XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 10 di Giovedì 6 marzo 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 

Audizione del Presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione):
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 
Squitieri Raffaele , Presidente della Corte dei conti ... 3 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 14 
Fornaro Federico  ... 14 
Dirindin Nerina  ... 15 
De Menech Roger (PD)  ... 16 
Cappelletti Enrico  ... 17 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 17 
Squitieri Raffaele , Presidente della Corte dei conti ... 17 
Fornaro Federico  ... 18 
Squitieri Raffaele , Presidente della Corte dei conti ... 19 
Flaccadoro Enrico , Consigliere della Corte dei conti ... 19 
Squitieri Raffaele , Presidente della Corte dei conti ... 19 
Flaccadoro Enrico , Consigliere della Corte dei conti ... 19 
Squitieri Raffaele , Presidente della Corte dei conti ... 20 
Flaccadoro Enrico , Consigliere della Corte dei conti ... 21 
Squitieri Raffaele , Presidente della Corte dei conti ... 21 
Flaccadoro Enrico , Consigliere della Corte dei conti ... 22 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 22 

Allegato 1: Documentazione consegnata dal Presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri ... 23 

Allegato 2: Documento della Corte dei conti sulle prospettive della Finanza pubblica dopo la legge di stabilità ... 77

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del Presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale.
  Ringrazio i nostri ospiti della Corte dei conti e tutti i colleghi deputati e senatori che hanno rispettato questa convocazione mattutina. Credo che sia l'unico orario che ci permette oggettivamente di lavorare.
  Oggi è prevista l'audizione che è stata rinviata in altra occasione per i lavori parlamentari. Il ringraziamento al presidente della Corte dei conti, dottor Raffaele Squitieri, è quindi ancor più doveroso, perché ha dovuto riassestare i propri impegni in funzione delle nostre esigenze.
  Avverto che il presidente Squitieri ha portato con sé del materiale, che vi verrà distribuito e che credo ispirerà il suo intervento (vedi allegato 1).
  Do la parola al presidente alla Corte dei conti Raffaele Squitieri per la sua relazione.

  RAFFAELE SQUITIERI, Presidente della Corte dei conti. Grazie molte, Presidente. Per noi è un grande piacere e onore essere qui con voi.
  Vorrei preliminarmente comunicarvi che noi come Corte dei conti ci consideriamo un po’ il braccio professionale del Parlamento, nel senso che siamo pronti a dare in qualunque momento, nei limiti delle nostre capacità e della nostra professionalità, indicazioni, suggerimenti, aiuti e pareri. Il ruolo che noi consideriamo prevalente del nostro istituto è proprio quello del raccordo con le istituzioni parlamentari.
  In quest'ottica ho fatto distribuire ed è a disposizione di tutti gli onorevoli una copia di un documento che noi abbiamo elaborato pochi giorni fa, che è un'appendice alla relazione che facciamo ogni quadrimestre sulle coperture delle leggi varate nel periodo (vedi allegato 2).
  Quest'anno abbiamo fatto un'appendice, che secondo me è particolarmente qualificata. L'abbiamo già fatta avere ai Presidenti di Camera e Senato e ai ministri competenti. Con questa appendice noi analizziamo cosa è divenuta la legge di stabilità una volta che è stata approvata dal Parlamento.
  Io e i miei colleghi abbiamo fatto un'audizione sul disegno di legge di stabilità. Per la prima volta quest'anno in questa appendice abbiamo fatto un referto sulla legge di stabilità una volta che è stata approvata, per analizzare se e come è cambiata, se e come sono cambiati gli equilibri, se e come sono cambiati gli obiettivi. Noi la riteniamo di un certo interesse, sempre nell'ottica del rapporto sinergico con il Parlamento.
  Chiudo la mia introduzione con le presentazioni. Con me sono venuti i colleghi Pag. 4(che saranno pronti per eventuali domande) Enrico Flaccadoro, Rinieri Ferone, Salvatore Tutino, Paolo Peluffo e Maurizio Pala, che sono coloro che, insieme a tutte le nostre Sezioni unite, hanno collaborato all'elaborazione di questo documento.
  Abbiamo però consegnato alla segreteria della Commissione una relazione completa, con alcune documentazioni e grafici, alla quale io farò riferimento in questo mio intervento orale (vedi allegato 1). In qualunque momento siamo disponibili per eventuali approfondimenti.
  Il lavoro svolto, fin dalla sua istituzione, dalla Commissione per l'attuazione del federalismo fiscale è stato particolarmente prezioso. È pertanto con piacere che ho accettato l'invito del Presidente per l'audizione odierna.
  Nella scorsa legislatura la Corte, in diverse audizioni, ha avuto modo di rapportarsi con la Commissione, in occasione della presentazione degli schemi dei decreti legislativi di attuazione della legge n. 42 del 2009. Ci è stato possibile apprezzare direttamente, quindi, come l'esame svolto nel suo ambito sia stato sempre caratterizzato da un confronto aperto e costruttivo tra le forze politiche.
  La ripresa del lavoro della Commissione rappresenta, anche per questo aspetto, un segnale importante a favore del compimento del disegno di riforma delle autonomie territoriali. Il completamento del percorso avviato nella scorsa legislatura è oggi particolarmente urgente. Il consolidamento dei risultati ottenuti nella responsabilizzazione delle gestioni decentrate rappresenta, ad avviso della Corte, una condizione indispensabile per il risanamento finanziario.
  Aprirò il mio intervento con un rapido sguardo alle attuali condizioni e prospettive della finanza locale, per valutare da un lato quanto il processo avviato abbia inciso sugli obiettivi che avevano mosso la riforma, e dall'altro quanto le mutate condizioni economiche rispetto al 2009 siano alla base delle difficoltà incontrate nell'attuazione.
  Esporrò poi alcune considerazioni della Corte su due dei principali passi del processo scandito dai decreti legislativi fino ad ora approvati. Rinvio per gli altri temi alla relazione scritta che abbiamo depositato e in cui mettiamo in evidenza alcuni aspetti su cui, a nostro avviso, dovrebbero intervenire ulteriori provvedimenti attuativi o correttivi.
  Vorrei concludere infine con alcuni brevi cenni su come la Corte dei conti ha finora accompagnato il processo di attuazione del federalismo fiscale e su quelle che possono essere le
  potenzialità del controllo, anche in direzione di una effettiva accountability della gestione degli enti territoriali.
  La mia relazione verterà quindi su un'analisi di quello che è successo, un'analisi di quello che sta accadendo, modeste proposte su quelli che potrebbero essere gli interventi, una sintesi di come abbiamo operato nel sistema dei controlli e su cosa e come potremo fare in prospettiva, nell'ottica di un'incentivazione del processo federalista.
  Passo a illustrare il primo punto sulla riforma e gli enti territoriali negli anni della crisi.
  Il percorso prefigurato dalla legge n. 42 del 2009 accusa ritardi importanti, che riguardano quasi tutti i punti cardine del disegno normativo.
  Il sistema perequativo dei Comuni basato sui fabbisogni e la capacità fiscale standard è ancora in una fase di avvio. Il sistema di finanziamento di enti locali e regioni inciso dall'emergenza finanziaria non ha assunto un assetto stabile e la trasformazione in entrate proprie dei trasferimenti da Stato a regioni, e di quelli regionali verso province e comuni non è stata completata. Anche una buona parte delle misure volte a rafforzare l'autonomia tributaria delle regioni è restata soltanto sulla carta.
  Sul processo di attuazione hanno inevitabilmente inciso l'insorgere della crisi e il sovrapporsi di nuovi meccanismi di funzionamento delle misure assunte per garantire il contributo delle amministrazioni Pag. 5decentrate agli obiettivi di finanza pubblica, passati attraverso forti riduzioni di risorse.
  La legge n. 42 ha avuto la sfortuna di capitare in un contesto molto delicato sul piano finanziario, economico e patrimoniale, non solo italiano ma internazionale. Questo ha causato una serie di rallentamenti e di distorsioni.
  Bastano pochi dati per rappresentare nella sua dimensione effettiva (in attesa, al momento, dell'avvio del processo di riforma) l'impatto che la crisi ha avuto sul mondo delle autonomie. Esse sono state chiamate a contribuire agli obiettivi di finanza pubblica per importi molto rilevanti: la dimensione complessiva delle misure di riduzione di spesa assunte a partire dal 2009 ha raggiunto nel 2012 i 31 miliardi di euro, di cui 16 miliardi quale effetto dell'inasprimento del Patto di stabilità interno e oltre 15 miliardi di tagli nei trasferimenti.
  Questo spiega anche la situazione attuale degli enti locali, che noi denunciamo sistematicamente con i nostri interventi in sede di verifica e in sede di approvazione dei piani di rientro del deficit, che ci fanno constatare la gravità della situazione che non è colpa di nessuno ma si è andata determinando proprio in questi anni.
  Consentitemi la franchezza: questo qualche volta non rende molto popolari gli interventi della Corte dei Conti, perché siamo costretti a denunciare situazioni che non dipendono da nessuno, sicuramente non dalla Corte dei conti, ma forse neanche dagli amministratori attuali. Si entra in un circuito che noi cercheremo di chiarire proprio oggi.
  La spesa complessiva al netto degli interessi nel biennio 2011-2012 si è ridotta del 4,6 per cento in termini nominali. Minore, ancorché significativa, è stata la flessione della spesa corrente primaria (circa il 4 per cento), come evidenziato nella tavola 1 del documento depositato (vedi allegato 1). È un risultato dovuto, soprattutto, alla riduzione della spesa per redditi da lavoro, a cui si accompagna nel 2012 anche una flessione di poco inferiore al punto percentuale della spesa per consumi intermedi.
  Si tratta di una diminuzione della spesa in termini nominali che non ha precedenti negli ultimi sessant'anni. È una situazione di una gravità assoluta. Tra il 2002 e il 2009, quando vi era comunque già una forte consapevolezza della necessità di contenere la spesa, questa è cresciuta a un ritmo del 4,4 per cento l'anno. Nel periodo precedente la crescita era stata ben superiore.
  L'aggiustamento previsto nei documenti programmatici non è finito. Come già segnalato dalla Corte nell'appendice alla relazione quadrimestrale, a cui ho accennato nell'introduzione del mio intervento (vedi allegato 2), da pochi giorni è stato trasmesso al Parlamento il quadro tendenziale dopo una manovra disposta con la legge di stabilità per il 2014, che prefigura ulteriori flessioni rispetto a quelle già ottenute.
  Nel prossimo triennio la spesa primaria complessiva degli enti territoriali si ridurrà di oltre 2 miliardi, con l'incidenza in termini di prodotto che passa dal 14,8 per cento del 2013 al 13,3 del 2016.
  Questo è un dato che va letto con attenzione: al netto della spesa per il settore sanitario (in aumento di 5,5 miliardi tra il 2013 e il 2016, anche se pressoché invariata in termini di prodotto), quella per le amministrazioni territoriali si ridurrebbe di oltre 7 miliardi, di cui 3 di parte corrente, attestandosi al 6,6 per cento del prodotto (era al 7,8 nel 2013).
  La buona risposta che le amministrazioni territoriali hanno offerto agli obiettivi di finanza pubblica si accompagna tuttavia all'acutizzarsi di alcune distorsioni, che erano alla base del progetto di riforma e che avevano portato l'allora Ministro dell'economia ad auspicare un percorso per raddrizzare «l'albero storto» della finanza pubblica.
  Tutti questi fenomeni hanno comportato difficoltà nel compimento delle riforme avviate e ad un tempo ne sottolineano l'urgenza. Non può essere ignorato, Pag. 6innanzitutto, che si è venuto aggravando il fenomeno negativo di amministrazioni pubbliche che, impegnate ad esporre bilanci formalmente in ordine, sono state portate a consentire una lievitazione anomala di debiti occulti e ritardi crescenti nella regolazione delle transazioni con le imprese fornitrici di beni e servizi. È il tema di grandissima attualità dei ritardi dei pagamenti, affrontato con i decreti-legge n. 35 e n. 102 del 2013.
  Questo comportamento, che è sostanzialmente una necessità delle amministrazioni locali, crea dei guasti notevoli, perché c’è un sommerso che non emerge nei documenti contabili ma pesa comunque sulla gestione. Sono oneri dei quali l'amministrazione prima o poi dovrà farsi carico e che aggiungono squilibri ulteriori a quelli già oggi in atto. Sono questi i fenomeni che noi andiamo rilevando in questa analisi che conduciamo nei bilanci, soprattutto in quelli delle realtà comunali.
  La questione dei pagamenti alle imprese sembra oggi avviata a una soluzione. Tuttavia, se è vero che i limiti alle erogazioni di cassa hanno costretto enti, che pure disporrebbero di liquidità, a rinviare i pagamenti, in molti casi invece siamo di fronte a somme impegnate creando spazi fittizi di competenza, grazie alla sopravvalutazione delle previsioni di entrata.
  Ne sono esempi diffusi le somme relative a introiti per multe nei comuni, o, nel caso delle regioni, i finanziamenti che si prevede di ricevere dallo Stato o dai fondi europei. Il processo di armonizzazione dei bilanci e di adeguamento delle regole contabili previsto dal decreto legislativo n. 118 è anche sotto questo profilo quanto mai urgente.
  Un fenomeno collegato è la presenza notevole di residui attivi e passivi. Noi abbiamo riscontrato che in alcuni casi i residui passivi, di riscuotibilità molto incerta, risalgono addirittura agli anni 1990 e vengono messi come poste attive nei bilanci. Questo crea dei problemi notevoli di carattere contabile e fa sorgere dubbi sulla credibilità del documento contabile.
  I tagli alla spesa non sono stati indolori dal punto di vista della tenuta e della qualità dei servizi resi alla collettività. Ciò ha pesato sulla possibilità di pervenire all'individuazione di livelli essenziali nei settori in cui è mancata finora una definizione, indispensabile per il prosieguo del processo di attuazione.
  Il rilievo delle misure di controllo della spesa ha visto crescere il ricorso a forme societarie degli enti locali, quale strumento di flessibilizzazione della gestione. Si tratta di soggetti per la maggior parte non considerati tra le amministrazioni pubbliche, e quindi non inclusi nel conto delle amministrazioni locali.
  Come è emerso dall'attività di controllo delle sezioni regionali, di frequente il ricorso a tali soggetti ha consentito la messa in atto di forme di elusione del Patto di stabilità e l'aggiramento di vincoli all'indebitamento, comportando situazioni che pongono a rischio l'equilibrio finanziario dell'ente, fino a poterne provocare il dissesto.
  Questo è un fenomeno di una gravità assoluta, che la Corte ha denunciato più volte anche riguardo al famoso discorso delle società partecipate. Noi abbiamo l'impressione che in alcuni comuni di grande dimensione non si sappia neanche quante sono esattamente.
  Voi conoscete la tecnica, che è quella di costituire una partecipata, alla quale a sua volta partecipa un'altra partecipata, come una sorta di scatole cinesi. Se va in tilt l'ultima scatola, per un effetto domino, tutto ricade sulla situazione generale.
  È una situazione di un gravità assoluta in cui i comuni sono incorsi per motivi oggettivi di fluidità nell'azione, perché la partecipata è più snella nelle procedure, ma anche per consentire una flessibilità negativa nella gestione, nel senso che si permettono assunzioni, manovre negoziali più sollecite e molte volte senza copertura.
  È un fenomeno sul quale noi abbiamo posto l'attenzione, e nei confronti del quale – consentitemi lo sfogo – la Corte dei conti ha le armi un po’ spuntate, perché noi non abbiamo una legittimazione Pag. 7certa ad andare a sindacare i bilanci. Questo vale non solamente per gli enti locali, ma per tutta l'organizzazione generale del Paese. Non abbiamo la legittimazione ad andare a indagare le singole poste delle partecipate, che sono istituzioni considerate di diritto privato, anche se il denaro è pubblico.
  Scusate la parentesi, ma è un problema che ci sta molto a cuore. Noi abbiamo una disparità di veduta con la Corte di cassazione. La Cassazione ritiene che noi non abbiamo giurisdizione a sindacare i comportamenti degli amministratori delle partecipate, perché sono strutture di diritto privato, ignorando una constatazione banale, ovvero che costoro gestiscono comunque risorse pubbliche. Riteniamo che la giurisdizione della Corte dei conti possa e debba esserci.
  È tutto un mondo che sta affianco alle realtà comunali e centrali, che andrebbe esplorato con molta attenzione. Non voglio parlare di sommerso, perché va nei bilanci, però sono situazioni che andrebbero investigate con molta attenzione. Scusate la digressione.
  Passo ora a trattare il secondo punto, che riguarda il processo di attuazione del federalismo, i fabbisogni e i costi standard. Uno dei temi centrali nel ridisegno del sistema di finanziamento di regioni e enti locali era il passaggio ai fabbisogni standard.
  Ad essi, forse più che alla ridefinizione di tributi regionali e locali, era attribuita la possibilità di riassorbimento degli squilibri e delle inefficienze alla base di un federalismo/decentramento con limitate responsabilità di entrata.
  I due decreti legislativi approvati sugli standard di comuni e province e sugli standard sanitari per le regioni sembravano dover seguire due impostazioni diverse. Quello degli enti locali ha un'impostazione bottom-up: individuato a livello nazionale un pacchetto di prestazioni minime da garantire, sulla base del finanziamento statale, in tutto il territorio nazionale (i livelli essenziali delle prestazioni), si trattava di valorizzare tali prestazioni secondo un costo unitario efficiente o medio, stimato mediante tecniche statistico-econometriche.
  Completamente diverso è il caso dei costi standard in sanità. In questo caso l'impostazione seguita era di tipo top-down: il fabbisogno sanitario nazionale standard era definito come quello che consente di garantire l'erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni in condizioni di efficienza.
  Il calcolo dei costi standard in sanità non incideva quindi sulla definizione del livello del finanziamento, ma solo sul criterio di riparto. Nell'attuazione tali differenze si sono, di fatto, annullate.
  Anche per quel che riguarda i fabbisogni dei comuni si è seguito, sulla spinta dell'emergenza finanziaria, un approccio top-down, che consente di garantire l'invarianza dei saldi di finanza pubblica.
  Come richiesto anche da questa Commissione bicamerale, l'elaborazione di indicatori dei livelli quantitativi standard dei servizi dovrebbe consentire di raffrontare per ogni ente non solo il fabbisogno standard in termini monetari con la spesa storica, ma anche l’output standard rispetto al livello del servizio effettivamente offerto. Ciò consentirebbe di valutare e premiare l'efficienza nella produzione e nella fornitura dei servizi.
  Per alcune funzioni, poi, il riferimento a stime di costo dovrebbe consentire una misura diretta dell’output fornito, offrendo uno strumento di valutazione e di decisione più incisivo di quanto può fornire la stima di una funzione di spesa.
  Per la sanità, se da un lato la scelta operata sembra ridurre l'impatto del riferimento ai costi standard nel nuovo meccanismo di definizione del finanziamento del settore, dall'altro essa ha il pregio di semplificare la gestione del sistema, garantendo il collegamento tra la programmazione di bilancio, le compatibilità di finanza pubblica e l'analisi comparativa di quantità e qualità dei servizi erogati.
  L'allocazione delle risorse è destinata a mutare solo se verrà assunto un diverso metodo di pesatura rispetto a quello utilizzato nell'anno preso a riferimento. Infatti, Pag. 8eventuali conseguenze redistributive dipenderanno dall'estensione dei pesi per classi di età alle varie categorie di assistenza sanitaria. Oggi solo un terzo del finanziamento è ripartito sulla base della popolazione pesata, mentre la parte restante è ripartita sulla base della popolazione assoluta.
  Anche per gli enti locali ciò che fa della definizione dei fabbisogni standard un processo di particolare rilievo e urgenza è la possibilità di evidenziare le differenze di spesa non giustificate dalle caratteristiche dei servizi.
  La delicatezza e la difficoltà del lavoro sviluppato da SOSE in questi anni consigliano, tuttavia, una particolare prudenza nell'utilizzo. Si tratta di evitare di assumere le indicazioni che provengono dagli studi relativi alle singole funzioni per misure di taglio della spesa, o anche di utilizzare i risultati parziali per attivare meccanismi premiali riferendoli non al totale delle funzioni ma solo a un sottoinsieme, e senza tener conto delle capacità fiscali.
  La fissazione dei livelli di servizio da garantire sul territorio ai cittadini diventa decisiva non solo per la tenuta finanziaria del sistema dei fabbisogni standard, ma anche per gli effetti redistributivi tra enti, date le situazioni storiche di partenza assai differenziate nei livelli di fornitura di molti servizi comunali.
  Va poi posta particolare attenzione alle modifiche che stanno intervenendo nelle strutture di gestione dei servizi, con accorpamenti, fusioni, unioni o gestioni associate. La disponibilità dei dati relativi alle funzioni fondamentali potrà inoltre agevolare il completamento della normativa e l'individuazione dei contenuti sostenibili dei livelli essenziali delle prestazioni (i famosi LEP).
  Solo una volta che sarà possibile conoscere tale dato, oltre che la determinazione delle capacità fiscali standard, sarà infatti possibile disegnare il sistema perequativo comunale a regime che, secondo la legge delega sul federalismo fiscale, dovrebbe garantire a ciascun ente il finanziamento integrale dei fabbisogni standard delle funzioni fondamentali, a partire dalle rispettive capacità fiscali standardizzate.
  Infine, è ancora da chiarire la connessione dell'attuazione del federalismo con il processo di coordinamento dinamico della finanza pubblica, previsto dalla legge di riforma della contabilità pubblica n. 196 del 2009.
  Voi sapete che questa legge è stata ulteriormente modificata in epoca recente. È infatti nel Patto di convergenza, nel Documento di economia e finanza, nella Legge di stabilità, nei disegni di legge collegati che devono essere previsti la dimensione del finanziamento complessivo delle diverse funzioni decentrate e, quindi, i margini disponibili per le autonomie locali. Si tratta di un approccio, al contempo, finanziariamente sostenibile e in linea con i richiami alla tutela delle prestazioni.
  Il terzo punto da noi trattato è il federalismo fiscale e l'assetto del prelievo: le incertezze della delega, i vincoli sopravvenuti e i nodi da sciogliere. Nel ridisegno dei rapporti tra Stato e autonomie territoriali, al nuovo modello di prelievo delineato dalla legge delega era riconosciuto un ruolo decisivo per il superamento del sistema della finanza derivata, per l'attribuzione di una maggiore autonomia agli enti decentrati e per il coordinamento della finanza pubblica.
  Ne erano espressione da un lato l'obiettivo di un aumento dell'efficienza, rendendo gli amministratori locali responsabili di fronte ai cittadini, posti nella condizione di valutare la corrispondenza fra quantità e qualità dei servizi ricevuti e imposte pagate; dall'altro gli strumenti su cui tale modello poggiava, incentrati sullo scambio fra taglio dei trasferimenti statali e riconoscimento agli enti decentrati di un'articolata autonomia impositiva; da un altro lato ancora, un equilibrato processo di transizione al federalismo, in un contesto garantito da un vincolo di invarianza della pressione fiscale complessiva.
  Si trattava – e si tratta ancora – di un processo di riforma suscettibile di ricadute positive sull'assetto economico e sociale del paese, oltreché sull'equilibrio dei conti Pag. 9pubblici. Su tale prospettiva concordava – e concorda ancora – anche la Corte dei conti.
  Certamente già allora non venivano sottovalutati i rischi e le incertezze suscettibili di condizionare il percorso verso l'attuazione del disegno riformatore. La stessa Corte dei conti, mentre esprimeva una non rituale apertura di credito sulle linee generali del progetto, non si esimeva dal porre interrogativi e dal sottolineare talune criticità.
  Peraltro, agli originari limiti della legge delega e alle criticità affioranti nel corso dell'incerto e lento processo di attuazione se ne sono aggiunti altri, di pari passo con il peggioramento del quadro economico e dei più stringenti vincoli di finanza pubblica. In sostanza, come ho accennato all'inizio, è avvenuto quello che nella primavera del 2009, all'atto del varo della legge delega, non era prevedibile: interventi che avrebbero dovuto scandire la transizione al federalismo sono stati adottati fuori delega, per essere in larga parte finalizzati all'equilibrio dei conti pubblici.
  Il quadro che si delinea a distanza di cinque anni dal varo della legge n. 42 del 2009 testimonia che l'emergenza finanziaria si è riversata soprattutto sul versante impositivo, investendo tributi che nella legge delega avevano un ruolo centrale (l'IMU, pivot della fiscalità municipale); alterando la funzionalità di altri, destinati ad incidere sul mercato del lavoro (è il caso dell'Irap e dell'Irpef con le sue addizionali); mettendo in discussione il ruolo di un intero livello di governo (quello provinciale) e lo stesso perimetro del fisco decentrato.
  Interrogarsi sulle prospettive del federalismo fiscale significa, dunque, chiedersi se si è in grado di superare le incertezze lasciate in eredità dalla legge delega sul versante delle fonti di finanziamento e significa pure misurarsi con la capacità di incidere sulla portata dei vincoli sopravvenuti in ordine al livello e alla distribuzione del prelievo e alle sue ricadute sul coordinamento della politica fiscale fra i vari livelli di governo.
  Si tratta di snodi che la Corte ha approfondito nell'ultimo Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica e che ora ha l'occasione di ripercorrere soffermandosi su tre tasselli principali: il livello della pressione fiscale; gli spazi di autonomia tributaria conquistati dagli enti decentrati; la distribuzione del prelievo e le sue ricadute sul coordinamento della politica fiscale.
  Il punto successivo riguarda il federalismo e la pressione fiscale. Nel percorso di attuazione del federalismo l'esigenza di un coordinamento fra i diversi livelli di governo ha trovato una significativa espressione nel tentativo di conciliare autonomia impositiva degli enti territoriali e pressione fiscale complessiva.
  In tale direzione erano stati indirizzati i provvedimenti che a partire dal 2009 hanno regolato la transizione al federalismo, dalla legge delega ai decreti legislativi attuativi del federalismo comunale e di quello regionale e provinciale.
  I risultati conseguiti sono stati diversi: non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e fisco locale, ma, anzi, di pari passo con l'attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate di competenza degli enti territoriali sia di quelle dell'amministrazione centrale.
  Le prime, in particolare, nell'arco di un ventennio hanno consolidato una performance (vedi grafico 1 dell'allegato 1) che si segnala per un balzo di quasi cinque punti in termini reali, con un incremento dell'ordine del 130 per cento. La forza trainante sulla pressione fiscale complessiva, cresciuta dal 38 per cento al 44 per cento, appare imputabile per oltre i 4/5 alla dinamica delle entrate locali.
  La quota delle entrate locali su quelle dell'intera pubblica amministrazione si è più che triplicata (dal 5,5 per cento del 1990 al 15,9 per cento del 2012).
  Le evidenze quantitative, insomma, sembrano testimoniare una mancanza di coordinamento fra prelievo centrale e locale, sconfinata nell'aumento della pressione fiscale complessiva, a causa di una sorta di effetto combinato: lo Stato centrale Pag. 10che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli dei trasferimenti, aumentano le aliquote dei propri tributi, a volte anche più dell'occorrente.
  Il tema successivo è il federalismo e l'autonomia impositiva degli enti locali. Alla crescita delle entrate proprie ha corrisposto un ridimensionamento dei trasferimenti statali. Ciò ha comportato una significativa ricomposizione delle fonti di finanziamento degli enti territoriali (vedi grafico 2 dell'allegato 1).
  Tuttavia tale forte crescita non sembra espressione di un effettivo aumento di autonomia impositiva. In proposito, risulta difficile individuare uno stretto collegamento fra l'autonomia impositiva accordata e quella concretamente esercitata, e, nell'ambito di quest'ultima, fra scelte autonome degli amministratori locali e decisioni condizionate dal legislatore nazionale.
  In effetti, le trasformazioni del federalismo non appaiono avere modificato la realtà di un'autonomia impositiva territoriale limitata e condizionata. Nulla è infatti cambiato a seguito dell'ampliamento del sistema delle compartecipazioni (l'IVA), che, risolvendosi nella mera devoluzione di quote del gettito di tributi erariali, non accorda agli enti decentrati margini di manovrabilità e, per contro, aumenta la dipendenza delle entrate locali dagli interventi centrali sui tributi statali compartecipati.
  Poco è cambiato (se si esclude l'introduzione dell'IMU) anche sul versante dei tributi propri. Per un verso, infatti, l'autonomia impositiva degli enti decentrati continua ad essere sostanzialmente circoscritta alla facoltà di variare, entro intervalli prefissati, le aliquote di alcuni tributi locali. Per altro verso, invece, tale facoltà continua a subire limitazioni, dal lato della manovrabilità delle aliquote, da quello dell'integrità delle basi imponibili e da quello della stessa titolarità del gettito.
  Infine, non possono essere ignorati gli effetti – anch'essi condizionanti l'autonomia impositiva – prodotti dagli aumenti di aliquote (Irap, addizionale Irpef) posti a carico delle realtà regionali che denunciano squilibri nel settore sanitario, e che si configurano come obblighi piuttosto che come mero esercizio di autonomia impositiva.
  Il punto successivo della relazione tratta di federalismo, redistribuzione e distorsioni del prelievo. Differenze di pressione fiscale a livello territoriale rientrano nella filosofia del federalismo fiscale. Fin dalla predisposizione della legge delega risultava chiaro che con il federalismo si sarebbe pagato in misura diversa e si sarebbero avuti servizi diversi, a seconda della residenza e del luogo di attività dei contribuenti, nonché della capacità dei cittadini di scegliere governi locali in grado di evitare sprechi, inefficienze e ingiustificati aumenti di prelievo.
  In tale contesto, le preoccupazioni per eventuali effetti distorsivi riflettevano essenzialmente il rischio che, nell'ambito del sistema di finanziamento degli enti decentrati, la mancanza di coordinamento fra la componente tributaria e quella dei trasferimenti perequativi potesse tradursi in rilevanti effetti redistributivi fra territori e fra tipologie di enti.
  Minore attenzione, invece, era prestata al medesimo rischio per come era concretamente avvertito dagli amministrati: quello di significative differenze territoriali nel prelievo a carico di famiglie e di imprese, pur in presenza di un uguale imponibile e in assenza di apprezzabili divari nel livello delle prestazioni.
  Stando ai risultati maturati, la seconda tipologia di rischio si è rivelata concreta. Una prima indicazione in tal senso si trae avendo riguardo alla struttura delle aliquote determinatasi con l'avvento del federalismo.
  Il quadro che emerge (indicato nella tavola 2 dell'allegato 1) indica che il ricorso alla leva fiscale è molto differenziato sul territorio, senza considerare le ulteriori differenze che inevitabilmente emergeranno allorquando ogni comune si troverà a fissare per il 2014 le aliquote e gli altri Pag. 11parametri relativi alla nuova costruzione del prelievo sugli immobili (IMU, Tasi, Tari).
  A livello comunale il confronto basato sugli enti capoluoghi di regione segnala a sua volta che le aliquote dell'addizionale all'Irpef risultano più elevate nei comuni delle regioni a statuto ordinario (eccezion fatta per Firenze) rispetto a quelli delle regioni a statuto speciale.
  Alle differenze di aliquote si aggiungono quelle, non meno rilevanti, che discendono dal modo in cui ogni governo decentrato ha utilizzato la facoltà di intervenire su altri elementi strutturali dei tributi, dalla progressività, alla determinazione della base imponibile e alle esenzioni.
  Emblematico risulta, in particolare, il caso delle addizionali regionali e comunali all'Irpef, per le quali la libertà di aliquota riconosciuta a ciascun ente ha condotto indifferentemente a scegliere fra: un'unica aliquota per tutti i livelli di reddito; più aliquote improntate a progressività; sistema di progressività per classi o per scaglioni; scaglioni di reddito imponibile coincidenti con quelli Irpef, ovvero fissati in totale autonomia; facoltà di introdurre forme di esenzione per i Comuni; facoltà di accordare detrazioni aggiuntive per carichi di famiglia e a favore dei contribuenti incapienti, nonché di disporre di detrazioni dall'addizionale, in luogo di sussidi, voucher e altre misure di sostegno sociale da parte delle regioni.
  Ancor più significativo è il reticolo territoriale che contrassegna la struttura dell'Irap, a seguito del concorso di una serie di fattori.
  Sono diverse, insomma, le variabili fiscali che, soprattutto nel caso dell'Irap e delle addizionali dell'Irpef, concorrono a determinare il livello del prelievo sul territorio e l'onere sopportato da imprese e famiglie.
  Il loro effetto complessivo può essere misurato analizzando come si distribuisce l'incidenza effettiva delle due imposte fra le diverse realtà regionali. Nel caso delle addizionali all'Irpef (grafico 3 dell'allegato 1), tali differenze sembrano dipendere dalla collocazione territoriale (nel Nord il prelievo è generalmente più basso rispetto al Centro-Sud); dalla forma dell'ordinamento regionale (in genere, si paga di più nelle regioni a statuto ordinario che non in quelle a statuto speciale); dall'assoggettamento o meno a una procedura di rientro per disavanzi sanitari eccessivi, che da sola spiega un'aliquota più elevata.
  Si tratta di un divario che, a fronte di un medesimo livello di reddito, comporta a carico del singolo contribuente una forte differenza di prelievo complessivo (Irpef e addizionali), soprattutto in corrispondenza dei più bassi livelli di imponibile.
  Sembra emergere, insomma, una sorta di regola distorsiva, in virtù della quale i territori con redditi medi più bassi, espressione di economie più in affanno, sono penalizzati da una pressione fiscale locale più elevata. È una conseguenza assurda.
  Analoghe sono le evidenze e le conclusioni che possono trarsi sul versante Irap, nella considerazione che la distribuzione del peso dell'imposta (vedi grafico 4 dell'allegato 1) si concentra intorno a tre diversi livelli di prelievo: quello agevolato, che si realizza nelle realtà a statuto speciale; quello ordinario, che comunque si colloca significativamente al di sotto (fino al 10 per cento) della media nazionale; e infine quello decisamente maggiorato (fino al 20 per cento del valore medio nazionale), che coinvolge le regioni in situazione di extra deficit, collocate nel Centro-Sud.
  Si tratta di differenze significative, anche per le immediate ricadute che hanno su un'importante variabile di politica economica quale il costo del lavoro. Confrontando l'incidenza del prelievo per aree territoriali è possibile rilevare un divario che arriva a 2,5 punti percentuali.
  Peraltro, si consideri che a queste differenze vanno aggiunte quelle relative all'IMU e all'Irpef, gravanti sugli immobili a disposizione e sugli immobili strumentali d'impresa, nonché dal 2014 quelle ulteriori riconducibili alle nuove forme di prelievo immobiliare disegnate dalla legge di stabilità 2014 (Tasi e Tari).
  Se nel primo caso (IMU e Irpef) si tratterà soprattutto di effetti dovuti a Pag. 12scelte della politica fiscale nazionale, nel secondo caso (Tasi e Tari) si sarà invece in presenza di divari interamente riconducibili alle modalità con cui ciascuna realtà comunale utilizzerà i margini di manovra accordati per definire nuove aliquote e nuove detrazioni.
  Si tratta di differenze che, anche in associazione con altre variabili di natura non tributaria, possono provocare reazioni di comportamento da parte dei contribuenti. Talora potrebbe trattarsi solo di una delocalizzazione, che può riguardare sia le persone fisiche che le imprese: le prime, scegliendo di spostare la propria residenza per garantirsi un più contenuto peso delle addizionali Irpef o un abbattimento del prelievo sugli immobili; le seconde, decidendo di insediare la propria attività o di distribuire la propria produzione sul territorio anche sulla base di convenienze fiscali (il diverso peso dell'Irap e dell'IMU sugli immobili in cui svolgono la propria attività).
  Altre volte potrebbero aversi ricadute negative sotto il profilo della tax compliance. Si tratta in entrambi i casi di reazioni che finiscono per colpire più pesantemente le realtà economiche più povere, quelle che, contando su una ridotta capacità fiscale del proprio territorio e costrette ad aumentare le aliquote per ripianare i deficit della sanità, finiscono per deprimere ulteriormente l'economia del territorio e la capacità di generare base imponibile. Questo è un circolo vizioso che si concentra in misura particolare nel Mezzogiorno.
  A soffrire di un sistema fiscale fortemente differenziato sul territorio – meno per scelta e più per necessità ed inevitabilità – sono anche la gestione amministrativa del prelievo e il coordinamento della complessiva politica fiscale.
  Regole tributarie territorialmente differenziate comportano inevitabilmente costi amministrativi più elevati per le imprese, soprattutto per quelle che, avendo dipendenti che risiedono in comuni e regioni diverse, sono chiamate, nella veste di sostituti d'imposta, ad applicare aliquote, detrazioni e deduzioni differenti.
  La coesistenza di livelli di tassazione significativamente differenziati finisce, d'altra parte, per introdurre elementi di incertezza e di alterazione nell'azione di redistribuzione nazionale, soprattutto quando una quota crescente del prelievo complessivo riflette l'operare di un fattore (quello territoriale) non agevolmente saldabile, e anzi talora in contrapposizione con le variabili redistributive proprie della politica fiscale nazionale.
  Come detto in apertura, nel documento depositato (allegato 1) possono rinvenirsi specifiche valutazioni in relazione anche agli altri temi affrontati con l'attuazione della delega: il federalismo demaniale, premi e sanzioni, l'armonizzazione dei sistemi contabili, gli interventi per la rimozione degli squilibri economici e sociali.
  Concludo con alcune riflessioni sul processo di attuazione del federalismo e la funzione di controllo, cui accennavo all'inizio. Al momento del varo della legge n. 42 del 2009 la Corte si era detta pronta ad accompagnare il processo, arricchendo, con i risultati tratti dalla propria attività istituzionale, il quadro informativo necessario al monitoraggio e alla gestione della riforma.
  Avevamo affermato ciò nella convinzione, che mi sento di riconfermare oggi, che uno dei capisaldi di questo impegnativo processo di ridisegno dei rapporti tra livelli di governo consiste in un adeguato e affidabile quadro informativo da mettere a disposizione delle amministrazioni e dei cittadini.
  Il percorso fatto finora, e riassunto nelle brevi note che pochi giorni abbiamo diffuso in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2014, è la riprova di tale impegno. È un percorso reso più impegnativo dalla crisi finanziaria intervenuta nella fase di attuazione, ma che dà conto dello sforzo operato, a parità di risorse, per accompagnare il processo ancora in corso.
  Negli ultimi anni l'adeguamento delle modalità operative delle sezioni regionali ha consentito di far fronte alle nuove forme di controllo che ci sono state affidate. Per quanto riguarda le regioni, ciò ha Pag. 13condotto ad attuare nella quasi totalità del territorio i giudizi di parificazione e a predisporre le relazioni sulla tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali.
  Si è così avviato un lavoro d'analisi destinato ad arricchire le conoscenze dei Consigli regionali, al fine di garantire l'effettivo coordinamento della finanza pubblica e il rispetto del principio del pareggio di bilancio sancito dal novellato articolo 81 della Costituzione. A questa attività vanno ad aggiungersi quelle svolte per l'esame dei bilanci preventivi, dei rendiconti delle regioni e dei quelli dei gruppi consiliari.
  Ieri la Sezione autonomie della Corte dei conti ha varato le linee guida, che abbiamo indirizzato ai revisori dei conti delle Regioni, per l'analisi dei rendiconti delle regioni. Queste linee guida, che rappresentano una sorta di manuale a cui i revisori dei conti sono liberi di attenersi, sono state create a tavolino dalla Corte dei conti e dalle Regioni, in particolare con i tecnici dei Consigli regionali. Peraltro, in una nostra riunione era presente il coordinatore della Conferenza dei presidenti dei consigli regionali, il presidente Brega, che ha dato atto di assoluta sinergia e di assoluta collaborazione.
  Questo consente a noi, ma forse anche alla Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali, di avere un quadro esatto della realtà dei bilanci. Infatti, a volte non si conosce la realtà del bilancio della regione vicina. La metodologia è totalmente informatizzata, e quindi, una volta che saranno stati compilati gli schemi, si potrà ottenere questi dati in tempo reale e avere un quadro veramente preciso e completo della situazione nazionale. Questo è un ausilio in più che la Corte dà e che ovviamente mette a disposizione anche del Parlamento.
  Nella sanità le analisi da sempre svolte sono state arricchite per affrontare aspetti riguardanti la rappresentazione dei flussi finanziari delle risorse destinate al settore, nonché le relazioni finanziarie fra il bilancio regionale e quelli delle aziende sanitarie. Con ciò si è mirato a verificare la corretta perimetrazione delle entrate e delle uscite relative al servizio sanitario regionale nel rendiconto della regione e l'attuazione delle disposizioni sulla gestione accentrata (decreto legislativo n. 118 in materia di armonizzazione dei conti pubblici).
  Per gli enti locali alle attività basate, come negli anni precedenti, sulla funzione di controllo di regolarità contabile sui bilanci e sui rendiconti, si sono aggiunte quelle connesse ai piani di riequilibrio pluriennali (ex articoli 243 bis e seguenti del Testo unico degli enti locali), nonché le deliberazioni in materia di cosiddetto «dissesto guidato» (ex articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 149 del 2011).
  Per ciascuna sezione regionale di controllo è stato così possibile eseguire, su tutti gli enti della regione, un monitoraggio sull'intero ciclo di bilancio, così da constatare e valutare, in sede di analisi dei rendiconti, le misure adottate da ciascun ente per ovviare alle irregolarità, ai rischi o alle disfunzioni eventualmente segnalati nell'esame del bilancio.
  Le incertezze connesse al quadro normativo e le ripetute misure destinate ad incidere sulla gestione delle amministrazioni locali hanno poi accresciuto il ruolo della funzione consultiva. Essa mira a prevenire – e, in un certo senso, ad anticipare – le problematiche che sono destinate a emergere nell'applicazione della legislazione finanziaria di interesse regionale e locale.
  Gli oggetti più frequenti di tale attività consultiva sono stati: la gestione del personale; le società e gli organismi partecipati; le trasformazioni di consorzi, società e aziende speciali; i vincoli all'indebitamento e al ricorso agli strumenti finanziari; le operazioni di partnership tra pubblico e privato; nonché gli affidamenti e i contratti pubblici. Questa è un'attività divenuta via via più impegnativa, a cui nel 2013 si è aggiunta quella relativa all'attuazione del decreto-legge n. 174 del 2012.
  L'organizzazione in articolazioni territoriali dell'Istituto e il collegamento con i controlli interni (quelli dei revisori dei conti) hanno permesso di svolgere l'esame Pag. 14di realtà amministrative molto differenziate, assicurando nel contempo la ricomposizione unitaria, attraverso le analisi e le valutazioni svolte a livello centrale. Inoltre, per ricondurre l'attività ad una necessaria omogeneità, la Sezione delle autonomie ha adottato pronunciamenti di orientamento univoco e generale.
  Alle Sezioni riunite in speciale composizione sono dovute, più di recente, le pronunce sulle controversie concernenti l'impugnazione delle delibere di approvazione o di diniego del piano di riequilibrio.
  Sull'applicazione di questo decreto legge n. 174, molto incisivo per quanto riguarda la competenza della Corte dei conti, sono stati sollevati numerosi conflitti di attribuzione da parte di più di una regione, che sono stati esaminati dalla Corte costituzionale, che a quanto pare domani pubblicherà una sentenza chiarificatrice su alcuni punti. Vedremo cosa dirà.
  Ci sono vari punti che la Corte costituzionale ha approfondito. Non abbiamo ancora notizia di quale sarà il contenuto di questa pronuncia, a cui ci adegueremo. Ne parlavo ieri con il sottosegretario Delrio. Ovviamente ci adegueremo a quello che ci dirà la Corte costituzionale.
  In conclusione, con l'avvio del federalismo fiscale l'attività di controllo sulla gestione, ancor più di quanto fatto finora, dovrà consentire una verifica attenta e tempestiva, oltre che dell'efficacia e dell'efficienza dell'operare delle amministrazioni locali, anche della rispondenza dei servizi resi al modello di prestazioni essenziali costituzionalmente garantite.
  Per trasmettere al meglio i suoi effetti positivi, un sistema basato su una maggiore corrispondenza tra responsabilità di entrata e di spesa deve consentire ai cittadini di avere una chiara percezione del rapporto esistente tra prelievo fiscale e servizi ottenuti.
  A questo fine deve essere orientato l'esame della gestione delle entrate a livello regionale e locale, con ciò consentendo di indurre, come insegnano esperienze di altri Paesi, efficaci processi di emulazione e di miglioramento delle gestioni, che costituiscono il fondamento del nuovo sistema federale.
  Inoltre, il ruolo che nel nuovo disegno è riservato alla perequazione (indispensabile soprattutto a ragione del forte dualismo proprio del nostro Paese) attribuisce alle verifiche di regolarità contabile delle gestioni svolte dalla Corte un compito cruciale per la funzionalità e la sostenibilità del sistema, che intendiamo svolgere con rinnovato impegno.

  PRESIDENTE. Grazie, presidente. Abbiamo concluso la sua relazione in tempo quasi utile per i colleghi che hanno altri impegni di Commissione. Credo che la sua sia una relazione assai competa. Come è stato ricordato, c’è anche altro materiale a disposizione dei colleghi.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FEDERICO FORNARO. Vorrei rivolgere al presidente Squitieri un ringraziamento non formale. Devo dire che la sua è una relazione molto stimolante, che pone l'accento su una serie di criticità diffuse sul territorio e sulle problematiche derivanti da una faticosa attuazione del federalismo, fiscale e municipale, e in alcuni casi da norme che si sono succedute e che sono entrate in contraddizione.
  Io vorrei porre l'accento su due aspetti. Il primo ovviamente è emerso. Nella parte della relazione che lei non ha letto c’è il riferimento al tema premi e sanzioni, e quindi al ruolo, che mi sembra crescente e positivo, delle Sezioni di controllo, anche nel cosiddetto «controllo collaborativo» nei confronti delle amministrazioni comunali. Io credo che questo tipo di controllo andrebbe ulteriormente intensificato, soprattutto pensando alla realtà dei piccoli comuni e alla difficoltà di adattamento di strutture che in alcuni casi sono mononucleari. Spesso c’è un'unica persona che viene bombardata da richieste continue e crescenti di diversi soggetti.
  Da questo punto di vista l'individuazione, anno per anno, di un focus su Pag. 15determinati aspetti, ovvero una sorta di indirizzo, è un elemento importante nella fase di tipo collaborativo, che io credo vada assolutamente incentivata. Poi ovviamente c’è la parte più sanzionatoria, quella più «classica».
  Passo al secondo aspetto. Voi avete dedicato diverse pagine al tema della normativa sui dissesti e su una fase estremamente delicata di una normativa che è andata a sovrapporsi in maniera non omogenea tra dissesto e predissesto, creando, soprattutto in alcuni casi, situazioni non semplici nel rapporto con l'opinione pubblica. È un soggetto che qui non è espresso, ma per chi si trova ad amministrare comuni in dissesto, non avendo avuto la responsabilità di aver portato l'amministrazione al dissesto, sono questioni molto rilevanti.
  Da questo punto di vista un passaggio che è molto rispettoso della normativa, cioè il fatto che è lo stesso Consiglio comunale ad approvare l'apertura del dissesto, ha finito in alcuni casi per portare le opposizioni e, di conseguenza, parte dell'opinione pubblica a far passare l'idea che il dissesto poteva non essere dichiarato. Ne sono stato un testimone in comuni che conosco.
  Se la sanzione c’è, deve esserci un soggetto che la applica, che però deve assumersi la responsabilità di dichiararlo. L'affidare al Consiglio comunale questo atto dà l'idea di una discrezionalità che in realtà non c’è. Una volta che la Corte dei conti procede, non c’è di fatto una discrezionalità, ma questo voto di approvazione del Consiglio comunale finisce per far passare all'opinione pubblica l'idea che il dissesto può non essere approvato (e evidentemente alcuni ci giocano). Visto che le conseguenze dell'applicazione del dissesto sull'economia territoriale (tassazioni, contenimento della spesa, eccetera) sono molto rilevanti, mi sento di rilevare questo fatto in questa sede.
  Credo che il tema del predissesto e dissesto andrebbe ripreso e coordinato. Evidentemente è un'osservazione che non deve essere rivolta a voi, ma a noi come legislatori. Sono norme che si assomigliano, ma in questo momento non sono coordinate, perché in fondo quelle del cosiddetto «predissesto» vengono dopo quelle del dissesto. Si pone una contraddizione tra i due momenti, che in realtà, come voi sapete bene, in termini di numeri e di situazione deficitaria sono assolutamente assimilabili, mentre oggi sono governati da due tipi di normativa.
  I colleghi che sono anche in Commissione bilancio, stimolati dal testo, chiedevano di poter fare un documento o ricercare un'interlocuzione, e eventualmente pensare più avanti a una nuova audizione in cui ci possa essere un approfondimento su diversi aspetti. Ne ho citati soltanto alcuni, anche per questioni di brevità. Credo che su alcuni aspetti un'interlocuzione possa essere molto utile, nello spirito, che abbiamo molto apprezzato, di collaborazione istituzionale tra la Corte e il Parlamento. Grazie.

  NERINA DIRINDIN. Anch'io vorrei associarmi al ringraziamento e all'apprezzamento non formale per questa relazione, che è estremamente interessante e ampiamente condivisa. Sottolineo solo alcuni aspetti che voi avete rimarcato.
  Avete indicato i passaggi che devono essere ancora fatti per andare avanti nel processo. Ce n’è uno particolarmente importante che avete segnalato: manca la ricognizione dei livelli essenziali, a parte la sanità. Non c’è una ricognizione, né una definizione dei livelli. Mancano tutti e due gli aspetti. Questo è estremamente importante.
  In secondo luogo, è molto utile l'aggiornamento che ci avete dato sulle differenze nelle aliquote fra le diverse regioni. In effetti, mediamente, se escludiamo le regioni a statuto speciale, la differenza fra le regioni che hanno l'aliquota più alta e quelle che ce l'hanno più bassa è grosso modo di due punti percentuali.
  Giustamente avete indicato i possibili effetti, alcuni dei quali forse si osservano già. Ancorché siano passati pochi anni, sarebbe utile capire come si stanno muovendo queste differenze nel tempo. L'impressione è che sia più rapido l'effetto di Pag. 16aumento dell'imposizione nelle regioni in difficoltà e molto più lento, anche quando si sono superati i momenti di criticità, il ritorno ai livelli standard. Non so se avete qualche elemento in questo senso.

  ROGER DE MENECH. Grazie innanzitutto per gli spunti. Io credo che siamo arrivati a un ragionamento di carattere generale, che vi riguarda da vicino, in un momento di rottura nel rapporto fra agli enti locali e lo Stato.
  Questo sistema di controlli e di vincoli (ne cito uno: il patto di stabilità) non ha provocato alla fine l'effetto sperato dal legislatore, altrimenti i debiti della pubblica amministrazione non esisterebbero. Questo sistema ha di fatto vincolato in maniera forte un pezzo dell'Italia (non tutti i comuni).
  Oggi siamo in un momento di stacco, perché la capacità e l'autonomia dei comuni sono ridotte ai minimi termini. Ciò provoca un'assenza di possibilità di manovra da parte delle amministrazioni locali.
  Io mi chiedo se non sia necessaria una riflessione più profonda nel merito. Un conto è calcolare ad arte i residui attivi dovuti alle multe, una sovrastima delle entrate o una sovrastima delle alienazioni. In quel caso la Corte dei conti e lo Stato in generale devono avere un certo approccio. Un altro conto (e non possiamo metterlo sullo stesso piano) è calcolare il mancato rispetto del patto per il mancato pagamento di contributi pubblici, regionali o statali, legittimamente intercettati dai comuni, usati per fare opere pubbliche e poi non pagati dall'ente superiore. Sono cose completamente diverse nel merito.
  Corriamo il rischio che l'applicazione a senso unico della norma provochi da una parte l'ingessamento di un pezzo di questi comuni e dall'altra il fenomeno esattamente contrario, ovvero la presenza di conti non in ordine negli altri. Ovviamente non è una questione geografica. È una questione di merito e di amministrazione del singolo comune.
  Io credo – e lo dico qui in Commissione per il federalismo, proprio per il senso politico dell'affermazione – che in questi casi l'unico sistema veramente efficace sia quello di avvicinare il livello di tassazione al cittadino. In ogni caso, per il principio di responsabilità, se qualcuno sovrastima l'entrata delle multe – lo dico da sindaco – e quindi in quell'annualità aumenta la spesa corrente, l'anno successivo dovrà trovare altre forme di entrata dentro il perimetro del proprio comune. Non vedo altre soluzioni rispetto a questa.
  Le applicazioni che stanno succedendosi a livello nazionale rischiano veramente di inchiodare i comuni che invece hanno la possibilità di spendere. Ci troviamo nella situazione assurda di dover decidere fra l'utilizzo di fondi pubblici, intercettati in maniera legittima con la contribuzione, e il non poterli spendere.
  Anche la Corte dei conti dovrebbe mettere un grosso punto di domanda sull'interesse pubblico. Qual è l'interesse pubblico, lo sforamento del patto di stabilità o il mancato utilizzo di fondi pubblici e addirittura di quelli europei ? Sull'interesse pubblico si apre veramente un fronte enorme e un dubbio amletico per il sindaco che deve decidere.
  Con tutti questi ragionamenti voglio dire che, a mio modo di vedere, l'articolazione normativa che abbiamo costruito, buonissima nelle intenzioni, applicata sul territorio provoca queste distorsioni.
  Se entriamo nel perimetro delle società partecipate, esistono enti locali che hanno una società partecipata e che la trattano esattamente come il comune. Se la partecipata fa un euro di debito, il comune lo copre con le proprie risorse, e quindi c’è comunque un equilibrio generale della finanza pubblica. Ci sono invece comuni che questo non fanno. Non tutte le società pubbliche partecipate dai comuni sono il male e non tutte sono il bene.
  Su questi meccanismi, che riguardano il fondamento del lavoro della Corte dei conti, credo che vada fatta una riflessione seria, esattamente come quella che dobbiamo fare rispetto all'attuazione dei costi standard.
  Dentro questa riflessione seria la nuova formulazione del bilancio come viene vista ? Pag. 17Secondo me i costi standard e il federalismo vero da una parte e la nuova formulazione del bilancio dall'altra sono due di quelle partite che possono iniziare a mettere una toppa al sistema e al rapporto fra i vari gradi di governo (Stato, regioni e comuni, passando per le province).
  La mia non è una domanda, ma è una riflessione. Credo che su questi due argomenti dovremmo lavorare, anche molto velocemente, perché se aspettiamo ancora un po’ in alcuni comuni non troveremo più il candidato a sindaco, oppure i comuni chiuderanno per mancanza di capacità operativa.

  ENRICO CAPPELLETTI. Grazie, mi associo ai ringraziamenti per l'ampia relazione. La mia domanda è molto breve, però probabilmente la risposta non sarà altrettanto breve.
  Come prima considerazione, mi sono annotato la sua riflessione sulla lievitazione degli indebitamenti occulti degli enti locali. Esiste uno strumento che ci desta particolare preoccupazione, che è quello del ricorso al project financing, ovvero all'accordo pubblico-privato. In un'accezione virtuosa ciò dovrebbe consistere nell'apporto del privato che assume un rischio di impresa, fornendo delle risorse sulla base di un contratto trasparente, che vengono poi remunerate nell'arco degli anni.
  Nella realtà dei fatti non è così, perché spesso questi contratti non sono trasparenti, anzi sono negati ai detentori di interessi legittimi. Chi le parla ha presentato degli esposti alla Corte dei conti rispetto a questo problema. Il rischio di impresa spesso non è affatto in capo al soggetto privato, ma fa interamente carico all'ente pubblico. Vorrei sapere se condivide questa preoccupazione.
  Un secondo punto non meno importante (anzi forse lo è anche molto di più) è l'enorme dimensione di stima del costo della corruzione nel nostro Paese (60 miliardi di euro). A parte il fatto che non è chiarissimo come si è arrivati ad esprimere questa stima, vorrei chiederle quali sono le prospettive in funzione dell'attuazione di questa riforma.

  PRESIDENTE. Faccio anch'io due brevi considerazioni. L'attuazione del federalismo fiscale è stata sicuramente condizionata dall'emergenza della finanza pubblica, ma anche da altri fattori.
  Riprendo quello che diceva De Menech sul problema dei residui attivi ancora fittiziamente presenti nei bilanci e sul collegamento che voi fate col processo di armonizzazione dei bilanci e di adeguamento delle regole contabili (decreto legislativo n. 118), che voi ritenete quanto mai urgente. Quanto nuovi principi di bilancio e di contabilizzazione dei residui attivi potrebbero permettere di fare chiarezza, ma anche, contemporaneamente, di fare emergere un altro buco nel conto consolidato della pubblica amministrazione ?
  Questo è un argomento quasi tabù, di cui non si parla, però se sentissimo i rappresentanti di Equitalia, responsabili della riscossione, potrebbero forse dirci qualcosa in proposito.
  In secondo luogo, voi avete citato en passant la riforma costituzionale del pareggio, o meglio dell'equilibrio del bilancio. È evidente che questa riforma costituzionale incide in modo profondo su ogni considerazione di federalismo fiscale, ma anche sugli equilibri dei bilanci delle pubbliche amministrazioni (comuni e regioni).
  Questo mi sembra un elemento fondamentale, entro cui inquadrare la prospettiva di ogni ipotesi di riforma della finanza locale e della finanza regionale.
  Do la parola al presidente della Corte dei conti Raffaele Squitieri, per la replica.

  RAFFAELE SQUITIERI, Presidente della Corte dei conti. Replicherò su alcuni punti e poi pregherò i colleghi di intervenire.
  Senatore Fornaro, quello su premi e sanzioni è un discorso tutto da fare. Sono competenze che ci sono state attribuite dal decreto n. 174 e, da quanto mi risulta, sono proprio le questioni sulle quali si pronuncerà la Corte costituzionale nella decisione che spero verrà divulgata domani Pag. 18mattina. Questa decisione doveva arrivare addirittura a dicembre e siamo a marzo. Su questo tema, quindi, vedremo così ci dirà la Corte costituzionale.
  In previsione di questa sentenza, io sono andato proprio ieri dal sottosegretario Delrio a chiedergli di costituire un tavolo comune per vedere come e dove intervenire legislativamente per adeguare la normativa con leggi costituzionalmente orientate. Su questo c’è un'assoluta intesa, perché sono tutte riforme che si possono fare a costo zero, con un intento di chiarificazione.
  Per quanto riguarda i piccoli comuni, è una realtà che noi non ignoriamo quella del comune in cui c’è il sindaco che fa il ragioniere e il capo dei vigili urbani, ovvero i famosi comuni-polvere. Questa situazione richiama discorsi che abbiamo fatto addirittura negli anni 1990, con la legge n. 142, quando si era partiti dall'idea che questi comuni si sarebbero dovuti eliminare, e invece sono sopravvissuti. Noi teniamo conto di questa situazione.
  Le linee guida che noi diamo per l'impostazione dei bilanci ai revisori dei conti sono importantissime, e non vanno viste dai Comuni – mi consenta, senatore – come un'invasione di campo, ma piuttosto come un ausilio, soprattutto per i piccoli comuni. Oltretutto le linee guida, in particolare quelle per i comuni, che abbiamo approvato in questi giorni, sono concertare con l'ANCI. Le stiamo scrivendo insieme.
  Dico una cosa di una banalità assoluta: siccome queste linee guida sono tutte informatizzate, è possibile che seguendole si riesca a costruire il bilancio senza grandissime difficoltà. Il collegamento con la Corte è costante ed è in tempo reale. Le linee guida sono quindi uno strumento di semplificazione e non di complicazione.
  Lei parlava giustamente dell'opinione pubblica. Ce ne rendiamo conto. Basta vedere le ricadute sulla stampa e quali sono gli echi nella realtà comunali, una volta che la Corte si è pronunciata sul dissesto, sul predissesto e sui piani di equilibrio.
  Questo discorso vale anche per l'intervento dell'onorevole De Menech, a cui poi risponderò. Ci sono dei problemi di fondo, che non dipendono da questi amministratori e forse neanche dai precedenti, ma certamente non dipendano dai controlli. Qualche volta viene quasi fatta passare l'idea che sono i controllori, troppo ragionieristici o cattivi, che fanno emergere queste situazioni. Non è così: noi guardiamo i bilanci e facciamo le nostre considerazioni. Il comune è libero di adeguarsi o di controdedurre.
  Lei diceva che ci riferiamo ai consigli comunali, creando anche problemi di carattere politico. Questo rientra nel sistema. Come noi siamo qui a riferire al Parlamento per quanto riguarda le amministrazioni centrali, il ruolo della Corte in sede locale è quello di riferire ai consigli comunali e ai consigli regionali, che sono gli esponenti della parte viva della cittadinanza.
  Sul tema del dissesto, del predissesto e delle competenze della Corte dei conti, effettivamente ci sono delle lacune, sulle quali noi dovremmo intervenire. Oltretutto, al di là delle ricadute di carattere politico, ci sono anche criticità di carattere tecnico. In qualche caso alla delibera sul piano di riequilibrio e sul predissesto il comune reagisce rivolgendosi alla Corte dei conti oppure al Tar, che la annulla. Si è creata una situazione di confusione assoluta.
  Da parte nostra noi stiamo già lavorando su delle proposte che manderemo al Parlamento, proprio per cercare di fare chiarezza. Tuttavia, senatore Fornaro, se me lo consente, devo dire che non c’è nessun intento punitivo. Io faccio sempre questo discorso: se c’è una situazione di difficoltà immanente, che è stata determinata da una serie di oggettive contingenze, il fatto che la Corte dei conti la denunci è semplicemente un modo per renderla pubblica. Noi possiamo anche non dire nulla, ma la situazione di difficoltà dei comuni permane. Non vorrei che questo fosse interpretato male.

  FEDERICO FORNARO. Non mi sono spiegato bene. Per l'esperienza che ho visto, la questione è un'altra. Per rapidità Pag. 19uso un'immagine calcistica: se ci sono due squadre che stanno giocando (maggioranza e opposizione), in questo caso la Corte dei conti svolge un ruolo di arbitro. L'arbitro fischia il rigore, non può dire alla squadra di autofischiarsi il rigore, perché l'altro dirà che il rigore poteva non essere fischiato. Questo è il problema.
  È vero quello che lei dice sul rapporto col consiglio comunale, ma quando alla fine, dopo il rapporto collaborativo e dopo le segnalazioni, arriva il fischio che stabilisce che si deve dichiarare il dissesto, non può essere il consiglio comunale a dichiararlo, perché si innesca un ragionamento secondo cui si poteva non farlo. I nuovi amministratori arrivano addirittura al paradosso di essere costretti a pagare, anche nel rapporto con l'opinione pubblica, l'applicazione del dissesto, accusati anche che il dissesto poteva non essere dichiarato.

  RAFFAELE SQUITIERI, Presidente della Corte dei conti. Forse neanche io mi sono spiegato bene. A parte il fatto che questo non dipende dalla Corte dei conti, ma dalle previsioni normative che noi applichiamo, mi rendo conto che il fatto che la Corte dei conti si rivolge ai consigli ha delle ricadute politiche importanti a livello comunale, però il sistema è perfettamente equilibrato. Noi diciamo la nostra e poi è il comune che deve valutare se intervenire e come intervenire. Altrimenti diventiamo noi gli amministratori e il discorso diventa delicatissimo.
  Se noi fossimo in grado di dichiarare il dissesto, saremmo noi a mettere in condizione il comune di proseguire o di non proseguire. Se la legge ci desse questo potere, io avrei qualche dubbio sulla costituzionalità di una previsione di questo genere.
  Forse su questo punto qualche collega vuole intervenire.

  ENRICO FLACCADORO, Consigliere della Corte dei conti. A me sembra che il problema a cui il senatore Fornaro faceva riferimento sarà superabile nel futuro da un monitoraggio continuo. Lei giustamente faceva riferimento a delle maggioranze che si ritrovano in eredità delle situazioni già compromesse. Le linee guida sono strumenti che abbiamo messo a regime da poco, ma che consentiranno di segnalare durante la gestione gli squilibri che si stanno creando. Credo che questa sia l'unica maniera per superare il problema politico di ereditare situazioni che portano al dissesto e obbligano le amministrazioni appena elette a dichiarare il dissesto, caricandosi di un onere.
  Le nostre sezioni, infatti, stanno incrementando il tipo di informazione da dare ai consigli, proprio per mettere in evidenza, man mano che si creano, le condizioni di squilibrio. Credo che questo sia un contributo che, anche in termini di qualità dell'informazione, può superare questo problema politico, che indubbiamente c’è e che comunque deve essere affrontato dal Parlamento. Questo livello di informazione, di analisi, di segnalazione e di interazione col consiglio, secondo me, è un elemento di ricchezza e di sviluppo delle nostre sezioni regionali, che, man mano che questo rapporto si alimenterà, potrà evitare questi problemi politici dell'accumulo di situazioni di squilibrio che portano al dissesto.

  RAFFAELE SQUITIERI, Presidente della Corte dei conti. Per quanto riguarda le domande della senatrice Dirindin sulla definizione dei livelli essenziali lascio la parola al collega Flaccadoro.

  ENRICO FLACCADORO, Consigliere della Corte dei conti. Noi al momento non abbiamo inserito dei dati, per rispondere alla sua domanda precisa. La percezione è che ci sia un comportamento di riduzione molto più lento. Va anche detto che il fatto di destinare parte delle risorse che potrebbero essere restituite al cittadino per coprire squilibri di altri comparti della stessa regione, come è avvenuto nel Lazio, non è un buon viatico nel rapporto tra aumento delle aliquote e risanamento del settore finanziario.
  Conosciamo i casi più recenti. Il Lazio, ad esempio, ha destinato parte delle risorse regionali per coprire disavanzi del Pag. 20settore dei trasporti del comune di Roma. Questa è anche la ragione per cui c’è un fenomeno di riduzione delle aliquote più lento della crescita.
  Credo che nel prossimo rapporto di coordinamento studieremo anche questi fenomeni, proprio perché sono elementi fondamentali per capire l'utilizzo della leva fiscale a livello regionale.

  RAFFAELE SQUITIERI, Presidente della Corte dei conti. L'onorevole De Menech ha fatto una serie di considerazioni che richiederebbero forse un'intera giornata.
  Innanzitutto vorrei precisare che tutto il male non dipende dai controlli. Sarà un discorso banale da parte mia. Questo discorso me l'ha fatto la mia nipotina: mi ha chiesto, visto che dico sempre che va tutto male, che cosa ho fatto io con la Corte dei conti per impedire che questo accadesse. È una constatazione ovvia, però non possiamo rimandare tutta la colpa i controlli.
  Non ignoriamo il fatto – che abbiamo ricordato all'inizio – che il federalismo è stato «sfortunato», perché è partito in un momento delicatissimo in cui si è creata una crisi a livello mondiale che nessuno si aspettava.
  C’è una situazione di difficoltà finanziaria che noi ci limitiamo a rilevare. Il nostro è un compito di denuncia. Non vogliamo fare i caporali né i carabinieri. Noi non ci teniamo ad applicare le sanzioni. Noi facciamo quello che stiamo facendo anche qui da voi: riveliamo un fenomeno. Spetta poi alle forze politiche trovare i sistemi.
  I vincoli che noi siamo tenuti a far rispettare sono quelli che derivano, per esempio, dal Patto di stabilità. Lei diceva giustamente che alcuni comuni hanno la disponibilità di cassa, ma non possono spenderla, perché altrimenti supererebbero i limiti. Questo non dipende dai comuni e neanche dalla Corte dei conti, ma da una serie di regole, addirittura a livello europeo, che noi siamo tenuti a rispettare. Sono le forze politiche che devono eventualmente intervenire per evitare dispersioni.
  Lei ha fatto giustamente riferimento al discorso delle multe. Era quasi una provocazione. Noi, onorevole, non possiamo nasconderci dietro all'evidenza. Quando si parla di residui attivi del 1990, siamo sicuri che siano esigibili ? Siamo sicuri che su questi noi possiamo impostare un documento contabile ? Io ho qualche dubbio, come cittadino e non come magistrato della Corte dei conti.
  Il discorso è molto rilevante. Faccio un esempio banale: se ci sono buche nella strada dopo un temporale, il comune deve intervenire, altrimenti il cittadino protesta (giustamente) per la sua inefficienza. Il comune deve intervenire, e quindi fa fare quest'opera, ma non ha fisicamente le risorse per poter pagare questa spesa. La spesa viene ritardata, non viene evasa e si formano dei debiti, che spesso non figurano neanche nei bilanci. Spesso è proprio l'urgenza che determina questi debiti. Questa è la situazione che noi eventualmente denunciamo e rileviamo, quando andiamo a fare un'analisi della situazione dei residui.
  La situazione non dipende dai controlli, e forse neanche dal comune, che deve assicurare comunque un servizio, ma dipende dal sistema generale. È difficile poter dare una risposta puntuale, tenendo conto che quando si fanno quei megaprovvedimenti di riaccertamento, con cui ci si rimette al lavoro con il ragioniere e si rivede tutta la situazione dei residui, se ne eliminano tantissime. Questi riaccertamenti parlano un po’ troppo. Se si fa un riaccertamento devastante, che elimina partite attive e passive «con la sciabola», forse significa che queste partite erano di dubbia esigibilità e spendibilità.
  La situazione è di una complessità tale che noi non possiamo far altro che constatarla. È poi al Governo e al Parlamento che spetta intervenire. Mi sembra che il Presidente del Consiglio abbia parlato di intervenire su questo Patto di stabilità e allentare un po’ questi vincoli. Sono cose che noi, come Corte dei conti, possiamo, al limite, segnalare, ma su cui non possiamo incidere.Pag. 21
  Risponderle sulle società partecipate richiederebbe una giornata. È vero che abbiamo tantissime amministrazioni centrali che hanno società partecipate essenziali per lo svolgimento delle loro attività, però una buona parte di queste società partecipate e la loro gestione lasciano qualche dubbio. Sicuramente ci sono anche casi di società partecipate virtuose e di comuni virtuosi. Non vogliamo fare di tutta l'erba un fascio. Si tratterà di vedere caso per caso.
  Sulla sovrastima di entrata, il riferimento ai contributi l'abbiamo fatto rivolgendoci alle regioni più che ai comuni, perché le regioni mettono in bilancio delle attività prevedendo contributi stradali o fondi europei che magari non arriveranno mai. Anche in quel caso c’è il problema di residui attivi poco credibili.

  ENRICO FLACCADORO, Consigliere della Corte dei conti. Noi stiamo facendo il monitoraggio del Patto di stabilità interno del 2013.
  L'unica annotazione è che, per esempio, quello che ha stupito molto rispetto alla disponibilità di liquidità non utilizzate è vedere i risultati del patto. I primi dati dimostrano esattamente il contrario: tutto lo spazio finanziario che si è concesso ai comuni si è, ahimè, tradotto in un aumento di impegni correnti, piuttosto che di spesa in conto capitale.
  Sul rapporto di coordinamento lo segnaleremo. Il Patto di stabilità interno spesso viene accusato di limitare le possibilità di pagamento, ed è vero in alcuni casi, però dal punto di vista aggregato, nonostante i 3 miliardi di spazio finanziario che si è dato ai comuni per aumentare la spesa in conto capitale, i dati usciti l'altro giorno riguardanti il 2013 denunciano una riduzione ulteriore del 13 per cento della spesa in conto capitale. Guardando i dati del patto si vede che rispetto all'anno precedente i comuni hanno di fatto usato almeno 2 miliardi per aumentare gli spazi di impegni correnti.
  C’è il problema di questa doppia valenza: ci sono comuni virtuosi, che probabilmente hanno utilizzato in maniera corretta questo aumento di spazio, ma c’è anche una grossa parte di comuni che hanno utilizzato il meccanismo della compensazione per poter avere spazi per debiti correnti.
  Sono quindi d'accordissimo con lei: l'impegno che affrontate in questa Commissione, e in generale nel Parlamento, proprio per arrivare a una responsabilizzazione degli enti, effettivamente è l'unica strada per affrontare questi problemi.

  RAFFAELE SQUITIERI, Presidente della Corte dei conti. Rispondo laconicamente al quesito del senatore Cappelletti sul discorso del project financing. Si tratta di un sistema non nazionale, che noi abbiamo mutuato da altri Paesi. Sul piano teorico è un sistema assolutamente intelligente: si tratta di realizzare un'opera pubblica senza impegnare risorse pubbliche, dando dei benefici collaterali all'impresa, la quale, chiavi in mano, consegna l'opera. Questa è la logica di questo complesso sistema di project financing.
  Chiaramente ci sono delle distorsioni, però questo dipende dal singolo amministratore. Proprio l'anno scorso nella Sezione Lazio abbiamo denunciato le distorsioni del sistema del project financing, che sono oggettive. Come nel discorso sulle partecipate, si tratta di casi, che però non ci consentono di condannare il sistema, che è un sistema intelligente.
  Mi consenta di rispondere rapidissimamente su un discorso che per noi è diventato un'ossessione. Mi riferisco alla stima dei 60 miliardi della corruzione, di cui hanno parlato con la sciabola alcuni rappresentanti europei, facendo dei calcoli fantasiosi. Proprio io nella mia relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario ho detto che noi, come Corte dei Conti, non abbiamo parlato di 60 miliardi. Ci è stato attribuito questo importo di 60 miliardi di euro. Siamo andati a cercare in tutte le carte, per scrupolo. Eravamo sicuri che così fosse e lo abbiamo verificato: non abbiamo mai dato numeri su questo.
  Allo stesso modo mi dà fastidio il fatto che il nostro Paese venga sempre citato tra i Paesi meno trasparenti e meno corretti. Pag. 22È impossibile ad oggi fare qualsiasi stima. Quello che bisogna fare è intervenire, e noi della Corte dei conti stiamo intervenendo con controlli puntuali e precisi.
  In questa sede tengo a sottolineare che non è mai partita e non partirà mai da noi alcuna considerazione di carattere quantitativo sul fenomeno. Il fenomeno c’è e va combattuto con vari strumenti, ma non è certo quantificabile in 60, 100 o 1.000 miliardi.
  Sul discorso dei residui attivi e del rientro di bilancio risponderà il collega Flaccadoro.

  ENRICO FLACCADORO, Consigliere della Corte dei conti. Hai già risposto in parte, dicendo che sei d'accordo con il Presidente Giorgetti su Equitalia. Gli accertamenti attribuiti a Equitalia nascondono ancora una grossa quantità di residui attivi inesigibili. Come abbiamo detto anche nella relazione che vi abbiamo fornito sulla situazione della finanza pubblica (vedi allegato 2), esistono ancora dei notevoli problemi che andranno affrontati, con gradualità, onde evitare un peggioramento improvviso dalla situazione.

  PRESIDENTE. Grazie. Sentiremo anche Equitalia su questo. Abbiamo in calendario un'audizione.
  Ringrazio il presidente della Corte dei conti e tutti i suoi colleghi per essere intervenuti, nonché per la documentazione consegnata, della quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegati).
  Dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.40.

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