Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3
Audizione del Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, sul federalismo fiscale nella riforma costituzionale approvata dal Senato della Repubblica e i riflessi sull'impianto della legge n.42 del 2009
(ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento della Camera dei deputati):
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3
Boschi Maria Elena (PD) , Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento ... 3
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 7
Boschi Maria Elena (PD) , Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento ... 7
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 8
Marantelli Daniele (PD) ... 9
Guerra Maria Cecilia ... 10
Fornaro Federico ... 12
De Menech Roger (PD) ... 13
D'Incà Federico (M5S) ... 14
Zanoni Magda Angela ... 15
Collina Stefano ... 16
Lai Bachisio Silvio ... 17
Gebhard Renate (Misto-Min.Ling.) ... 18
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 18
Marantelli Daniele (PD) ... 18
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 18
Boschi Maria Elena (PD) , Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento ... 18
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 22
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI
La seduta comincia alle 7.50.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione del Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, sul federalismo fiscale nella riforma costituzionale approvata dal Senato della Repubblica e i riflessi sull'impianto della legge n. 42 del 2009.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, sul tema del federalismo fiscale, nell'ambito della riforma costituzionale approvata dal Senato della Repubblica e i riflessi sull'impianto della legge n. 42 del 2009.
Ringrazio il Ministro per aver risposto tempestivamente alla nostra richiesta. La fase è quella giusta, dal punto di vista temporale, visto che a breve si entrerà nel vivo della discussione della riforma anche alla Camera. Ringrazio, inoltre, i colleghi che hanno risposto alla convocazione anche in una settimana «morta» per i lavori parlamentari della Camera.
Do, quindi, la parola al Ministro Maria Elena Boschi per lo svolgimento della sua relazione.
MARIA ELENA BOSCHI, Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento. Vi ringrazio per l'opportunità di discutere con voi della riforma costituzionale che abbiamo approvato al Senato. I senatori presenti hanno già avuto modo di partecipare e contribuire in modo attivo alla riforma costituzionale, apportando delle modifiche che hanno inciso in modo profondo su alcune parti del disegno di legge inizialmente proposto dal Governo.
Attualmente, stiamo affrontando lo stesso lavoro alla Camera. Vi sono stati già oltre due mesi di lavoro in Commissione, per cui ci accingiamo a entrare nella fase emendativa, avendo terminato ieri la discussione generale in Commissione e avendo adottato il testo approvato al Senato come base per i nostri lavori.
Come ha ricordato il Presidente, l'audizione di quest'oggi mira a delineare il rapporto tra l'attuazione del federalismo fiscale e la riforma costituzionale che abbiamo presentato.
Nella proposta del Governo, poi approvata dal Senato, si va verso un modello rafforzato di regionalismo cooperativo, in cui si cerca di superare il dualismo tra Stato centrale e autonomie, riportando a unità il sistema dei diversi livelli istituzionali sul nostro territorio.
In modo particolare, la scelta del Governo ha cercato di superare le criticità emerse a seguito della riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, soprattutto per la conflittualità che ne è derivata tra Stato e Regioni, con il problema del contenzioso di fronte alla Corte costituzionale che ha caratterizzato questi ultimi anni, a Pag. 4partire proprio dal 2001. Infatti, secondo i dati della Corte costituzionale, dal 2001 al 15 ottobre 2014 sono stati proposti oltre 730 ricorsi da parte dello Stato su leggi regionali.
In molti casi, le pronunce della Corte costituzionale sono andate a favore del ricorso dello Stato. Abbiamo, peraltro, una statistica che ci porta a individuare, per il 2012 e per il 2013, dati molto significativi rispetto al lavoro compiuto dalla Corte costituzionale sul tema della conflittualità Stato-Regioni, dal momento che quasi il 50 per cento del suo lavoro è stato dedicato a risolvere questo contenzioso.
Alla luce dell'analisi di questi dati e delle criticità emerse, è stato proposto un modello che correggesse questa dicotomia e cercasse di superare questa conflittualità, attribuendo ai rappresentanti delle Regioni e dei Comuni un ruolo attivo nel procedimento legislativo anche statale, rivendendo la composizione del Senato e quindi prevedendo che i rappresentanti delle istituzioni territoriali vi sedessero.
In questo modo, si è andati verso un modello di codecisione tra il centro e la periferia che caratterizza Paesi in cui c’è un'esperienza di decentramento territoriale più forte, come la Germania o gli Stati Uniti. In quei modelli c’è, infatti, un Senato o una Camera Alta che è espressione delle autonomie territoriali.
Si tratta di un modello nuovo in cui al Senato – espressione delle istituzioni territoriali – vengono attribuiti ruoli di primo piano in fase legislativa, innanzitutto per quanto riguarda la revisione costituzionale, ma con una codecisione (quindi un bicameralismo perfetto) su alcune leggi ordinarie particolarmente significative che vertono su materie strettamente attinenti alle competenze di questa Commissione, come l'attuazione degli articoli 122 e 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, nonché dell'articolo 116 sull'attuazione del regionalismo differenziato, che abbiamo modificato anche con la riforma costituzionale.
È un modello forte di Senato che prevede l'elezione da parte di questa Camera, in modo distinto rispetto alla Camera dei Deputati, di due giudici della Corte costituzionale, sottolineando il ruolo da protagonista delle istituzioni territoriali nella composizione della Corte costituzionale, che talvolta è chiamata a pronunciarsi proprio su materie che hanno più attinenza con la legislazione regionale.
In questa nuova composizione si è ritenuto che le istituzioni territoriali (le Regioni in particolare) fossero già rappresentate nel Senato, quindi si è eliminata la previsione delle delegazioni regionali per l'elezione del Presidente della Repubblica, essendo, appunto, già ricomprese nella composizione del Senato.
Peraltro, abbiamo previsto un ruolo del Senato molto incisivo su tutti i procedimenti legislativi, prevedendo, in alcuni casi, la necessità di maggioranze rafforzate alla Camera dei deputati – cioè la maggioranza assoluta – per superare eventuali proposte di modifica del Senato non condivise dalla Camera. Ciò vale, in particolare, per quanto riguarda le disposizioni riferite all'articolo 119 della Costituzione in tema di fondo perequativo e di indicatori di riferimento per il finanziamento delle funzioni pubbliche delle regioni, delle città metropolitane, dei comuni e del patrimonio dei medesimi enti, di risorse aggiuntive e interventi speciali.
Inoltre, è un modello che abbiamo immaginato più flessibile e dinamico nel rapporto tra Stato e regioni, anche per quanto riguarda il tema strettamente legato alle risorse, quindi il binomio tra l'autonomia di risorse e di spese e la responsabilità che grava sugli enti territoriali in ordine alla politica economica e alle risorse finanziarie.
In questo regionalismo organico, caratterizzato da forti meccanismi di connessione dell'intero ordinamento, il sistema tributario italiano, articolato e decentrato su più livelli, può raggiungere la massima funzionalità in presenza di meccanismi di cooperazione e di controllo che consentono al tempo stesso la composizione e l'equilibrio delle istanze delle autonomie.
Anche su questo versante, il Senato ha ruoli nuovi, che non sono previsti nell'attuale assetto costituzionale, di valutazione Pag. 5dell'impatto delle politiche pubbliche e di verifica dell'attuazione delle leggi. Pertanto, proprio per la nuova composizione del Senato, si riserva alle autonomie territoriali un ruolo fondamentale nella verifica delle politiche pubbliche, nonché la possibilità di avere delle commissioni d'inchiesta al Senato su materie di interesse pubblico che riguardino le materie concernenti le autonomie locali. In questo modo, il Senato ha – ripeto – la possibilità di svolgere un ruolo attivo anche nel controllo.
Con la diversa ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni proposta con la riforma del Titolo V, che rappresenta il secondo pilastro della riforma costituzionale insieme alla nuova composizione e alle nuove funzioni del Senato, si è attribuito allo Stato il ruolo di coordinamento della finanza pubblica, che di fatto era già stato ritagliato dalle ultime pronunce della Corte costituzionale in materia, le quali avevano, appunto, riconosciuto allo Stato la possibilità di svolgere un ruolo di coordinamento, là dove vi fosse un interesse generale. È stato, dunque, esplicitato il ruolo di coordinamento attribuito – ripeto – alla competenza esclusiva statale.
Questo si accompagna all'introduzione di un ruolo di coordinamento, sempre di competenza dello Stato, per l'uniformità dell'attività amministrativa e per la valorizzazione, nell'ambito della riforma costituzionale proposta, dell'elemento dei fabbisogni standard e della capacità fiscale dei diversi livelli.
Peraltro, so che di recente in questa Commissione c’è stata l'audizione del sottosegretario Zanetti, che credo vi abbia illustrato l'attività del Governo rispetto al processo di determinazione dei fabbisogni standard e presentato lo stato di avanzamento dei lavori, che è in una fase quasi conclusiva. In particolare, sarà rilevante il modo in cui questo processo di individuazione possa coniugarsi con la riforma delle province (quindi con l'individuazione degli enti di area vasta e delle città metropolitane) e con il disegno della nuova ripartizione delle funzioni per dare piena attuazione alla legge Delrio.
Il rilievo dato all'individuazione dei fabbisogni standard e, più in generale, all'importanza della loro determinazione deriva anche dalla necessità di stabilire i criteri essenziali di valutazione della spesa pubblica e dei suoi limiti. Al tempo stesso, dobbiamo tenere presenti i servizi erogati a livello storico e i fabbisogni legati alle diverse realtà territoriali. Insomma, occorre tenere insieme entrambi gli elementi, anche ai fini di un'elaborazione complessa e articolata nell'ottica di individuare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e dei servizi che devono essere garantiti al cittadino contribuente.
Ritornando all'interrogativo iniziale – come il federalismo fiscale possa trovare spazio nell'ambito della riforma costituzionale – credo che avere un assetto costituzionale che evidenzi e rafforzi il ruolo delle autonomie locali anche nel procedimento legislativo e negli elementi che adesso ho cercato di illustrare consenta di avere un'architettura e un quadro di riferimento in cui il federalismo fiscale riuscirà ad avere un'attuazione migliore di quella avuta fino a oggi.
Ricordiamo, infatti, che già nell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 era prevista una limitata partecipazione delle autonomie locali al procedimento legislativo, ma di fatto questa previsione non ha avuto attuazione fino a oggi. Questo rappresenta, dunque, sicuramente un passo in avanti. È ovvio, però, che tutto ciò si accompagna al superamento delle province anche dal dettato costituzionale, quindi a un riordino dei diversi livelli territoriali.
Nell'articolo 116 si fa un ulteriore passo in avanti anche nell'ottica del regionalismo differenziato. Infatti, è vero che vengono ridisegnate le materie attribuibili alle regioni, ma si semplifica, per certi versi, il procedimento che può portare a dare concreta attuazione all'articolo 116, che in questi anni è rimasto sostanzialmente lettera morta.Pag. 6
In pratica, la riforma, da un lato, consente di poter dare piena attuazione all'articolo 116 anche a prescindere dalla richiesta della regione e, dall'altro, semplifica il procedimento legislativo perché non richiede più maggioranze rafforzate, quindi rende teoricamente più facile individuare un consenso in Parlamento per creare una maggioranza che possa darvi, appunto, piena attuazione; ciò nell'ottica di avere un regionalismo il più possibile cooperativo, ma al tempo stesso evidenziando le differenze oggettive, che sono un dato storico, tra le nostre regioni e nel nostro territorio.
Questo, tuttavia, vale a condizione che le regioni rispetto alle quali si dà attuazione al regionalismo differenziato presentino un equilibrio di bilancio. Vi sono, perciò, dei parametri e dei limiti legati alle risorse finanziarie e alla correttezza dei conti delle regioni.
Anche per quanto riguarda lo sviluppo coerente del sistema tributario, con il coordinamento a livello nazionale, dobbiamo procedere più rapidamente verso l'attuazione concreta. Da questo punto di vista, avere avuto la possibilità di modificare l'articolo 119 rappresenta un passo in avanti. Difatti, l'articolo 119 è stato riscritto nel secondo comma, prevedendo che l'autonomia finanziaria degli enti territoriali vada esercitata nei limiti della legge dello Stato e non solo dei principi in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; ciò in connessione con la modifica apportata all'articolo 117, là dove viene ricondotta alla competenza esclusiva dello Stato la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, che attualmente, come sapete, rientra, invece, nella legislazione concorrente.
La legge di coordinamento della finanza pubblica, in base al nuovo articolo 70, sarà adottata dalla Camera con la procedura in cui l'intervento del Senato svolgerà un ruolo rinforzato.
La disciplina dell'autonomia finanziaria di entrata e di spesa e dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie, seppure non modificata nel suo impianto, potrà, pertanto, risentire della maggiore incidenza che la competenza esclusiva statale sul coordinamento di finanza pubblica potrà produrre sull'autonomia finanziaria degli enti territoriali. L'esigenza di tale accentramento deriva non soltanto dalla crisi economica, quindi dalla necessità di avere un coordinamento a livello nazionale, ma dalle sentenze e dalla giurisprudenza appena citata.
Inoltre, è stato riformulato anche il quarto comma, dedicato al principio del parallelismo tra le funzioni esercitate dall'ente territoriale e il complesso delle risorse necessarie per esercitare tali compiti, stabilendo che le risorse di cui dispongono gli enti territoriali assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche loro attribuite sulla base di indicatori di riferimento di costi e di fabbisogno che promuovano condizioni di efficienza.
Il riferimento a tali indicatori è correlato all'evoluzione del federalismo fiscale a partire dalla legge n. 42 del 2009. Essa, infatti, delinea il nuovo assetto dei rapporti economici e finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, nel segno del superamento del sistema di finanza derivata; ciò attraverso l'attribuzione di autonomia di entrata e di spesa agli enti decentrati nel rispetto dei principi di solidarietà, riequilibrio territoriale e coesione sociale sottesi al nostro sistema costituzionale.
Si tratta, in altre parole, di una sorta di «costituzionalizzazione» di uno degli elementi essenziali della legge n. 42 del 2009 nel definire i principi fondamentali del sistema di finanziamento delle autonomie territoriali poiché distingue le spese che investono i diritti fondamentali di cittadinanza e quelle inerenti le funzioni fondamentali degli enti locali, per le quali si prevede l'integrale copertura dei fabbisogni finanziari rispetto a quelle che, invece, vengono affidate in misura maggiore al finanziamento degli strumenti propri dell'autonomia tributaria, per le quali si prevede una perequazione delle capacità fiscali, ossia un finanziamento delle funzioni che tiene conto dei livelli di ricchezza differenziati dei territori.Pag. 7
Per le suddette funzioni concernenti diritti civili e sociali, spetta allo Stato definire i livelli essenziali delle prestazioni, ai quali sono associati i fabbisogni standard necessari ad assicurare le prestazioni medesime.
La determinazione di tali fabbisogni costituisce, quindi, un fondamento della fiscalità delineata nella legge n. 42 del 2009, in quanto è alla base della sequenza: costi standard; differenza tra fabbisogno o costo standard e risorse fiscali dell'ente; perequazione integrale, con il concorso dello Stato, del fabbisogno per quanto concerne i livelli essenziali delle prestazioni; perequazione parziale (riferita alla capacità fiscale) per le altre funzioni.
Premesso che è ancora mancante un'organica e sistematica definizione legislativa dei livelli essenziali delle prestazioni nei settori diversi dalla sanità, si segnala che la disciplina generale sui criteri per la determinazione dei fabbisogni è stata dettata con il decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216. Tuttavia, la definizione del nuovo assetto è ancora da completare con l'adozione dei DPCM recanti le note metodologiche per i fabbisogni standard negli specifici ambiti territoriali.
Ciò nonostante, il Governo ha voluto imprimere un'accelerazione anche da questo punto di vista, per cui di recente sono stati trasmessi per i pareri parlamentari degli schermi relativi all'individuazione...
PRESIDENTE. Sono stati trasmessi l'altro ieri.
MARIA ELENA BOSCHI, Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento. Per fortuna, la mia audizione è successiva, quindi posso dire che l'accelerazione c’è stata. A questo punto, mi inviterete spesso in audizione sperando che questo possa accelerare altre materie di interesse di questa Commissione.
Naturalmente, è una coincidenza. A ogni modo, come sapete, il 15 ottobre è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale l'altro DPCM che è stato adottato in estate e che riguarda le note metodologiche per l'individuazione dei fabbisogni standard per i comuni e per le province relativamente alle funzioni di amministrazione, gestione e controllo.
Nel quadro che stiamo enunciando, è comunque di sicuro rilievo il fatto che per la prima volta sia stato inserito in Costituzione, quindi abbia acquisito rango costituzionale, il riferimento agli indicatori di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza. C’è, dunque, un'aggiunta significativa rispetto al testo iniziale presentato dal Governo, frutto del lavoro del Senato, che è andato a incidere anche su questi elementi.
Per quanto riguarda il quadro complessivo, nel momento in cui abbiamo rafforzato i costi e i fabbisogni standard e riconosciuto agli enti territoriali l'autonomia di risorse e di spese, a questo fa da contrappeso la responsabilità che ne deriva. Pertanto, nell'ambito della riforma costituzionale abbiamo apportato delle modifiche all'articolo 120, proprio nell'ottica di rendere evidente anche in Costituzione la responsabilità per quegli amministratori che portano a grave dissesto gli enti che amministrano.
Abbiamo fatto una scelta che non ha portato all'estrema conseguenza, ovvero al divieto del ripiano del passivo degli enti, perché questo avrebbe gravato in modo eccessivo, in ultima istanza, sui cittadini. Tuttavia, abbiamo voluto dare un segnale importante anche per quanto riguarda la responsabilità connessa al dissesto.
Peraltro, anche questa modifica costituzionale è in linea con le pronunce più recenti della Corte costituzionale, in modo particolare con la sentenza n. 219 del 2013, che ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 2, commi 1, 2, 3 e 5 del decreto legislativo n. 149 del 2011.
Com’è noto, tale decreto – che è stato emanato al fine di completare la normativa attuativa del federalismo fiscale, dando seguito ai criteri di responsabilità e autonomia caratterizzanti la nuova governance degli enti territoriali – ha introdotto elementi sanzionatori nei confronti degli Pag. 8enti che non rispettano gli obiettivi finanziari e sistemi premiali verso gli enti più virtuosi.
La citata sentenza ha affermato la lesione dei parametri costituzionali per due profili concomitanti, oltre alla previsione di fasi procedimentali non previste dall'articolo 126 della Costituzione, che ingeneravano, a parere della Corte, incertezza procedimentale.
In sostanza, la Corte ha censurato il potere sanzionatorio dello Stato previsto dalla norma che avrebbe colpito la persona fisica del presidente della giunta, non già in quanto organo di governo della regione, ma nella veste di commissario ad acta nominato dal Consiglio dei ministri per attuare il piano di rientro del disavanzo sanitario. La Corte, nella medesima sentenza, ha comunque ribadito la legittimità dell'intervento statale negli organi degli enti e delle regioni attraverso l'esercizio del potere sostitutivo.
Inoltre, l'attribuzione al Senato della funzione consultiva, anche in ordine allo scioglimento dei consigli regionali e alla rimozione dei presidenti delle giunte, sempre ai sensi dell'articolo 126, porta il venir meno del riferimento alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, istituita con la legge n. 62 del 1953, alla quale è stata finora riconducibile questa funzione. Tra l'altro, un ruolo per la Commissione era stato prefigurato anche dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, ma non è mai stato reso effettivo dai regolamenti parlamentari, ai quali era demandata la concreta attuazione di questa previsione.
Il nuovo Senato rappresentativo delle istanze territoriali, ai sensi dei novellati articoli 55 e 57, costituisce il referente di necessaria interlocuzione da parte del Governo in caso di attivazione del meccanismo di cui all'articolo 126.
La riforma del Titolo V lascia inalterato il sistema della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza unificata, nel senso che non lo costituzionalizza per evitare che vi sia un suo eccessivo irrigidimento. A seguito delle modifiche apportate in Senato (che nella nuova composizione diventa, appunto, rappresentativo degli enti territoriali) non è, però, prevista la presenza necessaria e di diritto, come inizialmente previsto dal testo del Governo, dei rappresentanti delle giunte e in modo particolare del presidente, quindi degli esecutivi delle Regioni. Il venir meno della presenza di diritto dei membri delle giunte fa sì che anche la Conferenza Stato-Regioni e quella Unificata possano mantenere un loro ruolo.
Può essere di interesse, in questo passaggio alla Camera, tra le possibili modifiche da prendere in esame, anche una valutazione del nuovo rapporto tra le Conferenze e il Senato e in generale il potere legislativo, quindi il Parlamento, per quanto riguarda tutta la parte relativa all'espressione dei pareri sui testi normativi. Difatti, nel momento in cui i rappresentanti delle Regioni sono già coinvolti in fase decisionale, nell'esame alla Camera potremmo interrogarci su come questo possa essere coordinato con un ruolo delle Conferenze in sede consultiva.
Ovviamente, questi sono interventi che possono essere demandati anche alla legge ordinaria perché non è necessariamente previsto un intervento sulla Costituzione. Ciò vale anche per quanto attiene le varie Commissioni bicamerali che possono interrogarsi ed essere chiamate a pronunciarsi su questi temi.
Ho concluso la presentazione iniziale. Vi ringrazio dell'attenzione.
PRESIDENTE. Grazie, Ministro, per questo quadro di insieme. Prima di dare la parola ai colleghi, mi permetto di sollevare due questioni.
La prima è relativa a quanto detto, anche in questa sede, dal professor Gallo in merito all'articolo 119 nella sua nuova formulazione e il coordinamento che si è reso necessario per le pronunce della Corte costituzionale e i successivi interventi del Parlamento sull'articolo 81, con il conseguente spostamento dei principi di coordinamento della finanza pubblica all'articolo 117.
Ora, nella nuova formulazione dell'articolo 117 e quindi del 119, il professor Pag. 9Gallo evidenzia una problematica. Infatti, da un lato, si pone a carico degli enti la necessità di garantire l'equilibrio di bilancio, cosa che presuppone un'autonomia finanziaria che possa esplicitare e permettere all'amministratore di raggiungere questo obiettivo, dall'altro, l'interpretazione che si potrebbe dare dell'articolo 119, secondo comma – dice ancora il professor Gallo – è che non esiste la possibilità di istituire, né di stabilire nessuna forma di «tassazione» a livello locale perché tutto deriverebbe dalla legge statale, quindi, di fatto, il principio di autonomia finanziaria verrebbe depotenziato.
Il professor Gallo ha ben spiegato questo concetto, nel senso che si passa dal principio definito nell'ambito delle leggi statali a una sorta di ulteriore degradamento; insomma, si passa dal principio tout-court alla legge dello Stato che stabilisce, di fatto, il coordinamento. Questa è una prima problematica che ha la sua storia in questi anni molto travagliati ed è relativa alla necessità di adeguare la finanza pubblica nazionale alle nuove condizioni imposte dall'Unione europea.
L'altra questione è, invece, quanto sopravvive della legge n. 42 perché anche l'annunciata local tax ci costringe a una revisione profonda rispetto a un impianto fondato su uno schema che, a questo punto, è totalmente superato. Se questa è l'intenzione del Governo, siccome la nostra Commissione ragiona proprio sulla legge n. 42, credo che questa vada ripresa in mano in modo logico e razionale e tenuta ferma nei principi che, come è stato ribadito, a proposito dei LEA (livelli essenziali di assistenza), dei LEP e del principio della perequazione, sono condivisi. Pertanto, penso vada sistematizzata e resa coerente con tutta la normativa che in questi anni, ma anche in questi giorni, sta ridelineando l'impianto.
Dopo queste due considerazioni che ritenevo di fare preliminarmente, do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
DANIELE MARANTELLI. Ringrazio molto anch'io il Ministro perché l'obiettivo di questo incontro è provare a dare un contributo di chiarezza in una situazione obiettivamente complicata e per certi aspetti confusa.
Premesso che la riforma federale dello Stato è una grande risorsa del Paese, non un problema, nel senso che è una carta da giocare per modernizzare l'Italia, in questi anni tutti abbiamo compreso che la nostra pubblica amministrazione ha bisogno di attuare – come si diceva nell'introduzione – il binomio tra autonomia e responsabilità. Questo mi pare il dato rilevante che, per esempio, i debiti fuori bilancio di alcune regioni ed enti locali ci hanno ricordato prepotentemente nelle scorse settimane.
Del resto, penso che siamo tutti consapevoli che l'unica modalità per abbattere significativamente la spesa pubblica, in maniera giusta e quindi senza ricorrere ai comodi tagli lineari, sia quella di applicare correttamente i costi standard.
Ora, nel 2001 è stata fatta una riforma che, come è stato detto nella relazione, ha presentato più di una criticità, a cominciare dai livelli di conflittualità. Tuttavia, mi permetto di notare che una certa letteratura che abbiamo incontrato in questi anni e che parrebbe far ricadere sulla riforma del Titolo V del 2001 anche la nascita di ISIS o del virus Ebola sia francamente eccessiva.
Insomma, bisogna cercare di guardare le cose con un po’ di equilibrio. Per questo è importante, anche nella riflessione che stiamo facendo in Commissione alla Camera, definire in maniera puntuale i contenuti degli articoli 117 e 119. Credo, infatti, che questi siano passaggi molto importanti che devono costringerci a guardare in faccia i problemi.
Per esempio, è di attualità la riflessione sull'assetto idrogeologico del Paese, tanto bello quanto fragile, dal Piemonte alla Calabria. Ora, negli Stati Uniti hanno un modello, discutibile o meno, con un'agenzia nazionale, la FEMA (Federal Emergency Management Agency) che sta a Washington, ma organizza gli interventi di Pag. 10prevenzione del dissesto in tutti gli Stati federali; viene finanziata in maniera particolare con delle assicurazioni modulate e così via. Ecco, questo è – ripeto – un modello, discutibile o meno.
Nel nostro Paese, invece, non c’è un modello. Allora, è evidente che la riforma deve fare i conti con problemi che riguardano milioni di persone, come in questi giorni è drammaticamente accaduto. Discutere dell'applicazione della legge n. 42 significa, dunque, anche fare i conti con lo tsunami che questa legge – pur discutibile, ma che nell'impostazione di Tremonti e Calderoli (faccio questi nomi per semplificare) aveva una ratio – ha dovuto affrontare, ovvero la recessione economica più grave del secondo dopoguerra. È chiaro che soprattutto dal 2011 in poi tutta la pubblica amministrazione è stata terremotata sotto questa crisi.
In questo senso, come attuiamo il passaggio di cui si diceva, che secondo me è importante, ovvero elevare a rango costituzionale il finanziamento di costi e fabbisogni per superare la cosiddetta «finanza derivata», che non è affatto stata sorpassata ?
Pongo un'ulteriore domanda, anche rispetto a quello che ha detto il Presidente. È utile che le regioni restino così come sono configurate, con gli attuali confini ? L'esperienza delle regioni a statuto allo speciale è un tabù che non possiamo violare ?
Credo di essermi spiegato. Abbiamo una regione, la Lombardia, che rappresenta il 25 per cento della ricchezza nazionale; è la prima potenza produttiva italiana, la prima regione agricola italiana, la seconda in Europa, quindi non può essere messa sullo stesso piano di altre regioni che hanno una popolazione inferiore ad alcune province, neanche tra le più grandi, della stessa Lombardia. Penso che questo problema vada affrontato con lo spirito giusto, altrimenti non arriviamo ai fondamentali.
La produzione di autoveicoli, dai 900.000 del 2007, si è sostanzialmente dimezzata. Senza uno straccio di politica industriale, rischiamo di parlarci addosso quando facciamo discussioni di carattere istituzionale.
Ora, credo che sia compito del Governo quello di avere una politica industriale. Tuttavia, è evidente che le ricadute di questa devono essere oggetto di applicazione. Penso che questi argomenti debbano avere diritto di cittadinanza nella discussione che facciamo, altrimenti ho l'impressione che non guardiamo i problemi di fondo del Paese. Per questa ragione, l'incontro di questa mattina è prezioso e può essere un'occasione per provare a portare un minimo di chiarezza e per compiere un passo in avanti.
MARIA CECILIA GUERRA. Anch'io ringrazio il Ministro per la relazione e per la disponibilità. Riprendo alcuni punti e li declino secondo il mio sentire, partendo anch'io dal tema che abbiamo discusso con l'audizione del professor Gallo, che riguarda, in particolare, il delicato nodo del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Nel disegno di legge di riforma costituzionale, questo è un passaggio cruciale perché abbiamo due innovazioni: innanzitutto, entrambe le materie diventano di competenza esclusiva e, in secondo luogo, nessuna delle due rientra nella procedura rafforzata che in quel Senato pesa in maniera più rilevante. Questa è una scelta, ma è un passaggio di accentramento piuttosto significativo, che si porta dietro, sotto il profilo tributario, una scelta di modifica radicale rispetto all'impostazione seguita dalla Carta costituzionale (la realtà, poi, ha avuto corsi e ricorsi che bisognerebbe esaminare in altre occasioni).
In sostanza, per gli enti decentrati, il sistema tributario diventa esclusivamente derivato poiché viene meno la possibilità, da parte della legge regionale, di istituire nuovi tributi su materie non coperte e nell'ambito del principio del coordinamento. Sottolineo che non si tratta più di principi di coordinamento, nel senso che non è stata portata in materia esclusiva la parte delle norme generali o dei principi, come li chiamiamo adesso, ma l'intera Pag. 11materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Pertanto, per il sistema tributario i riflessi sono questi.
Per quanto riguarda il coordinamento della finanza pubblica, il tema, che era centrale nell'audizione del professor Gallo e su cui mi piacerebbe sentire il parere del Ministro, è quello dell'inesistenza del limite, nel senso che il coordinamento può arrivare fino all'articolazione precisa, anche dal punto di vista ordinamentale, del funzionamento della finanza pubblica, cioè non si limita alla definizione di obiettivi in termini di saldi, tra cui ovviamente l'equilibrio di bilancio ormai richiesto, ma può dettagliare anche la composizione della spesa come delle entrate.
Peraltro, questo in parte è già avvenuto. Sappiamo, infatti, che è un tema di grandissima attualità perché è un elemento emerso nel confronto tra i Comuni e il Governo, in cui i Comuni hanno accettato un obiettivo in termini di saldi, anche in termini del Patto di stabilità e del concorso degli enti decentrati alla manovra, chiedendo, però, di essere lasciati liberi nella gestione. Questo nodo, tuttavia, non è ancora sciolto, ma è aggravato in termini prospettici dal modo in cui è scritto l'articolo 119, in quanto non parlando di princìpi, ma di pieno coordinamento, esclude gli enti decentrati dal concorso alla definizione di questi elementi che sono cruciali per la loro attività.
L'altro elemento che vorrei porre, peraltro molto correlato a questo, riguarda il finanziamento dei fabbisogni standard, che emergono nell'articolo 119 in un punto importante e presente nella Costituzione in essere, ma mai considerato.
Mi riferisco al fatto che le risorse derivanti dalle fonti di cui ai primi tre commi in oggetto assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni. Di conseguenza, quando andiamo a declinare il tema dei fabbisogni standard non possiamo dimenticare questo aspetto. Su questo punto la legge n. 42 è ambigua perché cita i fabbisogni standard sotto due profili, da un lato come elemento funzionale alla definizione di che cosa significhi finanziamento integrale delle funzioni; dall'altro in termini di coefficiente di ripartizione del fondo perequativo.
Purtroppo, nella situazione verso cui andiamo, è rimasto solo questo secondo elemento, cioè quando – come giustamente ricorda il Ministro – applicheremo per una percentuale crescente dal 10 al 20 per cento il principio dei fabbisogni standard, staremo applicando soltanto la seconda parte di questo principio.
In altri termini, distribuiamo secondo dei fabbisogni standard le risorse del fondo perequativo, di cui non sappiamo l'adeguatezza, in concorso con le risorse proprie, a finanziare le funzioni pubbliche dei comuni e quant'altro. Tuttavia, le risorse di partenza potrebbero essere inadeguate o sovrabbondanti. Mi sembra che questo sia il tema cruciale. Non si tratta tanto del disegno costituzionale quanto dell'applicazione e dell'ambiguità della legge n. 42. Questo sta diventando – ripeto – un tema cruciale, come vediamo non solo per i comuni che sopravvivono, ma anche per le province.
Apro una parentesi sull'attualità per dire che le province scompariranno e saranno sostituite con enti di area vasta con altro status non costituzionale, ma hanno sicuramente delle funzioni ben definite che resteranno in capo loro – queste le conosciamo, mentre non sappiamo ancora quali saranno delegate – sulle quali sta maturando la consapevolezza che non esiste adeguatezza fra la funzione che deve essere svolta e le risorse a disposizione. Di conseguenza, avremo molte province in dissesto. Questo è problema molto serio che credo debba essere sottolineato con forza.
I fabbisogni standard mi interessano in modo particolare anche per la mia storia di persona che si è occupata di politiche sociali. Introduco, quindi, l'ultimo punto.
Dal punto di vista delle politiche in generale, la mancanza di definizione dei fabbisogni standard è drammatica. Ovviamente, non è un problema in capo a questo Governo, ma è una storia che viene Pag. 12da 13-14 anni. Tuttavia, non definire i livelli essenziali significa non avere lo strumento per perequare e soprattutto per garantire il rispetto della lettera n), cioè dei diritti di cittadinanza.
La scelta di un accentramento, che in questo caso apprezzo, che va nel senso di avere un rafforzamento della garanzia che vi sia una tutela dei livelli essenziali da parte dello Stato, come ho avuto già modo di sottolineare durante il dibattito al Senato, si è dimenticata della parte sociale. Le gambe del welfare – a parte le pensioni, che hanno una storia a parte anche come finanziamento – sono fondamentalmente tre: la salute, l'istruzione e quella che viene chiamata «assistenza», ma che preferisco chiamare «politiche sociali».
Ora, delle prime due, con la lettera n) si riportano le disposizioni generali comuni in capo allo Stato, mentre le politiche sociali continuano a essere trascurate. Questo, specialmente nella fase storica che stiamo attraversando, è una carenza che mi auguro il prosieguo del dibattito sulle riforme istituzionali possa superare.
FEDERICO FORNARO. Mi associo anch'io ai ringraziamenti al Ministro. In più di un'occasione avevamo sottolineato l'esigenza, nel lavoro di questa Commissione, di avere una bussola per comprendere l'orientamento del Governo rispetto alle scelte che abbiamo di fronte.
Per quanto mi riguarda, vorrei sottolineare una pericolosa divergenza che si sta venendo a creare tra l'architettura istituzionale che si andrà a formalizzare con la riforma in discussione alla Camera e la realtà quotidiana, con il rischio che l'architettura, nel momento in cui scende sul territorio, possa essere rigettata.
C’è un'attenzione su tutto il sistema delle autonomie locali che rende difficile, in alcuni casi, la stessa comprensione del disegno complessivo, o comunque c’è una differenza talmente abissale, in alcuni casi, tra i propositi e la dinamica quotidiana di leggi, regolamenti e decreti che credo vada sottolineata con forte preoccupazione in questa sede.
Cito, per velocità, due questioni. La prima è stata già accennata dalla collega Guerra. Sul terreno delle province – o delle aree vaste, guardando nella prospettiva futura del disegno costituzionale – la questione che ho appena posto si sta evidenziando in maniera plastica. L'anno prossimo, infatti, rischiamo di avere più della metà delle province in default, peraltro senza responsabilità degli amministratori.
Una riflessione a margine – lo dico avendo sostenuto nel dibattito al Senato una tesi diversa sull'elezione dello stesso Senato – riguarda, poi, la necessità di una valutazione critica e autocritica del sistema di elezione di secondo grado che abbiamo sperimentato sulle province e che trasleremo.
La seconda questione si pone sui comuni. Infatti, il Fondo di solidarietà comunale, com’è attuato oggi, sta provocando la nascita di una fattispecie che fino a qualche anno fa sarebbe stata considerata quasi fantascientifica, i cosiddetti «comuni incapienti». Siamo sotto lo zero di trasferimenti e siamo, invece, con centinaia di comuni che alimentano il fondo con risorse proprie. Se questo lo leggiamo nell'ottica della questione dell'armonizzazione dei bilanci che decorrerà dal 1o gennaio, si pone una questione molto significativa di finanza comunale.
Un'ultima questione è stata accennata dal collega Marantelli. È chiaro che all'interno di questa partita la problematica della gestione dei dissesti e dei predissesti va riaffrontata in maniera organica. Bisogna, quindi, arrivare velocemente a una nuova normativa perché le esperienze che conosciamo, in molte realtà, portano a definire insostenibile, nel rapporto con la cittadinanza, una gestione del dissesto, a maggior ragione quando a gestirlo sono amministratori che non lo hanno prodotto.
Siamo ai paradossi. Ne cito uno e poi chiudo. Nel 2012 un comune capoluogo di provincia dichiara il dissesto prodotto dall'amministrazione precedente, quindi in quell'anno non rispetta il Patto di stabilità. Ebbene, l'altro giorno sono arrivate le Pag. 13sanzioni del Patto di stabilità 2012, per cui, se non riusciamo a trovare un intervento di carattere normativo, l'anno prossimo queste porteranno a dichiarare nuovamente il dissesto. Sembra quasi un loop che ci porta sempre più in fondo senza che si riesca a trovare il sistema per uscirne.
Chiudo da dove sono partito, con un ringraziamento, ribadendo l'utilità di questi confronti perché abbiamo bisogno, per il prosieguo del lavoro di questa Commissione, di provare ad aiutarvi a eliminare la divaricazione tra architettura e vita quotidiana degli enti locali.
ROGER DE MENECH. Ringrazio anch'io il Ministro della presenza. Personalmente, sono molto poco preoccupato dell'efficacia e dell'efficienza della riforma costituzionale poiché credo che l'esperienza rispetto all'ultima recente riforma del Titolo V abbia già dato dimostrazione del fatto che le riforme costituzionali da sole non bastano per cambiare il Paese.
Ritengo, tuttavia, che dentro questa riforma ci siano tutti gli elementi necessari per cambiare il Paese perché quando parliamo di finanza pubblica e diciamo che entrate e uscite devono pareggiare e che il debito si fa solo per gli investimenti, affermiamo cose di buonsenso che dovrebbero prevenire il disastro degli anni passati. Questa è la verità.
Il problema è che in questo Paese, anche nel praticare le autonomie, ci siamo dimenticati di una parola fondamentale, ovvero responsabilità. Pertanto, rispetto alla buona base di partenza rappresentata da questa riforma, anche quando diciamo che il tema della finanza ritorna in via prioritaria al governo centrale, non mi preoccuperei degli effetti finali rispetto ai comuni perché in un Paese strutturato e diverso come l'Italia dobbiamo essere in grado, come Stato centrale, di mettere insieme i fabbisogni, i livelli di assistenza e le entrate, ma è complicato farlo senza un disegno di insieme.
Tuttavia, dentro questa cornice, chiedo al Governo di lasciare spazio a chi crea efficienza ed efficacia nella gestione del territorio. Vengo, così, ad alcuni esempi concreti che dimostrano che alla fine sono agli atti di amministrazione che fanno la differenza rispetto al quadro generale.
In primo luogo, consideriamo la vicenda delle province. Sappiamo benissimo che non è sufficiente la riforma, che dà sì una linea, ma oggi siamo di fronte a province completamente diverse tra loro. Come dobbiamo agire, quindi, per garantire i famosi servizi essenziali, per esempio che questo inverno la neve venga tolte dalle strade e le scuole siano riscaldate ?
Ebbene, dobbiamo iniziare a procedere, provincia per provincia, con i livelli minimi di qualità del servizio e i livelli minimi di entrate per garantire quella qualità del servizio. Per esempio, dobbiamo partire da quanti chilometri di strade ci sono in quella provincia, quanto costa gestire un chilometro di strada e poi dare le risorse sufficienti.
Nel passato, alcune regioni in cui l'autonomia è stata forte hanno dimostrato che lasciare spazio solo alle regioni non è sufficiente. Pertanto, dobbiamo fare noi questo passaggio, ma dentro un quadro istituzionale e con la capacità di premiare (ecco il binomio autonomia e responsabilità) o – su questo punto dobbiamo guardarci negli occhi – punire chi non crea efficienza. Non credo, infatti, che il Paese possa permettersi altre uscite della finanza pubblica non controllate. Ecco, se leggiamo la riforma con questo spirito costruttivo, vi troviamo quei meccanismi che possono garantire questo principio.
In senso più locale, sul tema delle autonomie speciali non dobbiamo puntare tanto a togliere autonomia a chi la ha. Punterei, invece, a estendere le buone pratiche, quindi toglierei autonomia a chi non la esercita in maniera virtuosa.
È complicato pensare a un Paese tutto uguale. L'Italia è il Paese delle differenze culturali, geografiche e fisiche. Quindi, dobbiamo lavorare su questo ed entrare nel merito. Come ho detto quando è venuto il commissario per i tagli alla spesa, più che di un commissario avremmo bisogno di una rete capillare di Pag. 14commissari che entrino nel merito del modo in cui stiamo amministrando questo Paese.
Dovremmo fare lo stesso anche sul tema delle riforme, con la garanzia che le riforme che scriviamo in Costituzione diventino efficaci. Dico questo perché vengo da una regione, il Veneto, che è tra due regioni a statuto speciale e, in particolare, dalla provincia maggiormente «incastrata» – uso questo termine – fra due regioni a statuto speciale e uno Stato straniero (l'Austria) che oggi ci fa più concorrenza delle stesse regioni a statuto speciale. Infatti, la Carinzia ci fa più concorrenza sul tema della competitività industriale, nel senso che manda le lettere ai nostri imprenditori.
Allora, su questo tema, non chiediamo trattamenti di favore, bensì che anche dentro questa riforma ci sia la giusta apertura nel riconoscere le differenze dei territori e l'efficienza dell'amministrazione. Se decliniamo quello che abbiamo scritto in questo modo, credo possiamo fare un buon servizio al Paese.
È chiaro, però, che dobbiamo farlo non solo grazie al lavoro del Ministro Boschi, che si occupa di riforme, ma con un inquadramento complessivo del modo di amministrare questo Paese perché quello che scriviamo – ripeto – si declina nelle leggi operative e di amministrazione e su questo piano spesso, nel passato, per necessità di cassa e anche di tempo, cioè per far rientrare velocemente i conti, si è preferita la scorciatoia.
Allora, questo è il messaggio che voglio lanciare al Governo. Credo, infatti, che solo entrando puntualmente nel merito, possiamo colpire il disegno principale dell'azione di governo, vale a dire le sacche di inefficienza e i soldi pubblici buttati al vento, che – dobbiamo riconoscerlo – sono ancora tanti. Tuttavia, per fare ciò non possiamo colpire quelli che in questi anni hanno mantenuto e creato efficienza.
Chiudo con un esempio. La norma che punisce la capacità di stipulare contratti di consulenza nell'ordine del 20 per cento in meno rispetto all'anno precedente premia chi nell'anno precedente aveva 10 milioni di euro di consulenze e oggi sta tranquillo; invece, chi, come alcuni comuni, ne aveva un milione, 100.000 o 10.000 euro non fa più consulenze, anche su temi per i quali si avrebbe bisogno di avere delle professionalità a disposizione.
Questo è l'esempio di come decliniamo norme che mettono in ginocchio chi aveva già creato efficienza e non chi ha mantenuto lo spreco.
FEDERICO D'INCÀ. Mi associo ai ringraziamenti al Ministro per la presenza di oggi, anche molto mattiniera.
Essendo l'unica persona dell'opposizione – a parte il Presidente, che come tale non potrà avere carta bianca nel dire quello che vuole – mi esprimerò in questo senso perché molto spesso in questa Commissione ci siamo domandati se trovarsi alle otto di mattina del giovedì fosse di reale importanza per il Paese o solo una perdita di tempo.
Per questo motivo, le vorremmo chiedere se questa Commissione deve essere ancora chiamata del «federalismo fiscale», oppure è meglio scioglierla o addirittura chiamarla del «centralismo fiscale». Dico questo perché quello che è contenuto nella riforma e nella visione del Governo è una testimonianza non di un regionalismo cooperativo, bensì di un asservimento al centralismo.
Mi spiego meglio. Il sottosegretario Zanetti è venuto qui due volte, ma – secondo me – non ha dato idea di continuità, nel senso che sta raccogliendo informazioni, ma ancora non abbiamo visto in pratica il lavoro svolto. A ogni modo, il pareggio di bilancio nelle regioni avverrà nel 2015, non nel 2017 come per lo Stato. Si assiste, nel frattempo, a una trasformazione degli enti locali e dei distributori di benzina in esattori statali. Questa è una visione che continua a farsi vedere anche all'interno della legge di stabilità.
Faccio un esempio per quanto riguarda la parte trasferimenti dello Stato agli enti locali. Nel Bellunese nel 2009 vi erano trasferimenti pari a 55 milioni di euro; nel 2014 vi sono solo 20 milioni ai comuni. Vi è, quindi, una differenza di 35 milioni di Pag. 15euro. Siccome i bellunesi sono 210.000, abbiamo una perdita di circa 166 euro per cittadino. Penso che in ogni regione e in ogni comune si siano avute delle problematiche simili.
Ora, con la local tax e la possibilità di poter aumentare la tassazione locale, c’è – ripeto – una trasformazione degli enti locali in esattori locali.
Più volte in questa Commissione abbiamo svolto un'analisi sui fabbisogni standard e sulla spesa storica. Mancano – come sappiamo – i LEA e i LEP. Abbiamo fatto anche una visita alla SOSE (Soluzioni per il Sistema Economico Spa). Da ieri è operativo per tutti il sito OpenCivitas, che le consiglio di vedere, il quale fa un raffronto in maniera corretta, anche se è migliorabile.
Ciò detto, ho presentato un emendamento. Infatti, in questa legge di stabilità, per quanto riguarda il passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard, abbiamo una prima fase che fissa il 20 per cento. La proposta emendativa, che credo possa avere anche l'appoggio del Presidente della Commissione sul federalismo fiscale, è di passare al 40 per cento, quindi fare un passo ulteriore. Mi auguro che l'emendamento possa essere preso in visione nei prossimi giorni, anche attraverso il relatore Guerra, che sicuramente avrà un ruolo importante nei confronti del Governo.
Oltre a questa prima proposta, che le chiedo di prendere in visione, mi ricollego a quanto diceva il collega De Menech, anche lui bellunese come me, quindi proveniente da una realtà molto difficile (siamo sovrarappresentati in questa Commissione), circa la possibilità di fare una verifica – come diceva anche il collega Marantelli – sull'opportunità del principio «tutti autonomi o nessuno autonomo».
Ecco, personalmente preferirei una maggiore autonomia locale, quindi l'estensione delle autonomie, mentre il Governo – ripeto, proprio per essere chiari – va verso il centralismo. Mi auguro, perciò, che vi sia la possibilità di fare un confronto sulle diverse situazioni territoriali. In particolare, penso al Bellunese che, come tutto il Veneto, ha la difficoltà di essere racchiuso tra due regioni a statuto speciale, oltre alla vicinanza con la Carinzia, subendo forme di concorrenza «sleale».
Insomma, questo è un Paese in cui, in teoria, siamo tutti italiani. Pertanto, per evitare che vi siano azioni che in questo momento escono con maggiore forza, come il referendum consultivo sull'indipendenza e sull'autodeterminazione del Veneto – che, peraltro, il Governo ha voluto portare davanti alla Consulta, a mio parere sbagliando perché si tratta di un referendum consultivo pagato dai veneti stessi, secondo la legge n. 16 del luglio 2014 – mi auguro che in queste riforme vi sia la forza di tenere al centro le particolarità del territorio e una considerazione delle difficoltà di regioni come il Veneto, che erano le locomotive d'Europa, oltre che dell'Italia, e che oggi si trovano in grave crisi anche per forme di concorrenza sleale che possono essere meglio affrontate proprio partendo dalla riforma del Senato e da quella costituzionale che stiamo portando avanti.
MAGDA ANGELA ZANONI. Voglio fare solo poche battute perché moltissimo è stato già detto e in gran parte lo condivido. Innanzitutto, nell'ambito della riforma delle regioni non si ha il coraggio di affrontare il problema delle regioni a statuto speciale, che hanno avuto una loro ragione d'essere nel dopoguerra, ma che adesso devono essere rivisitate, altrimenti diventa difficile chiedere tutto alle regioni a statuto ordinario e niente alle altre, in termini di responsabilità e di solidarietà nei confronti del Paese.
Non voglio entrare nel merito del tema delle province perché è stato già toccato, ma è un problema d'attualità molto grave. Personalmente, arrivo dalla provincia di Torino e il passaggio alla città metropolitana potrà essere un elemento di grande difficoltà, se le risorse non saranno adeguate rispetto ai compiti. Infatti, basta semplicemente ridefinire le funzioni; non è un problema. Basta – ripeto – ridefinire chi svolge le funzioni.Pag. 16
In secondo luogo, vorrei fare una considerazione sulla scarsa chiarezza dei concetti di autonomia fiscale e responsabilità locale. Un esempio per tutti è il Patto di stabilità. È giusto che gli enti debbano rispettare il Patto di stabilità, ma dobbiamo dare loro un paio di indicazioni chiare di partecipazione al Patto, dopodiché le modalità con cui starci dentro devono essere definite ente per ente, altrimenti non c’è né autonomia, né responsabilità.
Su questo arrivo all'ultimo punto, quello dei fabbisogni standard. È ottimo il tentativo del superamento dei tagli lineari, ma il sistema identificato attualmente ancora non è posto. Nella sua relazione introduttiva – per la quale la ringrazio anch'io – ha detto che siamo a buon punto. Ebbene, non siamo ancora a buon punto.
Abbiamo avuto l'incontro con la SOSE. Il sistema è ancora da definire, soprattutto dal punto di vista politico. Infatti, per ora abbiamo una base tecnica di raccolta di dati. Peraltro, ne hanno raccolti molti, forse persino troppi. A ogni modo, vanno aggiornati, quindi i dati che ci sono attualmente sono ancora poco utilizzabili a fini pratici. Bisogna individuare una modalità semplificata e uno snellimento per l'uso di tutta quella massa di dati. In altre parole, bisogna avere il coraggio di «fare il cruscotto», ovvero di individuare 20-30 indicatori chiari e semplici – non di più – che sono in modo molto trasparente in rapporto con fabbisogni standard e costi standard.
Concludo con la richiesta, che è ormai un grido da parte delle autonomie locali, di rivedere il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali. Dal 2000 sono passati 14 anni molto intensi. Gli ultimi anni sono stati davvero a difficili. Dal momento che già si chiede un grosso contributo finanziario, perché oggettivamente c’è scarsità di risorse, almeno non complichiamo, ma semplifichiamo la vita degli enti locali. Evitiamo che i comuni debbano perdere un sacco di tempo per star dietro a una normativa in continua evoluzione, senza avere mai un punto fermo. Insomma, si va sempre in itinere. Speravamo che il 2013 fosse stato l'anno terribile in assoluto e invece è accaduto anche quest'anno. Non si può pensare, per esempio, che i comuni facciano i bilanci a novembre.
Da questo punto di vista, spezzo una lancia a loro favore. Sono d'accordo con la local tax perché, anche su quello, era necessario rimettere ordine. Tuttavia, se a dicembre non abbiamo ancora dato le regole con le quali scrivere il bilancio di previsione, è ben difficile che i comuni possano esplicitare quello che è un loro dovere, ma anche un loro diritto, cioè poter fare i bilanci entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello di competenza.
STEFANO COLLINA. Ringrazio il Ministro di essere venuta in Commissione. Faccio due valutazioni sintetiche.
Credo che il processo di riforme che abbiamo avviato sia molto adeguato e fondamentale per riformare il Paese. Faccio, però, una prima valutazione sulla base dell'esperienza di questi anni a livello locale, là dove abbiamo vissuto una grande espansione delle autonomie locali, legate a tanti aspetti, come, per esempio, quello edilizio.
In tanti comuni si è fatto bilancio con gli oneri di urbanizzazione, vale a dire con l'utilizzo del territorio in base a un modello di sviluppo che pareva senza confini. Dall'altra parte, negli ultimi cinque anni si è gestito un periodo difficile, con la necessità della riduzione del debito accumulato, dovuto al fatto che nel frattempo si sono fatti grandi investimenti, e con le tante altre restrizioni che si sono verificate. Ciò ha determinato dei forti problemi.
Il tema delle funzioni che veniva citato dalla senatrice Zanoni è proprio quello che vorrei sottolineare. Riformare lo Stato significa essenzialmente chiarire chi fa cosa e quali sono le funzioni fondamentali, oltre alle quali gli enti a ciascun livello istituzionale – stiamo parlando, infatti, di istituzioni che dipendono da elezioni, quindi dal consenso dei cittadini, ovvero Pag. 17dall'esercizio democratico – avranno la libertà di gestirsi nei modi e nelle forme che riterranno più opportune per dare risposte ulteriori. Le funzioni base, però, devono essere definite. Questo è il punto.
Possiamo, invece, da comuni in cui tutte le sere il sindaco va nella cassa della farmacia comunale a prendere la liquidità perché la gestisce direttamente a comuni che hanno società con cui gestiscono le mense nell'ospedale o negli asili. Queste sono funzioni fondamentali ?
Non sto discutendo il fatto che siano gestite bene o che diano gli utili con cui si finanziano servizi fondamentali per i quali non ci sono altre risorse, oppure che l'intensità del servizio viene definita in quel territorio in modo particolarmente importante, quindi servono risorse aggiuntive che la fiscalità complessiva non riesce a determinare. Faccio due esempi che non rappresentano una funzione fondamentale per l'ente locale, rispetto ai quali il mercato, la cooperazione sociale o il privato possono dare all'utente risposte ugualmente positive.
Questo è per dire che dobbiamo riproporzionare il Paese e la gestione dei livelli istituzionali rispetto ai servizi che riteniamo fondamentali e ripartire da questo, ciascuno nel proprio territorio, per raggiungere quello che l'ente ritiene, nella sua autonomia, necessario, fondamentale e più adeguato per rispondere a ulteriori bisogni che i cittadini esprimono. Credo che questo sia il primo punto.
Il secondo riguarda, invece, la riforma della pubblica amministrazione. Spesso, nel giudicare i livelli istituzionali e le risposte che diamo, siamo legati alla forma organizzativa con cui offriamo i servizi. La riforma è fondamentale. Faccio l'esempio della mia regione, l'Emilia-Romagna (anche noi siamo sovrarappresentati), per quanto riguarda l'agricoltura, con un servizio gestito attraverso le province. Ora che le province spariscono come facciamo ?
Ebbene, a livello regionale, hanno cominciato a fare riunioni sul territorio con tutti i dipendenti delle province e si sono trovati a capire che esiste un modo diverso per gestire i processi dell'agricoltura che, peraltro, sono materia molto regionale, in collegamento con l'Europa. È possibile, cioè, un'organizzazione diversa che sul territorio può avere degli uffici decentrati senza che sia necessaria la provincia, che può anche non esistere.
Allora, questi aspetti vanno di pari passo, per cui credo sia molto adeguato l'approccio che stiamo avendo oggi e che apre, per alcuni, tanti, forse troppi fronti. Tuttavia, esiste la necessità di fare lo sforzo di portare avanti in modo parallelo tutti questi temi perché solo mettendo in discussione tutto riusciamo a riformare tutto.
Oggi, non mettere in discussione tutto significa trovare gli alibi per lasciare il mondo così come è, perché c’è sempre qualcosa da cambiare che non va cambiato. Invece, sia la macchina organizzativa sia quella istituzionale vanno riformate tenendo conto degli aspetti cardine di una riforma che guarda allo Stato come un qualcosa capace di dare, nelle sue forme e ai vari livelli istituzionali, le risposte essenziali, lasciando lo spazio alle autonomie per dare non dico quelle superflue, ma quelle adeguate per quel territorio e per quelle comunità.
BACHISIO SILVIO LAI. Ho due quesiti rapidissimi. In primo luogo, riguardo alla questione che il Ministro poneva all'inizio, sull'incongruenza o sulla necessità di coordinare i presidenti di regione (quindi la Conferenza delle regioni) con la rappresentanza in Senato: non ho capito se, per semplificare il profilo di funzionamento di alcuni di questi organismi, il Governo pensa che si possa arrivare, nella discussione della riforma alla Camera, anche all'ipotesi di modificare i numeri del Senato, consentendo che ne facciano parte di diritto – come nell'ipotesi precedente del Governo – anche i venti presidenti di Regione.
Questo è il primo telegramma, perché vorrei capire sino a dove si può arrivare, secondo il Governo, su questo versante. Pag. 18Vengo, quindi, al secondo tema, che ha citato la collega Zanoni e che poi affronterò con lei.
Sul tema delle regioni speciali, penso sia giusto mettere a verbale che in questo Paese la questione non pone da una parte le regioni ordinarie e dall'altra quelle speciali perché le cinque speciali lo sono per cinque motivi differenti, alcuni legati a trattati internazionali ancora vigenti, altre alla condizione con la quale hanno scelto di appartenere a questo Paese.
Su questo secondo tema, accanto al fatto che considero un segnale importante che alcune speciali abbiano deciso di aderire ai costi standard e abbiano dichiarato di voler rendere trasparenti le attività delle loro amministrazioni locali, se si legge ciò che avviene in Europa in questo momento, credo che le ragioni del 1946 non solo siano delicatamente riaperte per molte questioni, ma vadano affrontate con un'attenzione differente.
Non chiedo il parere del Ministro su questo tema, ma ci tenevo che rimanesse e che si potesse approfondire nel tempo.
RENATE GEBHARD. Sarò brevissima. Ringrazio anch'io il Ministro di essere venuta oggi in Commissione. Vorrei anch'io fare un breve riferimento alle autonomie speciali, essendo di Bolzano. È chiaro che non posso condividere quanto detto dalla senatrice Zanoni. Secondo me, la soluzione per il Paese non è quella di togliere alle speciali, ma semmai – su questo mi associo a quanto detto dal collega De Menech – di dare più competenze e responsabilità alle altre regioni a statuto ordinario.
PRESIDENTE. Potrei essere d'accordo. Abbiamo associato l'opposizione.
DANIELE MARANTELLI. Anch'io sono d'accordo, se mi spieghi come le finanzi.
PRESIDENTE. Do la parola al Ministro Boschi per la replica.
MARIA ELENA BOSCHI, Ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento. So che il ringraziamento reciproco tra Governo e membri della Commissione sembra formale, ma vi assicuro che è concreto perché, effettivamente, il livello degli interventi e la specificità di alcune questioni poste, anche in modo molto tecnico e dettagliato, è un'occasione anche per il Governo di interrogarsi su alcuni quesiti e di approfondire determinate questioni. Questo scambio, con gli spunti che sono arrivati nel confronto di questa mattina in questa Commissione, è sicuramente molto utile anche nella mia prospettiva.
Cerco di rispondere toccando i temi principali che sono stati posti nei vari interventi, cominciando dall'interrogativo principe che è stato posto inizialmente dal Presidente, richiamando anche l'audizione che avete svolto in Commissione, quindi l'approfondimento su questi temi.
La decisione di attribuire allo Stato un ruolo di coordinamento della finanza pubblica – in parte la risposta è stata già accennata dal Presidente nel porre la domanda – deriva dall'esigenza di rapportarsi con l'Unione europea. È ovvio che, nel contesto attuale e alla luce dell'attuale formulazione dell'articolo 81 della Costituzione, è lo Stato l'unico soggetto responsabile nei confronti dell'Unione europea, quindi, a fronte di una responsabilità che grava su di esso, lo Stato deve avere gli strumenti per poter poi rispondere all'Unione europea delle proprie scelte.
Pertanto, dobbiamo trovare un equilibrio tra l'esigenza che ha lo Stato di rispettare i propri impegni a livello europeo, avendo scelto di aderire all'Unione europea in modo convinto, e la necessità delle autonomie di avere dei margini di manovra sulle risorse per far fronte alle proprie spese, rispondendo delle scelte che vengono fatte a livello territoriale. Da questo deriva l'esigenza dello Stato di riportare alla competenza centrale questo ruolo di coordinamento. Pag. 19
Tuttavia, questo ruolo di coordinamento previsto in Costituzione non significa una sostituzione in toto – almeno nelle intenzioni dell'attuale Governo – rispetto alle possibilità di autonomia, anche da un punto di vista delle risorse, di regioni, comuni e, entro certi limiti, dei nuovi soggetti che sostituiranno le province. Infatti, da quel punto di vista è tutto da ripensare, anche in relazione alle diverse funzioni che andranno a svolgere.
Credo che questo sia dimostrato praticamente nella volontà del Governo attuale con la presentazione della legge di stabilità e con gli emendamenti che verranno proposti, che sono il frutto del lavoro che stiamo svolgendo in questi giorni con le Regioni da un verso e con i Comuni dall'altro, per individuare delle forme sia di maggior condivisione sulla modalità applicativa del contributo richiesto a regioni, province e comuni rispetto ai tagli per la riduzione della spesa pubblica, sia di autonomia e differenziazione nell'approvvigionamento delle risorse per far fronte alle spese a livello locale.
In quest'ottica, abbiamo immaginato e stiamo disegnando la nuova local tax, cercando un criterio di divisione tra il contributo alla spesa pubblica attraverso le imposte sui redditi, quindi delle singole persone fisiche, eliminando la componente di addizionali rimesse alle scelte dei comuni, che possono essere molto diverse da comune a comune, e la possibilità di avere delle tasse locali ancorate a IMU, TASI e agli altri servizi accessori (occupazione di suolo pubblico, affissioni e così via) che sono tipicamente a carattere locale.
Insomma, stiamo cercando di differenziare in modo netto la base imponibile, quindi anche la competenza nel determinare i livelli di risorse. Questo dovrà prevedere, però, un minimo di meccanismi di compensazione perché c’è comunque uno stato attuale che prevede delle differenziazioni.
Faccio l'esempio molto pratico del comune di Firenze, che ha l'addizionale minima sull'IRPEF. In verità, era stata messa a zero, ma pare che non si possa fare, quindi è stata dichiarata illegittima perché il minimo deve essere applicato per forza. A ogni modo, i cittadini di Firenze, come anche quelli di altri piccoli comuni, hanno questa scarsa tassazione. Avranno, dunque, un danno nell'avere la determinazione della loro addizionale da parte dello Stato. Altri comuni, che invece hanno aliquote molto alte, trarranno dei vantaggi da questo. È ovvio, allora, che dovrà essere fatto un minimo di compensazione per non penalizzare le città virtuose nell'utilizzo delle risorse.
Un altro tema, che ha posto correttamente la senatrice Guerra, è quello dell'entrata in vigore della nuova disciplina perché bisogna consentire ai comuni e alle regioni di poter programmare la propria attività, sapendo quali sono le risorse su cui possono contare e quali i margini di manovra. Questo susseguirsi, negli ultimi anni, di continui interventi normativi che hanno inciso prima su ICI, poi su IMU, TASI e quant'altro, crea un livello di instabilità che ha complicato la vita a tutti i nostri amministratori locali.
Mi auguro che nel momento in cui il Governo, insieme ad ANCI e regioni, trova una soluzione condivisa – sappiamo bene che questa è una richiesta che i comuni rivolgono allo Stato da tempo – ci possa essere una sorta di «tregua fiscale», ovvero un periodo in cui non si intervenga nuovamente modificando questi elementi per dare in primis ai cittadini e poi agli amministratori locali una maggiore stabilità e possibilità di pianificazione e di trasparenza rispetto alle risorse.
È necessario, però, che la cornice rimanga individuata dallo Stato, seppur in un'ottica di confronto, di collaborazione e di dialogo. Per questo ho parlato – non a caso – di regionalismo cooperativo e non di federalismo. Sono, infatti, due modelli diversi. Naturalmente, ognuno ha le proprie idee personali su quale sia il migliore. Ci sono sensibilità che preferirebbero andare verso un modello puramente federalista. Tuttavia, non è questo il modello che viene proposto, in un'ottica di solidarietà all'interno del Paese e di altri princìpi che vengono richiamati nella nostra Costituzione e che condividiamo.Pag. 20
In definitiva, non c’è un'autonomia completa, piena e totale, con le differenziazioni che sono state ricordate tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale, per motivi anche di carattere storico, oltre che legati a trattati vigenti, come nel caso del Trentino.
Per rispondere ad alcune sollecitazioni che sono venute, dico che non credo che in questo momento ci siano le condizioni per un ripensamento delle regioni a statuto speciale, né delle dimensioni delle regioni – si è parlato a lungo di macroregioni; ci sono state anche varie proposte studiate nel tempo – anche perché ritengo che questo disegno di riforma costituzionale abbia una sua armonia e una sua coerenza, pur mantenendo questo assetto territoriale e questa differenziazione nel nostro Paese.
Tuttavia, alle regioni a statuto speciale, alle quali è stata riconfermata la loro specialità e la loro autonomia, viene chiesto – sempre nell'ottica dell'intesa con le regioni stesse – di aderire al nuovo modello che stiamo proponendo. Lo sforzo che deve venire dalle regioni a statuto speciale è quello di dare piena attuazione a questa riforma anche nei loro territori, evitando che la previsione costituzionale resti una lettera di buoni intenti, che poi non arriva a una sua applicazione concreta, proprio perché nessuno di noi ha interesse ad avere un'Italia che va a velocità diverse.
Per contro, credo che l'interesse di tutti affinché funzioni il Paese sia raggiungere una velocità più uniforme, ma che tenda all'alto e che possa ispirarsi ai modelli più virtuosi. Sotto questo aspetto, sappiamo che il lavoro da fare è ancora molto perché queste differenziazioni ci sono. Peraltro, sappiamo pure che anche nell'individuazione dei fabbisogni, dei costi standard e dei livelli essenziali abbiamo una forte differenziazione. Ciò nonostante, non possiamo ragionare esclusivamente da un punto di vista astratto. Ecco perché – come ricordavo all'inizio – anche l'elemento storico dei costi concreti, quindi del disallineamento rispetto ai costi storici, ha necessariamente valenza.
Raccolgo, pertanto, l'invito dell'onorevole D'Incà, ma vado oltre, nel senso che uno dei punti fondamentali del programma di questo Governo è l'obiettivo della trasparenza, che è particolarmente sentito. Non a caso, nel decreto-legge n. 66 siamo già intervenuti nell'ottica della trasparenza della pubblica amministrazione.
Peraltro, molto c’è da fare per uniformare i sistemi con cui parlano i diversi livelli territoriali e i diversi organismi della pubblica amministrazione. È vero, infatti, che la maggior forma di controllo e di raffronto deriva proprio dalla trasparenza e dall'accessibilità dei dati direttamente da parte dei cittadini, che probabilmente potranno essere la spinta migliore a portarci verso pratiche più efficienti e a privilegiare le buone pratiche di alcune regioni o di alcuni comuni più virtuosi.
C’è, dunque, uno sforzo di leggibilità anche in questo senso, che è stato attuato, per esempio, per Expo con OpenExpo, nella convinzione che non è tanto rilevante riversare sui cittadini tutti i dati, ma l'importante è renderli leggibili, altrimenti, se non sono facilmente interpretabili e confrontabili, non facciamo un buon servizio. Sono sicura che questo sia uno sforzo che condivide e che vede impegnato fin dai primi mesi di attività questo Governo.
Credo, però, che in questo momento siamo tutti chiamati – per questo è importante anche il lavoro che sta facendo questa Commissione – a interrogarci sull'obiettivo principale da cui siamo partiti questa mattina nel nostro incontro, ovvero su come si possa ridefinire e rideclinare il concetto di federalismo fiscale in un quadro che sta cambiando molto rapidamente, ma che rappresenta un'opportunità, per cui non deve spaventarci.
Tutti noi, nel nostro lavoro, facciamo la fatica di dare attuazione concreta a queste riforme, interrogandoci su come migliorarle, e di spiegarle ai nostri cittadini, cercando di coinvolgerli in un processo di cambiamento che sta investendo tutto il Paese.
Esiste certamente un tema che riguarda i nuovi enti di area vasta e le città Pag. 21metropolitane. Questo è un primo dato concreto e oggettivo che è sull'agenda e nel calendario dei nostri amministratori locali. Tuttavia, non è un blitz, nel senso che stiamo parlando da anni della riforma delle province, quindi credo che un lavoro preparatorio sia stato o avrebbe dovuto essere fatto.
Sull'altro versante, penso che anche nel confronto che c’è stato con le regioni e che ha portato dei buoni risultati si debba accelerare perché soltanto se definiamo in modo chiaro le funzioni che andranno alle regioni – ovviamente quelle ulteriori rispetto a quelle già previste per legge, che sono intoccabili – possiamo capire quali risorse umane, e quindi anche economiche, servono per poterle svolgere.
Non sarei eccessivamente preoccupata per i tagli che stiamo applicando. Conosco benissimo le richieste che arrivano dai territori e le preoccupazioni delle province. Rendiamoci, però, anche conto del fatto che le province possono contare su oltre 9 miliardi e che contavano su queste risorse con funzioni complete, cioè prima della riforma, sapendo che dovevano svolgere ed esercitare tanti compiti.
Abbiamo applicato un taglio di un miliardo, che crescerà nei prossimi anni, ma è una riduzione che si riequilibra, appunto, con la riduzione delle funzioni che dovranno svolgere. È ovvio, insomma, che si possa pensare a una riduzione dei trasferimenti nel momento in cui i compiti da svolgere sono inferiori.
Del resto, se l'agricoltura non è più delle province, non ci sarà più necessità di mettere a budget delle risorse per le province su quel settore. Le risorse dovranno, invece, essere riattribuite per quelle funzioni quando saranno svolte da altri soggetti. Lo stesso vale per quanto riguarda il personale, che è il costo probabilmente maggiore che hanno in questo momento.
Su questo, il Ministro per la funzione pubblica e quello per gli affari regionali stanno lavorando per presentare già in legge di stabilità, in via emendativa, una proposta di ridistribuzione delle risorse umane, quindi dei lavoratori, alla luce della riforma delle province, avendo in questi mesi lavorato d'accordo con le regioni, le province e i comuni per cercare di definire un nuovo assetto.
In una fase di passaggio e di cambiamento profondo paghiamo il prezzo del cambiamento stesso, ma sappiamo che è una fase necessaria per arrivare – cosa che credo avvenga in tempi molto rapidi – a una definizione che porterà a una maggiore efficienza proprio perché verranno gestiti dei servizi in comune.
Del resto, eliminare un livello istituzionale per alcuni tipi di funzioni non soltanto semplifica, ma riduce i costi e in prospettiva porterà a una riduzione concreta dei costi anche per quanto riguarda il personale. Ovviamente, questo non vale da oggi perché non verranno fatti licenziamenti, ma in futuro attraverso questa diversa riallocazione delle funzioni si produrrà un ulteriore risparmio sui costi.
Questo, d'altronde, va nell'ottica di quella semplificazione e di quell'alleggerimento che credo tutti condividiamo. Ciò, però, comporta coraggio in questa fase e sicuramente anche uno sforzo per individuare le risposte a cui siamo tutti chiamati, sforzo che si coniuga con la riforma costituzionale, ovvero con il nuovo assetto delle regioni e delle loro funzioni.
Concludo con un ultimo accenno che non ho ancora fatto, dando per scontato che tutti conoscete bene la nuova distribuzione di competenze tra Stato e regioni, quindi le materie che ritornano nella competenza dello Stato.
In merito ad alcuni spunti che sono arrivati rispetto alla necessità di politiche industriali e di scelte strategiche che riguardano tutto il Paese, devo dire che queste sono possibili nella misura in cui alcuni settori, come quello dell'energia o delle grandi infrastrutture, vedono una regia statale. In quella misura, possono essere anche un'occasione di sviluppo economico, soprattutto in un momento di particolare crisi del nostro Paese, e di rilancio.
Sicuramente, aver avuto una legislazione differenziata per regioni in questi settori chiave non ha facilitato né lo sviluppo economico, né la competitività del nostro Pag. 22Paese. Credo che ciascuno di voi, avendo avuto esperienze dirette di confronto con imprenditori e con investitori anche stranieri, sappia che questa differenziazione di legislazione è stata spesso un freno o, in alcuni casi, è stata utilizzata anche per creare una concorrenza tra regioni che non ha avuto necessariamente effetti virtuosi. Di conseguenza, questa funzione va riallocata sullo Stato, affinché possa essere volàno per la nostra economia.
PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro Boschi per l'audizione, che credo sia stata davvero utile perché ha centrato molti argomenti di cui abbiamo parlato. Dichiaro chiusa l'audizione.
La seduta termina alle 9.25.