XVII Legislatura

XIV Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Mercoledì 16 luglio 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Bordo Michele , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ATTUAZIONE E L'EFFICACIA DELLE POLITICHE DELL'UE IN ITALIA

Audizione del professor Roberto Perotti, ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano.
Bordo Michele , Presidente ... 3 
Perotti Roberto , Professore ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano ... 4 
Bordo Michele , Presidente ... 11 
Buttiglione Rocco (PI)  ... 11 
Occhiuto Roberto (FI-PdL)  ... 12 
Galgano Adriana (SCpI)  ... 13 
Schirò Gea (PI)  ... 13 
Berlinghieri Marina (PD)  ... 14 
Bordo Michele , Presidente ... 15 
Perotti Roberto , Professore ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano ... 15 
Bordo Michele , Presidente ... 19 

ALLEGATO: Relazione depositata dal professor Perotti ... 20

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MICHELE BORDO

  La seduta comincia alle 15.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del professor Roberto Perotti, ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'attuazione e l'efficacia delle politiche dell'Ue in Italia, l'audizione del professor Roberto Perotti, ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano.
  Abbiamo deciso di cominciare con l'intervento del professor Perotti poiché è autore di articoli recenti su una delle questioni relative alla nostra indagine conoscitiva che ci sta più a cuore e cioè la qualità e l'efficacia della spesa cofinanziata dai fondi strutturali e di investimento.
  Abbiamo necessità di approfondire le cause che sino a oggi hanno impedito al nostro Paese di avvalersi fino in fondo delle risorse della politica di coesione e di comprendere quali sono stati i ritardi accumulati e come mai non riusciamo a spendere fino in fondo i soldi che l'Unione europea mette a disposizione del nostro Paese.
  Il professor Perotti, come molti avranno letto nei giorni scorsi su Repubblica, ha compiuto uno studio per lavoce.info, facendo considerazioni molto nette e ben argomentate, su diversi aspetti problematici che la nostra Commissione ha avuto modo di approfondire, per esempio, nel momento in cui è stata chiamata a esprimere il parere sullo schema di accordo di partenariato per il periodo 2014-2020 che il Governo ha sottoposto alla nostra attenzione.
  Una delle questioni che emersero in quella circostanza è che non avevamo a disposizione alcuno strumento che ci permettesse di comprendere fino in fondo che cosa non aveva funzionato, perché c'erano quei ritardi e perché non eravamo stati capaci di spendere le risorse dell'Unione europea.
  In base all'analisi che fa il professor Perotti sull'utilizzo dei fondi strutturali, si arriva addirittura all'idea che, siccome per utilizzare i fondi europei occorre una quota di cofinanziamento nazionale, forse sarebbe il caso di evitare di utilizzare quei fondi e impiegare semmai la quota di cofinanziamento nazionale per altre priorità di intervento. Su questo, come era ovvio e giusto, si è aperto un dibattito anche sui mezzi di informazione. Nella stessa giornata in cui veniva pubblicato lo studio di cui oggi parliamo arrivò la risposta del dottor Laterza, vicepresidente di Confindustria, e successivamente uscì un'intervista del professor Viesti, che tra l'altro ascolteremo nei prossimi giorni nell'ambito della medesima indagine.
  Non vado oltre e, ringraziandolo per la sua presenza, do subito la parola al professor Perotti affinché svolga la sua relazione.

Pag. 4

  ROBERTO PEROTTI, Professore ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano. Grazie per avermi invitato. Vorrei toccare alcuni argomenti.
  Il primo è il modo in cui è stata attuata l'idea del cofinanziamento, che in teoria è una buona idea. Il secondo è quanto conosciamo e quanto non conosciamo i costi e benefici dei vari progetti finanziati con i soldi europei.
  Successivamente vorrei parlare della tracciabilità dei vari progetti, dell'inutile e dannosa complessità della programmazione, della rilevanza e utilità degli indicatori di risultato, che sono un asse portante della programmazione per il periodo 2014-2020, e di quanto sia cambiata o non cambiata la programmazione per il periodo 2014-2020. Argomenterò che nella sostanza non è cambiata e che i problemi sono rimasti irrisolti.
  Infine vorrei parlare di possibili alternative all'uso dei fondi europei.
  Voglio cominciare con qualcosa che sicuramente conoscete meglio di me e cioè il fatto che i fondi strutturali in Italia sono essenzialmente di due tipi: Fondo sociale europeo (FSE) e Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR). Il mio intervento verterà principalmente sul Fondo sociale europeo, ma quasi tutto quello che dirò si applica anche al FESR.
  L'Italia negli ultimi anni ha ricevuto in media circa 3 miliardi di euro dall'Unione europea per FSE e FESR. A questi va aggiunto il cofinanziamento italiano, per un totale di circa 6 miliardi di euro all'anno. Per il settennio 2014-2020 lo stanziamento dell'Unione europea per l'Italia, tra tutti i vari fondi, è di circa 40 miliardi di euro. Se includiamo il cofinanziamento italiano, parliamo quindi di 80 miliardi di euro. Sono cifre notevoli.
  Venendo al primo argomento, il cofinanziamento è un'ottima idea in teoria. È un modo per obbligare il beneficiario dei finanziamenti ad avere un interesse nell'attuazione dei progetti e quindi a realizzare buoni progetti. Il problema è che questa ottima idea è stata attuata molto male perché cofinanziamento in Italia vuol dire cofinanziamento da parte dello Stato centrale mentre, come sappiamo, i progetti sono attuati dalle regioni e dalle province. Solo il 4 per cento dei fondi totali proviene dalle regioni.
  L'attuazione del cofinanziamento sconfigge pertanto l'idea di partenza di coinvolgere il beneficiario perché le regioni non hanno alcun interesse a far funzionare i progetti. Ricevono soldi per metà dall'Unione europea e per metà dallo Stato e quello che interessa loro è soltanto massimizzare il numero di progetti che attuano, sia che riescano bene sia che riescano male. Le regioni non hanno un particolare interesse a seguire l'attuazione di questi progetti. L'attuazione dell'idea di cofinanziamento è quindi profondamente sbagliata, soprattutto in Italia.
  Il secondo problema di cui voglio parlare, e che forse è il problema principale, è ciò che sappiamo dei costi e dei benefici dei vari progetti attuati. C’è l'idea che i fondi europei, una volta stanziati, siano gratis e possano essere usati indipendentemente dal fatto che i progetti finanziati siano buoni o cattivi. Essendo gratis, usare questi soldi male non fa. Tornerò su questo argomento, ma c’è qualcosa di profondamente sbagliato in questa attitudine.
  Noi dovremmo avere un'idea degli effetti causali di queste migliaia e migliaia di progetti finanziati con fondi europei. Le valutazioni formali non mancano. C’è anzi un'intera industria in Italia che sopravvive – e bene – sulla valutazione dei fondi europei. Solo per l'FSE dal 2007 al 2012 ci sono 280 documenti e probabilmente si tratta di una sottostima perché moltissimi documenti non vengono pubblicati. Alcune regioni, per esempio, non pubblicano certe valutazioni anche perché sono negative.
  Purtroppo questi 280 documenti – che, come dicevo, forse sono qualche migliaio – non ci dicono niente su ciò che vorremmo sapere e cioè sugli effetti causali dei progetti. Non ci dicono niente perché quello che noi vorremmo avere è un'idea dei benefici sociali e dei costi per la collettività che questi progetti producono. I costi per Pag. 5la collettività includono anche l'uso alternativo che avremmo potuto fare delle risorse usate per questi progetti.
  Questi soldi non piovono dal cielo. Devono uscire dalle tasche del contribuente italiano ed europeo. Anche se, come sappiamo, l'Italia è un contribuente netto. Dovremmo quindi, tenere conto dell'uso alternativo che potremmo farne. L'uso alternativo più semplice di tutti, come dirò in seguito, è lasciarli nelle tasche dei contribuenti sotto forma di taglio delle tasse.
  Dovremmo avere anche un'idea del beneficio sociale. Prendiamo l'esempio di una persona che trova lavoro grazie, in conseguenza o dopo un corso di formazione. Prima di tutto non significa che abbia trovato lavoro grazie al corso di formazione. In secondo luogo, non sappiamo se questo corso di formazione sia un beneficio netto per la collettività. Se questa persona trova un lavoro che dura sei mesi a 500 euro al mese e il corso di formazione è costato 10.000 euro, l'analisi costi-benefici per la collettività ci dice che la cosa potrebbe non aver funzionato.
  Un esempio di tentativo di valutazione è rappresentato dalla tabella 5 a pagina 4. Si tratta di un documento della regione Lazio che tenta di andare al di là dei soliti dati che vengono pubblicati, tipicamente dati sul numero dei corsi di formazione attuati, sul tasso di utilizzo dei fondi europei eccetera che non ci dicono assolutamente niente sugli effetti causali e sulla desiderabilità sociale dei corsi di formazione.
  La tabella 5 ci dice qualcosa di più. È un tentativo di verificare quante persone sono occupate a sei mesi e a dodici mesi dalla frequentazione di un corso di formazione. Nella colonna 1 i dati sono quelli derivati dalle comunicazioni obbligatorie dei centri per l'impiego; nella colonna 2 i dati sono ricavati da interviste compiute dalla regione Lazio.
  Come vedete, c’è una enorme differenza. Nella colonna 1 il tasso di occupazione a dodici mesi è del 4 per cento; nella colonna 2 è del 35 per cento. Anche questo tentativo di dare un'idea degli effetti dei corsi di formazione non ci dice niente. È il 4 per cento o il 35 per cento ? Non si fa alcun tentativo per farci capire. Anche questi dati, che come ripeto sono molto rari, sono abbastanza inutili per cogliere la desiderabilità sociale di questi corsi di formazione.
  Quello che dovremmo sapere è quanto sono costati i corsi di formazione, quanto guadagnano gli occupati, quanto è durato l'impiego e se questi sono effettivamente posti di lavoro addizionali, nel senso che sono dovuti alla frequentazione dei corsi di formazione o semplicemente vengono per caso dopo la frequentazione del corso di formazione. Se, per esempio, l'azienda ha licenziato una persona per far posto al nuovo occupato che proviene dal corso di formazione, dal punto di vista della società non c’è in questo caso alcun beneficio e il costo del corso di formazione è uno spreco totale.
  Avremmo quindi bisogno di conoscere tutte queste informazioni, ma in vent'anni e più di programmazione europea non c’è un documento che si avvicini neanche lontanamente a un tentativo di rispondere a queste domande. Di fatto siamo nel buio più completo sugli effetti dei progetti finanziati dall'Unione europea.
  Qualcosa è stato fatto in ambito accademico. Si tratta di uno studio recentissimo di Enrico Rettore, Silvia De Poli e Antonio Schizzerotto, pubblicato anch'esso su lavoce.info, sui dati della provincia autonoma di Trento. Mostra che i corsi di formazione fatti nella provincia di Trento hanno avuto qualche effetto sulla probabilità di trovare un impiego per due categorie di persone: donne e immigrati stranieri. Non hanno avuto invece alcun effetto sugli uomini e sugli over 45 uomini e donne.
  È già un passo avanti. È rarissimo che si faccia una valutazione del genere, ma anche qui dovremmo sapere quanto sono costati i corsi, quanto sono durati gli impieghi trovati dalle persone che li hanno frequentati eccetera.
  L'Unione europea finanzia un network di esperti che raccoglie i cosiddetti «documenti di valutazione», che come abbiamo Pag. 6visto sono tali solo nominalmente, in tutta Europa e cerca di tirare conclusioni un po’ generali. Per l'Italia, il documento del network di esperti dell'Unione europea mostra che i corsi di formazione fra il 2007 e il 2012 hanno guadagnato circa un milione di qualificazioni, con 222.000 job entries, cioè entrate nel mondo del lavoro, che in Italia sono definite molto poco chiaramente. Le regioni italiane che maggiormente beneficiano del Fondo sociale europeo, cioè le regioni del Mezzogiorno, non forniscono questi dati, che quindi sono stimati un po’ a spanne.
  Se prendiamo alla lettera questi dati, 220.000 job entries e almeno 7,5 miliardi di spesa per corsi di formazione in quei cinque anni – cifra che abbiamo calcolato Filippo Teoldi, il mio coautore, e io sulla base dei dati Opencoesione –, emerge che ogni job entry è costata almeno 33.000 euro. È tanto o è poco ? Non lo sappiamo.
  Se per queste persone avessimo speso 33.000 euro di formazione, ma il lavoro che hanno trovato fosse permanente, probabilmente non sarebbe tanto. Se queste persone, invece, avessero trovato un lavoro sottopagato per soli tre mesi, 33.000 euro sarebbero un'enormità. Di fatto abbiamo una vaga idea di quanto siano costate queste job entries, benché, come ripeto, il calcolo sia fatto a spanne, ma non abbiamo la minima idea se ne sia valsa la pena, se sia tanto o poco.
  Un altro esempio di quanto sia difficile o meglio del fatto che non si sia neanche tentato di valutare queste spese, è contenuto nella tabella 6. Sempre sulla base delle valutazioni del network di esperti europei, essa ci dice quante persone hanno partecipato ai corsi di formazione – 21.000 in Italia, 253.000 in Francia e 207.000 in Germania, ma si tratta di un sotto-campione – e quante hanno trovato lavoro dopo questi corsi di formazione. In Italia ha trovato occupazione dopo il completamento del corso l'uno per cento dei partecipanti, in Germania il 15 per cento e in Francia il 19 per cento.
  È molto probabile che questa differenza enorme fra Italia, Francia e Germania sia dovuta al fatto di considerare corsi di formazione diversi, metodologie diverse nella raccolta dei dati e così via, ma ci dà un'idea del fatto che o questo enorme sforzo, che è costato all'Unione europea decine di milioni di euro per raccogliere dati, ci dice qualcosa sugli effetti causali dei corsi di formazione, e allora se prendiamo per buono l'uno per cento dell'Italia contro il 20 per cento della Francia dobbiamo concludere che in Italia l'attuazione dei corsi di formazione è stata terrificante; oppure, com’è più probabile, questi dati non ci dicono niente sugli effetti causali dei corsi di formazione e non rappresentano una valutazione, e allora continuiamo a spendere decine di milioni di euro per valutare questi corsi e miliardi di euro per attuarli senza avere la minima idea dei loro effetti.
  Il terzo argomento di cui voglio parlare è la tracciabilità dei fondi. C’è l'idea che i fondi europei vadano a finire in un grande calderone in cui nessuno riesce più a capire cosa succeda esattamente. Questo in parte è vero. Si dice anche che ci sia stato un grande miglioramento negli ultimi due anni grazie al portale Opencoesione, che costringe tutti coloro che ricevono soldi dai fondi europei a comunicare decine di variabili, tra cui l'uso che ne è stato fatto, il nome del progetto eccetera.
  È un passo avanti. Tuttavia mi è stato detto, e utilizzandolo l'ho verificato, che, per esempio, nel caso dei corsi di formazione alcuni attuatori comunicano ogni singolo partecipante come singolo progetto – se ci sono cento partecipanti, vengono comunicati cento progetti –, mentre altri comunicano un progetto per ogni corso di formazione. Alcuni comunicano le ore totali, altri le ore individuali. Perciò è molto difficile calcolare il costo per ora dei corsi di formazione. È anzi impossibile. Alcuni comunicano il numero dei partecipanti, altri non lo comunicano eccetera.
  Alla fine è inutile illudersi che questo strumento ci consenta di fare una valutazione dei corsi di formazione nel senso che intendevo prima. Questo strumento ci consente al massimo di tracciare quanti soldi sono stati spesi, ma nient'altro. Secondo le indagini su Opencoesione che ho Pag. 7svolto con Filippo Teoldi, risultano in Italia 500.000 progetti di corsi di formazione in cinque anni. Probabilmente è molto ed è forse dovuto al fatto che alcuni comunicano una persona come un progetto e altri comunicano l'intero corso di formazione. Non sappiamo nemmeno quanti corsi di formazione sono stati attuati in Italia.
  Il quarto punto di cui voglio parlare è l'enorme complessità della programmazione dei fondi strutturali. È una complessità completamente inutile e totalmente dannosa. Non voglio dilungarmi troppo. Ho alcuni grafici che potete esaminare, ma sono sicuro che abbiate familiarità con la complessità della programmazione europea.
  Voglio solo far notare che la programmazione europea per gli anni 2007-2013 parte con tre orientamenti o priorità, ognuno dei quali si articola in tre o più orientamenti specifici, ciascuno dei quali, a sua volta, si articola in più voci che vengono chiamate molto confusamente orientamenti, orientamenti per interventi, linee-guida, linee azione eccetera. Il grafico 1 mostra questo albero decisionale. I fondi strutturali hanno poi il loro regolamento, che si compone di assi o priorità, ciascuno dei quali ha delle sotto-priorità, che sono mostrate nel grafico 2.
  Non è finita perché ci sono anche la programmazione nazionale e la programmazione regionale. La programmazione nazionale, come tutti voi sapete, comincia col quadro strategico nazionale e continua con i piani operativi regionali eccetera. Il quadro strategico nazionale individua dieci macro-obiettivi, ognuno dei quali si articola in più priorità, che non vanno confuse con le priorità della programmazione europea. Ogni priorità si articola in più obiettivi generali e ogni obiettivo generale si articola in più obiettivi specifici. In tutto stiamo parlando di centinaia di voci.
  Un esempio è nel grafico 3, che mostra il primo macro-obiettivo, cioè «Sviluppare i circuiti della conoscenza», le sue priorità, gli obiettivi generali e i sotto-obiettivi. Questo va moltiplicato almeno per dieci perché i macro-obiettivi sono dieci.
  Vengono poi i programmi operativi regionali (POR) – ce ne sono ventuno per il FESR e ventuno per il Fondo sociale europeo – e i piani operativi nazionali (PON). In tutto ci sono 62 piani operativi, ciascuno con la propria lista di priorità, sotto-priorità, interventi strategici o orientamenti strategici a seconda dei casi. C’è un'enorme variabilità in queste terminologie.
  Alla fine la programmazione regionale deve essere resa compatibile con quella nazionale e quelle nazionale e regionale devono essere rese compatibili con la programmazione europea. Anche qui, in ogni programma operativo regionale ci sono decine e decine di pagine per dimostrare che le centinaia di sotto-orientamenti sono compatibili con le centinaia di sotto-orientamenti della programmazione europea.
  È letteralmente impossibile districarsi tra queste centinaia di voci, che sono per altro completamente inutili. Sono talmente tante e talmente generiche che qualsiasi progetto ragionevole o in molti casi irragionevole si voglia finanziare tramite l'Unione europea rientra in qualcuna di queste centinaia di voci.
  Il problema, però, è che questa enorme proliferazione di terminologie e di diagrammi di flusso genera un'enorme burocrazia, che chiaramente è sfuggita di mano. Genera decine di agenzie, di società operative e di iniziative. Il caso del Lazio è paradigmatico e vi invito – immagino che il problema vi sia familiare – a osservare le decine di agenzie che nel Lazio operano con i fondi strutturali europei, interagiscono fra di loro, si sovrappongono eccetera.
  Il quinto problema di cui vorrei parlare è quello degli indicatori di risultato. Funzionano ? Quando viene fissato un target, questo target ha effetto ? Perché abbia effetto deve avere due caratteristiche. La prima è che deve corrispondere in modo univoco a dei risultati desiderabili per la collettività. Sembra ovvio, ma purtroppo i Pag. 8target più frequenti – ogni regione ne fissa centinaia – non hanno questa caratteristica.
  Per esempio, un target tipico è che entro i prossimi sette anni il numero di frequentatori dei corsi di formazione passi da X per cento a X più 20 per cento. Questo è un target quantitativo, ma prima di volere aumentare il numero dei partecipanti del 20 per cento dobbiamo chiederci se valga la pena fare dei corsi di formazione. Come abbiamo detto prima, magari non vale la pena.
  La seconda caratteristica di un target è che deve essere collegato all'azione del policy maker. Un target come quello di aumentare l'occupazione femminile del 10 per cento è irrilevante perché sappiamo che l'occupazione femminile dipende in gran parte dalla congiuntura economica e solo in piccolissima parte dall'azione dei Fondi sociali europei.
  La tavola 7 mostra alcune delle centinaia di target che sono stati ideati nella regione Lombardia. È un piccolissimo sottoinsieme dei target del POR della regione Lombardia. Come vedete, sono target specifici fino alla quarta cifra decimale. Nel secondo panel, riga a), per esempio, tra gli indicatori di risultato è scritto che il tasso di copertura dei destinatari degli interventi di formazione continua cofinanziati rispetto al totale degli occupati deve essere dello 0,59 per cento per il 2007, con uno 0,42 atteso per il 2013. Questo era il target che la Lombardia si era posta per il 2013, alla quarta cifra decimale. Tutti questi target sono ovviamente inutili perché non corrispondono nemmeno a uno dei due criteri che abbiamo visto prima.
  Con la nuova programmazione 2014-2020 c’è stato molto marketing, come per tutte le nuove programmazioni. Come ricorderete, nel 2006 si diceva che la programmazione 2000-2006 era stata sbagliata completamente, che c'erano stati problemi di ogni tipo e che per il 2007-2013 sarebbe cambiata in modo radicale. Arrivati al 2014 sappiamo che non è cambiato niente e che forse le cose sono peggiorate. Adesso si dice che con la nuova programmazione cambierà tutto e ci si è resi conto degli errori passati. Quello che voglio mostrare è che in realtà c’è qualche piccola differenza di forma, ma non di sostanza.
  La nuova programmazione europea parte con tre priorità, che adesso si chiamano «una crescita intelligente, sostenibile e solidale», ma che con nome diverso sono esattamente le tre priorità degli anni 2006-2013. Ci sono poi undici obiettivi tematici, che prima si chiamavano orientamenti specifici. Ci dovrebbe essere anche un quadro strategico comune che dovrebbe indicare gli orientamenti strategici corrispondenti a quelli della passata programmazione, ma che io sappia non è ancora stato scritto.
  Tra le regole del Fondo sociale europeo oggi ci sono le priorità di investimento – che prima si chiamavano priorità e basta – per ogni obiettivo tematico della programmazione comunitaria. Sono tipicamente sei o sette per ogni obiettivo tematico. Alla fine, quindi, il numero è uguale.
  Ne saprete più di me, ma che io sappia l'unico documento italiano ufficiale di livello nazionale a essere stato pubblicato è l'accordo di partenariato, che nelle sue varie centinaia di pagine definisce anche le linee di indirizzo strategico, i risultati attesi e gli indicatori di risultato.
  Le linee di indirizzo strategico sono molto simili agli obiettivi generali del quadro strategico nazionale della passata programmazione. I risultati attesi sono simili agli obiettivi specifici e di fatto consentono tutto quello che era consentito prima e viceversa. Non è cambiato praticamente niente.
  C’è un documento preesistente all'accordo di partenariato, che si chiama «Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari» ed è stato pubblicato durante il Governo Monti, che presenta i risultati attesi e gli indicatori di risultato come una delle sette grandi innovazioni di un metodo profondamente rinnovato (sottolineato due volte nell'originale). Queste innovazioni sarebbero risultati attesi, azioni, attuazioni, tempi previsti e sorvegliati, apertura, partenariato mobilitato, valutazione, forte presidio nazionale.Pag. 9
Non approfondisco tutte queste presunte innovazioni. Se prendiamo la prima («Risultati attesi»), il documento scrive che «nella programmazione operativa gli obiettivi stabiliti saranno definiti sotto forma di risultati attesi che si intende attuare in termini di qualità di vita delle persone e/o di opportunità delle imprese. I risultati attesi saranno in genere misurati da uno o più indicatori di risultato che consentiranno di rendere evidenti le finalità degli interventi e di dare un pungolo forte agli amministratori per la loro azione e alla valutazione di impatto di avere una base di riferimento».
  Abbiamo visto però che i risultati attesi sono equivalenti agli obiettivi specifici e già i POR del passato contenevano centinaia di obiettivi specifici e indicatori di risultato fino al quarto decimale. Nella nuova programmazione gli indicatori di risultato dovrebbero avere un ruolo diverso ed essere più efficaci perché più specifici, ma di fatto non è così. Come abbiamo visto erano molti e molto specifici anche prima.
  Prendiamo per esempio il risultato atteso 3 concernente l'obiettivo tematico 1. Il risultato atteso 3 parla di innalzamento del livello di istruzione della popolazione adulta. Il primo indicatore di risultato è relativo agli adulti che partecipano all'apprendimento permanente; il secondo è relativo alla popolazione tra i venticinque e i sessantaquattro anni che frequenta un corso di studio o di formazione professionale.
  Questi due indicatori non soddisfano il primo principio, cioè non corrispondono in modo univoco a un obiettivo desiderabile. Nella passata programmazione abbiamo visto che la Lombardia desiderava che lo 0,39 per cento della forza lavoro nel 2014 partecipasse a corsi di formazione. Qui non c’è un obiettivo numerico, ma un target. È una buona cosa o no ? Non lo sappiamo. Come ripeto, se i corsi di formazione costano tantissimi soldi e producono effetti molto piccoli, non è una buona cosa.
  Prendiamo il risultato atteso 5, cioè l'innalzamento dei livelli di competenza, di partecipazione e di successo formativo nell'istruzione universitaria ed equivalente eccetera. L'indicatore di risultato è la condizione occupazionale dei laureati e dei diplomati post-secondari dodici mesi dopo il conseguimento del titolo. Questo indicatore non possiede la seconda qualità, cioè non ha niente a che vedere con gli effetti dei fondi sociali europei. Non possiamo infatti aspettarci che i fondi sociali europei dopo due o tre anni abbiano effetto sul tasso di occupazione degli universitari, che dipende esclusivamente dal ciclo economico. Questo numero, pertanto, non serve a determinare gli effetti dei corsi di formazione e dei fondi europei.
  La sesta profonda innovazione sarebbe la valutazione. Secondo la nuova programmazione, a differenza che nel passato, bisogna valutare. In realtà, come abbiamo visto, negli anni passati abbiamo valutato e fin troppo. Come ripeto, abbiamo speso decine di milioni di euro per pagare centinaia di centri di ricerca che conducessero le cosiddette valutazioni, ma purtroppo non è servito a niente perché non erano vere valutazioni.
  Nell'accordo di partenariato e in questo documento «Metodi e obiettivi» non c’è nulla che indichi concretamente come fare la valutazione. Il problema è che con i dati attualmente disponibili, i migliori dei quali sono quelli di Opencoesione, non riusciremo mai a valutare i progetti attuati con i fondi europei. Sia nella forma sia nella sostanza, quindi, la nuova programmazione non si discosta dalla vecchia programmazione. Anche molti di voi si saranno accorti che in questi documenti c’è molta retorica, ma pochi fatti.
  L'ultimo punto che vorrei trattare è cosa si potrebbe fare in alternativa con i fondi europei. Voglio partire da un'idea profondamente sbagliata. Sarete sicuramente consapevoli dell'enorme dibattito che è in corso in Italia sul fatto che il nostro Paese è quello che riesce a utilizzare meno i fondi europei stanziati. Questo viene considerato un enorme problema e una dimostrazione di incompetenza perché si crede che questi soldi stanziati siano gratis e debbano essere utilizzati.Pag. 10
  Tutto ciò è profondamente sbagliato perché questi soldi non sono gratis. Prima di tutto, anche se i fondi europei sono stati già stanziati, per utilizzarli occorre il cofinanziamento. Per ogni euro dei fondi europei che utilizziamo dobbiamo mettere un euro di cofinanziamento. L'idea che sarebbe un peccato non raccogliere per strada dei soldi gentilmente offerti dall'Unione europea è un errore perché questi non sono soldi gratis, nemmeno quelli già stanziati.
  In più, come sappiamo, l'Italia è un contribuente netto e quegli stanziamenti deve pagarli. Ogni euro che riceviamo dall'Unione europea viene a costare al contribuente italiano due euro. È cruciale cercare di capire se valga la pena spendere queste risorse oppure no. L'idea, ripetuta su tutti i giornali e nei dibattiti a tutti i livelli, che non essere capaci di spendere i soldi dell'Unione europea è un delitto perché ce li regalano è profondamente errata. Torno a ripeterlo. Questi soldi non sono gratis certamente per il contribuente europeo, ma neanche per il contribuente italiano.
  Non dobbiamo chiederci come usare questi soldi il più possibile, ma se valga la pena usarli dal punto di vista della collettività. Quello che ho cercato di dimostrare è che forse vale la pena o forse no, ma che in realtà non ne abbiamo la minima idea. Prima di usare 80 miliardi di euro – quanto dovremmo spendere in teoria dal 2014 al 2020 –, che rappresentano circa il 5 per cento del PIL italiano, dobbiamo chiederci se ne valga la pena.
  La mia risposta è che non lo sappiamo. Probabilmente non ne vale la pena, ma l'onere della prova spetta a chi vuole spenderli. Una possibilità è quella di rinunciare almeno a una parte di questi soldi. Credo siamo tutti d'accordo sul fatto che, al di là dell'utilità o inutilità di alcuni progetti, molti di questi sono un puro spreco di denaro e in molti casi alimentano il sottobosco della politica, se non addirittura la criminalità organizzata.
  Supponiamo che l'Italia rinunci a 3 miliardi di euro all'anno in cambio di uno sconto di altrettanti miliardi sui contributi dovuti all'Unione europea. Dal punto di vista dell'Unione europea non cambierebbe niente. Il contributo netto dell'Italia all'Unione Europea e quindi in particolare alla Polonia e ai Paesi nuovi entranti non cambierebbe. I fondi che gli altri Paesi ricevono dall'Unione europea restano gli stessi e quindi l'Unione non si può lamentare.
  L'Italia dà 3 miliardi di euro in meno all'Europa di contributi e ne riceve 3 in meno. Fin qui, al netto, non cambia niente neanche per l'Italia. L'Italia però risparmia 3 miliardi di euro di cofinanziamento. Il risparmio per l'Italia è pertanto di 6 miliardi di euro all'anno, che potrebbero essere usati per tante cose, incluso un taglio alle tasse magari concentrato al sud, dove i fondi europei sarebbero destinati. Se sui 40 miliardi di euro di fondi stanziati per gli anni 2014-2020 l'Italia rinunciasse al 50 per cento, potrebbe risparmiare 20 miliardi di euro di contributi all'Europa e 20 miliardi di cofinanziamento, cioè 40 miliardi di euro totali da destinare, per esempio, a tagli alle tasse al sud.
  L'obiezione a questa proposta, ammesso che sia utile e ovviamente, come si diceva prima, pochissime persone sono d'accordo, almeno a parole, è che sarebbe irrealistica perché i giochi sono fatti almeno per il periodo 2014-2020. Faccio notare che questo non è vero. Così come per il fiscal compact e per tanti altri trattati europei molto più visibili e politicamente più centrali, a proposito dei quali in Italia c’è forte pressione perché siano rinegoziati – se ne parla continuamente nel dibattito –, se ci fosse la volontà politica sarebbe perfettamente possibile rinegoziare anche questi stanziamenti.
  Faccio anche notare che, mentre non c’è la volontà politica europea, fatta eccezione per alcuni Paesi del sud dell'Europa, di rinegoziare il fiscal compact – quella è la proposta davvero irrealistica –, ci sarebbe invece un'enorme volontà politica da parte di tutti i Paesi, certamente quelli dell'Europa centrale e settentrionale, di rinegoziare i finanziamenti dei fondi strutturali.
  Vi ringrazio.

Pag. 11

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Perotti anche per la esaustiva relazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato), e do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ROCCO BUTTIGLIONE. È stata una relazione molto interessante, che mi conferma in un mio antico convincimento e cioè che il finanziamento alla formazione professionale in Italia serve per lo più a creare posti di lavoro per i formatori, ma non per i formati.
  Ho tre questioni da porre. La prima domanda è perché questi studi sono fatti così male. A occhio non mi sembra esista una difficoltà metodologica così grande. Basta fare dei gruppi di controllo, mettendo da un lato quelli che hanno fatto i corsi e dall'altro quelli che non hanno fatto i corsi, e verificare se entro sei mesi quelli che hanno fatto i corsi abbiano una percentuale di occupazione più elevata di quelli che non hanno fatto i corsi.
  Non riesco a capire come si possano fare degli studi senza gruppi di controllo. Ci sono delle difficoltà ? E quali sono ? Esiste una volontà di prendere in giro oppure ci sono difficoltà che rendono impossibile l'applicazione di metodologie che in altri casi analoghi e anche in altri Paesi che hanno affrontato problemi analoghi consentono invece di valutare effettivamente la qualità del prodotto ?
  Vengo alla seconda osservazione. Non è che i soldi dell'Unione europea sono spesi male, professore. In Italia sono spesi male i soldi per la formazione professionale in generale, europei e non europei. È difficile accettare la proposta di abolire la formazione professionale perché sono spesi male i soldi. La formazione professionale, secondo il mio modesto parere, in Italia non funziona perché manca il punto di partenza, cioè il fabbisogno, la domanda di formazione professionale che esprime il sistema Italia.
  In altri Paesi ogni impresa la quale pensa di programmare delle assunzioni nell'anno successivo o di lì a due anni, nel caso abbia un corso di formazione biennale, lo comunica al Ministero del lavoro, che mette a bando un certo numero di posti di apprendista. Noi abbiamo abolito l'apprendistato ed è stata una scelta sbagliatissima. In questo modo, quando si va a formare qualcuno, si sa già qual è il punto d'arrivo della formazione e dov’è la domanda. Chi forma è lo stesso che poi assumerà, salvo che le cose vadano in modo diverso e non si incontrino. Ma l'85 per cento degli apprendisti in un Paese a noi vicino viene assunto al termine dell'apprendistato.
  Deve schiodarsi questo punto. Lei prova troppo perché non prova che sono spesi male i soldi europei: prova che il sistema italiano della formazione professionale non funziona.
  Come terzo punto, mi consenta di esprimere qualche perplessità sulla soluzione che lei sostiene. Per la verità un'occasione di parlarne a livello europeo ci sarebbe. Non è così semplice, ma nel 2016 abbiamo un appuntamento per la revisione di medio termine del bilancio europeo. Il bilancio è stato approvato provvisoriamente con l'impegno di ridiscuterlo. Nel 2016, quindi, si potrebbe ridiscutere.
  Le difficoltà che io vedo nella sua proposta, che immagino essere provocatoria, è che questi fondi sono assegnati con una finalità specifica, cioè quella di colmare un divario di sviluppo. Sono quindi «targettati» in modo diverso secondo le diverse regioni. Grosso modo il 60 per cento di questi fondi è speso nel Meridione. Per poterli trasformare in esenzione fiscale dovremmo poter applicare al Meridione una tassazione privilegiata, ma questo ci è impedito proprio dal sistema europeo perché si tratterebbe di una violazione delle regole di base del mercato interno.
  Abbiamo più volte chiesto di poterlo fare e di creare una situazione di eccezione che ci consentisse di fare dell'esenzione fiscale uno strumento di incentivazione e di sviluppo. Fino a ora questa è una porta che non abbiamo mai sfondato. Ho qualche idea su come si potrebbe sfondare, ma non la vedo facile perché Pag. 12richiederebbe un cambiamento delle strutture della nostra spesa pubblica che in questo momento non vedo facilmente realizzabile.
  Queste sono le tre osservazioni che volevo fare. Grazie per il suo contributo.

  ROBERTO OCCHIUTO. Ringrazio il professor Perotti per la puntuale e coraggiosa analisi che ci ha offerto.
  Mi sento di condividere tutta la prima parte della sua relazione, la parte che potremmo definire destruens, sull'inefficacia della formazione professionale, che spesso è utile solo a costruire un'industria dei formatori senza riscontro nella produzione di posti di lavoro, e sull'industria della valutazione che, a margine dei programmi e della complessità dei programmi, viene posta in essere soprattutto dalle regioni.
  Anch'io però ho qualche dubbio sulla proposta, sulla parte construens, per dirla con Bacone. In assoluto il modo migliore per rendere più efficace la spesa di questi fondi sarebbe quello di orientarla attraverso meccanismi automatici e non discrezionali, anche per sottrarre queste risorse all'intermediazione politica e burocratica, dove spesso si annidano le degenerazioni in termini di corruzione e le collusioni con la criminalità organizzata a cui lei faceva riferimento.
  Anch'io però ho il dubbio che la sua proposta di modificare la nostra partecipazione al bilancio europeo possa incontrare difficoltà. Anche qualora non le incontrasse, ci potrebbe essere un'obiezione che negli anni si è consolidata ancora di più. Volendo contribuire, ma rinegoziando le modalità che sono troppo complesse, si potrebbe destinare quota parte di queste risorse in maniera automatica, per esempio, ad abbattere le tasse – io direi ad abbattere il cuneo fiscale – nelle quattro regioni Obiettivo convergenza, come lei stesso dice nella conclusione della sua relazione. L'obiezione di molti, evocata prima dal collega Buttiglione, è che si configurerebbe una sorta di aiuto di Stato.
  Qualche mese fa mi sono esercitato, giusto per gioco, nello studio delle norme che stanno alla base di questo divieto. Ho trovato l'articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea che vieta gli aiuti di Stato, ma ho anche riscontrato delle deroghe. Al secondo comma di questo articolo, per esempio, si dice che sono compatibili con il mercato interno gli aiuti di Stato «destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione [...]». Mi chiedo se non sia questa la fattispecie, per esempio, delle quattro regioni Obiettivo convergenza.
  Anche nelle pieghe dei trattati potremmo trovare l'occasione per ridiscutere queste modalità al fine di evitare che le risorse si perdano in mille rivoli a causa dell'incapacità della politica e della burocrazia, ma anche a causa della complessità delle regole fissate a monte dall'Europa.
  Le chiedo se, secondo lei, invece che avventurarsi in un negoziato in ordine alla modifica della contribuzione del nostro Paese al bilancio europeo non sarebbe più utile aprire un negoziato con l'Unione europea, che ci rimprovera di non spendere questi soldi utili alla convergenza, per poterli spendere in maniera diversa, rendendo meno protagoniste la politica e la burocrazia di alcune regioni, che spesso utilizzano la complessità per generare quelle industrie cui facevamo riferimento, e destinarne una parte in maniera automatica, ad esempio, alla riduzione del cuneo fiscale nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza, laddove si concentra la spesa di queste risorse.
  Non sarebbe più utile aprire un negoziato di questo genere anziché rinegoziare a monte la partecipazione dell'Italia al bilancio europeo in ordine a queste risorse ?
  La mia preoccupazione è che una proposta come la sua, apprezzabile per il coraggio di intervenire sul problema con una verità cruda, fotografando l'esistente, rischierebbe di sottrarre risorse per la convergenza a una parte del Paese che ha bisogno di convergenza solo perché finora, Pag. 13per colpa della politica locale e della complessità delle regole europee, non sono state spese.
  Sarebbe forse più virtuoso intervenire sottraendo spazi di protagonismo a chi ha la responsabilità di non aver speso queste risorse a livello locale e chiedendo all'Europa una semplificazione delle modalità di spesa affinché diventino meno complesse e più automatiche.

  ADRIANA GALGANO. Ringrazio il professor Perotti soprattutto per essersi occupato di questo tema. Nel corso delle nostre audizioni, anche su altri argomenti quali la ripresa del Paese, è un tema sempre poco citato.
  Ci chiedono tutti di aumentare la flessibilità e di ridurre il rigore, ma pochi si preoccupano dei soldi che non abbiamo speso. Sono d'accordo con lei sul fatto che al Paese serva ridurre l'imposizione fiscale, ma penso anche che, se fossimo stati capaci di spendere tutti i fondi che l'Unione europea ci ha attribuito per progetti strategici, oggi non ci troveremmo in questa situazione.
  C’è un problema di regole europee. Noi spendiamo il 56 per cento dell'importo totale dei fondi, ma l'Europa non sta molto meglio perché la media europea è 66 per cento. Sono molto d'accordo col collega che diceva che è necessario rivedere le regole europee. Le regole sono già state riviste il 1o gennaio 2014 e la Commissione ha fatto inserire nel parere sull'accordo di partenariato la previsione di un'ulteriore revisione tra due anni di modo che, nel caso in cui non si dimostrassero funzionali, le regole possano essere cambiate. Allo stesso tempo abbiamo richiesto un crono-programma e abbiamo chiesto al Governo di riferire sulla sua realizzazione.
  Voglio aggiungere che la mancanza di efficacia dei fondi non è relativa solo alla formazione professionale. Recentemente è stata fatta una valutazione di ventisei progetti nel settore della mobilità cittadina in cinque Paesi europei e nessuno ha portato i risultati stimati. Nella mia città, Perugia, è stato attuato un progetto – non credo sia tra quelli valutati – che è consistito nella costruzione, con soldi europei, di un avveniristico mini-metro che ha caricato la regione, da cui dipende il finanziamento, di 8 milioni di costi, perché tale è la differenza tra il numero dei viaggiatori e i costi. In generale c’è un problema che riguarda l'efficacia dell'azione pubblica più che la formazione ed è così anche in altre parti d'Europa, non solo in Italia.
  L'ultima cosa che desidero segnalare è che, al di là della sua proposta, entro il 2015 avremmo 24 miliardi di euro da spendere e le azioni che potremmo intraprendere per impiegarli utilmente per il Paese sarebbero davvero tantissime. Segnalo anche che nel passato l'Inghilterra ha provato a chiedere una riduzione dei contributi per non ricevere fondi, ma le è stato risposto di no. Anche il premier Renzi ha provato a proporlo e gli è stato risposto di no.
  Dal momento che saper spendere queste risorse in maniera virtuosa potrebbe comportare un aumento di prodotto interno lordo in grado di farci ridurre le tasse e di raggiungere comunque l'importante obiettivo che lei delinea nella sua relazione, io le chiedo, in un'ottica di realismo e alla luce dei suoi studi, qual è secondo lei la priorità per riuscire a spendere i fondi europei.

  GEA SCHIRÒ. Rivolgo al professore i miei complimenti per la relazione e lo ringrazio per essere qui e per il clima seminariale che è riuscito a instaurare. Ho alcune osservazioni da fare, che poi cercherò di far convergere in un'unica domanda.
  Per quanto riguarda la pars destruens, la sua relazione è bellissima, interessante e anticonformista e presenta dati chiari e innovativi, soprattutto nel momento in cui ci dice come porre le domande corrette. Significa davvero usare lo sguardo laterale per affrontare gli argomenti. Io sento però la mancanza della pars construens.
  Analizzando lei ha trovato le debolezze della struttura. Mi sarei aspettata, ma probabilmente ci sta lavorando, una proposta Pag. 14di «semplificazione». Sono d'accordo con lei sull'elefantiasi semantica che si auto-genera dai testi precedenti, come lei stesso ha dimostrato, con i nuovi obiettivi che si trasformano per rimanere la stessa cosa. Mi domando se sia opportuno o possa funzionare, in una realtà così ampia com’è l'Unione europea, una semplificazione. Non ho opinioni in proposito e delego la risposta a persone più esperte di me.
  Dall'altro lato, però, mi stupisce che nelle conclusioni, laddove ci parla dell'uso dei fondi europei e dei risparmi del non delegare all'Europa e quindi del non ricevere fondi eccetera, non abbia analizzato gli altri Paesi europei. Noi deleghiamo dei danari anche per le politiche comuni. Secondo lei dovremmo eliminare anche quella parte ? Nemmeno gli «eurofobici» inglesi o danesi applicano politiche di non conferimento delle loro quote. Questo mi stupisce e vorrei capire come si realizza questa partita di giro con soldi che si danno e non si danno.
  Per il resto, sono d'accordo con quanto detto dai colleghi sulla debolezza della non appartenenza. Quello che temo e intravedo dietro le sue conclusioni, purtroppo, è un abbandono di qualsiasi politica infrastrutturale, di welfare interno, di delega alle regioni, da cui un oggettivo impoverimento di una nazione che dovrebbe potere guardare alto.
  Da ultimo, mi ricollego alle osservazioni sue e del collega Occhiuto sulla negoziazione. Abbiamo compiuto diversi atti parlamentari e studi sul tipo di negoziato per capire come negoziare. Un punto fondamentale non potrebbe essere cominciare a studiare come rinegoziare il modo di negoziare ? Lo dico in modo molto semplice.
  Una proposta che avevamo fatto, ad esempio, era quella di intervenire sulle procedure di infrazione saldando le più antiche o le meno importanti che si potessero sommare e darci dei vantaggi temporali su una più grave, ad esempio, evitando il pagamento. Comunque, cominciare ad affrontare lo studio della negoziazione e della contrattualistica, quindi della contrattualistica europea.

  MARINA BERLINGHIERI. Cercherò di essere rapida. Innanzitutto ringrazio il professor Perotti anche per il punto di vista diverso che ci ha portato.
  Soprattutto rispetto alla prima parte del suo intervento, come battuta mi viene da dire sul tema della formazione professionale che lei ha toccato – però, come dicevano anche altri colleghi, vale anche per una serie di altri temi – che non è un destino affrontarla in questo modo.
  Se adesso, dopo una serie di attività programmate negli ultimi piani finanziari pluriennali, tiriamo una riga e vediamo che il bilancio costi-benefici è andato male, le letture possono essere due: una, che in sé il meccanismo pensato a livello generale non funziona; due, che noi stiamo sbagliando nei modi in cui analizziamo il punto e troviamo delle soluzioni.
  Credo che nel contributo che oggi lei ha posto alla nostra riflessione manchi l'aspetto del come noi, come Paese, siamo stati dentro questa partita negli ultimi anni. È storia conosciuta da tutti che non ci siamo seduti ai tavoli, non abbiamo contrattato in sede europea.
  Sul fronte nazionale, il tessuto amministrativo che noi possediamo forse in questo momento comincia a ragionarci, ma non è pronto e sicuramente non lo è stato per cogliere pienamente queste opportunità.
  Non in regioni che notoriamente fanno più fatica, ma anche nelle regioni in cui c’è maggiormente un'abitudine, per esempio tra i comuni, tra gli enti locali, tra i diversi sistemi istituzionali, a fare sistema, c’è fatica a immaginare di utilizzare questi fondi e queste opportunità per progetti e per finalità che possano da un lato davvero colmare il gap di coesione e dall'altro potenziare gli obiettivi della competitività delle regioni del nord.
  Quindi, credo che la lettura debba comprendere anche questa parte e che lo sforzo – perlomeno io sono qui da un anno, alla mia prima legislatura – che in Pag. 15questo momento si sta cercando di fare sia anche quello di provare a capire quali possono essere gli strumenti (e questa indagine conoscitiva va anche in questa direzione) da fornire agli enti locali e ai soggetti che devono mettere a punto i progetti che devono essere finanziati, affinché possano farlo secondo obiettivi forti, rispetto a quello che è il senso di questi fondi.
  Le conclusioni a cui lei arriva hanno un dato politico che non possiamo dimenticare. Certo, possiamo chiedere all'Europa di evitare di dare i soldi e di tenerceli, di avere meno tassazione e una serie di vantaggi. Banalmente, si può anche scegliere di stare fuori dall'Europa, ma il punto è che anche rispetto a questo tema c’è una visione complessiva da tener presente.
  Mi viene in mente, dall'esperienza amministrativa, quando si chiede a un gruppetto di comuni, magari limitrofi, sparsi per le montagne di mettere insieme le loro risorse per perseguire obiettivi comuni: il punto è che se ciascuno guarda l'interesse e i costi-benefici netti del proprio pezzetto non sempre quando tira la riga i benefici sono maggiori dei costi; se si guarda il tema del beneficio complessivo di quello sforzo, diventa in termini assoluti un beneficio per tutti, perché si spostano, dal punto di vista della qualità dei servizi e della qualità della vita che si offre ai cittadini, obiettivi che da soli queste realtà non potrebbero realizzare.
  Riparametrato in grande, questo discorso vale anche per l'Europa. Credo che in questo momento si debba fare insieme un lavoro in termini di rinegoziazione anche a livello europeo, che può essere – lo dicevamo prima anche nell'audizione e lo abbiamo detto più volte anche con i colleghi parlamentari europei – cercare di usufruire appieno delle regole di flessibilità scorporando per esempio dal tema del Patto di stabilità i progetti europei in cofinanziamento, cercando di mantenere una strategia europea ma liberando delle risorse necessarie sui territori.
  Da un lato, si deve cercare di fare in modo che queste regole possano davvero essere utili per tutti; dall'altro lato, però, dobbiamo avere la consapevolezza che lei sottolineava bene che questi soldi sono soldi nostri che scegliamo, dentro un percorso politico che ci siamo dati di destino comune con l'Europa, di mettere – perdonate il linguaggio – in un sacco comune per trovare insieme obiettivi da realizzare.
  Resta ferma la capacità nostra, dalle regioni agli enti locali a tutti coloro che sono gli utenti finali ma anche coloro che producono i progetti, di far sì che questo avvenga secondo gli obiettivi che, nel momento in cui si è scelto di utilizzare dei fondi insieme, ci si è dati.
  Credo che la soluzione non possa in questo momento essere quella di tornare ciascuno a casa propria, perché è una soluzione che finisce per essere assolutamente anacronistica dal punto di vista di quello che ci sta consegnando la storia in termini anche di globalizzazione dei mercati e di destino di interdipendenze comuni.

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Perotti per la replica, atteso che, oltre la condivisione dell'analisi, ci sono però differenti opinioni rispetto alla proposta finale, che poi è oggetto dello studio ed è stata anche oggetto di approfondimento della discussione di oggi, per una serie di ragioni che alcuni dei colleghi che sono intervenuti hanno sviluppato in modo più dettagliato.

  ROBERTO PEROTTI, Professore ordinario di politica economica presso l'Università Bocconi di Milano. Grazie per i vostri interventi. Ci sono tre o quattro temi comuni più o meno a tutti gli interventi, poi ci sono alcune domande specifiche a cui risponderò.
  Il primo tema comune è ovviamente quello sulla parte propositiva. Voglio insistere, non era una provocazione ma, almeno nella mia idea, era una proposta realistica.
  La mia proposta non ha niente a che fare con il ritirarsi dall'Europa, ma in un certo senso è l'opposto. Dal punto di vista dell'Europa, voglio sottolinearlo, non cambia Pag. 16niente. Noi abbiamo per anni usufruito in modo netto dell'Europa, perché eravamo sotto la media e ci arrivavano più risorse di quanto pagavamo. Negli ultimi cinque o sei anni la cosa si è invertita, perché sono entrati molti altri Paesi, particolarmente la Polonia, e noi siamo dei contribuenti netti.
  La mia proposta non ha niente a che fare con il sottrarsi ai nostri obblighi in quanto contribuenti netti. Il nostro contributo netto all'Europa rimarrebbe totalmente invariato. Mi rivolgo in particolare a lei perché ha sottolineato questo punto. La mia proposta non ha niente a che fare con il sottrarci allo spirito europeo e via dicendo.
  La mia proposta è questa: poiché noi adesso diamo 16 miliardi di euro all'Europa a vario titolo e ne ricaviamo 11 miliardi a vario titolo, diciamo semplicemente che noi rinunciamo – poi dirò perché secondo me dobbiamo farlo – a 3 miliardi di euro da parte dell'Europa e diamo 3 miliardi in meno all'Europa. Invece di 16 e 11, il nostro rapporto con l'Europa diventa 13 e 8. La differenza è sempre 5 miliardi che vanno a finanziare la Polonia e via dicendo.
  Dal punto di vista dell'Europa non ci stiamo sottraendo ai nostri doveri di solidarietà europea, non cambia assolutamente niente. Ci tengo a sottolinearlo.
  Questa è la parte contabile, però vengo anche alla fattibilità politica, altrimenti si potrebbe obiettare che questa è una proposta non realistica per due motivi. Il primo è un motivo di timing: è vero, gli stanziamenti sono stati fatti, però con la volontà politica si supera tutto. Se l'uomo è andato sulla luna, se vogliono si cambia anche lo stanziamento da 40 a 20 miliardi. Se Germania, Italia, Inghilterra, Francia lo vogliono, fanno appunto quello che vogliono.
  Inoltre, c’è un problema di trattati. Va detto che i trattati non sono la tavola della legge, non sono lì per sempre. I trattati sono stati scritti parecchi anni fa; se ci si accorge che nel frattempo il mondo è evoluto e prima pensavamo che con la spesa pubblica si risolvesse tutto, ma oggi, dopo trent'anni di spesa pubblica nel sud, di spesa dei fondi europei, abbiamo visto che non sono serviti a niente, anzi probabilmente hanno alimentato la malavita e il sottobosco politico, niente ci impedisce, se c’è la volontà politica, di cambiare i trattati. Sono una creazione umana; così come li abbiamo creati li distruggiamo in quella parte e li rifacciamo, se riteniamo che sia opportuno.
  In secondo luogo, io sono un economista ma insieme a degli esperti in ambito legale europeo stiamo investigando esattamente su questo. Come diceva lei, l'azione dell'Europa deve servire a far convergere le regioni meno sviluppate. Questo è il fine, che è ovviamente lodevole. Quarant'anni fa si pensava che l'unico modo fosse riempirle di ponti, strade, ferrovie, corsi di formazione eccetera. Magari questo è ancora vero; se però pensiamo che magari la cosa migliore da fare sia tagliare le tasse, che non è un'idea assurda – possiamo dibattere, ma tutto sommato non credo di essere l'unico pazzo al mondo che sostiene che tagliare le tasse possa essere una buona cosa, soprattutto in un Paese dove le tasse sono il 52 per cento del PIL – niente ci impedisce di trovare altre persone ragionevoli in altri Paesi che la pensano così e la soluzione si trova.
  Però l'idea, in primo luogo, che i giochi sono già stati fatti nel 2013 e fino al 2020 non si tocca niente, e in secondo luogo che un trattato scritto negli anni Cinquanta, con le idee degli anni Cinquanta, ci deve vincolare per i prossimi trecento anni, anche se tutti la pensano in modo diverso, è un'idea a cui secondo me non dobbiamo arrenderci.
  Il secondo punto è che avremmo potuto spendere meglio i fondi. Invece di suggerire di rinunciare ad alcuni di questi soldi, qualcuno si chiede perché non proviamo a spenderli meglio. Esempio di questo sono questi 24 miliardi di euro (o forse un po’ meno) che sono stati riprogrammati – i famosi miliardi che sono stati salvati da Barca e riprogrammati – e che adesso le regioni stanno spendendo. Il problema, secondo me, è che noi dobbiamo fare i conti con la realtà. Noi da vent'anni e Pag. 17anche di più continuiamo a dire che, avendo imparato dalle esperienze passate, «questa è la volta buona».
  Se andate a prendere i volumi dello SVIMEZ sulle politiche nel mezzogiorno d'Italia, si tratta di volumi, per ogni anno, di parecchie centinaia di pagine, in cui ogni anno si dice «oggi si cambia, cambiamo tutto, abbiamo scoperto la bacchetta magica» e ogni anno, se ci si guarda indietro, si dice «scusate, ci siamo sbagliati, questa volta la bacchetta magica è quella vera».
  Noi, dicevo, dobbiamo fare i conti con la realtà. La realtà è che, come si diceva, il tessuto amministrativo di certe regioni è quello che è e non è che si cambia in tre giorni. Noi dobbiamo fare i conti con questa realtà, che ci piaccia o no. Ovviamente ci piacerebbe che le regioni siano tutte amministrate come è amministrata Stoccolma, ma il fatto è che le regioni italiane non sono amministrate come Stoccolma. Peraltro, se anche fossero amministrate come Stoccolma, noi non sappiamo nemmeno se gli svedesi usano bene questi soldi. Loro ne hanno molti meno, ovviamente, perché ne hanno meno bisogno, ma non sappiamo nemmeno se loro li usano bene.
  Circa i soldi che sono stati riprogrammati, qualcuno potrebbe dire che questi sono soldi veramente gratis, altrimenti li avremmo persi. Il Lazio – ho studiato bene il caso del Lazio, che secondo me è tra i più eclatanti – ha ricevuto centinaia di milioni di euro. La tabella (non l'ho acclusa, la sto preparando in questi giorni) che vi mostro, lunga cinque pagine, elenca tutti i programmi che sono stati finanziati negli ultimi anni nel Lazio da Sviluppo Lazio: Filas – non so se avete familiarità con tutte queste sigle – Bic Lazio (tre agenzie che fanno esattamente la stessa cosa e ovviamente hanno tre consigli di amministrazione diversi), provincia di Roma, comune di Roma, camera di commercio di Roma, camera di commercio di Frosinone, Sviluppo Lazio e Banca Impresa Lazio, Assessorato alle piccole e medie imprese, commercio e artigianato della Regione Lazio, camera di commercio di Viterbo, comune di Viterbo, Unionfidi Lazio Spa.
  Alcuni di questi programmi hanno importi di poche decine di migliaia di euro; c’è persino un venture capital fund con una dotazione di 20 milioni di euro, gestita dalla Filas che è un'agenzia della regione; ci sono degli start-up funds a livello comunale, quando sappiamo che questi hanno bisogno di enorme professionalità. Ad esempio Milano amministra con i fondi FESR degli start-up funds, dei venture capital funds, con dimensioni di 2 milioni di euro di dotazione totale.
  Ci sono progetti come «Cultura Futuro», 800 mila euro, New Book, 800 mila euro. Questi si son trovati dei soldi, non sapevano come spenderli e hanno chiesto all'assessorato alla cultura di fare un progetto «New Book», appunto 800 mila euro.
  Leggo, ancora, «Bando delle idee», Regione Lazio, 824 mila euro; quindi la Regione Lazio fa come uno start-up fund in Silicon Valley e pensa di trovare il nuovo Bill Gates. I burocrati della Regione Lazio sono quelli che decidono quali sono le idee migliori.
  C’è un progetto che si chiama «App on», per scoprire le migliori App per i telefoni, sempre gestito dalla Regione Lazio.
  Questi sono i soldi che sono arrivati gratis e dei quali si diceva «questa volta li spendiamo bene». Se andate sul sito della Regione Lazio c’è un enorme marketing per dire «questa volta facciamo le cose bene, abbiamo sbagliato in passato ma questa volta facciamo bene». Queste cinque pagine sono il risultato.
  Il problema è che noi dobbiamo fare i conti con la realtà. Non possiamo continuare a illuderci che qualcuno illuminato, primo, abbia trovato la bacchetta magica improvvisamente e, secondo, riesca a convincere le decine di migliaia di amministratori locali che quella è veramente la bacchetta magica e devono usarla anche loro.
  Secondo me, noi continuiamo a negare questo. Vogliamo continuare a negare la Pag. 18realtà sia del livello delle amministrazioni locali sia del fatto che noi stessi – economisti, politici, giornalisti, partecipanti al dibattito – non sappiamo come usare questi soldi: uno dice che li vuole usare per fare un progetto sulla lettura con 300 mila euro di dotazione, l'altro vuole fare un progetto per le nuove App. Tutto è gestito da burocrati della provincia, del comune e della regione.
  L'altro tema che è emerso è di cercare di semplificare la legislazione europea. Il problema non è la legislazione europea. Io ho fatto l'esempio delle centinaia di varie sottopriorità, obiettivi strategici eccetera. L'unica giustificazione che mi so dare è che questo dà una soddisfazione intellettuale alle varie persone che hanno partecipato; una burocrazia che dice «questi sono i soldi, usateli come volete» non riesce a giustificare la propria esistenza, quindi credo che dia una certa soddisfazione intellettuale trovare degli obiettivi specifici, chiamarli «sviluppo intelligente», «sviluppo sostenibile» – come se qualcuno volesse uno sviluppo stupido o uno sviluppo insostenibile – e indicare le varie priorità, sottopriorità eccetera.
  La realtà è che l'Europa non ci vincola in alcun modo. Secondo me, noi dobbiamo evitare l'errore di dare le colpe all'Europa. Qualcuno ha chiesto perché invece non chiediamo all'Europa di semplificare le procedure per consentirci di spendere meglio. Essenzialmente quello che interessa all'Europa è che noi diamo una contabilità più o meno curata dei soldi che spendiamo e che non vadano a finire in operazioni illegali.
  Per il resto, essenzialmente possiamo fare quello che vogliamo. Il problema, quindi, non è assolutamente l'Europa e non è neanche nella complicazione della legislazione italiana, perché ci sono decine di persone che costruiscono i POR, trovavano soddisfazione intellettuale a scrivere un POR regionale di 300 pagine, e contenti loro contenti tutti. Dopodiché il problema è come andare avanti a spendere.
  Il problema è che realmente noi non sappiamo come spendere questi soldi e ci illudiamo di saperlo, come dimostra l'esempio del Lazio. Il Lazio nel 2007 dà cinque priorità: la ceramica, le biotecnologie (all'epoca erano di moda) e altri tre settori che non ricordo, ognuno con dotazione di 10 milioni di euro. Quello era il tempo in cui Sviluppo Italia diceva di aver dato le dieci priorità settoriali, tra cui la micro meccatronica, che poi è scomparsa completamente, le biotecnologie eccetera.
  Poi la cosa si è evoluta perché hanno capito che non si potevano più dare indicazioni sui singoli settori. Allora sono arrivati i nuovi programmi che ho detto prima.
  La realtà, però, è sempre la stessa. Non è un problema dell'Europa, non dobbiamo dare la colpa all'Europa, e non è un problema di legislazione italiana. Il fatto è che noi non sappiamo come spendere bene questi soldi. L'alternativa è ovvia. Quando uno non sa come spendere dei soldi, se il dubbio è che questi soldi vengono buttati via – questo è vero per una famiglia come per uno Stato – l'onere della prova è di quello che vuole spendere i soldi e l'alternativa è lasciarli nelle tasche dei contribuenti, dove sappiamo che tutto sommato male non fanno.
  Mi sembra che lei, onorevole, dicesse che non era chiaro questo meccanismo. Torno a ripetere, io non sto chiedendo di dare meno soldi all'Europa. Questo non è ciò che aveva fatto Margaret Thatcher all'inizio degli anni Ottanta, che aveva chiesto uno sconto sui contributi per l'agricoltura e le è stato dato per motivi politici. La mia proposta non ha niente a che vedere con questo. Io non chiederei una riduzione del contributo netto. Noi diamo meno all'Europa e chiediamo meno all'Europa. Dal punto di vista dell'Europa non cambia niente. Continuiamo a dare 5 miliardi di euro di contributo netto che daremmo poi alla Polonia e agli altri Paesi.
  Quindi gli altri Paesi europei non possono lamentarsi perché non cambia niente. Dovrebbero essere contenti perché c’è una minore alimentazione del malcostume politico e magari della malavita in Italia.
  L'altro elemento rispetto al quale dobbiamo fare i conti con la realtà è che Pag. 19questi soldi sono amministrativamente ingestibili. Quando lei ha un flusso di 10 miliardi di euro che vanno a finire alle regioni – ripeto, potrebbero essere anche le regioni più competenti e meglio amministrate del mondo – e di qui alle province e poi ai comuni e di qui a centinaia di enti più o meno certificati (enti di formazione eccetera) che devono avere accesso a questi soldi, nemmeno Andersen riuscirebbe a tenere la contabilità effettiva di tutti questi soldi e ancora meno a capire se valeva la pena di spenderli o no. Passaggi così microscopici sono ingestibili da chiunque, anche dai più competenti e dai meglio amministrati. La riprova è che per vent'anni noi abbiamo fatto questo e ogni anno abbiamo detto che avremmo cambiato ma ogni anno è rimasto sempre tutto uguale.
  L'onorevole Buttiglione aveva chiesto perché queste valutazioni non vengono fatte meglio. È una buona domanda e ha ragione l'onorevole Buttiglione a dire che basterebbe fare un gruppo di controllo e un gruppo per i corsi formazione. In Italia ci sono problemi legali per far questo, perché questi esperimenti non sono legali, per motivi chiaramente sbagliati, ma purtroppo è così. Comunque, anche questo non sarebbe sufficiente, ma è verissimo che in gran parte il problema è che la stragrande maggioranza degli enti di ricerca che fanno queste pseudo-valutazioni sono a loro volta legati agli organismi politici o ai singoli politici delle regioni e non hanno gli strumenti e il capitale umano per fare queste cose.
  Non c’è ombra di dubbio che questa sia la realtà e anche con essa dobbiamo fare i conti. È vero anche, come diceva l'onorevole Buttiglione, che il nostro studio con Filippo Teoldi dimostra che i soldi per la formazione probabilmente sono spesi male, e quelli europei in generale. Tuttavia, voglio far notare che ho preso il caso specifico della formazione per citare un caso concreto, ma tutto quello che ho detto si applica forse ancora con maggior forza al caso dei fondi FESR, che sono più o meno equivalenti, perché nel caso del Lazio che ho richiamato sono tutti fondi FESR.
  Sui fondi FESR abbiamo tante valutazioni quante per il FSE, cioè centinaia, ma nessuna di queste è quella che noi chiamiamo veramente una valutazione.
  Spero di avere risposto a tutte le domande.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Perotti anche per la replica.
  Purtroppo mi devo scusare con i colleghi che avrebbero voluto più tempo per intervenire, ma io stesso ho ritenuto, per via del tempo tiranno, di non dover aggiungere nulla a quanto era già emerso nel dibattito. Comunque sia, mi scuso con chi aveva chiesto di parlare ma purtroppo non abbiamo più il tempo per proseguire perché i lavori dell'Aula sono già cominciati.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.35.

Pag. 20

ALLEGATO

Pag. 21

Pag. 22

Pag. 23

Pag. 24

Pag. 25

Pag. 26

Pag. 27

Pag. 28

Pag. 29

Pag. 30

Pag. 31

Pag. 32

Pag. 33

Pag. 34

Pag. 35

Pag. 36

Pag. 37

Pag. 38