XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 102 di Mercoledì 15 marzo 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 2 

Audizione del professor Franco Gallo, su attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del regolamento della Commissione) :
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 2 ,
Gallo Franco , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 2 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 4 ,
Gallo Franco , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 4 9 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 9 ,
Dirindin Nerina  ... 10 ,
Paglia Giovanni (SI-SEL)  ... 10 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 11 ,
Gallo Franco , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 11 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 11 

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal professor Franco Gallo ... 12 

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2  

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE . Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Franco Gallo, su attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica.

  PRESIDENTE . L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione, di Franco Gallo, professore emerito di diritto tributario presso l'Università LUISS Guido Carli, su attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica.
  Quella odierna è la prima audizione di un ciclo che la Commissione ha deciso di organizzare alla luce dell'esito del referendum costituzionale. Una serie di atti, norme e procedimenti in corso poggiavano sull'ipotesi che la riforma costituzionale venisse approvata, ma non lo è stata, quindi è chiaro che probabilmente l'impianto di queste vicende dovrà essere rivisto. Il caso più eclatante è quello delle province, che ha anche un aspetto emergenziale, ma ovviamente ce ne sono tanti altri.
  Abbiamo, quindi, deciso di sentire il punto di vista di esperti qualificati che si occupano di questa materia. Ovviamente abbiamo deciso di cominciare dal professor Franco Gallo, che ha dato già un contributo rilevante ai lavori della nostra Commissione in precedenti audizioni. Lo ringrazio per la disponibilità che ancora una volta ha dimostrato.
  Do la parola al professor Franco Gallo per lo svolgimento della sua relazione.

  FRANCO GALLO , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Grazie a voi. Sono due o tre anni che non mi occupo più in modo specifico di questa materia. Me ne sono occupato alla Corte, perché ho steso io le sentenze nel periodo dal 2004 al 2008-2009, nel senso che sono stato relatore ed estensore, quindi conosco bene quella parte, che ha retto fino al 2009-2010-2011. In seguito, come qualunque professore, anche se in pensione, ho continuato a leggere le sentenze e ho continuato a occuparmene. Devo dire che sono rimasto abbastanza sorpreso dell'evoluzione della Corte sulla materia.
  Mi pare che l'argomento sia «le prospettive alla luce della giurisprudenza della Corte». Cercherò di dividere questa mia relazione in tre parti. La prima parte va dal 2001, dopo la riforma del Titolo V, fino al 2010-2011.
  La seconda è la parte che va dal 2008-2009-2010 fino al 2013-2014. Sono un po’ generico, perché la situazione non è molto precisa temporalmente. In questa seconda fase c'è stato un capovolgimento della giurisprudenza dei primi anni.
  C'è poi un'altra parte, dal 2014-2015, che, non dico abbia cambiato l'impostazione della seconda parte, però è andata a ragionare fuori dagli schemi e fuori dai princìpi caso per caso, con risultati a volte a favore dell'autonomia e a volte contro di essa.
  Partiamo dalla prima fase. Le sentenze da prendere come riferimento sono la n. 417 del 2005, come ultima, e fino al 2005 la Pag. 3 n. 390 del 2004 e la n. 375 del 2003. In seguito vi darò il documento nel quale sono richiamate.
  La Corte, leggendo il Titolo V, articoli 117 e 118 della Costituzione, aveva precisato, in merito all'intervento dello Stato nell'ottica della determinazione dei princìpi fondamentali e alla differenza tra norme di dettaglio e principi fondamentali, che, affinché i vincoli statali possano considerarsi rispettosi dell'autonomia delle regioni e degli enti locali, che hanno competenza concorrente ex articolo 117, terzo comma, dovevano avere a oggetto o l'entità del disavanzo di parte corrente oppure, ma solo in via transitoria e in vista di specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, la crescita della spesa corrente degli enti autonomi.
  In altri termini, per la Corte la legge statale poteva «stabilire solo un limite complessivo, che lascia agli stessi enti ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e i diversi obiettivi di spesa». La ricordo, perché ho scritto io questa sentenza.
  Il coordinamento finanziario così inteso non poteva avere a oggetto, quindi, le specifiche spese compiute dall'ente territoriale, ma doveva al massimo operare una valutazione complessiva delle stesse.
  Con la sentenza n. 390 del 2004, la Corte aggiunge e afferma che la previsione da parte della legge statale di limiti all'entità di una singola voce di spesa non poteva essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, perché poneva «un precetto specifico e puntuale sull'entità della spesa e si risolveva perciò in un'indebita invasione da parte della legge statale dell'area [...] riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri [...] e obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti per raggiungere quegli obiettivi».
  Questo era fino al 2007-2006 l'orientamento consolidato dalle sentenze. La più interessante è la n. 417 del 2005.
  Dal 2011 in poi, la Corte capovolge letteralmente questa impostazione.
  Io stavo ancora in Corte e mi ricordo che ci fu un dibattito in camera di consiglio.
  La Corte capovolge questa impostazione e dà una lettura estensiva della competenza statale in tema di coordinamento della finanza pubblica, fino al punto da trattarla sostanzialmente come una materia di competenza esclusiva statale. Infatti, il punto di arrivo, a mio avviso, leggendo le sentenze è questo.
  Questa posizione è ben riassunta dalla sentenza n. 64 del 2016, che è una sentenza importante, perché l'estensore illustra la situazione fino a quel momento e fa una sintesi della giurisprudenza della Corte successiva alla prima fase di cui vi ho detto.
  Qual è la posizione della Corte, che secondo me è anche l'attuale con qualche modifica? La Corte ricorda di avere più volte affermato che la finanza delle regioni, delle province autonome e degli enti locali «è parte della finanza pubblica allargata» e che, pertanto, «il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse a obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari» (fiscal compact e così via) «vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono inevitabilmente in limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti territoriali». Ci si riferisce alle sentenze n. 44, n. 79 e n. 182 del 2014, ma ce n'è già una del 2011, che è la prima.
  Secondo la Corte, ne consegue che le disposizioni statali che impongono limiti alla spesa regionale costituiscono princìpi fondamentali (articolo 117, terzo comma) di coordinamento della finanza pubblica «alla duplice condizione che: a) prevedano un limite complessivo» – fin qui siamo in linea con la precedente giurisprudenza – «anche se non generale, della spesa corrente, che lasci alle regioni libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa; b) abbiano il carattere di transitorietà».
  Soffermiamoci un attimo sulla prima condizione, che è quella più importante: «prevedano un limite complessivo, anche se non generale, della spesa corrente». Pag. 4 State bene attenti, perché questa è la parte più delicata.
  A tale riguardo la Corte afferma che questa condizione deve ritenersi soddisfatta anche da disposizioni statali che prevedano «puntuali misure di riduzione di singole voci di spesa» – il contrario di quello che ha detto la Corte recentemente – «sempre che da esse» – ovvero dalle singole norme di dettaglio – «possa desumersi un limite complessivo, nell'ambito del quale le regioni restano libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa», essendo in tale caso possibile «l'estrapolazione dalle singole disposizioni statali» – quelle di dettaglio – «princìpi rispettosi di uno spazio aperto all'esercizio dell'autonomia regionale».
  Proviamo a capire cosa significa questa frase. Io ho provato a ragionarci sopra e trovo che questo passaggio non sia facilmente comprensibile sul piano logico, almeno rispetto alle precedenti sentenze, perché pone una condizione quasi impossibile da soddisfare. Per considerare princìpi fondamentali singole disposizioni di dettaglio, bisogna enucleare detti principi fondamentali sulla base di una disciplina che è di estremo dettaglio. Vale a dire: «Guardate che si può fare tutto questo, purché si estraggano i princìpi fondamentali tra le norme di dettaglio». Questo ragionamento non mi sembra molto coerente. Può anche darsi comunque che finora vada avanti in questo senso e, quindi, che sia accettabile.
  Il principio è questo: «libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti», essendo in tale caso possibile «l'estrapolazione dalle singole disposizioni statali di princìpi rispettosi di». Pertanto, io traggo i princìpi fondamentali da norme. È un ragionamento che non mi convince particolarmente.

  PRESIDENTE . Dovrebbe essere il contrario.

  FRANCO GALLO , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Dovrebbe essere il contrario. Questo, quindi, è l'orientamento della Corte, in base a queste sentenze che hanno affrontato direttamente il problema del terzo comma dell'articolo 117.
  Tuttavia, nel frattempo arriva la legge costituzionale n. 1 del 2012, che inserisce il sesto comma dell'articolo 81, che, per quanto si dica, è importante, perché introduce un principio secondo cui, coerentemente con la normativa comunitaria, bisogna rispettare il principio dell'equilibrio di bilancio. È una norma che non può non essere applicata anche in relazione all'articolo 117, terzo comma, e infatti la Corte l'ha considerato. È inutile che stia a spiegare perché.
  La Corte, però, aveva giocato d'anticipo, perché già prima della legge n. 1 del 2012, nell'applicare il terzo comma dell'articolo 117, alcune sentenze fanno già riferimento al principio del pareggio di bilancio, che ancora non era stato introdotto.
  Io ho visto alcune pronunce in cui si sanzionano con incostituzionalità leggi regionali per il contrasto con l'articolo 81, quarto comma, vecchio regime, che, interpretato come la Corte lo interpreta, equivale al sesto comma successivo.
  Ciò significa che per la Corte, a prescindere dalla riforma del 2012, le esigenze di coordinamento finanziario hanno sempre rappresentato un valore costituzionale funzionale anche alla realizzazione di quella unità economica che in seguito la riforma bocciata dal referendum ha tradotto con la clausola di salvaguardia, l'interesse nazionale e le cose che tutti conosciamo.
  Già prima, quindi, c'era obiettivamente una tendenza della Corte in questo senso. Dunque, la costituzionalizzazione successiva del 2012 con la legge n. 1 deve considerarsi in piena continuità con l'orientamento antecedente, perché questa sentenza in fondo aveva anticipato.
  Tutto questo appare abbastanza evidente, perché ci sono varie sentenze in questo senso dopo il 2010: la n. 100 del 2010, la n. 128 e la n. 182 del 2011, e così via.
  Questo ha fatto dire alla dottrina (credo a tutta) che, anche in ragione del nuovo sesto comma dell'articolo 81, la Corte ha avallato un coordinamento finanziario (articolo 117, terzo comma) di un tipo che la Corte stessa definisce particolarmente pervasivo o invasivo e, quindi, giustificativo delle politiche Pag. 5 finanziarie attuate a livello centrale per far fronte alla grave crisi economico-finanziaria che intanto era esplosa. È, quindi, un adeguamento della giurisprudenza alla legislazione che voi chiamate «di crisi» e al fatto che c'erano dei Governi «tecnici», non ancora politici, di un certo tipo.
  L'unità economica, quindi, diviene in qualche modo il titolo di legittimazione dell'intervento statale, che è volto ad assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica.
  Cosa vuol dire questo? Fate attenzione, è un passaggio importantissimo. Si trasforma il principio di coordinamento della finanza pubblica di cui all'articolo 117, terzo comma, in un altro principio: il principio di contenimento della spesa pubblica. Leggete la sentenza n. 79 del 2013 e trovate proprio questo.
  In fondo, questo era l'obiettivo di chi ha scritto l'articolo 81, sesto comma, affermando chiaramente che l'equilibrio di bilancio diventava un principio costituzionale, seguendo la linea tedesca e non quella francese.
  Noi abbiamo fatto una scelta e sappiamo perché dal punto di vista politico. Monti ha detto: «Guardate che l'Europa ci impone questo e ci crediamo talmente che lo scriviamo in una norma costituzionale». Questo è un po’ il discorso finale in termini molto concreti, nel bene e nel male. È una scelta politica.
  A questo punto rimane questo orientamento, però, alla fine di questo slalom tortuoso tra sentenze che applicano il principio del pareggio di bilancio, altre che applicano l'articolo 117, terzo comma, alcune più pervasive, altre meno – ci sono anche degli ondeggiamenti – viene fuori un'altra fase, che non contesta la seconda, però segna una strada.
  Possiamo ricostruirla insieme. Nessuno ci ha provato finora. Io ho provato a leggerla e a capirla. Questa strada a me sembra più accomodante.
  Non smentisce formalmente l'indirizzo che vi ho detto, non prende posizione sugli articoli 81 e 117, però interpreta tali articoli nel senso che gli stessi «lungi dal convalidare sempre previsioni dettagliate e circostanziate in nome dell'unità economica della Repubblica» – come sembrava in qualche sentenza precedente, con quell’«estrapolare da» – «impongono allo Stato l'onere di giustificare l'esercizio del potere di coordinamento in ragione del perseguimento di chiari» – o forse più o meno chiari – «obiettivi di politica della spesa».
  In sostanza, entra nel merito. Si dimentica dell'articolo 117, dei problemi, dei confronti e dice questo: «Guardate che lungi da, a fin di bene, ha un senso l'intervento sia regionale sia statale, purché gli obiettivi ci siano e siano obiettivi giusti». Si aggiungono altri aggettivi: interventi proporzionali e virtuosi. La Corte comincia a dire: «Indagate se sono virtuosi o no». Questo è quello che io chiamo, come vecchio professore «entrare nel merito». Non so se siete d'accordo.
  Cosa significano queste sentenze? Nel valutare la conformità a Costituzione delle misure statali di coordinamento finanziario riguardanti gli enti territoriali, la Corte fa sempre più frequentemente ricorso ai criteri della proporzionalità e della virtuosità. La sentenza n. 272 nel 2015 e la n. 65 del 2016 dicono un po’ questo.
  Cosa fa allora la Corte? Questa è una cosa interessante. Ci ho provato, vediamo un po’ se riesco a dare il senso della mia impressione. Si è instaurato una sorta di circuito in cui la Corte pone precise condizioni di coordinamento, rendendole precettive, in nome della virtuosità e dell'obiettivo da raggiungere e il legislatore, cioè il Parlamento, consapevole che ormai il tempo della legislazione della crisi sta passando e che i Governi sono politici e non più tecnici, deve cercare, su richiesta della Corte, nuove efficaci forme di coordinamento dal carattere meno pervasivo e non più giustificate dal solo riferimento al principio del pareggio di bilancio.
  In sostanza, la Corte tiene ferma la sua giurisprudenza, però dice al legislatore, anche quello regionale, di stare attento. Se tutto quello che si costruisce è virtuoso ed è retto dalla regola della proporzionalità (articolo 3, secondo comma: ragionevolezza), si può anche arrivare a non essere Pag. 6 così formali e così severi come nella famosa seconda fase di cui vi ho detto.
  Secondo me, è un passo avanti, ma più nel senso del caso per caso che del principio. Cosa vuol dire questo, almeno nella logica che io ho estrapolato (non è facile estrapolarlo)? Significa che l'intervento dello Stato diviene per certi versi sussidiario ed è giustificato dall'inerzia regionale. La Corte dice: «Comportati così tu, regione, con la legge regionale, altrimenti arriva lo Stato e ti consente». La regione deve fissare le modalità mediante le quali operare tagli di spesa e fare leggi regionali, ma, se non lo fa in modo virtuoso e proporzionale, lo Stato interviene.
  La Corte giunge addirittura (dico «addirittura» perché mi sembra poco da Corte) a prevedere una specie di auto-coordinamento da parte delle regioni, che è destinato a confluire in un'apposita intesa sancita dalla Conferenza permanente Stato-regioni. Per esempio, ai fini del riparto del contributo regionale alla finanza pubblica in ambiti di spesa, si dice: «Se c'è un accordo, perché no?»
  La Corte dice (mi pare nella sentenza n. 65 del 2016) che si può giungere all'assegnazione degli importi di spesa, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ad ambiti di spesa attribuiti alle singole regioni anche in base al prodotto interno lordo regionale e alla popolazione residente, con riferimento proprio alla realtà regionale. Lo dice espressamente la sentenza n. 65 nel 2016, molto recente, che sembra staccarsi dallo schema rigido delle decisioni pervasive. In particolare questa sentenza mi ricorda quelle sentenze che si chiamano «interpretative di rigetto». Dice: «Tu hai torto, non perché hai veramente torto, ma perché hai male interpretato la normativa. Se l'avessi applicata in questo modo, saresti arrivato a queste conclusioni favorevoli». Si chiamano sentenze interpretative di rigetto: «Rigetto, perché tu le hai male interpretate. Si interpretano in questo modo». Questo mi sembra un passo avanti.
  Non entro nel merito del contenuto di alcune sentenze. Sempre nella sentenza n. 65 del 2016, la Corte osserva: «Non erra la regione ricorrente nel sottolineare l'utilità della determinazione da parte dello Stato, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), dei livelli essenziali delle prestazioni» – ci si riferisce ai famosi LEA (livelli essenziali di assistenza) e LEP (livelli essenziali delle prestazioni) di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m) – «per i servizi concernenti i diritti civili e sociali».
  Tuttavia, afferma che un tale intervento, che deve svolgersi «attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e regione», offre alle regioni «un significativo criterio di orientamento nell'individuazione degli obiettivi e degli ambiti di riduzione delle risorse impiegate».
  Torniamo al coordinamento per obiettivi: «Io, Corte, o lo Stato vi indichiamo dei criteri, voi attenetevi a questi». Ciò significa che la Corte, non solo sollecita il legislatore statale a provvedere alla definizione dei livelli essenziali – questo è importante, perché non l'ha fatto o l'ha fatto male – ma chiarisce anche che in questo modo si offre alle regioni – ecco l'apertura alle regioni – un criterio di orientamento tramite il quale operare le economie di spesa, senza impattare in quelle situazioni costituenti i livelli essenziali. Dà le indicazioni, definendo, quindi, l'ambito entro il quale la spesa regionale non sarebbe comunque comprimibile.
  Fate attenzione, dice una cosa molto importante: «Guardate che c'è un punto oltre il quale non potete andare». Io personalmente, come studioso, ritengo molto interessante vedere come la Consulta in futuro intenda dare effettività a quanto ho appena detto. La Corte afferma: «State attenti, ci sono servizi comprimibili e servizi non comprimibili». Voglio vedere in futuro cosa succederà quando si troverà di fronte a ipotesi di riduzioni di spesa che, nonostante la mancata definizione dei livelli essenziali, potrebbero impattare sulla spesa incomprimibile. Questo è il problema. Voglio vedere che cosa può succedere.
  Ciò vuol dire che la Corte ha fatto un passo avanti rispetto a prima. Ricorderete che il contenimento della spesa sostituiva il principio di coordinamento della spesa pubblica. Infatti, prende atto che la sostenibilità del debito pubblico deve essere assicurata, non solo mediante il contenimento della spesa Pag. 7 pubblica, ma anche creando meccanismi virtuosi di concorrenza sul mercato che agevolano la crescita economica, ai quali devono concorrere anche le regioni.
  È più una sentenza di merito che il fissare un principio, però, secondo me, con molta buona volontà, la Corte, continuando su questo solco, potrebbe passare dalla fase dell'eccesso di contenimento al far ragionare in un dialogo regioni e Stato. Su questa strada c'è la sentenza n. 129 del 2016 e così via.
  Arrivo alla conclusione. Da tutte queste sentenze che cosa emerge per lo studioso? La Corte non lo dice, ma emerge la co-essenzialità tra principio democratico e autonomia finanziaria. La Corte, cioè, critica tutti quegli sviluppi normativi statali che sono basati, da un lato, sui tagli della spesa soprattutto verso il basso e, dall'altro, sull'aumento dei margini di manovrabilità, soprattutto a livello comunale, con cui si dice: «Avete una manovrabilità come ente locale, ma dall'altro lato vi taglio le spese». Questa è la fase storica che stiamo vivendo.
  La Corte non lo dice espressamente, perché non glielo chiede nessuno, però dalle sentenze che vi ho prima interpretato emerge che la maggiore manovrabilità, secondo la Corte, sganciata dai principi di proporzionalità e virtuosità, non è vera autonomia, ma torna a essere una scelta politica dello Stato di ridurre le risorse spettanti agli enti. Tuttavia, ciò non ha l'effetto di rafforzare i princìpi del federalismo fiscale, ma di alterarli. Giocando da una parte sui tagli e dall'altra sulla manovrabilità, si tira fuori un doppio criterio, che purtroppo, però, comprime l'autonomia.
  La sentenza che dice queste cose con molta chiarezza è la n. 188 del 2016. Non ve la leggo, ma ve l'ho sintetizzata.
  Arrivo alle conclusioni dal mio punto di vista. Come si possono generalizzare queste sentenze che sono scritte caso per caso? Provando a fare un discorso di carattere generale, le interpreto in questo modo. Il coordinamento non virtuoso, non proporzionale, non per obiettivi, potrebbe produrre il duplice risultato di una progressiva riduzione sia della democrazia locale che dello stato sociale (welfare state).
  Infatti, la crisi finanziaria, non solo ha dato avvio a un processo di ricentralizzazione di funzioni e di risorse, che poteva anche trovare dal mio punto di vista una giustificazione nell'emergenza, ma ha prodotto anche un'eccessiva alterazione dei princìpi fondamentali che presiedono all'autonomia tributaria-finanziaria degli enti territoriali, quella della legge n. 42, che ancora è legge.
  Senza rendersene conto, l'azione di governo è arrivata a queste conclusioni: ha operato a fin di bene per limitare, però è andata a cozzare con la legge n. 42 del 2009, che voi avete vissuto e avete prodotto a un certo momento della vostra vita, che fissava quei principi.
  In definitiva, traspare da queste sentenze che nello sviluppo normativo della legislazione statale negli ultimi anni si è prodotta una deresponsabilizzazione dello Stato. Esso, chiamato ad assumersi la responsabilità di una riduzione dei LEA e dei LEP a seguito del venir meno delle risorse, ha preferito seguire la via, da un lato, di lasciare invariati questi livelli, perché purtroppo non ha potuto ritoccarli non avendo risorse per finanziarli o peggio ancora non definirli, dall'altro, di attuare un sistema di tagli lineari verso il basso.
  Proprio con riguardo ai tagli lineari, io direi che c'è stato un non corretto esercizio delle funzioni di coordinamento, nel senso voluto dall'articolo 117, terzo comma. Cito, ad esempio, la mancata o parziale definizione dei LEA e dei LEP e la riduzione delle imposte statali finanziata in gran parte con tagli draconiani agli enti locali. L'avete vissuto: si sono ridotte le tasse, ma si è recuperato andando a togliere spazio alla finanza regionale e locale.
  Il Governo centrale tende, giustamente, a realizzare politiche di riduzione delle imposte, ma, nello stesso tempo, non riesce a evitare che tale riduzione si scarichi sugli enti territoriali, ovvero sulle regioni e sugli enti locali, nel senso di attribuire a essi la responsabilità di ridurre i servizi sociali in tutti i casi in cui non vi sono sprechi commisurati all'entità del danno subito e non possono neanche aumentare la pressione Pag. 8  tributaria, per cui sono bloccati. Secondo me, c'è un effetto di paralisi.
  Pensate alla legge di stabilità. Quella del 2016 è più importante di quella del 2017. La legge di stabilità del 2016 ha bloccato il potere degli enti territoriali di aumentare le aliquote dei tributi e delle addizionali rispetto a quelle deliberate per il 2015, quindi ha bloccato le maggiori entrate.
  Nel contempo, però, ha sottostimato l'impatto finanziario dei nuovi LEA, ha ridotto drasticamente il concorso statale al finanziamento del Servizio sanitario nazionale e ha ridotto ancora le basi imponibili di tributi regionali come l'IRAP e le addizionali IRPEF.
  Tutta questa politica, giusta dal punto di vista statale, è andata parzialmente a ritorcersi sulla situazione finanziaria delle regioni e degli enti locali.
  Tenete conto che tutto questo è stato corredato da sanzioni nel caso di mancato conseguimento di un saldo non negativo in termini di competenza fra entrate finali e spese finali.
  Il discorso potrebbe andare avanti guardando al 2017. Io penso che questo vada fotografato e detto con molta chiarezza.
  Visto che mi avete chiesto anche prospettive e proposte, sganciandomi da questa problematica connessa alla giurisprudenza della Corte, vi do il mio parere personale.
  Poiché il referendum ha dato questi risultati, ma l'esigenza di modificare il Titolo V è obiettiva – sia quelli che volevano spacchettare sia quelli che volevano impacchettare erano d'accordo su certi fronti – bisogna sicuramente intervenire, quando la politica lo consentirà, per limitare la frammentazione delle politiche pubbliche in particolari settori.
  Sono cose che dite anche voi e che ho letto. Nel caso della politica energetica o di interventi infrastrutturali, non ha più senso affidare alla competenza concorrente di Stato e regioni la materia. Evidentemente, se la deve riprendere lo Stato. Su questo siamo tutti d'accordo, dall'estrema destra all'estrema sinistra, passando per l'estremo centro e così via. Non è questo.
  Pensando a questa mia audizione, mi sono detto: proviamo a pensare a interventi che si possono fare senza modifiche costituzionali, visto che ho l'impressione che si faranno dopo le elezioni.
  Dirò cose che voi già avete detto e di cui siete perfettamente consapevoli. Una prima soluzione potrebbe essere quella di garantire alle autonomie territoriali una maggiore partecipazione al procedimento legislativo, attraverso l'integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti di regioni, province autonome ed enti locali.
  È ora di far passare questa linea, che già sta dentro la normativa. Al pareri di questa Commissione sui disegni di legge concernenti materie di competenza regionale, quello che in parte il Senato doveva fare secondo la riforma bocciata, e incidenti sull'autonomia finanziaria dovrebbe essere attribuito valore rinforzato. Dentro la Commissione ci mettiamo i rappresentanti delle regioni e degli enti locali e si dà valore rinforzato.
  Per fare questo, non è necessaria, secondo me, una riforma costituzionale; è sufficiente una modifica dei regolamenti parlamentari diretta a dare attuazione all'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che già prevedeva l'integrazione in tal senso della Commissione. Non capisco perché non si sia fatto.
  Una seconda soluzione potrebbe essere la valorizzazione dei princìpi previsti dal Titolo V, quelli che temperano la differenziazione, che è l'autonomia, con l'uniformità, che è importante perché serve a dare omogeneità alle condizioni di vita del Paese.
  Quanto all'uniformità, bisognerebbe stabilire finalmente i livelli essenziali. Se non stabiliamo i LEA e i LEP, non si dà uniformità al sistema. Sono cose che voi avete sempre detto e ripetuto. Va attuata la lettera m) del secondo comma dell'articolo 117.
  Mangiameli, che penso audirete, ha sempre detto che in situazioni particolari di crisi lo Stato dovrebbe esercitare poteri sostitutivi nei confronti degli organi delle regioni e degli enti locali, proprio per dare risorse aggiuntive a favore di certi enti Pag. 9 territoriali che stanno più in crisi. Penso al Mezzogiorno.
  Quanto, invece, alla differenziazione, andrebbe recuperato l'articolo 116, ultimo comma, che riguarda la geometria variabile. Mi pare ovvio che, se il nostro è un Paese in cui c'è il Nord e il Sud, come ha detto bene la Costituzione e ancora lo dice, non si può non consentire alle regioni più virtuose di ottenere maggiori spazi e autonomie.
  Come diceva Giuliano Amato in un bel saggio di qualche anno fa, il nostro Paese ormai va in direzione opposta rispetto all'articolo 116, ultimo comma, perché frustra le ragioni della differenziazione e della competizione, ma addirittura crea situazioni sempre più separate. È vero? Specialmente lei che è un leghista dovrebbe sposare questa linea.

  PRESIDENTE. Ci sono i dati che lo dimostrano.

  FRANCO GALLO , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Tutto questo va accompagnato – questo è un mio vecchio pallino, che ho scritto tante volte – dalla ripresa del percorso di attuazione della bella legge-delega n. 42 del 2009, che è una delle leggi migliori che avete scritto.
  Finora la crisi economico-finanziaria ha ostacolato questo percorso. Non si è attuata la legge n. 42 del 2009 e i decreti attuativi l'hanno più sedata che realizzata. Bisogna approfittare, se ci sono, di questi primi segnali di uscita dalla recessione economica – spero che vadano avanti – per potenziare, nel rispetto del divieto della doppia imposizione Stato-regioni, un'autonomia tributaria che non c'è mai stata, ma c'è nella Costituzione e c'è nella legge n. 42 del 2009.
  Gli enti territoriali devono cominciare a utilizzare i tributi, quelli corrispettivi, quelli contro prestazione, non quelli statali o quelli grossi, per ragioni funzionali al libero esercizio della loro autonomia politica. L'autonomia finanziaria è composta da autonomia tributaria e da spesa. Non puoi spendere in settori locali se non hai tue entrate.
  Questo, secondo me, è un principio che nessuno ha mai voluto seguire, soprattutto il Bossi dei tempi famosi, perché evidentemente i sindaci non volevano essere responsabili. Se non applichiamo, come tutti i Paesi del mondo, dei contributi, dei tributi corrispettivi, delle controprestazioni ai cittadini di quel comune, per dire «ti faccio questa strada, ti apro queste vie», non si può chiedere allo Stato o alla regione ogni volta di fare questi interventi.
  Ricordo che avevate iniziato con Luca Antonini. Occorre attuare i costi standard. Si è iniziato, la Soluzioni per il sistema economico spa (SOSE) li ha costruiti. Vanno eliminati i vincoli dettagliati e analitici sulla finanza locale, perché dobbiamo andare verso i costi standard. Erano una delle cose più belle che la legge n. 42 del 2009 aveva previsto.
  Forse sarà poco, ma mi sembra che se facessimo questo, senza riforme costituzionali, sarebbe già un grosso passo avanti. Grazie.

  PRESIDENTE . Siamo noi che ringraziamo lei, professore, per averci dato questo spaccato e questa lettura storica da protagonista e attore di quello che è avvenuto.
  Io faccio solo due riflessioni. In primo luogo, a me sembra chiaro che di fatto la Corte costituzionale, sulla base del sentiment politico corrente, ha in qualche modo seguito e, talvolta, anticipato l'opzione prevalente, indipendentemente dal contenuto della Costituzione e delle leggi.
  In secondo luogo, mi chiedo: si può legiferare, in particolare legiferare su norme costituzionali, in funzione dell'emergenza? Ripensando all'esperienza del 2011-2012, il dato dell'emergenza dovrebbe indurre decisioni di carattere emergenziale importanti ma transitorie. Non posso riscrivere la Costituzione sulla base dell'emotività e dell'emergenza e creare delle situazioni su cui poi è la Corte che deve continuamente, con la giurisprudenza, limare e costruire le condizioni di agibilità. Infatti, se ci dovessimo fermare esattamente al contenuto, probabilmente avremmo delle conseguenze o saremmo in situazioni ingestibili politicamente.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

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  NERINA DIRINDIN . Ringrazio il professore per la lucida conversazione di cui ci ha fatto beneficiare.
  Vorrei chiedere una riflessione, se possibile, su un altro tema che sta emergendo e che potrebbe avere conseguenze rilevanti, che è quello del concorso alla finanza pubblica delle regioni a statuto speciale.
  Rispetto a questo tema, se non sbaglio – non l'ho ancora approfondito bene, quindi potrei sbagliare – c'è stata una sentenza della Corte riguardo alla definizione di accantonamenti e ci sono ricorsi, che stanno crescendo proprio in questo ultimo periodo, che preoccupano, perché possono portare a delle conseguenze anche gravi, a seconda di come la Corte deciderà.
  Lo dico perché io stessa non me ne ero resa conto, se non qualche mese fa, quando ha prodotto degli effetti sul finanziamento della spesa sanitaria. L'intesa del febbraio dell'anno scorso in Conferenza Stato-regioni ha previsto che, qualora le regioni a statuto speciale non partecipino con il proprio contributo alla finanza pubblica, gli oneri ricadono sulle regioni a statuto ordinario.
  Peraltro, mi permetto di dire, presidente, che questo è un tema sul quale forse varrebbe la pena di fare qualche riflessione.
  Mi chiedo se il professor Gallo abbia qualche riflessione da offrirci su questo tema.

  GIOVANNI PAGLIA . Io faccio solo un'osservazione. Ringrazio il professor Gallo, perché credo che anche a chi si occupa di legislazione ogni tanto un riepilogo sull'evoluzione giurisprudenziale serva sempre. Infatti, ormai siamo in un Paese in cui le leggi si fanno più per via di giurisprudenza che per atto decisionale delle Camere. Ormai è un dato di fatto. Di conseguenza, la giurisprudenza va seguita con attenzione.
  Io noto che c'è una sovrapposizione – io credo non casuale – anche rispetto alla periodizzazione che c'è stata inoltrata, al di là del rapporto fra Stato e regioni, in quello che è stato il rapporto fra lo Stato italiano e l'Unione europea. Questo è un dato di fatto.
  Noi siamo passati da una lunga fase in cui, all'interno dei parametri di Maastricht, esisteva, comunque, una sostanziale autonomia decisionale degli Stati rispetto a come restare all'interno di quei parametri (e persino se restarci) a una fase successiva in cui, con l'inizio della cosiddetta crisi, non solo si è fatto più stringente con il fiscal compact il rispetto dei parametri, ma l'Unione Europea ha anche deciso esattamente dal primo all'ultimo rigo quella che doveva essere la politica economica e finanziaria dello Stato italiano.
  Questo è il dato di fatto. Mi riferisco alla lettera della Banca centrale europea (BCE). Lei ha detto che in quella fase lo Stato italiano ha ribaltato il suo rapporto con regioni ed enti locali, andando a imporre fino all'ultimo centesimo di spesa. La stessa cosa è avvenuta all'Italia rispetto alla sua autonomia di politica economica e, quindi, alla sua autonomia politica tout court.
  C'è poi la fase successiva, che è quella che stiamo vivendo adesso, della cosiddetta «flessibilità» o «elasticità», in cui, di fatto, si concede qualche spazio finanziario in più, ma sempre sotto vincolo di contrattazione, rispetto alle istituzioni comunitarie. Anche in questo caso rinvengo un parallelismo quasi perfettamente sovrapponibile rispetto alle ultime sentenze di cui parlava, in cui si riapre qualche spazio di spesa o di autonomia da parte degli enti locali.
  D'altronde, si riducono le tasse a livello centrale e si scaricano sugli enti locali. Di fatto, regioni ed enti locali sono gli unici erogatori di welfare in Italia. Lo Stato centrale non eroga welfare in Italia. La sanità e il welfare, per gli anziani, per i bambini e per chiunque, passa solo ed esclusivamente da regioni ed enti locali.
  Anche tagliare le tasse è esattamente rispondente alle direttive che arrivano dall'Europa e che vengono applicate in modo pedissequo. Ridurre la pressione fiscale e tagliare, tagliare, tagliare, demolire lo Stato sociale; questo è quello che si sta facendo.
  Io lo posso dire anche a verbale, perché faccio parte della politica: anche la Corte costituzionale mi pare uno di quegli organi, insieme a Banca d'Italia e ad altri organismi, che purtroppo in questi anni si sono prestati a fare da guardiano e attuatore, oltre che delle volontà della politica, in alcune fasi anche degli input comunitari. Pag. 11 
  Questa, di fatto, è una negazione dei princìpi democratici a ogni livello, non solo a quello evidente degli enti locali e delle regioni, che sono sotto commissariamento da dieci anni. Questo vale per tutti, anche per lo Stato italiano.
  Io lo affronterei a questo livello. Anche l'audizione di oggi mi conforta, purtroppo, rispetto a valutazioni che noi collettivamente facciamo da questo punto di vista, ma che credo dovrebbero appartenere a tutta l'Italia, non solo all'una o all'altra formazione politica, perché c'è un tema profondo.
  Io condivido quello che veniva detto prima: alla fine c'è un tema di democrazia. Alla fine tutto riguarda la democrazia e come noi la interpretiamo. La democrazia non può essere contrattata. Questo è un dato di fatto. Invece, viviamo in un regime del genere.

  PRESIDENTE . Do la parola al professor Gallo per la replica.

  FRANCO GALLO , Professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Sull'ultimo aspetto non sono d'accordo. Io ho messo in evidenza che la Corte, nei limiti delle sue possibilità, nella terza fase ha tentato di uscire dalla logica del puro coordinamento invasivo del sesto comma dell'articolo 81 e, secondo me, ha tentato, con quel ragionamento sulla virtuosità e sulla proporzionalità, di dare spazio.
  Avrebbe potuto tornare alla prima fase, ma mi sembra che non fosse storicamente possibile. Ha tentato caso per caso di essere essa l'arbitro dei rapporti Stato-regioni. Non c'era altra via, se non quella solita di accettare tutto quello che stabilisce la legge statale. Al contrario, ha dichiarato molte leggi statali incostituzionali, in nome del coordinamento e in nome degli obiettivi da raggiungere o comunque ha indicato le strade per evitare lo scontro.
  Da questo punto di vista può essere atipico il fatto che ci sia arrivata attraverso sentenze che non hanno fissato nuovi princìpi rispetto a quelli precedenti, ma di fatto la Corte sta raggiungendo l'obiettivo di attutire lo scontro, nei limiti in cui può raggiungerlo.
  Sul problema delle regioni a statuto speciale, forse lei si riferisce alla sentenza n. 188 del 2016 sulla regione Friuli Venezia Giulia. Comunque, io non entrerei nello specifico, ma va detto che l'eccesso di intervento statale rispetto alle autonomie ha riguardato soltanto le autonomie delle regioni ordinarie. Non sono state toccate affatto quelle speciali, per ragioni costituzionali.
  Di conseguenza, sta aumentando sempre più, anziché ridursi, il contrasto fra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario. Più si comprime la regione a statuto ordinario, più aumenta la divergenza fra i due tipi di autonomie. Arriverà un giorno in cui il problema si porrà in modo obiettivamente ancora più drammatico.

  PRESIDENTE . Quando arriveranno anche alla Lombardia, a quel punto...
  Ringrazio il professor Gallo per il suo intervento e per la documentazione consegnata, della quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.05.

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DOCUMENTAZIONE CONSEGNATA
DAL PROFESSOR FRANCO GALLO

ALLEGATO

Attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale

  1. Dalla riforma del 2001 del titolo V, parte II, della Costituzione ad oggi gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale in tema di coordinamento della finanza pubblica non sono stati uniformi.
  Prima del 2011, la Corte, con le sentenze nn. 417 del 2005; 4, 36 e 390 del 2004 e 376 del 2003 e altre ancora, aveva tentato di stabilire dei limiti abbastanza rigorosi per lo Stato. Aveva, cioè, precisato che, affinché i vincoli statali possano considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali, dovevano avere ad oggetto o l'entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo in via transitoria e in vista di specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. In altri termini, per la Corte la legge statale poteva «stabilire solo un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (...).» Il coordinamento finanziario così inteso non poteva, quindi, avere ad oggetto le specifiche spese compiute dall'ente territoriale, ma doveva al massimo operare una valutazione complessiva delle stesse. In coerenza con questa linea interpretativa, la Corte aveva affermato, con la sentenza n. 390 del 2004, che la previsione da parte della legge statale di limiti all'entità di una singola voce di spesa non poteva essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, perché poneva «un precetto specifico e puntuale sull'entità della spesa e si risolveva, perciò, in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell'area riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non può imporre nel dettaglio gli strumenti concreti per raggiungere quegli obiettivi» (vedi anche sentenza n. 417 del 2005, punti nn. 5.3 e 6.3 del considerato in diritto).
  Dopo il 2011 e fino al 2015 la Corte ha capovolto questa impostazione, dando una lettura decisamente estensiva della competenza statale in tema di coordinamento finanziario, fino al punto da trattarla sostanzialmente come una materia di competenza esclusiva statale.
  Questa posizione è ben riassunta nella recente sentenza n. 64 del 2016, nella quale la Corte ricorda (punto n. 6.1. del considerato in diritto) di avere più volte affermato che la finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali è «parte della finanza pubblica allargata e che, pertanto, il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti territoriali» (nello stesso senso, sentenze nn. 44 e 79 del 2014 e n. 182 del 2011). Ne consegue, sempre per la Corte, che le Pag. 13 disposizioni statali che impongono limiti alla spesa regionale costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica «alla duplice condizione che: a) prevedano un limite complessivo, anche se non generale, della spesa corrente, e lasci alle Regioni libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa; b) abbiano il carattere di transitorietà».
  Con riguardo alla prima di tali condizioni, che qui più interessa esaminare, la Corte ha affermato che essa deve ritenersi soddisfatta anche da disposizioni statali che prevedono «puntuali misure di riduzione di singole voci di spesa, sempre che da esse possa desumersi un limite complessivo, nell'ambito del quale le Regioni restano libere di allocare le risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenza n. 139 del 2012), essendo in tale caso possibile l'estrapolazione dalle singole disposizioni statali di principi rispettosi di uno spazio aperto all'esercizio dell'autonomia regionale (sentenze nn. 139 del 2012 e 182 del 2011, nonché nn. 236 e 36 del 2013)».
  È inutile fare un più lungo commento per sottolineare che specie quest'ultimo passaggio ha segnato un forte cambiamento di indirizzo, difficilmente comprensibile sul piano logico, rispetto alle precedenti ricordate sentenze. Pone, infatti, una condizione quasi impossibile per qualificare i principi fondamentali, e cioè l'enucleazione di detti principi sulla base di una disciplina che è di estremo dettaglio.
  Dal 2015 ad oggi vedremo più avanti che sono intervenute alcune sentenze che sembrano aver attenuato in qualche modo il suddetto indirizzo centralistico.
  2. Non va, però, dimenticato che lungo l'indicato processo interpretativo la Corte ha dovuto affrontare anche il delicato tema dell'impatto sul coordinamento finanziario del principio di equilibrio di bilancio, introdotto con la legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012.
  Dico subito che in proposito la Corte sembra aver giocato d'anticipo rispetto ai tempi di applicazione della riforma del 2012. Esistono, infatti, pronunce precedenti alla riforma con le quali vengono sanzionate con l'incostituzionalità leggi regionali di bilancio per contrasto con l'art. 81, quarto comma, Cost., vecchio testo, oltreché con i principi relativi al sistema contabile dello Stato e al coordinamento della finanza pubblica. Così, in effetti, ha ragionato la Corte nella sentenza n. 70 del 2012, dando un'interpretazione estensiva del suddetto obbligo di copertura delle leggi regionali per quanto concerne la certezza delle risorse.
  Il che vuol dire che, a prescindere dalla riforma del 2012, le esigenze di coordinamento finanziario hanno rappresentato per la Corte un valore costituzionale funzionale anche alla realizzazione di istanze di unità economica. La successiva costituzionalizzazione del principio di equilibrio di bilancio deve, perciò, considerarsi in piena continuità con tali istanze e, insieme, uno strumento delle politiche nazionali attuative della normativa comunitaria in materia (in particolare, il Patto di Stabilità e Crescita e gli atti conseguenti, quali il Fiscal Compact, il Six Pack e altri ancora).
  Tutto ciò appare evidente dalle sentenze sopra richiamate e da altre emesse dal 2010 (nn. 100 del 2010, 128 e 182 del 2011, 33 e 196 del 2012) ed ha fatto dire alla dottrina che la Corte ha avallato coordinamenti finanziari «pervasivi» e giustificativi di politiche finanziarie anticrisi con impatto sui debiti sovrani anche in ragione del nuovo sesto comma dell'art. 81. L'unità economica diviene in tal modo titolo di legittimazione Pag. 14 dell'intervento statale, volto ad assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica, con la conseguente trasformazione del principio di coordinamento finanziario in un principio di contenimento della spesa pubblica (in particolare, sentenza n. 79 del 2013).
  Come ho già avuto occasione di esporre nell'audizione presso codesta Commissione del 30 ottobre 2014 questo era, del resto, l'obiettivo che l'introduzione del sesto comma dell'art. 81 Cost. e l'emanazione della legge rinforzata n. 243 del 2012, che l'ha attuato, avevano di mira specie nei confronti delle Regioni sottoposte a «piano di rientro» e comunque, in generale, con riferimento alla cosiddetta «legislazione della crisi» degli anni 2010-2012.
  3. Come ho detto, il tortuoso slalom tra il coordinamento finanziario pervasivo e l'applicazione del principio di pareggio di bilancio sembra essersi in qualche modo interrotto nel 2015. Da tale anno la Corte sembra essersi avviata, sia pure un po’ confusamente, su una strada più accomodante, senza peraltro smentire formalmente l'illustrato indirizzo centralistico. Gli artt. 117, terzo comma e 81, sesto comma, Cost., sono stati, infatti, interpretati nel senso che essi, lungi dal convalidare sempre previsioni dettagliate e circostanziate in nome dell'unità economica della Repubblica, impongono allo Stato l'onere di giustificare l'esercizio del potere di coordinamento in ragione del perseguimento di chiari obiettivi di politica della spesa. Il coordinamento finanziario tende, così, ad assumere la natura di un «coordinamento per obiettivi», che lascia maggior spazio alle autonomie territoriali.
  Nel valutare la conformità a Costituzione delle misure statali di coordinamento finanziario riguardanti gli enti territoriali, la Corte ha in particolare fatto ricorso sempre più frequentemente ai criteri della «proporzionalità» e della «virtuosità» (sentenze n. 272 del 2015 e n. 65 del 2016), instaurando una sorta di circuito con il legislatore statale in cui è essa che pone precise condizioni al coordinamento rendendole precettive ed è il legislatore statale – consapevole che il tempo della cosiddetta «legislazione della crisi» è tramontato in presenza di Governi non più tecnici, ma politici – che deve ricercare nuove, efficaci forme di coordinamento, dal carattere meno pervasivo e non più giustificate dal solo riferimento al principio del pareggio di bilancio (1) .
  In questa logica, l'intervento dello Stato diviene, per certi versi, sussidiario ed è giustificato, piuttosto che dall'esistenza in sé di un potere di coordinamento, dall'inerzia regionale nell'individuazione delle modalità mediante le quali operare i previsti tagli della spesa. La Corte giunge:

   – alla previsione di una specie di «autocoordinamento» da parte delle stesse Regioni, destinato a confluire in un'apposita intesa sancita dalla conferenza permanente Stato-Regioni ai fini del riparto del contributo regionale alla finanza pubblica in ambiti di spesa;

   – all'assegnazione dei relativi importi con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri ad ambiti di spesa attribuiti alle singole Regioni anche in base al PIL regionale e alla popolazione residente, in assenza dell'intesa.

Pag. 15 

   Ragionando su questa lunghezza d'onda, con la sentenza n. 65 del 2016 essa sembra staccarsi, perciò, dallo schema rigido delle decisioni «pervasive». Alle contestazioni della Regione essa risponde, infatti, che la previsione contestata impone non di effettuare drastiche riduzioni di identico importo in tutti i settori, ma semplicemente «di intervenire in ciascuno di questi, limitandosi ad individuare un importo complessivo di risparmio e lasciando alle Regioni il potere di decidere l'entità dell'intervento in ogni singolo ambito» (punto n. 5.1. del considerato in diritto). Di conseguenza, dando credito alle difese della Regione ricorrente, precisa che la disposizione impugnata non esclude affatto che «la riduzione avvenga prevedendo tagli maggiori proprio nei settori in cui la spesa sia risultata improduttiva», ma, nello stesso tempo, invita la Regione ad evitare «di coinvolgere, in modo rilevante e nella medesima misura, gli ambiti in cui la spesa si sia rivelata, al contrario, efficiente». Si riconosce, dunque, «la possibilità, per le Regioni, di adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente al fine di conseguire risparmi comunque non inferiori agli importi indicati».

   Di particolare interesse al riguardo è l'osservazione secondo cui «non erra la Regione ricorrente nel sottolineare l'utilità della determinazione, da parte dello Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., dei livelli essenziali delle prestazioni per i servizi concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Un tale intervento – che deve svolgersi attraverso moduli di reale collaborazione tra Stato e Regioni – offre, infatti, alle Regioni medesime «un significativo criterio di orientamento nell'individuazione degli obiettivi e degli ambiti di riduzione delle risorse impiegate, segnando il limite al di sotto del quale la spesa non sarebbe ulteriormente comprimibile» da parte dello Stato.

   Questo passaggio della pronuncia è particolarmente rilevante (2) , perché non solo sollecita il legislatore statale a provvedere alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e precisa che le modalità tramite le quali pervenire a quella definizione dovranno essere di carattere cooperativo, ma anche perché chiarisce che, in tal modo, si offre alle Regioni un criterio di orientamento tramite il quale operare le economie di spesa, senza impattare su quelle situazioni costituenti «livelli essenziali» e individuando, di conseguenza, un ambito entro il quale la spesa regionale non sarebbe comunque comprimibile.

   Sarebbe interessante vedere come la Consulta intenda in futuro dare effettività a quanto sopra, ad esempio, dichiarando incostituzionali quelle riduzioni di spesa che, nonostante la mancata definizione dei livelli essenziali, potrebbero andare ad impattare sulla spesa incomprimibile.

   4. Avvalorando il coordinamento «virtuoso», la Corte sembra dunque aver preso atto che la sostenibilità del debito pubblico deve essere Pag. 16 assicurata non solo mediante il contenimento della spesa pubblica ma, anche e soprattutto, creando meccanismi virtuosi di concorrenza sul mercato che agevolano la crescita economica, ai quali devono concorrere anche le autonomie territoriali. Il legislatore statale può, quindi, coordinare la finanza pubblica anche solo orientando finalisticamente la legislazione regionale, senza andare necessariamente nel senso della riduzione delle spese.

   Coerente con questa impostazione è la sentenza n. 129 del 2016, con la quale la Consulta, dopo aver qualificato la norma che riduceva i fondi destinati ai Comuni come un principio di coordinamento della finanza pubblica, osserva che «non appare destituita di fondamento la considerazione, sviluppata dal giudice rimettente, che nella nozione di “consumi intermedi” possono rientrare non solo le spese di funzionamento dell'apparato amministrativo..., ma anche le spese sostenute per l'erogazione di servizi ai cittadini». Il che – essa soggiunge – «permetterebbe al criterio utilizzato di colpire le inefficienze delle amministrazioni locali e di innescare comportamenti di risparmio», in modo che il carattere virtuoso o meno dell'impiego delle risorse finanziarie diviene la linea di discrimine che porta «a far gravare i sacrifici economici in misura maggiore sulle amministrazioni che erogano i servizi a prescindere» dalla virtuosità dell'impiego.

   Altre sentenze sembrano confermare questa impostazione di tipo finalistico, innalzando il livello di controllo costituzionale sull'evoluzione della finanza pubblica e del suo coordinamento, ma nello stesso tempo richiamando il Governo e il legislatore statale al rispetto del nesso essenziale che deve esistere tra la dinamica democratica e quella di bilancio.

   È significativa in tal senso la sentenza n. 184 del 2016, riguardante alcune disposizioni di una legge della Regione Toscana in materia di programmazione economica e finanziaria regionale e relative procedure contabili, impugnata dallo Stato soprattutto in riferimento alla materia «armonizzazione dei bilanci pubblici». Essa contiene, al riguardo, la seguente affermazione di principio che investe anche il tema del coordinamento finanziario ex art. 117, terzo comma: «una tipizzazione della struttura del bilancio regionale [...], è funzionale [...] alla valorizzazione della democrazia rappresentativa, nell'ambito della quale deve essere assicurata ai membri della collettività la cognizione delle modalità con le quali le risorse vengono prelevate, chieste in prestito, destinate, autorizzate in bilancio ed infine spese».

   Con questa affermazione si sottolinea, dunque, la coessenzialità tra principio democratico e autonomia finanziaria, con l'effetto di svalutare quegli sviluppi normativi statali che in questi ultimi anni sono stati fondati, da un lato, sui tagli delle spese e, dall'altro, sull'aumento dei margini di manovrabilità (soprattutto) a livello comunale. La maggiore manovrabilità, sganciata dai principi di virtuosità e proporzionalità, potrebbe infatti risolversi non in vera autonomia, ma in scelte politiche dello Stato di riduzione delle risorse spettanti agli enti locali, con la conseguenza di alterare, non rafforzare, i principi del federalismo fiscale.

   In questo filone si pone anche la sentenza n. 188 del 2016, relativa all'impugnativa della Regione Friuli Venezia Giulia di alcune disposizioni Pag. 17 della legge di stabilità 2014 relative al riparto dei gettiti tributari spettanti alla Regione. In essa si precisa che le prerogative del legislatore statale in tema di coordinamento finanziario non comportano «l'esonero per lo Stato dall'obbligo di rendere ostensibili e confrontabili i dati necessari per una corretta attuazione del precetto costituzionale inerente alla salvaguardia delle risorse spettanti all'autonomia speciale», con la conseguenza che la mancata osservanza di tale obbligo costituisce un'ingiustificata compressione dell'autonomia stessa. Il seguente passaggio spiega bene la critica della Corte all'azione statale: «può dunque dirsi che il legislatore statale, durante l'ampio percorso di attuazione della riforma fiscale previsto dalla legge n. 42 del 2009, abbia prima fissato regole costituzionalmente corrette afferenti ai meccanismi di funzionamento delle relazioni finanziarie tra lo Stato e le autonomie territoriali in materia tributaria ma, successivamente, abbia determinato un quadro opaco ed autoreferenziale per quel che concerne le dinamiche applicative del riparto del gettito».

   5. Queste sentenze suggeriscono delle considerazioni che provo qui a generalizzare.

   Il coordinamento non virtuoso della finanza pubblica potrebbe produrre il duplice risultato di una progressiva riduzione sia della democrazia locale che dello stato sociale. Infatti, la crisi finanziaria non solo ha dato avvio ad un processo di ricentralizzazione di funzioni o di risorse che poteva anche trovare giustificazione nell'emergenza, ma ha prodotto anche un'eccessiva alterazione dei principi fondamentali che presiedono all'autonomia tributaria degli enti territoriali, così come regolata dalla legge delega n. 42 del 2009. Nello sviluppo normativo della legislazione statale degli ultimi anni si è prodotta, infatti, una deresponsabilizzazione dello Stato, nel senso che esso, chiamato ad assumersi la responsabilità di una riduzione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni dei diritti sociali (i cosiddetti Lea e Lep) a seguito del venir meno delle risorse disponibili, ha preferito seguire la via, da un lato, di lasciare invariati tali Livelli o di non definirli (è il caso di materie come l'assistenza sociale), dall'altro, di attuare un sistema di tagli lineari verso il basso anche per finanziare la riduzione delle imposte statali.

   In altri termini, il governo centrale tende a realizzare politiche di riduzione delle imposte, ma, nello stesso tempo, non riesce ad evitare che tale riduzione si scarichi sugli enti territoriali nel senso di attribuire ad essi la responsabilità sia di ridurre i servizi sociali in tutti i casi in cui – come si è visto nella sentenza n. 129 del 2016 – non vi sono sprechi commisurati all'entità del danno subito sia di aumentare, potendolo, la pressione fiscale.

   Luca Antonini (3)  porta come esempio emblematico di questa situazione la legge di stabilità per il 2016, la quale ha bloccato il potere degli enti territoriali di aumentare le aliquote dei tributi e delle addizionali rispetto a quelle deliberate per l'esercizio 2015. Nel contempo, però, ha sottostimato l'impatto finanziario dei nuovi Lea ed ha ridotto drasticamente sia il concorso statale al livello di finanziamento Pag. 18 del Servizio sanitario nazionale, sia le basi imponibili di tributi regionali come l'Irap e l'addizionale Irpef. Il tutto corredato dalla previsione di pesanti sanzioni nel caso di mancato conseguimento di un saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali.

   È vero che il blocco provvisorio dell'aumento delle addizionali e dei tributi propri derivati è stato, in precedenti occasioni, ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale (sentt. nn. 381/2004, 284/2009 e 298/2009). È anche vero, però, che – come giustamente ha fatto rilevare lo stesso Antonini – tale valutazione si inseriva in contesti normativi diversi da quello attuale, dove nell'ambito del Patto di stabilità interno alle Regioni veniva solo imposto un mero tetto di spesa, il cui sfondamento rimaneva del tutto indifferente rispetto alla possibilità di un autonomo sforzo fiscale regionale (riguardando esso solo il versante della spesa e non quello dell'entrata). Dopo il 2016, invece, con il superamento del Patto di stabilità interno alle Regioni è stato imposto un pareggio contabile di bilancio, il cui mancato conseguimento – che comporta sanzioni come il divieto dell'indebitamento per la spesa di investimento – potrebbe trovare causa nel blocco dell'autonomia tributaria regionale, e cioè nella preclusione della possibilità di pareggiare il bilancio attraverso un proprio sforzo fiscale.

   Non vorrei che, continuando in questo tipo di politiche, si arrivi ad una progressiva delegittimazione degli enti locali, all'indebolimento dello stesso principio di responsabilità.

   6. In via ancora più generale, mi sembra che la forte conflittualità che si è prodotta negli anni successivi alla riforma costituzionale del 2001 renda più che mai urgente intervenire sugli artt. 117 e 119 Cost. per limitare, da una parte, l'eccesso di frammentazione delle politiche pubbliche, dall'altra, per garantire un più efficiente coordinamento fra i diversi livelli di governo più rispettoso dei principi di sussidiarietà e autonomia. Si è tutti d'accordo, ad esempio, sulla necessità di ricondurre alla competenza esclusiva statale materie come la politica energetica e i grandi interventi infrastrutturali.

   In attesa che si producano le condizioni politiche perché queste iniziative possano realizzarsi, si potrebbe intanto pensare a soluzioni che riducano l'attuale conflitto fra Stato e Autonomie a Costituzione invariata.

   Una prima soluzione potrebbe essere quella di garantire alle Autonomie territoriali una maggiore partecipazione al procedimento legislativo attraverso l'integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti di Regioni, Province autonome ed enti locali. Ai parere resi da questa Commissione su disegni di legge concernenti materie di competenza regionale o incidenti sull'autonomia finanziaria regionale e locale, dovrebbe essere attribuito valore rinforzato (4) . A tal fine sarebbe sufficiente una modifica dei regolamenti parlamentari diretta a dare attuazione all'art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che già prevedeva l'integrazione in tale senso di detta Commissione.

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   Una seconda soluzione potrebbe essere quella di contemperare il principio di differenziazione con quello di uniformità.

   Quanto all'uniformità si tratterebbe, come propone S. Mangiameli (5) , di stabilire finalmente «i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti, ex art. 117, secondo comma, lett. m), su tutto il territorio nazionale». Egli ha giustamente osservato al riguardo che in situazioni particolari di crisi istituzionale lo Stato dovrebbe esercitare i poteri sostitutivi nei confronti degli organi delle Regioni, delle Città Metropolitane, delle Province e dei Comuni, nonché destinare risorse aggiuntive a favore di determinati enti territoriali.

   Quanto alla differenziazione, andrebbe recuperato il principio del regionalismo a geometria variabile, di cui all'art. 116, ultimo comma. Questo principio avrebbe dovuto consentire alle Regioni più virtuose di ottenere maggiori spazi di autonomia, nonché di utilizzare in modo più dinamico le competenze regionali. La storia di questi ultimi anni – ha sottolineato al riguardo G. Amato (6)  – ci dice, invece, che il nostro Paese è andato in una direzione opposta, frustrando le ragioni della differenziazione e della competizione fra Regioni diverse.

   A tali iniziative bisognerebbe accompagnare, infine, la ripresa del percorso di attuazione della legge delega n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, percorso che è stato ostacolato dalla perdurante crisi economico-finanziaria e dalla sfiducia nella classe dirigente degli enti territoriali. Da anni vado dicendo inascoltato (7)  che bisognerebbe approfittare dei primi segnali di uscita dalla lunga recessione economica, da una parte, per potenziare – nel rispetto del divieto della doppia imposizione sullo stesso presupposto – un'autonomia tributaria degli enti territoriali che sia funzionale al libero esercizio della loro autonomia politica, dall'altra, per semplificare l'attuale quadro normativo attraverso il pieno utilizzo dei costi standard e la contemporanea eliminazione degli analitici vincoli sulla finanza locale di cui ho detto.

   Forse è poco, ma sarebbe sicuramente un buon punto di partenza per rilanciare la cultura del coordinamento, abbandonare quella del centralismo e, nello stesso tempo, ritagliare più ampi spazi di autonomia per le Regioni e gli enti locali nel rispetto dei più volte richiamati principi di uguaglianza e sussidiarietà.

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(1)  M. BELLETTI, Corte costituzionale e spesa pubblica – le dinamiche del coordinamento finanziario ai tempi dell'equilibrio di bilancio, 2016, Torino, pp. 144-156.

(2)  Sul punto vedi più estesamente L. ANTONINI, Armonizzazione contabile e autonomia finanziaria degli enti territoriali, in Rivista AICI, n. 1/2017, 2 febbraio 2017, pp. 5-9; Idem I segni dei tempi: dal Veneto al Molise quale futuro per il regionalismo italiano?, in Federalismi.it-ISSN 1826-3534, 22 febbraio 2017, pp. 9-18; M. BELLETTI, Corte costituzionale e spesa pubblica – le dinamiche del coordinamento finanziario ai tempi dell'equilibrio di bilancio, cit., pp. 1-26, 88-108 e 121-131.

(3)  L. ANTONINI, Armonizzazione contabile e autonomia finanziaria degli enti territoriali, cit., p. 16

(4)  Questa è la proposta di A. MATONTI, R. CIFARELLI, Le Regioni tra omogeneità, differenziazione e prospettive di riforma, in Nord Est, 2017, pp. 153-161.

(5)  S. MANGIAMELI, La nuova parabola del regionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme, in www.issirfa.cnr.it, ottobre 2012

(6)  G. AMATO, Postfazione, in L'Italia e le sue Regioni, a cura di M. SALVATI ed L. SCIOLLA, Istituto dell'Enciclopedia Italia Treccani, Roma, 2015.

(7) F. GALLO, L'incerta sorte del federalismo fiscale, in Il Mulino, n. 2/2016, pp. 359 ss.; Id., L'applicazione del principio di sussidiarietà tra crisi del disegno federalista e tutela del bene comune, in Rassegna Tributaria, n. 2/2014, pp. 207-224; Id., Due «temi caldi» che gli studiosi di diritto tributario dovrebbero approfondire: la nozione di tributo e l'autonomia tributaria degli enti territoriali, in www.astrid-online.it, 8 ottobre 2014.