XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 11 di Giovedì 20 novembre 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Audizione di Luciano Infelisi:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 
Infelisi Luciano  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Infelisi Luciano  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Infelisi Luciano  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Infelisi Luciano  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Infelisi Luciano  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Infelisi Luciano  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Infelisi Luciano  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Infelisi Luciano  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Infelisi Luciano  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Infelisi Luciano  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Infelisi Luciano  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Infelisi Luciano  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Infelisi Luciano  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Infelisi Luciano  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Infelisi Luciano  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Infelisi Luciano  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Infelisi Luciano  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Infelisi Luciano  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Infelisi Luciano  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Infelisi Luciano  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Infelisi Luciano  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Infelisi Luciano  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Infelisi Luciano  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Infelisi Luciano  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Infelisi Luciano  ... 13 
Grassi Gero (PD)  ... 13 
Infelisi Luciano  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Infelisi Luciano  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Infelisi Luciano  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Infelisi Luciano  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Infelisi Luciano  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Infelisi Luciano  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Infelisi Luciano  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Infelisi Luciano  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Infelisi Luciano  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Infelisi Luciano  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Infelisi Luciano  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 16 
Infelisi Luciano  ... 16 
Grassi Gero (PD)  ... 16 
Infelisi Luciano  ... 16 
Grassi Gero (PD)  ... 16 
Infelisi Luciano  ... 16 
Grassi Gero (PD)  ... 16 
Infelisi Luciano  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Infelisi Luciano  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Infelisi Luciano  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Infelisi Luciano  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Infelisi Luciano  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Infelisi Luciano  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Infelisi Luciano  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Infelisi Luciano  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Infelisi Luciano  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Infelisi Luciano  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Infelisi Luciano  ... 19 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 
Infelisi Luciano  ... 19 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 
Infelisi Luciano  ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 
Infelisi Luciano  ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 
Infelisi Luciano  ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 
Infelisi Luciano  ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Infelisi Luciano  ... 21 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Infelisi Luciano  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Infelisi Luciano  ... 21 
Fornaro Federico  ... 21 
Infelisi Luciano  ... 22 
Fornaro Federico  ... 22 
Infelisi Luciano  ... 22 
Fornaro Federico  ... 22 
Infelisi Luciano  ... 22 
Fornaro Federico  ... 22 
Infelisi Luciano  ... 23 
Fornaro Federico  ... 23 
Infelisi Luciano  ... 23 
Tarquinio Lucio Rosario Filippo  ... 23 
Infelisi Luciano  ... 23 
Tarquinio Lucio Rosario Filippo  ... 23 
Infelisi Luciano  ... 24 
Grassi Gero (PD)  ... 24 
Infelisi Luciano  ... 24 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 24 
Infelisi Luciano  ... 24 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 25 
Infelisi Luciano  ... 25 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 25 
Infelisi Luciano  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 25 
Infelisi Luciano  ... 25 
Garofani Francesco Saverio (PD)  ... 25 
Infelisi Luciano  ... 25 
Cervellini Massimo  ... 26 
Infelisi Luciano  ... 26 
Lucidi Stefano  ... 26 
Infelisi Luciano  ... 27 
Lucidi Stefano  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Lucidi Stefano  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Lucidi Stefano  ... 27 
Infelisi Luciano  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Infelisi Luciano  ... 27 
Grassi Gero (PD)  ... 28 
Infelisi Luciano  ... 28 
Grassi Gero (PD)  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione di Luciano Infelisi.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Luciano Infelisi, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  Il dottor Infelisi è stato, come è noto, il magistrato che per primo, nei cinquanta giorni successivi alla strage di via Fani, ha diretto le indagini relative all'omicidio degli uomini della scorta e al rapimento di Aldo Moro, la cui uccisione è avvenuta cinque giorni dopo che la Procura generale presso la Corte d'appello di Roma ha avocato a sé l'inchiesta.
  Di quanto è avvenuto in quei cinquanta giorni così cruciali nella storia della Repubblica il dottor Infelisi ha già avuto modo di riferire al Parlamento in occasione della sua audizione del 27 gennaio 1981 dinanzi alla Commissione parlamentare d'inchiesta presieduta dal senatore Schietroma. Dalla lettura del resoconto di quella audizione emerge, in primo luogo, un quadro a dir poco sconcertante dell'impreparazione, dell'improvvisazione e sostanzialmente dello spaesamento in cui si è trovato lo Stato di fronte all'attacco sferrato dalle Brigate Rosse con il sequestro di Aldo Moro. Ma uno sconcerto ancora maggiore destano alcune circostanze riferite alla Commissione parlamentare dal dottor Infelisi; circostanze che, ove confermate, solleverebbero non pochi interrogativi. Ne ricordo alcune tra le più significative.
  Durante le indagini sul sequestro Moro, il dottor Infelisi non venne dispensato da alcuna delle altre inchieste a lui affidate; non aveva a disposizione nessun ufficiale di polizia giudiziaria e non disponeva in ufficio neppure di una propria utenza telefonica, tanto da essere costretto ad effettuare conversazioni riservate da apparecchi telefonici pubblici a gettone. La notizia della scoperta del covo di via Gradoli gli venne riferita con notevole ritardo, peraltro non dalla Polizia che era intervenuta sul posto, ma dai Carabinieri che avevano ascoltato la radio della Polizia. Per avere la disponibilità delle carte rinvenute a via Gradoli e in possesso della questura, il dottor Infelisi fu costretto ad adottare un formale provvedimento di sequestro. Infine, non vennero puntualmente eseguiti alcuni ordini tassativi da lui impartiti alle forze dell'ordine, quale quello di procedere a sfondare le porte dell'abitazione durante la perquisizione in via Gradoli del 18 marzo del 1978.
  La stessa avocazione dell'inchiesta disposta dalla Procura generale all'indomani dell'emissione di undici ordini di cattura nei confronti dei presunti responsabili della strage, tra i quali Faranda, Morucci e Gallinari, necessita tuttora di chiarimenti circa le sue reali motivazioni.
  L'audizione di questo pomeriggio costituisce, pertanto, un'opportunità preziosa per ripercorrere, con il contributo di un Pag. 4testimone diretto, gli avvenimenti di quei giorni e tentare di chiarirne gli aspetti ancora oscuri.
  Faccio presente al dottor Infelisi che, se nel corso della sua audizione lo riterrà necessario, i lavori della Commissione potranno proseguire in seduta segreta.
  Prima di dare la parola al dottor Infelisi, devo avvertire i colleghi che giovedì 27, alle ore 15, avrà luogo l'audizione dell'ex ispettore di polizia Enrico Rossi. Sempre la prossima settimana, in relazione all'andamento dei lavori parlamentari, potrà essere convocata anche una seconda seduta per lo svolgimento di un'altra delle audizioni concordate con l'Ufficio di presidenza.
  In data odierna è pervenuta una nota del senatore Lucidi contenente alcune richieste istruttorie. In particolare, in relazione alle notizie pubblicate ieri dal sito Corriere.it con riferimento alla Renault 4 rinvenuta in via Caetani, viene chiesto di acquisire la disponibilità di tutti i reperti relativi al caso Moro e di verificare se vi sia la possibilità di utilizzare su di essi nuove tecniche investigative all'epoca sconosciute. Tale richiesta sarà naturalmente sottoposta alla valutazione dell'Ufficio di presidenza in occasione della prossima riunione. Desidero comunque sin d'ora far presente che nella riunione dello scorso 18 novembre l'Ufficio di presidenza ha già convenuto di affidare alla dottoressa Tintisona molti degli adempimenti che il senatore Lucidi ha chiesto di eseguire e che, a mio parere, debbono essere effettuati per poi procedere anche a chiedere eventuali sviluppi futuri.
  Do la parola al dottor Infelisi, ringraziandolo ancora della presenza.

  LUCIANO INFELISI. Grazie. Non so se sono qui più che altro per rispondere a precisi quesiti o precise domande. Poiché, però, signor presidente, lei ha fatto una sintesi di quanto io ho già detto alla precedente Commissione di inchiesta, vorrei partire dalla coda, cioè da quella avocazione del Procuratore generale di allora, Pascalino.
  Qui, in tutta onestà, devo dire che formalmente l'avocazione era ineccepibile – soprattutto all'epoca, mentre oggi non sarebbe stata più possibile con il nuovo Codice di procedura penale – perché l'indagine si allargava con vasto respiro e quindi riguardava tutto il fenomeno del terrorismo e non coinvolgeva solo Roma, ma tutta la provincia e la regione del Lazio, con collegamenti soprattutto con Milano e altre regioni. Questo da un punto di vista formale. Con altrettanta onestà devo ricordare che, come è anche logico, c'erano delle posizioni non perfettamente omogenee nella conduzione delle indagini. Il Procuratore generale di allora aveva rapporti diretti – anche se poi li ho avuti anch'io, perché sono venuti i rappresentanti del segretario del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, con cui ho parlato – e comunque era per una strategia attendista; ma non di immobilismo, sia chiaro, non voglio assolutamente dire questo. Comunque, quegli ordini di cattura che erano stati emessi e che poi sono risultati validi, su elementi che sono stati anche integrati successivamente, erano già stati da me firmati un mese prima e vennero bloccati perché anche con il Ministro dell'interno Cossiga, con cui il rapporto era quotidiano, si diceva che era necessario non irritare ancora di più il nucleo terroristico che aveva agito.
  Questa visione delle cose non era possibile accettarla, non tanto per una questione ideologica – secondo cui la magistratura fa il proprio dovere, fiat lex et pereat mundus – ma per un'altra ragione: si trattava di un gruppo di terroristi che si era macchiato di un eccidio. Noi parlavamo del sequestro dell'onorevole Moro, fatto gravissimo che non aveva precedenti, ma riguardava una persona viva, però dovevamo anche individuare soggetti che avevano provocato la morte di cinque servitori dello Stato. Quindi, c'era anche da tener presente che i reati erano molteplici.
  Non c’è stato un sabotaggio nelle indagini. Questo lo escludo nella maniera più assoluta. C'era, però, un diverso intendimento. Siccome a me l'inchiesta è Pag. 5stata immediatamente e formalmente affidata, perché io mi ero già occupato di determinati fatti delittuosi commessi da estremisti sia di destra sia di sinistra e quindi il Procuratore della Repubblica mi confermò la sua fiducia, ecco che la Procura della Repubblica di Roma, con i mezzi di allora, andò avanti.
  La seconda precisazione è che io volevo un nucleo di polizia giudiziaria vicino per poter agire, come ho agito successivamente, quando si è evoluta e si è modernizzata anche la Procura della Repubblica stessa, però non l'avevo, quindi ero stato lasciato, da questo punto di vista, effettivamente solo. Tuttavia, godevo dell'appoggio vero del capo della Digos Spinella, dei colonnelli dei Carabinieri Sassi e Cornacchia, mentre nella Guardia di finanza c'era il colonnello Corradini. Anzi, proprio con la Guardia di finanza facemmo il primo arresto: mi ricordo che quella notte andai io stesso nella metropolitana dell'EUR per tendere l'agguato a Libero Maesano, che era un informatico e che poi, guarda caso, successivamente venne assolto dai giudici. Le assoluzioni si sono moltiplicate; successivamente si sono avute le prove, ma sappiamo che una volta che una sentenza è passata in giudicato non può essere più riconsiderata. Comunque, chiudo questa parentesi.
  Ci siamo arrangiati come potevamo. Ho visto che tutti avevano una grande voglia, ma il vero punto focale non è che non siamo riusciti a trovare Moro. Il punto è che mancava, in una maniera drammatica, quella che è la prima cosa necessaria nelle indagini per il terrorismo, e ciò per precise disposizioni: non vi erano infiltrati. Oggi quando si parla di mafia, bisogna dire che la lotta alla mafia non si fa come la lotta agli scippatori. La lotta alla mafia si fa non solo con tutte le tecniche di polizia come intercettazioni, pedinamenti ed altro, ma si fa con i cosiddetti «pentiti». Allora di pentito ce n'era stato uno soltanto, precedentemente, che aveva aperto il discorso sul terrorismo sollecitato da un infiltrato. Questo infiltrato finì su tutti i giornali, due o tre anni prima del caso Moro, e venne aggredito in maniera palese, perché si disse che lo Stato provocava molte volte azioni non proprio delittuose, ma comunque aveva necessità di fare uscire fuori quel ribellismo, per poter agire con la repressione. Lo ricordo perfettamente.
  Lei poco fa ricordava, signor presidente, che io ho sequestrato quella che veramente è stata la «vetrina» delle Brigate Rosse, cioè via Gradoli, e vedremo che c'era dentro di tutto. Debbo dire che l'ho fatto non perché la Polizia non volesse fornire al sottoscritto magistrato il materiale rinvenuto, ma perché c'era una diatriba, come spesso è accaduto – oggi accade molto meno, per fortuna – tra i vari corpi, Carabinieri e Polizia, per cui chi arrivava per primo prendeva quei documenti, che dovevano essere elaborati e costituire spunto di investigazioni. Questo faceva sì che l'altra parte, Polizia o Carabinieri, rimanesse indietro nell'attività. Io sequestrai i documenti e li portai tutti a Palazzo di giustizia. Copia di tutto ciò venne dato a tutti e tre i corpi di polizia, compresa la Guardia di finanza.
  Di quest'ultima ricordo che, dal punto di vista operativo, fu la prima che si mosse. Temevo personalmente che Moro, andando al nord, fosse portato nella zona di Civitavecchia, in quelle zone a nord di Roma, e imbarcato su qualche natante o peschereccio usato da brigatisti. Quindi, le prime a uscire furono le motovedette della Guardia di finanza che incrociarono lungo il litorale. Poi si parlerà della sabbia o meno nel risvolto dei pantaloni di Moro.
  L'attività fu effettivamente immediata. Certo, la confusione non mancò; l'impatto era drammatico, anche perché cinque morti erano già qualcosa che lasciava dolorosamente attoniti.
  Come dicevo, ho avuto molti contatti con l'allora responsabile in senso giuridico, il Ministro Cossiga, che anzi mi aveva dato anche una stanza più o meno allo stesso piano, dove potevo operare meglio, quando andavo una volta ogni quattro o cinque giorni, per sentire e vedere. Con lui ho avuto molti contatti sugli sviluppi e sulle strategie, perché Cossiga aveva anche questo di caratteristico: i famosi piani Pag. 6«Mike» e «Victor» che la stampa ha riportato li ha inventati lui. «Victor» vuol dire semplicemente «vivo» e «Mike» vuol dire semplicemente «morto». Cossiga disse giustamente che si doveva organizzare quello che sarebbe successo se si fosse ritrovato purtroppo il cadavere dell'onorevole Moro ovvero se l'onorevole Moro fosse stato lasciato libero. In entrambi i casi, bisognava fare una specie di programma: chi doveva parlare per primo con Moro, a chi era inibito parlargli, se Moro doveva andare in una clinica, quali dovevano essere i rapporti con la stampa. A Cossiga piaceva moltissimo fare questi schemi e via dicendo. Li facemmo di comune accordo con il Ministro Cossiga e io impartii gli ordini relativi a tali programmi concordati.
  Non sta a me, specie in questo palazzo, venire a sottolineare – può essere che non interessi – quali erano gli atteggiamenti di politici o meno. Voi avete una visione e una conoscenza delle varie motivazioni politiche dei partiti di allora, quindi io posso dire solo qualche fatto specifico, qualora mi venisse richiesto. Quindi, sono a vostra completa disposizione.
  Come dicevo, non avevo niente, ma dopo venti giorni che ho preso in mano il tutto fu lo stesso Cossiga che mi fece avere una macchina – era un'Alfasud, me lo ricordo ancora – che aveva due radio addirittura – allora sembrava il non plus ultra – una dei Carabinieri e una della Polizia. Dico questo per completezza delle cose che riesco a ricordarmi.
  Ho seguito tantissime inchieste: sui Nuclei comunisti combattenti e tante altre, quindi le idee possono sommarsi o confondersi. Ma queste rimangono come scolpite nell'animo di chi agì in quel modo.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Infelisi. Comincio sottoponendole alcuni quesiti, poi passerò la parola ai colleghi.
  Sulla base degli accertamenti da lei condotti all'epoca, quale fu la dinamica della strage ? In particolare – c’è un motivo per il quale glielo chiediamo dopo l'audizione del Procuratore generale Ciampoli – come spiega che si sia ipotizzato il ripetuto tamponamento delle vetture coinvolte quando il loro stato, nel riscontro fotografico, sembra escludere una simile ricostruzione ?

  LUCIANO INFELISI. A quanto ricordo, la vettura che provocò il tamponamento era una Fiat 128; si fermò all'incrocio repentinamente e la macchina del presidente Moro andò a tamponarla e a finirle addosso.
  Tenete presente – questa è una cosa molto importante perché all'inizio si domandava «chi c’è dietro ?» – che nel covo di via Gradoli trovammo la targa vera della 128 che era stata usata perché ci fosse il tamponamento. Ciò portò senza ombra di dubbio (se uno potesse avere dei dubbi, ma non ne avevamo) a ritenere che effettivamente erano stati alcuni di quei brigatisti a compiere le azioni.
  Quindi, il problema della dinamica è molto facile: bastava bloccare la macchina di Moro. Erano posizionati secondo una intelligente – purtroppo dobbiamo usare questo termine – divisione di compiti: c'era un gruppo di fuoco sulla sinistra, un altro sulla destra, altri arrivarono da dietro, quindi aggredirono immediatamente, sparando subito verso la scorta e l'autista. Furono da questo punto di vista tecnicamente bravi.
  Compirono anche degli errori: lasciarono dei caricatori, ci furono delle impronte; soprattutto, cadde un berretto della divisa da ufficiali o da steward dell'aviazione civile, che ci permise, con un'operazione brillante in verità, attraverso una ricerca in tutti i negozi di Roma, di risalire attraverso la commerciante (era una donna) a chi aveva comprato queste divise. Sottoponendo alla stessa alcune foto di sospetti, questi vennero individuati.
  La dinamica era possibilissima, di una facilità enorme. C'era la macchina di Moro, la macchina della scorta...

  PRESIDENTE. No, non discutiamo di questo. Si è parlato di tamponamento, però poi dai riscontri fotografici...

  LUCIANO INFELISI. Ma è un «tamponamento a retro», cioè è la macchina di Pag. 7Moro che ha tamponato. Guardi, ho visto le fotografie, non c’è stato un tamponamento di qualcuno che ha tamponato la macchina di Moro; non poteva farlo perché c'era la macchina della scorta.

  PRESIDENTE. Dobbiamo fare riscontri fotografici perché da quelli attuali non siamo riusciti a individuare questo. Sicuramente è una grossa carenza, per le foto mancanti...

  LUCIANO INFELISI. Io sono arrivato circa mezz'ora dopo, forse venti minuti dopo.

  PRESIDENTE. Erano ammaccate le macchine ?

  LUCIANO INFELISI. Erano ammaccate. Sicuramente sì. Tra l'altro, quando sono arrivato io c'era ancora un agente che respirava, Zizzi, mi pare. C'era proprio l'immanenza... Ci fu il direttore dell’Osservatore Romano che si mise in ginocchio per fare una preghiera.
  Certo, una cosa che trovammo subito è che l'agente Iozzino, che era riuscito a tirare fuori la pistola, era stato attinto al torace. Se le scorte fossero state fatte in maniera estremamente seria avrebbe dovuto indossare il giubbotto antiproiettile. Di giubbotti antiproiettile, lì, non ce n'era uno. Non solo, ma mancava anche la cosiddetta «arma lunga», come si usa dire in genere, cioè il mitra, il MAB. Io guardai anche dentro la macchina: non c'era. Non solo non è stato usato, ma non era neanche in dotazione. Questa era una carenza grave, o comunque sono leggerezze che erano state commesse.
  D'altronde, la scorta era numerosa e i brigatisti hanno agito, dal punto di vista operativo e di combattimento, con un'intelligenza notevolissima.

  PRESIDENTE. Formulo la seconda domanda. Alla luce degli elementi emersi nel corso delle sue indagini, per quello che è il suo ricordo, quanti uomini hanno preso parte all'eccidio e come erano disposti ? Soprattutto, qual è la provenienza dei colpi che sono stati sparati, sempre che se lo ricordi ?

  LUCIANO INFELISI. La risposta a questo gliela può dare benissimo... Io feci arrivare, e arrivò un'ora dopo, il professor Ugolini, il nostro perito balistico – molto capace, tant’è che ha scritto tre volumi sulla balistica – per vedere la provenienza dei colpi. Egli specificò esattamente che i colpi venivano da sinistra, da destra e di fronte in diagonale. Questo era quello che noi scoprimmo subito.
  Le dirò sinceramente che da un punto di vista giudiziario...

  PRESIDENTE. Era poco rilevante.

  LUCIANO INFELISI. Era assolutamente irrilevante, se non per individuare... Abbiamo avuto dei testimoni che hanno detto che c'era uno in divisa, quello a cui dopo cadde il berretto, che sparava in maniera ferma e decisa.
  Tenga presente che io mi occupavo anche di criminalità comune. C'era un soggetto, un aiuto benzinaio, che era un ex rapinatore, una persona molto simpatica (si era ravveduta). Questa persona mi disse che chi sparava con il mitra era perfettamente addestrato, perché invece di avere, come avrebbe fatto chiunque, la mano sul caricatore lungo, per appoggio, o di poggiare il mitra sul braccio, aveva messo il mitra sotto il braccio, di talché il rinculo del mitra, che porta in altro (come sa chi ha fatto il servizio militare), viene impedito. In questa maniera hanno sparato, ed erano ben organizzati.
  Questo porta, se mi permette, presidente, a un altro filone. I servizi segreti di allora mi comunicarono che c'era all'estero, nell'allora Repubblica Cecoslovacca (adesso sono diventati due Stati diversi), un campo di addestramento di terroristi che operavano in Italia (poi vedremo, se vi serve, i rapporti con la Baader Meinhof tedesca eccetera). In quel campo, secondo fonti cosiddette «aperte», come si usa dire nei servizi segreti, cioè una «spiata» in termini più brutali, Pag. 8c'erano alcuni che parlavano l'italiano. Ora, chi fossero non ce l'hanno detto né l'abbiamo mai saputo. Quindi, può anche essere che qualcuno abbia potuto ricevere addestramento all'estero. Era una pista molto accreditata anche dal Ministero dell'interno, che dispose anche un servizio di vigilanza e di attenzione, come si usa dire, vicino al consolato della Repubblica Cecoslovacca, dove avevano visto entrare e uscire determinate persone. Alla fine a noi non risultò niente, almeno a quanto ho seguito allora e anche indirettamente dopo.

  PRESIDENTE. Quindi, un livello di attenzione c'era.

  LUCIANO INFELISI. C'era, sì.

  PRESIDENTE. Furono condotte indagini sulla presenza – questa domanda è di attualità, perché ne ha fatto oggetto di un'inchiesta la Procura di Roma, ma è stata oggetto anche di uno dei processi Moro – di una motocicletta Honda sul luogo della strage ? In caso affermativo, cosa emerse in proposito e quali sono le sue valutazioni circa l'eventuale presenza sul luogo della strage di uomini appartenenti ai servizi di intelligence, che è scaturita dalle dichiarazioni rese dall'ispettore di polizia Rossi ?

  LUCIANO INFELISI. Ah, quello... Guardi, in tutta onestà, se dovessi dare un giudizio, dovrei avere degli elementi concreti, precisi, e dovrei avere dei riscontri obiettivi a quello che dice Rossi. Ritengo che quello che dice Rossi sia qualcosa che non regge neanche. L'ho letto solo sui giornali, però. Ci sono delle contraddizioni palesi e delle ingenuità che mi lasciano davvero molto dubbioso.
  L'ipotesi che ci fossero delle moto e che ci fossero dei fiancheggiatori l'abbiamo presa in considerazione, perché i testimoni ce lo dissero, ma la Polizia, la Digos e i Carabinieri cercavano qualche terrorista che aiutasse i nuclei che poi salirono sulle auto e sparirono. Nessuno poteva andare a pensare che fossero organi dello Stato, né abbiamo avuto qualcuno che anche in maniera molto indiretta ci abbia mai detto – ho interrogato una ventina di persone, a diversi livelli – che c'era qualcuno che era dei servizi segreti, deviati o non deviati. Su questo punto c'era il buio completo. Quindi, il fatto che ci sia una moto... Anche a via Gradoli uscì fuori la storia di una moto, ma non è che quelli del servizio segreto debbano avere la moto; possono anche essere vestiti da prete o camminare come tutti i cittadini se vogliono vedere qualcosa.
  I terroristi interrogati, diciamocelo francamente, hanno sempre rivendicato una loro totale autonomia. Sarà vero o falso ? Non lo so, ma neanche qualcuno di questi ci ha detto che sono stati incoraggiati o aiutati da Tizio, da Caio o altro.
  Anche se, successivamente, proprio per via Gradoli... Via Gradoli è una via molto particolare, che ha avuto anche l'onore – o il disonore – delle cronache successivamente, per chi vi abitava. Quell'appartamento di via Gradoli sembrava essere preso da una società che faceva capo ai servizi di sicurezza. Ne avevano due, lì. I terroristi erano in un appartamento preso in affitto.

  PRESIDENTE. Alcuni degli undici ordini di cattura da lei emessi alla vigilia dell'avocazione dell'inchiesta riguardano brigatisti che effettivamente presero parte alla strage di via Fani. Ci furono elementi di fatto importanti per riuscire a identificarli ?

  LUCIANO INFELISI. Indubbiamente ciò che portò agli ordini di cattura nei confronti di Faranda, Moretti, Gallinari... Gallinari, devo dirle francamente, dagli interrogatori analitici, dal disegno che fecero le autorità di polizia, lo riconobbi immediatamente io. Ci furono quindi riconoscimenti visivi chiarissimi. E a questi riconoscimenti corrispondeva non solo il fatto che erano già sotto una certa forma di attenzione – sebbene manchevole perché mancavano infiltrati e mancavano quindi in profondità delle attente analisi – ma anche la circostanza che sparirono Pag. 9completamente, perché erano i cosiddetti «regolari». Quindi, il riconoscimento, i contatti che avevano avuto con «a», con «b» e con «c», la sparizione, facevano pensare che... Per l'ordine di cattura occorrevano non le prove, allora, ma gravi, precisi e concordanti indizi, ed erano più che bastevoli. D'altronde, il riscontro è stato proprio che erano loro.

  PRESIDENTE. Nel corso dell'indagine fu messo al corrente dell'esistenza del tentativo di avviare trattative con le BR ? In caso affermativo, può dirci quali erano i canali attivati per esperire questo tentativo e se, da parte sua, nei primi cinquanta giorni, ci furono iniziative per cercare di risalire per il loro tramite all'identificazione del luogo dove si trovava Moro ?

  LUCIANO INFELISI. I giorni furono cinquantacinque.

  PRESIDENTE. No, io dicevo quelli in cui lei aveva la competenza sull'indagine.

  LUCIANO INFELISI. Ricordo che in Procura mi dicevano «cinquantacinque giorni a Pechino», dal titolo di un famoso film; furono cinquantacinque giorni e soprattutto cinquantacinque notti.
  La risposta è sicuramente sì. Dai colloqui avuti con il Ministro Cossiga e con l'emissario – nel senso migliore della parola – di Berlinguer e di Piccoli, in parte, anche se nell'ambito della Democrazia Cristiana di allora c'erano una gran confusione e una scarsa collaborazione (dirò i nomi, i cognomi e perché, cioè che cosa hanno fatto per questo), capimmo che da parte di Berlinguer allora vi era la netta opposizione a qualunque forma di contatto. E si chiedeva anche di essere duri, di fare gli ordini di cattura. Tali ordini di cattura erano stati bloccati in un primo momento dallo stesso Presidente del Consiglio, l'onorevole Andreotti, perché voleva essere più cauto e più diplomatico nei rapporti. L'opposizione vera veniva soprattutto da sinistra. Delle due anime, l'anima più intraprendente fu quella che poi diede incarico a Giannino Guiso, che era l'avvocato di Curcio, di avere contatti con le Brigate Rosse. Ma contatti con le Brigate Rosse la magistratura non li poteva ammettere, e del resto non li ammette mai con i sequestratori, per la semplice ragione che se si apre questa strada allora i sequestri di persona si moltiplicano perché ogni volta si può chiedere qualcosa.
  Lo stesso Cossiga – questa è la verità – mi disse personalmente che era nettamente contrario a quelle richieste dei brigatisti rossi, che nientedimeno volevano la liberazione di Curcio e di tantissimi altri, che avrebbero riaperto e rinforzato le file terroristiche. Giannino Guiso, però, ci precisò che questo non era vero, cioè non era vero che volessero questa liberazione – tenete conto che come avvocato andava in carcere e aveva rapporti con quelli che erano detenuti già da tempo – ma bastava che venisse riconosciuta l'esistenza di un'entità, Stato e anti-Stato, quindi che venisse riconosciuta e data una legittimazione, se vogliamo dire così, alle Brigate Rosse.
  Però, tutto questo passava un po’ sopra alle nostre teste. Lì c'erano stati interventi nientedimeno – lo ricordo perfettamente, perché è stato il mio professore universitario, io sono stato suo assistente e ho continuato dopo per conto mio – di Giovanni Leone, del Sommo pontefice Paolo VI. Però nel loro intervento, dalla maestà della loro posizione, soprattutto il Papa non è che entrasse proprio nello specifico. La Procura della Repubblica di Roma (e io come magistrato) non ha mai ricevuto specifiche richieste di rallentare le indagini, se non, come dicevo prima, nell'asse Andreotti-Pascalino, che volevano che l'indagine non fosse svolta in maniera eccessivamente decisa, per timore di mettere in pericolo la vita del sequestrato. Questo è vero, però nessuno ha avuto il coraggio di fare a noi richieste di questo genere.

  PRESIDENTE. Ho un'altra domanda. Dalle indagini emerse la possibilità che qualche persona al di fuori degli appartenenti alle Brigate Rosse abbia fatto avere notizie o oggetti all'onorevole Moro durante il sequestro, il cosiddetto «canale di Pag. 10ritorno», o che addirittura sia entrato in diretto contatto con lui ? Al riguardo, ritiene che possano avere qualche fondamento le ipotesi talvolta avanzate in riferimento a un sacerdote ?

  LUCIANO INFELISI. Non ho prove.

  PRESIDENTE. Lei lo fece anche seguire.

  LUCIANO INFELISI. Lo feci anche seguire, lei lo sa perfettamente.
  C’è una verità: i due più affezionati collaboratori dell'onorevole Moro, sicuramente credo anche per una ragione di rapporto affettivo, erano Freato e Rana, mi pare. Guerzoni era più un politico che si riuniva poi con Piccoli e discuteva, però Rana e Freato li cito perché mi constò che ricevettero comunicazioni dirette dalle Brigate Rosse.
  Ora, uno dei punti fondamentali che io esplicai al Ministro dell'interno era che non dovevamo giocare a nascondino e che le notizie loro, nella massima segretezza e per il raggiungimento dello scopo comune, dovevano essere riferite al magistrato che poi le avrebbe diramate a Carabinieri e Polizia per operare.
  Rana e Freato non collaborarono minimamente, tant’è – e questo mi dispiace dirlo – che io scrissi (non posso dire «emisi» perché non uscì fuori) un ordine di accompagnamento degli stessi per il reato di favoreggiamento.
  Non erano certo brigatisti, ovviamente. Non erano la moglie o altri soggetti per cui il Codice penale dispone che, in quanto familiari stretti, non rispondano di favoreggiamento per i rapporti esistenti. Così facendo, però, agivano in un'ottica tutta loro e favorivano il protrarsi dell'azione criminale dei terroristi, non fornendo a noi le doverose notizie.
  Non furono soltanto loro a comportarsi così. Io ricordo – l'ho detto forse alla Commissione precedente – perfettamente un fatto. Io feci intercettare tutti i giornali e i parenti delle persone, intercettai tutto ciò che era possibile intercettare. All'epoca il procuratore della Repubblica aveva il potere di farlo senza passare per il giudice istruttore (allora non c'era il GIP). Ci fu una telefonata di brigatisti rossi fatta a un determinato quotidiano, cui rispose un giornalista e disse...

  PRESIDENTE. «Usi un'altra linea». L'ha detto.

  LUCIANO INFELISI. «Usi un'altra linea». Ah, l'avevo detto. Sono vicende che mi sono rimaste scolpite dentro in maniera sgradevole. Quasi ci mettevano i bastoni tra le ruote. Mi ricordo che lo stesso Spinella della DIGOS era infuriato e voleva agire nei confronti di questo episodio. C'era tanto da agire in tanti modi.
  Eravamo presi anche dall'attività che si svolse sul territorio, con tutte le perquisizioni che venivano effettuate, alcune delle quali portarono veramente a una scoperta che è stata poi oro sia per il processo, sia per i rapporti internazionali, ossia quella di via Gradoli.

  PRESIDENTE. Durante la sua audizione dinanzi alla Commissione Moro lei dichiara di aver nutrito subito dubbi sull'autenticità del falso comunicato n. 7. Secondo alcune ricostruzioni, l'ispiratore di un simile falso sarebbe stato il suo collega Claudio Vitalone. Quali erano i suoi rapporti con Vitalone all'epoca del sequestro Moro ? Ebbe mai occasione di parlare con lui del falso comunicato n. 7 sul Lago della Duchessa ?

  LUCIANO INFELISI. Io non ho mai detto che ispiratore di quel comunicato potesse essere Claudio Vitalone, tutt'altro. C’è un equivoco che va chiarito. Il dottor Vitalone era un fiancheggiatore della mia attività, insieme con Dell'Orco, Savia e altri due. Giustamente, io mi occupavo di tutto questo, ma con loro, che avevano seguito processi con personaggi invischiati nell'estremismo o che a volte avevano perfino superato il limite ed erano dei terroristi. Cooperavano: ci si vedeva, ci si incontrava. Vitalone aveva mille idee. Una delle idee di Vitalone era di far intervenire l'esercito, per esempio, ma Cossiga la Pag. 11bloccò. Ci furono dei posti di blocco, ma molto «alla buona», anche perché l'esercito non aveva la capacità necessaria.
  Quando arrivò l'avviso del comunicato sul Lago della Duchessa, era evidente che fosse un falso comunicato, perché la Guardia di finanza, con cui io parlai immediatamente, disse che era nevicato. Come si faceva a camminare in mezzo al lago, dove ghiacciava tutto, e a fare un buco ? C'erano mille case e casette intorno. Sarebbe stato molto meglio lasciare Moro in qualunque altro posto.
  Si capiva che c'era una ragione che voleva far spostare lì le indagini, tant’è vero che il procuratore della Repubblica De Matteo mi chiese: «Tu, Infelisi, vieni ?». Io risposi: «Capo, se fossi in lei, non ci andrei», ma comunque meglio sbagliare in più che in meno. Ci andò, anche con l'elicottero – mi ricordo questo – mentre, proprio quella mattina stessa, scattò la questione di via Gradoli per via della famosa doccia.
  Era molto facile capire che il comunicato era falso: bastava leggere. Bisogna anche essere un po’ del mestiere. Leggendo certe cose, occorre osservare anche la dizione e il modus. I brigatisti hanno avuto per lungo tempo un lessico molto particolare, molto «politichese». A volta bisognava leggere tre volte lo stesso concetto per arrivare a capire che cosa volessero dire. Si capiva, però, quasi la loro autenticità. Non erano scarni come quel famoso comunicato. Non aveva alcuna ragion d'essere il fatto di arrivare al Lago della Duchessa. Io scartai il comunicato e, in effetti, non aveva fondamento.

  PRESIDENTE. Lei si è più volte dichiarato convinto che il fenomeno delle BR sia essenzialmente nazionale, nonostante qualche collegamento, come ci ha ricordato anche prima, con formazioni terroristiche straniere. La sua convinzione che fosse essenzialmente nazionale è maturata su qualcosa di preciso o deriva dall'insieme dell'attività investigativa svolta ?

  LUCIANO INFELISI. Le dico subito perché. È nata dalle dichiarazioni che io ho raccolto nei vari interrogatori. Sia ben chiaro: io non pretendo di sostenere che i brigatisti abbiano detto sempre la verità, ma il modus con cui essi operavano, nonché la convinzione, l'odio, la volontà da cui erano animati e i rapporti che la polizia ci metteva in evidenza, tutto lo svolgimento, il muoversi di quel determinato terrorismo, era tutto nazionale, tranne per alcuni contatti con la Baader Meinhof.
  Una granata trovata a via Gradoli veniva dal contrabbando fatto con la Baader Meinhof e anche alcune targhe venivano dalla Baader Meinhof. C'era effettivamente un canale straniero. Quando io parlo della carenza assoluta nelle indagini fatte allora, ma anche in quelle successive, però, mi riferisco anche a questo. Anche le Unità Comuniste Combattenti e altri gruppi hanno tutti rivendicato con estremo orgoglio le loro azioni.
  Dirò di più. Che cosa potevano perdere i terroristi nel dire: «Siamo stati aiutati, foraggiati da questo Stato o da quest'altro» ? Qui abbiamo gente di diverso livello e di diversa cultura. Non si nasce terroristi. Se andiamo a vedere la loro vita – e noi l'abbiamo fatto – si nota che parte solo da un ribellismo e che passa poi ad azioni di violenza e ad azioni coordinate. Poi si svilupparono le Brigate Rosse, che erano molto intelligenti, perché fra di loro avevano paratie stagne. Questo è vero, ma nessuno può dire se dietro a tutto ci fosse una mente straniera.

  PRESIDENTE. Quindi non ha mai registrato interferenze in quel periodo ?

  LUCIANO INFELISI. Non ho registrato interferenze a livello operativo, materiale e concreto. A livello politico io non ho la cognizione per dire se l'Unione Sovietica, gli Stati Uniti d'America o Israele – non so se c'entrasse, ma si parlò anche di Israele – potessero essere interessati. Potrebbe essere utile sapere queste cose, ma è un caso diverso.
  Io mi sono occupato anche dell'attentato al Sommo pontefice. In quel caso le interferenze precise e specifiche di potenze straniere c'erano, ed erano provate per tabulas, individuando nomi e cognomi.Pag. 12
  Quando un magistrato deve dire qualcosa, deve avere la serietà di portare qualche elemento. In questa vicenda, invece, c'erano assoluzioni perché il fatto non sussisteva. Mancava del tutto la prova. A me – sarò limitato – o ai miei colleghi all'epoca mancava totalmente la prova delle interferenze. C'era qualche straniero, che però stava al Ministero dell'interno, da Cossiga, come consigliere.

  PRESIDENTE. Questo è oggetto della prossima domanda.
  Recentemente la Commissione ha ascoltato in audizione il procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma Ciampoli e il sostituto Lupacchini, i quali hanno illustrato alcune ipotesi investigative, soffermandosi, tra l'altro, sulla figura di Steve Pieczenik, l'esperto del Dipartimento di Stato statunitense che partecipò ai lavori di uno dei comitati istituiti presso il Ministero dell'interno.
  Ha mai incontrato questo consulente e, in caso affermativo, può riferirci il contenuto dei vostri colloqui, specificando se vi siano stati mai da parte di Pieczenik tentativi di orientare le indagini o se qualcuno abbia riferito opinioni dello stesso a lei ?

  LUCIANO INFELISI. Con lui non ho mai avuto contatti. Con il Ministro Cossiga sì. Cossiga mi riferiva la ragione per cui aveva avuto l'idea – non c'era solo Pieczenik, c'erano anche altri soggetti – di avere a disposizione dei cosiddetti esperti di terrorismo internazionale. Lo si faceva unicamente e soltanto – questo mi disse Cossiga – per arrivare a trovare la strada migliore per quanto riguardava la possibilità di liberare l'onorevole Moro. Il loro ruolo non era – così mi disse Cossiga – indicare quale fosse il fenomeno del terrorismo e come si combattesse, ma quali fossero le modalità migliori, se spingere sull'acceleratore o meno.
  Vi erano non quotidianamente, ma settimanalmente, dei colloqui, che io so essere avvenuti, ma a cui non ho mai partecipato per varie ragioni. A prescindere dal fatto che, come magistrato, ero impegnato ventitré ore su ventiquattro, tra interrogatori, perquisizioni e perizie, a svolgere il mio lavoro doveroso, non ho mai incontrato Pieczenik, sicuramente. So che c'era, è vero che c'era.

  PRESIDENTE. Sempre nel corso dell'audizione dei dottori Ciampoli e Lupacchini si è fatto riferimento a tale signor Bruno Barbaro, testimone della strage di via Fani e responsabile di una ditta che aveva una sede in via Fani e un'altra poco distante da Forte Braschi. I magistrati ascoltati in audizione hanno espresso le loro opinioni sulla finalità di tale società. Nel corso delle sue indagini, lei ha mai avuto modo di fare accertamenti sul conto di questo signor Barbaro ?

  LUCIANO INFELISI. Accertamenti su Barbaro noi non ne abbiamo mai fatti. Interrogammo tutti i soggetti che avevano un'attività commerciale nella zona, tutti i soggetti che c'erano da tempo, non gli ultimi arrivati. Su alcuni che da poco si erano collocati nella zona la DIGOS fece accertamenti delegati per accertare il quando, il perché e il come. Non escludo che anche su Barbaro siano stati fatti, ma io non ne ho mai avuto riscontro. Gli esiti negativi al magistrato non arrivavano.

  PRESIDENTE. Hanno riscontrato che un'attività di bar era stata chiusa per due anni e poi era stata riaperta per un brevissimo periodo di tempo durante il sequestro, prima dell'attentato – se non ricordo male la loro dichiarazione – e, infine, era stata richiusa subito dopo per andare altrove.

  LUCIANO INFELISI. Subito dopo sono andati via in parecchi, perché a Roma c'era il terrore e, quindi, il fatto è possibile anche per quel bar.

  PRESIDENTE. Lei, però, non ne ha mai avuto riscontro ?

  LUCIANO INFELISI. No, la polizia fece l'accertamento anche su mio ordine preciso, ma non mi è stato mai riferito che ci Pag. 13fosse questa situazione, che è quantomeno equivoca. Non c’è stato questo sviluppo.

  PRESIDENTE. Durante la sua attività di magistrato, nel corso dell'indagine di cui parliamo, ha avuto modo di occuparsi anche della loggia P2, o di esponenti della stessa, o è entrato in contatto, in questa serie di indagini, con ambienti che poi si è scoperto essere contigui alla P2 ?

  LUCIANO INFELISI. Assolutamente no. Non ho mai sentito della P2.

  PRESIDENTE. Passo all'ultimissima domanda. Lei ha parlato più volte del contenuto dei materiali riscontrati in via Gradoli, di cui abbiamo anche noi memoria, e ha detto che sono stati significativamente importanti per il prosieguo. C’è una parte di questi che intende consigliarci di approfondire o vedere ?

  LUCIANO INFELISI. Certamente alla Commissione non interessano le armi e, quindi, neanche la scatola della rosa. C’è una scatola con una rosa che dentro aveva un fucile di alta precisione. Da questo risultava chiaro che ci sarebbe stato un nuovo attentato.
  A via Gradoli, però, c'era una serie di agende, molto importanti. Inoltre – non so alla Commissione quanto questo possa interessare – è stato trovato da Ugolini, il famoso perito balistico, un proiettile che al momento della perizia, dopo che era stato utilizzato per fare fuoco, presentava le stesse caratteristiche, al cento per cento, di uno dei proiettili sparati in via Fani. Come tale, quindi, rappresentava una prova, come la targa e i rapporti con i tedeschi.
  Soprattutto, però, ci sono tutte quelle agende, che contengono tanti nominativi, anche di persone che sembrava non c'entrassero nulla.

  PRESIDENTE. Le avete verificate ?

  LUCIANO INFELISI. Le agende sono state date per la verifica. Tenga presente che, quando arrestammo Libero Maesano, gli venne trovata un'agenda con tanti nominativi. Tutti, però, erano stati mascherati, nel senso che il numero aveva magari una cifra iniziale, mentre l'ultima si moltiplicava per due, per non far risalire ai telefoni. La polizia ci è risalita dopo, ma ci avrà messo sette od otto mesi per fare tutto questo. Non è escluso che ci possano essere nominativi interessanti nelle agende che sono state trovate quel giorno fatidico in via Gradoli.

  GERO GRASSI. Io ho raggruppato le domande per tema. Non mi interessano opinioni, ma fatti. Parto da via Fani. Avete mai fatto indagini sul bar Olivetti di via Fani, che era stato chiuso ? Chi erano i suoi proprietari ?
  Nell'indagine – ovviamente, io posso sbagliare – quella che viene indicata erroneamente come una Mini Minor, in realtà, era una Austin Morris, parcheggiata al posto del furgone di Spiriticchio, al quale la sera precedente avevano tagliato le gomme. Nell'indagine l'Austin Morris, la cui targa era Roma T50354, non appare, nonostante ci sia la foto della macchina e nonostante tale vettura abbia di fatto impedito lo svincolamento a destra della macchina di Moro guidata da Ricci.
  Passo alla domanda. A me risulta, e posso dimostrarlo – chiedo se lei lo sa – che quella macchina, dietro la quale c'erano due persone che hanno sparato, copriva un posto che i brigatisti avrebbero voluto libero, tant’è che avevano eliminato il furgone.
  Quella macchina non scese dal cielo quel giorno. Era di proprietà della società immobiliare Poggio delle Rose, con sede in Roma, in Piazza della Libertà 10, esattamente nello stesso stabile in cui aveva sede l'immobiliare Gradoli, proprietaria degli appartamenti di via Gradoli 96. L'immobiliare era gestita da fiduciari del servizio civile. Vincenzo Parisi, allora funzionario del Ministero dell'interno, poi capo della Polizia, era intestatario di un box nello stesso garage di via Gradoli in cui Moretti parcheggiava i mezzi delle BR.
  Concludo la domanda. La società proprietaria della Mini Minor, o della Austin Morris, era una società dei servizi segreti, Pag. 14esattamente come la Gus e la Gattel, che sono state poi in seguito liquidate. Questa circostanza la riconosce anche il prefetto Angelo Stelo durante l'audizione alla Commissione stragi.
  In conclusione, al posto di Spiriticchio e del furgone, eliminato proditoriamente la sera prima dai brigatisti, si trova una macchina dei servizi segreti. Tutto questo nell'indagine non è stato esaminato ? A me basta anche sapere che non ve ne siete accorti, che non l'avete saputo.
  Questa è la prima domanda.

  LUCIANO INFELISI. Le dico subito una cosa. Se la memoria adesso non mi fa mancare la risposta, c'era una Mini Minor, a ricordo del sottoscritto, che provocò un certo panico quel giorno. Quella macchina venne considerata, infatti, come possibile auto con a bordo degli esplosivi, perché era stata lasciata proprio lì. Pertanto, il problema che ci ponemmo fu quello di far arrivare gli artificieri. Gli artificieri arrivarono, l'intera area venne liberata da tutti, anche da autorità e da politici. D'altronde, io avevo fatto fare un cordone, infatti, non sono stati rovinati i reperti. Quella macchina venne considerata, quindi, come una vettura nella quale era possibile che ci fosse esplosivo. Dopo l'intervento degli artificieri e dopo un determinato periodo di tempo – mezz'ora o un'ora – si accertò che la macchina era innocua; rimase soltanto alla polizia di avvisare i proprietari e di vedere chi fossero, ma non ci fu un'indagine. Se io avessi dovuto fare le indagini su tutte le macchine che si trovavano nei vari posti, sui proprietari e su tutto quanto le riguardasse, mi sarebbe stato impossibile.
  L'operazione dei brigatisti fu perfetta proprio perché bloccò Moro. L'autovettura di Moro non poteva scappare a destra o a sinistra. Arrivati in quel punto, c'era la striscia per terra e si poteva poi andare a destra o sinistra, se la macchina davanti non faceva marcia indietro, sbattendo. A destra o a sinistra non ci fu la funzionalità di qualche ostacolo messo apposta di traverso, o almeno questo non apparve.

  GERO GRASSI. Chiedo scusa, ma nelle foto la macchina di Moro dista almeno venti centimetri dalla 128 di Moretti. Se lei toglie l'Austin Morris, l'appuntato Ricci, sviando a destra, può tranquillamente, seppur nello spazio di tempo, liberarsi.

  LUCIANO INFELISI. Se lei mi dice così, è vero, onorevole. Avrebbe potuto fare una manovra particolare, ma non so...

  GERO GRASSI. Non c’è problema. Sull'Austin Morris indagini non ne sono state fatte, quindi, né voi sapevate che fosse dei servizi segreti.

  LUCIANO INFELISI. Le indagini sono state fatte unicamente per l'incolumità di tutte le persone che erano presenti.

  GERO GRASSI. Voi non sapevate che l'auto fosse dei servizi segreti.

  LUCIANO INFELISI. Lo dice lei che era dei servizi segreti. Io non lo so, non l'ho mai saputo.

  GERO GRASSI. Non lo dico io. Lo dice la Commissione terrorismo e stragi, non io.

  LUCIANO INFELISI. Non intendo che lei dica una cosa non vera. La sta dicendo oggi a me. Io l'apprendo oggi.

  PRESIDENTE. Il dottor Infelisi ha detto che non sono state fatte indagini e che lui non sapeva che la macchina fosse dei servizi.

  GERO GRASSI. Va bene, d'accordo. Andiamo oltre.

  LUCIANO INFELISI. Non abbiamo fatto indagini perché non si potevano fare. C'erano decine di macchine lungo quella strada. Il traffico di Roma è quello che è.

  GERO GRASSI. Perfetto. Il dottor De Francesco, nell'audizione del 7 novembre 1980, dice: «Era il dottor Spinella, dell'ufficio del sostituto Infelisi, che teneva la Pag. 15pellicola scomparsa». La pellicola scomparsa alla quale mi riferisco è quella della signora Cristina Rossi.

  LUCIANO INFELISI. Quella dell'ASCA ?

  GERO GRASSI. Benissimo. Cerchiamo di capire, perché noi abbiamo la necessità di capire. Lei pare essere stato l'unico a vedere queste foto, se le ha viste. Lei ha sostenuto negli anni che esse fossero irrilevanti nell'economia generale del processo.
  Durante i cinquantacinque giorni ci sono state due persone, di stampo morale diverso, che hanno sostenuto il contrario. Una è Pecorelli, il quale ha scritto su OP che in quelle foto c'era la dimostrazione di un personaggio terzo rispetto alle Brigate Rosse, l'altra è l'onorevole Benito Cazora, il quale, nell'intercettazione di via Savoia con Freato, dice di aver saputo che lì c'erano elementi della ’ndrangheta. Ovviamente, sia a Cazora, che è deceduto, sia a Pecorelli, che è stato ucciso, io non lo posso chiedere. Posso chiedere a lei una malizia mia, perché lei, forse anche incautamente, fece il nome della signora Cristina Rossi, tant’è che la signora poi si ribellò perché era stato fatto il suo nome. Poiché lei ha visto queste foto, chiedo se può avere la bontà di riferirci che cosa contenevano.

  LUCIANO INFELISI. Innanzitutto faccio una precisazione. È strano che il questore De Francesco fosse caduto in un errore macroscopico.

  GERO GRASSI. È agli atti ufficiali della Commissione.

  LUCIANO INFELISI. È un errore. Il dottor Spinella non era del mio ufficio. Magari avessi avuto un collaboratore fisso – Spinella era molto in gamba – nel mio ufficio. Vi ho già detto prima che io lo incontravo alle 12.30, oltre che la sera, la notte o in qualche perquisizione particolare. Lui era alla questura, al secondo piano, alla DIGOS, che è un mondo completamente diverso.

  PRESIDENTE. Il questore De Francesco si era dimenticato che Spinella era il capo della DIGOS.

  LUCIANO INFELISI. Era il capo della DIGOS. Io avevo Pierangelini, che era vigile urbano e segretario, e poi c'era un cancelliere capo che serviva per tre sostituti procuratori, si immagini. Utilizzavamo Polizia e Carabinieri.

  PRESIDENTE. Onorevole Grassi, avevano chiesto a De Francesco che fine avesse fatto il rullino. L'avevano chiesto a lui. Nella domanda è insita anche la risposta che ha fornito.

  LUCIANO INFELISI. Quanto al rullino, venne nel mio ufficio, mentre c'era la riunione, una signora, per portare una cosa importante. La facemmo accomodare. Si presentò come una giornalista. Ci domandammo se la sua non fosse una tecnica; senza offesa, ma i giornalisti erano visti sempre con una certa diffidenza. La signora disse di essere separata da suo marito. Il marito era tornato a casa propria la mattina in cui era avvenuto l'eccidio e, avendo visto una numerosa folla che si era assiepata e avendo sentito che vi era stato un finimondo, ma non avendo lui sentito né spari, né altro, era andato su e dal balcone, di traverso, aveva scattato alcune foto. Le chiedemmo quando le ha avesse scattate. La signora rispose che il marito le aveva scattate verso le 10-10.30. Ci confessò sinceramente che questa pellicola era andata a portarla all'ASCA, che però non le aveva volute. L'ASCA era un'agenzia di informazione giornalistica.
  Insieme con Spinella – è esatto il riferimento a lui – le abbiamo viste in controluce. Non erano tante, saranno state quindici-venti o anche meno. Si vedevano un'ambulanza ferma, sette od otto macchine della polizia, quella dei vigili del fuoco, in sostanza tutte cose ex post, Pag. 16quando la strada era stata invasa da paparazzi che erano arrivati – senza offesa: intendo giornalisti e fotografi – e che avevano scattato centinaia e migliaia di fotografie.
  Per non offendere la suscettibilità della signora, anche perché alla prima visione non sembrava esserci nulla di anomalo, dissi al dottor Spinella di prendere lui le foto. Le prese, dicendo che le avrebbe fatte controllare dai suoi uomini per vedere se ci fosse qualcosa di interesse.
  A me pareva che, viste dall'alto, non si riconoscessero persone. Non so Pecorelli dove abbia trovato che quello o quell'altro facessero parte della mafia. Peraltro, che ci stavano a fare ?
  Sa, invece, chi c'era ? C'era sicuramente a via Gradoli qualcuno dei terroristi tra la folla che si assiepò, perché scattò una fotografia al povero colonnello Varisco, che stava superando un balcone insieme al sottoscritto. Questa fotografia scattata quella mattina a via Gradoli è stata trovata in un covo brigatista con due croci e la scritta, sotto di lui e sotto di me: «Da eliminare». A lui, purtroppo, è andata malissimo. Con me non ci sono riusciti perché i colpi sono andati a vuoto.
  Questo per dire che lì c’è stato qualcuno, ma che, quando arrivano cento o duecento persone, ci può essere stato chiunque. Lei ha ragione, ma io l'individuazione di chi potesse esserci non saprei farla. Le foto erano completamente irrilevanti, ma io le affidai alla polizia. Le prese il dottor Spinelli, come ha detto il questore.

  GERO GRASSI. Furono poi sottratte, ma non sappiamo da chi. Furono sottratte. Quel rullino scomparve dalla scrivania di Spinella.

  LUCIANO INFELISI. Come faccio io a saperlo ? Può essere, ma non so come mai.

  GERO GRASSI. Se fosse stato irrilevante, probabilmente non sarebbe successo.

  LUCIANO INFELISI. Questo è un problema interno alla questura. Chissà quando, come e perché le hanno perse o non le hanno perse. Ci sono sessanta fascicoli sul processo Moro, tra corpi di reato e altro. Non lo so.

  GERO GRASSI. In una delle relazioni di minoranza del 1983 c’è un preciso riferimento a lei, che dice testualmente: «Il dottor Infelisi ha puntigliosamente ricordato, come preambolo dell'audizione del 27 gennaio 1981, che nessuno collaborò con il suo ufficio: né i servizi di sicurezza, né il Ministro dell'interno, né i politici, né i procuratori del rapito, e che ebbe rapporti eufemisticamente definiti difficili con il procuratore De Matteo e con il procuratore generale Pascalino».
  Poiché questa è una sintesi riportata, ma io ho letto anche l'originale...

  LUCIANO INFELISI. Le sintesi hanno sempre il dono della sintesi, ma spesso sono carenti.

  GERO GRASSI. Questa è la relazione che ho ricordato prima.

  LUCIANO INFELISI. Io non contesto nulla, si immagini. Spiego meglio la questione in due parole. Le rispondo subito.
  Come ho detto poco fa, a livello di funzionari di Polizia, dei Carabinieri o della Guardia di finanza io ho trovato delle ottime persone, che si impegnavano anima e corpo.
  Per quanto riguarda la struttura che c'era nel Palazzo di giustizia di piazzale Clodio, era carente ai limiti della povertà. Non lo dico perché mi volessero mettere nell'angolino, ma perché erano tutti in queste condizioni. Questa è la prima questione.
  Quanto alla seconda, De Matteo era terrorizzato dalle azioni che io avrei potuto iniziare nei confronti di parenti od onorevoli – o meglio, politici, più esattamente – che erano intorno a Moro per poter, come ho spiegato prima, tirare fuori delle risposte e farli collaborare con noi.
  Pascalino era, a sua volta, di avviso contrario al tenere un determinato ritmo, tant’è vero che la prima serie di ordini di Pag. 17cattura venne bloccata, ma non con un provvedimento. D'altronde, pur non essendoci alcuna gerarchia nella magistratura, un minimo di rispetto nei confronti dei capi d'ufficio bisogna pur averlo, altrimenti si produce un'anarchia giudiziaria, che genera i guai che genera e che vediamo anche oggi sui giornali.
  Gli atti vennero, dunque, rallentati, ma poi vennero regolarmente emessi, dopo un altro mese, o forse venti giorni.
  Questo è vero, dunque, ma in questo senso, senza l'esasperazione «io contro tutti». Quella non è vera.

  PRESIDENTE. È sufficiente leggere la risposta che il professor Infelisi fornisce, nel corso dell'audizione del 1981, a una domanda dell'onorevole La Valle. Nella sintesi lo spiega benissimo.

  LUCIANO INFELISI. Come l'ho spiegato io adesso ?

  PRESIDENTE. Era sempre lei che parlava. Non ha cambiato nel corso del tempo.

  LUCIANO INFELISI. Per quel che ricordo, è così. Non avrei bisogno di dire il falso su questo.

  GERO GRASSI. Vorrei fare una domanda su via Gradoli. Come viene riferito in una delle relazioni di minoranza, lei lamenta il mancato rilevamento delle impronte digitali. Dice che sostanzialmente a via Gradoli non c'era materiale che potesse condurvi all'individuazione di altro e poi aggiunge una frase – questa è precisa, virgolettata – «almeno, quello di cui io ho avuto conoscenza». Lei si riferisce al materiale di via Gradoli.
  Io, che sono un terzo, intuisco, secondo l'italiano, che lei, con quest'affermazione, lascia intendere che parte del materiale di via Gradoli non le è stato fatto vedere.

  LUCIANO INFELISI. Le spiego subito, perché l'italiano è la lingua più bella del mondo, ma bisogna vedere l'intonazione. Molte volte le stesse parole hanno un significato diverso.

  GERO GRASSI. Qui, però, non c’è l'intonazione.

  LUCIANO INFELISI. No, perché, per quanto ne so io, questo non è successo. Sempre per tutto quello che ho detto e per quanto conosco, non per quanto io possa immaginare o inferire politicamente o giudiziariamente come idea – io mi attengo ai dati di fatto – su via Gradoli c’è una verità, ed è questa: i documenti di via Gradoli li ho sequestrati io e, quindi, li avevo tutti.
  Logicamente, io non sono un esperto di balistica. Il magistrato non è esperto di balistica, di crittografia o di impronte digitali. Questi materiali sono stati poi lasciati alla Polizia e ai Carabinieri, i quali hanno svolto importanti accertamenti, che sono stati molto utili. Io non posso neanche immaginare che degli organi di polizia nascondano dei materiali. Se qualcuno ha una prova di questo, è gravissimo. Non me lo posso immaginare.
  Tenga presente che i brigatisti erano molto furbi, molto maliziosi. Pensi che non avevano il telefono, perché sapevano che allora l'unico modo per intercettarli era farlo magari anche con una rete libera, ragion per cui non lo utilizzavano.
  Certo, allora non c'era il DNA. Chissà che cosa si sarebbe potuto trovare. Io ho conosciuto e ho assegnato i materiali. Ne sono arrivati decine e decine. Poi occorrevano mesi per le risposte, ragion per cui le risposte io non le ho più avute, perché la procura generale ha tenuto l'indagine pochi giorni e poi l'ha presa un gruppo di giudici istruttori, Gallucci e altri, che fecero tutto in base a quello che avveniva ogni giorno.

  GERO GRASSI. Lei ricorderà il decreto-legge n. 59 del 21 marzo 1978.

  PRESIDENTE. Il professor Infelisi sicuramente sì. Noi no, perché eravamo bambini.

Pag. 18

  GERO GRASSI. Per voi che non lo ricordate, fu un decreto che autorizzava il Ministro dell'interno a verificare preventivamente atti della magistratura.

  LUCIANO INFELISI. È del 1974.

  GERO GRASSI. Questo è del 21 marzo 1978, immediatamente successivo a via Fani e si incrocia con una dichiarazione sua di oggi che a me, devo dirle, ha fatto paura. Lei, a un certo punto, ha detto testualmente che «gli ordini di cattura furono bloccati da Andreotti». A me non risulta che il Presidente del Consiglio avesse il minimo di capacità giuridica per bloccare ordini di cattura. Nel frattempo, lei...

  PRESIDENTE. Per la precisione, non ha detto così. Per correttezza, ha detto che nell'asse tra il presidente Andreotti e il procuratore generale Pascalino si stabiliva una metodologia – la stessa alla base dell'avocazione – consistente in un atteggiamento un po’ meno velocizzante e un po’ più attendista a tutela della salute dell'ostaggio. Non ha detto che Andreotti ha operato. Ha detto che, in virtù forse di quel decreto, c'era stata una collaborazione ovvia tra il potere politico e il procuratore generale. Io l'ho interpretata così.

  LUCIANO INFELISI. Assolutamente. Tenga presente che l'onorevole Andreotti non ha mai parlato con me. Io sono forse l'unico magistrato della procura di Roma di allora che non abbia mai avuto un rapporto diretto, neanche per parlarci, con l'onorevole Andreotti. L'ho visto una sola volta in chiesa. Era una persona sempre molto tranquilla nelle sue funzioni, non ha mai mandato persone, non ha mai mandato nessuno, altrimenti si sarebbe saputo.
  Io le parlo di Andreotti perché Pascalino diceva che anche il Presidente del Consiglio – che allora era Andreotti – era dell'opinione di non sforzare, di non fare eccessive pressioni.
  Io dicevo che una guerra di questo genere, con cinque morti – che valevano ancora, in quel momento, più dell'onorevole Moro, perché l'onorevole Moro era vivo e speravamo che si potesse salvare, mentre i cinque morti con cinque famiglie, erano una strage – andava affrontata diversamente. C'era questa questione, ma si trattava di impostazioni diverse dal punto di vista della tattica.
  Lei mi ha fatto una domanda più precisa. Mi ha chiesto se conosco quell'articolo. Le dico di più. Cossiga, valendosi di quell'articolo, a un certo punto chiese alla procura della Repubblica la copia degli atti che erano stati emessi allora.
  In tutta sincerità, io avevo avuto conoscenza – dall'onorevole Cossiga stesso – che vi erano degli stranieri, dei consiglieri, diciamo così, che ogni tanto si riunivano presso di lui. Poiché io avevo timore che, se ci fosse stato dietro qualche straniero, la vicenda si potesse allargare e dato che ogni sbadiglio che si faceva il giorno dopo stava sui giornali, non per responsabilità del povero Cossiga, ma perché nella trafila gli atti si perdono, e voi sapete molto meglio di me come sia possibile una cosa del genere. Io rifiutai di mandarglieli, dicendo che per il momento non erano ancora compiuti. Venne da me Ugo Macera, con cui io avevo lavorato tante volte – era il questore di Roma, il terribile Macera; allora era il capo della Criminalpol, un poliziotto vero, di quelli duri, il top – e mi disse che assolutamente li avrei dovuti mandare. Io gli risposi che c'erano notizie che il Ministero dell'interno aveva saputo e non ci aveva trasmesso. Quando il Ministero dell'interno avesse collaborato al cento per cento – parlavo di notizie non immediate – allora noi avremmo mandato tutto. Oggettivamente, però, io non potevo mandare in giro interrogatori di testimoni che rischiavano la vita. Poiché la Polizia e i Carabinieri mantenevano il segreto, il Ministero dell'interno li avrebbe dovuti chiedere a loro.
  Ci fu, dunque, una questione. Poi io me ne andai.

  GERO GRASSI. Mi dica se ho ricostruito bene questo passaggio. Ovviamente, Pag. 19posso aver sbagliato. Il 25 aprile 1978 il procuratore della Repubblica Giovanni De Matteo scrive una richiesta di formale istruzione indirizzata al giudice istruttore. Lo stesso giorno giunge alla procura decisione di avocazione da parte del procuratore generale della Corte d'appello Pascalino. Gli atti, a questo punto, arrivano alla Corte d'appello e vengono affidati a Guido Guasco. Nel frattempo, a Guasco vengono consegnati gli ordini di cattura, da lei emessi, contro dodici brigatisti, tra i quali ci sono Gallinari, Morucci e Faranda. Gli ordini di cattura – i suoi – sono sospesi dal procuratore generale Pascalino. Ci siamo fino a qui ?

  LUCIANO INFELISI. Sì, onorevole.

  GERO GRASSI. Dopodiché, ci sono alcuni ordini di perquisizione contro le Brigate Rosse, tra cui quello per la tipografia di via Pio Foà, che sono consegnati dalla magistratura all'UCIGOS.

  LUCIANO INFELISI. Si trattava del nuovo ufficio centrale delle varie DIGOS.

  GERO GRASSI. Tali ordini hanno una datazione della magistratura anteriore al 18 aprile 1978 e una datazione posticipata dell'UCIGOS, modificata manualmente quattro volte – io ho le copie – per spostare al 17 maggio l'effettuazione dell'ordine di perquisizione. Il tema è che, in relazione alla tipografia, per voi la notizia era del 30 marzo. Voi avete fatto i mandati, ma le date sono state modificate e la perquisizione è stata eseguita il 17 maggio, quando il tutto non serviva più, perché Moro era morto. Potevano quelli dell'UCIGOS modificare le date dei mandati di perquisizione emessi da voi ? E perché Pascalino sospese gli ordini di cattura ?

  LUCIANO INFELISI. Per quanto riguarda la prima domanda, la risposta è implicita. Io credo che nessuna autorità di polizia possa assolutamente modificare la data dell'ordine di perquisizione che viene emesso. Sarebbe un falso in atto pubblico gravissimo e non se ne saprebbe il motivo. Spesso succede – glielo dico sinceramente – che non tanto un ordine di cattura, quanto soprattutto un ordine di sequestro o di perquisizione, che implica, per esempio, l'impiego di uomini, mezzi e persone, venga eseguito in un lasso di tempo successivo. Viene eseguito in un lasso di tempo successivo, senza che però qualcuno manometta e alteri la data. Se c’è stata quest'alterazione o meno, logicamente, l'ultimo a poterlo sapere sarei stato io.
  Io non sto difendendo me, non sto in una situazione difensiva. Cerco di essere collaboratore per illuminarvi di tutto ciò che è avvenuto, per quello che ricordo io. Questo assolutamente non si poteva fare.
  Perché Pascalino sospese gli ordini ? Intanto gli ordini di cattura erano partiti. Quelle persone erano ricercate.

  GERO GRASSI. Non poteva fare l'avocazione, allora.

  LUCIANO INFELISI. L'avocazione poteva essere fatta. Il fatto che fosse stata chiesta subito, bruciando i tempi, l'istruttoria formale fece sì che la procura generale non avesse neanche più in mano la possibilità di agire per conto proprio.
  La procura della Repubblica ha fatto tutto quanto per conto proprio. L'indagine viene poi avocata, ma nel frattempo lo stesso De Matteo, non il sottoscritto, chiese al giudice istruttore di proseguire insieme. È andato alla procura generale e la procura generale, come pubblico ministero, ha affiancato il giudice istruttore, che è diventato il dominus della vicenda. Non so se mi sono spiegato.
  Vede che questo ha riscontro con ciò che le dicevo.

  PAOLO BOLOGNESI. Faccio solo due domande velocissime.
  Per compiere il sequestro di via Fani, ci doveva essere sicuramente una pianificazione, un'organizzazione piuttosto attenta e complessa.

  LUCIANO INFELISI. Assolutamente sì.

  PAOLO BOLOGNESI. Poiché il percorso veniva deciso giorno per giorno dal Pag. 20maresciallo Leonardi, avete approfondito e indagato su questo aspetto, per vedere come Moro sia capitato proprio quel giorno, in quel momento, lì e via di questo passo ? Questa è la prima domanda.

  LUCIANO INFELISI. La risposta è che, purtroppo, l'unico a sapere quali fossero i criteri di Leonardi era Leonardi stesso. Non c'erano indicazioni. Le dico questo anche per esperienza personale.
  Io ho avuto la scorta per vent'anni perché, oltre al fatto che le Ronde proletarie mi spararono sotto casa tre colpi mentre uscivo con la toga per andare in procura, in dibattimento, c'erano stati anche attentati con una bomba molotov che mi avevano mandato a fuoco la macchina. Proprio per questo so che la tecnica era quella di cambiare ogni giorno il tragitto. Io debbo dire, con tutta sincerità, che non mi affidai neanche troppo a quello che mi dicevano. Ero io che suggerivo di fare il doppio giro, di tornare indietro e via discorrendo.
  Moro, uomo di studio e impegnato politicamente come era, sicuramente non si sarà mai interessato di questo aspetto, ma Leonardi perché ha scelto quella strada ? Quella era una strada che, a quanto io ho saputo, veniva normalmente seguita da Moro. Non era un fatto eccezionale. Non se n’è andato per una stradina da cui non era mai passato. Non c'era motivo di domandarci come mai avesse scelto questo iter. Era un iter ordinario, normale.

  PAOLO BOLOGNESI. Era normale, ma, se quel giorno lì avesse deciso di fare un'altra strada...

  LUCIANO INFELISI. Si sarebbe salvato, lo so. Ha ragione.

  PAOLO BOLOGNESI. Il dubbio può venire: qualcuno gliel'ha suggerita ? La sera prima sono andati a tagliare le gomme. C’è tutta un'organizzazione che fa pensare che quanto meno dalla sera prima i responsabili sapessero che Moro doveva passare da lì. Questo è il punto.
  C’è un'altra questione. Il comportamento della SIP durante il sequestro e la prigionia di Moro, secondo le dichiarazioni dell'allora capo della DIGOS Spinella, fu di totale non collaborazione. Stiamo parlando della SIP, della società dei telefoni. Non un solo telefonista fu bloccato a seguito del blocco delle conversazioni che consente di risalire rapidamente alle chiamate. Spinella giunge ad affermare che fece due segnalazioni all'autorità giudiziaria e che la SIP avrebbe dovuto essere denunciata. Non fa riferimento al comportamento di alcuni, ma si riferisce all'atteggiamento dell'azienda nei confronti degli inquirenti e giunge ad affermare che gli sviluppi della vicenda Moro sarebbero stati completamente diversi.
  Ricordo il blackout telefonico durante il sequestro. Lei chiese l'intervento, una volta giunto sul luogo, di una squadra di tecnici SIP. Ricordo anche l'interruzione di tutte le sei linee telefoniche di derivazione del quotidiano Il Messaggero il 14 aprile 1978, che impedì alla DIGOS di risalire al telefonista.
  Chiedo la ricostruzione, se possibile, di quei fatti, tenendo anche conto che il direttore generale, Michele Principe, era iscritto alla loggia massonica P2. Su questi aspetti che indagini sono state fatte ?

  LUCIANO INFELISI. Parla del direttore generale della SIP ?

  PAOLO BOLOGNESI. Sì, Michele Principe.

  LUCIANO INFELISI. Io non so se quello che capitava in quella via avvenisse per ordine del direttore generale, che sta ai vertici dei vertici. Le dico semplicemente questo: al momento del fatto, anzi subito dopo, ci fu un blackout di diversi minuti, forse venti o trenta. I telefoni non funzionavano. La polizia superava questo problema perché allora non c'erano i cellulari, ma c'erano le radio e, quindi, tutte le comunicazioni nostre avvennero normalmente.
  Io feci venire un'apposita squadra di soccorso da parte della SIP-Teti – si Pag. 21chiamava così – che operò sui cosiddetti reparti linea della zona. Secondo me, qualcuno aveva fatto un sabotaggio. Questa è un'ipotesi. Uno pensa sempre male, essendo pubblico ministero.
  Spinella aveva ragione ad arrabbiarsi, ma non era di questo che si lamentava. Spinella si lamentava del fatto che, quando si chiedeva di collegarci con questo telefono o di intercettare quest'altro, tra il dire e il fare passasse molto tempo. Debbo dirle che quel metodo è stato seguito in tante vicende giudiziarie. C’è una burocrazia assurda, che non permette alla polizia di intervenire immediatamente e di fare quelle intercettazioni ad horas che molte volte sono necessarie. Spinella avrà denunciato questo, ma il relativo processo sarà proseguito a parte.
  Comunque, condivido quello che dice Spinella, ma arrivare a una denuncia come fatto di reato mi lascia perplesso, non conoscendo fatti più specifici che potessero concretare un elemento di colpevolezza di qualcuno.
  Il fatto poi che Principe fosse della loggia massonica...

  PAOLO BOLOGNESI. Tutto torna, alla fine.

  PRESIDENTE. Dopo trentasei anni noi le cose le sappiamo, ma chi indagava in quei cinquantacinque giorni no. Presumo che il dottor Infelisi non sapesse neanche cos'era la P2. Io gliel'ho chiesto alla fine, col senno di poi.

  PAOLO BOLOGNESI. Per carità, l'hanno scoperta cinque anni dopo, o tre anni dopo.

  LUCIANO INFELISI. Io non sapevo chi fosse questo Principe. Può essere stato lui, ma ci sono i tecnici. Io ho diretto l'inchiesta per due anni sulle intercettazioni telefoniche abusive e so com’è strutturata la SIP. Ci sono reparti, ognuno dei quali è autonomo, con capi e vicecapi. C’è una gerarchia. È una struttura complicata. Non c’è un capo con sotto quattro persone che potesse comandare di fare così a una data ora in un dato giorno, il che avrebbe poi provocato il dubbio nell'operaio o in altri.
  Lascio qui in campo alcune ipotesi, ma non ho niente per poterle sostenere.

  PAOLO BOLOGNESI. Capisco benissimo che la P2 non l'avevano ancora scoperta, per carità, però dal 1978 ad oggi abbiamo avuto un sacco di processi e di Commissioni.

  PRESIDENTE. Infatti, proprio per questo ho detto che per noi, dopo trentasei anni, è facile dirlo. Allora non era così.

  PAOLO BOLOGNESI. Ma quando la P2 l'avevano già scoperta, su tutti questi fatti io penso che un approfondimento sarebbe stato molto positivo.

  LUCIANO INFELISI. Non poteva essere positivo. Gli investigatori stanno occupandosi di una strage e vanno a vedere chi è quello della SIP ?

  PRESIDENTE. Il collega dice che nel corso dei sei processi Moro, vista la segnalazione, si sarebbe potuto approfondire quel blackout. Non viene solo a lei in quel momento, perché pensa male, l'idea di un sabotaggio. Diciamo che era la cosa più ovvia da pensare. Improvvisamente c’è qualcuno che forse l'ha provocato, come ha pensato lei. Magari lo stesso soggetto l'ha anche sistemato.

  LUCIANO INFELISI. La squadra è venuta e ha messo a posto tutto. Disse che si trattava di un guasto. Se poi fosse un guasto doloso, colposo o altro, non lo so.

  FEDERICO FORNARO. Credo di interpretare anche gli altri colleghi nel ringraziarla, perché devo dire che la memoria, a tanti anni di distanza, non è proprio semplicissima da esercitare.
  Poiché l'obiettivo delle nostre audizioni, in questa fase, è di raccogliere spunti per possibili futuri approfondimenti senza andare a ricalcare pedissequamente quello che è stato fatto da precedenti Commissioni, Pag. 22io vorrei chiedere la sua opinione su due aspetti che ruotano attorno alla scoperta del covo di via Gradoli.
  Nel corso dell'audizione presso la nostra Commissione e, precedentemente, nel libro che scrisse insieme a due giornalisti, Segreto di Stato, il presidente Pellegrino individua sostanzialmente una torsione nei cinquantacinque giorni, attorno alla metà di aprile del 1978, dividendo quasi un prima e un dopo. Prima di quella data c’è un'attività molto significativa dal punto di vista investigativo; in estrema sintesi, c’è la volontà di ricercare tutte le soluzioni e tutte le strade possibili per salvare la vita di Moro e liberarlo. Dopo quella data, quindi dopo Gradoli in buona sostanza, dopo la metà di aprile, viceversa l'attività investigativa prende caratteri più spettacolari, ma nella sostanza quell'obiettivo sembra affievolirsi.
  Visto che lei è stato al centro dell'attività di tipo giudiziario in quei giorni, vorrei sapere se anche lei ha avuto la sensazione che ci sia un prima e un dopo, ossia che non ci fosse fino in fondo, nella seconda parte del mese, l'obiettivo iniziale, che era quello di salvare Moro.
  In merito si apre il tema dei documenti, ma non vorrei arrivare lì. Mi interessa capire se anche lei condivide questa periodizzazione di un prima e un dopo rispetto a via Gradoli.
  Tornerò poi, nella seconda domanda, su via Gradoli.

  LUCIANO INFELISI. Queste sono valutazioni che si inseriscono nell'evoluzione dell'istruttoria sommaria svolta dalla procura della Repubblica. Come ho cercato di spiegare prima, dopo essere andati avanti con un dinamismo particolare, cominciò, forse dopo via Gradoli, ma non so se questo sia collegato con via Gradoli o meno, a esserci un invito a essere più prudenti.
  Tale invito poi sbocciò, come ha visto lei, nell'avocazione, anche se per pochi giorni, da parte della procura generale, forse perché non gradiva i ritmi che erano stati imposti e che le autorità di polizia, la procura della Repubblica e il sottoscritto volevano imprimere alle indagini. Penso a perquisizioni fatte anche in zone molto particolari, che avrebbero potuto portare alla scoperta dell'esistenza di Moro lì. Era meglio cercare un discorso più attendista e seguire altre strade.
  Queste sono tutte valutazioni di carattere politico-giudiziario, che però non competevano a me. Questa è una delle ragioni – formalmente fu ineccepibile – per cui ci fu poi l'avocazione, anche se l'avocazione non durò che pochi giorni. Noi avevamo chiesto di procedere, come prevedeva il Codice, tenuto conto della complessità delle indagini, con il rito formale. Ci fu Gallucci che in prima persona seguì il processo.

  FEDERICO FORNARO. Come tempistica, quindi, coinciderebbe con la sequenza dei fatti.

  LUCIANO INFELISI. Non li posso mettere proprio così vicini, ma in sostanza sì.

  FEDERICO FORNARO. Passo alla seconda domanda, che riguarda il tema relativo alla scoperta del covo di via Gradoli. A suo giudizio – e anche con una valutazione a oltre trent'anni di distanza – lei si è fatto un'idea se il covo di via Gradoli sia stato fatto scoprire apposta dai brigatisti, se qualcuno di loro, contro Moretti, l'abbia fatto scoprire, oppure se qualcuno che controllava via Gradoli e che sapeva chi c'era l'abbia fatto scoprire ?

  LUCIANO INFELISI. L'ultima ipotesi è la più difficile, perché la porta del covo di via Gradoli, per quanto ricordo io, anche dopo che erano intervenuti i vigili del fuoco, era chiusa completamente, tant’è che si dovette poi sfondare in maniera evidente. Se c'era qualcuno dall'esterno che controllava, non avrebbe potuto entrare dentro, aprire la doccia, andarsene e poi chiudere. Mi pare molto strano.

  FEDERICO FORNARO. Salvo che avesse le chiavi.

Pag. 23

  LUCIANO INFELISI. Salvo che avesse le chiavi o che fosse un complice, certo.
  In relazione alla doccia, capita spesso che i vigili del fuoco arrivino perché ci sono docce o bagni che perdono acqua. È un'ipotesi normale.
  L'ipotesi di un sabotaggio interno – chiamiamola così – non ha avuto poi un riscontro specifico, perché i soggetti hanno lasciato, mi pare, ancora vivande sul fuoco. Mi è parsa una situazione di assoluta normalità.
  Se fosse stato fatto appositamente, i brigatisti rimasti fuori – non venne arrestato nessuno in quel momento – avrebbero potuto benissimo colpire il traditore: ce ne avrebbero potuto parlare negli interrogatori o avrebbero potuto farlo oggetto di un'attività omicidiaria, o di altro. È difficile.
  È un dubbio che rimane, perché sia successo. Chi può averlo fatto ? Sarebbe stato un suicida, perché questo fatto non solo ha impedito altri fatti delittuosi, ma ha portato anche prove provate sulla responsabilità di chi ha agito. È proprio una situazione particolarissima.

  FEDERICO FORNARO. Ho un'ultima domanda che mi è venuta ascoltandola. C’è un altro aspetto che, a distanza di anni, appare poco comprensibile. Nel momento in cui il posto viene scoperto dai vigili del fuoco e, quindi, chi fa l'intrusione si rende conto che quello è un covo brigatista, la notizia diventa rapidissimamente pubblica. Già nel telegiornale dell'una, se non ricordo male, la notizia viene riportata, al punto che Moretti, in uno dei suoi libri, racconta che era fuori Roma e dice: «Quella è la casa in cui abitavo io». In altri termini, non sarebbe stato più proficuo per le indagini, invece, non dare la notizia e, quindi, controllare il covo e capire chi vi sarebbe ritornato ?

  LUCIANO INFELISI. Sicuramente la risposta è affermativa. Tenga presente, però, che quel covo non è stato scoperto per un'indagine specifica, ma nientepopodimeno che dai vigili del fuoco, i quali arrivarono sul posto con tanto di sirena spiegata, attirando l'attenzione di numerose persone.
  L'ultimo a saperlo sono stato io, perché, quando la polizia arrivò, mi avvisarono e io arrivai sul posto con Varisco. La polizia era già lì. Per questo dico che scattarono quella fotografia che ho menzionato prima. Piazzale Clodio rispetto a via Gradoli è vicino, ci si impiega poco tempo, ma noi arrivammo alle 11-11.30. La notizia si era già sparsa. C'era tanta gente per strada, avevano trovato armi, si parlava di brigatisti. Ogni cosa a quel tempo assumeva un'aura di tregenda da film.
  Indubbiamente, sarebbe stato meglio se fosse stata un'operazione di polizia silenziosa, come con i famosi covi per i quali si aspetta e si vede. Tuttavia, le modalità sono state quelle descritte, in relazione a tale evento.
  Nessuno, però, rivelò quello che c'era dentro. I giornali dissero che era stato scoperto il luogo in cui era stato trattenuto Moro per alcuni giorni, ma Moro non è mai stato trattenuto lì, non c’è mai stato. Era una base di azione dei brigatisti.

  LUCIO ROSARIO FILIPPO TARQUINIO. Sarò brevissimo. Le chiedo una sensazione, professore, non giudice...

  LUCIANO INFELISI. Io preferisco sempre essere chiamato giudice, anche se adesso faccio il professore.

  LUCIO ROSARIO FILIPPO TARQUINIO. Lei ha detto una frase, che le è sfuggita: «Sarebbe bastato un giubbotto antiproiettile».
  Dovendo noi cercare di arrivare a qualche verità, a cui non si è mai arrivati, osservo che il giudice evidenzia certamente un problema: non solo non c’è il giubbotto, ma non c’è nemmeno un'attenzione da parte della scorta, nel senso che erano tutti tranquilli. È possibile che per Moro, che aveva una superscorta di quel tipo, non ci fosse un minimo di preallarme rispetto al terrorismo in generale, al di là di tutto ?Pag. 24
  Questo è il punto. Da questo poi si può partire anche noi per indagare o per fare indagini in maniera completamente diversa. Vorrei sapere se ho ben interpretato quella sua frase.

  LUCIANO INFELISI. Sono perfettamente d'accordo. C’è stato un grave difetto di attenzione per il presidente Moro, tenendo conto che ci trovavamo nel 1978, quando gli attentati erano all'ordine del giorno. Di giorno e di notte la mia vita era incontrare l'ingegner Pastorelli, che dirigeva i vigili del fuoco, per i vari attentati incendiari e esplosivi che avvenivano.
  Moro non aveva una macchina blindata. Questo sarebbe stato l'ABC. Lasciamo perdere che ci sia ora questo pauperismo, ma normalmente hanno tutti l'auto blindata a livello di altissime cariche. La scorta era completamente tranquilla non per colpa dei suoi componenti, ma per mancanza di notizie. Questo si collega con ciò che dicevo all'inizio: la mancanza di infiltrati o di gente che seguisse il tema. Gli schedari che riguardavano le Brigate Rosse erano vuoti perché le attenzioni erano rivolte altrove. Non dico altro.

  GERO GRASSI. No, dica, ci aiuti.

  LUCIANO INFELISI. Io sono l'ultimo che possa mettersi a sostituire le valutazioni di chi ha responsabilità, come i capi della polizia, ma non si può lavorare così. C’è stata una generale noncuranza. Forse non si pensava che fosse possibile che l'onorevole Moro, che aveva cinque uomini di scorta, potesse essere rapito. Si possono avere venti uomini di scorta, ma bastano tre persone ben organizzate... È la famosa sorpresa di chi agisce. Chi fa questo mestiere lo sa bene.
  Questo è il punto. Sono d'accordo.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Grazie, professor Infelisi, per la sua presenza qui, che ci è di aiuto nel nostro lavoro. Le faccio due domande.
  In primo luogo, mi sembra di capire, dalle valutazioni che ha espresso, che, anche in base alla sua esperienza, lei sia convinto che la responsabilità non dico esclusiva, ma primaria della progettazione e dell'esecuzione del rapimento e dell'attentato in via Fani sia da imputare alle Brigate Rosse, come organizzazione militare e politica. Riduce, quindi, anche per mancanza di elementi concreti, lo spazio relativo ad altre ipotesi, per esempio ai servizi.
  Io le chiedo se, per la sua convinzione e anche in base agli elementi che ha riscontrato e alle inchieste che ha condotto, sia ipotizzabile la presenza e la partecipazione in via Fani di altri elementi brigatisti, tuttora sconosciuti, e se sia stato messo a conoscenza, nella sua inchiesta di allora, di informative dei servizi segreti che risultano depositate oggi all'Archivio di Stato e che sono consultabili. Si tratta di fonti non meglio specificate del SISMI che individuarono allora in via Fani la presenza di un paio di brigatisti irregolari. In caso affermativo, vorrei sapere se si è indagato in quella direzione.

  LUCIANO INFELISI. La risposta è affermativa. Io ho sempre avuto la convinzione, basata su molti argomenti, che i brigatisti non siano stati solo quelli, né nella fase preparatoria, né nella fase successiva. Questa convinzione mi viene non solo dall'inchiesta Moro, ma anche da altre inchieste.
  Ci sono delle persone che hanno avuto delle posizioni «anfibie», diciamo così. Sono rimaste fuori dall'attenzione degli inquirenti, che richiede pur sempre elementi concreti, precisi, concordanti e specifici in relazione al fatto. Sicuramente ci sono state.
  Non solo, ma i rapporti dei servizi di sicurezza, per prassi – non posso dire per legge – comunque non vengono mai mandati al magistrato. I servizi di sicurezza fanno il rapporto interno, rivolgendolo all'attenzione del direttore. Il direttore poi, tramite coloro che fanno i rapporti di colleganza, una volta con la Guardia di finanza, una volta con i Carabinieri, una volta con la Polizia, passa questa notizia con dei gradi (informatore 1, informatore Pag. 252, informatore 3), che sono gradi di affidabilità alle autorità di polizia in senso lato, che poi le sviluppano. Le autorità di polizia, quando sviluppano le notizie, non riferiscono mai che vengono dai servizi di sicurezza. Le parole «servizi di sicurezza» o «servizi segreti» sono ignote a tutti gli atti giudiziari. Lei le cercherà nell'Archivio di Stato e non le troverà, perché non è all'Archivio di Stato che le deve trovare.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Si tratta di documenti declassificati in base a una direttiva. C’è stata, però, un'inchiesta giornalistica e sono stati pubblicati.

  LUCIANO INFELISI. All'Archivio di Stato ? Non è lì che deve cercarli. Ci sono tanti altri archivi, che sono quelli che sono. Alla magistratura non arrivava mai, non doveva e non poteva arrivare nulla. Proprio per legge noi non abbiamo rapporti con i servizi segreti. Io parlo con ufficiali di polizia giudiziaria, tutti, fino al questore e al generale.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. All'epoca non si indagò su altre ipotesi, su altre presenze ?

  LUCIANO INFELISI. No, si cercò di allargare al massimo l'indagine per vedere chi ci fosse, non chi ci fosse visivamente, ma soprattutto chi avesse collaborato, chi avesse affittato, chi fosse andato, con chi avesse avuto rapporti Tizio o Caio. Infatti, poi sono stati arrestati tanti altri soggetti, ma sa quanti brigatisti sono rimasti fuori ?

  PRESIDENTE. Mi pare, rispetto alla domanda, che l'onorevole Garofani chiedesse l'estensione di altri profili di indagine non connessi al «regolare» o all’«irregolare» delle BR, ma ad altro. Il dottor Infelisi risponde dicendo che lui ha avuto sempre una convinzione che ci fossero «irregolari» delle BR che non si sono evidenziati, che non si sono conosciuti, e che sarebbero stati sul posto.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. La seconda domanda riguarda le presenze straniere in quel comitato a cui lei ha fatto riferimento, che sono state oggetto della nostra recente audizione col dottor Ciampoli, che ha avuto riflessi anche sulla stampa. Lei l'avrà senz'altro visto.
  Mi sembra di capire che ci fosse una certa diffidenza sua, all'epoca, una riservatezza nel custodire gli esiti delle indagini e del lavoro che stava facendo. Già in quel momento lei aveva qualche dubbio, qualche sospetto, su come si comportavano e su come stavano agendo quei consulenti. Che cosa ritiene oggi, alla luce degli sviluppi e delle cose lette ?

  LUCIANO INFELISI. Ne avevo per una triplice ragione.
  In primo luogo, perché i questori non erano legittimati ad avere alcuna notizia, neanche nel rapporto verbale con il magistrato. Questa era la prima diffidenza.
  In secondo luogo, in mera ipotesi – siamo nel 1978, ma le convinzioni si formano anche fino agli anni Novanta – interventi stranieri potevano esserci stati a livello di input. Parlo di mera ipotesi, di un'ipotesi scolastica, che però non si poteva escludere.

  FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Al momento non poteva escluderla.

  LUCIANO INFELISI. Non potevo assolutamente escluderla. Poi, quando interrogammo i brigatisti, dichiararono che erano stati loro, che era tutta responsabilità loro.
  Indubbiamente in alcuni processi, come l'attentato al Papa, sono usciti fuori interventi stranieri pesantissimi, in termini di mandanti o di altro. Ne abbiamo avuto le prove provate. Come mera ipotesi, non si poteva escludere questa eventualità.
  In terzo luogo, per quanto riguarda gli americani, noi non avevamo mai avuto e non avevamo – io parlavo sempre con il colonnello Cornacchia dei Carabinieri o con Spinella – una grande stima delle metodologie che usavano, che erano da film d'azione. Non conoscevano perfettamente qual era il substratum su cui scavare qui in Italia, ossia il ribellismo, che era diventato – per il buonismo che spesso Pag. 26era stato, purtroppo, evidente – un vero e proprio terrorismo. Non mi fidavo di loro neanche dal punto di vista delle capacità.
  Io non potevo partecipare. Una volta Cossiga, Ministro dell'interno, mi chiese se volessi andare anch'io. Risposi di no. Non volevo avere rapporti con qualcuno di cui un domani magari si fosse venuto a sapere e su cui mi potessero venire a fare domande. Gli dissi che erano tutte cose extra ordinem che aveva tutta la legittimità di poter svolgere lui, ma non certo un magistrato. C'era già tanto lavoro da fare.

  MASSIMO CERVELLINI. Dottor Infelisi, probabilmente ho capito male, ma lei ha fatto un'affermazione: «Dei servizi non avemmo sentore». Nelle ricostruzioni, non solo immediate, ma anche in termini storici, anche successive, nonché nelle indagini, nelle inchieste e nei processi, a me parrebbe che una presenza dei servizi sia palese e manifesta: moto, macchine, società e appartamenti ad esse intestati, sabotaggi, blocco di telefoni e, per farle un esempio, la grande perizia nella capacità di fuoco.
  È chiaro che i servizi, come ha detto, camuffano la loro presenza, ma appunto, proprio per questo motivo, io rilevo che ci sia più di un sentore. Che domanda si è posto lei, anche nel corso della storia, ripeto, non solo in modo legato ai tempi e ai giorni della sua azione, ma anche successivamente ? Questa è la prima domanda.
  La seconda è una curiosità. Lei ha detto che allora non c'era l'esame del DNA o comunque una tecnologia di cui, invece, oggi possiamo disporre. Qualora l'avesse avuta, qualora avesse potuto disporre di quella tecnologia e di determinate tecniche ormai in uso, le avrebbe usate ed eventualmente su quali reperti ? Si sente di suggerire, qualora fosse possibile, qualcosa in questo senso ?

  LUCIANO INFELISI. Per quanto riguarda la prima domanda, io posso esprimere una mia valutazione successiva a tutti questi avvenimenti, per la quale si può non escludere un intervento di servizi. È tutto ipotetico, però. Per esempio, se c’è stato mai un sabotaggio, che poi non è stato neanche utile, per quanto riguarda la SIP, non lo sappiamo. Non sappiamo se siano stati i servizi segreti. Non sappiamo tante altre cose.
  I servizi segreti, purtroppo, si sporcano le mani, come la massaia in cucina. Devono stare spesso a contatto con personaggi di criminalità, soprattutto terroristica. Se noi andiamo a vedere oggi i servizi segreti, osserviamo che hanno degli stretti «rapporti» con i terroristi stranieri, perché vanno valutati e seguiti. Conoscono e fanno. Non so se mi spiego. In questo caso siamo in un mondo meramente ipotetico, che purtroppo – e per fortuna – a me non compete.
  L'aspetto che mi competeva era quello delle indagini. Io ho sempre diretto le indagini sul posto, mai dallo studio di piazzale Clodio o dalla procura. La prima cosa era la fuoriuscita. Ho cacciato via tutti a via Fani, tant’è che ho avuto anche da generali e onorevoli delle gravi rimostranze – lo hanno riportato in un libro, Il delitto Moro, scritto da Padellaro e da Martinelli – offesi perché io non volevo che si rovinassero i bossoli o altro. La scena del delitto deve essere rispettata al cento per cento.
  Se noi avessimo avuto anche la possibilità di trovare un DNA, sarebbe entrata una squadra specializzata e dappertutto, soprattutto in bagno o in cucina, si sarebbe riusciti a trovare dei DNA, che forse non avrebbero riguardato soltanto questi soggetti, ma anche altri. Sarebbe stato necessario usare tutti questi metodi, ma l'avrebbe fatto qualsiasi funzionario di polizia. Sono tutti esperti investigatori. La risposta, quindi, è affermativa. Li avrei usati, certo.

  STEFANO LUCIDI. Lei ha già risposto a tanti quesiti che noi avevamo preparato, ragion per cui io ne ho formulati altri in corso d'opera.
  Sia dalle domande sia dalle risposte, soprattutto da quelle emerse nei giorni scorsi, nelle precedenti audizioni, nonché da quanto affermato da lei oggi, emergono Pag. 27due aspetti nella gestione della vicenda. C’è un aspetto prettamente investigativo e giudiziario e poi c’è un aspetto di gestione prettamente politica. Anche da quanto ha affermato lei oggi sembra che l'aspetto politico nella gestione di questa vicenda sia prevalente, predominante. Le chiedo un commento al riguardo.

  LUCIANO INFELISI. Le dico subito che il caso era talmente straordinario, dal momento che riguardava l'onorevole Moro, il presidente del Consiglio nazionale della DC, e una strage di cinque persone, che colpiva al cuore la politica italiana di allora. È logico che ci sia stato a tutti i livelli, dai vari partiti, un intervento, un interessamento, un impegno.
  La grande lotta all'inizio – almeno per quello che riguarda me, successivamente non so – è stata quella di porre dei paletti, non per antinomia con quelle autorità, di cui si comprendeva la ratio, ma perché l'inchiesta giudiziaria doveva essere scevra da interpretazioni politiche che avrebbero potuto sviarla. Doveva essere considerata un'inchiesta giudiziaria come le altre, dal punto di vista delle tecniche, degli accertamenti, dell'istruttoria e del vaso probatorio.
  Le interferenze, il venir meno di una collaborazione da parte di politici o l'eccessiva invadenza da parte di altri comportava una lotta, ma questa c’è stata sempre, anche per processi grossi che io, per esempio, ho seguito successivamente – non li cito – in cui c’è stato l'intervento dal bianco al nero, dal giallo al rosso.

  STEFANO LUCIDI. Svolgo altre tre considerazioni rapidissime. In primo luogo, vorrei sapere se all'epoca avevate notizie o se avete considerato il fatto che pochi mesi prima delle vicende di via Fani e di quelle successive c'erano state azioni simili in Germania ad opera della RAF.

  PRESIDENTE. Il senatore Lucidi fa riferimento alla Rote Armee Fraktion.

  STEFANO LUCIDI. L'altra domanda è se lei ha mai partecipato alle riunioni al Viminale. Mi sembra che vi abbia accennato prima.
  L'ultima domanda è se nei fatti specifici di via Gradoli fu svolta un'investigazione sulla dinamica delle infiltrazioni d'acqua, con un calcolo delle tempistiche.

  PRESIDENTE. Il senatore Lucidi fa riferimento, se posso completare la domanda, alla difficoltà di riprodurre lo stato della doccia sul bastone che va in un dato posto. A molti è sembrata una cosa non facilmente realizzabile per pura casualità.
  Ho completato bene la domanda ?

  STEFANO LUCIDI. Diciamo che in ambito scientifico c’è un calcolo probabilistico che indica una probabilità su qualche miliardo che un fulmine su un negozio di ferramenta generi un Boeing 747. C’è una probabilità, ma è una su svariati miliardi.

  LUCIANO INFELISI. Ogni inchiesta che si rispetti ha parecchie zone buie. Io, però, mi sono sempre chiesto, se ci fosse stata l'azione umana per far scoprire via Gradoli, quale sarebbe stato l'intento. Qui entriamo, però, nell'iperuranio. Quale sarebbe stato l'intento ? Ci sarebbe stato un terzo soggetto che avrebbe provocato il tutto per far scoprire il covo. Perché, allora, questo soggetto non ha agito quando c'erano e ci passavano i terroristi ?
  Se ci fosse l'infiltrato a me non risulta. Carabinieri e polizia hanno sempre negato che esistessero infiltrati di tutti i generi. Se poi qualcuno di loro, per ragioni personali, per poter bloccare, per fermare il tutto, ha agito, non lo so. Certo, non ho visto poi vendette od altro, ma l'ipotesi può rimanere valida, in astratto.
  Per quanto mi riguarda, come dicevo prima, io non ho mai partecipato a quelle riunioni tenute al Viminale. Con il Ministro Cossiga ho parlato, ma non ne ho mai fatte. Non mi sarei quindi neanche potuto lamentare per la famosa operazione spiritica di Bologna.

  PRESIDENTE. Neanche di quella era venuto a conoscenza ?

  LUCIANO INFELISI. L'operazione di Bologna – chiamiamola operazione – Pag. 28nella quale il caso, che è stato spiegato da paragnostici, ha voluto che si parlasse di Gradoli prima che scoprissimo via Gradoli, è stata completamente sottaciuta alla magistratura.

  GERO GRASSI. Era falsa, per questo motivo non ve ne hanno parlato.

  LUCIANO INFELISI. La versione che ci hanno fornito era che fosse stato avvisato il Ministero dell'interno e basta. Era falsa ? La riunione c’è stata ? Non lo so. Io non ho interrogato le persone che hanno partecipato a quella riunione spiritica. Certamente da lì uscì fuori il nome Gradoli, ma non so se questo fosse vero o se non lo fosse.

  GERO GRASSI. Anche su questo ci sono versioni diverse.

  PRESIDENTE. Comunque, è certo che fosse antecedente alla data della scoperta del covo.
  Ne approfitto, prima di chiudere la seduta, per comunicarvi che, a completamento della procedura amministrativa di competenza del Comando generale dell'Arma dei carabinieri, nei prossimi giorni il colonnello Pinnelli, ufficiale di collegamento con l'Arma, assumerà il proprio incarico presso la nostra Commissione.
  Aggiungete, inoltre, alla lunga serie di audizioni che martedì 2 dicembre alle 12.45 verrà in audizione il Ministro Franceschini, prima del senatore Flamigni.
  Ringrazio il professor Infelisi e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 17.15.