XVII Legislatura

XII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 15 aprile 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MALATTIE RARE

Audizione di docenti universitari ed esperti in materia di malattie rare.
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 2 
Vancheri Carlo , Ordinario di malattie respiratorie presso l'Università di Catania ... 3 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 4 
Bramanti Placido , Direttore scientifico IRCCS Centro neurolesi Bonino Pulejo di Messina ... 4 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 4 
Andria Roberto Generoso , Direttore del Dipartimento clinico di pediatria – Università degli studi Federico II di Napoli ... 5 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 6 
Zampino Giuseppe , Responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma ... 6 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 7 
Lucidi Vincenzina , Responsabile dell'unità operativa complessa fibrosi cistica dell'Ospedale Bambino Gesù ... 7 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 9 
Piccione Maria , Ricercatrice presso il Policlinico-Università degli studi di Palermo e responsabile del centro di riferimento regionale della Sicilia per le malattie genetiche, cromosomiche e rare ... 9 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 11 
Nardelli Laura , Esperta di malattie rare ... 11 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 13 
Binetti Paola (AP)  ... 13 
Miotto Anna Margherita (PD)  ... 13 
Argentin Ileana (PD)  ... 14 
Roccella Eugenia (AP)  ... 14 
Giordano Silvia (M5S)  ... 15 
Amato Maria (PD)  ... 15 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 15 
Lucidi Vincenzina , Responsabile dell'unità operativa complessa fibrosi cistica dell'Ospedale Bambino Gesù ... 15 
Piccione Maria , Ricercatrice presso il Policlinico-Università degli studi di Palermo e responsabile del centro di riferimento regionale della Sicilia per le malattie genetiche, cromosomiche e rare ... 17 
Zampino Giuseppe , Responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma ... 17 
Lenzi Donata (PD)  ... 19 
Zampino Giuseppe , Responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma ... 19 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 19 
Andria Roberto Generoso , Direttore del Dipartimento clinico di pediatria – Università degli studi Federico II di Napoli ... 19 
Sbrollini Daniela , Presidente ... 20

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PIERPAOLO VARGIU

  La seduta comincia alle 14.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione di docenti universitari ed esperti in materia di malattie rare.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di docenti universitari ed esperti in materia di malattie rare.
  C’è stato un ritardo non volontario, legato all'imprevedibilità dei lavori d'Aula, che sono appena terminati con una votazione e, pertanto, impedivano alla Commissione, sino a quando non fossero terminati, di potersi riunire. Vi chiedo veramente scusa a nome personale e di tutti i commissari della XII Commissione.
  La Commissione prosegue le audizioni nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle malattie rare, deliberata il 18 marzo scorso. I soggetti presenti oggi sono informati per quanto attiene alle finalità, per cui sanno che cosa la Commissione si attende da loro.
  Sono presenti il professor Carlo Vancheri, ordinario di malattie respiratorie presso l'Università di Catania; il professor Placido Bramanti, direttore scientifico dell'IRCCS Centro neurolesi Bonino Pulejo di Messina; il professor Roberto Generoso Andria, direttore del dipartimento clinico di pediatria dell'Università degli studi Federico II di Napoli; il professor Giuseppe Zampino, responsabile del servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma; la dottoressa Vincenza Lucidi, responsabile dell'unità operativa complessa fibrosi cistica dell'ospedale Bambin Gesù; la dottoressa Maria Piccione, ricercatrice presso il Policlinico dell'Università degli studi di Palermo e responsabile del centro di riferimento regionale della Sicilia per malattie genetiche cromosomiche e rare; e, infine, la dottoressa Laura Nardelli, esperta di malattie rare.
  Do a tutti i nostri ospiti il nostro benvenuto.
  Comunico che nella sessione di audizioni odierna era invitato a partecipare anche il professor Giuseppe Tonini, esperto in tumori rari del Policlinico universitario Campus bio-medico, il quale è impossibilitato a partecipare, ma ha trasmesso una memoria scritta, che verrà recapitata a tutti i componenti della Commissione.
  Colgo l'occasione per ricordare a me stesso e comunicare ai nostri ospiti che, qualora volessero integrare ciò che oggi ci diranno durante l'audizione con delle memorie scritte, che possano essere poi trasferite a tutti i componenti della Commissione, questo, non solo è una cosa possibile, ma è anche una cosa gradita.
  Nello stesso ordine con cui li abbiamo presentati, darei la parola ai nostri ospiti. Li pregherei di contenere, se fosse possibile, nell'ambito di cinque minuti i loro interventi, in modo da consentire poi ai Pag. 3nostri colleghi parlamentari di fare delle domande e di avere lo spazio per un secondo giro di risposte.
  Do la parola al professor Carlo Vancheri, ordinario di malattie respiratorie presso l'Università di Catania.

  CARLO VANCHERI, Ordinario di malattie respiratorie presso l'Università di Catania. Grazie anzitutto per l'invito. Io mi trovo qui anche nella qualità di responsabile del Centro di riferimento regionale per le malattie rare del polmone, istituito dalla regione Sicilia nel 2011.
  Nella mia memoria scritta, che ho mandato ieri, ho cercato di riassumere le mie visioni rispetto al documento che la Commissione aveva inviato e ho focalizzato i vari aspetti, punto per punto, partendo dallo stato della ricerca. Su questo vanno spesi alcuni istanti.
  Purtroppo, la ricerca nell'ambito delle patologie rare è poco finanziata, sia dal punto di vista pubblico che dal punto di vista privato, eccetto rare eccezioni. Da qui emerge la difficoltà di fare ricerca di base, che potrebbe consentire di individuare meccanismi patogenetici e, quindi, di sviluppare eventualmente nuovi farmaci. Credo che il finanziamento della ricerca sia un aspetto fondamentale.
  Per quanto riguarda la defiscalizzazione, che era un altro dei punti, credo che anche questo sia un aspetto estremamente importante, perché probabilmente consentirebbe di aumentare gli investimenti.
  L'altro tema che si toccava è l'utilizzazione di farmaci off-label, che è una pratica molto diffusa, ovviamente sulla base di evidenze scientifiche, ma che comunque non risolve il problema dei nuovi farmaci, che è uno dei principali nell'ambito delle patologie rare. Infatti, ciò consente l'utilizzazione di molecole che sono usate per altre patologie per nuove e diverse indicazioni.
  Un aspetto che io ritengo estremamente importante è la sensibilizzazione dell'opinione pubblica. Credo che questo sia uno dei principali problemi che le patologie rare incontrano soprattutto in Italia, ma probabilmente anche a livello europeo.
  Credo che ci sia un problema di natura culturale. Sia a livello di opinione pubblica che a livello di operatori della sanità o di amministratori, c’è una scarsissima conoscenza delle problematiche relative alle patologie rare, di carattere diagnostico e organizzativo.
  Pertanto, i pazienti subiscono due volte il problema della malattia: hanno la malattia e poi hanno tutte le difficoltà relative all'iter diagnostico e alla ricerca di centri reali di riferimento dove possano appoggiarsi.
  Credo che un altro dei punti fondamentali sia l'attivazione di centri di riferimento con una migliore distribuzione geografica. Per adesso sono un po’ sparsi, ovviamente in relazione alle competenze. C’è la necessità di istituire dei centri, utilizzando il sistema hub and spoke e soprattutto qualificando e scegliendo i centri sulla base di parametri ben precisi, che devono essere il numero dei casi trattati e la presenza di un team multidisciplinare che possa facilitare e migliorare l'iter diagnostico e ovviamente che si occupi anche degli aspetti terapeutici.
  Il ruolo dei centri di riferimento è un altro punto che io ritengo fondamentale. Nella mia esperienza, purtroppo – non so se è un'esperienza condivisa da altri colleghi – i centri di riferimento o comunque quei centri che si occupano di patologie rare non sono presi in grandissima considerazione. Ritorno al fatto culturale di cui parlavo prima. All'interno delle nostre aziende questi centri sono un po’ messi in secondo piano.
  Io credo che debba avvenire esattamente il contrario, perché ritengo che la presenza di un centro all'interno di un'azienda ospedaliera che si occupa di patologie particolari debba essere, invece, un fiore all'occhiello che distingue quell'azienda rispetto ad altre. Ci sono molte aziende che hanno tutte una cardiologia e una diabetologia – ed è giusto che sia così – ma ce ne sono pochissime che, invece, trattano queste malattie.
  Questo dovrebbe essere, secondo me, un punto da sottolineare, cosa che nella Pag. 4realtà non avviene, perché ci muoviamo in difficoltà enormi dal punto di vista strutturale, organizzativo e del personale.
  Un altro punto importante sono i registri. Credo che questo sia un aspetto fondamentale. L'Istituto superiore di sanità ha istituito un registro delle malattie rare, che però prevede la possibilità di includere soltanto i pazienti che fanno parte della lista delle patologie esenti dal ticket.
  Credo che questo sia sbagliato. Ho fatto presente a livello regionale questa cosa più volte. Avendo già un software che consente di inserire potenzialmente altre patologie, si potrebbe, per esempio, fornire a questa Commissione dei dati epidemiologici che potrebbero essere utilizzati magari per decidere l'inserimento di nuove patologie e per dare una visione dei numeri e della distribuzione geografica di patologie diverse da quelle inserite nella lista delle patologie rare.
  Il penultimo punto che vorrei toccare è quello relativo alle associazioni dei pazienti, che sono estremamente importanti. Infatti, le associazioni dei pazienti, purtroppo o per fortuna, sopperiscono alle carenze del sistema sanitario nazionale. Devo dire che ci aiutano moltissimo nella nostra professione quotidiana.
  Un ultimo punto riguarda le differenze regionali, che sono molto difficili da spiegare ai pazienti. Io mi occupo di patologie polmonari rare. Una di queste, per esempio, è la fibrosi polmonare idiopatica, che è una patologia con una prognosi molto severa. È difficile per me spiegare che nella regione Toscana o nella regione Piemonte i pazienti con la stessa malattia hanno l'esenzione dal ticket, mentre nella regione Sicilia non possono goderne.
  Con questo, io ho terminato, cercando di riassumere i punti fondamentali.

  PRESIDENTE. Grazie professore, anche per la capacità di sintesi.
  Do la parola al professor Placido Bramanti, direttore scientifico IRCCS Centro neurolesi di Messina.

  PLACIDO BRAMANTI, Direttore scientifico IRCCS Centro neurolesi Bonino Pulejo di Messina. Anch'io ringrazio per l'invito. Il mio intervento vuole essere ancora più selettivo, per evitare di ripetere i temi che la Commissione ha già affrontato.
  Nel percorso che voi avete condotto, c’è uno spazio di considerazione verso i modelli organizzativi assistenziali e la parte tecnologica di supporto alle famiglie e ai malati.
  Ritengo che questo sia uno degli aspetti più immediatamente potenziabili, soprattutto riguardo alle malattie che non hanno ancora un riscontro terapeutico risolutivo.
  Vorrei sottolineare che dei settori che progressivamente comportano ospedalizzazioni ripetute o ricoveri impropri possono essere molto agevolati da un'assistenza tecnologica adeguata, possibilmente domiciliare.
  Mi riferisco in particolare al supporto ai malati che hanno difficoltà deglutitoria e respiratoria per varie patologie, non solo neurologiche, ma anche extra-neurologiche. A mio avviso, andrebbe fatta una considerazione sui percorsi per pazienti macchina-dipendenti. Con le moderne tecniche di teleassistenza e di telemedicina e con un supporto adeguato domiciliare si potrebbe dare un sollievo alle famiglie e ai pazienti.
  In questo momento c’è molta attenzione per i farmaci orfani. Si potrebbe anche procedere in un ambito in cui, per tecnologie orfane, si potrebbero adeguare dei supporti e dei presìdi che attualmente non sono molto considerati.
  Io mi fermo qui, lanciando questo tipo di considerazione, per poi riprendere eventualmente l'argomento in discussione e risparmiare qualche prezioso minuto anche per gli altri colleghi.

  PRESIDENTE. Grazie. Direi che stiamo procedendo nel modo migliore, perché mi sembra che sia stato ampiamente compreso che l'interesse della Commissione è focalizzare su temi specifici e non fare ogni volta l'inquadramento complessivo del problema, che sarebbe poco utile, forse soprattutto per voi che ci dovete aiutare ad andare avanti nel nostro lavoro.Pag. 5
  Do la parola al professor Generoso Andria.

  ROBERTO GENEROSO ANDRIA, Direttore del Dipartimento clinico di pediatria – Università degli studi Federico II di Napoli. Innanzitutto vi ringrazio per l'invito.
  Vorrei precisare qual è il mio ruolo attuale nel campo delle malattie rare. Io sono un professore di pediatria, in questo momento in pensione, ma sono anche il responsabile del Centro di coordinamento regionale delle malattie rare della Campania. Sono ancora attivamente impegnato in ricerca e in progetti europei, oltre che in progetti nazionali.
  Voglio riprendere alcuni dei punti che il professor Vancheri ha trattato. Il problema della ricerca sulle malattie rare è un tema importante.
  Si sono un po’ perse alcune iniziative meritorie che erano state assunte in Italia negli anni passati, come, per esempio, i bandi che l'AIFA riusciva a fare utilizzando una quota dei fondi che le industrie farmaceutiche destinavano alla pubblicità dei loro prodotti. Ciò aveva consentito – parlo anche per esperienza personale – di fare una ricerca focalizzata sulle malattie rare, con tutti i crismi della meritocrazia e, quindi, della valutazione corretta di quello che veniva prodotto.
  Credo che il problema di trovare fondi ad hoc per la ricerca sia fondamentale, così come è fondamentale poter competere con il resto del mondo e in particolare con l'Europa, dove si stanno creando delle reti di eccellenza. Ciò può essere fatto soltanto se il requisito della produzione scientifica e della capacità di fare ricerca nelle malattie rare è documentato da parte dei centri italiani. Superando anche gli individualismi che spesso esistono, le regioni dovrebbero creare rete per poter competere con il resto dell'Europa.
  Il secondo punto per il quale sono molto d'accordo con il professor Vancheri è il discorso dell'acculturazione della popolazione, ma anche della classe medica, sul problema delle malattie rare e delle sperimentazioni cliniche.
  Personalmente, sono stato nominato dal Ministero nella prima commissione Stamina, che è stata poi sospesa dal TAR in quanto alcuni membri, compreso il sottoscritto, sono stati ritenuti non obiettivi, avendo espresso dei giudizi prima di essere nominati sul metodo Stamina.
  Questi giudizi erano basati sul fatto che i criteri normali per valutare la validità di una qualunque proposta sono l'autorevolezza di chi la propone – nel caso particolare c'era una persona che addirittura non era neanche del campo e faceva un altro mestiere – e la possibilità di accedere a pubblicazioni scientifiche, che non c'erano. Questo è stato ritenuto dal TAR del Lazio un elemento di non obiettività nella valutazione.
  Quello sull'educazione alle metodologie della ricerca è un discorso esteso, che deve essere programmato e affrontato e su cui forse c’è bisogno di investimenti.
  Il terzo punto che vorrei trattare è il discorso del monitoraggio dell'attività svolta dalle strutture sanitarie nel campo delle malattie rare. Bisogna chiarire e completare un po’ quello che è stato detto dal professor Vancheri.
  Il sistema dei registri non si identifica necessariamente solo con il registro nazionale dell'Istituto superiore di sanità. Il registro dell'Istituto superiore di sanità è il punto d'arrivo dei risultati dei registri regionali.
  È bene sapere che, per esempio, in Italia si è creato un consorzio interregionale che, secondo me, cerca di correggere tutto quello che deriva dal Titolo V della Costituzione, cioè di mettere insieme le conoscenze di varie regioni. È un consorzio, il cui capofila è la regione Veneto, che comprende le province autonome di Trento e Bolzano, la Liguria, l'Emilia-Romagna, la Campania, la Puglia, la Sardegna e l'Umbria. È un gruppo di regioni che copre circa un terzo della popolazione italiana.
  Questo tipo di registro è più ricco del dataset minimo che viene trasmesso all'Istituto superiore di sanità e consente anche di registrare, in parallelo, malattie rare che non fanno parte dell'elenco. D'altra Pag. 6parte, solo attraverso queste interazioni è possibile procedere e aumentare le nostre conoscenze.
  Il discorso del monitoraggio delle attività e della qualità di quello che si fa per l'assistenza è un problema reale molto importante. Infatti, il sistema attuale del registro minimo, che è quello che arriva all'Istituto superiore di sanità, registra l'atto diagnostico, che non necessariamente è collegato con la presa in carico del paziente, che è quello che dovrebbe servire.
  Forse il professor Zampino ha qualche proposta su come si può monitorare anche l'attività di follow up.
  Questo è il punto che bisognerà in qualche modo affrontare. Ci possono essere centri che fanno le diagnosi, ma poi chi si fa carico del paziente magari è il centro più vicino al domicilio del paziente stesso.
  Io mi fermerei qui, perché gli altri punti sono stati suggeriti alla fine del documento che ci avete trasmesso. Vorrei solo concludere con un'informazione per chi non la conoscesse, a proposito di memorie che potrebbero essere utili ai parlamentari che ci ascoltano.
  Il 21 aprile, la settimana prossima, a Venezia è organizzato un convegno dal Tavolo tecnico interregionale delle malattie rare, con la collaborazione dell'Istituto superiore di sanità e del Ministero della salute, proprio per rivedere tutte le attività che sono state svolte in questi anni dalle regioni, attraverso questi tavoli in cui c’è un confronto tra le esigenze regionali e quelle nazionali.
  La professoressa Piccione fa parte di questo tavolo interregionale e io sono delegato della Campania. In questi giorni stiamo scrivendo una serie di documenti che saranno distribuiti prima del 21.
  Penso che questa sia la memoria migliore rispetto a quello che ognuno di noi potrà dire, perché questo «libro bianco» è il frutto di un'esperienza di almeno dieci anni di attività del tavolo interregionale, che è il consulente della commissione salute della Conferenza Stato-regioni.

  PRESIDENTE. Grazie, professore.
  Do la parola al professor Giuseppe Zampino, responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma.

  GIUSEPPE ZAMPINO, Responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma. Io mi occupo di bambini sindromici malformati. Questo è un po’ un paradigma della situazione di malattia rara: un bambino con una sindrome malformativa ha numerosi problemi, deve essere visto da numerosi specialisti e ha un percorso particolarmente lungo da fare. Noi lo definiamo un «bambino a elevata complessità».
  C’è complessità nell'approccio diagnostico, perché c’è bisogno di settimane di studio, e complessità nell'approccio gestionale, perché c’è bisogno che tanti consulenti gestiscano il bambino.
  Il primo punto è che quando si gestisce un bambino complesso e si spende moltissimo tempo nell'organizzazione degli interventi non c’è una remunerazione per la complessità. Noi abbiamo una remunerazione in relazione all'intensività, ma non abbiamo una remunerazione in relazione alla complessità.
  Per fare un elettrocardiogramma a un bambino iperattivo con ritardo bisogna fare un'anestesia. Questo comporta dei costi diversi, perché per fare un elettrocardiogramma a quel bambino c’è bisogno di un infermiere, di un anestesista e di un anestetico. Ciò significa che i costi di gestione di quel bambino non sono sicuramente gli stessi costi di Mario Rossi che non ha questo problema.
  Oltretutto, c’è bisogno di mettere tutti gli specialisti insieme. Occorre raccogliere informazioni in merito alla patologia e darle a tutti gli specialisti. Questo richiede ore di tempo.
  Il coordinamento è l'unico modo per fare un'assistenza di tipo integrato, cioè permettere al bambino di avere uno stato Pag. 7adeguato di salute, grazie a interventi che sono sostenibili per lui e per la sua famiglia.
  Per questo, c’è bisogno di coordinare tutti gli specialisti. Si deve avere a disposizione tanti specialisti, tutti disposti a spendere molto più tempo rispetto a quello di cui c’è bisogno per fare una gestione di un bambino normale.
  Questo comporta altissimi costi. Se non troviamo un criterio per remunerare la complessità, gestire un bambino o un soggetto malato raro è un boomerang. Io parlo di bambini perché sono un pediatra, ma ovviamente è una metafora che vale per tutti. L'amministrazione dell'ospedale mi chiede quanti bambini ho visto quel giorno. Se ne ho visti cinque, sono tantissimi, però per quei cinque bambini hanno il rimborso è praticamente irrisorio.
  Se si trova un modo per remunerare la complessità intesa come studio, gestione, coordinamento, dialogo con il territorio e ricerca di informazioni dal territorio, si può fare veramente un piano di assistenza individuale specifico per quel bambino e solo per lui che vive in quella situazione.
  Questo è importante, tanto più quando il bambino cresce e ha bisogno di avere una gestione dell'adulto. Mentre possiamo avere una transizione nell'ambito di alcune patologie rare di organo (il cardiologo, l'endocrinologo, l'ematologo) a un corrispettivo dell'adulto, per alcune aree, specie quelle più strettamente rare, non c’è un corrispettivo dell'adulto.
  Non abbiamo possibilità di spostare un bambino con una sindrome di Crisponi o di Costello, condizioni rare, alla medicina dell'adulto, perché quest'ultima non ne ha conoscenza e non ha mai pensato di gestire queste patologie.
  C’è la necessità di fare in modo che la medicina dell'adulto crei dei centri di continuità assistenziale nell'ambito di quelle condizioni che per ora non hanno il corrispettivo nell'ambito della medicina dell'adulto, che sono le patologie metaboliche e quelle sindromiche.
  Tutto questo ovviamente si basa sulla conoscenza. Il medico dell'adulto perché deve interessarsi della malattia rara ? In realtà, è una nicchia molto modesta. Per loro, è più importante informarsi sull'infarto, sul diabete, sullo stroke o sull'ischemia. Perché dovrebbe informarsi della sindrome di Costello di un adulto ?
  C’è bisogno di dare degli incentivi culturali, al limite anche obbligatori, per fare in modo che il medico che ha il paziente Mario Rossi con la sindrome di Crisponi, che ha 28 anni, in qualche modo sappia che cosa significa, anche se per lui può essere una piccola nicchia.
  Quello che fa paura delle malattie rare è la mancanza di conoscenza. Il problema è il background culturale che manca. Se arriva al pronto soccorso un bambino con il vomito, lo sai gestire. Se viene un bambino con la sindrome di Crisponi, non sai se quel vomito è uno scompenso della sindrome di Crisponi o una gastroenterite.
  C’è bisogno di conoscenza su quella condizione per rendere sicuro il medico. Se il medico è sicuro della sua gestione, potrà più tranquillamente gestire il bambino e non demandare sempre ai centri specialistici, obbligando le famiglie a fare dei lunghissimi viaggi della speranza anche per problemi banali che potrebbero essere gestiti in loco.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DANIELA SBROLLINI

  PRESIDENTE. Grazie davvero, professor Zampino, perché ci ha spiegato bene quali sono le situazioni quotidiane in cui ci si trova.
  Do la parola alla dottoressa Vincenzina Lucidi, responsabile dell'unità operativa complessa di fibrosi cistica dell'Ospedale Bambin Gesù di Roma.

  VINCENZINA LUCIDI, Responsabile dell'unità operativa complessa fibrosi cistica dell'Ospedale Bambino Gesù. Grazie dell'invito. Per me è la prima esperienza in sede parlamentare.
  Vorrei sottolineare che la fibrosi cistica in ambito europeo è la prima malattia rare in quanto a frequenza, anche se sta per essere sorpassata da altre patologie. È sicuramente la patologia che, rispetto a Pag. 8tutte le malattie rare, ha avuto la fortuna di avere, soprattutto negli ultimi venti o trent'anni, una possibilità di sviluppo di conoscenze scientifiche e di modalità organizzative. In Italia c’è una legge specifica sulla fibrosi cistica, la legge n. 548 del 1993.
  Nei minuti che ho a disposizione vorrei darvi – spero possa esservi utile – relativamente alle criticità, alle potenzialità, agli elementi informativi che avete chiesto e a questi argomenti specifici, delle precisazioni e dei suggerimenti che dall'esperienza della fibrosi cistica emergono.
  Comincerei proprio con il discorso della diagnosi precoce e, quindi, dello screening. Come è già stato sottolineato dai miei colleghi, non è possibile che ci siano in Italia bambini di serie A e di serie B. Fare lo screening a tutti i bambini significa poterli mettere tutti sulla stessa via di lancio, dando loro la stessa potenzialità di cura e la stessa potenzialità di qualità di vita futura.
  Questo è un problema assolutamente da risolvere in Italia, perché, nonostante una legge che ormai supera i vent'anni, di fatto, come sapete, alcune regioni non fanno screening.
  Vorrei sottolineare che non è necessario che ogni regione abbia un centro screening, ma basta coordinarsi con altri centri screening a livello nazionale.
  Allo screening aggiungerei la necessità di riconoscere le malattie genetiche ed evolutive, che spesso sono mortali, anche quando si esprimono tardivamente. Infatti, lo screening non copre il 100 per cento dei malati.
  La fibrosi cistica sta insegnando proprio questo: ci sono forme, anche complete, che però mostrano i propri sintomi in età adolescenziale e quando li mostrano hanno fatto già dei danni tali che possono compromettere, non solo la prognosi, ma anche la qualità della vita. Ricordo che tutti i pazienti con fibrosi cistica sono ancora a prognosi infausta.
  Il secondo tema che vorrei sottolineare, che è già stato in parte toccato, è il discorso sui centri di cura. Spesso queste malattie genetiche sono multiorgano e sono soprattutto evolutive. È vero che una malattia genetica curata può essere anche una malattia invisibile. Per esempio, la fibrosi cistica oggi viene considerata una malattia invisibile. Infatti, quando vedo un paziente a dieci o a dodici anni non riconosco fisicamente l'espressione di malattia, perché il paziente effettua tante terapie, controlli, supervisioni, ma soprattutto trattamenti che rallentano l'espressione di malattia. Vi ricordo, tuttavia, che l'età media di morte è di 25 anni, anche se la mediana di sopravvivenza si sta attestando sui 40 anni.
  Il problema dell'evolutività non significa che la malattia sia meno grave. Io ho portato delle slide, perché non ho ancora redatto la memoria, ma la avrete la settimana prossima. In queste slide si evidenzia che in età pediatrica ci sono pochissimi sintomi, ma in età adolescenziale l'elenco delle complicanze che il gene esprime nei diversi organi e apparati in età adulta può essere mostruosamente elevato.
  Questo apre il discorso della transition: malati che prima non esistevano oggi esistono anche a vent'anni e a trent'anni e hanno il diritto di essere curati in luoghi di cura dove non sono affianco al neonato, perché le loro esigenze sono diverse. Il professor Zampino sottolineava proprio questo. Sulla transition siamo veramente in ritardo.
  Per esempio, anche per la fibrosi cistica, nonostante l'evoluzione culturale, la sensibilizzazione e tutto il resto, ci sono solo tre centri per adulti in tutta Italia. Questo fa capire esattamente il ritardo. Vorrei premettere – mi sembra importante sottolinearlo – che a Milano è stato costituito il centro per gli adulti vent'anni fa.
  Il problema per l'eccellenza dei centri di cura è quello della multidisciplinarietà. Una malattia multiorgano ha bisogno di molte tecnologie che riguardano diversi apparati, ma soprattutto di molte competenze. Non è detto che il competente nefrologo o il competente broncopneumologo possa avere competenza specifica in quel tipo di malattia, come già suggeriva il Pag. 9professore, ma è il centro stesso che deve formare e informare e, quindi, sviluppare questa competenza.
  Ad esempio, al Bambin Gesù precedentemente la fibrosi cistica era inserita in un contesto molto più specifico, come la gastroenterologia, ma poi si è capito che bisognava tirar fuori da quel limite la malattia, per poterla affrontare in tutta la sua complessità di multiorgano, con la tecnologia avanzata per ogni settore. Infatti, la fibrosi cistica riguarda i polmoni, il pancreas, il fegato, i seni paranasali, l'apparato riproduttivo e non solo. Occorre mettere insieme queste competenze.
  In Italia esistono 29 centri per la fibrosi cistica, ma non tutti possono avere tutte le competenze o le tecnologie necessarie per curare la complicanza che il paziente esprime. Pertanto, deve nascere una rete. Questo network nazionale è fondamentale e, secondo me, tra poco diventerà un network europeo, perché non si può non tener conto della potenzialità di malati particolari, che hanno bisogno di qualcosa che si esprime al meglio in un altro posto dell'Europa.
  Per ultimo, vorrei sottolineare il problema del monitoraggio e, quindi, dei registri. I registri devono essere registri di malattia. Il registro di malattia non è un registro epidemiologico, che riporta chi nasce e chi muore e che espressioni cliniche hanno. Deve riportare esattamente cosa succede di quella patologia.
  Solo così il registro diventa uno strumento clinico e non solo legislativo che permette di ampliare la conoscenza scientifica e aiutare lo Stato a decidere regole ed interventi rivolti ai bisogni reali dei pazienti. Questo strumento permette di rivedere periodicamente gli outcome migliori e, quindi, le strategie migliori che spesso nascono da valutazioni comparative tra metodologie diverse di lavoro.
  Spesso nelle malattie rare l'idea terapeutica non nasce da studi precedenti, che dicono che assolutamente bisogna fare in un certo modo, bensì da intuizioni di alcuni grandi maestri e da metodologie innovative, che poi, nella comparazione tra i registri, vengono verificate, studiate ed evidenziate.
  Ho portato del materiale informativo, se può essere utile, anche sulle linee-guida che abbiamo a livello europeo. Sono linee-guida che riguardano i centri, non solo nella loro costituzione e strutturazione, ma anche nelle loro competenze. Senza queste linee-guida e senza un lavoro di definizione e di appropriatezza, si rischia di non dare ai pazienti la risposta ai loro bisogni.

  PRESIDENTE. Grazie, dottoressa Lucidi, anche per la chiarezza.
  Do la parola alla dottoressa Maria Piccione, ricercatrice presso il Policlinico-Università degli studi di Palermo, responsabile del centro di riferimento regionale della Sicilia per le malattie genetiche, cromosomiche e rare.

  MARIA PICCIONE, Ricercatrice presso il Policlinico-Università degli studi di Palermo e responsabile del centro di riferimento regionale della Sicilia per le malattie genetiche, cromosomiche e rare. Grazie per l'invito. Per non fare una disamina di tutti i punti, farò solo qualche puntualizzazione rispetto a quello che è già stato detto.
  Ci sono dei dati sulla ricerca italiana, che sono stati raccolti da Orphanet Italia, che ho visto che sentirete nelle prossime audizioni, che già sono inseriti, almeno quelli del 2011, nel Piano nazionale malattie rare.
  Hanno censito 654 progetti di ricerca sulle malattie rare in Italia in un anno, nonostante le estreme difficoltà con cui queste ricerche vengono effettuate. Queste ricerche sono divise per raggruppamenti: studi di ricerca di base, studi di ricerca di geni, funzioni in vitro, studi funzionali, ricerca di elementi eziopatogenetici su modelli animali, trial clinici, ricerca di tipo traslazionale e correlazioni genotipo-fenotipo, che in questo momento con le nuove tecniche diagnostiche sono quelle più frequenti che abbiamo.
  Il grosso buco è quello dei farmaci. A proposito dei farmaci, sempre nel Piano Pag. 10nazionale, tra gli obiettivi c'era stata la richiesta di poter valorizzare l'Istituto farmaceutico militare, che ha splendidi laboratori, perché potesse supportare la ricerca per le malattie rare.
  Noi siamo assolutamente vincolati a dei costi altissimi. Mi collego all'altro problema. I centri di riferimento spesso vengono visti come un peso, perché per alcune patologie il costo della terapia può andare dai 600.000 a 1 milione di euro a paziente. Capite bene che un centro di riferimento ovviamente ne ha più di uno con quella data patologia, quindi dall'azienda non è proprio riconosciuto con grande favore.
  La malattia rara presenta tre problemi. Il primo, come dice la stessa definizione, è la rarità, che si collega al problema del ritardo diagnostico. Credo che su questo la formazione si debba muovere a più livelli. Uno, citato nel piano, è quello universitario, per fornire gli strumenti agli studenti per capire quali sono quelli che noi genetisti chiamiamo «segni maniglie», ovvero i segni d'allarme che possono farci sospettare una patologia rara. In seguito, non sarà compito del medico, ma sarà compito del centro di riferimento individuare se c’è o meno la patologia rara e farsene carico.
  Fondamentale è la formazione nei confronti dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, perché sono quelli che hanno il primo impatto con il paziente, che devono riconoscere i segni d'allarme e che devono conoscere i centri di riferimento dedicati alla patologia.
  Passiamo a un altro punto, che è l'informazione. C’è necessità di un'informazione istituzionalizzata sui centri validi e i centri non validi.
  Stamattina abbiamo avuto una riunione al Bambin Gesù con Orphanet Italia e con il professore Dallapiccola. Su Orphanet, che è il sito europeo delle malattie rare, sono censiti, non solo i centri accreditati, ma anche i centri che vengono validati. Occorre capire bene come differenziarli e come poterli indicare.
  Orphanet è un sito validato da un punto di vista scientifico. Purtroppo non accade sempre così. Pertanto, l'informazione deve essere gestita assolutamente dalle istituzioni.
  Infine, riguardo al problema della telesorveglianza e della teleassistenza, abbiamo due strumenti in Italia che sono molto validi. Sono state approvate le linee di indirizzo per la telemedicina, nonché le linee per la telemedicina dedicata alle malattie rare, che prende in considerazione gli aspetti peculiari del malato raro.
  La richiesta è quella di partire con una fase sperimentale, anche perché tutto quello che c’è di nuovo va prima sperimentato e validato.
  Credo che questo possa essere un supporto fondamentale per rispondere a un altro problema: la rarità necessita di una continuità di assistenza territoriale. Non sempre c’è un territorio adeguato. Pertanto, una sorveglianza con una responsabilità primaria del centro di riferimento sull'assistenza, anche a distanza, diventa fondamentale per poter dare al paziente la possibilità di essere seguito presso il proprio domicilio. Pensate a quante volte si deve spostare il paziente, anche a distanze infinite, per poter avere una risposta ai bisogni di salute.
  Infine, secondo le direttive, i centri di riferimento devono essere intesi come unità funzionali e, quindi, inglobare in sé, non soltanto la figura specifica e quindi l’expertise tipiche del centro di riferimento, ma anche una rete di specialisti che sono i referenti in malattie rare per ogni branca specialistica, con i quali si dialoga, mantenendo la responsabilità primaria del percorso assistenziale, sia in fase diagnostica sia in fase di terapia e di assistenza, del centro di riferimento.
  In ultimo, non possiamo far altro che rivedere i criteri di accreditamento dei centri, secondo quello che EUCERD, cioè l'Unione europea, ci chiede, perché questi saranno i criteri che permetteranno ai centri di eccellenza, che in Italia ci sono, di aspirare a far parte, anche come capofila, delle reti europee.
  Queste reti saranno tutte organizzate per raggruppamenti di patologia e non per singole patologie, mentre in Italia noi Pag. 11abbiamo centri riconosciuti per raggruppamenti di patologie o per singole patologie.
  Bisognerà capire, anche durante le prossime riunioni a livello europeo, quale sarà l’input che dovremo seguire per creare dei network italiani, al fine di proporsi per la prima volta in maniera condivisa e già preparati alla sfida con l'Europa, proprio per garantire sempre di più una buona assistenza, quella indicata dall'Organizzazione mondiale della sanità. La buona assistenza non è l'assenza della malattia, ma la buona qualità di vita, la migliore che possiamo dare.

  PRESIDENTE. Grazie, dottoressa Piccione.
  Do la parola alla dottoressa Laura Nardelli, esperta in malattie rare.

  LAURA NARDELLI, Esperta di malattie rare. Buon pomeriggio e grazie mille per l'invito, perché veramente è un onore e un piacere.
  Mi allaccerò un po’ a quello che è stato già detto dai miei esimi colleghi. La mia memoria è improntata più da un punto di vista organizzativo, partendo dal livello centrale e dalle problematiche e presentando modeste proposte, che mi rendo pienamente disponibile a ampliare.
  Noi parliamo sempre di malattie rare in questa Commissione, ma partiamo dal fatto che i malati rari vengono seguiti e assistiti dal sistema sanitario nazionale esclusivamente per l'assistenza sanitaria. Oggi si parla sempre più di integrazione sociosanitaria.
  Sappiamo che tutto il sistema sanitario nazionale deve essere innovato secondo nuovi modelli di organizzazione sanitaria, proprio per permettere questa integrazione, che, se per le altre patologie di comunità è fondamentale, per le malattie rare diventa essenziale, come abbiamo capito – tutti i presenti parlano di questa difficoltà – proprio per la rarità.
  Bloomberg definisce il nostro sistema sanitario nazionale come il migliore in Europa dal punto di vista dell'efficienza, ovvero da un punto di vista più propriamente economico. Infatti, l'unico dato qualitativo riguarda l'aspettativa di vita, mentre il resto dei dati sono economici.
  Invece, uno studio chiesto da Bruxelles ci dice che, su 37 Paesi, noi siamo diventati il ventunesimo rispetto alle performance, ovvero dal punto di vista della qualità.
  I dati oggettivi e gli studi di settore ci sono e vanno analizzati secondo la SWOT analysis, che è il metodo più appropriato per l'organizzazione tutta.
  Il nostro gap maggiore, come quello della Spagna, deriva dal fatto che noi abbiamo venti sistemi sanitari regionali diversi e in più i due delle province autonome. Sappiamo bene cosa questo comporta. Dalla riforma del Titolo V sono passati quattordici anni. Tutto quello che stiamo vivendo oggi è l'evoluzione di quella che doveva essere una grande riforma e, invece, ha prodotto disparità. I pilastri della legge n. 833 del 1978, l'eguaglianza e l'universalità del nostro sistema, sono stati smentiti. Nel caso delle malattie rare, questi aspetti pesano maggiormente.
  In relazione al Piano nazionale per le malattie rare finalmente il 16 ottobre è prevista l'istituzione di un comitato nazionale, che è fondamentale, perché, se si deve riaccentrare la governance del sistema sanitario nazionale, ciò vale ancor più per la governance del sistema delle malattie rare.
  Chiaramente non può essere previsto solo chi definisce le linee strategiche, perché il grande difetto del nostro popolo è che non ci piace essere monitorati e valutati. Pertanto, deve essere previsto un organismo, sempre a livello centrale e via via scendendo nei vari livelli istituzionali, che monitori realmente, in base a degli indicatori precisi, e soprattutto partendo dal fatto che il sistema di autorizzazione e di accreditamento deve essere rivisto in toto per tutto il sistema sanitario nazionale. Devono essere previsti degli indicatori ulteriori per quello che riguarda l'ambito delle malattie rare. Non è cosa facile.
  La cosa importante sono i coordinamenti regionali e interregionali. Mi riaggancio a ciò che diceva il professor Andria Pag. 12riguardo al coordinamento interregionale. Lo scorso anno io sono andata a Padova, ospite della professoressa Paola Facchin, a studiare il sistema regionale del Veneto, che – ormai lo abbiamo capito – ha una copertura più o meno efficiente, nel senso che ci sono accordi interregionali recenti, ma devono essere implementati.
  Questo sistema si basa su una cosa fondamentale: il registro regionale del Veneto, che è stato istituito nel 2008, poggia sulla cartella clinica informatizzata in rete del paziente. Questo è uno strumento fondamentale se, come dicono i nostri addetti ai lavori, vogliamo lavorare in rete, condividere e apportare l'appropriatezza vera a livello nazionale, per poi entrare nel network europeo, come sia EUROCERD che la Commissione ci chiedono.
  Al momento noi non abbiamo i requisiti per poter entrare. Il professor Dallapiccola in un intervento a giugno dello scorso anno, in occasione della presentazione dei lavori della Community per le malattie rare, diceva che noi rischiamo di perderci per strada dei centri di expertise che formalmente non possono essere inseriti nella rete.
  Per questo, io suggerisco – lo so che potrebbe sembrare un'utopia – un intranet nazionale, perché l'Italia ha il know how, le infrastrutture e le best practice. Ad esempio, Poste Italiane ha un'esperienza ultratrentennale ed è capillare su tutto il territorio nazionale.
  Chiaramente questo comporta problemi estremi di sicurezza, ma ripeto che c’è il know how e ci sono le infrastrutture. Basta volerlo, non possiamo più tirarci indietro rispetto a questo.
  Accanto a un intranet nazionale, occorre un accreditamento giusto. Noi purtroppo rispetto alle strutture pubbliche abbiamo un accreditamento solo del 15,5 per cento a livello nazionale.
  Dobbiamo fare un lavoro enorme, se non vogliamo restare fuori dalla rete europea, quando abbiamo delle potenzialità incredibili a livello nazionale. Lo dimostrano i professori che sono qui seduti. Abbiamo dei professori a cui non è stato mai riconosciuto un centro di riferimento a livello locale e che coordinano la stessa patologia a livello europeo. Questo è un paradosso tutto nostro.
  Da qui ci dobbiamo riallacciare alla necessità di implementare i percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA), che sono degli strumenti incredibili. La questione principale rispetto al PDTA è che questo deve nascere dove viene seguito il paziente, dove realmente c’è il centro di riferimento. Purtroppo assistiamo spesso a dei PDTA scopiazzati.
  Ripartendo dal fatto che abbiamo venti sistemi regionali diversi, non possiamo scopiazzare un PDTA della Lombardia e trasfonderlo nella nostra realtà organizzativa. Questo non permette assolutamente a questo strumento di realizzarsi al meglio.
  Legato alla cartella clinica informatizzata in rete, il PDTA è lo strumento che permette il passaggio dal centro di riferimento al territorio, ovvero all'assistenza del paziente nel posto più vicino a casa sua. Ciò riguarda l'ASL che se ne occupa, la farmacia che eroga il farmaco eccetera.
  Questi sono strumenti che non vanno assolutamente ignorati, ma vanno implementati. È anche vero che questo comporta un costo e, purtroppo, nel Piano nazionale al momento non è previsto. Tuttavia, ogni regione poi si adopera per trovare dei fondi da destinare.
  Ci possiamo riallacciare alla questione della codificazione che citavano anche i colleghi. Il fatto che ci sia un decreto che limiti così tanto il riconoscimento dello status di paziente raro, con il codicillo che permette poi l'assistenza, l'esenzione dalla partecipazione al costo, il famoso ticket, e l'implementazione del piano assistenziale individuale, è un elemento altamente discriminante.
  I malati rari sono già discriminati perché sono rari. Inoltre, c’è questo strumento normativo che certamente non facilita la vita loro, ma soprattutto quella degli operatori.
  Dell'importanza della formazione abbiamo già parlato, quindi è inutile che mi dilunghi.

Pag. 13

  PRESIDENTE. Grazie, dottoressa Nardelli.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PAOLA BINETTI. Senz'altro negli interventi che si sono susseguiti è apparso abbastanza chiaro che ciò che i malati rari chiedono non è soltanto risposta in termini di ricerca di base ed eziologica, peraltro fondamentale e importante. Richiedono anche degli interventi in cui il sistema sanitario nazionale, attraverso i suoi modelli organizzativi, sia capace di rendersi flessibilmente utilizzato dalle persone.
  Molto spesso i malati affetti da malattie rare sono organizzati in piccole o medie associazioni. Il concetto di associazione è molto importante, perché ci permette di avere un micro-registro nel registro, che è fatto di una sorta di comunicazione che si trasmette da malato a malato e che li porta a formulare delle richieste il più possibile in modo unitario, per essere incisivi e per poter ottenere quello che chiedono.
  È stato fatto riferimento alla necessità di spostare accanto al malato anche alcune delle risposte che le tecnologie oggi permettono, con la telemedicina, ma non solo. Ci sono malati rari e malati rari, con situazioni più o meno drammatiche, dipendenti anche dal contesto di invalidità. Tuttavia, evitare di chiedere loro sacrifici non necessari mi sembra già una cosa importante.
  Questa è una risposta che dobbiamo dare, anche attraverso i modelli organizzativi, che non sono solo di cura, ma anche di assistenza.
  Mi piacerebbe sapere se per caso voi, ognuno per la sua competenza, avete una sorta di descrizione funzionale di questi modelli, che ci possa servire per un'acquisizione di buone pratiche.
  Potrebbe essere utile capire come i diversi nodi sono stati sciolti in determinate strutture, per affrontare sia il tema dell'interdisciplinarietà o della multidisciplinarietà, che si è citato, sia un altro tema che, peraltro, ci sta particolarmente a cuore per le proposte di legge che stiamo discutendo qui alla Camera sull'autismo, ovvero il tema della transition all'età adulta.
  Sembra che tutti i bambini autistici a un certo punto entrino in un tunnel e poi, di fatto, quando escono non si sappia più chi sono, perché a volte le diagnosi psichiatriche che ricevono sono molto eterogenee.
  Per molto tempo è stato fatto un adattamento al bambino delle patologie dell'adulto. Adesso bisognerebbe fare il percorso inverso.
  Vorrei sapere se su questo tema della transition avete delle esperienze concrete. Ci fa piacere conoscerle, perché l'allungamento dell'età media della vita di questi soggetti fa emergere problemi che prima ignoravamo del tutto.
  Inoltre, vorrei capire come si può costruire la multidisciplinarietà a partire da una tipologia di patologie, cercando di avere presenti due cose: la razionalizzazione dei modelli organizzativi, per rendere più facili e più fluide alcune prassi, e, nello stesso tempo, la specificazione dei quadri delle patologie, per rendere più concreti e più mirati gli interventi a favore dei pazienti.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO. Con la legge di stabilità 2014 è stata introdotta una norma che prevede uno stanziamento di 5 milioni per lo screening neonatale. Vorrei sapere se a qualcuno dei vostri centri è arrivata una frazione di queste risorse.
  In secondo luogo, poiché in Italia nascono 400.000 bambini all'anno, se questo è un livello essenziale, bisognerebbe sottoporre allo screening tutti, quindi servirebbero 40 milioni. Se diamo 5 milioni soltanto per un anno e occorre comprare le attrezzature, non ci siamo.
  Questo appartiene anche alla debolezza della nostra legislazione che talvolta emerge. Tuttavia, l'intenzione era buona.
  Ho sentito un riferimento ai livelli dimensionali di questi centri. Sono totalmente d'accordo con questa impostazione. Pag. 14Immagino che si possa parlare addirittura di centri di riferimento interregionali nel caso di regioni piccole.
  Vorrei conoscere la vostra opinione, in primo luogo, sull'iniziativa dello screening, messa in discussione da alcuni studiosi sul piano dell'efficacia, e, in secondo luogo, sulle entità dimensionali di questi centri.

  ILEANA ARGENTIN. Faccio un'osservazione e vorrei avere una conferma da voi. Io credo che una malattia sia considerata rara a causa di una mancata conoscenza più che dei numeri. Questa è una mia visione della realtà.
  Mi accorgo che abbiamo delle ondate di patologie che si diversificano in base alla conoscenza medica che emerge. Di botto nel 1990 ci siamo trovati ad avere migliaia di bimbi autistici, mentre nel 1980 ne avevamo molti meno. Ciò è dovuto al fatto – dico questo con umiltà, non essendo un medico – che la mancata conoscenza rende delle patologie più rare di quanto effettivamente siano.
  Io credo che il sociale debba assolutamente convivere con il sanitario, perché è dal sociale che possiamo trarre quei presupposti che ci aiutano a capire realmente i bisogni e le situazioni.
  In tutti i sistemi ospedalieri ai quali da sempre ho visto rivolgersi gente con patologie difficili, ma soprattutto con patologie rare, soprattutto nei pronto soccorsi, c’è una bassezza – scusatemi il termine – rispetto alla conoscenza del problema che gli si presenta, che quasi fa scappare e mette paura.
  A me è capitato di vedere al Gemelli – io sono una grande sostenitrice del Gemelli – centinaia di bimbi che avevano difficoltà di tipo cognitivo, ai quali, appena arrivavano al pronto soccorso, veniva dato il valium. Non si riesce mai a capire perché abbiano mal di stomaco, diarrea o febbre alta. Gli si dà un calmante.
  Se ci fosse una collaborazione tra sistema sanitario e sistema sociale, facendo convivere la famiglia, l'associazione e i municipi dei vari territori, e se facessimo un'indagine, probabilmente avremmo più elementi e la possibilità di intervenire in casi di emergenza diversi.
  È vero che un bimbo che deve fare un elettrocardiogramma e che ha delle difficoltà deve essere anestetizzato, ma capita pure che per togliere un dente a un bimbo che ha difficoltà cognitive si fa l'anestesia, quando invece, se ci fosse vicino l'assistente giusto, questi casi potrebbero ridursi.
  Ribadisco l'importanza del sociosanitario e chiedo a voi se la mia è una visione distorta oppure reale rispetto al concetto che, più che una questione di numeri, è una questione di conoscenza delle difficoltà.
  Riporto il mio esempio, per capirci. Quando io sono nata 50 anni fa, dicevano che avevo la distrofia muscolare. Avevamo tutti la distrofia muscolare. Oggi ho una amiotrofia spinale di tipo tra il due e il tre. Se io vado al pronto soccorso e dico che ho la distrofia, trovo la soluzione; se dico che ho la amiotrofia spinale di tipo tra il due e il tre, mi guardano alienati e non sanno da che parte cominciare.
  Ci sarebbe bisogno di formazione. Investire su questa, più che sulla guarigione – nessuno vuole guarire, ma tutti vorremmo vivere un po’ meglio – sarebbe fondamentale.

  EUGENIA ROCCELLA. Ho due domande molto veloci. In primo luogo, vorrei sapere se è possibile avere da voi un quadro, anche estremamente sintetico, dell'accessibilità dei farmaci, anche perché spesso sono farmaci assai costosi. Visto che si parlava della fibrosi cistica, penso al recente caso del Kalydeco, caso che penso sia in via di soluzione, anche attraverso l'AIFA. Tuttavia, l'accesso e la distribuzione del farmaco sono ancora problematici.
  La seconda domanda riguarda gli stati vegetativi. Noi abbiamo fatto delle linee-guida che mi sembravano un ottimo modello, che poi sono state affidate alla buona volontà delle regioni. In realtà, le Pag. 15regioni avrebbero dovuto nominare una figura di riferimento, con cui anche le associazioni potessero dialogare.
  Per la prima volta abbiamo dato in ambito di linee-guida alle associazioni dei pazienti e, in questo caso, soprattutto dei familiari dei pazienti, un ruolo di vigilanza. Se funzionasse, sarebbe sicuramente un modello innovativo.
  Vorrei capire, in base alla vostra esperienza, quanto questo funziona sul territorio e se sono arrivati i finanziamenti, cioè come sono stati eventualmente finalizzati e spesi i fondi che sono destinati all'applicazione di queste linee-guida.

  SILVIA GIORDANO. In primo luogo, vorrei ringraziare tutti gli intervenuti. La mia è una semplice domanda, perché sono stati toccati un po’ tutti i punti fondamentali. Abbiamo parlato dello screening, che è essenziale.
  Una delle mie domande avrebbe riguardato proprio il registro, ma mi è piaciuta molto la distinzione fatta tra il registro di malattia e il registro epidemiologico. Sono stati affrontati l'aspetto pecuniario del malato raro, che è fondamentale, i centri di cura e la multidisciplinarietà.
  C’è una cosa, che è stata accennata, se non sbaglio, dal professor Zampino, che vorrei capire meglio riguardo all'obbligo dei medici. Ciò si lega in parte a quello che ha detto la collega Argentin. Prima è stato detto che il medico investe maggiormente o comunque impiega il suo tempo, oltre che la sua professionalità, sull'infarto o sull'ischemia piuttosto che sulla malattia rara.
  Cosa intendeva per «obbligo ai medici» ? Si riferiva alla formazione ? Forse mi è sfuggito il passaggio.
  Mi è capitato personalmente di notare questa carenza in un ospedale in Campania, oltretutto per un malato raro. Secondo me, un punto fondamentale è che i medici spesso non sanno che cosa devono affrontare, soprattutto nel caso di determinate malattie rare.
  Vorrei sapere che cosa intende lei precisamente per «obbligo ai medici».

  MARIA AMATO. Grazie, soprattutto per questa visione di registro non epidemiologico, ma di malattia, per lo spunto di riflessione sull’intranet nazionale e per il riferimento al know how già presente.
  Io nella vita vera faccio il radiologo, per cui l'idea di un trasferimento di immagini come di notizie, per facilitare il percorso di lavoro e il livello di assistenza è sempre brodo caldo per la mia anima.
  Ho sentito parlare di ricerca sia con ferimento ai pochi fondi sia con riferimento alla necessità di metodologie validate. Nel 2017 scade la proroga per l'utilizzo di animali nella ricerca. Senza entrare nel merito di un giudizio di valore, quanto incide l'utilizzo di animali da laboratorio nei percorsi di ricerca finalizzati allo studio delle malattie rare e soprattutto nella partecipazione dell'Italia a progetti di ricerca di respiro europeo o comunque internazionale in questo settore ?

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  VINCENZINA LUCIDI, Responsabile dell'unità operativa complessa fibrosi cistica dell'Ospedale Bambino Gesù. Inizio dalle domande dell'onorevole Binetti. Il problema della multidisciplinarietà di cura è un problema di qualità di cura.
  Il problema vero quando si parla di malattie rare è sviluppare la competenza anche negli specialisti coinvolti nella gestione del paziente. Per questo dicevamo che bisogna costituire una rete. Non tutti i centri devono o possono avere tutto. Nelle malattie rare è veramente importante sviluppare una metodologia di lavoro in cui il case manager conduce e coordina il necessario intervento degli altri specialisti.
  Faccio un esempio. Non tutti i centri che hanno una gastroenterologia o una chirurgia gastrointestinale possono fare il trapianto epatico. La stessa cosa vale per la gestione della malattia rara.
  Nel passato – io che sono anziana posso dirlo – si immaginava che il malato di malattia rara fosse gestito unicamente da un servizio e, quindi, quel medico Pag. 16doveva saper fare di tutto riguardo ai polmoni, al fegato, all'apparato riproduttivo, ai seni paranasali eccetera. Questo non è giusto e non è possibile.
  La tecnologia e la conoscenza migliorano la qualità. Anche il malato raro ha diritto ad avere il meglio di quella procedura, che sia chirurgica, medica. Questo è il compito del centro di cura. Il centro di cura riconosciuto deve avere anche questi doveri.
  Il problema fondamentale è la formazione. Non mi riferisco solo alla formazione dello specialista, ma anche alla formazione e alla cultura che bisogna trasmettere al malato, quando è possibile, già nell'età scolare, e alla famiglia.
  A questo aggiungo la conoscenza che va trasferita sul territorio. Non si può continuare a scindere l'ospedale o l'università dal territorio. Bisogna cominciare a condividere alcuni percorsi, sempre per migliorare la qualità di vita dei pazienti.
  La collaborazione con le famiglie e il compito del medico di educarle sono fondamentali, perché non c’è nessuna malattia cronica che si cura stando due o quindici giorni al mese in ospedale. La malattia cronica si deve curare tutti i giorni, perché quel gene anomalo produce ogni giorno qualcosa contro gli organi di quel paziente. Conoscendo e utilizzando le terapie appropriate, si riesce in qualche maniera a ridurre la velocità di involuzione e, quindi, di danno e di exitus.
  Per la mia esperienza personale, che è l'esperienza del Bambin Gesù, è una cosa realizzabile e che dà molte soddisfazioni a tutti gli specialisti. Soprattutto si uniscono le forze e ci si sente meno soli nella gestione del malato raro, il che non è poco a mio avviso.
  Rispondo ora all'onorevole Miotto. Per quanto riguarda i finanziamenti, io non credo che qualcuno li veda, però non è questo il problema.
  Il problema dei centri di screening non è solo l'interregionalità o la regionalità, ma è il controllo di qualità di questi centri. Se il centro di screening non fa le cose nei tempi adeguati o non applica i modelli adeguati, che a volte sono innovativi, ma a volte esistono già da dieci anni, non va bene.
  Succede che veramente abbiamo pazienti di serie A e di serie B, perché magari per motivi economici, non necessariamente culturali, quel centro di screening non può applicare le nuove strategie.
  Per esempio, riferendomi alla fibrosi cistica, ci sono centri che ancora applicano il secondo step della tripsina a tre giorni di vita e poi quando la famiglia riesce a essere contattata torna a fare il secondo screening, qualora il primo fosse positivo. Succede che passa un mese e mezzo. Non fanno il test genetico immediatamente dopo il primo screening positivo.
  Il genetico non deve essere scelto in funzione delle risorse del centro. Non si può fare la ricerca di 20 mutazioni, di 50 o di 70 in funzione della regione. Deve essere una cosa nazionale, perché tutti i bambini, secondo me, hanno diritto alla qualità della vita, anche se questa vita è piena di terapie, di controlli clinici, di vita spesso vissuta in ospedale.
  Ringrazio molto l'onorevole Argentin per le puntualizzazioni sul sociale, perché è una cosa importante. Aggiungo un'altra qualità dei centri. Perché il centro deve preoccuparsi di coinvolgere la famiglia ? Perché il centro deve preoccuparsi di dare cultura alla famiglia, oltre che al malato ? Lo deve fare perché solo se si lavora insieme si capiscono i veri bisogni.
  Aggiungo una cosa. In Italia noi siamo arrivati un po’ tardi al cosiddetto «ospedale senza dolore» per i bambini. L'ospedale senza dolore ha delle regole ben precise.
  Io mi ricordo che quando ero giovane appena si entrava al Bambin Gesù si sentiva piangere. Bastava passare nel corridoio tra gli edifici per sentirli. Oggi non si sente più piangere nessuno, non perché si applica una sedazione pericolosa, ma perché è tutto supercontrollato e basato su protocolli ben precisi. Anche l'endoscopia va fatta in sedazione. Il bambino è sveglio dopo mezz'ora. Anche il prelievo va fatto con l'EMLA locale. L'ospedale deve essere Pag. 17un ospedale senza dolore in età pediatrica. Finalmente questo obiettivo è stato raggiunto.
  Io non sono mai stata al pronto soccorso della Cattolica, però penso che applichino gli stessi criteri. Secondo me, questo è un segno di civiltà molto importante.
  Rispondo all'onorevole Roccella. Vorrei affrontare il problema dei farmaci in una maniera differente. Siamo in un'era in cui i farmaci specifici, che vanno da quelli oncologici alle terapie biologiche, dalle terapie enzimatiche ai potenziatori genici della fibrosi cistica, stanno aprendo un capitolo completamente nuovo.
  Sono dieci anni, però, che noi sentiamo a livello europeo relazioni che ci parlano di un riordino del sistema sanitario nazionale, per permettere alla gente di avere i veri farmaci che trattano la malattia e non i cosiddetti farmaci «di supporto ai sintomi».
  C’è una differenza abissale tra il farmaco che tratta la patologia, ovvero la sua eziopatogenesi, e i farmaci sintomatici. Questi ultimi non si possono ignorare, ma ormai con l'esplosione della genetica e delle ricerche, c’è una diffusione di nuovi farmaci che stanno dando veramente una risoluzione importante.
  Mi riferisco, per esempio, ai farmaci metabolici. Bambini, che prima vedevamo in condizioni cliniche fenotipicamente mostruose, oggi sono pazienti apparentemente normali, che camminano, che ragionano e che hanno una relazione normale.
  Per la fibrosi cistica è arrivato finalmente il momento del farmaco che cura, non le complicanze che la malattia esprime, ma l'anomalia del gene, anche se non è una terapia genica.
  Vorrei rassicurare l'onorevole Roccella. Finalmente si è risolto questo primo step con l'AIFA. Ci sono state delle audizioni. Il farmaco verrà registrato presto sulla gazzetta e, quindi, sarà disponibile.
  Nel frattempo, le regioni sono state autorizzate ad attivare il file F, in maniera tale che le strutture possano acquistare il farmaco con questa metodologia, per la quale il farmaco rimane a spese dello Stato.
  Rispondo all'onorevole Amato sul problema degli animali. Io non sono una ricercatrice, sono un clinico, ma se penso a tante esperienze passate e all'evoluzione che le terapie hanno avuto in questi miei trent'anni di lavoro, gli animali hanno avuto un ruolo fondamentale. Anche ultimamente, per esempio nella fibrosi cistica, stanno avendo un ruolo fondamentale.
  Fintanto che non sono stati sviluppati il maiale FC, il furetto FC e il topo FC, avevamo un'interpretazione completamente sbagliata della fisiopatologia che si realizzava in quel paziente per colpa di questo gene.
  Io non sono brava in questi argomenti politici, però rifletteteci un attimo sopra prima di prendere decisioni.

  MARIA PICCIONE, Ricercatrice presso il Policlinico-Università degli studi di Palermo e responsabile del centro di riferimento regionale della Sicilia per le malattie genetiche, cromosomiche e rare. Su 654 progetti di ricerca per le malattie rare nel 2011, 73 sono stati su modelli animali di malattie umane. Per avere un'idea della dimensione, siamo intorno all'11 per cento dei progetti. Parlo da ricercatore. Sono tutti progetti correlati alle malattie rare. L'ordine del problema è di questo genere.

  GIUSEPPE ZAMPINO, Responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma. Sono stato chiamato in causa due volte, la prima volta dall'onorevole Argentin. Parto proprio dalle sue domande.
  È reale ciò che lei dice sulla rarità e la mancanza di conoscenza. Una volta che si conosce, si riconosce e si sa gestire. Tuttavia, anche quando si arriva a una diagnosi eziologica e nel mondo ci sono dieci bambini con quella patologia, non si ha una popolazione tale per poter fare un'inferenza, per cui comunque c’è un buco di conoscenza.
  La vera grande sfida sta proprio nelle condizioni ultra-rare, quelle che interessano Pag. 18una persona su 2 milioni. Sono quelle che fanno paura. Tuttavia, aldilà della paura, si dovrebbe capitalizzare su quali sono i problemi comuni di tutte le condizioni.
  Lei ha detto che ha una distrofia muscolare e ora sa di avere una condizione specifica. In realtà, se andiamo a vedere tutto il gruppo delle distrofie muscolari, è vero che c’è stata una conoscenza su cento condizioni geneticamente diverse, però le problematiche cliniche da gestire sono sempre costanti: problematiche respiratorie, problematiche osteoarticolari, problematiche gastroenterologiche, problematiche nutrizionali eccetera.
  Mi riallaccio a quanto diceva l'onorevole Binetti e riporto la nostra esperienza. Ciò che si dovrebbe fare è tranquillizzare il mondo medico. Bisogna dire al medico: «È vero, hai un soggetto con una patologia rara, magari con quelle condizioni sindromiche di cui si sa veramente poco, però stai attento a queste cinque problematiche, perché se questo bambino sta bene su quei cinque aspetti, puoi garantire l'adeguato bisogno di salute».
  La medicina dell'adulto ha paura del malato raro, perché non ne ha proprio conoscenza, mentre i pediatri, più o meno, nell'ambito della sindromologia si sono dovuti abituare. I bambini nascevano malformati, quindi dovevano gestire per forza di cose la situazione. I bambini malformati sono sopravvissuti e ora sono diventati adulti. La medicina dell'adulto ha terrore, perché non ha conoscenza.
  Qual è l'area medica che si occupa di disabilità ? Non parliamo delle condizioni rare di organo, di fibrosi cistica, di ematologia, di gastroenterologia o di tumori. In quel caso ci sono gli ematologi dei bambini e gli ematologici degli adulti. Parliamo di malattie metaboliche o di malattie sindromiche disabilitanti complesse.
  Coloro che si occupano della gestione internistica di tutti i problemi sono i geriatri, che sono i medici della disabilità, aldilà del problema neurologico riabilitativo, quando c’è. Pertanto, abbiamo coinvolto i geriatri e abbiamo chiesto loro: «Tu, geriatra, vuoi iniziare a seguire i soggetti down che dopo i venti anni non sanno più dove andare ?» Il presidente dell'associazione dei down dice: «Mia figlia fino a diciotto anni aveva la sindrome di down e a diciannove anni non ha più nulla».
  A quel punto, i geriatri si sono resi disponibili e, invece di fare geriatria, hanno iniziato a fare medicina della disabilità, creando una situazione di continuo tra la pediatria della disabilità e la medicina della disabilità.
  Questa probabilmente potrebbe essere una strategia. Si potrebbero coinvolgere strutture di medicina della disabilità che gestiscono queste condizioni disabilitanti.
  Ritorno a quello che dicevo poc'anzi. La rarità significa difficoltà di conoscenza e questo comporta un grandissimo impegno nello studio di chi gestisce il bambino, che è il responsabile di tutti i suoi consulenti.
  C’è necessità di dar forza al valore della complessità come strumento remunerativo. Altrimenti, quando andremo dalle aziende ospedaliere ci diranno: «Tu cosa vuoi ? Effettivamente tu porti solamente svantaggio».
  Al di là del discorso ideologico, se si fanno i conti, un bambino gestito con una sindrome complessa ha lo stesso costo in termini di DRG e forse è pure inappropriato nel reparto rispetto al bambino in diverse condizioni.
  È necessario dare un valore in relazione alla complessità della situazione e anche al territorio. Mi devono dare gli strumenti affinché io possa impiegare mezz'ora del mio tempo medico per parlare con il medico del territorio, per consentire che la gestione fluisca nel territorio, in modo da garantire un'assistenza adeguata al bambino nel posto in cui vive.
  L'obbligatorietà di cui parlavo riguarda la conoscenza. Se io ho 600 bambini, ne avrò quattro malformati, sindromici o con condizioni rare. Io devo avere una conoscenza su quei quattro bambini, non posso dire che mi fanno paura e che non li voglio conoscere e rimandarli al centro di periferia. Si deve obbligare il centro di periferia a dare al medico tutte le informazioni possibili, affinché abbia gli strumenti Pag. 19di gestione di quel bambino. Parlo sempre del bambino, perché sono pediatra, ma ovviamente ciò vale anche per l'adulto.
  L'obbligatorietà consiste nel dire: «ti do un vantaggio economico se segui questi bambini, però a questo punto li segui e me lo devi dimostrare, perché conosci tutto di loro».
  Del resto, la storia naturale di ogni patologia rara si ha solamente se si mettono insieme tutti i pezzi del puzzle e ciò avviene essenzialmente sul territorio.
  La maggior parte delle 640 ricerche di cui parlava la collega Piccione sono ricerche eziopatogenetiche. Se si chiedono fondi per fare una ricerca su come sedare al meglio un bambino per levargli i denti, che sia disabile per una paralisi cerebrale o perché ha una sindrome malformativa, i fondi per questo tipo di ricerca possono essere veramente difficili da trovare, mentre è più facile trovare fondi per ricerche di tipo eziopatogenetico.
  Dovremmo favorire molto di più la ricerca di tipo sociosanitario. Sono d'accordo con lei. Il benessere del bambino non si vede sul gene che si modifica o meno, ma soprattutto sui modelli di gestione che si riesce a trovare.
  Ad esempio, il 30 dicembre una bambina malformata è venuta da me. In seguito, è andata al Bambin Gesù, al San Camillo, al Policlinico e a Tor Vergata. Questa bambina aveva tanti consulenti, ma nessuno ne era il reale gestore. Proprio perché ognuno pensava di essere il consulente dell'altro, non si è mai definito chi fosse il reale responsabile. Una delle cose che è necessario fare è definire chi è responsabile di un dato bambino.
  Questa può sembrare una cosa ovvia, ma, se un bambino che ha tanti problemi non ha un responsabile, alla fine muore e non si sa come mai.

  DONATA LENZI. La legge dice chi è il responsabile: è il medico di famiglia.

  GIUSEPPE ZAMPINO, Responsabile del Servizio di epidemiologia e clinica dei difetti congeniti del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma. Voglio proprio arrivare lì. Si dice che il responsabile è il medico di famiglia. Io penso che un sistema che si potrebbe adottare è questo: così come quando nasce un bambino normale si va alla ASL e si sceglie un pediatra di territorio che lo gestisca, un soggetto con una diagnosi di malattia rara (bambino o adulto) va alla struttura regionale e sceglie come punto di riferimento l'ospedale Gemelli.
  L'ospedale Gemelli, come ogni ospedale, non può avere una gestione di tutte le problematiche, perché non ha tutte le risorse, oppure ce le ha, ma non sono tutte al 100 per cento. Io, padre di famiglia, pretendo il 100 per cento per mio figlio. Certamente per il chirurgo plastico vado al Bambin Gesù.
  Il punto della questione è che, se c’è la possibilità di avere un referente definito che gli altri soggetti identificano come referente responsabile, a quel punto forse questo gioco di responsabilità può risiedere in due elementi. Il primo è il pediatra di famiglia per tutto quello che concerne la gestione comune.
  Quando il pediatra di famiglia dice al soggetto, che ha una malattia rara, che deve andare al suo centro, qual è il centro di quella bambina che è morta il 30 dicembre ? Questa è la questione. A quel punto, il padre deve dire: «Il mio centro di riferimento è il Policlinico Gemelli (o il Bambin Gesù). Sono loro che mi gestiranno tutte le problematiche e che troveranno legami con il territorio».

  PRESIDENTE. Vi ringrazio molto. Purtroppo siamo in ritardo. Mi scuso se devo chiudere velocemente la discussione, ma siamo andati un po’ oltre. Purtroppo abbiamo altri punti all'ordine del giorno.

  ROBERTO GENEROSO ANDRIA, Direttore del Dipartimento clinico di pediatria – Università degli studi Federico II di Napoli. Vorrei aggiungere solo un elemento di tipo organizzativo. Siccome c’è stata chiesta una memoria, vorrei ripetere quello che ho detto poc'anzi. Il 21 aprile sarà messo a disposizione, anche di questa Pag. 20Commissione, un libro bianco dove sono contenuti documenti fatti congiuntamente dalle regioni, dal tavolo delle malattie rare, dal Ministero e dall'Istituto superiore della sanità. In questi documenti vengono affrontati questi problemi e viene illustrato ciò che è stato fatto e ciò che si potrebbe fare.
  L'onorevole Binetti è invitata all'inaugurazione. Conoscendo la sua sensibilità a questo problema, mi permetto di pregarla di restare il più a lungo possibile a questo convegno, anche se poi potrà leggere gli atti per iscritto. Credo che sarebbe veramente utile se, nonostante i suoi impegni, riuscisse a trovare il tempo di trattenersi e di ascoltare la discussione.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Ovviamente anche a noi, come componenti della Commissione, farà piacere avere gli atti del convegno e il libro bianco.
  Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.