XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 79 di Giovedì 14 luglio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 

Audizione del Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), Stelio Mangiameli, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del regolamento della Commissione) :
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 3 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 7 ,
Rubinato Simonetta (PD)  ... 7 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 8 ,
Guerra Maria Cecilia  ... 9 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 10 ,
Marantelli Daniele (PD)  ... 11 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 11 ,
Marantelli Daniele (PD)  ... 11 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 12 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 12 ,
Rubinato Simonetta (PD)  ... 14 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 14 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 14 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 14 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 14

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), Stelio Mangiameli, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del regolamento della Commissione, del professor Stelio Mangiameli, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), che ha a oggetto l'attuazione e le prospettive del federalismo fiscale.
  Ringrazio per la disponibilità il professor Mangiameli, al quale cedo subito la parola per lo svolgimento della relazione.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). Fare il punto sul federalismo fiscale non è affatto semplice per una serie di motivi concorrenti. La legge n. 42 del 2009 fu varata in un momento molto particolare, con un ottimismo, sia pur limitato, che poi non ha avuto seguito perché di lì a poco la stessa finanziaria di quell'anno segnava le prime misure anticrisi, che poi avrebbero avuto un'accelerazione negli anni successivi. Mi riferisco, in particolare, ai decreti-legge dell'estate del 2011 ed ai successivi provvedimenti del 2012. Tutto sommato, anche la legislazione della XVII Legislatura, a partire dal giugno 2013, non ha segnato un vero e proprio cambiamento di passo.
  Il tema, quindi, è oggi per certi aspetti sospeso; non vi è una precisa problematica aperta sulla scena politica, eppure il tema del federalismo fiscale è l'unico che meriterebbe di essere attenzionato sia da parte degli studiosi di diritto costituzionale e di diritto pubblico in generale, sia da parte dei politici. Il motivo è semplice. Noi possiamo scrivere qualunque disposizione costituzionale sul riparto delle competenze, che però in concreto vive e funziona se alimentato da un sistema finanziario che consente a queste competenze di essere effettivamente azionabili.
  Fatta questa piccola premessa, partirei da un dato di fondo della nostra tradizione. In Italia, è improprio parlare di federalismo fiscale, perché lo stesso articolo 119 della Costituzione, che pure reca una serie di princìpi molto importanti nella formulazione sia del 1947 sia in quella del 2001, e per certi aspetti, con i limiti che adesso dirò, anche nell'eventuale formulazione 2016 nel testo della revisione costituzionale Renzi-Boschi, non è una disposizione che assicura un ordinamento veramente collegabile al concetto di federalismo fiscale.
  Il federalismo fiscale si fonda sul principio che le basi imponibili sono distribuite dalla Costituzione in modo abbastanza preciso. Ovviamente, vi possono essere delle variazioni sul punto. Nella Costituzione americana, questo problema si pose in relazione non al potere impositivo degli Stati Pag. 4membri, ma a quello della Federazione, tanto che la cosiddetta «welfare clause» – la prima competenza enumerata dall'articolo 1, Sezione 8, della Costituzione americana – riguardava proprio questo potere della Federazione di imporre le tasse.
  Questo era dovuto in modo particolare all'esperienza pregressa: infatti, nel periodo confederale, la gestione della Confederazione era andata malissimo, soprattutto sotto il profilo delle spese militari, proprio per il fatto che la Confederazione era soggetta al finanziamento da parte degli Stati membri. Si trattava, quindi, di autonomizzare il livello federale rispetto a quello statale, grosso modo la problematica che si pone oggi anche per l'Unione europea.
  Negli Stati federali che, invece, conoscevano già forme di unificazione molto forti – penso, in modo particolare, al modello tedesco – la Costituzione finisce con l'essere il punto di equilibrio tra la fiscalità federale e quella dei Länder, con in più una norma di garanzia a favore degli enti locali scritta nella Costituzione, dove all'articolo 28 si dice espressamente che agli enti locali deve essere attribuita un'imposta per la quale gli enti locali possono manovrare l'aliquota. Il modello è questo.
  La nostra Costituzione non segue nessuno di tutti questi modelli. Prevede una serie di princìpi nell'articolo 119 abbastanza importanti, come il fatto che le risorse devono essere conferite in modo adeguato per garantire l'assolvimento di tutte le funzioni attribuite. Al di là di questo principio di copertura totale e dell'indicazione delle eventuali fonti finanziarie che dovrebbero essere attribuite alle regioni (quote di tributi erariali, tributi propri e fondo perequativo), non si rinvengono vincoli stringenti per il legislatore statale. Questo ha fatto sì che non ci fosse mai una vera e propria autonomia finanziaria e che tutt'oggi noi patiamo questo problema.
  Ovviamente, tutto questo si ripercuote anche sull'articolo 117 della Costituzione, sul modello del regionalismo che si intende, o meno, inverare. Possiamo, sempre molto brevemente, aggiungere una questione molto particolare. C'è anche un'incertezza di fondo sul tipo di regionalismo, a prescindere dal modello di finanziamento delle funzioni. Da noi prevale l'idea dei compiti illimitati per le regioni e per gli enti locali. Non prevale l'idea che enti locali e regioni abbiano una competenza di tipo generale che devono affrontare anche per il grado di prossimità che hanno rispetto ai cittadini, e che i compiti illimitati tutto sommato dovrebbero essere quelli dello Stato.
  Ovviamente, questa visione ha portato a rifiutare una delle logiche più importanti di un'organizzazione amministrativa funzionante, cioè la logica del regionalismo cosiddetto di esecuzione, ossia l'idea che anche le leggi statali debbano trovare esecuzione per opera delle regioni e, a loro volta, sul piano amministrativo, del rapporto che le regioni hanno con gli enti locali. Questo è per certi aspetti l'alibi che consente di giustificare la gestione dall'alto delle risorse finanziarie delle regioni. È, dunque, un po’ il modello stesso che porta a questo discorso.
  Da questo punto di vista, la legge n. 42 del 2009 non è una buona legge. Non lo è stata. È stata osannata a lungo come una legge bipartisan voluta e votata da tutti, che segnava un passo in avanti, ma non è stato così a partire dai problemi di ordine cronologico che ha posto. Una riforma non si può fare in dieci anni, perché cambia integralmente il sistema Paese. Quello che era progettato dieci anni prima non può andar bene dopo dieci anni, a maggior ragione a valle di una crisi economica come quella che abbiamo patito e che in parte patiamo.
  Perché il giudizio che do della legge n. 42 non è eccessivamente positivo? Perché è una legge sostanzialmente molto timida, molto più indietro rispetto ai princìpi previsti dalla Costituzione nell'articolo 119. In modo particolare, ha svalutato moltissimo l'idea dei tributi propri. Non c'è una considerazione in termini di base imponibile che fa riferimento ai tributi propri. Un vero federalismo fiscale, anche di stampo legislativo, non di stampo costituzionale, è tale se opera una distribuzione Pag. 5delle basi imponibili, se consente quindi alle diverse parti della Repubblica di lavorare con le proprie basi imponibili, determinando le condizioni di sviluppo e di crescita, e quindi di aumento del gettito che eventualmente la crescita può generare.
  Questo dovrebbe essere il nucleo centrale del discorso sul federalismo fiscale. Tutto questo nella legge n. 42 non c'è. Nella sostanza, tra tributi propri e impropri, tributi propri ma gestiti dalle regioni oppure dallo Stato, la categoria si perde e non acquista sostanza.
  Peraltro, per quanto riguarda le quote dei tributi erariali, abbiamo sperimentato delle tecniche originali, ma siamo rimasti semplicemente vincolati a una quota di tributo erariale che attribuiamo a certe basi imponibili, per le quali le possibilità di manovra sono molto limitate, mentre si poteva e si può ipotizzare una concorrenza sul tributo erariale dell'ente regione, per esempio, ma con la possibilità di manovrare una quota parte dell'aliquota ben più ampia, a invarianza di pressione fiscale. Tutto questo, invece, non c'è stato. Da questo punto di vista, se non proprio al tempo T con zero del federalismo fiscale, vi siamo comunque molto prossimi.
  Nel quadro costituzionale che si sta realizzando – do per scontata la legislazione della crisi, il fatto che gli undici decreti sono stati in parte smontati, che dove vi erano state fiscalizzazioni si è tornati indietro con i fondi nazionali e i trasferimenti, che i fondi perequativi sono stati svuotati dai decreti-legge del 2012 e così via – è utile domandarsi che cosa si fa, a fronte di questa situazione che è stata devastante, per quanto riguarda l'autonomia in generale, in particolare l'autonomia finanziaria, delle regioni e delle autonomie locali. Peraltro, è bene ricordare che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha avallato tutto ciò. È stato così quanto meno sino alla recente sentenza, mi pare la n. 123 del 2016, con la quale la Corte stessa ha appunto cominciato a dichiarare illegittima qualche disposizione dei decreti-legge del 2012 per la sua ultrattività, utilizzando la categoria del coordinamento della finanza pubblica.
  Ora, che cosa ha determinato la riforma? Tutto sommato, la riforma fa proprie due posizioni. Una viene dalla legge n. 42 del 2009, e cioè l'idea che bisogna valutare i costi per attribuire le risorse, che è un'idea sbagliata, non da federalismo fiscale. La vera idea da federalismo fiscale è quella delle basi imponibili e, eventualmente, della perequazione per imposte, non della valutazione delle funzioni per costo e della relativa copertura. È proprio questo l'elemento, infatti, si prevede che con legge dello Stato siano definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono una condizione di efficienza dell'esercizio delle medesime funzioni.
  Questo principio, tra le altre cose, delimiterebbe il vecchio principio, molto più largo, della necessità che le fonti finanziarie assicurino il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche di comuni, città metropolitane e regioni. Ci sarebbe, quindi, questo principio che deriva dalla tradizione costituzionale italiana, dall'Assemblea costituente, delimitato da quest'altra previsione che deriva dalla legge n. 42 del 2009, e che ovviamente porta al ribasso il tema della copertura e non fa acquistare autonomia al discorso di un federalismo fiscale.
  L'altro elemento importante presente nel disegno di legge è quello della collocazione della materia «coordinamento della finanza pubblica, e del sistema tributario». Come sapete, questa era, insieme a quella della «armonizzazione dei bilanci pubblici», una materia di competenza concorrente. Poi con la legge sul Fiscal compact la quota parte di questa materia che riguardava i bilanci fu trasferita alla competenza esclusiva dello Stato e, visto che c'era un problema di armonizzazione dei bilanci delle regioni e degli enti locali, poteva ancora starci.
  Nel momento in cui, invece, il disegno attuale sposta nella competenza esclusiva il coordinamento della finanza pubblica e l'ordinamento del sistema tributario, la questione cambia profondamente. Sostanzialmente, il coordinamento della finanza pubblica è l'opposto dell'autonomia finanziaria. Premetto che io ho un giudizio completamente Pag. 6 diverso dalla vulgata generale sulla competenza concorrente. Anzitutto, la competenza concorrente non ha generato contenzioso. Quello dinanzi alla Corte è stato generato dal modo in cui lo Stato ha esercitato le sue competenze, in modo particolare dal modo in cui si sono definite le materie trasversali, la chiamata in sussidiarietà, il criterio di prevalenza. Tutto questo deriva dall'esercizio dei poteri dello Stato che ha limitato i poteri delle regioni e ha generato il contenzioso dinanzi alla Corte.
  La competenza concorrente, quindi, non è sicuramente colpevole delle cose che si dicono. È colpevole lo Stato, che in cinquant'anni di storia del regionalismo, prendendo per buona la data del 1970 o del 1968, a seconda di dove si vuole andare a parare, non ha mai fatto le leggi cornice, non ha mai fissato i princìpi, non ha mai adeguato – come detto nella Costituzione – la sua legislazione alla potestà legislativa delle regioni e ai princìpi di autonomia.
  È, quindi, esattamente l'opposto: il regionalismo è il risvolto della medaglia dello Stato, lo Stato funziona male, le regioni non possono funzionare bene. Questo è il quadro di riferimento. C'era una compartecipazione data dal fatto che la materia del coordinamento della finanza pubblica era una materia concorrente; viene spostata la competenza esclusiva e viene esclusa da qualunque procedura collaborata all'interno del Senato, tra le altre cose, sia questa legge sul coordinamento della finanza pubblica, sia la legge di cui all'articolo 119, quarto comma, della Costituzione che dovrebbe stabilire i costi.
  È, cioè, una legge che non rientra né nel primo né nel quarto comma dell'articolo 70 della Costituzione, così come revisionato dalla riforma Renzi-Boschi, ma rientra nel nuovo procedimento legislativo ordinario di tipo monocamerale, con eventuale possibilità da parte del Senato della Repubblica di richiamarlo, in termini peraltro così stretti che rendono anche quel procedimento estremamente problematico dal punto di vista costituzionale.
  Direi che, sotto questo profilo, tale spostamento e tale previsione costituzionale, che fa riferimento alla legge dello Stato, sono un passo indietro considerevole per l'autonomia finanziaria. Al di là del fatto che le competenze dell'articolo 117, secondo o terzo comma, della Costituzione, possano considerarsi equivalenti a quelle attuali o leggermente spostate al centro e così via, questo discorso può essere interessante da altri punti di vista, ma nel concreto, se il sistema di finanziamento resta legato al coordinamento della finanza pubblica di competenza esclusiva statale, il regionalismo sarà anno per anno ciò che la legge di stabilità deciderà che possa essere.
  La domanda che semmai oggi ci possiamo porre molto concretamente è se deve per forza essere questo. Innanzitutto bisogna capire come si ragiona a livello statale e che tipo di Stato vogliamo. Neanche questo è più chiaro. Se dovessimo optare in modo intelligente per uno Stato organizzato in modo competitivo sulla scena europea e su quella internazionale, dovremmo potenziare il regionalismo, le regioni e le autonomie. Ciò dovrebbe essere una conseguenza logica.
  Il fondamento giuridico è l'articolo 5 della Costituzione, alla luce del quale dovrebbe essere letto il Titolo V anche riformato, e perciò l'articolo 117 – se i princìpi sono quelli dell'articolo 5 –non può essere letto contro le regioni; ma, ripeto, che questo è un altro tema. Concretamente, il fondamento del regionalismo, di uno Stato regionale, cosa più complessa del regionalismo italiano, risiede nel processo di integrazione europea e di globalizzazione.
  Più ho bisogno di un Governo centrale che si occupi di negoziazioni europee e internazionali, che affronti le problematiche della relazione tra i Governi degli Stati membri e altri tipi di crisi internazionali, come quelle umanitarie, e quelle in cui siamo impegnati militarmente e così via, più ho bisogno di Governi statuali di prossimità che non possono che essere i Governi regionali.
  Se dovessimo avere una classe politica intelligente che vuole costruire uno Stato competitivo sulla scena europea e internazionale, dovremmo dire che questa classe politica dovrebbe propugnare un regionalismo, Pag. 7 forse si potrebbe dire anche un regionalismo di tipo nuovo rispetto a quello fiduciosamente costruito nella riforma costituzionale del 2001. All'epoca, l'idea un po’ particolare – ma la scelta del 2001 ha ragioni diverse – era che bastava cambiare la Costituzione, conferire maggiori poteri alle regioni e alle autonomie locali, e tutto sarebbe andato de plano.
  Così non può essere, perché il nostro è un sistema che vede una concatenazione di azioni statali, regionali e locali; quindi, non può che essere costruito sulla base di una distribuzione non solo tra materie, logiche abbastanza superate, ma all'interno di determinate politiche tra frammenti di competenza statale e frammenti di competenza regionale e locale.
  Prendiamo una politica che, anche se esclusiva dello Stato, è stata sempre interpretata come concorrente e lo sarà anche nel nuovo, ad esempio, la politica ambientale, lettera s) dell'attuale articolo 117: ebbene, in tale politica, anche attraverso le disposizioni del diritto dell'Unione europea, riconosciamo un pezzo di politica certamente nazionale, ma una serie di pezzi di politica ambientale che attengono al territorio e sono governati dalle regioni, o addirittura per certi frammenti dalle province (che molto intelligentemente riteniamo siano state un ente inutile) e dai comuni. Basti pensare al ciclo dei rifiuti per rendersi conto di come questo investa i comuni e tutti gli altri enti.
  Questa dovrebbe essere la prospettiva. In una prospettiva del genere, le maggiori responsabilità con la nuova distribuzione delle competenze prevista dalla riforma sono sulle spalle dello Stato. Mentre sinora c'era l'alibi che le regioni facevano il contenzioso, che avevano troppi poteri e che bisognava toglierglieli, adesso nel nuovo riparto è lo Stato che deve stabilire le disposizioni e le norme comuni e generali di determinate materie esclusive e ciò che, invece, deve conferire alle regioni.
  C'è una responsabilità indubbia: se il modello Italia non funziona, se la pubblica amministrazione italiana nel suo complesso non riesce a sviluppare competitività, a usare i fondi strutturali o a fare altre cose di questo genere, non vi possono essere più alibi. Lo Stato ha tutti i poteri per definire i compiti dei diversi livelli di governo e ha anche gli strumenti finanziari per finanziare le funzioni. Non ci sono terzi soggetti che possono accampare costituzionalmente delle prerogative particolari.
  Se interpretato in questo modo, bisognerebbe ripensare a un sistema di finanziamento e di allocazione delle risorse in modo stabile, non in modo occasionale. Infatti, le competenze e le funzioni operano se c'è stabilità di finanziamento. Se il finanziamento è occasionale, le funzioni «ballano». O si definisce una strategia finanziaria dello Stato, alla luce della quale si ribaltano le funzioni ma stabilmente, o siamo destinati a vivere in un'emergenza quotidiana che genera una serie di disastri enormi, come quello del treno, per il quale i soldi c'erano. La colpa non è dell'alta velocità, che godeva di finanziamenti completamente diversi, ma dell'incapacità politica e amministrativa di fare il bando, gestire le risorse esistenti provenienti dall'Unione europea ed evitare che, in un luglio torrido del 2016, un incidente del genere provocasse 23 morti e 52 feriti.
  Personalmente, mi appellerei proprio alla vostra intelligenza per capire che c'è uno spazio enorme da colmare, per il quale sia io sia il mio istituto siamo a disposizione per dare tutti i chiarimenti possibili, visto che da 45 anni non facciamo altro che occuparci del regionalismo italiano.

  PRESIDENTE. La ringraziamo per questo contributo.
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  SIMONETTA RUBINATO. Non so se nella parte iniziale della sua relazione ha toccato il tema dello strumento dell'autonomia differenziata. Mi riferisco all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione: potrebbe dirci qualcosa in merito come strumento per un regionalismo differenziato? Semplifico in modo molto brutale.
  Un regionalismo molto largo, vero, per tutti, anche per regioni d'Italia demograficamente Pag. 8 e geograficamente molto diverse – la Lombardia non è il Molise – può aver creato un vestito istituzionale di taglia troppo grande per taluni, mentre adesso abbiamo una taglia ridotta, che può essere più a misura di alcune regioni e meno di altre, che si troverebbero più in difficoltà. Vorrei chiederle se il regionalismo differenziato, che il Parlamento ha lavorato per mantenere in Costituzione, può essere uno strumento utile anche ai fini del disegno che tratteggiava.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). Come sapete, tra le altre cose, questa riforma viene tacciata di neocentralismo, e lo è in buona sostanza per certi aspetti. È una riforma che vuole essere centralista e, soprattutto nelle parole del Premier, ma anche dei media, che hanno dato pessima prova, punitiva. È stato richiamato il luogo comune per cui se si attraversa l'Italia da Reggio Calabria a Milano con il treno ci si accorge che la legge urbanistica cambia quindici volte.
  Se si considera che le regioni traggono i princìpi fondamentali della legge urbanistica da una legge del 1942, la n. 1150, concepita in un momento di guerra, peraltro molto bella, è giocoforza che debba cambiare. Il legislatore statale non si è mai peritato di aggiornare quella legislazione, che poteva andare bene nel 1942, ma che sicuramente nel adesso pone altri problemi.
  Nonostante queste vulgate poco felici, continua a seguire il vecchio modello del 2001: lascia la numerazione statale e la clausola a favore delle regioni; prevede il sistema delle autonomie speciali e il sistema delle autonomie asimmetriche differenziate dell'articolo 116, terzo comma; è vero che c'è la clausola cosiddetta di supremazia, di flessibilità, però, se la si vuole rispettare, questa ingabbia lo Stato e non gli consente di entrare liberamente sulle competenze regionali, come ha fatto sinora.
  Al contrario, lo Stato è in parte ingabbiato. Se rispettata – la Costituzione non viene facilmente rispettata in Italia – si è capovolto il rapporto e crea un ostacolo al Governo centrale e al legislatore statale a andare nelle materie regionali.
  Resta l'articolo 116, terzo comma, della Costituzione che non ha mai funzionato, come lei sa perfettamente. È stato agitato dalle regioni Lombardia e Veneto solo nel momento in cui vi era un Governo di colore diverso da quello delle regioni.
  È chiaro che affrontare il tema in termini di asimmetria significa cambiare completamente il modello. Se effettivamente le regioni, o quanto meno una quota parte delle regioni, riuscissero, anche con le clausole peggiorative che sono state inserite nel nuovo articolo 116, terzo comma, a mettere in piedi quel procedimento farraginoso (come di recente il Veneto con una proposta estremamente interessante e dettagliata che conosco, che presenta alcuni limiti di fattibilità ma che sicuramente è in uno spirito diverso, non contro il Governo centrale ma di autentica autonomia regionale) ebbene questa sicuramente è una delle valvole presenti nel sistema per far ripartire il regionalismo.
  L'altra valvola è proprio il regionalismo speciale, che si è trovato a essere nel passato bistrattato perché le regioni ordinarie sopravanzavano rispetto a quelle speciali. Oggi, in cui le regioni ordinarie sono in crisi, hanno la salvaguardia degli statuti e anche quella clausola particolare contenuta nell'articolo 39 del disegno di legge potrebbe non essere sufficiente a piegare il regionalismo speciale, che ha risvolti finanziari particolari.
  Sia la clausola di asimmetria sia il regionalismo speciale sul piano finanziario sarebbero una deroga, quello speciale in massima misura, all'articolo 119. Uno dei problemi più grossi è, infatti, quello di cercare di ricondurre le speciali dentro l'alveo dell'articolo 119. Hanno difficoltà, ci sono limiti costituzionali invalicabili. Le regioni speciali, quindi, sia dal punto di vista delle competenze sia da quello finanziario, hanno una posizione in cui tornano a poter essere l'avanguardia più o meno consapevole per un regionalismo efficace, come nel 1946-1947. Pag. 9
  La clausola di asimmetria potrebbe donare alle regioni ordinarie la stessa potenzialità. Il procedimento, però, si è aggravato, come lei ben sa. Non si richiede semplicemente una generica compatibilità con l'articolo 119, ma anche una situazione di conti a posto, che però è apparente più che reale. Perché?
  Se entra in vigore, come ora entrerà in vigore, la clausola sul pareggio di bilancio (i bilanci armonizzati partiranno nel 2017), questa regola in qualche misura potrebbe rimettere a posto la condizione delle regioni, e ciò potrebbe offrire al fronte regionale uno spazio di recupero. Qual è la difficoltà concreta? Se le regioni vanno in ordine sparso – cosa che sembra stiano facendo, perché anche la Lombardia avrebbe pronto un suo progetto di regionalismo asimmetrico a suo favore – si corre il rischio che determinate funzioni in un territorio diventano regionali, in un altro permangono statali, che è il problema del regionalismo asimmetrico anche in Spagna. Questo comporta una realizzazione che diventa più onerosa per lo Stato. Lo Stato dovrebbe avere lo stesso ufficio in funzione, con lo stesso apparato, per servire non più tutto il territorio dello Stato, ma semplicemente determinate regioni.
  Se, invece, le regioni vanno in modo più compatto, quantomeno più organizzato, e seguono anche il modello amministrativo della provincia di Trento e di Bolzano, allora anche la possibilità di rivendicare quote finanziarie, di mantenere il sistema in equilibrio, è più verosimile. Tuttavia bisogna anche dire che, contrariamente all'avviso della regione Veneto, i nove decimi non li possono avere. Questo deve essere chiaro. Non li potrebbe avere neanche la provincia di Bolzano, ma lì c'è una situazione molto particolare e poi di scarso peso. Nove decimi per la Lombardia e il Veneto significherebbero il tracollo dello Stato, pertanto non sarebbe possibile accedere a questa richiesta.

  MARIA CECILIA GUERRA. La ringrazio per questa panoramica molto vasta. Ovviamente, su alcuni di questi temi ci stiamo interrogando. Vorrei porle due questioni particolari.
  Relativamente al coordinamento della finanza pubblica, anch'io credo che sia uno dei punti cruciali, anche se effettivamente sembrerebbe cambiare poco nella realtà, non nel dettato costituzionale. Questa materia, che non era esclusiva, è sempre stata esercitata di fatto in modo esclusivo, salvo per la sede del coordinamento che formalmente sono state le conferenze. Volevo chiederle che cosa pensa dell'esperienza delle conferenze sotto il profilo del coordinamento della finanza pubblica. Alla luce del nuovo dettato costituzionale – che deve essere ancora confermato – pensa che questa sede, rimasta un po’ nel limbo, nel senso che non si è affrontato esplicitamente il suo ruolo, possa tenere un po’ insieme la necessità di coordinamento, di cui anch'io credo ci sia bisogno?
  Anch'io penso che il superamento delle materie concorrenti sia stato un errore, ma anche che di fatto non ci sia stato. I temi che si ponevano sul fronte delle materie concorrenti si riproporranno su queste diverse formulazioni, quelli che una volta erano princìpi generali, adesso in larga parte disposizioni generali comuni, ma restano anche in altre formulazioni.
  Proprio su questo punto delle disposizioni generali e comuni c'è una discussione in corso sul significato da attribuire: vorrei un suo parere, un'informazione che lei è sicuramente in grado di fornirmi. La preoccupazione per chi crede un po’ nell'autonomia è che il tema delle disposizioni generali e comuni sia decisamente più cogente rispetto a quello dei princìpi generali, o meglio possa essere interpretato in questo senso, andando a intervenire anche su funzioni di tipo organizzativo che fino adesso non erano toccate.
  Infine, credo, e vorrei un suo parere su questo, che uno degli aspetti che abbiamo incontrato, un po’ specifico probabilmente della realtà italiana, è l'esistenza di una rete forte di comuni, di municipalismo, che ha esercitato le funzioni di enti di competenza generale. Lo esercita sempre meno, ovviamente, perché è rimasto a secco.
  Sono d'accordo che l'aspetto finanziario disegni di più che non quello delle competenze, ma sicuramente si è oscillato non Pag. 10solo nelle riforme costituzionali, ma anche in tutto quello che c'è stato in mezzo tra un modello di regionalismo e uno di municipalismo per il rapporto diretto che comunque c'è anche finanziario tra lo Stato e gli enti comunali.
  Anche nell'ultima legge, che abbiamo approvato ieri al Senato e passerà alla Camera, si cerca di recuperare su aspetti di ripartizione degli spazi di finanziamento un ruolo delle regioni, che però fa fatica a decollare. Anche su questo vorrei una sua valutazione.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). La ringrazio per le tre domande.
  Quanto alla prima, ci stiamo interrogando tutti sul tema delle conferenze, ovviamente anche alla luce della riforma del Senato. Le conferenze hanno fatto quello che hanno potuto. Parliamoci onestamente: la situazione della collaborazione attraverso la conferenza l'ho qualificata, anche alla luce di tutte le esperienze, in un mio libro sul principio cooperativo, come una cooperazione autoritaria.
  In questo è profondamente diverse il principio cooperativo italiano da quello americano, dove tutta la giurisprudenza della Corte suprema è stata sempre attenta a evitare che nei modelli cooperativi americani ci fossero elementi di coercizione nei confronti degli Stati membri. Anche con riguardo alla legge di Obama sull'assistenza sanitaria, la Corte suprema ha caducato quella parte che imponeva determinati comportamenti agli Stati membri perché questo era contrario ai princìpi del federalismo cooperativo. Questa è una delle applicazioni più recenti di questo principio, che risale al 1937 e al New Deal.
  È chiaro che il nostro sistema è molto più autoritario, ma non ha dato pessima prova. Semmai, la loro debolezza è stata politica, strutturale, perché sono stati messi lì come foglie di fico per dire che lo Stato faceva le cose in modo collaborato, hanno perso nel tempo quel carattere informale che avevano all'origine e che era utile. Molte volte, la collaborazione non è utile per condividere le competenze, ma per sapere come devo esercitare le mie competenze. Nella prima fase, questa collaborazione aveva un carattere informale, che giovava allo Stato per adeguarsi.
  Nel tempo, ci sono stati anche degli elementi di deterioramento. Il massimo elemento di deterioramento che ha determinato il crollo strutturale delle conferenze è dato dal famoso decreto-legge n. 174 del 2012, che ha segnato la fine di una leadership regionale attribuita ai presidenti delle regioni, i quali hanno dimostrato di non aver messo insieme quel peso politico adeguato a contrastare un Governo centrale molto forte, che si imponeva con la voce dell'Europa e così via.
  Nella riforma, lo spazio per le conferenze può residuare, ma in un collegamento stretto con il Senato, non esclusivamente col Governo. Al contrario, dovrebbe diventare prevalente il collegamento con il Senato.
  Tenga conto che il Senato non solo ha tra le sue competenze quella sul raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi e quella tra lo Stato, gli enti e l'Unione europea, ma soprattutto valuta le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche amministrazioni, compresa quella stradale, e verifica l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui territori. Questa competenza sulla valutazione delle politiche pubbliche è quella che, ammesso che abbia uno spazio sia nel regolamento sia nei comportamenti istituzionali consecutivi, può dare alle conferenze quei giusti materiali e quei giusti supporti istituzionali per avere, in sede di confronto col Governo, una diversa forza politica.
  Il tema è, per così dire, molto fluido. Lei sa benissimo che c'è un'indagine parallela nella Commissione bicamerale per le questioni regionali, presso la quale sono stato già audito: l'idea è quella di predisporre una serie di princìpi, o di norme, in vista della realizzazione di questo nuovo Senato della Repubblica, proprio per costruire immediatamente un ponte.
  Sul piano finanziario alcune volte è prevalso il punto di vista delle regioni, altre volte, come nel caso della spesa sanitaria, no. Sulla spesa sanitaria non poteva prevalere Pag. 11 anche in sede di conferenza, perché anche noi la valutiamo separatamente dal resto della spesa regionale. È una spesa finanziata dall'alto, sulla quale le regioni hanno pochi spazi di manovra.
  Il secondo settore di spesa regionale è quello del trasporto pubblico locale, come ben sapete. Sapete che era stato fiscalizzato con una quota parte dell'accisa sugli idrocarburi: in realtà, col Governo Monti si è tornati indietro con il fondo. È chiaro che ogni volta che c'è finanziamento statale attraverso il fondo, e quindi il trasferimento, il potere regionale scema. Per questo torna a essere importante un sistema stabile di finanziamento, con quote certe di determinate basi imponibili.
  La seconda questione che mi ha posto riguarda la competenza concorrente. Può darsi che ci sia un lungo esercizio anche scientifico su princìpi fondamentali da una parte ed espressioni del nuovo articolo 117, ma comunque c'è una differenza: nel terzo comma dell'attuale articolo 117, anche se la Corte ha sminato questa situazione, la competenza è delle regioni, ed eventualmente lo Stato può limitare il potere regionale fissando i princìpi. Così va letto correttamente l'articolo 117 in vigore, anche se nella sentenza numero 281, la sentenza Onida, che oggi si strappa le vesti per il regionalismo, veniva ancora data la vecchia lettura dell'articolo 117.
  Nella nuova formulazione si intuisce che c'è uno spazio anche di competenza regionale, ma non spetta alle regioni inverare quello spazio e, eventualmente, allo Stato limitarlo; spetta allo Stato definire lo spazio di intervento delle regioni.
  Una legge che, in una qualunque di queste materie che hanno questo tipo di definizione, attribuisse tutte le competenze allo Stato potrebbe certamente essere impugnata per illegittimità costituzionale, ma le regioni non sono in condizione di rivendicare uno spazio preciso di competenze in quest'ambito. La competenza regionale c'è, ma nasce con l'atto di esercizio del potere legislativo statale. Questa è la condizione.
  L'ultima questione riguarda i comuni. Un mio collega che è presidente dell'Antitrust si divertì a fare tanto tempo fa questa cosa, regionalismo versus municipalismo: non c'entra niente, sono due cose completamente diverse.
  È chiaro che anche i comuni si possono configurare come enti a fini generali, come già li configurava Santi Romano nella voce comune, nel Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano di Orlando – stiamo parlando del 1911 – e non c'è dubbio che abbiano queste caratteristiche. Il problema di fondo, però, è che l'interfaccia della regione non sono la competenza amministrativa e il servizio di prossimità del comune, ma lo Stato.
  O costruiamo una distribuzione dei compiti statali, d'interesse generale, d'interesse nazionale – non so come dirlo – quella che si definisce statualità dei Länder in Germania, o distribuiamo i compiti statali tra lo Stato centrale e le regioni, o il regionalismo ha poco significato. Interpretare le regioni come un grande ente locale in concorrenza o con la provincia o con i comuni è quanto di peggio si possa fare per le regioni. Lo Stato regionale come forma di Stato ha un senso se distribuisce i compiti statali, i compiti legislativi e amministrativi di quel rango tra due entità. Questo è il senso.

  DANIELE MARANTELLI. Professore, la ringrazio, perché, nonostante il tempo stringato, in questa Commissione si dà la possibilità anche a persone come lei di approfondire temi così rilevanti.
  Se non ho capito male, sulla legislazione concorrente lei ha fornito una valutazione per me rivoluzionaria. Oggi è 14 luglio, anniversario dello scoppio della Rivoluzione francese...

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). Come, no? La presa della Bastiglia.

  DANIELE MARANTELLI. Mi ha colpito molto, se ho capito bene, la dichiarazione per cui la legislazione concorrente in sé non ha fatto danni. Ho cercato di comprendere le sue motivazioni, ma siccome questo è stato un mantra ricorrente, una Pag. 12delle ragioni principali che hanno indotto nel 2001 a rivedere tutta la legislazione, vorrei che ci tornasse sopra.
  In secondo luogo, lei parte da un giudizio, che personalmente condivido, ma che vorrei mi spiegasse in maniera un po’ più stimolante. Più cresce il ruolo di negoziazione del Governo con l'Europa, più – sostiene – c'è bisogno di governi di prossimità costruiti sulla base di un regionalismo di tipo nuovo. Compatibilmente con i tempi ristretti, dato che la questione è di dimensioni enormi, le sarei grato se volesse spiegare un po’ più nel dettaglio questo aspetto.

  PRESIDENTE. Vorrei agganciarmi all'intervento del collega Marantelli. C'è un'altra cosa che, almeno nella mia testa, è abbastanza rivoluzionaria.
  In un suo passaggio – per questo, le chiedo di agganciarci alla risposta del collega – lei ha detto che la clausola di supremazia nazionale in realtà restringe gli spazi d'azione del Governo centrale. Io l'ho sempre considerata come la clausola di chiusura a doppia mandata: se qualcuno «sgarra», gli saltano addosso. In questo senso, sarebbe rivoluzionaria. Il tema si ricollega a quello dell'approccio sulla componente concorrente cui ha fatto cenno il collega.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). Partiamo dal dato di fondo. Il sistema derivato dalle competenze come è scritto in Costituzione, e comunque lo si scriva, è soggetto sempre a tante interpretazioni e a tanti princìpi costituzionali e meta-costituzionali che ci aprono tutte le porte.
  La prima cosa che bisogna dire è che lo Stato, nell'ambito delle sue competenze esclusive, può sempre aprire le proprie competenze per far collaborare le regioni. Nell'ambito dei limiti all'intervento delle regioni anche in materie esclusiva dello Stato – penso all'ordine pubblico, il massimo della competenza centrale, alla polizia – qualora lo Stato ritenesse di dover aprire una porta alle regioni, lo potrebbe fare tranquillamente.
  Quanto alle competenze concorrenti, queste dovrebbero essere la regola, non l'eccezione. L'eccezione sono le competenze esclusive dello Stato e delle regioni, cioè quello che solo le regioni possono fare e ciò che lo Stato soltanto può fare. Mi sono spiegato?
  Il mio istituto appartiene a un'associazione internazionale, di nome IACFS (International Association of Centers for Federal Studies), un'associazione di centri di studi sul federalismo, fondata da un grande costituzionalista americano che si occupava di federalismo, Elazar, che esiste ormai da trent'anni. Noi ci riuniamo una volta all'anno, e il convegno di due anni fa fu proprio sulle competenze concorrenti: il dato che emerse è che le competenze concorrenti sono la salvaguardia del federalismo, non la fossa.
  In ogni caso, questa dovrebbe essere la regola. Qui la riforma ha un senso, perché dice che lo Stato può organizzare la concorrenza. Allora, che lo faccia e che lo faccia bene. Questo non serve al Governo centrale o alle regioni, ma alla Repubblica. Questo è il punto. Lo vuole fare lo Stato? Lo faccia, purché non scriva una cosa e ne faccia un'altra. Questo e il dato reale che registriamo: una continua disappointment rispetto alla lettera delle leggi, della Costituzione, dei regolamenti e di tutte le altre deliberazioni che vengono prese. Si fa sempre una cosa diversa. Sulla concorrenza non ci piove da questo punto di vista.
  Quanto all'altra questione, lo Stato ha due compiti. Uno è organizzare ciò che devono fare gli altri enti, e lo deve fare bene sotto il profilo delle competenze delle finanze. Poi c'è un secondo compito interno, proprio perché la maggior parte del tempo dovrebbe andare all'Europa e alle relazioni internazionali: la perequazione, di cui ancora non abbiamo mai detto una parola oggi.
  Questa è una competenza esclusiva dello Stato. Lo era anche nel vecchio modello, in quello attualmente in vigore, ma che cosa si intende per perequazione? Noi abbiamo dato un parere anche a un Parlamento straniero che ce lo ha chiesto, di uno Stato organizzato regionalmente, che Pag. 13aveva un problema proprio con una regione che potrebbe essere considerata come le nostre regioni meridionali.
  Abbiamo dato un parere al Parlamento indonesiano, il quarto Stato nel mondo, non un piccolo Stato, di quasi 300 milioni di persone, organizzato appunto secondo un principio di carattere regionale e con una regione, la Papua, grande quando tre volte l'Italia, con una popolazione pressappoco uguale a metà Italia.
  Non si realizza la perequazione semplicemente attribuendo maggiori risorse. Sarebbe troppo semplice. Io faccio il fondo perequativo, ti do la quota, e poi con quella quota, come tutte le altre regioni, si può fare la spesa. Non basta. Il gap territoriale, quando c'è, non è di ordine meramente economico, ma culturale innanzitutto e di elaborazione, di capacità di gestione. È un'altra cosa il gap che abbiamo nel territorio.
  Guardate, c'è un'esperienza molto interessante, quella della Wiedervereinigung tedesca: come hanno fatto in vent'anni non dico a mettere in pari cinque Länder dell'ex DDR, ma adesso addirittura in alcuni il flusso migratorio si è invertito? Mentre prima tutti scappavano per andare in Occidente, adesso in alcuni Länder il flusso si è invertito. Abbiamo esperienze importanti, come quelle della Turingia e della Sassonia, in cui c'è un grande sviluppo di capacità industriali, logistiche e così via, che rendono competitivi questi nuovi Länder.
  Hanno applicato il cosiddetto federalismo fiduciario. Che cosa significa il federalismo fiduciario? All'indomani della riunificazione tedesca, era chiaro che non esisteva un humus federale né democratico in quella parte del territorio. Avevano avuto un'altra gestione. È di tutta evidenza. Allora, c'è stato il trasferimento di una quota parte della classe dirigente occidentale nell'ex DDR. Questa ha creato soprattutto una cultura corrispondente, che ha permesso la crescita di questi Länder.
  La perequazione non è semplicemente la dazione del denaro, ma deve essere un accompagnamento delle politiche territoriali da parte del centro. Se il centro rivendica la competenza totale per tutto lo Stato e poi non è in grado neanche di fare alcuni interventi perequativi concreti, a che serve avere tutto questo potere per non esercitarlo in nulla? Fatte queste due cose, il resto è tutta competenza esterna.
  Veniamo all'ultima questione, quella relativa al quarto comma dell'articolo 117. Una parte della dottrina, tra cui il mio maestro, il professor D'Atena, dice che questa è la clausola vampiro, che cioè vampirizzerebbe tutte le altre competenze. In realtà, partono da una lettura in cui si dice che questa clausola consente allo Stato di entrare nel terzo comma.
  Innanzitutto, le materie del nuovo terzo comma sono scritte in un modo diverso rispetto a quello attuale. Mentre quelle del terzo comma sono materie piene (porti e aeroporti, energia, addirittura nazionale, nel terzo comma si parla di trasporto e distribuzione nazionale dell'energia) qui invece c'è la pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, l'organizzazione dei servizi promozione economica locale in ambito regionale, le materie che disciplinano il quadro d'interesse regionale e delle attività culturali, la valorizzazione e organizzazione regionale del turismo, le intese in ambito regionale. Qui tutto è delimitato come nel grande ente locale, per intenderci.
  Il quarto comma, poi, dice che lo Stato potrebbe avere bisogno di entrare in queste materie. Già questo è complicato. Per entrare nell'ambito locale si dovrebbe dimostrare l'interesse nazionale. Se quello può esercitare le sue competenze solo per interesse regionale o locale, come fa a dire che l'interesse regionale stretto è uguale all'interesse nazionale del quarto comma? Già questa è una complicazione.
  Poi si dice che su proposta del Governo la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridico-economico ovvero l'interesse nazionale. Il Governo deve dire, quindi, che su una certa cosa vede che c'è un problema di tutela, e quindi avanza una proposta al Parlamento. Qui siamo nel quarto comma dell'articolo 70, tra le altre cose, e quindi c'è un intervento particolare anche del Senato. Pag. 14
  Non è una gabbia questa? Adesso, invece, come fa lo Stato a prendere le competenze regionali? Fa una legge e non dice una parola. Il Governo presenta un decreto-legge, non sta a vedere se c'è il riparto delle competenze. Fa la legge, ha bisogno di una cosa e se la prende. Se le regioni reclamano, ci penserà la Corte a dire che ce la chiamata in sussidiarietà, il criterio di prevalenza, la materia trasversale e via dicendo.
  È, quindi, molto più semplice attualmente – mi sia consentito dirlo – sempre se viene rispettata. Io sono convinto che questa norma troverà raramente applicazione e che lo Stato, se avrà bisogno di prendersi una cosa dalle regioni, se la prenderà per altra via, ma questa è la mia convinzione personale. Se, invece, stiamo alla lettera di questa disposizione, qui abbiamo messo una piccola gabbia. Forse non era questo l'intento.

  SIMONETTA RUBINATO. Da questo punto di vistai giudici della Corte costituzionale non potrebbero svolgere un ruolo.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). La Corte è – passatemi l'espressione – un animale strano. Le posso dire che lo conosco abbastanza bene, sicuramente meglio di quanto non conosca il Governo e il Parlamento.
  La nostra non è una Corte che ha agevolato il disegno regionale. Può darsi che i due riescano a fare qualcosa. Io ho fatto l'anno scorso la relazione alla Corte su invito della Corte stessa sui temi della riforma costituzionale e del regionalismo, che è stata pubblicata anche sulla rivista AIC. Proprio perché non potevo dire espressamente che avevamo una Corte antiregionalista, ho detto che la colpa era della cultura costituzionalista. Ed è vero.
  Per la maggior parte della cultura costituzionalista, anche quelli che hanno studiato il diritto regionale lo hanno studiato dal punto di vista dell'interesse dello Stato, non da quello delle regioni. Prenda ad esempio Augusto Barbera, oggi giudice costituzionale: è uno che ha sempre studiato il regionalismo, ma se legge che cosa scriveva di regionalismo concretamente Barbera, scopre che era sempre preoccupato del potere del centro, dell'interesse nazionale, della pianificazione centrale. Non credevano nel principio di autonomia molti autori che hanno studiato il regionalismo.
  E lo hanno trasmesso alla Corte. Se lei manda due che si dicono regionalisti perché hanno scritto qualcosa sul diritto regionale, ma che hanno una visione Stato-centrica, non abbiamo cambiato niente.

  PRESIDENTE. Abbiamo trovato veramente stimolante e interessante quest'incontro. Poi è argomento di attualità.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). A fine anno, presenteremo una rilettura dei bilanci regionali con la nuova classificazione, quindi già armonizzati, e con una serie di spiegazioni. Abbiamo fatto già una serie di comparazioni tra le regioni per vedere che cos'è il virtuosismo regionale e per capire anche i comportamenti intermedi delle regioni su determinate funzioni.
  Vi inviteremo. Se volete, potremo anche continuare questo dialogo. Là si vede concretamente che con quattro lire le regioni fanno tanto, contrariamente alla vulgata.

  PRESIDENTE. La ringraziamo per questo contributo e questo stimolo. Spero che la collaborazione possa continuare. Ringrazio tutti i colleghi.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.15.

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