito in appello e poi in cassazione. Il Tribunale penale di Perugia, però, alla luce delle nuove prove il 15 ottobre 2013 ha revocato la sentenza di calunnia contro Triaca. È la seconda volta nella storia repubblicana che la verità giudiziaria delle torture di Stato viene dimostrata in un'aula di tribunale, come era già successo nel caso di un altro brigatista, Cesare di Lenardo, torturato nel 1982 durante il sequestro Dozier. Nel 2013 Lenardo era ancora detenuto, senza aver mai usufruito di misure alternative.

  19) Quale fu la politica della comunicazione delle BR e, in particolare, in base ai suoi studi, come si può inquadrare il rapporto tra le BR e le cosiddette radio libere e, in modo particolare, Radio Città Futura ?

  Nessun contatto con Radio Città Futura. L'unica rivista vicina alle BR fu per anni «Controinformazione». La comunicazione fu ovviamente un elemento fondamentale per le BR, specialmente nel primo periodo, quello della «propaganda armata», e avvenne attraverso la diffusione davanti alle fabbriche di volantini, comunicati, rivendicazioni e documenti politici. In occasione di azioni armate, ovviamente si sperava che la rivendicazione fosse pubblicata sui quotidiani. Molti documenti BR furono discussi su giornali quali «Potere Operaio» e «Lotta Continua», ma la grande maggioranza si trova sulle pagine di «Controinformazione», il cui primo numero uscì alla fine del 1972 e continuò le pubblicazioni fino agli anni Ottanta compresi.

  20) In ambiente BR risulta ed è stata da lei studiata, per caso, la diffusione da parte di Radio Città Futura di notizie sul rapimento di Aldo Moro la stessa mattina del 16 marzo 1978 ?

  Per quanto riguarda il presunto «annuncio» di Radio Città Futura del sequestro Moro prima delle 9 del mattino, si tratta di un errore. C’è una sola teste che in tutta Roma avrebbe sentito preannunciare dal direttore Rossellini l'imminente rapimento nel notiziario delle 8.30. È evidente che la donna confonda l'orario, anticipando quanto la Radio avrebbe detto dopo le 9.00. Radio Città Futura aveva un bacino di utenza non piccolo a Roma e se davvero Rossellini avesse preannunciato la cosa, avremmo avuto migliaia di ascoltatori come testimoni. Nicola Lo Foco ha recentemente approfondito la questione nel suo libro Il caso Moro. Misteri e segreti svelati, Gelsorosso, 2015. Aggiungo che dai documenti dell'Archivio centrale dello Stato risulta che le radio libere furono messe sotto controllo a partire dal 18 marzo 1978.

  21) Infine, vorremmo sapere se mai le fosse capitato di trovare all'interno dell'organizzazione delle BR riferimenti a rapporti con il capocentro del SISMI di Firenze, Federigo Mannucci Benincasa, in modo particolare tra lui e Senzani ?

  La domanda si riferisce al capocentro del SISMI di Firenze, Federigo Mannucci Benincasa, che secondo un'ipotesi avrebbe stabilito un collegamento con una fonte Pag. 50informativa all'interno delle BR nel periodo antecedente il rapimento di Aldo Moro; il contatto si sarebbe interrotto solo nel 1982. Sergio Flamigni ipotizza, nel libro Il covo di Stato, che possa trattarsi di Giovanni Senzani il quale, secondo quanto si legge, abitava poco distante. Il nome di Mannucci Benincasa entrò in un'inchiesta sul coinvolgimento di «Ordine Nuovo» nella strage di Bologna, ma egli non venne mai incriminato, né ovviamente rinviato a giudizio. Mario Coglitore in un articolo pubblicato in paolodorigo.it/IL-SISTEMA-OCCULTO.htm lo chiama «il colonnello dai mille interessi e dalle mille connessioni». Per quanto mi riguarda, non ho mai incontrato il suo nome in nessuna fonte primaria sul caso Moro o la storia delle BR. Sul sito di Radio Radicale sono presenti due lunghe testimonianze dello stesso Mannucci Benincasa al processo sulla loggia massonica P2 del 1993.

B. Risposte ai quesiti formulati per iscritto successivamente all'audizione.

Quesito del presidente della Commissione

  22. Nel corso dell'Audizione svoltasi lo scorso 1o luglio, il dottor Vladimiro Satta ha affermato: «Mi è capitato di rileggere un'intervista del giornalista Sabelli Fioretti a Claudio Signorile, pubblicata nel 2001, in cui si fa il nome di una persona che durante il sequestro Moro avrebbe ospitato a casa sua incontri riservati tra Lanfranco Pace e Claudio Signorile. Si tratterebbe di Jimmy Hazan, definito da Sabelli Fioretti brasseur d'affari dell'IRI. Ripeto, a scanso di entusiasmi prematuri, che qui stiamo parlando di incontri Pace-Signorile, non Moretti-Piperno. Tuttavia, essendo pur sempre incontri riservati, essendo stato Pace vicino a Piperno, essendo Hazan un cognome che suona arabo o quasi, io affido questa segnalazione a Voi, sperando che possa esservi utile». Il nome dal suono arabo al quale Lei ha fatto riferimenti nel corso della Sua audizione è quello di Hazan ?

Quesito dell'onorevole Gero Grassi

  23. Chi era il proprietario dell'abitazione romana nella quale nell'estate del 1978 ci fu un incontro cui partecipò Mario Moretti e che da Lei è stato indicato come persona con cognome dal suono arabo ?

  Ritengo il caso di unire le risposte alle due domande, perché in effetti si completano. Durante l'audizione il senatore Corsini e il presidente Fioroni mi hanno chiesto se ricordassi il nome del proprietario dell'appartamento romano in cui si incontrarono Moretti e Piperno, nome fatto all'Università dove lavoro durante la presentazione di un mio libro. La vicenda, lontana nel tempo, si confonde con diverse altre presentazioni che ho fatto in tutta Italia in quegli anni (era il 2004). In realtà l'Università come istituzione non fu coinvolta direttamente, perché l'evento venne organizzato da un gruppo di studenti politicamente attivi che chiesero solo la disponibilità di un'aula fuori dagli orari di lezione [il club studentesco si chiamava Filo Rosso]. Durante l'incontro venne fatto un nome in rapporto a tale vicenda, ma purtroppo non lo ricordo. Quello che però mi rimase impresso, fu il dato storico-politico. Si trattava, cioè, di una persona del tutto estranea alla lotta armata, amica di elementi dell'Autonomia romana, i quali in questa casa passavano anche qualche serata, e che, credo, neanche fosse presente all'incontro. Tutto, cioè, fuorché un anfitrione. In audizione dissi di avere memoria di un nome arabo, ma ora riconosco di averlo confuso con quello poi ricordato dal dottor Satta nel corso della sua audizione. In aule del Pag. 51centro cosiddetto polifunzionale dell'Università della Calabria ho partecipato a diversi incontri sugli anni Settanta. È altamente probabile che il nome di Hazan sia stato fatto durante uno di questi in rapporto agli incontri di Pace con Signorile. Durante l'audizione ho sovrapposto certamente i ricordi. Quel nome, Hazan, del resto, non compare in nessuno dei miei libri, neanche nell'ultima edizione de La «pazzia» di Aldo Moro, quella del 2008 Bur.
 Cercando di ricostruire la vicenda che mi riguarda, ho trovato nel libro Vuoto a perdere, di Manlio Castronuovo, il seguente passaggio, proprio in riferimento al proprietario di quella casa: «In occasione di una delle presentazioni della prima edizione avvenuta il 15 gennaio 2004 presso l'Università della Calabria del libro La «pazzia» di Aldo Moro [...] tale nome è stato finalmente reso noto. Ho parlato con una persona presente all'incontro che mi ha, ovviamente, confermato la notizia. Nella riedizione del suo libro, Clementi ha citato la circostanza e, pur senza rivelare tale nome, ha sottolineato come esso risulti ininfluente nel portare ulteriori elementi di conoscenza, «non sposta i termini della vicenda». Concordo con Clementi [...]». La citazione, che scopro solo ora, si può trovare on line su books.google.it nel paragrafo intitolato L'anfitrione di piazza Cavour.

Pag. 52