XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 4 di Martedì 10 maggio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE EMERGENTI, LE SFIDE E LE NUOVE PROSPETTIVE DI SVILUPPO DELL'AFRICA SUB-SAHARIANA

Audizione di rappresentanti del Coordinamento Eritrea Democratica.
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 ,
Ghiorgis Andeberhan , Diplomatico eritreo in esilio ... 5 ,
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 8 ,
Zerai Mussie , Presidente dell'Agenzia ... 8 ,
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 10 ,
Negash Siid , Responsabile per gli affari diplomatici del Coordinamento Eritrea Democratica ... 11 ,
Longhi Vittorio , Giornalista ... 12 ,
Sibhatu Ribka , Scrittrice e attivista per la libertà e i diritti umani del popolo eritreo ... 14 ,
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 15 ,
Cimbro Eleonora (PD)  ... 15 ,
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 15 ,
Zerai Mussie , Presidente dell'Agenzia ... 16 ,
Sibhatu Ribka , Scrittrice ... 16 ,
Longhi Vittorio , Giornalista ... 17 ,
Cimbro Eleonora (PD)  ... 17 ,
Cassano Franco (PD)  ... 17 ,
Negash Siid , Responsabile per gli affari diplomatici del Coordinamento Eritrea Democratica ... 17 ,
Sibhatu Ribka , Scrittrice ... 18 ,
Drudi Emilio , Giornalista ... 18 ,
Mehari Desbele , Responsabile del Comitato per gli affari pubblici del Coordinamento Eritrea Democratica ... 18 ,
Longhi Vittorio , Giornalista ... 19 ,
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 19

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
ERASMO PALAZZOTTO

  La seduta comincia alle 14.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione tramite circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti del Coordinamento Eritrea Democratica.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti del Coordinamento Eritrea Democratica.
  Con l'odierna seduta riprendono i lavori dell'indagine conoscitiva in titolo, deliberata nel marzo 2015, il cui termine di conclusione, inizialmente fissato al 31 dicembre 2015, è stato prorogato, nella seduta del 16 dicembre, al prossimo 30 giugno.
  L'audizione di oggi, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche emergenti, le sfide e le nuove prospettive di sviluppo dell'Africa sub-sahariana, è dedicata a un approfondimento conoscitivo sulla situazione in Eritrea e sulle questioni che attengono al Corno d'Africa più in generale, grazie all'apporto di una delegazione dei rappresentanti del Coordinamento Eritrea Democratica, realtà operante in Italia e che accoglie associazioni, cittadini e rifugiati eritrei in diaspora, il cui impegno consiste nella transizione non violenta dell'Eritrea verso la democrazia e il ripristino dello Stato di diritto e, a tal fine, in un'azione di sensibilizzazione della comunità internazionale.
  Do quindi il benvenuto ad Andeberhan Ghiorgis, diplomatico in esilio, attivista per la libertà e i diritti umani del popolo eritreo, ma anche illustre accademico formatosi all'Università del Colorado e ad Harvard, autore di monografie e studi sull'Eritrea e sulle questioni riguardanti il Corno d'Africa in generale. Lo ringrazio per la sua presenza e anche per aver intrapreso un viaggio da Bruxelles al fine di contribuire ai lavori della nostra indagine conoscitiva.
  Torno a dare il benvenuto a padre Mussie Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia, che ha già partecipato ai lavori di questa Commissione, intervenendo in audizione nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, nella seduta del 21 dicembre 2010.
  Ricordo brevemente che l'agenzia Habeshia è stata istituita il 31 marzo 2006, con l'obiettivo di svolgere attività di volontariato esclusivamente per fini di solidarietà in favore di richiedenti asilo, rifugiati e beneficiari di protezione umanitaria, mediante la realizzazione di iniziative sociali, culturali ed educative volte a favorire l'integrazione degli immigrati sul territorio nazionale, nonché di attività di sostegno a progetti di rientro nel Paese di origine, fornendo ai migranti, ai profughi e ai rifugiati assistenza amministrativa e legale di formazione specialistica e servizi in sintonia con lo scopo associativo.
  Mussie Zerai, denominato l'angelo dei profughi, essendo stato lui stesso uno di loro, candidato al Premio Nobel per la pace nel 2015, è una figura di conclamato rilievo internazionale, citato dalla rivista Time tra le 50 personalità africane oggi più influenti. Pag. 4
  Anche in questa legislatura padre Zerai ha potuto rendere testimonianza preziosa del suo lavoro, della situazione in cui versa l'Eritrea, innanzitutto il 25 ottobre 2013, quando è stato ricevuto dalla Presidente Boldrini insieme a una delegazione di rifugiati eritrei e ad alcuni rappresentanti del Coordinamento Italia-Eritrea. Più di recente, il 9 dicembre 2015, è tornato in Parlamento insieme al giornalista Vittorio Longhi, che anche oggi è qui con noi, nella sede della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione, nonché sulle condizioni di trattenimento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate. Avverto che il resoconto stenografico di tale seduta è in distribuzione.
  Inoltre, è con noi appunto Vittorio Longhi, giornalista italo-eritreo, collaboratore del New York Times, che ha molto approfondito le vicende relative alla situazione in Eritrea.
  Ringrazio anche per la sua presenza Emilio Drudi, giornalista e collaboratore dell'agenzia Habeshia, e la giornalista Chiara Saturnino, anche lei qui con noi.
  Sono inoltre presenti Siid Negash, responsabile per gli affari diplomatici del Coordinamento Eritrea Democratica, Desbele Mehari, che, nell'ambito del Coordinamento, guida la Commissione per gli affari pubblici, che risiede a Milano, la signora Ribka Sibhatu, che partecipa alla nostra audizione anche in sostituzione di Woldeyesus Ammar, impossibilitato a partecipare ai lavori odierni. È altresì assente, per motivi di salute, Habtemariam Berhe, al quale rivolgiamo i nostri migliori auguri di guarigione.
  Ricordo che il 5 dicembre 2013 il Comitato permanente sull'Africa e le questioni globali, allora istituito in questa Commissione e presieduto dal collega Scotto, ha audito informalmente rappresentanti del Partito democratico del popolo eritreo. L'audizione si era allora conclusa con un impegno ad adottare un atto di indirizzo finalizzato al sostegno da parte dell'Italia per la democratizzazione dell'Eritrea ai movimenti democratici e pacifici in esilio impegnati in tal senso e a un'attenzione specifica nei confronti dei rifugiati eritrei, anche in ragione del legame storico tra Italia ed Eritrea.
  Prima di dare la parola agli auditi mi permetto di ricordare ai colleghi che il conflitto congelato tra Eritrea ed Etiopia offre ancora oggi l'alibi al regime del dittatore Afewerki per mantenere il Paese in una condizione di conflitto che perdura dal 2000, in cui ogni diritto alla libertà è sospeso e in cui l'obbligo di leva perdura sostanzialmente per tutta la vita, in cui non vi è istruzione e in cui l'unico futuro pensabile è al di fuori dei confini.
  L'Eritrea – definita la «Corea del Nord dell'Africa», Stato in cui ci sono 360 carceri e nessuna università, dove non esistono giornali, associazioni o sindacati, dove le violazioni dei diritti umani sono conclamate e sistematiche – sta perdendo infatti intere generazioni di cittadini e cittadine, costretti alla fuga quale unica alternativa alla morte certa e, comunque, resa possibile solo dalla rete di trafficanti su cui lo Stato dittatoriale, peraltro, lucra.
  Ricordo che la Commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani nel Paese, in un recente rapporto, datato 8 giugno 2015, si spinge a dire che l'Eritrea potrebbe aver commesso crimini contro l'umanità nei confronti della sua popolazione. «Gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura». Cito il rapporto, che raccoglie testimonianze su esecuzioni extragiudiziarie, schiavitù sessuale e lavoro forzato.
  Secondo il rapporto dell'ONU, il governo di Asmara è responsabile di clamorose e diffuse violazioni dei diritti umani che hanno creato un clima di paura, in cui il dissenso è represso, un'ampia porzione della popolazione è soggetta a reclusione e lavoro forzato e lo Stato controlla le persone, con un ampio apparato, penetrato a tutti i livelli della società. Le informazioni, raccolte attraverso un sistema di controllo pervasivo, sono usate in modo assolutamente arbitrario per tenere la popolazione in uno stato di ansia perenne. Questa situazione ha spinto, infatti, centinaia di migliaia di persone ad abbandonare il Paese. Pag. 5
  Ricordo che gli eritrei sono il primo gruppo di rifugiati in Italia e che, decimati dagli stenti e dai naufragi attraverso il Mediterraneo, approdano, al termine di un esodo che ha per tappa quasi certa la Libia o l'Egitto. Fino al 2015 gli eritrei erano il numero maggiore di profughi sbarcati in Italia. Oggi assistiamo a una drastica diminuzione degli sbarchi, verosimilmente legati agli accordi che l'Unione europea ha siglato col governo eritreo dopo il processo di Khartoum, che prevedono aiuti per circa 300 milioni di euro in cambio di un controllo dei flussi in uscita dal Paese. Sarebbe interessante approfondire coi nostri auditi gli effetti anche di tali accordi e le conseguenze per la popolazione.
  In tale drammatico contesto umanitario, l'audizione di oggi è, dunque, finalizzata a rappresentare la situazione in chiave geopolitica e le soluzioni possibili e urgenti di tipo politico, le uniche che possono porre fine a questa immensa tragedia umana. Il processo di Khartoum, la questione dei confini tra Eritrea ed Etiopia, le politiche di cooperazione allo sviluppo dell'Unione europea e dell'Italia, gli accordi di riammissione, le condizioni di sicurezza e le politiche di promozione culturale, il ruolo della nostra rete diplomatica consolare sono tra le leve già menzionate nelle precedenti occasioni di confronto parlamentare e che probabilmente potranno essere oggetto anche della riflessione odierna.
  Do quindi la parola all'ambasciatore Andeberhan Ghiorgis.

  ANDEBERHAN GHIORGIS, Diplomatico eritreo in esilio. Grazie, signor presidente. Onorevoli parlamentari, membri del segretariato, cari compatrioti, è un piacere e un privilegio per me partecipare a questa importante audizione parlamentare sulla situazione in Eritrea. Vorrei innanzitutto ringraziare la Commissione affari esteri della Camera dei deputati e, poi, la mia cara amica, onorevole Lia Quartapelle, che oggi purtroppo non è riuscita ad essere presente, ma che ha reso possibile questo incontro tra noi.
  Concentrerò questo mio breve intervento sui seguenti temi: in primo luogo, la natura del regime eritreo; in secondo luogo, la situazione in Eritrea, che è stata già oggetto dell'intervento di apertura del Presidente, al quale personalmente non ho molto da aggiungere, se non, forse, qualche breve accenno su alcuni aspetti salienti della situazione; in terzo luogo, la necessità di un cambiamento democratico; e infine, la necessità di solidarietà e sostegno a livello internazionale per la transizione democratica in Eritrea. In questo modo potremo avere uno scambio di vedute più mirato.
  Quando si parla della natura del regime eritreo, credo sia importante concentrarsi sul retaggio storico. La lunga e ardua battaglia del popolo eritreo è stata condotta sia per la liberazione nazionale, che per una necessaria trasformazione economica e sociale. I combattenti per la libertà eritrei erano ispirati da ideali progressisti di libertà, uguaglianza e giustizia. Abbiamo combattuto per la libertà, la democrazia e la prosperità. E io stesso, per due decenni di quella battaglia, sono stato un attivo combattente per la libertà. Purtroppo, abbiamo ottenuto esattamente l'opposto. Perché?
  Sembra un'ironia della storia che quella che era nata come agenzia per la liberazione si sia trasformata in uno strumento di oppressione. Mi spiegherò meglio. Il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FLPE), che aveva costruito un'efficace macchina da guerra per vincere la guerra di indipendenza, contro ogni previsione divenne il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia che conosciamo oggi, diventando uno strumento di repressione. Il FLPE non è riuscito a trasformarsi da organizzazione politico-militare in grado di muovere una guerra di liberazione nazionale in un movimento politico in grado di gestire gli affari di Stato.
  Il fulcro del problema è stata l'incapacità di creare un governo costituzionale. Non è strano, in Eritrea, che un movimento di liberazione nazionale originariamente progressista si sia atrofizzato. Una volta al potere, la sua leadership ha tradito gli scopi del movimento e si è posto a guardia dello status quo e degli interessi e privilegi che lo Pag. 6status quo rappresenta. Ad oggi, nessun movimento di liberazione che abbia preso il potere con la forza delle armi è riuscito a creare un governo inclusivo, partecipativo e responsabile. In questo senso, l'Eritrea non fa eccezione. E abbiamo assistito al nascere di una brutale dittatura.
  Lo sforzo di creare un governo costituzionale impegnato a sostenere principi democratici, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani è venuto meno. Sappiamo tutti che dal 1994 al 1997 gli eritrei hanno vissuto un processo relativamente partecipativo, durante il quale è stata redatta una nuova costituzione, debitamente ratificata nel maggio 1997. Ma quella costituzione, a oggi, non è mai stata applicata. La mancata applicazione di quella costituzione ha privato lo Stato eritreo di una base giuridica e il popolo eritreo della sua sovranità. Quindi, in Eritrea non si tengono elezioni. In Eritrea non c'è un parlamento; in Eritrea non c'è una magistratura indipendente. E in Eritrea non c'è un Consiglio dei ministri funzionante. Nessun ministro ha l'autorità e l'autonomia per esercitare il proprio mandato.
  L'Assemblea Nazionale e il Comitato Centrale del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, lo ricorderete, sono entrambi sospesi dal 2001. Il Tribunale Speciale ha assunto i poteri dell'Alta Corte. Non esiste libertà di espressione, libertà di riunione o libertà di associazione. Il presidente esercita poteri assoluti e governa il Paese senza limiti giuridici o istituzionali. Tutto ciò ha creato una situazione indegna in Eritrea.
  Oggi l'Eritrea soffre per l'esistenza di una brutale dittatura. Da un quarto di secolo, considerando che questo mese siamo prossimi alla celebrazione del «Giubileo d'argento» dell'indipendenza, il nostro popolo si vede negare il diritto alla scelta di un governo e a una vita in pace, libertà, dignità e giustizia. La società eritrea subisce una brutale repressione e le privazioni di un'economia razionata, che non è riuscita a soddisfare neanche le più elementari esigenze del popolo. I giovani sopportano il flagello di un servizio militare nazionale illimitato; gli eritrei di età compresa tra i 18 e i 70 anni sono obbligati a prestare un servizio militare nazionale illimitato o costretti a imbracciare le armi per combattere nelle guerre infinite del regime. Anche oggi, mentre siamo qui riuniti, un battaglione eritreo è impegnato, con la coalizione saudita, nella guerra civile nello Yemen. Casi di arresti arbitrari, detenzione a tempo indeterminato, sparizioni forzate e uccisioni extragiudiziarie di dissidenti sospetti si contano in abbondanza. La grave repressione politica e i controlli serrati, aggravati dalle difficoltà economiche, hanno spinto i giovani a scappare dal Paese in massa, mettendo a repentaglio la propria vita.
  Per scappare da questa situazione insostenibile, alcuni seguono la strada preparata dai trafficanti, altri attraversano il confine a piedi, rischiando la vita e molti muoiono per il fortissimo caldo che incontrano nel periglioso viaggio attraverso il deserto del Sahara fino al Nord Africa, oppure annegano nel loro transito verso l'Europa o cadono vittima dei trafficanti di organi nel Sinai. Ricordiamo tutti la tragedia che accadde vicino a Lampedusa, non molto lontano da qui, qualche anno fa.
  La sostituzione dello Stato di diritto con la legge di uno solo ha consentito l'arresto arbitrario di alti funzionari pubblici e di ufficiali militari colpevoli di aver chiesto riforme democratiche, di giornalisti colpevoli di essersi occupati di chi esprimeva opinioni dissenzienti e di anziani per aver sostenuto il dialogo e la riconciliazione.
  Il regime dispone la detenzione a tempo indeterminato in regime di isolamento; la tortura fisica e psicologica dei detenuti politici e dei prigionieri di coscienza; sparizioni forzate; uccisioni extragiudiziarie.
  Come ho detto prima, le libertà di espressione, di riunione e di associazione sono assenti; le organizzazioni politiche e civili autonome sono vietate; le opinioni indipendenti sono soppresse e il dissenso è considerato tradimento. La repressione politica e la stretta sulla stampa privata hanno chiuso lo spazio politico nel Paese.
  Lo Stato è proprietario dei media e ne controlla i contenuti, bandisce la diversità e criminalizza il dissenso. Il controllo dello Pag. 7Stato e la censura hanno schiacciato la libertà di espressione, facilitato la dittatura e chiuso la società. L'Eritrea è il Paese peggiore in termini di libertà di stampa e detenzione di giornalisti e dissidenti politici: tutto ciò fa dell'Eritrea «la prigione più grande del mondo». Celle ricavate all'interno dei container, celle sotterranee e centri di detenzione abbondano nel Paese e, secondo Human Rights Watch, il regime detiene almeno 10 mila prigionieri politici in condizioni atroci inimmaginabili.
  Per ragioni di tempo, anche alla luce dei tempi lunghi richiesti dalla traduzione, a questo punto preferisco continuare in modo che dopo il mio intervento si possa continuare il dibattito e avere uno scambio.
  Tutto ciò rende necessario un cambiamento. Il popolo eritreo, come tutti gli altri popoli del mondo, aspira e ha diritto alla libertà, alla dignità e alla giustizia. La repressione assoluta ha provocato una resistenza crescente al regime nel Paese e all'estero, rendendo inevitabile un cambiamento.
  I danni provocati dalla chiusura dello spazio politico e, in particolare, la centralizzazione delle comunicazioni si manifestano nell'alienazione dei cittadini e nell'isolamento del regime.
  Bandita all'interno, l'opposizione politica attiva è proliferata in esilio. Tradizionalmente, la diaspora ha giocato un ruolo fondamentale negli affari eritrei. Nonostante il suo ruolo storico e le rilevanti risorse di cui dispone, rispetto alla sua dimensione, alla sua ricchezza, alla sua «latitudine di libertà» e al margine di manovra, tuttavia, la diaspora non è stata capace di agire in proporzione al suo peso come attore nazionale.
  Profonde divisioni, obiettivi divergenti e una forte polarizzazione hanno fomentato numerosi gruppi politici, civili e del mondo dei media, negandole quella sinergia necessaria per svolgere un efficace ruolo a sostegno delle riforme democratiche e della difesa dei diritti umani in Eritrea.
  L'assenza di meccanismi istituzionali per la transizione democratica e la mancanza di libertà di espressione, riunione o associazione hanno reso impossibile nel Paese l'esistenza di un'opposizione pacifica organizzata. La situazione porta con sé il pericolo di un'implosione politica, alla stregua della Somalia.
  Tutto ciò ha reso necessario un impegno tempestivo per gestire i cambiamenti ed evitare il rischio di caos e di un insensato spargimento di sangue. È in corso uno sforzo concertato per fornire una sede inclusiva per gli eritrei favorevoli alla democrazia dentro e fuori dal Paese, affinché si lavori ad un'agenda comune e ad un'ordinata transizione pacifica verso la governance democratica.
  Tale sforzo ha portato all'organizzazione, lo scorso mese di novembre, di una Conferenza Consultiva Nazionale (NCC) a Nairobi, in Kenya. Undici organizzazioni politiche di opposizione hanno concordato di lavorare insieme al perseguimento di un obiettivo comune, istituendo un organo di contatto ad hoc (AHCO), per coordinare la preparazione di una conferenza nazionale molto più grande. Tale organo di contatto sta elaborando, in consultazione con le undici organizzazioni politiche, una visione comune e un programma di azione per un'ordinata transizione verso la governance democratica. Sta preparando anche una riunione generale delle organizzazioni di opposizione per discutere i tempi e i modi per accelerare tale transizione democratica.
  Stiamo lavorando anche per costruire un ponte politico, che metta in comunicazione l'opposizione esterna aperta e la resistenza interna clandestina, allo scopo di costruire la massa critica necessaria per realizzare un cambiamento eritreo guidato dall'interno dell'Eritrea. Questo sforzo non potrà compiersi senza un sostegno e una solidarietà efficaci a livello internazionali. Lo sforzo per compiere un'ordinata transizione democratica ha bisogno di questo genere di solidarietà. Noi dell'opposizione democratica stiamo lavorando per costruire nuove relazioni con i vicini dell'Eritrea, basate su un quadro strategico di cooperazione politica e integrazione economica e che consentano di affrontare tutte le questioni bilaterali irrisolte, per costruire pace, stabilità e sicurezza. Pag. 8
  Per il suo impegno storico e i legami culturali con l'Eritrea e la regione nel suo complesso, l'Italia può svolgere un ruolo catalizzatore, sia per l'attuazione della transizione democratica che per la promozione di pace, stabilità e sicurezza nella regione del Corno d'Africa.
  Grazie e vi chiedo scusa per aver utilizzato molto più tempo di quanto previsto in origine.

  PRESIDENTE. Ringrazio l'ambasciatore Andeberhan Ghiorgis. Do subito la parola a padre Zerai, per il seguito dell'audizione.

  MUSSIE ZERAI, Presidente dell'Agenzia Habeshia. Vi ringrazio dell'invito e di questa possibilità di portare al Parlamento italiano la nostra preoccupazione, le nostre angosce per la nostra popolazione.
  Non ripeterò quello che è stato già detto della situazione interna del Paese – vi lascerò dei documenti, che la Commissione potrà approfondire – ma come conseguenza della questione interna, i nostri giovani si trovano ad affrontare, lungo il percorso della loro immigrazione, della loro fuga, situazioni molto gravi. Anche con le scelte politiche dell'Unione europea, compresa quindi anche l'Italia, viene messa una serie di ostacoli, muri visibili e invisibili, che mettono ancora di più in pericolo e aumentano le sofferenze di queste persone, spingendole sempre più anche nelle mani dei trafficanti, che ne approfittano in tutte le maniere, fino a metterne in pericolo la vita.
  Mi preme porre al Parlamento italiano, anche tramite questa Commissione esteri, due questioni. Che cosa può fare l'Italia nel suo ruolo, anche all'interno del Parlamento europeo, per trovare soluzione al problema alla radice, nel Paese di origine? Che ruolo sta giocando l'Italia in questo senso?
  Come ha ricordato l'onorevole Palazzotto, c'è una situazione di guerra non guerreggiata, che dura da più di quindici anni, tra Etiopia ed Eritrea. Ogni volta che si menziona questo tema c'è una certa timidezza, o come si vuole definirla, sul piano politico-diplomatico; non si vuole irritare un governo o l'altro. Non si riesce a mettere intorno a un tavolo i due Paesi in conflitto, nonostante alcuni Paesi europei, tra cui l'Italia, si siano fatti garanti per il cessate il fuoco e la successiva applicazione della decisione della Commissione ONU, che ha ridisegnato i confini, dando il suo risultato già nel 2002.
  Da allora, quel risultato, quella decisione finale non è mai stata applicata, perché i due Paesi non sono riusciti a mettersi a un tavolo: l'Eritrea ha detto che accettava, ma da parte dell'Etiopia c'è ancora resistenza. Che cosa si sta facendo per mediare, per spingere affinché i due Paesi dialoghino, arrivino a una soluzione finale? La questione del confine, come è stato già menzionato, è diventata un perfetto alibi per il regime eritreo, per dire che siamo in guerra e che durante la guerra si sospendono tutti i diritti. Oggi chiedere più democrazia, più diritti, più libertà in Eritrea è un lusso che non ci possiamo permettere, perché abbiamo ancora i nostri territori occupati dall'Etiopia. Così si giustifica il regime. Così ha giustificato la non entrata in vigore della costituzione. Così ha giustificato l'arresto di mezzo governo, di tutti i ministri e di diversi capi militari, che sono stati arrestati già nel 2001, successivamente a una serie di altri arresti di giornalisti, leader religiosi, obiettori di coscienza. Tutti sono stati accusati di alto tradimento, perché, in tempo di guerra, si sono permessi di volere più democrazia, più diritti.
  Se vogliamo risolvere alla radice il problema, il primo è quello della questione del confine tra Eritrea ed Etiopia. In questo chiediamo l'impegno dell'Italia in sede europea affinché spinga i due Paesi a dialogare e arrivare alla fine di questo conflitto non guerreggiato.
  L'altro versante è come proteggere, come prevenire che migliaia di giovani in fuga da questa dittatura finiscano nelle mani dei trafficanti e morti ammazzati nel tentativo di varcare il confine, come è successo neanche un mese fa, quando sono stati ammazzati undici ragazzi, alcuni al centro di Asmara, altri al confine tra Eritrea e Sudan. Anche questo è frutto, risultato Pag. 9 del processo di Khartoum, dell'Accordo di Malta e delle pressioni che l'Unione europea sta esercitando in direzione di questi Paesi.
  Come impedire l'uscita di questi giovani in direzione dell'Europa? I regimi usano anche questi metodi brutali, sparando, uccidendo i giovani. Già quando è iniziato il processo di Khartoum, nell'ottobre 2014, proprio mentre a Khartoum si parlava e si discuteva, sono state uccise altre quindici persone, tra cui ragazzini di quindici anni.
  Allora, anche nelle scelte politiche che si stanno facendo per prevenire l'arrivo dei flussi di rifugiati stiamo mettendo comunque a rischio la vita di queste persone. Chiedo, invece, all'Italia, ma, tramite voi, anche all'Unione europea, di porre in essere strumenti di prevenzione per proteggere la vita di queste persone, proteggerle da chi vuole ucciderle, da chi le ha considerate traditrici perché stanno lasciando il Paese, fuggendo dalla dittatura perché vogliono libertà, dignità e diritti, per proteggerle, dall'altra parte, dai trafficanti che le aspettano, pronti a venderle, a derubarle, a metterle sui barconi per raggiungere l'Europa.
  Fin dal 2009, con la mia associazione, abbiamo denunciato il traffico di esseri umani e di organi che andava avanti nel Sinai e che oggi continua nel Sudan. Proprio ieri ho ricevuto la telefonata di una madre a cui è stata sequestrata la figlia di 15 anni al confine tra l'Eritrea e il Sudan. La ragazzina è stata rapita; hanno abusato di lei e oggi chiedono alla madre di pagare ottomila dollari di riscatto per la sua liberazione. Questo va avanti, spesso anche con la complicità della polizia sudanese, nonostante il Sudan faccia parte del processo di Khartoum, che si era impegnato a lottare proprio contro il traffico di esseri umani. Abbiamo continue testimonianze di persone che vengono rapite dai campi profughi, come Shagarab, nonostante la sicurezza di questo campo sia stata affidata al governo sudanese. Se i poliziotti stessi sono complici dei trafficanti, chi protegge i rifugiati?
  Continuiamo a fare proposte. Anche nell'ultima proposta del Governo italiano, il migration compact, si continua a parlare di creazione di campi profughi nel Nordafrica, ma chi garantisce la sicurezza di questi campi? Dalla Libia riceviamo testimonianze di persone che vengono rilasciate dai centri di detenzione se pagano 700 o 1.000 dollari. Ci sono addirittura complicità tra le milizie che gestiscono i centri di detenzione e i trafficanti che organizzano i viaggi. In pratica, si pagano 700 o 1.000 dollari al poliziotto per uscire dal campo e poi lui stesso mette la persona nelle mani di quelli che organizzano il viaggio verso l'Europa. Dopodiché, occorre pagare altri soldi. Gli eritrei che fortunatamente arrivano vivi spendono una media di cinquemila dollari a persona.
  L'urgenza dell'Eritrea, però, non è economica, ma di diritti. Abbiamo bisogno di uno Stato di diritto, che garantisca la libertà, la dignità e i diritti fondamentali dei cittadini e che permetta loro di vivere in pace nel loro territorio. I soldi che oggi vanno a ingrossare le tasche dei trafficanti potevano essere spesi nel Paese. Invece, non è stato così perché non ci sono le condizioni. L'Unione europea vuole investire nello sviluppo nel Paese, ma non ci sono le basi. Non c'è uno Stato di diritto su cui fondare uno sviluppo economico, sociale e culturale. Non ci sono i diritti.
  Tutto il Paese è considerato sotto il servizio civile – il cosiddetto «servizio nazionale» – a tempo indeterminato, per cui qualsiasi professione che si esercita è sotto il servizio nazionale, con uno stipendio di 15 euro al mese. Questo è il motivo della fuga.
  Le persone vengono considerate migranti economici, ma non lo sono, perché la povertà è usata come strumento di controllo e di repressione. Non mancano le occasioni di lavoro in Eritrea. Basta confrontare quello che succedeva prima del 1997 e quello che succede oggi.
  Prima del 2003 non c'era il flusso che arriva oggi in Europa. Arrivava al massimo qualche centinaio di persone, ma non c'era l'esodo a cui stiamo assistendo adesso. Come mai è scoppiato tutto dopo il 2003, al punto che sono arrivate ogni anno oltre 30 mila persone solo dall'Eritrea? Questo è Pag. 10accaduto quando sono venute meno le condizioni basilari per poter vivere, investire e lavorare; quando lo Stato ha cominciato a voler controllare e decidere, al posto delle persone, quale professione devono fare e che tipo di vita devono condurre. La libertà personale è stata azzerata, come anche la libertà religiosa.
  Solo le religioni che sono state accettate ufficialmente dal regime possono essere esercitate; gli altri culti sono perseguitati, come i gruppi dei Pentecostali, dei Testimoni di Geova o di altri movimenti religiosi minori, e i loro leader sono finiti nei container sotterranei, dove diversi di loro hanno perso la vita.
  L'Unione europea sta cercando di dialogare con questo regime e sta investendo risorse. Sono stati già firmati degli accordi. Da quello che mi risulta, molti appalti sono stati assegnati a compagnie o a organizzazioni italiane. Più di 170 milioni di euro sono stati appaltati a diverse aziende italiane. L'Italia ha, dunque, l'atteggiamento di chi non vuole rompere le uova nel paniere, per non ostacolare le sue aziende che hanno vinto gli appalti. Invece, io chiedo, anche in virtù dei legami storici che ci sono tra l'Eritrea e l'Italia e delle responsabilità che l'Italia ha nei confronti del popolo eritreo e non del regime di turno, di non chiudere occhi e orecchie di fronte alle violazioni, agli abusi e alla tragedia che il popolo eritreo sta vivendo.
  I nostri fratelli e i nostri padri hanno attraversato trent'anni di guerra per avere libertà, democrazia e dignità, non per avere la dittatura che ci siamo trovati oggi. Chiediamo, quindi, all'Italia di impegnarsi in prima fila. Oggi, l'Italia è il primo partner commerciale dell'Eritrea, ma questo partenariato commerciale non deve farle chiudere gli occhi di fronte alla tragedia che sta vivendo il nostro popolo. Oggi, in Eritrea, come in Etiopia, c'è una carestia devastante. Eppure, il regime non ne parla; non ha chiesto nessun aiuto. La gente soffre la fame in silenzio. Anche questo spingerà milioni di persone a fuggire, perché la loro è una fuga per la vita. Il primo terminale è, ovviamente, l'Italia.
  Pertanto, chiediamo l'impegno dell'Italia, sia per risolvere il problema alla radice, spingendo il regime all'apertura di un percorso democratico e di rispetto dei diritti fondamentali di cittadinanza, sia per proteggere meglio le persone nei Paesi di transito, anche usando gli strumenti del corridoio umanitario o dei visti umanitari.
  Cito l'esempio di Sant'Egidio e della Chiesa Valdese, che, qualche settimana fa, hanno organizzato, dalla Siria, dalla Giordania e dal Libano, la partenza di 200 rifugiati, che sono arrivati legalmente, in modo protetto, per un costo relativo di 3-400 euro a persona, mentre l'agenzia Frontex spende una media di tremila euro a persona per espellerla dal territorio europeo verso il Paese di origine. Noi possiamo far venire legalmente le persone bisognose di protezione internazionale, con costi molto ridotti. Si può fare, se c'è la volontà politica di proteggere la vita di queste persone. Possiamo spingere i Paesi coinvolti nel processo di Khartoum, che si sono assunti la responsabilità di lottare contro il traffico di esseri umani, a farlo seriamente perché oggi in Sudan, in Libia e in Egitto il traffico continua; le persone continuano a morire e sono ancora violati i loro diritti.
  Ad Assuan le stazioni di polizia sono piene di profughi eritrei che sono arrivati lì cercando un posto sicuro e sono trattenuti in condizioni penose, con maltrattamenti e abusi quotidiani. I governi di questi Paesi stanno facendo questo anche in nome e per conto dell'Unione europea, che fa pressione su di loro perché impediscano l'arrivo di queste persone.
  Al di là del muro che è stato costruito, i nostri ragazzi stanno soffrendo. Questo li sta spingendo nelle mani dei trafficanti, dunque chiedo a voi di impegnarvi perché si trovi una soluzione nel Paese di origine, ma anche dei meccanismi di protezione lungo il percorso della loro migrazione. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio padre Zerai. Chiedo ai nostri ospiti di provare a sintetizzare il più possibile, considerati i tempi ristretti. Pag. 11
  Do ora la parola a Siid Negash, responsabile per gli affari diplomatici del Coordinamento Eritrea democratica.

  SIID NEGASH, Responsabile per gli affari diplomatici del Coordinamento Eritrea Democratica. Ringrazio gli onorevoli presenti e tutti i colleghi eritrei che sono venuti, da lontano e da vicino. Io rappresento il Coordinamento Eritrea Democratica, poiché il presidente non è riuscito a venire, per motivi personali.
  Vi daremo un documento, che non leggo perché è lungo, di cui vorrei sintetizzare i punti cruciali. Lo abbiamo chiamato «Eritrea in movimento», per dire che c'è, appunto, un'Eritrea che è in movimento, sia quella dei profughi che arrivano fino in Italia, sia quella che va verso il cambiamento. Infatti, noi vogliamo portare un cambiamento serio, reale e utile per tutto il Corno d'Africa, ma anche per l'Italia e per l'Europa.
  Vogliamo, innanzitutto, dire come. Partiamo da un fatto. Il 3 aprile 2016, pochissimo tempo fa, ad Asmara, in Eritrea, ci sono stati 11 morti e 18 feriti. Come diceva Abba Mussie, il governo ha sparato a dei civili proprio dentro la capitale. Subito dopo l'esecuzione di domenica 3 aprile, l'Europa ha firmato un accordo di finanziamento alla dittatura eritrea, con 175 milioni di euro per lo sviluppo, ottenendo in cambio una repressione dei rifugiati. Infatti, da decenni le traversate del deserto e quelle nel Mediterraneo sono eritree, come ha detto l'Ambasciatore, spiegando tutta la situazione
  Il Coordinamento Eritrea Democratica, che riunisce diversi gruppi della diaspora in Italia, collabora con movimenti e gruppi di azione politica in Europa e negli Stati Uniti, ma anche all'interno del Paese, anche se in Eritrea l'opposizione non è legale. Vogliamo, quindi, creare un movimento in rete per creare un'Eritrea aperta al mondo. Questo è uno dei nostri obiettivi principali, perché attualmente è un regime chiuso. Un anno e mezzo fa ci siamo già proposti, qui alla Camera e al Governo italiano, come un soggetto politico rappresentativo degli eritrei in diaspora, alternativo al regime dittatoriale, quindi come un interlocutore valido e competente per i progetti che riguardano il nostro popolo.
  Noi vogliamo che si parli con noi riguardo al nostro popolo. Se si vuole, si può parlare anche con il regime eritreo. Tuttavia, i rifugiati politici quando arrivano in Italia o negli Stati Uniti ricevono la protezione internazionale proprio perché c'è la convinzione che in Eritrea c'è un regime. Vogliamo, dunque, che chi sta qui e sta lottando diventi un interlocutore serio e credibile, ma anche considerato per i progetti che riguardano il nostro popolo.
  A cominciare dal processo di Khartoum, nessuno ha interloquito con il nostro movimento e il nostro coordinamento. Ciò nonostante, vogliamo proporci ancora. Più in generale, vogliamo interloquire con il ritrovato interesse di Roma e dell'Unione europea per il Corno d'Africa, anche per gli aiuti allo sviluppo. Non stiamo dicendo che l'Eritrea non debba essere aiutata. Stiamo dicendo che l'Eritrea, per essere aiutata, deve sottostare ad alcuni accordi. Vogliamo avere noi il coltello dalla parte del manico, non darlo al regime eritreo, anche perché, prima di tutto, il regime eritreo non ha mai chiesto aiuto. È l'Europa che gli sta dando aiuto. Questo significa che è l'Europa che vuole dialogare con il regime.
  Se vogliamo dare un aiuto, dobbiamo chiedere alcune cose serie, come si fa, appunto, con i Paesi seri. Innanzitutto, vogliamo la liberazione di tutti i prigionieri politici, da attuare sotto il controllo di una commissione internazionale di cui il Governo italiano dovrebbe farsi promotore. È una cosa semplice da costruire, che si è fatta in tantissime situazioni. Con un aiuto, si può iniziare a dialogare per la costruzione di un percorso di questo genere.
  In secondo luogo, chiediamo la fine del servizio militare, che è previsto dalla legge, ma la legge marziale, dopo la guerra, ne ha aumentato la durata, definendolo a tempo indeterminato. Normalmente, invece, dovrebbe essere di 18 mesi.
  Ancora, chiediamo l'avvio di una fase di transizione per arrivare, nel più breve tempo possibile, sempre sotto il controllo di una commissione internazionale, a libere elezioni con un sistema multipartitico, Pag. 12come prevede non un qualsiasi altro Paese che vuole esportare una Costituzione o una democrazia, ma la costituzione eritrea approvata nel 1997 e soffocata dal regime. La nostra Costituzione prevede – ripeto – un sistema multipartitico.
  Inoltre, chiediamo la trasformazione dei finanziamenti – abbiamo detto «trasformazione», non «cancellazione» – previsti nell'ambito del processo di Khartoum per rafforzare la sicurezza delle frontiere in borse di studio destinate ai profughi rifugiati nei Paesi confinanti. Diciamo borse di studio perché pensiamo che se si aiutano i profughi che si trovano in Sudan e in Etiopia e si fa un empowerment è più probabile il loro rientro in Eritrea. In questo modo, si fa un lavoro concreto per fermare i profughi nei Paesi di transito. Invece, se l'aiuto va al governo eritreo, questo sparerà comunque, per cui la gente uscirà e verrà qui.
  Noi possiamo aiutare le persone capaci e utili per il futuro dell'Eritrea. Possono studiare in Etiopia, che ha dato la possibilità di far studiare i profughi eritrei gratuitamente, nelle sue università. Tuttavia non possono vivere gratis; possono solo studiare gratis. Ecco, questo è un aiuto banale che si può dare.
  Vengono dati milioni al regime. Noi, invece, stiamo proponendo di trasformarli in progetti di cooperazione concreti, che possono fermare le persone e formare un’élite che può guidare il Paese in futuro.
  Come coordinamento, siamo pronti a collaborare con lo Stato italiano. Lo dico al presidente e a tutti i componenti della Commissione perché non vogliamo essere vittime. Abbiamo visto la sofferenza eritrea. Abba Mussie la sta spiegando da anni, in tutte le lingue. Noi vogliamo vedere un'Eritrea di cambiamento, un'Eritrea nuova, che sia utile all'Italia.
  C'è un legame molto forte con l'Italia. Per le strade di Asmara si beve il cappuccino. Quando sono arrivato in Italia dicevo che il cappuccino italiano non era buono perché pensavo che fosse buono il nostro. Ecco, dico questo perché c'è una storia che ci lega. L'Italia, però, ha sempre appoggiato i dittatori fino alla fine, negando di averlo fatto.
  Prima che succeda qualcos'altro o avvenga la frantumazione del Paese, l'Italia ha il dovere di vedere un'altra strada, che è quella del cambiamento. Non vogliamo che l'Italia intervenga nelle questioni eritree, che ci riguardano e sono nostre. L'Italia, però, non deve e non può legittimare un regime che a giugno 2016 potrà essere accusato dalla Commissione ONU, per vicende molto serie. È un regime accusato di crimini contro l'umanità. Non vogliamo, quindi, che l'Italia si ritrovi nella situazione imbarazzante di essere amica di un regime accusato di crimini contro l'umanità. Per questo, siamo pronti, anche in collaborazione con lo Stato italiano, a organizzare una conferenza di pace e riconciliazione, nella quale le varie anime politiche possano discutere sul dopo Isaias Afewerki, che è il presidente eritreo, e sull'Eritrea del futuro. Si può fare anche in Italia, cosa che, tra l'altro, darebbe importanza anche al Governo italiano.
  La nuova Eritrea libera e democratica non può che nascere da una svolta radicale, da una resa dei conti con il presidente Afewerki e gli altri principali esponenti del Governo. La speranza è che a questo appuntamento si arrivi non attraverso una guerra, come si è sempre fatto in Africa (cade un dittatore ed è sempre la stessa storia), ma in modo pacifico, con un'operazione di verità e giustizia sul tipo di quella condotta, sempre in Africa, da Mandela, senza spargimenti di sangue – è possibile, ve lo garantisco – e senza il rischio di balcanizzare il Paese, con una faida di tutti contro tutti.
  In Eritrea tutti hanno l'interesse a vivere tranquilli. Non hanno fatto ancora la rivoluzione proprio perché vogliono una costruzione seria. Sta all'Italia e all'Europa decidere quale via imboccare. La scelta è semplice: stare con il popolo eritreo che sta fuggendo o con il regime. Grazie.

  VITTORIO LONGHI, Giornalista. Sarò molto sintetico e schematico, perché gran parte delle cose sono state dette da padre Zerai e dai nostri amici. Mi limito ad alcune osservazioni da giornalista. Pag. 13
  Sono stato in Eritrea per una ricerca sulla mia famiglia nell'aprile 2014. Credo di essere stato uno dei pochi ultimi giornalisti occidentali ed europei che hanno avuto accesso al Paese. Peraltro, sono riuscito a entrare grazie al legame familiare poiché, come è noto, ai giornalisti è negato il visto da parte delle ambasciate, anche in Italia. Faccio, dunque, alcune brevi osservazioni.
  Innanzitutto, cos'è questo Paese? Questa «Corea del Nord» dell'Africa è vera o è solo percepita in questo modo? Vi posso dire che il clima di tensione, di oppressione e di repressione del dissenso è palpabile e si percepisce ovunque, camminando per le strade, vivendo lì e anche semplicemente osservandolo da turista.
  Non c'è polizia; non ci sono uniformi o militari in giro, cosa che crea una sensazione di apparente tranquillità. In realtà, però, la maggior parte delle persone lavora per il governo, quindi fa parte della polizia.
  Da straniero, si ritrovano le stesse persone in posti diversi, per cui ci si accorge di essere seguiti. Io ho avuto conferma di questo in più di un'occasione. Peraltro, non si può passare da una città all'altra senza un permesso scritto del ministero dei trasporti. Non ti fanno entrare in un albergo di un'altra città – io mi sono spostato in varie città – senza questo permesso. Anche se la situazione è di apparente povertà, tutto quello che hanno lo investono in questo apparato di sicurezza capillare ed estremamente efficace.
  Riguardo ai giovani, ho visitato delle scuole a Massaua e ho conosciuto ragazzi splendidi e molto brillanti che facevano ricerche su come usare l'energia solare invece dei generatori, ovvero su come trovare fonti energetiche alternative. Questo accadeva nell'aprile 2014. Erano ragazzi di 15-16 anni, che, arrivati al diploma, quindi a 17 anni, non hanno avuto alternativa se non scappare. Purtroppo, successivamente ho saputo che alcuni sono morti attraversando il Mediterraneo.
  A un ritmo di 5 mila ragazzi al mese, immaginate quale spreco e quale danno si fa all'economia di questo Paese. Per questo dare i fondi è una contraddizione e una grossa ipocrisia da parte dell'Europa. Quella dei diritti non è una questione etica e astratta, ma pratica, strutturale ed economica. Senza i diritti non ci può essere sviluppo, perché non ci può essere un investimento sano nel Paese, nel lavoro e nelle tante attività che si potrebbero alimentare. Per questo, i ragazzi continuano a pensare a scappare via dal Paese. Ne abbiamo riscontro dai contatti quotidiani che abbiamo con le persone ad Asmara e nelle altre città.
  In secondo luogo, voglio evidenziare la contraddizione politico-istituzionale internazionale, che è già stata sollevata.
  Mentre la Commissione europea, con l'Italia in prima linea – dobbiamo dirlo –, trattava con il governo e con il regime di Asmara per il pacchetto di aiuti, la Commissione d'inchiesta dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani investigava e accertava una violazione sistematica gravissima. Vi invito a leggere i documenti della Commissione d'inchiesta. Vi sono racconti raccapriccianti delle tecniche di tortura e di quello che aspetta a chi prova a dissentire in Eritrea.
  Il presidente ricordava come funziona il sistema di detenzione, in carceri remote, in aperta campagna o sotterranee. In Eritrea ho ascoltato racconti di persone che hanno vissuto e sofferto tutto questo; spesso non vengono uccise, ma tormentate, torturate e fatte sparire per anni, cosa che fa venire i brividi.
  Mentre la Commissione europea trattava per i presunti aiuti, la Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite faceva questo lavoro, ma tra le due istituzioni non c'è stata la minima comunicazione. Infatti, la Commissione europea non ha tenuto in considerazione le osservazioni e la denuncia, gravissima, della Commissione d'inchiesta dell'ONU.
  Quando, a ottobre, è stato presentato, al Palazzo di Vetro, a New York, il rapporto al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite non è stato detto alla Commissione e ai commissari che avevano finito il lavoro, ma è stato detto loro di andare avanti per un altro anno per accertare se ci sono stati crimini contro l'umanità. Voi, come Commissione esteri, sapete molto meglio di me Pag. 14cosa vuol dire, per uno Stato, quando si arriva a una denuncia di questo tipo.
  Il lavoro di osservazione, che è molto attento, è in corso. Peraltro, non è stato permesso ai commissari di entrare nel Paese, per cui hanno visitato otto Paesi vicini all'Eritrea e hanno parlato con i rifugiati e con le persone in fuga intorno all'Eritrea e in Europa. I commissari stessi sono stati minacciati di morte e sono stati messi sotto protezione, in Svizzera. Questo è il livello di tensione.
  Padre Zerai e i nostri amici non lo dicono, ma riceviamo continuamente insulti via web e minacce di ogni tipo. Mi ci metto anch'io, perché da quando ne ho scritto per i giornali con cui lavoro – principalmente New York Times e The Guardian – sul web si scatenano frotte di troll, di insulti e di attacchi indescrivibili.
  C'è, dunque, una grande contraddizione istituzionale di cui, però, l'Italia non ha detto niente. Non ha preso posizione, nonostante il ruolo strategico e gli investimenti forti che ha nel Paese.
  L'ultima questione è quella dei confini. È vero, come ricordava padre Zerai, che il pretesto di questa guerra permanente – che non c'è, perché al confine non sta succedendo niente – è un'invenzione del regime per continuare a militarizzare il Paese e a opprimere il popolo.
  Va detto che la comunità internazionale, dal 2000 a oggi, non ha fatto nulla. Tra l'altro, con l'Accordo di Algeri del 2000, l'Italia era tra i Paesi garanti per imporre il rispetto dei confini.
  Va anche detto che l'Etiopia ha 96 milioni di abitanti, mentre l'Eritrea ne ha forse 4 milioni (non è un dato certo, anche perché la maggior parte sono fuori). A ogni modo, c'è una fortissima sproporzione di forze. La questione è da sempre l'accesso al mare, perché l'Etiopia è un Paese chiuso all'interno, senza accesso al mare, mentre l'Eritrea è quasi tutta sul Mar Rosso. È facile immaginarne le implicazioni. Tuttavia, il problema, che ormai va avanti da troppo tempo, sarebbe facile da risolvere e la sua soluzione potrebbe portare prosperità e ricchezza.
  Mi unisco, quindi, all'appello di padre Zerai affinché l'Italia faccia qualcosa, perché ha un ruolo e dei legami storici con il Paese. Ad Asmara c'è la più grande scuola italiana all'estero, con 1.500 alunni, che io ho visitato. L'ambasciata italiana è molto attiva ed è un punto di riferimento ad Asmara e in Eritrea. Quindi, l'Italia ha e può giocare un ruolo. Non ci stanchiamo mai di dire che ha un'occasione storica straordinaria; semplicemente sembra che non voglia coglierla.

  RIBKA SIBHATU, Scrittrice e attivista per la libertà e i diritti umani del popolo eritreo. Vorrei sottolineare che non sostituisco nessun uomo, ma rappresento le donne del Network of Eritrean Women, la rete delle donne che si sta organizzando a livello internazionale. Visti i tempi, consegnerò un documento che riporta la nostra voce e spero che il messaggio delle donne eritree arrivi a tutti i parlamentari.
  Voglio, innanzitutto, aggiungere delle considerazioni, perché in tutto quello che è stato raccontato non è stato specificato l'effetto sulle donne, che sono quelle che stanno pagando il peso maggiore di questa tragedia inumana e immane.
  Il servizio militare è atroce per tutti, ma sulle donne è ancora più atroce che sugli uomini, perché sono schiave anche all'interno, dove sono sessualmente abusate.
  La famiglia è disintegrata. Stiamo crescendo ragazzi che non sanno più la loro storia. L'unica università è stata chiusa nel 2004, perché si vuole che la gente sia ignorante. Dopo il processo di Khartoum il dittatore ha fatto molte cose brutte perché si sente spalleggiato. Ha demolito case, per cui migliaia di persone sono scappate, e si è alzato il livello di schiavitù. Il servizio militare è, infatti, schiavitù a cielo aperto. Peraltro, la schiavitù è aumentata dopo il processo di Khartoum – sono i danni collaterali di quello che l'Europa ha fatto agli eritrei – quando il limite di età è stato alzato da 50 a 70 anni. Oggi neanche i nonni possono occuparsi dei figli. La famiglia è disintegrata.
  C'è un detto eritreo che dice «gli italiani ci dicevano “mangiate e non parlate”; gli inglesi “parlate e non mangiate”; gli etiopi Pag. 15“non mangiate e non parlate”». Ecco, io aggiungo che questo dittatore ci ha detto «non mangiate, non parlate, non esistete». Ci sta sterminando.
  Quando sono arrivati gli italiani, non sapevano dove mettere i dissidenti contro il colonialismo, perché l'Eritrea era un Paese senza carceri. Adesso, l'università è chiusa, ma abbiamo 365 carceri ufficiali. C'è un vero sterminio.
  L'Italia è tanto amata dal popolo eritreo. Con mia nonna facevamo il braccio di ferro e quando vinceva ci diceva che i suoi muscoli erano invincibili perché avevano bevuto il vino italiano. Io sono francese, ma son venuta in Italia perché da piccola mia nonna mi ha trasmesso l'amore per l'Italia, non l'odio. Il popolo eritreo ama gli italiani. Allora, come diceva chi mi ha preceduto, dobbiamo costruire un ponte di pace.
  Due mesi fa, una donna si è liberata dal Daesh e ci ha informato che ci sono 1.000 eritrei sotto il Daesh in Libia. Stanno progettando un Daesh eritreo. Con il processo di Khartoum – adesso si sta cercando di fare anche altri progetti – avete creato un mostro. Non vi deve stupire se arriveranno terroristi eritrei. Abbiamo tutti le mani in questa grave situazione, ma è tardi.
  Il dittatore non ha permesso alla Commissione d'inchiesta dell'ONU di entrare dentro il Paese, perché ha troppe cose da nascondere. Seguo i dibattiti delle Nazioni Unite, ma non ho visto l'Italia parlare dell'Eritrea dopo il processo di Khartoum. In Italia non si parla abbastanza di questo dramma. Dopo la morte degli eritrei a Lampedusa, l'Ambasciatore eritreo è stato invitato per i funerali. Questo è grave, anche storicamente. È un calcio ai morti, ai vivi e a noi.
  Qui siamo nove donne. Da donna, vi chiedo di unire le vostre forze per la lotta per la libertà di questo popolo oppresso, in nome della nostra storia comune. Grazie mille.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ELEONORA CIMBRO. Credo ci sarebbe bisogno di molto tempo per approfondire il tema, ma ritengo utile che ci sia stato questo confronto, perché l'opera di sensibilizzazione che state facendo è fondamentale, soprattutto per le implicazioni che avete descritto.
  Penso che l'Italia debba assumere una posizione chiara rispetto a quanto sta accadendo, a prescindere dagli interessi e dagli accordi commerciali in atto. Ritengo, inoltre, che questa presa d'atto debba essere fatta anche dall'Europa. Ci deve essere, quindi, un lavoro su un doppio binario: i singoli Stati devono essere sensibilizzati rispetto a quello che avete raccontato oggi e poi occorre anche un lavoro più importante da fare, tutti insieme, in Europa. Le implicazioni di questo fenomeno sono, infatti, importanti soprattutto in questa fase storica rispetto al tema sia dei rischi dell'immigrazione, sia del Daesh, che più di una volta avete toccato.
  Tuttavia, quello che ci sta più a cuore – sono membro anche del Comitato permanente sui diritti umani della Commissione affari esteri della Camera – è che bisogna sempre intervenire dove ci sono violazioni dei diritti umani. Non ci possono essere mezzi termini, né nell'azione, né nella condanna rispetto alle prevaricazioni e a un regime che, per come l'avete raccontato, non sta dimostrando di pensare al futuro di questo Paese.
  Allora, la mia è una domanda da persona che vi ha ascoltato, ma non conosce la realtà, perché non ha mai avuto modo di toccarla con mano. Il regime sta tentando, con ogni mezzo, di negare il diritto all'istruzione, la libertà di parola e di stampa e quindi i diritti fondamentali di un popolo. Su chi, però, si fa forte? Quali sono i soggetti che continuano a sostenere questa azione? Per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo, per cui vorrei avere qualche notizia più precisa rispetto a questo.

  PRESIDENTE. Approfitto per fare una domanda nello specifico. Veniva ricordato che gli eritrei sono la popolazione principale nei flussi migratori verso l'Italia. Nel 2015 si confermano la prima nazionalità per numero di sbarchi. Abbiamo avuto più di 38 mila eritrei. Oggi ci troviamo, nei primi quasi cinque mesi del 2016, a registrare Pag. 16 una drastica diminuzione dei flussi. A fronte di 38 mila persone arrivate nei dodici mesi del 2015, ne sono arrivate poco più di 600 nei primi quattro mesi del 2016.
  Allora, visto che non abbiamo altre informazioni, possiamo presumere che siano gli effetti del processo di Khartoum. Vi chiedo, quindi, se avete notizie o riscontri più aggiornati di quali siano le misure prese dal governo eritreo per limitare il flusso in uscita dal Paese o se, eventualmente, questo tappo si è creato in qualche altra parte lungo la rotta migratoria.
  Do, dunque, la parola a Mussie Zerai.

  MUSSIE ZERAI, Presidente dell'Agenzia Habeshia. Per quanto riguarda la prima domanda, ovvero chi c'è dietro, chi lo aiuta e chi lo sostiene, basta guardare le ultime alleanze che il regime ha fatto con i sauditi. Ha anche dato uno dei nostri porti sul Mar Rosso al Qatar, che sta creando basi militari per sé, per il controllo di tutto ciò che passa nell'imbuto tra il Mar Rosso verso l'Oceano indiano.
  In passato, è stata Israele a chiedere all'Europa di non isolare questo regime. Infatti, anche Israele aveva interesse ad avere una base militare nelle nostre isole, dalla quale poter controllare tutto ciò che si muove in quell'area geografica perché la posizione dell'Eritrea, strategicamente, è molto importante nello scenario geopolitico dell'area. Tutti, quindi, hanno interesse, compresi gli Stati Uniti, che sono stati i primi a chiedere di avere una base militare, ma non hanno avuto questa possibilità, motivo per cui si è poi creato un cortocircuito. Su questo potrà dire di più l'Ambasciatore. Ad ogni modo, ci sono dietro delle alleanze: dietro i sauditi e dietro il Qatar ci sono altri Paesi alleati, per cui oggi il regime è uscito dall'isolamento in cui si era chiuso, proprio grazie a queste alleanze.
  Per esempio, grazie all'ultima alleanza che ha fatto con i sauditi nella guerra contro il terrorismo – in sostanza sta facendo la guerra per procura, mandando i nostri ragazzi nello Yemen dietro pagamento dei sauditi – è uscito dall'isolamento e ha avuto un ruolo attivo in tutto il Corno d'Africa e oltre. Questa è la situazione attuale.
  Inoltre, sta facendo una specie di apertura «alla cinese», cioè sta aprendo il mercato soprattutto nel settore minerario e della ricerca di petrolio, gas e così via. Sta cercando di attrarre finanziamenti e investimenti esteri, per cui ci sono diverse grosse compagnie canadesi, australiane, e adesso anche europee, che stanno cercando di investire in Eritrea. Insomma, sta trovando alleanze che, per interesse economico, non parlano e non condannano tutto l'aspetto dei diritti umani.
  Per quanto riguarda i flussi, quelli che non riusciamo a vedere qui oggi li ritroviamo in Egitto. Infatti, le carceri egiziane sono piene di eritrei. Molti sono in Sudan, in Etiopia o nei centri di detenzione in Libia, che adesso pure sono pieni di eritrei. Insomma, si sono creati ostacoli lungo il percorso.
  L'ultimo contatto che ho avuto dalla Libia mi diceva di 204 persone che le autorità di Tripoli stanno tentando di rimpatriare. Questo è lo stesso allarme che ho ricevuto dall'Egitto. L'ambasciata eritrea sta trattando per riportare indietro queste persone, nonostante tutte le informazioni che stanno arrivando. Il responsabile dell'ufficio immigrazione della Svizzera, dopo un viaggio che ha fatto in Eritrea, proprio l'altro giorno ha dichiarato che non ci sono le condizioni per rimandare gli eritrei in Eritrea perché si vive una situazione aberrante sul piano dei diritti umani. Lo stesso ha dichiarato il premier inglese Cameron al Parlamento.
  Tuttavia, forti del processo di Khartoum e degli Accordi fatti a Malta, questi Paesi stanno cercando di fare da argine e stanno trattenendo i profughi nei vari centri di detenzione, dove, peraltro, subiscono abusi e violazioni dei loro diritti.

  RIBKA SIBHATU, Scrittrice e attivista per la libertà e i diritti umani del popolo eritreo. C'è un documento delle Nazioni Unite che dice che uno di questi generali è quello che vende gli eritrei nel Sinai. Dunque, è facile per loro, visto che controllano anche tutto il traffico degli esseri umani dall'alto, cioè dal governo. Pag. 17
  C'è – ripeto – un documento delle Nazioni Unite su quest'argomento. Come Erdogan, può darsi che usi questo come elemento di ricatto per arrivare ai suoi progetti.

  VITTORIO LONGHI, Giornalista. Vorrei specificare di che tipo di investimenti parliamo e quali Paesi e quali forze economiche sostengono il regime e perché.
  Dobbiamo considerare che quando un'impresa straniera – canadesi e cinesi nel settore minerario; italiani dall'abbigliamento all'alberghiero, per quel poco che c'è di turismo – investe, il governo mette a disposizione manodopera a 500 nacfa al mese, cioè circa 10 euro.
  Questo è il sistema di lavoro con cui il governo attira alcuni tipi di investimenti da alcuni tipi di imprenditori. Vi posso dire che ho conosciuto imprenditori italiani che si sono rifiutati di avere lavoratori. Questo è, infatti, lavoro forzato, perché sono pagati dal governo, ma sono messi a disposizione delle imprese. L'Organizzazione internazionale del lavoro lo ha denunciato e condannato da anni. Anche nell'ultima Conferenza internazionale del lavoro dell'anno scorso ha portato di nuovo all'attenzione il lavoro forzato che esiste in Eritrea.
  Questo è il sistema. Attirano investimenti in questo modo. Fa, dunque, paura che siano i cinesi a investire lì o che ci siano gli accordi con i sauditi. Immaginate, infatti, quali conseguenze può avere dal punto di vista dei diritti umani. Dal punto di vista economico, poi, questo non innesca nessun processo di sviluppo reale che parta dal Paese. È un sistema predatorio.
  Noi siamo il primo partner commerciale, ma c'è una contraddizione. Fa pensare, infatti, che diamo asilo a 38-40 mila eritrei, quindi riconosciamo che hanno motivo per fuggire, ma poi siamo appunto il primo partner commerciale. C'è un'ipocrisia in questo, che dovrebbe, però, emergere.

  ELEONORA CIMBRO. Oltre a questi sostegni e pressioni esterne, vorremmo sapere anche chi sostiene il modus operandi di questo regime all'interno del Paese.

  FRANCO CASSANO. C'è una borghesia che si sta formando in seguito a questi investimenti?

  SIID NEGASH, Responsabile per gli affari diplomatici del Coordinamento Eritrea Democratica. Il partito centrale ha creato un’élite, i cui figli sono i nuovi imprenditori. In Eritrea non c'è un'economia liberale. Tutto è controllato dallo Stato e chi dirige le aziende è all'interno del cerchio o comunque è figlio o parente di queste persone.
  Non è un fatto etnico o tribale, come accadeva con Gheddafi, ma un’élite dei fidati del presidente, che si è creata attorno alle persone che sono diventate ricche. Questo fa sì che gli aiuti che arriveranno in relazione al processo di Khartoum, o in altro modo, creeranno sviluppo, ma daranno lavoro principalmente a queste persone, rafforzando un’élite o una borghesia, come dice Lei, che garantirà la continuazione del regime.
  In questo momento, fino a giugno 2016, allorquando ci sarà la decisione che la Commissione confermerà, tantissime persone, tra cui artisti e sportivi, stanno fuggendo dal Paese. Per esempio, ieri artisti e attori hanno chiesto asilo politico negli Stati Uniti.
  È, dunque, un momento cruciale per il regime: o si rigenera o crolla. Proprio questo, allora, è il momento in cui dobbiamo intervenire perché se si rigenera è perché si sta creando un’élite. C'è un'organizzazione simile ai giovani hitleriani, che si chiama Young FPDG, dal nome del partito centrale, Fronte popolare per la democrazia e la giustizia. Questi giovani, che stanno crescendo, spesso sono di seconda e di terza generazione e provengono all'estero. Sono figli di persone uscite nella prima diaspora che credevano alla rivoluzione, per cui stanno indottrinando i figli per creare una base di un nuovo partito rigenerato. Questi hanno bisogno di un'identità nazionalista forte per formare una nuova leadership,che si creerà, appunto, in questa fase. Quindi, con la tragedia in atto, stanno provando a creare una nuova leadership, cioè a continuare la vita con nuovo ossigeno. In questa situazione, in cui il regime sta barcollando, Pag. 18è possibile dargli il colpo mortale. Noi giovani eritrei, che abbiamo un'idea chiara e siamo usciti dalle torture, ci stiamo provando.
  Dall'altra parte, però, arrivano questi milioni. Peraltro, a loro non interessano i soldi, perché hanno le miniere, ma questo è un modo per legittimarli nella diplomazia internazionale. Serve dire, per esempio, che il report dell'ONU non è fasullo. Se sono in un tavolo con l'Italia, con l'Inghilterra e tutti gli altri, per ragionare sul traffico degli esseri umani, non possono torturare nel loro Paese. Ecco, questa legittimazione è più pericolosa di quei 175 milioni.
  In questa situazione, l'Italia può fare tantissimo. Non deve aspettare, come è successo in Siria, che non si faccia niente, per poi ritrovarsi con un Paese diviso in quattro, per cui non si capisce con chi parlare. Oggi si può dialogare con questo sistema, ma a certe condizioni. L'Italia può essere seguita dall'Europa, perché, comunque, c'è una piccola delega verso l'Italia, in quanto siamo ex colonia.
  C'è, dunque, una borghesia, ma è rafforzata dal regime. Se crolla il regime, la borghesia perde il potere che ha all'interno. Gli altri eritrei che appoggiano il regime sono tutti obbligati. Il 99 per cento degli eritrei non ne può più di questo regime, ma se apre bocca finisce male.

  RIBKA SIBHATU, Scrittrice, attivista per la libertà e i diritti umani del popolo eritreo. Il sistema economico dell'Eritrea sta sulla spalle della gente. Per esempio, adesso, nella città di Cheren hanno preso i soldi con il pretesto di cambiare il denaro, ma non li stanno riconsegnando, quindi stanno uccidendo anche i ricchi. C'è un vero e proprio banditismo. Fanno quello che vogliono. Stanno affamando il popolo e costringendolo a uscire. Fanno di tutto per farlo disperare e uscire dal Paese: demolizione di case, innalzamento dell'età del servizio militare, la chiamata delle donne. La gente, disperata, sta continuando a uscire, però con gli accordi di Khartoum la massa è ferma in Egitto e sta soffrendo.
  A questo proposito, ho molta paura soprattutto dei rapimenti del Daesh e dell'indottrinamento, perché, dalle informazioni che abbiamo, stanno privilegiando i giovani, a cui possono inculcare tutti i valori che credono. Come vi dicevo prima, circa 1.000 persone sono già nelle loro mani, in Libia. Questa è l'informazione che abbiamo, ma possono essere di più. I rapimenti e l'indottrinamento possono continuare. Noi siamo, dunque, molto preoccupati che l'Eritrea finisca come la Siria e la Libia.

  EMILIO DRUDI, Giornalista. La mia è solo una riflessione in merito alla Sua domanda. I profughi arrivati l'anno scorso in Europa sono stati circa 1.050.000, di cui 850 mila in Grecia; 158.800 in Italia e solo 7 mila in Spagna. Eppure, la Spagna, nel punto più stretto, dista solo 11 chilometri dal Marocco. Questo accade perché è pienamente a regime il processo di Rabat, attraverso il quale tutti i flussi che vengono dalla fascia occidentale dell'Africa vengono bloccati prima di arrivare nella parte settentrionale del Marocco. Infatti, l'anno scorso i siriani che arrivavano in Italia sono stati sostituiti dalle popolazioni che vengono dall'Africa occidentale. Ora sta entrando a regime il processo di Khartoum, che sta creando nella parte orientale dell'Africa lo stesso tappo causato dal processo di Rabat nella fascia occidentale. Gli eritrei, quindi, non arrivano più, perché sono imbottigliati in Egitto, in Sudan o in Libia. Sono cifre. Mi sembra che questa sia una prova più che evidente di quello che sta accadendo e di quello che significa il processo di Khartoum, a mio avviso, aggravato dagli accordi di Malta dell'11 novembre scorso e dal migration compact di cui si parla in questi giorni.

  DESBELE MEHARI, Responsabile del Comitato per gli affari pubblici del Coordinamento Eritrea Democratica. Per quanto riguarda l'aspetto economico del regime, oltre a quello che è stato detto, non so se sapete che tutti gli eritrei all'estero sono costretti a pagare il 2 per cento di tasse per sostenere il governo. Questo è obbligatorio per tutti gli eritrei che hanno bisogno di qualcosa dal Paese, anche di una semplice Pag. 19delega. Se non pagano il 2 per cento, non viene loro riconosciuto niente.
  Inoltre, ci sono le rimesse degli eritrei. Ci sono persone, spie del governo eritreo, che raccolgono le rimesse per darle al regime. Si tratta di milioni di euro che vengono raccolti, smistati e poi mandati nelle banche cinesi o del Medio Oriente.
  Pertanto, c'è anche questo aspetto sul quale riflettere, magari per spingere il Parlamento europeo ad adottare una risoluzione. Infatti, gli eritrei in Europa sono costretti, oltre che a pagare le tasse nel Paese dove lavorano e vivono, anche a dare il 2 per cento al governo eritreo.

  VITTORIO LONGHI, Giornalista. Peraltro, spesso c'è anche una ritorsione sulle famiglie.

  PRESIDENTE. Nel ringraziare gli auditi, per il prezioso contributo che hanno portato a questa seduta e i colleghi che hanno assicurato la loro presenza fino alla fine, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.05.

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