XVII Legislatura

XII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 7 di Giovedì 28 aprile 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Marazziti Mario , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA, DELL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1142  MANTERO, C. 1298  LOCATELLI, C. 1432  MURER, C. 2229  ROCCELLA, C. 2264  NICCHI, C. 2996  BINETTI, C. 3391  CARLONI, C. 3561  MIOTTO, C. 3584  NIZZI, C. 3586  FUCCI, C. 3596  CALABRÒ, C. 3599  BRIGNONE, C. 3630  IORI, C. 3723  MARZANO E C. 3730  MARAZZITI: «NORME IN MATERIA DI CONSENSO INFORMATO E DI DICHIARAZIONI DI VOLONTÀ ANTICIPATE NEI TRATTAMENTI SANITARI»:

Audizione di esperti della materia.
Marazziti Mario , Presidente ... 3 ,
Canestrari Stefano  ... 3 ,
Toraldo Di Francia Monica , Vicepresidente del Comitato etico pediatrico della Toscana e professoressa di Bioethics presso la Stanford University, Breyer Center for Overseas Studies in Florence ... 6 ,
Zuffa Grazia , Psicologa e psicoterapeuta ... 8 ,
Marazziti Mario , Presidente ... 9 ,
Amato Maria (PD)  ... 9 ,
Nicchi Marisa (SI-SEL)  ... 10 ,
Marazziti Mario , Presidente ... 10 ,
Canestrari Stefano  ... 11 ,
Marazziti Mario , Presidente ... 12 ,
Canestrari Stefano  ... 12 ,
Marazziti Mario , Presidente ... 12 ,
Canestrari Stefano  ... 12 ,
Toraldo Di Francia Monica , Vicepresidente del Comitato etico pediatrico della Toscana e professoressa di Bioethics presso la Stanford University, Breyer Center for Overseas Studies in Florence ... 12 ,
Marazziti Mario , Presidente ... 12 ,
Zuffa Grazia , Psicologa e psicoterapeuta ... 13 ,
Marazziti Mario , Presidente ... 13 

Allegato 1: documentazione consegnata da Stefano Canestrari ... 14 

Allegato 2: documentazione consegnata da Grazia Zuffa ... 25

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
MARIO MARAZZITI

  La seduta comincia alle 15.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

Audizione di esperti della materia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di esperti della materia, nell'ambito dell'esame delle proposte di legge: C. 1142 Mantero, C. 1298 Locatelli, C. 1432 Murer, C. 2229 Roccella, C. 2264 Nicchi, C. 2996 Binetti, C. 3391 Carloni, C. 3561 Miotto, C. 3584 Nizzi, C. 3586 Fucci, C. 3596 Calabrò, C. 3599 Brignone, C. 3630 Iori, C. 3723 Marzano e C. 3730 Marazziti: «Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari».
  Do, quindi, il nostro benvenuto a Stefano Canestrari, professore ordinario di diritto penale presso il Dipartimento di giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; Monica Toraldo Di Francia, vicepresidente del Comitato etico pediatrico della Toscana e professoressa di Bioethics presso la Stanford University, «Breyer Center for Overseas Studies in Florence», e a Grazia Zuffa, psicologa e psicoterapeuta. È stato, inoltre, contattato per partecipare all'audizione odierna anche Carlo Flamigni, membro della Commissione di etica dell'Università statale di Milano il quale, non potendo partecipare, ha inviato una memoria scritta che è in distribuzione.
  Faccio presente che i soggetti auditi avranno a disposizione 10 minuti per lo svolgimento dei propri interventi, ai quali seguiranno le domande dei deputati e quindi le repliche degli auditi.
  Do, quindi, la parola al professor Stefano Canestrari.

  STEFANO CANESTRARI, Professore ordinario di Diritto penale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Vi ringrazio dell'invito. Avendo solo 10 minuti, sarò molto sintetico, quindi toccherò un solo tema, quello relativo alla disciplina del consenso, del rifiuto e della cosiddetta revoca del trattamento sanitario.
  Ho visto che si sono correttamente prese le mosse dalla definizione di consenso come condizione essenziale per la scelta, l'avvio e la prosecuzione della cura. Il punto successivo, che è cruciale, riguarda la disciplina del rifiuto e della rinuncia al trattamento sanitario. Secondo me, su questo, da parte del legislatore, occorrerebbe fare un intervento chiaro, teso a prendere atto del fatto che c'è una discrasia forte tra il codice penale del 1930, stagione illiberale e autoritaria, e la Carta costituzionale, in particolare con l'articolo 32, comma 2.
  Infatti, secondo la logica del codice penale del 1930 la vita apparteneva allo Stato (non a Dio, in una visione teocratica), invece, la Carta costituzionale del 1948, all'articolo 32, comma 2, dice che vi è un diritto a non subire trattamenti sanitari contro la propria volontà. Questo è un punto di vista chiaro, che potrebbe essere oggetto di un capo a sé stante in una futura normativa sul tema.
  Peraltro, nel 2008, il Comitato nazionale per la bioetica ha redatto sul punto documento Pag. 4 intitolato per l'appunto «Rifiuto o rinuncia ai trattamenti sanitari» in cui, in maniera molto netta, ha sottolineato come di fronte al paziente competente e autonomo si configuri un diritto pieno al rifiuto delle cure. Il malato che non vuole una chemioterapia, anche se l'esito è letale, anche se siamo di fronte a una conseguenza mortale, ha un diritto pieno.
  In questo documento del 2008 abbiamo affermato con forza che vi deve essere uno sforzo anche da parte del medico di cercare di persuadere il malato al trattamento sanitario senza motivi ideologici o di tipo paternalistico. Tuttavia, di fronte a un rifiuto vi è, comunque, un diritto pieno.
  Quindi, non vi deve essere abbandono terapeutico, ma vi è un diritto di rifiuto riconosciuto per tutti i trattamenti sanitari, ivi comprese idratazione e nutrizione artificiali.
  Il secondo punto è più delicato perché riguardo alla rinuncia al proseguimento di un trattamento sanitario salva vita – il caso emblematico è stato quello di Piergiorgio Welby – la situazione induce a ritenere, in ogni caso, configurato un diritto pieno alla rinuncia.
  A questo proposito, vorrei sottolineare un aspetto che dovrebbe unire tutti. Qui, infatti, se non si configura un diritto pieno alla rinuncia al trattamento medico-sanitario e non viene detto in maniera netta che non vi è alcuna responsabilità non soltanto penale, ma anche deontologica del medico che lo interrompe a seguito di una richiesta consapevole del malato, siamo di fronte a un pericolo, che vedo molto forte, di soggetti che non si vanno più a curare.
  Insomma, il rischio di entrare in un tunnel, dal punto di vista medico-sanitario, di non potersi più sottrarre e dunque rinunciare al trattamento mi sembra davvero molto forte. È vero che già oggi questo diritto pieno deriva dall'articolo 32, comma 2 della Carta costituzionale. Va detto, però, che quando si parla – sono andato spesso a presentare il documento del 2008 – il sanitario e il medico in particolare chiedono se vi sono rischi dal punto di vista penale, quindi di contenzioso giudiziario nei confronti del medico che interrompe, su richiesta del malato competente e informato, dopo aver cercato di convincerlo al proseguimento della cura.
  Ebbene, io affermo con forza che questi rischi non dovrebbero esserci, ex articolo 32, comma 2. Tuttavia, se avessimo una norma ad hoc che dice in maniera netta e chiara che il medico non è responsabile nel caso in cui interrompa, su richiesta informata, consapevole e competente del soggetto, un trattamento sanitario, daremo con forza a molti soggetti malati l'idea che si può avviare un trattamento sanitario, ma si ha poi un diritto pieno di sottrarsi e rinunciare.
  Questo non è un diritto al suicidio o un diritto di morire, ma è un diritto all'inviolabilità della propria sfera corporea, all'intangibilità del proprio corpo; è un diritto di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà.
  Non è – ripeto – un diritto al suicidio, che non c'è nella nostra Carta costituzionale; non è un diritto di morire, ma ricade nella sfera dell’habeas corpus, quindi è un diritto all'inviolabilità della propria sfera corporea. Una macchina, un presidio sanitario, una cura contro la propria volontà non può essere messa in atto.
  Qui c'è l'altro tema, quello del ruolo del medico di fronte all'interruzione del trattamento sanitario. A questo riguardo, in un ordinamento che ha un fondamento liberale, occorre prevedere un diritto di astensione – non lo chiamerei «obiezione di coscienza» – da parte del medico che, per convincimenti morali ed etici personali, non se la sente di porre in essere questo segmento di attività commissiva, perché è pur sempre un facere.
  Naturalmente, di fronte al medico che rivendica il proprio diritto di astensione deve essere garantita comunque, da parte della struttura sanitaria, l'attuazione della richiesta.
  Ho provato a redigere tre norme, che dovrebbero essere chiare e formare un patrimonio comune, perché i filoni della nostra Carta costituzionale sono tre: liberale, cattolico e socialista o marxista. Tutti Pag. 5e tre dovrebbero riconoscere, superando la logica autoritaria del codice penale del 1930, l'idea che la salute, la sfera corporea e l'integrità del corpo sono un diritto assoluto, che non può essere violato. Non si tratta – ripeto – di volere affermare un diritto di morire o al suicidio, che non c'è nella Carta costituzionale. Si può discutere, eventualmente, se introdurre normative sulle quali sono piuttosto scettico, ma quello è un dibattito aperto.
  Qui, invece, siamo di fronte a un principio costituzionale. D'altra parte, dico che questo deve valere in ogni ambito. L'integrità e l'inviolabilità del proprio corpo significa – chiedo scusa per il paragone che, però, può servire a chiarire – che se un soggetto non vuole un bacio, un altro non può darglielo.
  Allora, sarebbe importante capire che il codice penale del 1930, che è ancora vigente e che tecnicamente è ben fatto, ma reduce da una stagione in cui la vita apparteneva allo Stato – non a caso, si prevedeva anche la pena di morte – deve essere superato dal punto di vista culturale, quindi va revisionato in maniera netta.
  Dopodiché, si dovrà parlare di DAT e così via, ma dire che il soggetto è l'inviolabilità del proprio corpo, ovvero l'intangibilità della propria sfera corporea, è un principio assoluto.
  Recentemente ho scritto un libro sul biodiritto penale, che si può articolare in tre livelli: reato, lecito, diritto. Ecco, qui siamo di fronte a un diritto.
  Presidente, se posso, darei lettura, in maniera rapida e sintetica, delle tre norme che formulerei, come studioso di diritto penale, nella speranza di vedere alla luce un nuovo codice, cosa che non accadrà mai perché questa è una scienza infelice.
  A ogni modo, al primo articolo parlerei dell'integrità del corpo. Sugli altri temi non entro perché non ho tempo, dunque sarei superficiale, per cui li lascio alla memoria scritta.
  In questa eventuale normativa, introdurrei un capo intitolato «rifiuto di cure» o «rifiuto di trattamenti sanitari».
  All'articolo 1, comma 1, stabilirei il diritto fondamentale del paziente in grado di autodeterminarsi in relazione alle circostanze, di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario proposto, ivi comprese le pratiche di nutrizione e di idratazione artificiali; revocare in qualsiasi momento il consenso prestato al trattamento sanitario; rifiutare singoli atti del programma di cura; esigere l'interruzione delle cure, anche se necessarie alla sopravvivenza.
  Al comma 2 chiarirei che il paziente che rifiuta le cure deve essere adeguatamente reso consapevole delle conseguenze delle proprie decisioni.
  Al comma 3 stabilirei che il rifiuto di cure non incide sul diritto del paziente a essere assistito e altrimenti curato e non giustifica alcuna forma di abbandono terapeutico.
  Al comma 4 direi – è importante farlo per evitare un'ulteriore forma di medicina difensiva che potrebbe legittimare pratiche di accanimento e incentivare il malato a non curarsi – che il medico che, in ossequio al diritto di cui al comma 1, dopo aver ricercato il consenso del paziente all'avvio o alla prosecuzione di cure, esegue l'espressa volontà del paziente cosciente e competente di rifiutarle e interromperle, non è punibile in quanto la sua condotta non costituisce reato. Egli non è altrimenti soggetto a responsabilità o a sanzione. Ciò – ripeto – deriva già dall'articolo 32, comma 2, ma dirlo in maniera espressa e chiara potrebbe evitare atteggiamenti di medicina difensiva.
  Articolo 2, comma 1: il medico che in base alle proprie convinzioni ritenga di non poter dare esecuzione a una richiesta di interruzione di cure esprime al paziente o a chi lo rappresenta e al responsabile del servizio sanitario la sua motivata decisione di sottrarsi a quanto richiesto e si attiene a quanto disposto dall'articolo 1, comma 3. Non deve, cioè, realizzarsi nessuna forma di abbandono terapeutico finché non sia assicurata la sua sostituzione. Comma 2: il paziente in ogni caso ha il diritto di ottenere l'attuazione della propria richiesta di ricevere l'assistenza che si renda necessaria. Le strutture sanitarie sono, a tal fine, tenute a predisporre una adeguata procedura. Pag. 6
  Articolo 3: le disposizioni di cui al presente capo si applicano anche ai professionisti sanitari che collaborano con il medico.
  In questo modo, il tema del rifiuto e della rinuncia di cure verrebbe riportato in una battaglia non ideologica, in cui, da un lato, si parla di sacralità della vita, che qui non c'entra, e, dall'altro, si tende a rendere ampio il concetto di diritto di morire o diritto al suicidio.
  Qui, viceversa, siamo di fronte a un diritto all'integrità e all'inviolabilità del proprio corpo, per cui una macchina, un presidio sanitario o una cura sul proprio corpo può essere messa in atto, ma può anche essere revocata con una rinuncia piena.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
MARCO RONDINI

  MONICA TORALDO DI FRANCIA, Vicepresidente del Comitato etico pediatrico della Toscana e professoressa di Bioethics presso la Stanford University, Breyer Center for Overseas Studies in Florence. Vorrei cominciare con una piccola premessa che riguarda tutti i disegni di legge che ho visto in questi giorni, là dove appare chiaro che c'è una forte sensibilità rispetto agli aspetti critici del progresso biomedico degli ultimi decenni e del rischio di una disumanizzazione della medicina contemporanea, che riguarda molto anche il rapporto medico-paziente (o paziente-medico come preferiamo scrivere nei nostri documenti). Sempre di più, infatti, le diagnosi vengono demandate alle macchine.
  Dunque, quell'alleanza terapeutica di cui tanto si parla, che è auspicata da molte parti, si rende sempre più difficile. C'è una netta separazione fra i due aspetti della cure e della care, al punto che spesso le lamentele dei pazienti non sono tanto sulle prestazioni tecniche quanto sulla relazionalità e a volte sulla mancanza di sensibilità.
  Credo che di questi aspetti parlerà la mia collega Zuffa. Tuttavia, vorrei mettere in evidenza che da questa diffusa sensibilità sono venuti fuori anche momenti di accordo forte, come quello di riconoscere l'importanza, per la liceità di ogni atto medico, del consenso libero e informato del paziente, come appena certificato dal professore Canestrari, e il rifiuto di ogni forma di accanimento terapeutico. Questa, peraltro, è una brutta espressione, ma di uso comune, anche se le divergenze si ripresentano quando si tratta di definire che cos'è accanimento terapeutico, trattamento futile e così via.
  L'altro punto è il riconoscimento dell'importanza della diffusione delle cure palliative. Intendo importanza da vari punti di vista, non solo perché si fanno carico della sofferenza fisica dei pazienti, ma anche perché nelle cure palliative c'è una ricomposizione della figura del paziente, ovvero della centralità della persona del paziente. Credo che oggi solo nelle cure palliative ci sia la possibilità di quell'alleanza terapeutica tanto auspicata, anche nella pianificazione delle cure.
  Comunque, torna a essere il centro dell'attenzione dell'arte medica il paziente con le sue paure, angosce e relazionalità, ma anche con i suoi valori e con la sua personale visione di ciò che ha dato un senso e un valore alla propria vita.
  Allora, il riconoscimento di questo aspetto mi sembra importante. Vorrei aggiungere che la centralità della figura del paziente e l'attenzione per i suoi rapporti, per le sue relazioni e per la sua dignità in quanto persona è molto presente in tutta la riflessione femminista sulla bioetica, specialmente riguardo al significato di care ethics (etica della cura), che vuol dire qualcosa di molto particolare, non solo attivazione di quelle disposizioni umane di ascolto, di attenzione e di empatia chiamate virtù, ma anche riconoscimento della differenza dell'altro, del senso che la vita ha per l'altro e del perché per l'altro può essere così importante decidere come e quando morire, sempre all'interno di questa relazione.
  Si tratta di sapere che in questa alleanza terapeutica le mie volontà e i miei desideri non verranno disattesi. La domanda che ci si deve porre in queste situazioni Pag. 7 non è solo e non tanto che cos'è giusto fare per la mia coscienza, ma che cosa l'altro si aspetta da me; quali sono le domande che provengono da una situazione di sofferenza, che devo sapere interpretare e accogliere.
  Lasciatemi dire che ho sempre pensato che il prendersi cura, in questo suo aspetto relazionale, dovesse includere anche il coraggio di lasciare andare, quando la vita ha perso ogni significato e valore per chi la vive. Chiunque sia stato accanto a una persona gravemente malata per molti anni può capire quanto sia doloroso, ma quanto sia anche l'atto d'amore più forte che si può compiere. È il rispetto per l'altro, anche in questa situazione di fine vita; il rispetto dei valori, dei principi e di ciò che ha voluto esprimere durante il corso della sua vita.
  Un filosofo che a me piace molto, Hans Jonas, in uno dei suoi saggi più belli rivendica un diritto morale, che per alcuni può sembrare scomodo, ovvero il diritto postumo al ricordo perché la fine di una vita deve anche esprimere la coerenza e il senso che abbiamo saputo e voluto imprimere a essa. Forse l'unica consolazione può essere quella di essere ricordati in certi modi.
  Naturalmente, ognuno ha la sua sensibilità, i suoi valori e la sua prospettiva di senso, che non si può imporre agli altri. Ecco, questo mi sembra fondamentale perché viviamo in uno stato laico, pluralista e dei diritti.
  Allora, per tornare alle direttive anticipate di trattamento, credo che i punti più delicati siano tre, al di là di alcuni momenti di convergenza che ho ricordato prima.
  Il primo riguarda a quali condizioni si possono applicare le direttive anticipate di trattamento, se solo a una perdita irreversibile di coscienza o anche alla perdita di competenza. Questa è una prima domanda molto angosciosa. Ecco, per le ragioni che ho detto prima, credo che su questo si dovrebbe discutere. A mio avviso, si potrebbe applicare il rifiuto anticipato dei trattamenti sanitari anche alle situazioni in cui ci sia una perdita di competenza.
  Gli altri due punti, che sono stata chiamata a trattare anche nei progetti di legge in discussione nel 2006 alla Commissione sanità del Senato, rimangono sempre gli stessi: la vincolatività delle direttive anticipate e la possibilità o meno di includere in esse il rifiuto dell'idratazione e della nutrizione artificiali.
  Per quanto riguarda la vincolatività, credo che debbano essere vincolanti, a meno che – come ci dice anche la Convenzione di Oviedo nel rapporto esplicativo – non siano intervenuti progressi tali da far sì che la condizione in cui si trova il paziente possa essere temporanea e ci possa essere una ripresa piena dell'autocoscienza.
  Questo, però, deve essere sempre valutato non solo rispetto a un giudizio della comunità scientifica nel suo insieme sulla validità di questo tipo di cure, ma anche con il coinvolgimento fondamentale della figura del fiduciario.
  Credo molto nella figura del fiduciario perché non tutto può essere normato e alla fine ci deve essere sempre qualcuno in cui si confida e a cui ci si affida, con la ragionevole sicurezza che rispetterà le nostre volontà. Per me questa figura è fondamentale. Quindi, sono d'accordo sulla vincolatività, a meno che non sia dia il caso che ho specificato.
  Il secondo punto è quello dell'idratazione e nutrizione artificiali. Qui non posso che essere d'accordo con chi considera questi come dei trattamenti che possono essere rifiutati perché sono invasivi. L'inserimento del sondino nasogastrico o della cannula invade il mio corpo e in quanto tale devo poter avere il diritto di rifiutarlo. Questo non può essere considerato alla stregua di un atto di eutanasia passiva.
  Qui apro un'altra parentesi. Direi che in bioetica ciò che fa la differenza è proprio il saper tracciare le differenze nelle situazioni. Mi rifaccio al documento della task force europea sulle cure palliative che raccomanda di fare molta attenzione alle distinzioni terminologiche e concettuali e, per quanto riguarda le decisioni di fine vita, raccomanda di utilizzare il termine «eutanasia» solo per l'eutanasia volontaria. Pag. 8
  Quindi, rifiuta l'espressione «eutanasia passiva» e distingue, appunto, tra non inizio delle cure salva vita, interruzione dei trattamenti salva vita già iniziati, cure palliative profonde continue nello stato di fine vita, suicidio assistito ed eutanasia volontaria. Ecco, queste distinzioni sembrano molto importanti perché, al di là di quello che si può pensare sul suicidio assistito e l'eutanasia, il rifiuto delle cure o anche l'interruzione di trattamenti già iniziati non va confuso con l'eutanasia.
  Detto questo, come diceva il professor Canestrari, credo sia veramente importante una legge non burocratizzata e leggera che dia la possibilità alle persone che lo vogliono di poter redigere queste dichiarazioni anticipate di trattamento, con la certezza che verranno rispettate.
  L'ultima osservazione è sull'importanza della figura del fiduciario, che potrebbe avere un ruolo di mediazione tra il medico e il paziente all'inizio di una grave malattia o quando c'è ancora molta ambiguità tra il voler e non voler sapere nei primi stadi.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
MARIO MARAZZITI

  GRAZIA ZUFFA, Psicologa e psicoterapeuta. Cercherò di illuminare soprattutto gli aspetti psicologici che riguardano la relazione paziente-medico, o per meglio dire fra chi è curato e chi presta cura, perché si va al di là del discorso del medico.
  Se si mettono in evidenza i cambiamenti culturali che sono venuti avanti rispetto a questo, anche alcune questioni che mi pare travaglino il legislatore, come l'impegnatività o meno e gli ambiti dei trattamenti delle disposizioni, si chiariscono molto bene.
  Credo che dobbiamo tener presente un discorso più generale che illumini le novità dello sviluppo della medicina – qualche aspetto è stato appena accennato dalla mia collega – e il mutamento del concetto di salute. Questi sono, infatti, i mutamenti di sfondo.
  Siccome ho poco tempo, per ciò che riguarda le novità nello sviluppo della medicina vorrei riportare una frase molto illuminante della bioeticista americana Nancy Neveloff, professoressa di bioetica alla Columbia University, quando dice che molti interventi si potrebbero definire non come un prolungamento della vita, ma come un'estensione e complicazione del processo di morte.
  Trovo questa frase particolarmente felice perché illumina un grave problema. Questo è l'aspetto più problematico degli avanzamenti della medicina, con tutto il bene che ne è derivato. Vi è, insomma uno sbiadire (blur, direbbero gli anglosassoni) del confine tra la vita e la morte, cosa che spinge necessariamente a una nuova rilevanza della tensione soggettiva in primo luogo del paziente, ma anche di chi presta la cura. Si presenta un dilemma esistenziale: quale significato ha per me questo stato di sopravvivenza per certi versi naturale? Quale significato può avere questa sopravvivenza così strettamente legata all'artificialità?
  Voglio sottolineare che questa ricerca di senso non è solamente del paziente, che ovviamente è il più coinvolto, ma investe anche il medico. Ecco, se il medico non vuole essere un semplice esecutore di protocolli clinici, deve chiedersi qual è la ricerca del significato dell'intervento medico e qual è la finalità che si persegue con quell'intervento. Non è una questione puramente tecnica. Un senso per la persona su cui si esercita il trattamento diventa centrale e, a mio avviso, anche un elemento di nuova qualificazione professionale.
  Questo è importante perché permette di vedere in altra luce e di rappresentare in maniera diversa il problema. Osservando la discussione, si nota che spesso il problema è rappresentato in maniera avversativa: da una parte c'è la volontà del paziente e dall'altra la competenza o autonomia del medico. In realtà non è così; questa è una falsa rappresentazione.
  In primo luogo, quando parliamo di soggettività dobbiamo sempre tener presente che non parliamo solo di volontà e razionalità, ma anche di sentimenti e di emozioni, quindi di una sfera molto più complessa. Inoltre, il medico è chiamato a Pag. 9qualcosa di un po’ più impegnativo che non la cura del corpo secondo protocolli.
  D'altra parte, la centralità della dimensione soggettiva deriva anche dalla nuova concezione della salute – che ormai è dello scorso secolo – con lo spostamento dall'assenza di malattia al benessere, che quindi si richiama la soggettività perché quello che è importante è il sentirsi bene. Insomma, c'è un nuovo protagonismo della persona nel suo complesso, non solo dell'assenza di malattia e della dimensione fisica.
  Questo come può illuminare rispetto alle due questioni più controverse? Come diceva anche la collega, credo che una via provenga anche dalla Convenzione di Oviedo, là dove è vero che si usa l'espressione «tenere di conto», ma nel rapporto esplicativo della Convenzione si spiega bene che questo «tenere di conto», evitando la dizione di vincolatività in senso stretto, è giustappunto relativo al lasso di tempo che intercorre fra le disposizioni e l'eventuale loro applicazione. Si tratta, cioè, di tenere conto degli eventuali nuovi trattamenti o avanzamenti tecnologici che possono permettere di interpretare quella che era la volontà della persona. In questa luce, ci rendiamo conto che la direttiva rimane impegnativa. È possibile il medico tenga presente questi avanzamenti, ma sempre per rimanere il più possibile aderente a quelle che erano le disposizioni.
  D'altronde, per il mestiere che faccio la dimensione del caso clinico è sempre quella più importante perché scende nel particolare. Pensiamo al paziente competente, che versa in una situazione molto grave e sente che non ha più il controllo sui trattamenti che gli vengono fatti. Alla sofferenza della malattia si aggiunge un'enorme sofferenza, quella della perdita di controllo completa su qualsiasi dimensione della vita.
  Se questa è la situazione psicologica che si presenta nel paziente ancora lucido a cui vengono imposti dei trattamenti che non vuole, come nel caso del paziente a cui si applicano le disposizioni quando non è più competente, questa non può essere una scusa per non considerare quella che è stata la sua volontà.
  Da un punto di vista etico, proprio perché il paziente non è più in grado di esprimere con la propria voce la sua volontà, diventa ancora più importante seguirla.
  Per ciò che riguarda gli ambiti di applicazione della dichiarazione, devo dire che la discussione che ho visto andare avanti fra trattamenti sanitari a cui si potrebbe rinunciare e trattamenti assistenziali come l'idratazione o l'alimentazione artificiali, che in quanto tali non potrebbero o non dovrebbero essere rifiutati, non mi appassiona per nulla.
  Dico molto francamente che questo problema delle definizioni mi sembra una discussione da medicina difensiva. Dal punto di vista del paziente, che è quello che ci deve interessare, che si definiscano in un modo o in un altro, si tratta sempre di una violazione della persona, per cui definirli in un modo o in un altro non sottrae alla libertà della persona se accettarli o meno.
  Vorrei dire ancora una cosa. Siccome sono stata parlamentare, quindi sono stata legislatrice anche io, credo che, come diceva il professor Canestrari, sia importante che il fine della legge non sia tanto ribadire un diritto che già esiste, perché quello alla rinuncia alle cure è un diritto costituzionale della persona, quanto fare in modo che questo diritto sia applicato.
  A mio avviso, la norma più importante per assicurare questo diritto è scrivere che il medico che si attiene alle dichiarazioni è esentato da responsabilità. Questo è, secondo me, l'obiettivo più importante della legge perché il diritto costituzionale esiste e, di conseguenza, copre già tutta la problematica.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi deputati che vogliano porre delle domande.

  MARIA AMATO. Innanzitutto, vorrei ringraziare chi è venuto a condividere sapere ed esperienza.
  Professor Canestrari, sul discorso dell'obiezione di coscienza o astensione, stiamo vivendo la tragedia degli obiettori di coscienza sulla legge n. 194 del 1978, ma c'è un diritto del medico, quindi qui parliamo di un'altra cosa. Pag. 10
  Deontologicamente, come medico, il fine vita mi appartiene. Non è pensabile che mi sia data una possibilità di scelta. Non parliamo di eutanasia perché non devo fare un atto, ma rispettare un diritto, che è quello del rifiuto delle cure. Questo mi appartiene perché devo assistere il paziente fino alla fine. Non posso scappare; nessuna legge mi deve dare la possibilità di scappare. Altro è se ho bisogno di un intervento che richiede una competenza specifica, come quello della palliazione. In quel caso chiamo aiuto, ma non lascio il paziente. Dare ai medici la possibilità di tirarsi indietro è una diminutio dell'arte medica e della deontologia dei medici.
  Riguardo alle direttive vincolanti, una cosa è se coinvolgono persone coscienti, quindi tutti gli oncologici o i pazienti di malattie degenerative, un'altra se si parla di demenza. Ecco, come ci può aiutare rispetto agli psichiatrici o agli stati vegetativi? Cosa possiamo ancora inserire perché si risponda anche a questa parte che poi è quella più gravosa da affrontare?
  Dissento sulla medicina scarsamente umanizzata a causa delle macchine. La medicina è già disumanizzata per una sanità che è fatta di costi e prevalentemente di principi fondati sul quanto si spende. Il quanto si spende è proporzionale a quanto tempo si passa con il paziente. La relazione nella vita e nel fine vita, quel patto di alleanza, ha un senso se c'è il tempo di avere a che fare, per la parte di relazione psicologica, con il paziente e la sua famiglia.
  Ho vissuto un'esperienza con un paziente con l'Alzheimer, la cui la moglie si rifiutava di lasciarlo andare. Abbiamo provato a convincerla del fatto che non aveva più la consapevolezza. Lei ci faceva colazione tutte le mattine, lui non lo ricordava ma lei sì. Ecco, per noi è stato difficile affrontare la relazione con la famiglia piuttosto che con il paziente, che ovviamente non si relazionava.
  Insomma, c'è anche tutta questa dimensione. Affinché le direttive anticipate di trattamento siano un diritto di tutti devono arrivare a comprendere tutte le sfaccettature e tutte le patologie. Il problema più grande che riporto è quello delle demenze e degli stati psichiatrici.

  MARISA NICCHI. Vorrei fare una richiesta di approfondimento sull'obiezione, cioè sulla possibilità di astenersi, che è un tema che troveremo molto complicato da trattare nella stesura.

  PRESIDENTE. Nei vostri interventi c'è stata un'attenzione positiva e negativa alle diverse terminologie, cioè a cosa lasciar fuori da questo tema (suicidio assistito, rifiuto, interruzione di terapie già in corso e così via). Allora, il problema non è il diritto a non chiedere delle cure, che è normalmente consolidato perché basta, semplicemente, non andare dal medico. Questo non è mai stato in discussione.
  Il nodo è nell'intraprendere delle terapie che potrebbero essere invasive rispetto alla proporzionalità dell'effetto. Vi chiedo, quindi, se è legittimo rifiutare terapie come una trasfusione di sangue, se uno non ha più nessun globulo. Ecco, vi chiedo se accettare il rifiuto per l'invasività della trasfusione di sangue non sia suicidio assistito.
  Inoltre, tra le tante cose, mi sembra interessante l'osservazione che faceva la dottoressa Zuffa. Il medico non è solo un esecutore di atti clinici. Su questo c'è un dibattito aperto perché una parte consistente di medici dice che non vuole essere solo notaio delle volontà dei singoli. Paradossalmente, rispetto a questo, lei utilizza lo stesso argomento, ma in maniera addirittura opposta, per quello che ho ascoltato. In pratica, il medico non è un esecutore di atti clinici o delle volontà del paziente perché farsi carico del senso della qualità della vita è una qualificazione aggiuntiva della professione medica.
  A questo punto si inserisce, però, il problema soggettivo; il senso può essere il senso che gli dà il paziente oppure un senso oggettivo che riqualifica, appunto, in un senso anche sociale, la qualità della vita del paziente.
  Non so se sono stato chiaro, ma credo che siate abbastanza sofisticati da capire qual è il problema che voglio evidenziare.
  Do la parola agli auditi per una breve replica.

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  STEFANO CANESTRARI, Professore ordinario di Diritto penale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Vorrei essere chiaro. Finora ho parlato del rifiuto o della rinuncia alle cure da parte di un soggetto competente, quindi in grado di intendere e di volere. Non ho aperto discorso del minore legato all'età perché, francamente, quello richiederebbe più spazio.
  Come diceva giustamente l'onorevole Amato, qui c'è un diritto costituzionale. Mi sorprendo, pertanto, di alcuni progetti di legge che parlano di un rifiuto di cure sproporzionate perché il soggetto ha diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, se è in grado di intendere e di volere.
  Quindi se è maggiorenne e competente, è in grado di dire che non vuole la chemioterapia, anche se l'esito è letale, o l'amputazione dell'arto. Ugualmente, deve avere gli stessi diritti il soggetto che è dipendente da un presidio sanitario. Costui non deve avere meno diritti, ma può rinunciare al proseguimento di un trattamento sanitario.
  È vero che quando la conseguenza è letale muore. Non ha, però, un diritto al suicidio, ma all'integrità del proprio corpo, quindi a rinunciare al proseguimento di un trattamento sanitario. Questo è – ripeto – un diritto costituzionalmente imposto, non solo se la cura è proporzionata o se è accanimento. Tutti noi abbiamo diritto a non subire intromissioni nella nostra sfera corporea.
  Ora, la nutrizione o idratazione artificiali sono trattamento sanitario o meno? A mio parere sono trattamenti medico-sanitari. A ogni modo, come diceva la dottoressa Zuffa, il soggetto ha diritto di rifiutarli. Tutti noi abbiamo diritto, perché è la nostra Costituzione che ce lo dice.
  Mentre secondo il codice Rocco la salute e la vita erano funzionali allo Stato, qui il cittadino ha un diritto pieno. Credo che qualsiasi legge sarebbe incostituzionale se negasse questo diritto. Ora, però, c'è una differenza che riguarda il medico. Se uno dice che non vuole la chemioterapia, il medico non può fare nulla. Ci mancherebbe. Non può legare il paziente al lettino e amputargli un arto.
  Tuttavia, onorevole Amato, nel caso in cui il malato intende interrompere un trattamento sanitario non sono d'accordo con la letteratura di alcuni giuristi – faccio riferimento alla Unterlassung durch Tun, una tesi di alcuni giuristi di lingua tedesca – che dicono che il medico deve semplicemente omettere di proseguire un trattamento sanitario. Qui il problema del diritto di astensione c'è. Devo riconoscere, con onestà intellettuale, il fatto che il medico deve porre in essere un segmento, un brandello di attività commissiva, cioè un facere; dovrà staccare una spina, ruotare una manopola. Insomma, deve pur fare qualcosa.
  Allora, non penso che si possa obbligare il medico con una sanzione nel caso in cui non se la senta. L'ordinamento liberale deve garantire al medico non l'obiezione di coscienza, che non mi piace, sono d'accordo con lei, perché sembra che ci sia un vulnus. Tuttavia, può ben darsi che un medico abbia cercato di curare un paziente, l'abbia assistito per molti anni di fila e non se la senta di porre in essere quello che è sì un diritto costituzionale, ma dal punto di vista dei medico è comunque un'attività, un facere.
  Allora, non possiamo sanzionare quel medico se non se la sente, ma dobbiamo riconoscergli un diritto non a un'obiezione di coscienza, che abbiamo destinato all'interruzione volontaria di gravidanza in cui non c'è una richiesta. Qui, invece, c'è una richiesta. Ecco, lo chiamerei diritto di astensione, ma normativamente direi subito che la struttura sanitaria deve garantire comunque quel diritto al paziente.
  Lo so, onorevole, che questo complica le cose, però non possiamo – come giuristi, come intellettuali o anche come legislatori – negare l'evidenza che il medico debba fare qualcosa. Questo fare qualcosa non significa mettere in atto pratiche eutanasiche perché si tratta dell'attuazione di un diritto costituzionale. Il medico deve cercare di convincere e persuadere il paziente a curarsi e a non morire, ma di fronte a un rifiuto il diritto del paziente va rispettato.

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  PRESIDENTE. Se c'è il diritto all'astensione, ma la struttura è tenuta a garantire ugualmente quella volontà, non si considera che un paziente è preso in carico da qualcuno che ha una responsabilità terapeutica. Insomma, in questo modo si interrompono molte cose.

  STEFANO CANESTRARI, Professore ordinario di Diritto penale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum dell'Università – Bologna. Il discorso non è semplice. Nel caso di Piergiorgio Welby è stato cambiato il medico.

  PRESIDENTE. Il nodo è qui. Lei lo ha spiegato in modo chiarissimo.

  STEFANO CANESTRARI, Professore ordinario di Diritto penale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum dell'Università – Bologna. Un ultimo punto di cui non ho parlato in precedenza è che la rinuncia al trattamento sanitario può avvenire anche tramite lo strumento delle disposizioni anticipate di trattamento. Mi piace il termine «disposizioni», che non è «direttive», nel senso di una vincolatività automatica.
  Questo significa che il vincolo al rispetto non è un obbligo meccanico di esecuzione di un precetto, ma un dovere di sostanziale attuazione dell'intento del malato in relazione alle circostanze concrete. In pratica, deve essere verificata la vincolatività e il rispetto di queste disposizioni in base alle circostanze concrete.
  Concludo nel dire che trovo buona la legge che è stata scritta in Germania. Nella memoria scritta avrò, se posso, l'occasione di illustrare anche la normativa dei Paesi di lingua tedesca.

  MONICA TORALDO DI FRANCIA, Vicepresidente del Comitato etico pediatrico della Toscana e professoressa di Bioethics presso la Stanford University, Breyer Center for Overseas Studies in Florence. Vorrei rispondere al discorso della disumanizzazione della medicina. È chiaro che non dipende solo dalle macchine, che anzi hanno un grande valore, ma innanzitutto dalla mancanza di tempo e di ascolto. Non a caso, oggi c'è un dibattito sull'integrazione della evidence based medicine con la narrative based medicine, proprio per far capire quanto è importante il momento del colloquio e dell'ascolto del paziente.
  Venendo, invece, al tema più delicato, che è quello che credevo di aver affrontato nella mia breve esposizione, cioè quello degli stati psichiatrici e dello stato vegetativo persistente, mi rendo conto che per quanto riguarda gli stati neurodegenerativi della coscienza, cioè le demenze o l'Alzheimer, la questione è delicatissima. Credo che anche in questi casi vada rispettata la volontà espressa dal paziente quando è ancora in grado di esprimerla. Naturalmente, su questo ci sono tanti problemi, ma in questo caso si tratterebbe di esprimere la volontà di non essere rianimati o curati, qualora avvengano determinati fatti.
  Per quanto riguarda, invece, lo stato vegetativo, credo di essere stata chiara nel dire che, secondo me, nelle direttive anticipate si dovrebbero poter includere tutti i trattamenti sanitari e assistenziali, comprese idratazione e nutrizione artificiali, che comunque sono atti invasivi della sfera fisica, ma anche psichica.
  Detto questo, l'ultimo punto che mi sembra importante, che tratterà anche la collega Zuffa, è quello del senso della professione medica, che ha posto il presidente. Quando parlavo di alleanza terapeutica dicevo che oggi, stranamente, è più facile che si determini nelle condizioni in cui la medicina dichiara la propria sconfitta. Quando non c'è più possibilità di guarigione o di terapie, per cui si passa alle cosiddette «cure palliative», è proprio nella pianificazione di queste e nella presa in carico del paziente nella sua globalità di persona che si instaura quella alleanza terapeutica che sta tanto a cuore a tutti. Questo dovrebbe investire di senso profondo l'arte medica, che è, appunto, un'arte non solo una scienza.

  PRESIDENTE. Nella domanda era implicita la richiesta di un parere sull'idea di pianificazione condivisa dei trattamenti sanitari come acquisizione e di riempimento di senso dell'alleanza terapeutica.

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  GRAZIA ZUFFA, Psicologa e psicoterapeuta. Sappiamo che ci sono due paradigmi fondamentali per ciò che riguarda la medicina. Abbiamo un paradigma oggettivante in cui la medicina si esercita sul corpo come oggetto, che nasce dal grande avanzamento dell'autopsia, quando si cominciarono a studiare gli organi, oggettivando, appunto; l'altro paradigma è quello che viene da prima, in cui il medico era costretto a interloquire con il paziente perché c'era una ricerca a partire dei sintomi del paziente. Peraltro, è anche molto interessante, da un punto di vista storico, vedere come erano fatte diversamente le «cartelle cliniche» nei secoli scorsi.
  Ecco, paradossalmente, gli avanzamenti tecnologici obbligano a recuperare il filone del rapporto fra soggettività e medicina, che è sopravvissuto nella psicanalisi, che è un incontro fra due soggettività in cui non cambia solo il paziente, ma anche il terapeuta. Questo dialogo è una ricerca comune verso un obiettivo comune che si costruisce insieme, cambiando l'uno e l'altro.
  La può definire pianificazione, ma l'esito è quello. Secondo me, è importante il processo. Quella che va superata – capisco, però, che per ragioni storiche non è facile – è una visione di assoluta asimmetria fra il chi cura e chi è curato, per cui non solo il sapere, ma anche il potere di stabilire che cosa è bene per il paziente sta dalla parte di chi cura. Questo oggi non è più compatibile, quindi va superato. Spesso si dice, a voce, che è la medicina paternalistica che si può superare, ma nei fatti tutti i filoni culturali vanno decostruiti, per cui ci vuole un po’ di tempo per farlo.

  PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna delle memorie redatte da Stefano Canestrari (vedi allegato 1) e da Grazia Zuffa (vedi allegato 2). Nel ringraziarvi nuovamente dei vostri contributi, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.20.

ALLEGATO 1

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