TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 151 di Martedì 14 gennaio 2014

 
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INTERPELLANZA E INTERROGAZIONE

A) Interpellanza

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della difesa, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della salute, il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione e il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, per sapere – premesso che:
   in Italia, tra tumori e malattie asbesto-correlate, l'amianto uccide oltre 4000 persone all'anno (11 morti evitabili al giorno). Nel 2008, il IV Rapporto del Registro nazionale dei mesoteliomi ha censito 1422 nuovi casi di mesotelioma maligno, la punta dell'iceberg delle esposizioni professionali e ambientali all'amianto, con un trend dell'incidenza in costante aumento che porterà ad aumentare questi «numeri» fino al 2018/2020, continuando poi a mietere vite umane, dal completamento delle agognate bonifiche, per un altro mezzo secolo ancora;
   anche le Forze armate e tutto il comparto difesa sono travolti da questa tragedia; infatti, a causa dell'uso e all'abuso dell'amianto, tra le vaste aree e città del nostro Paese che hanno guadagnato il triste primato per morti per mesotelioma maligno – pleurico, peritoneale, del pericardio e della tunica vaginale del testicolo –, spiccano le sedi storiche delle basi navali e degli arsenali militari: La Spezia, Taranto, La Maddalena (Olbia-Tempio); il mesotelioma rappresenta la punta dell'iceberg delle patologie asbesto-correlate ed è anche un indicatore della pregressa esposizione ad asbesto; per questo è bene tenere presente che il III rapporto del Registro nazionale dei mesoteliomi (periodo di osservazione 1993/2004) indica il comparto difesa tra i settori economici maggiormente coinvolti nelle occasioni di esposizioni professionali, con una media del 4 per cento dei casi di mesotelioma maligno definiti a livello nazionale, con punte dell'11,8 per cento in Puglia, del 9 per cento nel Lazio, del 5 per cento in Piemonte e altro;
   sugli effetti «democratici» dell'amianto inconsapevolmente respirato dal personale militare nelle navi e nei sommergibili, il IV Rapporto 2012 del Registro nazionale dei mesoteliomi riporta che, considerando l'intera finestra temporale di osservazione (1993-2008) e i soli soggetti colpiti dalla malattia per motivo professionale, il settore della difesa militare risulta tra i maggiormente coinvolti (nel senso di un peso percentuale delle esposizioni in quel settore rispetto al totale), pari al 4,24 per cento del totale della casistica, con 463 casi di mesotelioma maligno con almeno un'occasione di esposizione ad amianto nel settore (M=459; F=4) di cui 215 casi (46,4 per cento) con esposizione esclusiva nel comparto difesa (M=212; F=3);
   da un'analisi dei sopra citati dati eseguita dalla AFeVA Sardegna Onlus, che considera i 215 casi – censiti in detto rapporto – con esposizione professionale esclusiva nel comparto difesa, si evidenzia che il numero dei casi del personale militare colpito da mesotelioma maligno con codici «Ateco 91», con esposizione esplicita nelle categorie di «macchina» e «coperta», sono complessivamente 147 (100 per cento), di cui 88 (59,9 per cento) casi nel personale di «macchina» e 59 (40,1 per cento) casi nel personale di «coperta». Questo significa che l'amianto respirato a bordo di una nave o di un sommergibile non ha fatto distinzione tra personale di «macchina» e personale di «coperta»;
   nel 1993, il legislatore, al fine di coprire il buco nero di omissioni, durato oltre quaranta anni, che ha caratterizzato l'uso e l'abuso dell'amianto nei luoghi di lavoro nel nostro Paese – applicando quanto la suprema Corte costituzionale ha più volte affermato in tema dell'inviolabilità del principio non negoziabile che, a parità di rischio, si deve garantire parità di tutela (per tutte, le sentenze della Corte costituzionale n. 206 del 1974 e n. 114 del 1977 – articoli 3 e 38 della Costituzione) – approva la legge n. 271 del 1993 di modifica dei commi 7 e 8 dell'articolo 13 della legge n. 257 del 1992, socializzando il costo di un'enorme colpa collettiva e riconoscendo a tutti i lavoratori esposti e malati a causa dell'amianto il diritto a un indennizzo pensionistico (attraverso una maggiorazione di contributi previdenziali), quantificato come segue:
    a) con il comma 7 dell'articolo 13 della legge n. 257 del 1992 – come modificato dall'articolo 1, comma 1-bis, della legge n. 271 del 1993 – si riconosce a tutti i lavoratori esposti alle fibre di amianto, che hanno contratto una malattia professionale asbesto-correlata, il diritto alla contribuzione aggiuntiva dell'intero periodo lavorativo di esposizione moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5, indipendentemente dagli anni e dalla quantità di esposizione all'amianto;
    b) con il comma 8 dell'articolo 13 della legge n. 257 del 1992 – come modificato dall'articolo 1, comma 1, dalla legge n. 271 del 1993 – si riconosce a tutti i lavoratori, esposti per più di dieci (10) anni a rischio morbigeno qualificato alle fibre di amianto, il diritto alla contribuzione aggiuntiva dell'intero periodo lavorativo di esposizione moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5;
   nonostante l'affermazione di questi inalienabili principi costituzionali, lo Stato, che, come visto, è stato uno dei principali utilizzatori di amianto, ha inaccettabilmente escluso il personale militare dall'applicazione delle sue stesse leggi;
   nel corso degli anni, l'impianto normativo originario, pensato per indennizzare tutti i lavoratori pubblici esposti e vittime dell'amianto e di altri cancerogeni inconsapevolmente respirati e ingeriti nel compimento delle proprie attività istituzionali, è stato costantemente svuotato dei contenuti rendendolo, di fatto, vacuo e formalmente inapplicabile, come se fosse stata messa in atto una strategia ben definita per ridimensionare la strage compiuta dall'amianto, principalmente nei confronti del personale civile e militare del comparto della difesa, a cosa di poco conto. La nuova normativa emanata dal Governo Berlusconi, con l'articolo 47 del decreto-legge n. 269 del 2003 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003), che secondo la comune opinione avrebbe, per prima, allargato, con decorrenza dal 1o ottobre 2003, la platea dei beneficiari per riconoscere «anche» ai dipendenti pubblici (dunque solo nel 2003) i diversi (minori) benefici, in realtà non ha introdotto niente di nuovo e tanto meno di positivo. La normativa è solo e soltanto più restrittiva, per i militari è addirittura «sacco vuoto», e l'unica nota positiva rilevabile è che ha lasciato intatti i diritti riconosciuti dal comma 7 dell'articolo 13 della legge n. 257 del 1992 (come modificati dalla legge n. 271 del 1993) a tutti i lavoratori che contraggono una malattia asbesto-correlata;
   per il personale militare esposto in cui la patologia non si è ancora manifestata, la sintesi chiara è la risposta, pubblicata lunedì 9 luglio 2012, del Ministro della difesa, ammiraglio Di Paola, all’ interrogazione n. 4-13579 del 13 ottobre 2011, presentata dall'onorevole Maurizio Turco: «(...) È il caso, tuttavia, di evidenziare, che la maggiorazione di servizio prevista dall'applicazione della normativa richiamata dall'interrogante (aumento di 1/4 del servizio svolto con esposizione all'amianto), anche laddove venisse riconosciuta, produrrebbe in molti casi (circoscritti al personale militare) effetti sostanziali alquanto limitati. Infatti, in base alla previsione normativa dell'articolo 1849, comma 1, del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo n. 66 del 2010, il periodo di servizio, del quale è prevista la maggiorazione ai fini pensionistici, può essere considerato una sola volta, secondo la normativa più favorevole. Pertanto, se consideriamo che la quasi totalità delle richieste interessa personale della Marina militare e dell'Aeronautica militare, già beneficiario per imbarco/volo dell'aumento di 1/3 del servizio svolto, la maggiorazione prevista non potrà, comunque essere, concessa»;
   dalla medesima risposta si evince, inoltre, che, al 9 luglio 2012, «per quanto riguarda il personale militare» erano state presentate «n. 13.939 richieste di concessione di benefici ai sensi della citata legge n. 326 del 2003 – tra le quali sono state definite, negativamente, n. 186 richieste presentate dal personale dell'Arma dei carabinieri, in quanto non sono stati individuati, dall'Arma stessa, siti in cui possa essersi verificata una possibile esposizione all'amianto – mentre, per quanto concerne il personale civile, sono state presentate, allo stato, n. 8.000 istanze; il Ministero delle politiche agricole e forestali ha comunicato che, dal 2005 ad oggi, hanno prestato servizio con esposizione all'amianto n. 25 dipendenti del Corpo forestale dello Stato, per i quali è stata disposta una ricongiunzione dei periodi, con relativa maggiorazione»;
   nel Piano nazionale amianto, approvato dal Governo il 24 marzo 2013, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, accogliendo le istanze di superamento della discriminazione subita dai militari esposti e malati a causa dell'amianto respirato nelle navi e nelle installazioni militari, rivolte sul tema da parte dell'Associazione familiari e vittime dell'amianto Sardegna. AFeVA Sardegna Onlus (già AIEA Sardegna) –, nella parte relativa alla «MACROAREA SICUREZZA DEL LAVORO E TUTELA PREVIDENZIALE.(...) – OBIETTIVO 2 – Benefìci previdenziali: risoluzione delle disarmonie della normativa di attuazione per i lavoratori civili e militari e recepimento della procedura tecnico di accertamento dell'esposizione qualificata utilizzata dall'INAIL», a pagina 38 scrive: «(...) Sotto altro profilo, nel rispetto della normativa primaria, l'opportunità di una revisione del decreto ministeriale 27 ottobre 2004 con riferimento alla “determinazione del beneficio pensionistico”, improntando tale revisione a criteri di maggiore aderenza alle finalità dell'intervento legislativo. Ciò, in particolare con riferimento al settore marittimo, nonché, in collaborazione con le altre amministrazioni interessate, nei confronti dei militari affetti da patologie asbesto correlate»;
   l'amianto respirato a bordo di una nave o di un sommergibile non fa distinzione tra personale di «macchina» e personale di «coperta», come invece sembra che l'Inail stia facendo;
   le norme attualmente in vigore e gli atti conseguenti, sebbene riconoscano formalmente che il personale militare che ha ottenuto il rilascio del curriculum da parte del Ministero della difesa è stato esposto ad amianto ben oltre le soglie minime di legge, non consentono al detto personale di accedere ai «benefici previdenziali» previsti dalla normativa di settore per la totalità degli altri lavoratori –:
   se sia intendimento del Governo, del Ministro della difesa e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali superare l'inaccettabile somma di discriminazioni subite dal personale militare esposto all'amianto o affetto da patologie asbesto-correlate, adottando apposito atto di indirizzo che riconosca al personale militare delle Forze armate e delle forze di polizia, compresa l'Arma dei carabinieri, senza distinzione di mansioni-categorie, in possesso del curriculum lavorativo rilasciato dal Ministero della difesa attestante l'adibizione, in modo diretto ed abituale, ad attività lavorative comportanti l'esposizione all'amianto o al medesimo personale affetto da malattie o patologie asbesto-correlate, accertate da parte del competente dipartimento militare di medicina legale, di cui all'articolo 195, comma 1, lettera c), del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in deroga agli articoli 1849 e 2264 del citato decreto-legge n. 66 del 2010, i benefici previdenziali nella misura di 1,5 del periodo di esposizione all'amianto, accertato dal citato curriculum, ovvero, in mancanza dello stesso, per analogia con altri casi, dall'estratto del foglio matricolare;
   se il Governo condivida l'interpretazione data dall'Inail all'articolo 12-bis del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, in forza del quale nega di emettere la «certificazione» al personale militare affetto da patologie asbesto-correlate, seppure in possesso del «curriculum» lavorativo attestante l'esposizione all'amianto, precludendo, di fatto, ai lavoratori militari l'applicazione del comma 7, dell'articolo 13, della legge n. 257 del 1992, il quale riconosce a tutti i lavoratori esposti alle fibre di amianto, che hanno contratto una malattia professionale asbesto-correlata, il diritto alla contribuzione aggiuntiva dell'intero periodo lavorativo di esposizione moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5, indipendentemente dagli anni e dalla quantità di esposizione all'amianto;
   se corrisponda al vero la notizia diffusa nei giorni scorsi dalla AFeVA Sardegna Onlus secondo la quale i dipendenti dello Stato vittime dell'amianto, in cui la patologia si sia manifestata dopo l'entrata in vigore dell'articolo 6 del decreto-legge n. 201 del 2011 – Salva Italia – convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, (ossia il 28 dicembre 2011) sono esclusi dalle provvidenze previste per le vittime del dovere, in quanto, da quella data, è stato abolito l'istituto dell'accertamento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio per talune categorie di lavoratori e, nel caso affermativo, se sia intendimento del Ministro della difesa e del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione assumere iniziative per fare salvo l'istituto dell'accertamento della dipendenza delle infermità da causa di servizio nei procedimenti per il riconoscimento dello status di vittima del dovere, per il rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell'equo indennizzo e della pensione privilegiata ordinaria nei confronti di quanti, a causa della mancanza di protezioni e di informazioni, sono morti o si sono ammalati per aver inalato o ingerito amianto e altri cancerogeni, come si è espresso il Consiglio di Stato con il parere 4 maggio 2010 n. 02526;
   se sia intendimento del Governo e del Ministro della difesa rendere pubblici i risultati delle indagini ambientali, epidemiologiche statistiche e diagnostiche eseguite a cavallo degli anni ’60-’70 dalla clinica di medicina del lavoro di Bari presso l'arsenale della marina militare di Taranto e dalla clinica del lavoro di Milano, con la collaborazione dell'istituto di medicina del lavoro di Genova presso l'arsenale della marina militare di La Spezia, e i risultati di tutte le altre indagini esterne eventualmente autorizzate in seguito;
   se sia intendimento del Governo e del Ministro della difesa rendere pubblici il numero dei casi dei tumori (polmonari, del mesotelio-pleura, pericardio peritoneale, tunica vaginale del testicolo, della laringe, della faringe, dello stomaco e del colon retto) e delle patologie asbesto-correlate (asbestosi, placche e ispessimenti pleurici, atelettasie, broncopneumopatia cronica ostruttiva da asbesto e altro) che hanno colpito il personale militare e civile a causa dell'esposizione all'amianto presente nel naviglio, nei mezzi e nelle installazioni dello Stato, riconosciute dalle competenti commissioni mediche ospedaliere dipendenti da causa di servizio o da fatti inerenti il servizio svolto, relativamente all'intero comparto difesa suddivisi, per anno, per arma e, all'interno di queste, per categorie/mansioni/grado, a partire dal 1986;
   se sia intendimento del Governo e del Ministro della difesa rendere pubblico l'esito dello studio epidemiologico conoscitivo sull'incidenza delle patologie asbesto-correlate nell'ambito delle categorie lavorative per il personale civile e militare delle Forze armate, avviato nel 2011 dalla direzione generale della sanità militare in collaborazione con l'università la Sapienza di Roma;
   con quali mansioni e in quali contesti operativi abbiano prestato servizio con esposizione all'amianto i 25 dipendenti del Corpo forestale dello Stato ai quali, dal 2005 ad oggi, risulta essere stata disposta una ricongiunzione dei periodi, con relativa maggiorazione.
(2-00363) «Migliore, Piras».
(13 gennaio 2014)

B) Interrogazione

   ROSSI. – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. – Per sapere – premesso che:
   il 3 novembre 2013 è andato in onda su Sky il film documentario «Reduci» che narra le storie di sei soldati italiani tornati dalle missioni internazionali dove hanno subito incidenti anche gravi;
   si tratta di un documento di straordinaria importanza perché racconta il coraggio, la forza e lo spirito di sacrificio di uomini e donne di ritorno dall'Afghanistan, la battaglia condotta giorno dopo giorno per superare le ferite fisiche e psicologiche e riprendersi la propria vita;
   nel corso della presentazione del film documentario alla stampa, il produttore Michele Bongiorno ha dichiarato che la Rai ha rifiutato di trasmettere il documentario e che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per due anni consecutivi ha negato i fondi e il patrocinio, così come riportato anche dall'agenzia AgenParl –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se sia possibile conoscere le motivazioni che hanno portato al diniego della concessione dei fondi all'opera «Reduci». (3-00429)
(8 novembre 2013)

MOZIONI SULL'ETICHETTATURA DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI

   La Camera,
   premesso che:
    in un momento di grave crisi in cui il nostro Paese è alla ricerca di azioni e risorse per il rilancio dell'economia e della crescita occupazionale, il made in Italy e, in particolare, quello agroalimentare, è universalmente riconosciuto come straordinaria leva competitiva «ad alto valore aggiunto» per lo sviluppo del Paese;
    l'etichettatura dei prodotti alimentari è un procedimento per cui i produttori dei cibi confezionati sono tenuti a riportare, integralmente, tutti gli ingredienti presenti nei loro preparati alimentari;
    la normativa sull'etichettatura dei prodotti alimentari nasce nel 1978 con la direttiva 79/112/CEE, recepita in Italia mediante il decreto legislativo n. 109 del 1992;
    la legislazione in materia, naturalmente, si è aggiornata nel corso del tempo, in particolare con il decreto legislativo n. 181 del 2003, che recepiva una norma europea che aveva, come obiettivo, quello dell'armonizzazione delle normative a livello europeo;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, reca disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari e offre l'opportunità di anticipare l'applicazione della normativa comunitaria, introducendo l'obbligo di indicare l'esatta provenienza dell'origine degli alimenti nei settori delle carni suine, del latte e di tutti i prodotti trasformati a garanzia del corretto funzionamento del mercato e dell'adozione di scelte informate da parte dei consumatori;
    alla luce delle citate disposizioni, le finalità dell'etichettatura in sintesi sono quelle di non indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull'origine o sulla provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso ovvero non attribuire al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede;
    il 22 novembre 2011 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, che introduce alcuni cambiamenti in merito alla fornitura di informazioni sugli alimenti;
    scopo del regolamento è garantire un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti;
    tra le principali novità previste dalla nuova normativa comunitaria, si può ricordare, tra le tante, che diventa obbligatorio indicare alcune informazioni nutrizionali fondamentali e di impatto sulla salute, quali: il valore energetico e la quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. Tali indicazioni dovranno essere indicate sull'imballaggio in una tabella comprensibile, insieme e nel medesimo campo visivo;
    relativamente all'entrata in vigore, i soggetti preposti all'etichettatura dei prodotti alimentari possono usufruire di un periodo transitorio di tre anni per adeguarsi, con eccezione della novità riguardante l'indicazione dell'obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale, la cui cogenza è prevista entro un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore del regolamento;
    raccogliendo le sollecitazioni che hanno condotto all'approvazione del citato regolamento comunitario è stato da poco adottato nel Regno Unito un tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo – verde, giallo e rosso – in una scala in cui il primo colore racconta che il prodotto contiene un ingrediente «sano» e l'ultimo un componente «pericoloso»;
    il sistema, che ora dovrà essere utilizzato ufficialmente da tutte le industrie e non solo in maniera discrezionale dai dettaglianti, è definito «ibrido» perché prevede un'informazione mista, composta da due parti: una tabella con le assunzioni di riferimento (ovvero in quale percentuale cento grammi di prodotto contribuiscono al raggiungimento del fabbisogno giornaliero raccomandato – meglio noto con la sigla gda, guideline daily amounts) e un'indicazione visiva «ad alto impatto» che si serve dei colori del semaforo per segnalare la presenza adeguata (verde) o in eccesso (rossa) di nutrienti critici per la salute, quali grassi, grassi saturi, sale/iodio e zuccheri;
    il colore associato viene scelto in base ai valori di riferimento indicati dalla sintetica tabella guida fornita nel 2007 dalla Food standard agency, l'agenzia responsabile della salubrità del cibo nel Regno Unito;
    il sistema britannico ha suscitato notevoli perplessità che si fondano sul fatto che non ci sono alimenti buoni o cattivi in assoluto, perché molto dipende dalle quantità e dalle combinazioni: in sintesi è il pasto nel suo complesso che classifica una dieta come equilibrata o squilibrata;
    i colori del semaforo prescindono dalle quantità delle porzioni, per cui una persona può paradossalmente consumare una quantità elevata di alimenti «verdi», assumendo calorie e nutrienti in quantità maggiore rispetto a porzioni più contenute di alimenti «gialli» o «rossi». Il sistema potrebbe risultare diseducativo rispetto all'attenzione verso una dieta equilibrata, dove è buona regola fare un bilancio tra energie assunte e consumate;
    il livello di informazione e consapevolezza del consumatore europeo ed italiano, in particolare, consentirà, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, di accogliere questa novità non come un pericolo ma come un'opportunità per il sistema agricolo ed agroalimentare italiano e lombardo, purché, considerato che l'obbligatorietà di questa procedura creerebbe un'eccessiva rigidità del sistema imponendo alle imprese ulteriori adempimenti, il sistema «semaforo» rimanga volontario e facoltativo;
    indubbiamente è importante che il consumatore sia informato del contenuto nutrizionale dei prodotti in vendita, ma questa informazione dovrà essere completata da quella sull'origine dei prodotti;
    il made in Italy agroalimentare si caratterizza per le sue eccellenze in termini di maggior valore aggiunto per ettaro in Europa, livello di sicurezza e sistema dei controlli alimentari, prodotti a denominazione e produzioni biologiche;
    la crescita costante dell’export testimonia l'indiscutibile ruolo dell'agroalimentare del nostro Paese e del valore attribuito al marchio made in Italy;
    l'agroalimentare made in Italy registra un fatturato nazionale superiore ai 266 miliardi di euro e rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo;
    invece che alla valorizzazione ed alla promozione del vero made in Italy, si assiste ad una vera e propria svendita dell'economia e dei territori italiani, che rischia di danneggiare irrimediabilmente il vero grande patrimonio del Paese;
    occorre prevenire e contrastare l'usurpazione del made in Italy, assicurando la qualità, la salubrità, le caratteristiche e l'origine dei prodotti alimentari, in quanto elementi funzionali a garantire la salute ed il benessere dei consumatori ed il diritto ad un'alimentazione sana, corretta e fondata su scelte di acquisto e di consumo consapevoli;
    le produzioni italiane caratterizzate dall'alta qualità costituiscono da sempre l'eccellenza del mercato agroalimentare e sono unanimemente inserite nei regimi alimentari corretti (dieta mediterranea);
    solo la tutela rigida dell'autenticità dell'indicazione di provenienza potrà consentire una scelta consapevole relativamente alle componenti di un regime alimentare equilibrato;
    pertanto, è fondamentale che il consumatore sia informato al fine di poter compiere scelte alimentari mirate e consapevoli che garantiscano uno stile di vita sano. Questa informazione dovrà essere completa: non solo il contenuto dei vari alimenti in termini di contenuto, ma anche la provenienza di questi alimenti;
    è sempre opportuno tener presente come la garanzia della provenienza dei vari prodotti tuteli la salute dei consumatori quanto, se non più, della consapevolezza sulla composizione degli stessi alimenti: è inutile conoscere il contenuto in grassi di un alimento se lo stesso è adulterato o sofisticato oppure se ne sono state falsificate le origini o le modalità di produzione;
    la commercializzazione di prodotti di imitazione, ovvero che evocano una origine ed una fattura italiana, ma senza possederne le caratteristiche, provocano un danno all'immagine del Paese, come espressione dell'identità culturale dei territori, con grave nocumento alle imprese a causa della concorrenza sleale derivante dalla sottrazione di spazi di mercato e dall'inganno a danno dei consumatori;
    molti controlli operati, soprattutto nel settore delle carni suine, hanno già evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, oltre che inserire come obbligatoria l'indicazione di alcune informazioni nutrizionali fondamentali, impone come obbligatoria l'indicazione del Paese di origine o del luogo di provenienza per una serie di prodotti, tra cui le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate, rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    in Italia, la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno e sono oltre 26.200 gli allevamenti di suini ampiamente diffusi su tutto il territorio nazionale;
    in Italia, rispetto a 73,5 milioni di cosce suine consumate, 57,3 milioni sono di importazione, 24,5 milioni sono di produzione nazionale e 8,3 milioni vengono avviate all'esportazione;
    i dati relativi alle importazioni di cosce fresche riportano percentuali altissime riferite alla provenienza di prodotti da alcuni Stati dell'Unione europea;
    sulla base di dati elaborati dall'Associazione nazionale allevatori di suini (Anas) risulta che l'Italia, nel 2012, ha importato, solo dalla Germania, il 52 per cento di suini vivi e carni suine, per un totale di 535.309 tonnellate;
    da articoli apparsi sulla stampa europea è emerso che l'efficienza dell'industria della carne suina in Germania è basata su prodotti a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento non sostenibili, con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici,

impegna il Governo:

   a promuovere tutte le iniziative più opportune al fine di prevenire le pratiche fraudolente o ingannevoli ai danni del made in Italy o, comunque, ogni altro tipo di operazione o attività commerciale in grado di indurre in errore i consumatori e, ancora, ad assicurare la più ampia trasparenza delle informazioni relative ai prodotti alimentari ed ai relativi processi produttivi e l'effettiva rintracciabilità degli alimenti;
   ad intervenire nelle sedi opportune affinché il tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo utilizzato nel Regno Unito trovi diffusione solo come opzione volontaria e facoltativa e venga necessariamente abbinato agli strumenti per la tutela dell'origine degli alimenti, con particolare riferimento alla tutela del made in Italy;
   a chiedere, in sede europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con particolare riferimento alle carne suine;
   ad emanare, nelle more dell'approvazione a livello comunitario dei suddetti provvedimenti di esecuzione, i decreti attuativi della legge n. 4 del 2011 per introdurre l'obbligo di etichettatura, in particolare delle carni suine, avviando, altresì, opportune campagne di informazione per gli organi di controllo e per i consumatori sulle normative in materia di etichettatura dei prodotti alimentari e di indicazioni di origine;
   a rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
   a dare attuazione, con specifico riferimento al commercio delle carni suine, all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n.27, al fine di contrastare pratiche commerciali sleali poste in essere, ai danni degli allevatori, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza;
   ad adottare, anche per le carni suine, un sistema analogo a quello previsto dall'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, che reca norme sulla qualità e sulla trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini, al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine di tutti i prodotti alimentari, nonché ad assicurare l'accesso ai relativi documenti da parte dei consumatori, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche.
(1-00227)
(Nuova formulazione) «Rondini, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera».
(30 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è un'eccellenza riconosciuta a livello mondiale e la tutela dei prodotti agroalimentari è condizione indispensabile non solo alla difesa delle nostre produzioni, ma anche alla conservazione e promozione delle identità dei territori e delle sapienti tecniche di produzione strettamente legate alle aree geografiche di provenienza;
    il contrasto alla contraffazione è uno degli elementi essenziali della strategia di difesa delle produzioni tipiche e passa necessariamente attraverso l'informazione ai consumatori, posto che l'agropirateria è uno degli aspetti maggiormente lesivi della competitività internazionale dei prodotti italiani di qualità e che circa tre prodotti su quattro sono venduti come made in Italyi, pur essendo ottenuti da materia prima straniera;
    l'uso ingannevole di nomi, denominazioni, immagini e loghi, allo scopo di falsificare l'identità merceologica degli alimenti, è ormai un'emergenza in continuo aumento unitamente al dilagare di pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, in particolare per quanto concerne la reale origine geografica degli ingredienti utilizzati;
    al fine di contenere tale fenomeno, assume un'importanza vitale la questione dell'etichettatura d'origine dei prodotti alimentari. L'indicazione in etichetta del luogo di origine o di provenienza delle materie prime utilizzate e dell'eventuale impiego di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati è, infatti, l'unica informazione che garantisca sicurezza e trasparenza ai consumatori;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, disponendo l'obbligo di riportare in etichetta l'indicazione del luogo di origine o di provenienza dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati e prevedendo adeguate sanzioni in caso di violazione degli obblighi prescritti, è un riferimento normativo essenziale a limitare e contrastare i fenomeni di contraffazione e pirateria commerciale, ancorché la sua effettiva applicazione risulti al momento sospesa in attesa della emanazione dei decreti ministeriali di attuazione;
    sarebbe, inoltre, opportuno che i suddetti decreti disponessero, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
    particolarmente allarmante è, inoltre, il fenomeno della contraffazione on line, posto che la rete offre anonimato, costi bassi e possibilità di una veloce e facile scomparsa dal mercato; dati aggiornati evidenziano che il commercio on line nel settore alimentare risulta quello in maggior crescita, tanto che si stima, per il 2013, un balzo del 18 per cento;
    tale situazione genera ancor più preoccupazione alla luce delle nuove iniziative che potrebbero essere intraprese a breve dalla società americana Icann, ovvero l'autorità che genera il rilascio dei suffissi internet, che ha attivato le procedure per assegnare, dietro pagamento, a soggetti privati, indipendentemente se siano, ad esempio, viticoltori o utilizzatori riconosciuti delle denominazioni, domini di primo livello generico, tra i quali: «wine» e «vin», oltre a «food» e «organic»;
    i titolari dei suddetti domini potrebbero, infatti, attraverso l'abbinamento a domini di secondo livello, registrare indirizzi come «baroloclassico.wine» o anche «prosciuttodiparma.food» e sovrapporli agli indirizzi dei prodotti originali, generando totale confusione nelle piattaforme di commercio elettronico, con danni incalcolabili per il sistema di qualità agroalimentare italiano;
    è indispensabile assicurare che l'assegnazione di nomi generici, accordati in via esclusiva a privati e senza particolari garanzie, quali domini di primo livello, sia improntata al rispetto delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, posto che il loro utilizzo, peraltro esclusivo, ha implicazioni commerciali, di relazioni tra Paesi e di immagine, con effetti devastanti in ambito commerciale internazionale e in grado di attivare infiniti e costosi contenziosi;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione «semaforica» del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto. Lo schema inglese si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    l'etichettatura agroalimentare è regolamentata a livello europeo dal regolamento (UE) n. 1169/2011, attraverso il quale la Commissione europea ha razionalizzato e armonizzato la legislazione sulle informazioni al consumatore, al fine di garantire il buon funzionamento del mercato interno. Alla luce di ciò lo schema britannico – per il quale il Governo italiano ha formalmente espresso la propria posizione contraria – appare in palese contrasto con gli obiettivi di armonizzazione del suddetto regolamento dell'Unione europea e rappresenta un pericoloso precedente che potrebbe preludere alla proliferazione di una molteplicità di differenti schemi nazionali,

impegna il Governo:

   ad adottare con la massima urgenza i decreti ministeriali di attuazione dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, al fine di rendere immediatamente applicabile la normativa sull'etichettatura di origine dei prodotti agroalimentari a tutela dei consumatori e degli operatori della filiera e a prevedere, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
   ad intervenire con determinazione nelle competenti sedi internazionali e prioritariamente in ambito Gac (Government advisory committee), anche in collaborazione con gli altri Stati membri interessati e con la Commissione europea, per bloccare l'introduzione di nomi generici a domini internet e la loro assegnazione a soggetti privati non utilizzatori delle denominazioni, a garanzia di tutela del sistema agroalimentare di qualità italiano;
   a promuovere, a livello di unione europea, un'azione comune a difesa della posizione della «non concedibilità» dei nomi generici e della necessità di rivedere la governance di internet con la definizione di regole condivise a livello internazionale;
   ad assumere tutte le iniziative di competenza affinché la Commissione europea avvii una rapida verifica sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, così come previste dal regolamento (UE) n. 1169/2011, nonché sul rispetto da parte del Governo britannico dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a tutelare l'immagine e il valore economico dell’export agroalimentare (come il contrasto all’italian sounding) dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria siano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a diffondere, tramite puntuali campagne informative, l'importanza di una dieta varia ed equilibrata insieme ad una regolare attività fisica, esprimendo contrarietà a qualsiasi sistema di etichettatura alimentare basato su approcci che tendono a confondere i consumatori;
   a sostenere progetti per la promozione del consumo di prodotti agroalimentari italiani nella ristorazione italiana all'estero, attraverso la predisposizione di un documento di reciproci impegni e garanzie tra imprese agroalimentari, Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e ristoranti interessati.
(1-00274)
«Gallinella, L'Abbate, Lupo, Parentela, Gagnarli, Massimiliano Bernini, Benedetti, Villarosa, Brugnerotto, D'Incà, Castelli, Fico».
(3 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'agroalimentare made in Italy rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo, di cui oltre 53 miliardi di euro provengono dal settore agricolo;
    il successo dell'agroalimentare italiano nel mondo e l'accreditamento attribuito al marchio «Italia» non conoscono arretramenti, come dimostra la crescita costante dell’export, ma anche la diffusione dei fenomeni di imitazione e pirateria commerciale;
    il made in Italy agroalimentare è la leva esclusiva per una competitività «ad alto valore aggiunto» e per lo sviluppo sostenibile del Paese, grazie ai suoi primati in termini di qualità, livello di sicurezza e sistema dei controlli degli alimenti, riconoscimento di denominazioni geografiche protette e produzione biologica;
    il settore agricolo ha una particolare importanza non solo per l'economia nazionale – considerati la percentuale di superficie coltivata, il più elevato valore aggiunto per ettaro in Europa ed il maggior numero di lavoratori occupati nel settore – ma, altresì, come naturale custode del patrimonio paesaggistico, ambientale e sociale;
    in agricoltura sono presenti circa 820 mila imprese, vale a dire il 15 per cento del totale di quelle attive in Italia;
    sulla base dei dati dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare – Efsa – l'Italia risulta prima, nel mondo, in termini di sicurezza alimentare, con oltre 1 milione di controlli l'anno, il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3 per cento), con un valore inferiore di cinque volte rispetto a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e addirittura di 26 volte rispetto a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità);
    la libera circolazione di alimenti sicuri e sani è un aspetto fondamentale del mercato interno, ma, sempre più spesso, la salute dei consumatori e la corretta e sana alimentazione appaiono compromesse da cibi anonimi, con scarse qualità nutrizionali, o addizionati e di origine per lo più sconosciuta;
    la circolazione di alimenti che evocano un'origine ed una fattura italiana che non possiedono costituisce una vera e propria aggressione al patrimonio agroalimentare nazionale, che, come espressione dell'identità culturale dei territori, rappresenta un bene collettivo da tutelare ed uno strumento di valorizzazione e di sostegno allo sviluppo rurale;
    continuano a crescere le importazioni provenienti da Paesi, tra i quali la stessa Germania, in cui ci si basa su produzioni a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento, come quello suinicolo, non sostenibili e con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici;
    relativamente al settore zootecnico, si ricorda che gli allevamenti italiani di suini, presenti prevalentemente in Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria e Sardegna, sono oltre 26.200 e la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno;
    il settore suinicolo rappresenta una voce importante dell'agroalimentare italiano. La suinicoltura italiana, infatti, occupa il 7o posto in Europa per numero di capi mediamente presenti e offre occupazione, lungo l'intera filiera, a circa 105 mila addetti, di cui 50 mila nel solo comparto dell'allevamento: in Italia nel 2012 la consistenza è stata di 9,279 milioni di capi, preceduta da Germania (28,1 milioni), Spagna (25,2 milioni), Francia (13,7 milioni), Danimarca (12,4 milioni), Olanda (12,2 milioni) e Polonia (11,9 milioni di capi);
    secondo analisi ed elaborazioni dell'Associazione nazionale allevatori suini (Anas), riferiti al primo semestre 2013, il valore dell'allevamento riconosciuto nella fase della distribuzione è stato del 17,28 per cento. Sempre secondo la predetta Associazione nazionale allevatori suini, l'Italia, nel 2012, ha importato complessivamente 1.020.425 tonnellate di suini vivi e carni suine, di cui il 52 per cento dalla Germania, pari a 535.309 tonnellate;
    dalle stesse elaborazioni si rileva che il costo medio di produzione del suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è di 1,56 euro al chilogrammo;
    i medesimi dati evidenziano che il prezzo medio riconosciuto all'allevatore per il suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è stato di 1,4 euro al chilogrammo;
    articoli di stampa europei hanno recentemente messo in luce che l'industria della carne suina tedesca è efficiente ed è basata su prodotti a basso costo, ma che, dietro questo sistema, ci sono operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento che usano enormi quantità di antibiotici;
    molti controlli operati sul settore delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'attuale situazione del mercato risulta complicata dalla mancanza di trasparenza sull'indicazione di origine delle carni suine, che rischia di creare confusione tra i prodotti di provenienza nazionale – che assicurano, tra l'altro, elevati standard di sicurezza e qualità – ed i prodotti di importazione che invece, spesso, presentano minori garanzie per il consumatore;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, prevede che l'indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza è obbligatoria per le carni dei codici della nomenclatura combinata elencati all'allegato XI del regolamento medesimo – tra le quali sono contemplate le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate – rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    molti controlli operati sulle filiere del latte e dei prodotti lattiero-caseari, dei cereali, con particolare riferimento al grano duro, dei pomidoro non destinati a passata e delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali, al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    l'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, «Norme sulla qualità e la trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini», introduce un sistema al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine degli oli di oliva vergini, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    l'usurpazione del made in Italy minaccia la solidità e provoca gravi danni alle imprese agricole insediate sul territorio, violando il diritto dei consumatori ad alimenti sicuri, di qualità e di origine certa;
    il codice del consumo, recependo la disciplina comunitaria in materia, attribuisce ai consumatori ed agli utenti: i diritti alla tutela della salute; alla sicurezza ed alla qualità dei prodotti; ad un'adeguata informazione e ad una pubblicità veritiera; all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; all'educazione al consumo; alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali;
    la disciplina a tutela dei prodotti di origine italiani introduce norme specifiche per contrastare la contraffazione ed evitare qualunque fraintendimento nell'indagine di provenienza falsa e fallace;
    di fronte alle numerose problematicità sopra enunciate ed alla luce dei danni provocati all'economia agroalimentare nazione, alla tutela dei consumatori ed alla capacità competitiva del settore rurale nazionale, dai richiamati comportamenti sleali, se non illeciti, che si verificano nel campo commerciale delle produzioni agricole ed alimentari indicate come di origine italiana mentre non lo sono, sarebbe inderogabile attivare un'organica politica di contrasto e di repressione;
    in particolare, andrebbero intraprese misure adeguate per stroncare tali presunti comportamenti contrari alla trasparenza ed alle norme di tutela dei consumatori e delle produzioni agroalimentari aventi un'origine da cui traggono particolare reputazione e rinomanza, qual è l'indicazione made in Italy,

impegna il Governo:

   ad intraprendere tutte le occorrenti iniziative volte a rafforzare la tutela della denominazione made in Italy nel campo delle produzioni agroalimentari, dando particolare priorità all'attivazione di misure dirette a contrastare l'utilizzo della stessa denominazione in maniera falsa o ingannevole relativamente alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti agroalimentari di origine italiana;
   per le medesime finalità di cui al capoverso precedente, ad adottare iniziative dirette a:
    a) prevedere l'adozione, anche per il latte ed i suoi derivati, per le carni suine e per tutte le altre produzioni importate, di un sistema analogo a quello previsto per gli oli di oliva vergini, dalla legge n. 9 del 2013 citata, per assicurare l'accessibilità delle informazioni e dei dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine delle carni suine e promuovere, a tale scopo, la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    b) con specifico riferimento al settore del commercio nel settore delle carni suine, consentire la piena attuazione all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui vieta pratiche commerciali sleali che possano determinare, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, il riconoscimento di prezzi agli allevatori palesemente inferiori ai costi di produzione medi da essi sostenuti;
    c) fare in modo di promuovere, in sede di Unione europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con riferimento al latte ed ai prodotti lattiero-caseari, alle carni suine fresche, refrigerate o congelate ed altre produzioni interessate dal suddetto regolamento;
    d) rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
    e) fornire alle autorità di controllo e, in particolare, al Corpo forestale dello Stato, indicazioni operative finalizzate a fare applicare la definizione precisa dell'effettiva origine degli alimenti, secondo quanto stabilito dall'articolo 4, commi 49 e 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350, sulla tutela del made in Italy.
(1-00276)
«Mongiello, Oliverio, Realacci, Patriarca, Covello, Di Gioia, Cera, Scanu, Stumpo, Amendola, Folino, Marrocu, Antezza, Tentori, Piccione, Mognato, Ventricelli, Melilli, Mazzoli, Manzi, Moretti, Rubinato, Fauttilli, Palma, Montroni, Del Basso De Caro, Sberna, Iacono, Venittelli, Basso, Parisi, Marzano, Sannicandro, Blazina, Biondelli, Biasotti, Pastorelli, Censore, Manfredi, Taricco, Fitzgerald Nissoli, Grassi, D'Ottavio, Valiante, Nardella, Monaco, Mariano, Pagani, Petitti, Vezzali, Bruno Bossio, Marguerettaz, Bargero, Ghizzoni, Lodolini, Petrini, Terrosi, Ascani, Morani, Pelillo, Carra».
(5 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare perché rappresenta l'eccellenza dei territori italiani nella misura in cui non è solamente un settore destinato alla produzione di alimenti, ma identifica un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità di notevoli potenzialità;
    il valore della produzione agroalimentare può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, della tracciabilità degli alimenti e dell'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali e di contraffazione dei prodotti agroalimentari;
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale che internazionale, emerge il dato che, ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino; infatti, le cifre dicono che il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo e ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto. La quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori, Cia, nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento. Ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici e di qualità certificata;
    l'Italia vanta il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, di una tutela della qualità delle produzioni agroalimentari elevata: si pensi che il Paese ha il maggior numero di prodotti a marchio registrato come la denominazione d'origine protetta, dop, l'indicazione geografica e protetta, igp, e la specialità tradizionale garantita, stg, che sono oggetto di numerosi e sofisticati tentativi di contraffazione;
    il 25 settembre 2013 la Camera dei deputati ha nuovamente istituito, nell'intento di proseguire il lavoro istruttorio svolto nel corso della XVI Legislatura, una Commissione d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha iniziato l'esame di talune proposte sul tema dell'obbligatorietà dell'indicazione di origine della materia agricola nell'etichetta, del coordinamento e del rafforzamento dei controlli per la tutela dei prodotti agricoli di qualità, nonché della promozione di prodotti provenienti da «filiera corta» o a «chilometro zero»;
    in merito all'indicazione in etichetta dell'origine del prodotto, gli interventi del legislatore italiano si sono scontrati nel corso degli anni con l'impostazione, ancora prevalente in sede europea, tendente a ritenere incompatibile con il mercato unico la presunzione di qualità legate alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo di un prodotto alimentare. A tale principio hanno fatto eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza;
    per i restanti prodotti alimentari è stato sinora fissato il principio che l'indicazione del luogo d'origine o di provenienza possa essere resa obbligatoria solo nell'ipotesi che l'omissione dell'indicazione stessa possa indurre in errore il consumatore circa l'origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare (articolo 3 della direttiva 2000/13/CE, recepito dall'articolo 3 del decreto legislativo n. 109 del 1992). Il principio è stato confermato anche con il regolamento (UE) n. 1169/2011, che, in sostituzione della precedente direttiva, ha, tuttavia, esteso a talune carni l'obbligo di indicarne l'origine (articolo 26, paragrafo 2);
    il legislatore nazionale ha tradizionalmente attribuito, invece, grande rilievo alla possibilità di definire una legislazione che consentisse di indicare l'origine nazionale della produzione agroalimentare. La produzione nazionale alimentare è considerata una delle eccellenze e, pertanto, il suo legame territoriale è stato ritenuto costantemente elemento di pregio, quindi degno di segnalazione al consumatore anche per le produzioni non «a denominazione protetta»;
    con l'approvazione nel 2004 dell'articolo 1-bis del decreto-legge n. 157 del 2004, venne introdotto per la prima volta l'obbligo generalizzato di indicare il luogo di origine della componente agricola incorporata in qualsiasi «prodotto alimentare», trasformato e non trasformato. Alla luce, tuttavia, della legislazione europea, la circolare del 1o dicembre 2004 del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali rilevò che il decreto legge «conteneva molteplici principi e disposizioni richiedenti una corretta interpretazione»; pertanto, non potevano ritenersi immediatamente operative le disposizioni sull'indicazione obbligatoria in etichetta dell'origine dei prodotti;
    nella XVI legislatura, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati, in sede legislativa, ha approvato all'unanimità la legge 3 febbraio 2011, n. 4, in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari. Il testo della legge risulta, pertanto, incentrato sull'esigenza di promuovere il sistema produttivo nazionale nel quale la qualità dei prodotti è frutto del legame con i territori di origine e sulla pari necessità di trasmettere al consumatore le informazioni sull'origine territoriale del prodotto, alla base delle dette qualità. Il fine di assicurare una completa informazione ai consumatori è, infatti, alla base delle norme (articoli 4 e 5) che dispongono l'obbligo, per i prodotti alimentari posti in commercio, di riportare nell'etichetta anche l'indicazione del luogo di origine o di provenienza. Specificatamente, per i prodotti alimentari non trasformati, il luogo di origine o di provenienza è il Paese di produzione dei prodotti; per i prodotti trasformati la provenienza è da intendersi come il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale, il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione. L'etichetta deve, altresì, segnalare l'eventuale utilizzazione di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati, dal luogo di produzione iniziale fino al consumo finale. Le norme, che demandano sostanzialmente alle regioni l'attività di controllo, sono, peraltro, rafforzate da disposizioni sanzionatorie (così il comma 10 dell'articolo 4), che prevedono l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa fra 1.600 euro e 9.500 euro per i prodotti non etichettati correttamente. Le modalità applicative dell'indicazione obbligatoria d'origine sono state demandate a decreti interministeriali chiamati a definire, all'interno di ciascuna filiera alimentare, quali prodotti alimentari saranno assoggetti all'etichettatura d'origine;
    i decreti attuativi non sono stati a tutt'oggi emanati da parte dei Ministeri delle politiche agricole, alimentari e forestali e dello sviluppo economico, proprio a causa della difficile applicazione della asserita «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi». Le disposizioni nazionali non possono, infatti, che essere coerenti con la normativa approvata dall'Europa che, prima con la direttiva 2000/13/CE, poi con il regolamento (UE) n. 1169/2011, ha disciplinato le modalità e i contenuti informativi da trasmettere ai consumatori. In particolare, l'articolo 26 stabilisce le condizioni e le modalità dell'indicazione del Paese d'origine o luogo di provenienza degli alimenti; l'articolo 45 regola, poi, la procedura con la quale le norme nazionali debbono essere notificate alla Commissione europea e agli altri Stati membri;
    per sollecitare l'attuazione dell'articolo 4 della legge n. 4 del 2011 e, quindi, l'introduzione dell'obbligo di indicazione dell'origine del prodotto nell'etichetta, sul finire della XVI legislatura è stato presentato un disegno di legge, approvato dal Senato e trasmesso alla Camera (atto Camera 5559), nel quale si stabiliva, tra l'altro, che i decreti attuativi dovessero essere adottati entro due mesi dall'entrata in vigore del provvedimento. La fine anticipata della legislatura non ha consentito la conclusione dell’iter parlamentare;
    recentemente l'Unione europea ha apportato, in tema di indicazioni, delle modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello d'informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni, che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette. Il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering) e quelli destinati alla fornitura delle collettività. Esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare «disposizioni ulteriori» (articolo 39 del regolamento) per specifici motivi: protezione della salute pubblica e dei consumatori, prevenzione delle frodi, repressione della concorrenza sleale, protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale e tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata. Lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'esigenza di una ricomposizione tra le regole del mercato interno comunitario e la protezione della qualità delle produzioni locali è stata esplicitata nella risposta fornita dal Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali pro tempore ad un'interrogazione presentata sull'argomento al Senato della Repubblica nella seduta del 20 settembre 2012; il Ministro pro tempore ha, in tale occasione, affermato che: «(...) occorre tener presente che la legge n. 4 del 2011 sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari si inserisce in un quadro normativo regolato a livello sovrastante dall'Unione europea e che, quindi, la redazione dei decreti attuativi pone problemi di compatibilità con la normativa comunitaria vigente (...)». Il Ministro annunciò, in tale occasione, di aver predisposto il decreto attuativo per il settore lattiero-caseario (sul latte a lunga conservazione, uht, pastorizzato microfiltrato e latte pastorizzato ad elevata temperatura), il più importante segmento di mercato tra quelli nei quali non è già in vigore un obbligo di indicazione dell'origine, e che sarebbe stato di prossima definizione un altro decreto per le carni lavorate. Il processo si è poi interrotto perché la Commissione europea, comunicatole lo schema di decreto per il settore lattiero-caseario, con decisione del 28 agosto 2013 (notificata con il numero C(2013) 5517), ha ritenuto che le giustificazioni fornite dall'Italia, legate all'esigenza di protezione degli interessi dei consumatori e di prevenzione e repressione delle frodi comunitaria, non risultassero sufficientemente dimostrabili;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha ripreso nella XVII legislatura la problematica in esame, inserendo in calendario l'esame di due proposte di legge (atti Camera 1173 e 427), le quali intervengono nuovamente proprio sul problema dei tempi di emanazione dei decreti attuativi della legge n. 4 del 2011, prevedendo, anche in questo caso, che gli stessi siano emanati entro il termine perentorio di due mesi dalla data di entrata in vigore delle medesime proposte di legge;
    numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi – anche se non certificate – ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni in essa riportate;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione semaforica (verde-giallo-rosso) del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto, che ha destato molte critiche e disapprovazioni;
    lo schema inglese del «semaforo» si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    schedare cibi e bevande in questo modo, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, è pericoloso e fuorviante, perché si offre al consumatore soltanto un'informazione parziale ed erronea, che non tiene più conto della dieta complessiva e, soprattutto, non considera il regime alimentare nel suo insieme e, quindi, il modo in cui gli alimenti vengono integrati fra loro;
    il Governo britannico, peraltro, non ha notificato all'Unione europea l'introduzione del nuovo sistema di etichettatura;
    contro l'introduzione di questo sistema si sono espresse le maggiori sigle dei produttori alimentari italiani e anche associazioni di altri Paesi, in particolare del Sud Europa;
    ovviamente, questo scenario vede penalizzati innanzitutto i prodotti alla base della dieta mediterranea, il cui valore come «patrimonio immateriale dell'umanità» è stato ufficialmente riconosciuto dall'Unesco nel 2010: un vero attacco alla tradizione agroalimentare del Sud;
    al fine di verificare la compatibilità del sistema di etichettatura nutrizionale inglese con la normativa europea e per la tutela dei prodotti agroalimentari italiani, la Commissione affari sociali e la Commissione agricoltura della Camera dei deputati hanno adottato una risoluzione unitaria in data 23 ottobre 2013;
    in data 4 dicembre 2013, la Coldiretti ha promosso al passo del Brennero una forte campagna di protesta e sensibilizzazione nei confronti delle istituzioni governative italiane ed europee per il continuo e spregiudicato attacco da parte di altri Paesi europei al made in Italy nell'agroalimentare. La protesta è consistita con il blocco dei tir provenienti dall'Austria che trasportavano prodotti agroalimentari con l'etichettatura made in Italy, i cui prodotti agroalimentari non sono stati prodotti in Italia. Si pensi, che l'uso improprio del nome made in Italy, conosciuto come italian sounding, costa al nostro sistema di impresa del settore primario oltre 60 miliardi di euro di perdite l'anno,

impegna il Governo:

   a promuovere in sede comunitaria le idonee iniziative al fine di poter consentire al nostro Paese di tutelare il made in Italy con un sistema di etichettatura dei prodotti agroalimentari che consenta di salvaguardare la biodiversità agroalimentare nella sua interezza culturale;
   ad avviare, nelle opportune sedi europee, tutte le trattative politico-istituzionali al fine di veder riconosciuta all'Italia la possibilità di utilizzare le «disposizioni ulteriori» stabilite dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011 per specifici motivi, quali: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi, la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, nonché la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
   a procedere speditamente all'emanazione dei decreti attuativi della legge 3 febbraio 2011, n. 4, affinché si possa applicare la «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi»;
   ad assumere le opportune iniziative con la Commissione europea sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese – «etichettatura semaforica» – con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, in particolare con i criteri previsti dall'articolo 35 del regolamento (UE) n. 1169/2011, e sul rispetto da parte del Governo inglese dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a chiedere alle autorità europee la sospensione del sistema di «etichettatura semaforica» della Gran Bretagna, in quanto il sistema si basa su considerazioni che non tengono conto del mix di alimenti che quotidianamente forniscono i nutrienti di cui si ha bisogno, ma si basa su criteri di definizione e indicazione apodittici e privi di qualsivoglia dato empirico, posto che tutto questo distrugge la caratteristica principale dei prodotti agroalimentari italiani che hanno quale «humus organolettico» la biodiversità del territorio nazionale;
   a tutelare in ogni modo l'immagine e il valore culturale ed economico dell’export agroalimentare dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria vengano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a farsi garante ed essere attore attivo nelle campagne di sensibilizzazione contro le contraffazioni dei prodotti italiani attraverso le sedi estere della televisione pubblica nazionale, promuovendo in modo più incisivo il vero made in Italy;
   a difendere e tutelare giuridicamente il valore indisponibile e immateriale della «dieta mediterranea» quale patrimonio dell'umanità, così come dichiarato nel 2010 dall'Unesco.
(1-00277)
«Franco Bordo, Migliore, Palazzotto, Ferrara, Lacquaniti, Zan, Pellegrino, Zaratti, Nicchi, Aiello, Piazzoni, Matarrelli».
(6 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    in seguito alla proposta inglese di «etichettatura semaforica», con il presente atto di indirizzo, oltre che stigmatizzare l'infondatezza scientifica di tale sistema d'informazione al consumatore e di come possa provocare effetti distorsivi sul mercato per prodotti italiani di sicura genuinità e salubrità se assunti in combinazioni dietetiche idonee e tradizionali, si vuole sottolineare la necessità di predisporre un quadro organico nell'ambito del quale definire una puntuale articolazione e un maggiore dettaglio del sistema di etichettatura, da adottare ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori». Esso consente, infatti, agli Stati membri di adottare disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per determinate motivazioni;
    l'intenzione è di ribaltare l'approccio inglese meramente quantitativo ed evidenziare, invece, un approccio italiano o semplicemente di «buon senso» (da portare in sede europea e all'Expo 2015 «Nutrire il pianeta»), mostrando come l'informazione al consumatore si debba caratterizzare per esplicitazione di dati scientifici del prodotto e di caratteristiche che possano descriverne i processi produttivi e le qualità finali in modo accertato;
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare; rappresenta l'eccellenza dei territori italiani, nella misura in cui non è solo il settore destinato alla produzione di alimenti, ma rappresenta un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità e di grandi potenzialità;
    a fronte di una globalizzazione alimentare che impone standard di competitività molto alta, il nostro Paese deve far leva sulle peculiarità originali delle sue produzioni agroalimentari, esaltando i tratti della tipicità, della genuinità, del legame inscindibile col territorio. Il valore della produzione può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, la tracciabilità degli alimenti e l'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, la contraffazione dei prodotti e le varietà transgeniche provenienti da Usa e Cina (in particolare, di queste ultime si ha scarsa conoscenza);
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale sia internazionale, emerge il dato che ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino. In cifre, il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo ed ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto, la quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori (Cia), nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento; ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici. L'Italia può vantare il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, come numero di prodotti riconosciuti con la qualifica di denominazione d'origine protetta (dop), indicazione geografica protetta (igp) e specialità tradizionale garantita (stg). La valorizzazione del patrimonio agroalimentare italiano costituisce, al pari di quello artistico-culturale ed ambientale, una grande potenzialità di sviluppo economico dell'intero Paese. Attraverso la tutela delle denominazioni di origine è possibile incoraggiare le produzioni agricole ed i prodotti, proteggendo i nomi dei prodotti, contro imitazioni ed abusi, aiutando contemporaneamente il consumatore a riconoscere e a scegliere consapevolmente le qualità anche in campo agroalimentare;
    in tema di indicazioni del prodotto agroalimentare l'Unione europea ha apportato, di recente, modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169 del 2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello di informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette;
    il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering);
    esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare disposizioni ulteriori (articolo 39) per specifici motivi: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi e la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
    lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'Italia, Paese ricco di biodiversità, può in questa fase storica, alla luce anche delle indicazioni date dal mercato che premia il prodotto tipico e ecocompatibile, dare compiuta attuazione al richiamato regolamento sull'etichettatura, avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 39, alla luce della necessità di valorizzazione i prodotti made in Italy e i processi ecocompatibili di produzione agroalimentare, al fine di renderli ancora più concorrenziali e appetibili;
    peraltro, atteso che numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile, sarà fondamentale addivenire ad un'armonizzazione a livello europeo;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi (anche se non certificate) ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta, sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni riportate;
    l'etichettatura concernente la presenza di organismi geneticamente modificati negli alimenti a livello europeo è disciplinata da due regolamenti: regolamento (CE) 1829/2003, su alimenti e mangimi, e regolamento (CE) n. 1830/2003 sulla tracciabilità e l'etichettatura degli organismi geneticamente modificati. L'etichetta deve chiaramente riportare la dicitura «geneticamente modificato» o «prodotto da (nome dell'ingrediente) geneticamente modificato». Ciò assume particolare rilevanza per i Paesi che, come l'Italia, tradizionalmente sono ogm free;
    per gli alimenti che contengono organismi geneticamente modificati in una proporzione non superiore allo 0,9 per cento per ciascun ingrediente non è obbligatoria l'etichettatura come organismo geneticamente modificato (nonostante tale percentuale corrisponda a circa 1 grammo di prodotto geneticamente modificato ogni chilo, una quantità molto elevata e non riconducibile ad esclusiva causa accidentale, necessitando, dunque, una chiara informazione al consumatore), purché la presenza di organismi geneticamente modificati sia accidentale o tecnicamente inevitabile;
    la normativa sull'etichettatura di alimenti e mangimi provenienti da organismi geneticamente modificati fa perno, quindi, su una soglia per la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati. Tracce minime di organismi geneticamente modificati nei prodotti alimentari sono tollerate se la loro presenza è accidentale o se è da una contaminazione tecnicamente inevitabile nel corso della coltivazione, del raccolto, del trasporto o della lavorazione;
    gli operatori devono essere in grado di dimostrare alle autorità la natura accidentale o tecnicamente inevitabile della presenza di organismi geneticamente modificati in un prodotto alimentare;
    l'apporre un determinato marchio, arricchendo in tal modo le indicazioni in etichetta, significa consentire, pertanto, di valorizzare a pieno quei prodotti che nascono da aziende che hanno scelto di non utilizzare organismi geneticamente modificati in tutte le fasi della filiera agroalimentare, compresa la mangimistica per l'allevamento. Inoltre, significa fornire al consumatore un'informazione più completa, rassicurandolo dell'origine della mangimistica per la produzione di carne, uova, latte e derivati (l'approvvigionamento della mangimistica geneticamente modificata proviene totalmente dall'estero, essendo l'Italia ogm free, di fatto, fino al limitato caso friulano dell'estate 2013);
    nella legislazione europea vi è, pertanto, un vuoto normativo rispetto ai criteri uniformi cui ispirarsi per predisporre un'etichetta che indichi la presenza o meno di organismi geneticamente modificati anche al di sopra o al di sotto della soglia minima ed accidentale attualmente prevista;
    è da sottolineare, altresì, come tale meccanismo possa incentivare la produzione e la vendita del mangime nazionale e/o europeo da sementi tradizionali;
    inoltre, i prodotti con il marchio volontario «ogm zero» potranno favorire sul mercato tutte quelle piccole e medie aziende agricole, che per filosofia di vita non hanno usato organismi geneticamente modificati e che, per ragioni economiche o di altra natura, non possono permettersi il costo della certificazione biologica, la quale, peraltro, non esclude che possano essere etichettati come biologici prodotti contenenti la soglia minima di tracce di organismi geneticamente modificati prevista dalla normativa dell'Unione europea;
    occorre, altresì, considerare l'opportunità, in assenza di una specifica disposizione nel regolamento (CE) n. 1829 del 2003, di prevedere un'etichettatura per i prodotti derivanti dall'allevamento animale per le aziende che utilizzano mangimistica geneticamente modificata come nutrimento per gli animali stessi;
    in questo modo, informando il consumatore sull'intera filiera di produzione del prodotto agroalimentare, lo si avverte di come alcuni prodotti (come il latte o le uova) provengano da allevamenti cui sono somministrati mangimi geneticamente modificati (e implicitamente importati da Paesi che coltivano organismi geneticamente modificati massicciamente e che non rientrano in criteri ecocompatibili e con indirizzi agronomici rivolti alla tutela della biodiversità);
    si viene anche a creare un effetto incentivante per la promozione dei prodotti locali senza organismi geneticamente modificati e si rilancia la coltivazione di soia e altre leguminose in Italia (filiera prioritaria da promuovere in Italia anche attraverso la corretta allocazione dei fondi della politica agricola comune dal 2014 al 2020);
    tutte le aziende, che intendono avvalersi dell'etichetta «ogm zero» e non vogliono sottostare al regime obbligatorio d'etichettatura quali allevamenti con «presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale», innescherebbero un processo di domanda del prodotto per la mangimistica privo da organismi geneticamente modificati e, conseguentemente, la promozione della filiera della coltivazione di leguminose da foraggio in Italia (filiera presente adeguatamente per il fabbisogno nazionale fino agli anni ’90);
    è prevista anche la possibilità di informare il consumatore della distanza limitata del prodotto, etichetta che permette il riconoscimento di un prodotto locale e del territorio d'appartenenza del consumatore, garantendo così il sostegno e la promozione dell'economia agricola locale e nazionale; tale etichetta «filiera corta» si può applicare volontariamente se il luogo in cui viene effettuata la vendita finale del prodotto e l'azienda di produzione (ricompresa l'attività di imballaggio iniziale, intermedio e finale) siano a una distanza ricompresa in un raggio di massimo 70 chilometri;
    se la distanza è di massimo 10 chilometri può, invece, essere apposta un'etichetta volontaria che recita «chilometro zero». Quest'ultima etichetta renderebbe il consumatore consapevole che ha la possibilità di acquistare un prodotto agroalimentare di un'azienda agricola in prossimità del suo comune d'appartenenza e con il più basso dispendio possibile di anidride carbonica;

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria detta «etichetta narrante» esclusivamente per aziende che rispettino i disciplinari del biologico (anche se non certificate) e utilizzino quantitativi di pesticidi conformi all'agricoltura biologica, facendo sì che i controlli del rispetto dei criteri biologici per chi utilizza tale etichetta siano a carico delle autorità competenti in materia di frodi e contraffazione e che questa etichetta integri l'informazione al consumatore mediante l'applicazione sulle confezioni di ulteriori informazioni e approfondimenti sulle varietà e sulle razze protagoniste dei progetti, sulle tecniche di coltivazione, sulla lavorazione dei trasformati e sui territori di provenienza, sul benessere animale e sulle modalità di conservazione e consumo;
   ad assumere iniziative per prevedere un'indicazione in etichetta, ex articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, che faciliti la comprensione della distanza del luogo di produzione e imballaggio da quello di vendita finale e, in particolare, a predisporre l'etichetta volontaria «filiera corta» se l'azienda di produzione (e anche quella che opera tutte le fasi di imballaggio) si trovi entro un raggio di 70 chilometri, così come ad assumere iniziative per normare l'etichetta volontaria «chilometro zero» se la distanza fra azienda produttrice (fasi d'imballaggio comprese) e luogo di vendita finale è riconducibile a un raggio di 10 chilometri;
   a predisporre e attuare e l'utilizzo di un regime più dettagliato di indicazioni in etichetta per informare i consumatori ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori», tale da consentire di verificare, anche attraverso puntuali controlli, l'applicazione del regolamento (CE) n. 1829/2003 che indica un'etichetta obbligatoria per la soglia di presenza accidentale di organismi geneticamente modificati con un'indicazione chiara e di facile lettura, che contraddistingua gli alimenti che «contengono organismi geneticamente modificati in misura superiore allo 0,9 per cento», o diciture descriventi i casi specifici di cui al sopra citato regolamento dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria «ogm zero» per gli alimenti che non hanno utilizzato organismi geneticamente modificati in nessuna delle fasi della filiera (nemmeno per il mangime animale) e per le aziende che possano dimostrare (se richiesto per controllo con analisi PCR) alle autorità competenti di non avere nessuna presenza accidentale di organismi geneticamente modificati (0,0 per cento);
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria «presenza di organismi geneticamente modificati nei valori della soglia di tolleranza» o «presenza di organismi geneticamente modificati <0,9 per cento» per gli alimenti e prodotti che contengono organismi geneticamente modificati in misura minore dello 0,9 per cento (semplice criterio di analisi quantitativa PCR test presenza/assenza), ovvero con percentuali ricomprese nella soglia di tolleranza, per dare piena informazione ai consumatori e possibilità di acquisto consapevole e informato;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria, estendendo il contenuto del regolamento (CE) n. 1829/2003, con la dicitura «prodotto con presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale» (o diciture similari) per i prodotti da allevamento animale quali carne, uova, latte e derivati nei quali è utilizzata mangimistica geneticamente modificata, allo scopo di informare chiaramente i consumatori della presenza nella catena alimentare dell'allevamento di mangimistica geneticamente modificata.
(1-00278) «Zaccagnini, Pisicchio».
(9 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    alla fine del 2012 il fatturato complessivo del settore agroalimentare ha raggiunto i 130 miliardi di euro, con un'occupazione globale di 405.000 addetti distribuiti in 6.250 piccole, medie e grandi aziende. L'industria alimentare italiana – che insieme ad agricoltura, indotto e distribuzione rappresenta la prima filiera economica del Paese – acquista e trasforma circa il 72 per cento delle materie prime nazionali. Inoltre, è ambasciatrice del made in Italy nel mondo, dal momento che il 76 per cento dell’export alimentare è costituito da prodotti industriali di marca. L’export ha raggiunto complessivamente i 24,8 miliardi di euro mentre l’import si è fermato a 18,7 miliardi di euro, con un saldo positivo della bilancia commerciale di ben 6,1 miliardi di euro, cresciuto di quasi il 40 per cento nel 2012;
    il ruolo dell'industria alimentare come galleggiante anticiclico si è rivelato anche sul fronte dell'occupazione in una fase di crescente perdita di posti di lavoro come quella attuale;
    tuttavia, quando le crisi assumono connotati vasti e duraturi come quella attuale non esistono «isole felici». Così, al di là della grande solidità dimostrata dal settore a livello produttivo e occupazionale, va detto che la crisi dei consumi interni ha colpito il settore in modo molto pesante e aggiuntivo rispetto alla media dei consumi del Paese. Certo, alcuni comparti industriali (da quello automobilistico a quelli legati ai prodotti per l'edilizia) stanno subendo ben più vistose e pesanti perdite delle vendite, ma pochi sanno che i consumi alimentari, sull'arco 2007-2012, sono scesi di 10 punti percentuali e hanno cominciato la loro rapida discesa già nel 2007-2008, a inizio crisi;
    il calo dell'alimentare si lega alla perdita di capacità di acquisto delle famiglie a causa della disoccupazione e della crescita della pressione fiscale. Ma, quel che è più grave, è sceso anche il target qualitativo dei prodotti acquistati. Il prezzo è diventato la principale variabile di scelta del consumatore;
    il settore agroalimentare è uno dei settori strategici su cui investire per rilanciare lo sviluppo del Paese attraverso, da un lato, la valorizzazione del prodotto italiano di qualità e, dall'altro, la repressione di dinamiche di tipo contraffattivo che ne minano la reputazione e la diffusione;
    a danno dell'agroalimentare si deve registrare, infatti, un allarme contraffazione. Le frodi alimentari colpiscono made in Italy e qualità, oltre a rappresentare una minaccia per la salute;
    il business dell'agroalimentare è sempre più appetibile per la criminalità organizzata e l'industria della contraffazione: si stima, infatti, che il volume d'affari complessivo dell'agromafia sia quantificabile in circa 14 miliardi di euro (solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi di euro);
    l'Italia, ancora oggi, non si contraddistingue per un sistema penale in grado di affrontare con strumenti adeguati i reati che, rispetto alla pericolosità di altri crimini, appaiono di gravità minore. Pertanto, per quanto riguarda gli illeciti riscontrati nel settore agroalimentare, solo laddove è possibile contestare anche il reato di associazione per delinquere, si procede con misure cautelari di rilievo, mentre per altri reati, come quello di sofisticazione, non essendo riferiti alla mafia nel codice penale, hanno brevissimi tempi di prescrizione. Le organizzazioni criminali, dall'importazione dei prodotti agroalimentari alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita, ampliano la propria attività anche a causa dell'inadeguatezza del sistema dei controlli che presenta alcune debolezze nelle modalità di intervento delle indagini. È opportuna, quindi, l'esigenza di lavorare sulle normative, aumentare le ispezioni e inasprire le sanzioni e le pene al fine di garantire la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
    è necessario, altresì, sottoporre il problema dei crimini alimentari all'opinione pubblica, in modo tale da sensibilizzare ed «educare» i consumatori a prestare attenzione alla scelta dei prodotti da consumare; si potrebbe, quindi, favorire la circolazione della conoscenza dei processi produttivi, prendendo in considerazione l'origine dei prodotti, le modalità di produzione e di conservazione degli alimenti;
    mentre nel mercato interno agisce soprattutto la contraffazione, sui mercati internazionali il Paese deve difendersi dalle imitazioni, che sono diventate una vera spina nel fianco, visto che il made in Italy nel campo alimentare è il più copiato in assoluto;
    un'adeguata azione di sensibilizzazione dovrebbe riguardare, infatti, i mercati esteri, per abituare i consumatori stranieri a saper distinguere tra un vero prodotto italiano da uno di imitazione, ovvero da iniziative ingannevoli che richiamano l'italianità;
    un significativo ausilio in tal senso è sicuramente costituito dalla previsione di sistemi di etichettatura e tracciabilità capaci di rendere più trasparenti le varie fasi del processo produttivo in modo da raccontare la storia di un prodotto dalla scelta dei sistemi di coltivazione o di allevamento, alle diverse fasi di elaborazione, fino alla vendita al dettaglio;
    diventa essenziale conoscere, quale criterio di orientamento per l'acquisto dei consumatori, l'origine del prodotto che, nel caso dell'alimento, essendo in gioco un valore come quello della salute, assume il ruolo di garanzia di rango costituzionale;
    in tal senso appare urgente dare immediata attuazione alla legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari», attraverso l'emanazione dei decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4;
    occorre, altresì, promuovere un impegno in sede europea al fine di arrivare all'approvazione definitiva della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo che impone l'indicazione obbligatoria del Paese di vera produzione su una serie di beni importati da Paesi terzi (regolamento sul cosiddetto made in);
    per combattere la piaga delle imitazioni, dunque, è necessario coordinare l'attività dell'Italia con quella dell'Unione europea, ma anche con quella del World Trade Organization (WTO), cercando di superare problemi e resistenze;
    una delle criticità più evidenti è rappresentata dal fenomeno dell’italian sounding, che consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l'utilizzo di nomi, parole e immagini che richiamano l'Italia, inducendo, quindi, ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani;
    più di recente si è diffusa una forma più raffinata di italian sounding, legale seppur nei fatti ingannevole: la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane, in modo tale che non soltanto il nome suoni italiano ma venga associato all'azienda che dal momento della sua nascita e per anni ha messo sul mercato il prodotto;
    l’italian sounding sottrae notevoli potenzialità alle esportazioni nazionali e, sconfinando raramente nell'illecito, risulta difficilmente perseguibile;
    a livello internazionale purtroppo la tutela dall’italian sounding e quella delle denominazioni di origine e dei prodotti di qualità in generale non ha registrato significativi passi avanti;
    la sempre maggior transnazionalità del fenomeno contraffattivo impone, quindi, un forte impegno, a livello europeo e internazionale, per giungere alla definizione di un quadro di regole comuni che risponda a principi di reciprocità ed efficacia;
    a livello nazionale, inoltre, occorre mantenere un fronte unitario, che veda coinvolti tutti gli attori istituzionali ed il mondo delle imprese, attraverso una più forte ed intensa collaborazione;
    la difesa delle produzioni tipiche non può prescindere, quindi, dal contrasto alla contraffazione e da un'informazione chiara e trasparente ai consumatori,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di rivedere la normativa vigente in materia di contraffazione, in particolare quella relativa ai prodotti agroalimentari, al fine di assicurare la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
   a predisporre tempestive iniziative volte alla sensibilizzazione dei consumatori, con particolare riguardo all'attenzione per i prodotti da consumare, alla presa in considerazione dell'origine dei prodotti, alle modalità di produzione e alla conservazione degli alimenti;
   ad emanare i decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari»;
   a promuovere in sede europea le opportune iniziative al fine di arrivare alla definitiva approvazione della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo (regolamento sul cosiddetto made in).
(1-00279)
«Faenzi, Russo, Catanoso, Fabrizio Di Stefano, Riccardo Gallo».
(9 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l’italian sounding e la contraffazione dei prodotti alimentari made in Italy provocano nel nostro Paese un ingente danno alle imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro;
    a quanto si apprende anche da organi di stampa il fatturato del falso made in Italy, compreso quello relativo al fenomeno dell’italian sounding, ha superato i 60 miliardi di euro nel solo agroalimentare;
    il danno per le possibili esportazioni del nostro Paese si evidenzia con particolare gravità soprattutto nei mercati emergenti, dove spesso il «falso» è più diffuso del «vero»;
    secondo quanto riportato dal rapporto Agromafie del 2013 si valuta che il giro d'affari della criminalità raggiunga i 14 miliardi di euro, con un incremento pari al 12 per cento rispetto a due anni fa. Si deve, infatti, tenere presente che proprio l'agricoltura e l'alimentare sono considerate oramai aree prioritarie di investimento dalla criminalità organizzata che, purtroppo, in molte zone controlla non solo la distribuzione, ma talvolta anche la produzione di diversi prodotti alimentari;
    la problematica coinvolge sia i prodotti italiani «generici» sia i prodotti ad indicazione geografica, è effettivamente molto complessa e ha diversi filoni lungo cui si sviluppa: la contraffazione vera e propria; i falsi prodotti a denominazione di origine protetta o a indicazione geografica protetta; i fenomeni imitativi di nomi per prodotti che nulla hanno a che vedere con i veri prodotti italiani (i cosiddetti italian sounding). Su tutti questi fronti è necessario intervenire in maniera coerente ed organica;
    in Europa, alcuni Paesi continuano a chiedere rigore in determinati settori, in particolare nelle politiche economiche e di bilancio. Non è, però, accettabile che l'Unione europea segua questa linea di condotta solo rispetto ad alcuni settori, mostrandosi, invece, distratta su altri. Il Governo ha il dovere di chiedere che sulla tutela della qualità e dell'origine dei prodotti si applichi lo stesso atteggiamento e il medesimo rigore che l'Europa richiede sulle politiche di bilancio. La qualità e la protezione dell'origine dei prodotti sono un patrimonio fondamentale per diversi Paesi europei e, in particolare, per il nostro Paese, per cui non è possibile accettare di sacrificare questa ricchezza e disperdere tale patrimonio;
    è necessario quindi che l'Unione europea garantisca il massimo impegno nella difesa e nel riconoscimento delle indicazioni geografiche italiane nell'ambito dei negoziati bilaterali e multilaterali a livello internazionale. Questa problematica dovrà essere considerata tra le priorità dell'Unione europea in sede negoziale;
    il sistema agroalimentare italiano, nonostante la contraffazione, garantirà nel 2013 un ulteriore incremento dell’export che crescerà dell'8 per cento, raggiungendo la cifra di 34 miliardi di euro. Si tratta di una fondamentale risorsa per il nostro Paese che deve essere tutelata adeguatamente. In particolare, ciò è possibile solo attraverso politiche ed interventi mirati a salvaguardare la promozione della qualità e della tracciabilità degli alimenti lungo tutta la filiera, fino al consumatore finale;
    appare necessario intervenire per rendere pubblici i riferimenti di quelle società che risultano eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli o comunque scorrette e finalizzate ad usare in maniera impropria il marchio made in Italy;
    in Europa continua a persistere un'impostazione che tende a ritenere incompatibile con le regole del mercato unico la difesa della qualità collegata in particolare all'individuazione e alla localizzazione della zona di origine del prodotto o delle parti qualificanti del suo processo produttivo. Infatti, ad eccezione delle regole che sono state fissate per alcuni settori e per le denominazioni di origine, per tutti gli altri prodotti si è preferito affermare un diverso principio, per cui l'indicazione obbligatoria è resa tale solo nel caso in cui la sua omissione possa indurre il consumatore in errore circa l'effettiva provenienza del prodotto alimentare, così come delineato dall'articolo 3 della direttiva 2000/13/CE. Principio confermato dal regolamento (UE) n. 1169/2011;
    appare necessario riflettere sulla necessità di superare tale impostazione, anche alla luce del fatto che tutelare l'origine del prodotto alimentare coincide, nel caso italiano, con la doverosa rivendicazione di tutela di un patrimonio enogastronomico e culturale unico al mondo;
    nella XVI legislatura è stata approvata dal Parlamento la legge 3 febbraio 2011, n. 4, sull'etichettatura, con la finalità di difendere e promuovere il sistema produttivo italiano, per il quale la qualità è una caratteristica fondamentale collegata intrinsecamente alle origini territoriali del prodotto, che proprio per questo legame indissolubile devono essere correttamente e chiaramente comunicate al consumatore. Sono state riscontrate, tuttavia, alcune difficoltà nella fase attuativa della richiamata legge per questioni essenzialmente legate alla compatibilità tra le stringenti disposizioni nazionali fortemente volute e condivise dalla grande maggioranza del Parlamento e le norme europee che invece prevedono, al riguardo, principalmente regimi facoltativi per salvaguardare il cosiddetto principio di libera circolazione delle merci e di libero mercato;
    appare necessario che il Governo italiano continui ad impegnarsi affinché questa dicotomia venga superata affermando in Europa il necessario rigore sulla tutela della «qualità» e dell’«origine»;
    ai fini di una maggiore tutela del consumatore e della prevenzione delle frodi, esiste la possibilità per un Paese membro dell'Unione europea di attuare le «ulteriori disposizioni» citate dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, in particolare, per ciò che attiene alla tutela delle denominazioni di origine controllate e delle indicazioni di provenienza dei prodotti agroalimentari, nonché alla repressione di fenomeni diffusi di concorrenza sleale;
    il 5 dicembre 2013, in sede europea, il Comitato permanente per la catena alimentare ha espresso il definitivo parere favorevole, anche grazie ad una forte sollecitazione del Governo italiano, sullo schema di regolamento di esecuzione, che implementa quanto disposto dal richiamato regolamento (UE) n. 1169/2011, dettando le prescrizioni sulle indicazioni obbligatorie in etichetta, rispetto all'origine e al luogo di provenienza per le carni suine, per il pollame e per le carni ovicaprine. In particolare, si stabilisce che l'indicazione «origine italia» può essere utilizzata solo se l'animale è nato, allevato e macellato in Italia;
    tuttavia, è necessario migliorare ed ampliare il quadro di trasparenza e rintracciabilità delle informazioni attraverso l'introduzione di norme chiare, semplici ed efficaci che consentano al consumatore un'immediata visibilità delle informazioni, in particolare per l'origine dei prodotti;
    in tal senso, le recenti norme introdotte dalla Commissione europea nel settore dell'olio di oliva, grazie anche all'incisiva attività di continua sensibilizzazione svolta dal Governo, sono da considerarsi un primo passo positivo nella direzione di una maggiore trasparenza e garanzia sulle informazioni e per l'origine,

impegna il Governo:

   a sollecitare la Commissione europea affinché, nel quadro di quanto stabilito nel regolamento (UE) n 1169/2011, l'Unione europea si doti di norme efficaci, rigorose, chiare e trasparenti in materia di origine dei prodotti, prevedendo l'obbligatorietà dell'indicazione dell'origine dei prodotti anche per quei settori attualmente non contemplati dalla regolamentazione vigente;
   a farsi promotore presso le sedi europee competenti di una decisa iniziativa in merito alla necessità che, nell'ambito dell'etichettatura dei prodotti agro-alimentari, venga garantita la massima trasparenza, chiarezza e comprensibilità delle informazioni, ivi compresa, in primo luogo, quella di origine;
   ad attivarsi affinché, a tutti i livelli, nazionale, comunitario e internazionale, si attivi una chiara e rigorosa politica di difesa delle produzioni italiane, al fine di contrastare con maggiore determinazione ed efficacia il fenomeno dell’italian sounding;
   ad adottare le opportune iniziative finalizzate ad una più intensa ed efficace politica della promozione e diffusione in Italia e all'estero dei prodotti agroalimentari italiani, con un incremento delle risorse finanziarie attualmente destinate e con una maggiore attenzione rivolta alla qualità dei prodotti, favorendo la semplificazione degli oneri burocratici per le imprese e per le amministrazioni.
(1-00280) «Dorina Bianchi, Bosco».
(9 dicembre 2013)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALLA SALVAGUARDIA DELL'INTERESSE NAZIONALE IN RELAZIONE AGLI ASSETTI PROPRIETARI DI AZIENDE DI RILEVANZA STRATEGICA PER L'ECONOMIA ITALIANA

   La Camera,
   premesso che:
    in questi ultimi anni alcune delle maggiori industrie italiane sono state cedute, di fatto, a proprietà straniere: non solo i grandi marchi della moda e del lusso da sempre espressione del nostro made in Italy (da Bulgari a Loro Piana, da Valentino a Ferré), ma anche il settore alimentare (Dall'Orzo Bimbo agli spumanti Gancia, dai salumi Fiorucci alla Parmalat, dalla Star al Riso Scotti, fino al vino Chianti nel cuore della denominazione di origine controllata e garantita del Gallo Nero, diventata proprietà di un imprenditore cinese; sono molti e di prestigio, infatti, i marchi storici dell'agroalimentare italiano finiti in mani straniere, per un valore complessivo, dall'inizio della crisi ad oggi, di circa 10 miliardi di euro) e la meccanica (Ducati);
    il pericolo è, inoltre, che con un debito pubblico, che presumibilmente potrebbe arrivare a oltre il 130 per cento del prodotto interno lordo, lo Stato possa decidere di cedere altri gangli nevralgici del Paese sotto il profilo tecnologico e del know how, quali, ad esempio, gli asset civili di Finmeccanica a partire da Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia e BredaMenarinibus;
    inoltre, assistere oggi alla cessione, alla svendita o al trasferimento di aziende centrali non solo per il loro portato economico in termini occupazionali e di sviluppo di indotto, ma anche strategiche per gli interessi nazionali, come Telecom Italia, Alitalia e Finmeccanica, appare di eccezionale gravità perché in nessuno Stato del mondo settori di comunicazione, trasporti o difesa sono mai stati abbandonati in nome del mercato e perché questo dimostrerebbe la totale resa da parte dell'Esecutivo rispetto alla fase di deindustrializzazione che sta attraversando il nostro Paese;
    detta fase di deindustrializzazione è del resto evidenziata anche dal rapporto sulla competitività industriale presentato recentemente dalla Commissione europea a Bruxelles: rapporto da dove emerge con tutta evidenza che l'Italia è l'unico Paese dell'Eurozona che, insieme alla Finlandia, ha peggiorato la propria produttività, venendo superata anche dalla Spagna;
    a fronte di tale annosa situazione l'attuale Governo non sembra avere una posizione chiara rispetto al futuro degli asset strategici dell'economia del nostro Paese, a partire innanzitutto da quelli controllati direttamente dallo Stato come nel caso di Finmeccanica; e soprattutto, non è chiaro come intenda usare gli strumenti necessari, ivi compreso l'intervento del Fondo strategico italiano della Cassa depositi e prestiti che attualmente dispone di circa 7 miliardi di euro, al fine di preservare e rilanciare il patrimonio industriale italiano e non certo avallare nuove ipotesi di cessione industriale, svolgendo le mere funzioni di un fondo di garanzia;
    le vicende relative a Telecom Italia, Alitalia e Finmeccanica mettono a rischio la tradizione e l'intero know how italiani, ormai svenduti al miglior offerente già in passato in numerosi altri casi di produzione industriale;
    Sinistra Ecologia Liberta, come già chiaramente esplicitato in numerosissimi atti parlamentari precedenti come, da ultimo, l'interrogazione a risposta immediata in assemblea n. 3-00337, nonché nell'ambito della mozione sulla crisi del settore manifatturiero n. 1-00164, è completamente contraria a qualsiasi processo di depotenziamento e alienazione della tecnologia che si potrebbe verificare attraverso la cessione degli asset civili di Finmeccanica ai diretti concorrenti internazionali;
    sotto tale profilo, non si comprendono i motivi per i quali l'Esecutivo non abbia ancora attuato l'articolo 2 del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, recante: «Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni»;
    si tratta del cosiddetto golden power di cui, appunto, mancano i provvedimenti regolamentari di attuazione e senza tali provvedimenti il Governo non può esercitare i poteri speciali ivi previsti per tutelare l'interesse nazionale, come, ad esempio, imporre agli acquirenti condizioni di investimento o sul mantenimento dei presidi industriali, in caso di passaggio di proprietà straniera di importanti aziende italiane come Telecom, ma anche di Alitalia e le imprese con il marchio Ansaldo del gruppo Finmeccanica;
    al riguardo, si ricorda che, con lo scopo di salvaguardare gli assetti proprietari delle società operanti in settori reputati strategici e di interesse nazionale, il legislatore è intervenuto ridisciplinando con il citato decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21 la materia dei poteri speciali esercitabili dal Governo in tale settore, anche al fine di aderire alle indicazioni e alle censure sollevate in sede europea;
    per mezzo del decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56 del 2012 sono stati ridefiniti, anche mediante il rinvio ad atti di normazione secondaria (decreti del presidente del Consiglio dei ministri), l'ambito oggettivo e soggettivo, la tipologia, le condizioni e le procedure di esercizio da parte dello Stato (in particolare, del Governo) dei cosiddetti «poteri speciali», attinenti alla governance di società operanti in settori considerati strategici;
    per «poteri speciali» si intendono, tra gli altri, la facoltà di dettare specifiche condizioni all'acquisito di partecipazioni, di porre il veto all'adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all'acquisto di partecipazioni. L'obiettivo del provvedimento è di rendere compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo, che si ricollega agli istituti della «golden share» e «action spécifique» – previsti rispettivamente nell'ordinamento inglese e francese – e che in passato era già stata oggetto di censure sollevate dalla Commissione europea e di una pronuncia di condanna da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea;
    per definire i criteri di compatibilità comunitaria della disciplina dei poteri speciali, la Commissione europea ha adottato una comunicazione con la quale ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve comunque essere attuato senza discriminazioni ed è ammesso se si fonda su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» e se è giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale». Riguardo agli specifici settori di intervento, la Commissione europea ha ammesso un regime particolare per gli investitori di un altro Stato membro qualora esso sia giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica purché, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, sia esclusa qualsiasi interpretazione che poggi su considerazioni di ordine economico;
    nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o con riguardo ai movimenti di capitali, le deroghe ammesse non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali. In ogni caso, secondo quanto indicato dalla Commissione europea, la definizione dei poteri speciali deve rispettare il principio di proporzionalità, vale a dire deve attribuire allo Stato solo i poteri strettamente necessari per il conseguimento dell'obiettivo perseguito. Gli indirizzi contenuti nella predetta comunicazione hanno costituito la base per l'avvio da parte della Commissione europea delle procedure di infrazione nei confronti delle disposizioni del decreto-legge n. 332 del 1994, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 474 del 1994, recanti la disciplina generale dei poteri speciali. Procedure di infrazione in materia di golden share hanno riguardato anche il Portogallo, il Regno Unito, la Francia, il Belgio, la Spagna e la Germania;
    nel dettaglio, il decreto-legge n. 21 del 2012 reca anzitutto (all'articolo 1) la nuova disciplina dei poteri speciali esercitabili dall'Esecutivo rispetto alle imprese operanti nei comparti della difesa e della sicurezza nazionale;
    la principale differenza con la normativa precedente si rinviene nell'ambito operativo della nuova disciplina, che consente l'esercizio dei poteri speciali rispetto a tutte le società, pubbliche o private, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica, e non più soltanto rispetto alle società privatizzate o in mano pubblica. Per effetto delle norme in commento, alla disciplina secondaria (decreti del Presidente del Consiglio dei ministri) saranno affidate le seguenti funzioni: 1) individuazione di attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale in rapporto alle quali potranno essere attivati i poteri speciali; individuazione della tipologia di atti o operazioni infragruppo esclusi dall'ambito operativo della nuova disciplina; 2) concreto esercizio dei poteri speciali; 3) individuazione di ulteriori disposizioni attuative;
    le norme fissano puntualmente il requisito per l'esercizio dei poteri speciali nei comparti della sicurezza e della difesa, individuato nella sussistenza di una minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale. L'Esecutivo potrà imporre specifiche condizioni all'acquisto di partecipazioni in imprese strategiche nel settore della difesa e della sicurezza; potrà porre il veto all'adozione di delibere relative ad operazioni straordinarie o di particolare rilevanza, ivi incluse le modifiche di clausole statutarie eventualmente adottate in materia di limiti al diritto di voto o al possesso azionario; potrà opporsi all'acquisto di partecipazioni, ove l'acquirente arrivi a detenere un livello della partecipazione al capitale in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. Sono poi disciplinati gli aspetti procedurali dell'esercizio dei poteri speciali e le conseguenze che derivano dagli stessi o dalla loro violazione. Sono nulle le delibere adottate con il voto determinante delle azioni o quote acquisite in violazione degli obblighi di notifica, nonché delle delibere o degli atti adottati in violazione o inadempimento delle condizioni imposte;
    con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 novembre 2012, n. 253, è stato adottato il regolamento che individua le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale al fine dell'esercizio dei poteri speciali e gli atti/operazioni infragruppo esclusi dall'ambito operativo della nuova disciplina;
    per quanto riguarda l'adozione dei regolamenti di attuazione del decreto-legge n. 21 del 2012, il rappresentante del Governo nel corso del dibattito ha dichiarato che il 9 ottobre 2013 il Consiglio dei Ministri ha avviato il complesso iter di definizione dei suddetti regolamenti. In particolare, si è proceduto all'esame preliminare di tre schemi di decreto del Presidente della Repubblica. Nel primo schema sono stati individuati gli attivi nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni; nel secondo schema sono state definite le procedure per l'attivazione dei poteri speciali nei settori della difesa e sicurezza nazionale; nel terzo schema sono state definite le procedure per l'attivazione dei poteri speciali nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni;
    gli schemi dei suddetti decreti devono essere trasmessi al Parlamento e al Consiglio di Stato e, con riguardo al terzo schema, anche alle autorità indipendenti di settore, per i pareri di competenza;
    purtuttavia, si deve rilevare che, ad oggi, non risultano ancora definitivamente approvati tutti gli schemi di regolamento citati;
    nell'ipotesi specifica di Telecom, dopo lo svolgimento di un lungo ciclo di audizioni svoltesi presso la Commissione IX (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, dei sindacati, del Governo e dell'amministratore delegato di Telecom, Marco Patuano, tutti i gruppi parlamentari, in data 4 dicembre 2013, hanno votato approvando la risoluzione n 8-00029 ove si impegna il Governo: 1) a pervenire, quanto prima possibile, all'approvazione definitiva dei regolamenti dell'articolo 2 del decreto-legge n. 21 del 2012, con i quali sono individuati le reti e gli impianti, ivi compresi quelli necessari ad assicurare l'operatività dei servizi pubblici essenziali, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l'interesse nazionale nel settore delle comunicazioni e sono emanate le disposizioni attuative in materia di esercizio dei poteri speciali nel medesimo settore delle comunicazioni; 2) a garantire un'efficace vigilanza, in base ai poteri previsti dalla golden power, sui beni e i rapporti di rilevanza strategica per l'interesse e la sicurezza nazionale nel settore delle comunicazioni; 3) a chiedere nelle più opportune sedi europee garanzie affinché le banche interessate da aiuti provenienti dal fondo «salva Stati» (meccanismo europeo di stabilità) non utilizzino quelle risorse per finanziare l'acquisto di asset strategici ai danni delle Nazioni finanziatrici dello stesso fondo «salva Stati»; 4) ad adottare le iniziative consentite affinché siano garantiti i principi di equità e non discriminazione nell'accesso alla rete di telecomunicazioni da parte degli operatori, e, nel caso in cui si proceda alla costituzione di una società della rete, affinché la governance e gli assetti siano tali da assicurare che la gestione di una risorsa strategica per il Paese sia effettuata in modo rispondente a finalità di interesse generale; 5) ad assicurare piena tutela e valorizzazione dell'occupazione e del patrimonio di conoscenze e competenze di Telecom Italia; 6) ad assumere tutte le iniziative di propria competenza per evitare che, anche per effetto degli assetti proprietari del gruppo che potrebbero determinarsi, venga compromessa la dimensione internazionale del gruppo medesimo; 7) ad avviare ogni iniziativa volta a potenziare il sistema infrastrutturale delle telecomunicazioni, all'interno del piano previsto dall'Agenda digitale, al fine di determinare le condizioni affinché il nostro Paese diventi un vero hub globale delle comunicazioni, anche in considerazione del consolidamento del mercato europeo, ormai inevitabile;
    si rileva, inoltre, che durante le audizioni svolte presso la Commissione IX (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, il sindacato SLC-CGL aveva ribadito che senza uno strumento che potesse rimettere in discussione gli accordi che fanno diventare Telefonica controllore di fatto di Telecom Italia dal 1o gennaio 2014, ogni discussione sugli investimenti in infrastrutture necessari a rimuovere il gap tecnologico del nostro Paese potrebbe avvenire fuori tempo massimo. Sarebbe, quindi, necessario promuovere il decreto sull'offerta pubblica d'acquisto e successivamente avviare con Telefonica un negoziato che, partendo da un aumento di capitale a cui far partecipare investitori come Cassa Depositi e Prestiti, fondi pensione, assicurazioni vita, sia in grado di produrre uno sforzo significativo per la costruzione della rete di nuova generazione;
    detto sindacato ha, pertanto, chiesto ai membri della IX Commissione di farsi promotori di una mozione che impegni il Governo, tra e altre cose, a modificare la legge sull'offerta pubblica d'acquisto sulla scorta di quanto realizzato già dal Senato della Repubblica con la mozione n. 1-00160, cofirmata dai senatori del gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Liberta, ove si chiede al Governo ad attivarsi al fine di introdurre, con la massima urgenza, anche attraverso l'adozione di un apposito decreto-legge, le necessarie modifiche al Testo unico della finanza, in modo da: a) rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, in linea con le decisioni già assunte dalla Consob stessa in casi analoghi; b) aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, già prevista per l'offerta pubblica d'acquisto obbligatoria, una seconda soglia legata all'accertata situazione di controllo di fatto,

impegna il Governo:

   a porre in essere ogni atto di competenza diretto a pervenire all'approvazione definitiva dei regolamenti previsti dall'articolo 2 del decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, in maniera tale da esercitare i poteri speciali che per legge gli competono per tutelare l'interesse nazionale in caso di passaggio di proprietà straniera di importanti aziende italiane di particolare rilevanza strategica per il nostro Paese;
   a dare seguito il prima possibile agli impegni contenuti nella citata risoluzione n 8-00029, approvata il 4 dicembre 2013 dalla Commissione IX (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, relativa al caso Telecom e agli interventi a tutela dell'utilizzo per finalità di interesse generale delle reti, degli impianti, dei beni e dei rapporti di rilevanza strategica nel settore delle comunicazioni, al fine di salvaguardare un asset strategico per il nostro Paese e la tutela occupazionale di quella che è stata da sempre la più importante compagnia telefonica del Paese, nonché a dare, altresì, seguito agli impegni richiamati dalla citata mozione presentata al Senato della repubblica n. 1-00160 in materia di modifiche alla legislazione sull'offerta pubblica di acquisto;
   a porre in essere ogni atto di competenza finalizzato ad evitare che le vicende relative alla compagnia di bandiera Alitalia-Compagnia Aerea Italiana spa, a seguito dell'eventuale ingresso di nuovi soci anche stranieri in posizione dominante di cui dovrebbe essere per altro verificata l'affidabilità, si traducano in una ristrutturazione il cui unico scopo sarebbe l'ulteriore compressione del costo del lavoro già ridotto a seguito della privatizzazione avvenuta nel 2008 e un conseguente ridimensionamento degli aeroporti di Roma-Fiumicino e Milano-Malpensa rispetto ai collegamenti diretti di carattere extracontinentale, con grave nocumento per il sistema economico italiano;
   a porre in essere ogni atto di competenza finalizzato a salvaguardare gli attuali livelli occupazionali della compagnia di bandiera Alitalia-Compagnia Aerea Italiana spa;
   ad arrestare, nella qualità di azionista di riferimento di Finmeccanica, ogni possibile cessione degli asset civili di Finmeccanica, a partire da Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia e BredaMenarinibus e, più in generale, qualsiasi cessione della quota di controllo, diretta o indiretta, immediata o differita o trasferita, di società appartenenti o controllate dal gruppo Finmeccanica stesso;
   ad avviare una strategia volta alla conclusione di partnership con imprese industriali complementari realmente operanti nel sistema competitivo globale dell'alta tecnologia e diverse da Doosan, conglomerata equivalente per dimensione a Finmeccanica – che, in ogni caso, non rappresenta una conglomerata – ma estranea al cosiddetto oligopolio dell'alta tecnologia;
   a ridurre alla maggioranza relativa la quota azionaria di Finmeccanica in tutte le società del gruppo generalizzando il modello di Ansaldo STS (Finmeccanica: 40 per cento) in tutte le società attraverso: a) quotazione (come è possibile farlo per Agusta Westland); b) una drastica riorganizzazione che consenta una successiva quotazione o la conclusione di accordi di partenariato (come quelli vigenti in Ansaldo Energia e in Atr); c) la ricerca immediata di partner complementari nel settore dei sistemi di difesa (Oto, Wass);
   ad avviare una riorganizzazione che investa in profondità Ansaldo Breda, Selex ES e Alenia Aermacchi al fine di ottenere un deciso incremento di competitività arricchendo il loro portafoglio di tecnologie e prodotti e internazionalizzando il loro capitale umano e direzionale;
   ad intraprendere un progetto volto all'integrazione finanziaria di Finmeccanica e Fintecna in una sola holding industriale dell'alta tecnologia cui attribuire la maggioranza relativa, la gestione e lo sviluppo di Fincantieri, società equivalente per dimensione alla somma di Ansaldo STS e Energia, ma inferiore per risultati economici e prospettive strategiche;
   a porre in essere, sempre con riferimento a Finmeccanica, ogni strategia e sviluppo di progettazione e riorganizzazione come quelle poc'anzi citate al fine di consentire di evidenziare le eventuali perdite ancora non esibite, di ridurre il debito, di affrontare i necessari investimenti d'innovazione tecnologica, di progettare l'acquisizione di nuove società nei settori in sviluppo, di restituire alla nuova holding la reputazione e il rango internazionale persi nell'ultimo triennio;
   a non procedere alla messa sul mercato delle residue quote pubbliche di grandi società partecipate dallo Stato come Fincantieri, adottando un piano che la renda effettivamente competitiva nel mercato interno ed internazionale.
(1-00196)
(Nuova formulazione) «Airaudo, Migliore, Ferrara, Boccadutri, Di Salvo, Quaranta, Lacquaniti, Aiello, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Fava, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Lavagno, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nardi, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piazzoni, Pilozzi, Piras, Placido, Ragosta, Ricciatti, Sannicandro, Scotto, Zan, Zaratti».
(27 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Italia sta attraversando una drammatica deindustrializzazione esponendosi sempre più alle strategie degli altri Paesi, senza tuttavia sapersi difendere o prestare resistenza. Come ha evidenziato la Commissione europea nel suo rapporto sulla competitività industriale nei Paesi membri dell'Unione europea, nonostante la quota del settore manifatturiero, in termini di valore aggiunto totale nell'economia, resti leggermente al di sopra della media europea, il nostro Paese tuttavia ha subito una perdita di 20 punti percentuali nell'indice di produzione industriale rispetto al 2007, sia a causa della riduzione dell'attività dovuta al rallentamento economico, sia per la chiusura di numerosi impianti in alcuni settori industriali di base (petrolchimica, siderurgia e biocombustibili). Ciò vuol dire che in termini di costo unitario medio del lavoro, negli ultimi dieci anni si è persa competitività a causa di un aumento del salario lordo nominale combinato con una debole crescita della produttività. Nella produttività del lavoro nel settore industriale, l'Italia nel 2012 ha perso posizioni rispetto al 2007, ed è stata superata persino dalla Grecia, che nel 2007 era molto più indietro. È evidente anche una forte accelerazione della produttività del lavoro da parte della Spagna, che comunque era già più avanti dell'Italia nel 2007;
    la crisi italiana va ben al di là della crisi finanziaria globale scoppiata negli Stati Uniti nella primavera 2007. La ragione del declino economico dell'Italia è dovuta alla mancanza, da più di vent'anni a questa parte, di una pianificazione industriale a livello nazionale cui si aggiunge ad un sistema capitalistico malato e portatore di moltissime anomalie ed asimmetrie economiche, oramai croniche nel sistema Italia;
    in realtà il nostro Paese ha una struttura molto più forte della Spagna ed è la seconda potenza manifatturiera dopo la Germania. Quest'ultima è riuscita a riorganizzare la sua industria in maniera molto intelligente sfruttando gli investimenti in ricerca e innovazione e il sistema di raccordo con la formazione delle scuole, oltre che puntare sull'integrazione con l'Europa orientale riorganizzando la filiera dei Paesi vicini, vendendo loro prodotti finiti. La Francia ha una struttura industriale molto equilibrata, fondata sulla manifattura e sui servizi e sta lavorando a 34 progetti di nuova industrializzazione;
    mentre altri Paesi provano ad elaborare una strategia basandosi sui propri punti di forza, l'Italia neanche ne discute e ci si trova improvvisamente davanti al fatto compiuto, com’è stato appunto per le vicende Alitalia e Telecom. Per quanto concerne quest'ultima, è preoccupante l'acquisizione da parte degli spagnoli degli asset della comunicazione nazionale e, dunque, la cessione ad altri Paesi della rete della banda larga che rappresenta un amplificatore di sviluppo per settori, quali il digitale, fattore abilitante fondamentale per un nuovo sviluppo;
    nel corso del 2013 la situazione industriale italiana è stata fallimentare. Si è raggiunto il record di aziende chiuse per fallimento. Secondo gli ultimi dati a disposizione ed analizzati da Cerved, nel corso del primo trimestre del 2013, infatti, sono stati avviate circa 3.500 pratiche di fallimento e solo tra gennaio e aprile 2013 si sono contate 4.218 chiusure di attività. Dal 2009, preso come anno zero dalle statistiche a disposizione, le aziende italiane che hanno chiuso sono state 45.280;
    negli ultimi anni molte nostre aziende sono state acquistate da concorrenti internazionali: Star, Carapelli, Bertolli e Riso Scotti sono state comprate da aziende alimentari spagnole; Gancia è passata in mano russa, mentre, sempre per rimanere in ambito culinario, Parmalat, Galvani, Locatelli ed Invernizzi sono state, una dopo l'altra, acquistate da compagnie francesi. Per quanto riguarda la moda, mondo che ha fatto grande il made in Italy, compagnie come Loro Piana, Gucci, Bulgari e Fendi sono state comprate da concorrenti francesi, mentre Valentino è passato in mano ad alcuni sceicchi del Qatar. Non si dimentichi altri nomi importanti dell'industria italiana, come Baci Perugina e Buitoni, oggi di proprietà Nestlè (Svizzera) e Fiorucci (Spagna). Quanto accaduto con Alitalia e Telecom è cosa nota a tutti;
    questi anni di svendita sono stati un colpo basso per l'economia del Paese, ma si è rimasti ad osservare il disfacimento della sua struttura industriale. Il problema della deindustrializzazione non è, quindi, da ricercarsi nello «straniero», ma è da attribuirsi in primis all'Italia stessa. Nel corso di questi ultimi decenni, infatti, moltissimi imprenditori sono stati capaci di fare investimenti ed essere innovativi, malgrado l'ambiente economico ostile;
    il problema maggiore è interno ai confini italiani perché, come sottolineato dal rapporto della Commissione europea cui si è già fatto riferimento, senza riforme per la produzione, la competitività e la produttività, le industrie saranno destinate a diminuire sempre più, lasciando gli italiani e l'Italia sempre più poveri, nonché emarginati dall'Europa che conta;
    ci sono delle cause che hanno provocato il ritardo di una parte dell'imprenditoria italiana, quali l'accordo per l'unificazione monetaria voluto da Francia e Germania al tempo di Maastricht che secondo i firmatari del presente atto di indirizzo evidentemente mirava alla deindustrializzazione dell'Italia; la svendita del patrimonio pubblico e delle partecipazioni statali avvenuta negli anni novanta che ha provocato un indebolimento della struttura economica nazionale; un sistema bancario che non funziona più come in precedenza e non sostiene le imprese, rendendo necessario ripristinare la legge Glass-Stegall per evitare che le banche siano attratte dalla speculazione finanziaria anziché dall'economia reale; la perdita della sovranità monetaria che ha colpito la capacità dello Stato di creare infrastrutture senza dipendere esclusivamente dai privati;
    il Consiglio europeo di febbraio 2014 sarà il primo dedicato all'industria e sarà un'occasione da non perdere per approntare un patto per l'industria che, nel quadro di Europa 2020, consenta di accelerare il processo di riforme sia a livello europeo che nazionale, indispensabile per attirare nuovi investimenti industriali;
    l'Esecutivo ha già varato il decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56 del 2012, in materia di poteri speciali sugli assetti societari in determinati settori nonché per attività di rilevanza strategica nei settori energia, trasporti e per le telecomunicazioni (noto come golden power), in cui è prevista la possibilità di far acquistare anche da soggetti esterni all'Unione europea aziende di importanza significativa per il nostro Paese e tale acquisto può essere condizionato all'assunzione da parte dell'acquirente di impegni diretti a garantire la tutela dei predetti interessi,

impegna il Governo:

   ad attivarsi a livello internazionale per una nuova regolazione del commercio in raccordo con l'Unione europea, non in senso protezionista, ma tesa a mettere tutti i competitori sullo stesso piano, attivando un confronto con le imprese multinazionali che operano in Italia e procedendo ad una modernizzazione vera del sistema strutturale, infrastrutturale e della logistica che non comporti la svendita delle aziende storiche di rilievo del nostro Paese;
   a porre in essere i provvedimenti necessari a rendere efficace la tutela degli interessi economici del Paese come già previsto da precedenti impegni dell'Esecutivo;
   a predisporre un serio piano di politica industriale che dia le linee guida di una strategia economica del Paese, teso anche a recuperare una sana capacità manifatturiera sia per la piccola e media impresa sia in favore di realtà industriali più rilevanti, al fine di restituire all'Italia il ruolo che merita tra le potenze industriali europee.
(1-00299)
«Abrignani, Palese, Polidori, Marti, Milanato, Russo, Giammanco, Calabria, Picchi, Marotta».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni, complice la crisi economica, l'Italia ha ceduto parti importanti del suo patrimonio industriale in favore di investitori esteri, perdendo via via asset che sono sempre stati considerati strategici per la crescita economica del Paese;
    secondo il rapporto sulla competitività industriale recentemente pubblicato dalla Commissione europea, dal 2007 al 2012, l'Italia ha perso 20 punti percentuali nell'indice di produzione industriale e, con riferimento alla produttività, ha perso molte posizioni anche rispetto a Paesi economicamente più deboli. Il rapporto lascia, inoltre, intravedere come, senza riforme strutturali, la posizione industriale italiana sia destinata solo a peggiorare;
    il declino industriale italiano ha origini lontane ed ha inizialmente travolto la grande industria, arrivando via via ad intaccare quella che da sempre è considerata l'asse portante del sistema economico italiano: la piccola e media impresa. La chiusura di numerose piccole realtà produttive, fortemente radicate nei territori locali, ha comportato un vero e proprio depauperamento industriale ed occupazionale di questi ultimi, con conseguenze devastanti sull'economia dell'intero Paese;
    numerosi marchi italiani, che rappresentano la più grande espressione del made in Italy nel mondo, sono oggi di proprietà di aziende straniere; ne sono un esempio i grandi nomi della moda e del lusso come Loro Piana, Gucci, Bulgari, Fendi e Valentino, ma anche Fiorucci e Parmalat nel settore alimentare e Ducati in quello della meccanica;
    gli ultimi accadimenti relativi ai processi di privatizzazione di Alitalia e Telecom Italia rendono ancora più evidente l'ondata di deindustrializzazione che sta attraversando il Paese, la quale, di fronte all'inesistenza di organiche riforme di Governo, mina la competitività del sistema economico italiano, condannando l'Italia ad una posizione di povertà ed emarginazione;
    le privatizzazioni in Italia non sempre sono avvenute con la logica prioritaria di tutelare gli interessi strategici dell'economia nazionale e di restituire competitività al tessuto industriale del Paese; ciò ha comportato la perdita di un patrimonio di imprese, tecnologie e conoscenze, la quale non è stata compensata, tranne in rari casi, con la nascita di nuove realtà industriali di rilevanza per l'economia italiana;
    con il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, è stata emanata una disciplina innovativa in materia di poteri di intervento dello Stato in caso di operazioni straordinarie riguardanti imprese attive nei settori strategici della difesa e della sicurezza nazionale, delle comunicazioni, dell'energia e dei trasporti, prevedendo che il Presidente del Consiglio dei ministri possa, attraverso un proprio decreto, esprimere un veto a quelle operazioni che diano luogo a situazioni di pregiudizio per gli interessi nazionali anche in riferimento alle reti e agli impianti, compresi quelli necessari ad assicurare la continuità degli approvvigionamenti, nei settori medesimi;
    sul declino economico dell'Italia pesa la mancanza di una pianificazione industriale a livello nazionale, di una politica seria, coraggiosa e trasparente in grado di affrontare con rigore e determinazione i veri problemi che affliggono il Paese, dall'insostenibile pressione fiscale alla difficoltà di accesso al credito, passando per un vetusto e asfissiante sistema burocratico;
    è, pertanto, necessario che il Governo adotti quanto prima una politica di rilancio del sistema industriale del Paese al fine di poter uscire dalla recessione ed inaugurare una nuova fase di crescita economica, il cui cuore pulsante torni ad essere il sistema delle piccole e medie imprese,

impegna il Governo:

   ad adottare una politica di rilancio strutturale del sistema industriale italiano, anche attraverso l'immediata attuazione di interventi di riduzione del carico fiscale, di semplificazione burocratica e di facilitazione all'accesso al credito a favore delle piccole e medie imprese, al fine di aumentare la competitività dell'economia italiana;
   ad esercitare i poteri speciali che per legge gli competono in materia di assetti societari per le attività di rilevanza strategica in tutti quei processi di vendita che coinvolgono imprese attive in settori di particolare rilevanza per il Paese.
(1-00300)
«Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle ha già espresso in numerosi atti parlamentari, come le mozioni: n. 1-00214 (politica industriale volta alla riqualificazione e alla reindustrializzazione dei poli chimici) e n. 1-00223 (crisi del settore manifatturiero) e le risoluzioni in commissione: n. 7-00094, n. 7-00146, n. 7-00144, la sua idea per fermare la deindustrializzazione del nostro Paese;
    innanzitutto, si evidenzia la contrarietà della vendita delle residue quote pubbliche delle grandi imprese Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Fincantieri, le reti del gas e della luce di Snam e Terna (la prima già ceduta alla Cassa depositi e prestiti, la seconda oggi quotata e in parte sul mercato), i binari di Rete ferroviaria italiana, i fili e i tubi di Telecom;
    la svendita di ciò che resta del patrimonio pubblico italiano serve secondo il Governo ad abbassare radicalmente lo stock del debito, come già fatto a partire dagli anni novanta, ma senza alcun apprezzabile risultato. In realtà, si tratta di una regalia ai cosiddetti mercati, affinché si astengano da ulteriori speculazioni;
    questo patrimonio sarà acquistato dagli stessi soggetti finanziari e imprenditoriali che controllano il debito pubblico italiano e che su di esso hanno speculato;
    tali grandi aziende costituiscono il tessuto connettivo dell'economia del Paese e sono tutte strategiche per la loro funzione attuale e per quella che potranno svolgere in futuro nella ristrutturazione ecologica, civile e tecnologica del sistema economico italiano. Esse sono state costruite con il lavoro e le tasse di 4 o 5 generazioni di italiani lungo il corso di oltre un secolo: i proprietari delle quote residue in mano allo Stato sono, dunque, i cittadini italiani che non possono essere espropriati della possibilità di decidere sul loro assetto attuale e futuro;
    le società pubbliche predette sono strategicamente rilevanti per il posizionamento dell'industria nazionale, in un quadro di definizione degli equilibri di mercato interno e internazionale; il bilancio dello Stato è positivamente ristorato dagli utili derivanti dalle profittevoli attività dei gruppi di imprese facenti capo alle sopracitate attività;
    la cessione di tali asset va, senza dubbio alcuno, a detrimento dei rispettivi indotti, i quali vedrebbero sottrarsi il proprio mercato a favore di non meglio precisati equilibri internazionali, con conseguenze drammatiche per i livelli occupazionali del Paese;
    l'autorevolezza e la credibilità, nonché la stabilità dell'intero comparto industriale manifatturiero dipende dalla possibilità dello Stato di influire sulle scelte strategiche operate in seno a Finmeccanica;
    il controllo della politica energetica nazionale operato attraverso Eni ed Enel è assolutamente imprescindibile ai fini della razionalizzazione sia delle politiche di sviluppo industriale che di tutela e uso del territorio;
    il gruppo Telecom Italia, con oltre 80 mila dipendenti, è il principale operatore di comunicazioni elettroniche e titolare delle infrastrutture della rete di accesso che rappresenta una sorta di monopolio naturale, anche perché nel nostro Paese non sono state sviluppate reti televisive via cavo che in altri contesti europei rappresentano, invece, una soluzione alternativa e più economica per la fornitura ai clienti finali di servizi innovativi a banda ultralarga;
    il gruppo Telecom Italia, che detiene la proprietà della rete di accesso, oltre ad essere il principale operatore telefonico del Paese, è uno dei principali attori del mercato finanziario nazionale;
    il valore della rete nazionale posseduta da Telecom Italia si aggira tra gli 8 e i 16 miliardi di euro ed è composta da 110 milioni di chilometri in rame e 4,1 milioni di chilometri in fibra ottica;
    per quanto concerne la rete wireless, Telecom Italia registra un patrimonio il cui valore oscilla tra i 500 milioni e il miliardo di euro, con 12 mila antenne Tim;
    il gruppo Telecom Italia genera un fatturato annuo di 23,6 miliardi di euro, di cui 16,2 miliardi di euro in Italia, realizza 4,4 miliardi di euro di investimenti, di cui 3 miliardi di euro in Italia, produce una cassa operativa pari a 5,3 miliardi di euro, di cui 4,9 miliardi di euro in Italia e destina alla spesa per interessi sul debito un importo pari a 1,8 miliardi di euro su base annua;
    l'acquisizione di Telco della società Telecom preoccupa non solo per la totale mancanza di strategia del nuovo azionista ma soprattutto per il controllo della rete infrastrutturale;
    in attesa che il Parlamento esprima i pareri su i provvedimenti regolamentari che permettano al Governo di attuare la golden power, è necessario che il Governo addotti politiche di tutela del patrimonio industriale italiano;
    si ricorda che nell'ultimo ventennio molti investitori stranieri hanno acquisito aziende italiane che hanno rappresentato la peculiarità del made in Italy a livello internazionale, a partire dal settore agroalimentare, della moda, del lusso e della meccanica;
    i motivi di tale impoverimento bisogna ricercarli non solo nella crisi internazionale, ma sono anche interni come la burocrazia, la pressione fiscale, il gap infrastrutturale tra Nord e Sud, la restrizione del credito da parte delle banche verso le imprese, la corruzione, la criminalità organizzata, l'evasione fiscale, l'antimeritocrazia e i mancati tagli della spesa pubblica improduttiva,

impegna il Governo:

   a non procedere alla messa sul mercato delle residue quote pubbliche delle grandi società partecipate dallo Stato;
   ad adottare un piano di ottimizzazione delle società partecipate dirette ed indirette dello Stato al fine di valorizzarle renderle competitive nel mercato interno ed internazionale;
   a pervenire, quanto prima possibile, una volta acquisiti i pareri dei competenti organi delle Camere, all'approvazione definitiva dei regolamenti previsti dall'articolo 2 del decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, con i quali sono individuati le reti e gli impianti, ivi compresi quelli necessari ad assicurare l'operatività dei servizi pubblici essenziali, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l'interesse nazionale nel settore delle comunicazioni e sono emanate le disposizioni attuative in materia di esercizio dei poteri speciali nel medesimo settore delle comunicazioni;
   a garantire un'efficace vigilanza, in base ai poteri previsti dalla golden power, sui beni e i rapporti di rilevanza strategica per l'interesse e la sicurezza nazionale nel settore delle comunicazioni;
   ad attuare un piano industriale che valorizzi, attraverso misure di fiscalità di vantaggio, la ricerca e l'innovazione e la tutela del made in Italy in ogni settore produttivo.
(1-00301)
«Fantinati, Da Villa, Petraroli, Mucci, Vallascas, Prodani, Della Valle, Crippa, Nuti».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il rapporto sulla competitività della Commissione europea, reso noto il 24 settembre 2013, afferma che in Italia è in corso una vera e propria deindustrializzazione. Il rapporto registra una perdita di 20 punti percentuali nell'indice di produzione industriale rispetto al 2007. In termini di costo unitario medio del lavoro, la competitività dell'Italia si è notevolmente deteriorata negli ultimi dieci anni a causa di un aumento del salario lordo nominale combinato con una debole crescita della produttività, sebbene la quota del settore manufatturiero, in termini di valore aggiunto totale nell'economia, resti leggermente al di sopra della media europea. Nella produttività del lavoro nel settore industriale, l'Italia, nel 2012, ha perso posizioni rispetto al 2007, ed è stata superata persino dalla Grecia che nel 2007 era molto più indietro;
    non solo non diminuisce, ma continua a crescere il divario di competitività tra i 28 Stati dell'Unione europea, con i Paesi competitivi che lo diventano ancora di più e quelli già indietro sempre più staccati dal gruppo di testa. Si è bloccato il cosiddetto processo di convergenza, per cui gli stati «virtuosi» trainano gli altri verso l'alto in una dinamica di reciproco vantaggio. Tra le cause principali del problema identificate da Bruxelles alla riduzione dell'attività dovuta, ci sono il rallentamento economico, la chiusura di numerosi impianti in alcuni settori industriali di base (petrolchimica, siderurgia e biocombustibili), il costo dell'energia, che sta portando alla deindustrializzazione non solo dell'Italia ma dell'intera Unione europea, ma anche gli investimenti rimasti al palo dallo scoppio della crisi, la difficoltà di accesso al credito e l'inefficienza della pubblica amministrazione;
    nel 2013 le ore di cassa integrazione hanno superato, per la terza volta dall'inizio della crisi, il miliardo di ore. I lavoratori in cassa integrazione a zero ore sono stati 517.000, è cresciuto del 18 per cento il numero delle aziende che ha fatto ricorso alla cassa integrazione guadagni, aumentano le imprese che vi ricorrono per crisi aziendale, mentre diminuiscono gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e di rinnovamento industriale; nonostante si preveda una lieve ripresa economica per il 2014, la disoccupazione rimarrà sopra il 12 per cento nei prossimi due anni; i lavoratori scoraggiati dall'inizio della crisi sono aumentati del 54,1 per cento;
    prosegue il processo di cessione alla proprietà straniera di taluni pezzi pregiati del made in Italy o di imprese collocate in settori strategici di punta; ancora più preoccupanti sono le vicende che potrebbero portare alla cessione, alla svendita o al possibile trasferimento di aziende strategiche per gli interessi nazionali, come Telecom Italia, Alitalia e Finmeccanica e Eni; si tratta di comparti fondamentali, la cui rilevanza centrale è tale che si è provveduto ad escluderli dalle logiche di mercato;
    con il decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56 del 2012, si è intervenuti in materia di poteri speciali esercitabili dal Governo nei settori strategici, al fine di adeguare le norme italiane alle indicazioni comunitarie; sulla base delle indicazioni della Commissione europea, tali poteri possono essere esercitabili se riguardanti taluni limitati settori strategici e fondati su motivi di interesse generale, quali l'ordine e la sicurezza pubblici; per quel che riguarda i movimenti di capitali e la tutela delle istituzioni finanziarie, le deroghe ammesse non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali;
    le nuove norme prevedono la facoltà di dettare specifiche condizioni o di impedire l'acquisito di partecipazioni e di porre il veto all'adozione di determinate delibere societarie; le disposizioni degli Stati devono rispettare un principio di proporzionalità, strettamente connesso all'obiettivo perseguito; tuttavia, la nuova disciplina prevede l'esercizio dei poteri speciali rispetto a tutte le società, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica, e non più soltanto rispetto alle società privatizzate o pubbliche;
    per definire i criteri di compatibilità comunitaria della disciplina dei poteri speciali, la Commissione europea ha adottato una comunicazione con la quale ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve, comunque, essere attuato senza discriminazioni ed è ammesso se si fonda su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» e se è giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale». Riguardo agli specifici settori di intervento, la Commissione europea ha ammesso un regime particolare per gli investitori di un altro Stato membro qualora esso sia giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica purché, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, sia esclusa qualsiasi interpretazione che poggi su considerazioni di ordine economico;
    il decreto-legge n. 21 del 2012 prevede, altresì, che la nuova disciplina sia attuata mediante decreti del Presidente del Consiglio dei ministri o del Presidente della Repubblica, cui è demandato il compito di individuare le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale in rapporto alle quali potranno essere attivati i poteri speciali, individuare la tipologia di atti o operazioni infragruppo esclusi dall'ambito della nuova disciplina, le modalità di esercizio dei poteri speciali e l'individuazione di eventuali ulteriori disposizioni attuative;
    ad oggi sono stati adottati il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 novembre 2012, n. 253, e il regolamento che individua le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza, mentre si sta procedendo alla redazione di tre schemi di decreto del Presidente della Repubblica, nei quali sono individuati le attività nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, da escludere, definendo le relative procedure per l'attivazione dei poteri speciali e sono individuate le procedure per l'attivazione dei poteri speciali nei settori della difesa e sicurezza nazionale;
    nel programma di Governo presentato dal Premier Enrico Letta sono centrali il rilancio della competitività e il sostegno alle imprese; tali impegni sono stati confermati nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei ministri con le quali è stata chiesta e ottenuta la fiducia alle Camere l'11 dicembre 2013; il Governo ha chiesto alle forze che lo sostengono un patto per il 2014 volto ad attuare rilevanti obiettivi: il rilancio degli investimenti pubblici, la riduzione delle imposte, un clima favorevole agli investimenti e all'attrazione nel nostro Paese di capitali esteri; il taglio dei costi energetici, nuove politiche di competitività industriale a sostegno di imprese e piccole e medie imprese sempre più innovative, digitalizzate e internazionalizzate;
    un ulteriore dato congiunturale è rappresentato dalla restrizione del credito delle banche verso il sistema produttivo; Confindustria ha segnalato una possibile ulteriore riduzione valutabile attorno al 10 per cento per il 2014; nel mese di ottobre 2013 è stato presentato il programma Cosme, il nuovo programma dell'Unione europea per la competitività e l'innovazione 2014-2020; con un bilancio di 2,3 miliardi, Cosme è uno strumento di finanziamento che continua in larga misura le attività dell'attuale programma quadro 2007/2013 per la competitività e l'innovazione (Cip). Il programma si rivolge a imprese, soprattutto piccole e medie imprese, che beneficeranno di credito e capitali di rischio che altrimenti non sarebbero riuscite a ottenere e a aspiranti imprenditori che desiderano creare una propria impresa;
    anche nei fondi regionali europei 2014/2020 e nel programma per il finanziamento della ricerca e dell'innovazione «Orizzonte 2020» vi saranno molti più fondi per il finanziamento delle piccole e medie imprese. Per il futuro la Banca centrale europea, che ha già aperto consistenti linee di credito a favore delle piccole e medie imprese, avrà un ruolo sempre maggiore, anche grazie alla ricapitalizzazione di 10 miliardi di euro attuata a marzo 2013, che consente un effetto di leva fino a 180 miliardi di euro di nuovi investimenti,

impegna il Governo:

   a dare massima priorità a quanto previsto dal proprio programma in materia di rilancio della competitività, degli investimenti pubblici, di sostegno alle imprese, di riduzione delle imposte sulle imprese, del cuneo fiscale e dei costi energetici;
   ad adottare tutte le misure necessarie per consentire il pieno utilizzo delle risorse comunitarie destinate al sostegno, al rilancio ed alla competitività delle imprese, in particolare tenendo conto delle possibilità offerte dal programma Cosme dell'Unione europea, avviato nell'ottobre 2013 e relativo al periodo 2014-2020 per la competitività e l'innovazione delle piccole e medie imprese;
   a procedere con la massima sollecitudine per l'approvazione definitiva dei regolamenti previsti dall'articolo 2 del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, al fine di rendere operativi ed esercitare i poteri speciali che per legge gli competono per tutelare l'interesse nazionale in caso di passaggio alla proprietà straniera di importanti aziende italiane di particolare rilevanza strategica per il nostro Paese;
   a valutare la possibilità di modificare il Testo unico della finanza (decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) nel senso rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, tenendo conto delle indicazioni parlamentari già espresse con la mozione n. 1-00160, firmata da tutti i gruppi parlamentari e approvata dal Senato della Repubblica il 17 ottobre 2013.
(1-00302) «Dorina Bianchi».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi finanziaria, economica e successivamente industriale che ha coinvolto le principali economie occidentali negli ultimi cinque anni ha duramente provato il tessuto industriale e manifatturiero italiano;
    secondo il rapporto sulla competitività della Commissione europea, l'Italia rischia un processo «di vera e propria deindustrializzazione», con l'indice della produzione industriale che «ha perso 20 punti percentuali dal 2007»; tale evoluzione è attribuita dalla Commissione europea sia alla riduzione dell'attività dovuta al rallentamento economico, sia alla chiusura di numerosi impianti in alcuni settori industriali di base (petrolchimica, siderurgia e biocombustibili);
    l'industria manifatturiera italiana rappresenta il 15,5 per cento del valore aggiunto complessivo generato nell'economia italiana, un dato leggermente al di sopra della media europea (15,3 per cento), con forti presenze in settori dal profilo tecnologico più contenuto come l'abbigliamento, la metallurgia e il legno, mentre la quota dei settori più innovativi appare più ridotta rispetto a quella di altre economie europee;
    secondo dati Unioncamere sulla natalità e mortalità delle imprese, l'aumento dei fallimenti delle imprese, nel terzo trimestre del 2013, ha trascinato ai minimi da 10 anni il saldo tra aperture e chiusure di aziende;
    dal punto di vista dell'occupazione i dati complessivi sono i più alti degli ultimi trent'anni, mentre particolarmente preoccupante resta il dato sulla disoccupazione giovanile superiore al quaranta per cento;
    se il processo di deindustrializzazione sta accelerando le prospettive di rischio irreversibile di decadenza economica del made in Italy, uno dei temi di maggiore impatto è quello della delocalizzazione delle attività produttive italiane: basti pensare ai numerosi trasferimenti o aperture di aziende o società italiane non solo in Paesi dell'est Europa ma anche in Svizzera, scelta solo apparentemente contraddittoria, in quanto questo Paese offre numerosi vantaggi strutturali che vanno dal carico fiscale contenuto (20 per cento circa sull'utile), al riconoscimento di tutti i costi aziendali giustificati, al costo del lavoro vantaggioso, all'organizzazione burocratica ed amministrativa semplice e snella, alla buona posizione strategica servita da autostrade, linee ferroviarie e aeroporti, alla strutturale predisposizione all'internazionalizzazione delle imprese;
    colpisce la sparizione dal mercato o il passaggio in mani estere di numerosi marchi storici del made in Italy nel comparto della moda e del lusso come dell'agroalimentare la cui proprietà è stata acquisita da imprenditori spagnoli, francesi, russi, cinesi e così via;
    anche le vicende Telecom, Alitalia e Finmeccanica sono gli ultimi tasselli di un processo di depotenziamento industriale che registra ritmi sempre più rapidi e che rischia di incidere profondamente sul complesso del sistema Italia;
    pur in un quadro che rimane altamente problematico e negativo però, secondo le rilevazioni dell'Istituto Markit, nell'ultimo scorcio del 2013, il settore manifatturiero europeo ha chiuso ai livelli massimi da oltre due anni e in tale positivo contesto l'Italia ha giocato un ruolo importante nel trainare la ripresa;
    l'indice destagionalizzato Markit Eurozone Manufacturing Pmi, che raccoglie indagini svolte presso 3000 aziende considerando variabili su vendite, occupazione, scorte e prezzi, è aumentato per il terzo mese consecutivo a dicembre, attestandosi a 52,7, in salita da 51,6 di novembre;
    un risultato sopra la soglia di 50 punti indica una fase di espansione economica, che ha riguardato tutta la seconda metà del 2013; per l'ultimo trimestre il settore ha registrato la performance migliore in due anni e mezzo, in linea con il tasso di crescita trimestrale della produzione di circa lo 0,6 per cento;
    il miglioramento delle condizioni operative generali è stato stimolato dalla forte e più veloce crescita nei Paesi Bassi, in Germania, in Irlanda e in Italia;
    per quanto riguarda l'Italia, in particolare, l'indice, che ha raggiunto 53,3 punti da 51,4 e ha segnato il valore più alto da aprile 2011, testimonia il forte miglioramento dello stato di salute del settore manifatturiero, con un incremento più veloce dei nuovi ordini, e le esportazioni che sono in crescita ad un tasso rimasto invariato rispetto a quello di novembre, il più alto in 32 mesi;
    non è peraltro un mistero che la tenuta del comparto manifatturiero italiano attraverso questa crisi pluriennale, e in presenza di un mercato interno in forte contrazione di domanda, sia stata principalmente garantita dal settore che maggiormente opera verso l’ esportazione e che, quest'oggi, guida anche l'avvio di ripresa;
    l'ancora lieve tendenza alla ripresa costituisce un segnale importante per l'Italia se essa sarà in grado di guardarsi alle spalle senza infingimenti e vedere le disastrose conseguenze di quello che può essere considerato il primo vero grande processo di deindustrializzazione dell'economia nazionale, in quanto profondamente diverso per qualità e misura dalle molte crisi industriali, anche gravi, che il nostro Paese ha attraversato dal dopoguerra ad oggi;
    analizzare quale Paese sia oggi l'Italia, dopo tali possenti e radicali processi di destrutturazione dell'apparato produttivo, che ha funzionato per decenni come fulcro della crescita del Paese, è essenziale per fondare la crescita su nuovi, più moderni, tecnologicamente avanzati ed ecosostenibili assi di sviluppo;
    per fare ciò è indispensabile accedere in maniera sempre maggiore alle più avanzate ricerche e conoscenze in ambito scientifico e tecnologico, valorizzando, al contempo, il capitale prezioso delle risorse umane, soprattutto nel campo della formazione, quali serie premesse alla messa in campo di nuove politiche industriali e produttive all'altezza della sfida dei tempi che verranno;
    il manifatturiero, profondamente innovato e guidato dalle nuove generazioni che si affacciano alla guida di tutti i settori del nostro Paese, deve rimanere il perno dell'identità dell'Italia nel mondo;
    le imprese italiane possono e debbono essere messe in condizione di poter competere nel campo fertile della ricerca e della conoscenza, perché in esse viene effettuata la maggior parte della ricerca, di base e applicata, e perché lo stesso fare e produrre propongono miglioramenti e soluzioni innovative nei processi e nei prodotti;
    la conoscenza, infatti, non rimane confinata dentro il settore manifatturiero, ma si diffonde all'intero sistema economico attraverso i rapporti tra imprese e il progresso tecnologico direttamente incorporato nei beni manufatti che vengono utilizzati negli altri settori come strumenti di produzione;
    le aziende italiane possono e debbono essere messe in condizione di continuare a competere efficacemente anche nei gradi settori della trazione italiana, il gusto, la moda e la qualità, proteggendole dai dilaganti fenomeni della contraffazione e delle pratiche commerciali scorrette che tanto affliggono i prodotti nazioni;
    per tutto questo serve una nuova politica industriale, basata su scelte strategiche di settori prioritari di intervento, su nuove e rafforzate politiche attive per il sistema manifatturiero (fra le più urgenti misure quelle per ampliare l'accesso al credito, per la riduzione del costo dell'energia, per rafforzare il processo di riduzione del carico fiscale sul costo del lavoro e per favorire l'internazionalizzazione), ma anche azioni di semplificazione burocratica tese a creare un ambiente più favorevole alla ripresa dell'attività economica e ad attrarre capitali dall'estero (azioni che vanno dalla riduzione degli adempimenti amministrativi, all'abbattimento delle cosiddette «tasse occulte», alla certezza dei tempi e delle procedure), nell'ottica più generale di una progressiva ripresa di competitività del sistema industriale italiano e del nostro Paese;
    in questo quadro, quindi, risulta essere di assoluta rilevanza il ruolo del pubblico, sia con l'attività propulsiva del Governo, esercitabile mediante la politica industriale e l'intervento nelle situazioni di crisi aziendali, sia attraverso l'impresa direttamente partecipata dallo Stato da utilizzarsi non solo come mera presenza sociale, ma anche come leva strategica in settori particolarmente rilevanti e di grande interesse nazionale;
    l'attuale Governo, sin dal suo insediamento, ha mostrato una particolare attenzione a queste tematiche, attraverso l'emanazione di numerosi provvedimenti in materia, l'ultimo dei quali è il decreto-legge n. 145 del 2013, il cosiddetto «destinazione Italia», attualmente all'esame della Camera,

impegna il Governo:

   a sviluppare ulteriori misure atte alla concessione di nuovo credito alle aziende e a favorire percorsi di aggregazione e crescita societaria, anche favorendo un graduale avvicinamento ai mercati ed alla quotazione da parte delle società e delle imprese;
   ad attuare un programma nazionale di politica industriale che punti al rafforzamento del sistema produttivo ed all'innalzamento della competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali;
   ad attuare la strategia energetica nazionale articolata sull'efficienza e sul risparmio energetico, sulla diversificazione delle fonti, sulla riduzione dei combustibili fossili, sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, sul potenziamento delle infrastrutture, anche con la prospettiva del mercato unico europeo dell'energia, al fine di consentire una sensibile riduzione dei costi energetici per il sistema industriale;
   a procedere con decisione sulla via della semplificazione amministrativa, così da creare un clima favorevole per le imprese esistenti ed incentivarne la creazione di nuove e attrarre investimenti esteri;
   per quanto riguarda la tutela delle produzioni nazionali, a promuovere le iniziative necessarie in sede comunitaria per rafforzare le normative in materia di anti contraffazione e made in con una nuova norma che introduca l'obbligo di indicazione di origine per tutti i prodotti per i quali non esista già una regolamentazione specifica in materia;
   a rafforzare le misure di riduzione del costo del lavoro sulle imprese e sui lavoratori, contenute nella legge di stabilità 2014, in modo da incrementare l'occupazione e i redditi disponibili;
   a realizzare politiche che consentano al sistema produttivo di recuperare competitività sui mercati internazionali, sviluppando nuove tecnologie, processi, prodotti, servizi e sistemi che possano offrire interessanti sbocchi occupazionali e di crescita economica;
   a riorganizzare il sistema degli incentivi alle imprese, orientando le risorse pubbliche verso la realizzazione di grandi progetti di ricerca ed innovazione industriale, anche tramite importanti interventi di domanda pubblica innovativa;
   a rilanciare la competitività di alcuni attori strategici nazionali quali, ad esempio, Finmeccanica e, in particolare, Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia e BredaMenarinibus;
   ad operare nel caso di Alitalia, seppure con gli strumenti concessi dalla natura di soggetto privato della compagnia, affinché non venga meno un grande vettore aereo che ha nell'Italia la sua base logistica di riferimento e la cui presenza appare fondamentale per un Paese che ha nel turismo e nella manifattura due capisaldi della propria economia;
   a completare rapidamente l'attuazione del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, così da esercitare i poteri speciali per tutelare l'interesse nazionale in caso di passaggio di proprietà straniera di importanti aziende italiane che possiedono reti strategiche, come nel caso di Telecom Italia, a tal fine anche valutando la possibilità di rivedere l'attuale disciplina dell'offerta pubblica d'acquisto e garantendo, in ogni caso, che l'eventuale passaggio non costituisca un depauperamento del sistema economico e produttivo nazionale.
(1-00308)
«Benamati, Martella, Basso, Bini, Cani, Civati, Del Basso De Caro, Donati, Folino, Galperti, Ginefra, Impegno, Mariano, Montroni, Nardella, Peluffo, Petitti, Portas, Senaldi, Taranto».
(13 gennaio 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN AMBITO EUROPEO E NAZIONALE PER LA REVISIONE DEI VINCOLI DERIVANTI DAL TRATTATO NOTO COME «FISCAL COMPACT»

   La Camera,
   premesso che:
    come noto, il Consiglio europeo nel 2011 ha varato un nuovo sistema di governance economica europea. Esso è imperniato su sei pilastri principali:
     a) un meccanismo di discussione e coordinamento ex ante delle politiche economiche e di bilancio nazionali, realizzato mediante l'adozione a livello nazionale di un ciclo di procedure e strumenti di programmazione previsto e disciplinato a livello comunitario e concentrato nei primi sei mesi dell'anno (da qui la denominazione di «semestre europeo»), che vede una più stringente interazione tra istituzioni comunitarie e nazionali e che è destinato a integrarsi con i cicli di programmazione e di bilancio nazionali, al fine di consentire di valutare contemporaneamente le politiche strutturali e le misure di bilancio in un quadro di complessiva coerenza e sostenibilità, quale presupposto per una più efficace vigilanza e integrazione delle politiche economiche e di bilancio nazionali nell'Eurozona e nell'Unione europea;
     b) una più stringente applicazione del patto di stabilità e crescita, realizzata in virtù del rafforzamento sia del suo braccio preventivo sia di quello correttivo, attraverso l'adozione di tre appositi regolamenti;
     c) l'introduzione, mediante due appositi regolamenti, di una sorveglianza sugli squilibri macroeconomici degli Stati membri che include meccanismi di monitoraggio, allerta, correzione e sanzione;
     d) l'introduzione di requisiti comuni per i quadri nazionali di bilancio, mediante l'adozione di un'apposita direttiva;
     e) l'istituzione di un meccanismo permanente per la stabilità finanziaria della zona euro (MSE), attraverso una modifica dell'articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, adottata dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011 e da recepirsi ad opera degli ordinamenti nazionali;
     f) il patto «Europlus», adottato con una dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo dell'11 marzo 2011, che impegna gli Stati aderenti (dell'Eurozona e alcuni altri Stati) a porre in essere ulteriori interventi in materia di crescita, occupazione, sostenibilità delle finanze pubbliche, competitività e coordinamento delle politiche fiscali;
    tali principi sono stati tradotti in corrispondenti cinque regolamenti e una direttiva (cosiddetta six pack). Inoltre, il 23 novembre 2011 la Commissione europea ha presentato due ulteriori proposte di regolamento (two pack) volte al rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri che affrontano o sono minacciati da serie difficoltà per la propria stabilità finanziaria, nonché il monitoraggio e la valutazione dei progetti di bilancio che assicurino la correzione dei disavanzi eccessivi degli Stati membri dell'Eurozona. In tale contesto, ha visto luce il «Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria», noto anche come «fiscal compact», firmato a Bruxelles il 2 marzo 2012, che prevede, tra l'altro, l'introduzione della regola del pareggio di bilancio, oltre ad un meccanismo automatico per l'adozione di misure correttive, qualora necessarie;
    nel più ampio silenzio mediatico che si sia mai registrato (con l'assenza di servizi radiotelevisivi pressoché assoluta e il silenzio della quasi totalità dei giornali), il Parlamento italiano ha ratificato, sul finire del 2012, il cosiddetto fiscal compact, con grande zelo e senza alcun dibattito significativo e con l'opposizione o l'astensione di un gruppo assai sparuto di parlamentari;
    in linea molto generale e prima di entrare nei dettagli del suo contenuto, si può affermare che il meccanismo introdotto dal Trattato significa, per il nostro Paese, la definitiva cancellazione di ogni ipotesi di ruolo pubblico nello sviluppo, con un preciso obbligo al rientro del 50 per cento dell'ammontare complessivo del debito pubblico che eccede il 60 per cento del prodotto interno lordo;
    dal 2013, oltre alle normali manovre di riduzione del deficit di bilancio, al finanziamento del meccanismo europeo di stabilità e di probabili altre misure a salvataggio di altri Paesi della «zona euro», l'Italia è chiamata ad aggiungere la somma impressionante di ulteriori 50 miliardi di euro all'anno;
    il meccanismo del Trattato renderà vincolante questo obbligo, non per un anno, ma per i prossimi venti anni, con il risultato evidente che il futuro di due e più generazioni di italiani è ipotecato e ancorato ad una nuova e permanente dimensione di miseria sociale;
    accanto a questa ratifica, peraltro, con la legge 24 dicembre 2012, n. 243, approvata a maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna Camera ai sensi del nuovo sesto comma dell'articolo 81 della Costituzione, sono state dettate le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni;
    la legge citata reca disposizioni per l'attuazione del principio del pareggio di bilancio, ai sensi del nuovo sesto comma dell'articolo 81 della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, il quale prevede che il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni siano stabiliti da una apposita legge «rinforzata», in quanto deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale;
    il capo VII della legge reca l'istituzione dell'organismo indipendente previsto dall'articolo 5, comma 1, lettera f), della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, che viene denominato «Ufficio parlamentare di bilancio», avente le funzioni di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e valutazione dell'osservanza delle regole di bilancio;
    l'ufficio ha una composizione collegiale di tre membri, di cui uno con funzioni di presidente, nominati d'intesa dai Presidenti delle Camere nell'ambito di un elenco di dieci soggetti con competenza a livello sia nazionale che internazionale in materia di economia e finanza pubblica indicati dalle Commissioni bilancio di ciascuna Camera, a maggioranza dei due terzi dei rispettivi componenti; i membri durano in carica 6 anni, salvo che siano revocati per gravi violazioni dei doveri d'ufficio, e non possono essere confermati;
    tutto il complesso legislativo posto in essere con l'approvazione della ratifica del Trattato sul «fiscal compact», unito alle legge costituzionali e ordinarie sopra richiamate, finisce per introdurre vincoli penetranti all'attività del legislatore nazionale;
    occorre, dunque, ripensare il contenuto del Trattato del marzo 2012;
    entrando nel dettaglio del suo contenuto, si osserva che il Trattato è composto da un preambolo e da 16 articoli, suddivisi in un titolo I, relativo all'oggetto e all'ambito di applicazione, in un titolo II, relativo alla coerenza e al rapporto con il diritto dell'Unione europea, in un titolo III, relativo proprio al «fiscal compact» o patto di bilancio, in un titolo IV, relativo al coordinamento delle politiche economiche e convergenza, in un titolo V, relativo alla governance della zona euro, e in un titolo VI, relativo alle disposizioni generali e finali. Il Trattato non è stato sottoscritto dal Regno Unito, come emerso nel Consiglio europeo del 9 dicembre 2011, dalla Repubblica Ceca, che ha negato il suo consenso dal momento dell'approvazione del Trattato, il 30 gennaio 2012, in occasione del Consiglio europeo informale a Bruxelles;
    è da rilevare che, al riguardo, il Parlamento europeo, il 18 gennaio 2012, nell'approvare una risoluzione fortemente critica nei confronti del testo sino allora disponibile, ha espresso perplessità su un siffatto accordo intergovernativo, ritenendo più efficace il quadro del diritto dell'Unione europea e il «metodo comunitario» per realizzare gli stessi obiettivi di disciplina di bilancio e per realizzare una vera unione economica e fiscale. In tale occasione il Parlamento ha richiesto una maggiore valorizzazione del proprio ruolo e di quello dei Parlamenti nazionali in tutti gli aspetti del coordinamento e della governance in ambito economico. Il Parlamento ha, inoltre, richiesto l'impegno a integrare l'accordo nei trattati europei al più tardi entro cinque anni, ha reiterato i propri appelli per un'Unione europea improntata non solo alla stabilità, ma anche alla crescita sostenibile, attraverso misure destinate alla convergenza e competitività, project bond, un'imposta sulle transazioni finanziarie ed ha espresso formalmente la riserva di avvalersi di tutti gli strumenti politici e giuridici per difendere il diritto dell'Unione europea qualora l'accordo definitivo dovesse prevedere elementi incompatibili con il diritto dell'Unione europea;
    il sopra detto monito del Parlamento europeo è rimasto però inascoltato, nonostante la strada intrapresa lasci ormai chiaramente emergere tutta una serie di squilibri in Europa tra i Paesi del Nord, in particolar modo la Germania, che guadagnano in termini di competitività ed eccedenze commerciali, e i Paesi del Sud, travolti da una bolla immobiliare e dall'aumento del debito privato;
    le principali disposizioni del nuovo Trattato, infatti, estendono e radicalizzano i trattati precedenti, in particolare il patto di stabilità e crescita. Nell'articolo 1, il Trattato riprende, infatti, le affermazioni abituali degli organismi europei. Le regole sono «volte a rafforzare il coordinamento delle politiche economiche». Ma vincoli numerici sui debiti e sui deficit pubblici, che non tengono conto delle differenti situazioni economiche, non possono di certo favorire un reale coordinamento di politiche economiche. Allo stesso modo, il Trattato afferma di rafforzare «il pilastro economico dell'Unione europea al fine di realizzare gli obiettivi in materia di crescita duratura, occupazione, competitività e coesione sociale», ma, al di là delle parole, niente di concreto viene previsto per facilitare la realizzazione di tali obiettivi, anzi si favorisce il contrario. Il «fiscal compact» richiede ai Paesi di seguire un sentiero di convergenza rapida verso l'equilibrio di bilancio, definito dalla Commissione europea, senza tener conto della situazione congiunturale;
    i Paesi perdono, dunque, ogni possibile libertà d'azione. Come precauzione supplementare, un meccanismo «automatico» dovrà essere messo in pratica per ridurre il deficit. Se la Commissione europea stabilisce che un Paese ha raggiunto per esempio un «deficit strutturale» pari a tre punti percentuali del prodotto interno lordo, questo dovrà mantenere un «deficit strutturale» limitato al 2 per cento l'anno successivo, amputando in tal modo la domanda (attraverso una riduzione delle spese e un aumento delle imposte) di un punto del prodotto interno lordo, indipendentemente dal livello di disoccupazione;
    certamente, come per il patto di stabilità e crescita, sarebbe comunque possibile prevedere uno scarto temporaneo in caso di circostanze eccezionali, come in caso di un «tasso di crescita negativo o un declino cumulativo della produzione per un periodo prolungato», ma le misure correttive dovrebbero essere sempre pianificate e adottate rapidamente. Quando un Paese ha superato i limiti prescritti ed è soggetto a una procedura per deficit eccessivi, deve presentare un programma di riforme strutturali alla Commissione europea e al Consiglio, i quali dovranno approvarlo e monitorarne l'attuazione;
    oggi, la quasi totalità dei Paesi dell'Unione europea (23 su 27) è soggetta a una procedura per deficit eccessivi. Oltre ai piani di riforma delle pensioni (aumento dell'età pensionabile), si vogliono imporre un abbassamento del salario minimo, minori prestazioni sociali (Irlanda, Grecia, Portogallo), la riduzione delle protezioni contro il licenziamento (Grecia, Spagna, Portogallo), la sospensione della contrattazione collettiva a favore della contrattazione d'impresa, più favorevole ai datori di lavoro (Italia, Spagna e altri) e la deregolamentazione delle professioni chiuse;
    la convinzione è che queste «riforme strutturali» creeranno un nuovo potenziale di crescita economica nel lungo periodo. Tuttavia, niente assicura che sarà così. Ciò che è certo, invece, è che nella situazione attuale queste riforme determineranno un aumento delle disuguaglianze, della precarietà e della disoccupazione;
    in nessun passaggio, purtroppo, l'espressione «riforma strutturale» riguarda l'adozione di misure volte a rompere il dominio dei mercati finanziari, ad aumentare l'imposizione fiscale sui più ricchi e sulle grandi imprese e a organizzare e finanziare la transizione ecologica;
    il risultato di dette strategie è l'annullamento delle politiche fiscali e la rinuncia a politiche economiche con qualsiasi potere discrezionale;
    il Trattato secondo i firmatari del presente atto di indirizzo non ha alcun altro obiettivo se non quello di ostacolare le politiche di bilancio nazionali. Ciascun Paese deve, quindi, adottare misure restrittive: ridurre le pensioni, ridurre le prestazioni sociali e il numero dei funzionari, aumentare le imposte (principalmente l'iva, che pesa sulle famiglie più povere). Non si prende minimamente in considerazione la situazione congiunturale specifica di ciascun Paese, né i bisogni sociali in termini d'investimenti e occupazione, né le politiche degli altri Paesi. Ciò implica che, oggi, tutti i Paesi stanno adottando, di fatto, politiche di austerità, mentre i deficit sono dovuti alla recessione che ha avuto origine con lo scoppio della bolla finanziaria e all'aumento degli squilibri causati dall'errata architettura della zona euro;
    il rischio concreto, oramai tradottosi in realtà, è che le teorie che ispirano il «fiscal compact» propongono, di fatto, di limitare gli interventi anticiclici dello Stato talora ritenuti responsabili dell'inflazione e soprattutto della riduzione della quota dei profitti sul reddito nazionale; si vuole convincere i cittadini a rinunciare definitivamente all'obiettivo di piena occupazione, considerato causa di un aumento dell'inflazione;
    questo genere di politica è teso a sottrarre le politiche economiche dalle mani dei Governi democraticamente eletti, mentre tutto è affidato ad organismi indipendenti composti da esperti e tecnocrati, che non sono responsabili di fronte al popolo e ai cittadini. La politica economica deve essere paralizzata con regole vincolanti. Pertanto, la Banca centrale europea, dichiarata «indipendente», ha il principale obiettivo di mantenere l'inflazione al di sotto del 2 per cento ogni anno. E in futuro la politica di bilancio sarà affidata a commissioni indipendenti, sotto l'egida del patto e della Commissione europea, con il solo obiettivo di garantire il mantenimento dell'equilibrio di bilancio;
    l'instabilità dell'economia renderebbe invece necessaria una politica attiva. Per questo, negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha abbassato praticamente a zero il tasso di interesse e ha comprato massicciamente titoli privati e pubblici, in totale contrasto con tutto il pensiero ortodosso: il deficit pubblico ha superato il 10 per cento del prodotto interno lordo nel periodo tra il 2009 e il 2011 senza sollevare alcun allarme;
    nonostante tutto ciò, gli attuali fini delle autorità europee vengono costantemente ribaditi e concettualmente alimentati attraverso l'imposizione di politiche «automatiche» e soglie che determinano l'applicazione di misure che stanno «affamando» i cittadini comprimendo i consumi,

impegna il Governo:

   ad avviare da subito negoziati in ambito europeo per rivedere l'impostazione del complesso dei vincoli derivanti all'Italia dal Trattato sul «fiscal compact» e dagli altri strumenti giuridici ed economici (a partire dal meccanismo europeo di stabilità) ad esso correlati, in modo da avviare una politica di crescita sostenibile e di ripresa economica e produttiva, in assenza della quale il Paese rischia di piombare in una situazione finanziaria e di bilancio, ma soprattutto in una crisi economica e sociale, di livello insostenibile;
   a sostenere in ogni possibile sede europea e internazionale, anche a livello bilaterale, la necessità di un alleggerimento dei vincoli finanziari e di recupero di politiche di sviluppo e di crescita;
   ad assumere una propria, forte, iniziativa per la revisione della legislazione italiana sulla materia di cui in premessa, con particolare riferimento all'esigenza di rendere meno opachi e più fruibili, anche per i cittadini italiani, i meccanismi introdotti con la legge costituzionale n. 1 del 2012 e con la legge n. 243 del 2012, in questo ambito promuovendo una revisione degli strumenti di controllo affidati al Parlamento dalla predetta legge n. 243 del 2012, anche intervenendo, sempre in via normativa, per una maggiore funzionalità dell'Ufficio parlamentare di bilancio, che dovrà rappresentare un reale strumento democratico a disposizione delle Camere, ai fini dell'esercizio della propria sovranità.
(1-00292)
«Ciprini, Tripiedi, Rizzetto, Rostellato, Cominardi, Baldassarre, Bechis, Chimienti, Cancelleri, Barbanti, Agostinelli, Alberti, Artini, Baroni, Basilio, Battelli, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Nicola Bianchi, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Catalano, Cecconi, Colletti, Colonnese, Corda, Cozzolino, Crippa, Currò, Da Villa, Dadone, Daga, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Lorenzis, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Dell'Orco, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Di Vita, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Gallinella, Luigi Gallo, Silva Giordano, Grande, Grillo, Cristian Iannuzzi, L'Abbate, Liuzzi, Lombardi, Lorefice, Lupo, Mannino, Mantero, Marzana, Micillo, Mucci, Nesci, Nuti, Parentela, Pesco, Petraroli, Pinna, Pisano, Prodani, Rizzo, Paolo Nicolò Romano, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Segoni, Sibilia, Sorial, Spadoni, Spessotto, Tacconi, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Turco, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(21 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nell'ambito di un quadro di recessione globale, la zona euro mostra particolari difficoltà e il peggioramento dell'economia si è accompagnato a una crisi sociale senza precedenti, mentre si sviluppano movimenti xenofobi e antieuropei;
    l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità. A partire dalla primavera 2010, sono stati così varati programmi di riequilibrio dei conti pubblici ambiziosi, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Nei Paesi periferici il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco), ed è stato parzialmente vanificato dalla recessione indotta dalle politiche di austerità;
    è sostanzialmente l'analisi delle cause profonde della crisi ad essere sbagliata. Essa viene fatta risalire alla «crisi dei debiti sovrani», mentre questi ultimi sono peggiorati a seguito della crisi e non viceversa. Nel biennio della grande recessione, l'aumento del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è stato nei Paesi periferici solo leggermente superiore alla media dell'Eurozona. La sfiducia dei mercati finanziari è stata innescata dai crescenti squilibri macroeconomici tra i sistemi produttivi più forti (Germania in primis), molto competitivi e in forte avanzo commerciale, e i Paesi periferici considerati – a causa di debolezze strutturali che sono andate aggravandosi negli anni duemila – meno capaci, in prospettiva, di onorare i propri debiti pubblici;
    per questi motivi è stato, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, un errore, nella XVI legislatura, inserire in Costituzione, con le modifiche all'articolo 81, il pareggio di bilancio come previsto dal cosiddetto fiscal compact;
    non si risolverà certo la crisi con le politiche di «austerità espansiva» che l'hanno provocata. Pensare che il taglio nei deficit pubblici possa essere compensato dall'aumento di altre componenti della domanda aggregata è una pia illusione. Come mostrato in studi e dall'esperienza pratica (si veda la Grecia), il moltiplicatore fiscale in una fase di recessione è positivo e l'austerità porterà, quindi, ad un calo del prodotto interno lordo maggiore del calo del debito, rendendo impossibile raggiungere l'obiettivo della riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo;
    diversi documenti dell'Unione europea testimoniano una transizione dei poteri dagli Stati nazionali all'oligarchia dell'Unione europea, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo una vera espropriazione della democrazia a favore di una tecnocrazia che risponde, di fatto, solo ai poteri finanziari ed a ristretti gruppi sociali che di tali politiche di austerità si stanno avvantaggiando in maniera scandalosa;
    tra il 1976 e il 2006, la quota dei salari (incluso il reddito dei lavoratori autonomi) sul prodotto interno lordo è diminuita in media di 10 punti, scendendo dal 67 al 57 per cento circa. In Italia è andata peggio: il calo ha toccato i 15 punti, dal 68 al 53 per cento (dati Ocse), un trasferimento di ricchezza a favore soprattutto del capitale finanziario, pari – in moneta attuale – a 240 miliardi di euro;
    di tale processo, si possono individuare sette tappe:
     a) innanzitutto, l'articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea consolidato (1992-2007), il quale inibisce alla Banca centrale europea la funzione principale di ogni banca centrale, ossia quella di creare il denaro necessario per coprire i disavanzi del bilancio statale, ripagare i debiti pubblici giunti a scadenza, finanziare la spesa sociale e promuovere l'occupazione. Se gli Stati europei della zona euro hanno bisogno di denaro debbono rivolgersi alle banche private, pagando tassi d'interesse del 3-6 per cento, mentre le banche pagano alla Banca centrale europea un tasso dell'uno per cento. Allo stesso tasso il servizio del debito dello Stato italiano potrebbe ridursi di circa 20 miliardi di euro;
     b) il patto «Euro Plus» (25 marzo 2011) che impegna gli Stati aderenti (Eurozona e alcuni altri Stati) a realizzare i seguenti obiettivi: stimolare la competitività e l'occupazione; concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; rafforzare la stabilità finanziaria. L'articolato dei quattro obiettivi anticipava i contenuti delle controriforme che sarebbero poi state introdotte dai Governi Berlusconi e Monti, in particolare per quanto concerne la previdenza e il mercato del lavoro. Il patto suggeriva, inoltre, di eliminare i contratti nazionali di lavoro e di valutare anche la sostenibilità del sistema di assistenza sanitaria;
     c) la lettera del Commissario all'economia, Olli Rehn, inviata al Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore Tremonti il 4 novembre 2011, nella quale con un «questionario» in 39 punti si compendiavano le richieste particolareggiate della Commissione europea al Governo italiano. Le corrispondenze tra il dettato della Commissione europea e le riforme del Governo Monti sono impressionanti (allungamento dell'età pensionabile; abolizione delle pensioni d'anzianità; spostamento dell'onere fiscale sui consumi e sulla proprietà immobiliare; riforma del mercato del lavoro, riduzione dei pubblici dipendenti);
     d) il «six pack» (cinque regolamenti ed una direttiva), entrato in vigore il 13 dicembre 2011, contiene misure per rafforzare la sorveglianza economica e fiscale di tutti gli Stati membri: una versione rivista e corretta del patto per la stabilità e la crescita della fine degli anni novanta. Prevede sanzioni praticamente automatiche (procedura di voto «rovesciata»: le sanzioni non vengono applicate solo se una maggioranza qualificata degli Stati membri vota contro) per i Paesi che non rispettano i limiti riguardanti il deficit di bilancio ed i piani da porre in opera, per ridurre, nell'arco di un ventennio, a non più del 60 per cento del prodotto interno lordo l'ammontare del debito. Più una serie di indicatori attestanti che i piani di rientro siano effettivamente in via di progressiva attuazione;
     e) il 2 febbraio 2012 è stato firmato il meccanismo europeo di stabilità (mes): una sorta di banca (capitale pari a 700 miliardi di euro a regime, 500 miliardi di euro per iniziare), atta a fornire – ponendo a ciò condizioni durissime – assistenza finanziaria agli Stati membri che presentino difficoltà di bilancio. L'Italia dovrà contribuire con 125,4 miliardi di euro, da versare in cinque rate annuali. Il meccanismo europeo di stabilità ha facoltà di chiedere prestiti alla banche private, per poi prestare denaro agli Stati che fanno domanda a un tasso che sarà inevitabilmente superiore a quello praticato dalle banche;
     f) il 9 febbraio 2012 la cosiddetta troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) inviavano al Governo greco un memorandum d'intesa sulle politiche economiche da adottare e quali condizioni per ricevere assistenza finanziaria. Un documento molto dettagliato che espropria il popolo greco della propria potestà politica ed economica, con misure eccezionalmente pesanti per i lavoratori ed i cittadini e che limita «massicciamente » (l'espressione è di Jean-Claude Juncker, Presidente dell'Eurogruppo) la sovranità di quel Paese;
     g) il 2 marzo 2012, veniva invece firmato il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria, il cosiddetto «fiscal compact»,, che è entrato in vigore il 1 o gennaio 2013. Si stabilisce che il bilancio pubblico consolidato deve essere in pareggio o mostrare un sopravanzo. Le regole debbono essere recepite «in modo vincolante e durevole» nella legislazione dei contraenti, «preferibilmente a livello costituzionale». Si prescrive che se uno Stato contraente presenta un debito pubblico superiore al limite fissato (il 60 per cento del prodotto interno lordo), esso ha l'obbligo di ricondurlo entro tale limite al ritmo di un ventesimo l'anno in media. Per l'Italia una riduzione pari a circa 50 miliardi l'anno per 20 anni: una meta impossibile da raggiungere pena la distruzione delle possibilità di avere una vita decente per il 90 per cento dei componenti di una o due generazioni di cittadini italiani. La Commissione europea verifica, valuta, soppesa, decide ed eroga le misure punitive (vere e proprie pesantissime ammende);
    tutte queste misure hanno accresciuto in misura notevole i poteri della Commissione europea, a paragone dei poteri sia del Parlamento europeo sia dei Parlamenti nazionali. Si è così instaurato un processo burocratico, nel corso del quale dei funzionari irresponsabili decidono di irrogare o meno sanzioni in base ad indicatori meccanicamente ed arbitrariamente stabiliti. Si affida poi alla Corte di giustizia europea nientemeno che il compito di regolare le vertenze tra gli Stati, laddove il suo compito dovrebbe limitarsi a sorvegliare il rispetto della legislazione dell'Unione europea;
    queste misure e le politiche di austerità stanno distruggendo l'economia europea sottraendole domanda interna, stabilità dei conti, occupazione e speranza. La stabilità dei conti pubblici, in questa crisi che tanto assomiglia a quella degli anni trenta, si nutre di crescita e l'austerità uccide sia la crescita che la stabilità;
    sono, inoltre, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, scellerate ed ottuse le normative ordinarie italiane a cui la Costituzione rimanda (la cosiddetta «legge rinforzata»: la legge 24 dicembre 2012, n. 243), che declinano i concetti della sostenibilità del debito pubblico con formule matematiche rigide ed arbitrarie derivanti, peraltro, da regole europee che non hanno valenza di trattato internazionale, perché approvate senza l'accordo di alcuni Stati membri come il Regno unito e la Repubblica ceca;
    come ormai rileva anche il Fondo monetario internazionale, oggi si sa che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Una stretta violenta su entrata e spesa, che affonda le spese pubbliche d'investimento e comunque produttive, ha effetti depressivi sia sul breve che sul medio termine. È da considerare più efficace un percorso di stabilizzazione del debito più selettivo, stabile e controllato. Il Trattato di Lisbona non ha funzionato perché rimaneva l'asimmetria tra il controllo della moneta e il vuoto delle politiche fiscali, bancarie e di bilancio comunitario;
    tuttavia le autorità europee stanno commettendo un nuovo errore. Esse appaiono persuase dall'idea che i Paesi periferici dell'Unione europea potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le cosiddette «riforme strutturali». Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire, quindi, una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l'estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l'unità europea. Le politiche deflattive attuate in Germania (tra il 2000 e il 2010 ha visto la mancata crescita dei salari nominali nell'ordine del 15 per cento, ossia inferiore rispetto alla crescita salariale media dell'Eurozona) e altrove, per far accrescere l'avanzo commerciale hanno, di fatto, contribuito per anni, unitamente ad altri fattori, all'accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i Paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un'azione coordinata da parte di tutti i membri dell'Unione europea. Pensare che i soli Paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee;
    occorre essere consapevoli che, proseguendo con le politiche di «austerità» e affidando il riequilibrio alle sole «riforme strutturali», il destino dell'euro sarà segnato e l'esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale, che diano vita ad un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati e contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e che risollevi l'occupazione nelle periferie dell'Unione europea, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall'euro;
    nel quadro istituzionale sopra descritto, le politiche di austerità promosse dai Paesi dell'Unione europea, inclusa l'Italia, hanno portato ad una recessione che oggi ha dimostrato tutti i suoi effetti devastanti inducendo quegli stessi Governi a invocare la crescita come rimedio alla crisi e al problema dell'aumento della disoccupazione;
    ma le imprese aumentano la produzione, aumentando conseguentemente l'occupazione, solo se cresce la domanda o vi sono concreti elementi che indichino che essa crescerà;
    i 25 milioni di disoccupati nell'Unione europea al 2013 comportano una riduzione del prodotto interno lordo potenziale dell'intera Unione europea dell'ordine del 5 per cento l'anno, corrispondente a circa 800 miliardi di euro. Per l'Italia, si tratta di 80 miliardi di euro di ricchezza reale che non viene creata. Inoltre, la disoccupazione di lunga durata genera ulteriori costi derivanti dalla perdita di produttività del lavoro e comporta costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, crisi familiari e tensioni sociali potenzialmente esplosive;
    il lavoro come diritto è solennemente sancito da tutte le carte fondamentali nazionali e sovranazionali, inclusa la Costituzione italiana che include, tra i principi fondamentali, non solo il riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro, ma anche la promozione effettiva da parte della Repubblica delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (articolo 4);
    è giunto il momento che il Governo italiano prenda l'iniziativa per sollecitare le istituzioni dell'Unione europea e gli altri Paesi membri dell'Unione europea affinché i trattati e il diritto dell'Unione europea vengano modificati nel senso di includere la lotta alla disoccupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione europea, più che il pareggio di bilancio;
    a tal proposito merita ricordare che nelle versioni consolidate del Trattato sull'Unione europea (Tue) e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (Tfue), l'espressione promuovere «un elevato livello di occupazione» ricorre pochissime volte. Inoltre, i testi rendono chiaro che essa non è un impegno dell'Unione europea, bensì dovrebbe essere l'esito dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva, di stampo neo-liberale, che purtroppo l'Unione europea e le sue istituzioni (Banca centrale europea in testa) hanno promosso;
    di fronte alla vera e propria emergenza nazionale ed europea rappresentata dalla disoccupazione, occorre un'inversione di tendenza che abbandoni l'ideologia neo-liberale per contrastare i populismi crescenti, ponendo finalmente la piena occupazione come obiettivo della politica dell'Unione europea e che venga riconosciuto il principio che essa può essere perseguita efficacemente con politiche pubbliche;
    tra i piani su cui si potrebbe procedere andrebbero collocati integrazioni e modifiche del Trattato sull'Unione europea, nonché dello statuto del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) e della Banca centrale europea, al fine di collocare la piena occupazione tra i fini preminenti dell'Unione europea e delle sue istituzioni finanziarie. Inoltre, alla Banca centrale europea andrebbe richiesto di includere tra i principi generali per le operazioni di credito a banche dell'Eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare sicuramente promuovere l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente,

impegna il Governo:

   a sostenere la radicale modifica del Trattato sulla convergenza dei bilanci, il cosiddetto «fiscal compact», una delle cause della recessione, concordando con i partner europei misure sostanziali a favore dello sviluppo sostenibile, a partire da un'europeizzazione non parziale del debito sovrano almeno per la quota che supera il 60 per cento del prodotto interno lordo, secondo le proposte avanzate da diversi economisti anche italiani, e a chiedere nell'immediato lo slittamento della scadenza per il raggiungimento del pareggio di bilancio in termini strutturali e per l'avvio della riduzione dello stock del debito e/o l'esclusione di alcune spese per investimenti dai saldi del patto di stabilità;
   a proporre la realizzazione di una vera unione politica del continente in senso federale al fine di realizzare l'obiettivo degli Stati uniti d'Europa ed a sostenere il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo, giungendo anche all'elezione diretta del presidente della Commissione europea;
   a prendere le opportune iniziative al fine di modificare i meccanismi di cui alla cosiddetta «legge rinforzata», la legge 24 dicembre 2012, n. 243, con particolare riguardo alla definizione del saldo strutturale, alla cosiddetta «regola del debito» per quanto concerne i fattori rilevanti, alla cosiddetta «regola della spesa», alle modalità del monitoraggio da parte del Ministro dell'economia e delle finanze del livello della spesa, alla definizione di eventi eccezionali, alle norme concernenti gli enti territoriali, al ruolo dell'Ufficio parlamentare di bilancio che dovrà essere di supporto del ruolo democratico e sovrano del Parlamento;
   a proporre che si garantisca, come è stato deciso in favore della Spagna, la possibilità di un rientro più morbido e dilazionato nel tempo del debito sovrano, in quanto in particolare appare irrealistico per l'Italia il rientro dal 2015 di oltre 15 miliardi di euro all'anno attraverso dismissioni immobiliari;
   a concordare con gli organismi dell'Unione europea l'applicazione della golden rule che escluda dalle regole di spesa, introdotte dal patto di stabilità e crescita rivisto nel 2011, gli investimenti degli enti territoriali nei seguenti campi:
    a) politiche pubbliche per la creazione di occupazione;
    b) riqualificazione delle periferie attraverso piani di recupero;
    c) interventi di salvaguardia dell'assetto idrogeologico dei territori;
    d) messa in sicurezza degli edifici scolastici;
    e) recupero, salvaguardia e sviluppo del patrimonio artistico e ambientale;
    f) interventi di risanamento delle reti di distribuzione delle acque potabili;
    g) potenziamento del trasporto pubblico locale, con particolare riguardo al pendolarismo ragionale e al trasporto su ferro;
    h) interventi di risparmio energetico attraverso l'utilizzo delle energie rinnovabili;
   a proporre di rafforzare gli impegni degli Stati membri per raggiungere rapidamente una quota di energia da fonti rinnovabili pari al 20 per cento del consumo finale di energia e a definire un nuovo accordo che porti al superamento di tale quota entro il 2020, perché inadeguata alle esigenze energetiche dell'intera comunità, anche rispetto alla situazione di crisi e alla potenzialità di lavoro che gli investimenti in energia rinnovabile possono creare;
   a proporre l'utilizzazione, a livello europeo, di una quota del gettito della tassa sulle transazioni finanziarie, unitamente all'emissione di eurobond e project bond, per finanziare e promuovere l'occupazione giovanile e la riconversione ecologica del sistema produttivo;
   a proporre la ridefinizione del ruolo della Banca centrale europea come prestatrice di ultima istanza;
   a proporre un programma europeo, una sorta di «social compact», per lo sviluppo sostenibile e la coesione sociale, la lotta alle disuguaglianze ed alla povertà, da concordare con gli altri partner continentali.
(1-00298)
«Marcon, Paglia, Ricciatti, Migliore, Boccadutri, Lavagno, Melilla, Di Salvo, Pannarale».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    in Italia il dibattito sulla costruzione dell'Europa unita è stato condotto con grande superficialità, sia da parte della classe politica che dai mass media in generale, forse nell'errata convinzione che il tema riscuotesse poco interesse nell'opinione pubblica. Soprattutto nelle fasi di elaborazione e poi di ratifica dei trattati che progressivamente hanno dato vita all'impianto normativo ed istituzionale dell'Unione europea, è stato fatto uno sforzo del tutto insufficiente per capire fino in fondo e poi per diffondere tra i cittadini i contenuti dei Trattati e dei Consigli europei, e soprattutto per prendere coscienza della posta in gioco, limitandosi a classificazioni manichee: chi è pro o contro l'Europa, chi è pro o contro l'euro, chi ha vinto e chi ha perso nel braccio di ferro con la Merkel;
    solo la Lega Nord, coerentemente in tutti i passaggi parlamentari che hanno investito il dibattito europeo, non si è mai lasciata coinvolgere nell'europeismo ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo falso e incosciente, nell'assenso a trattati di oscuro significato, nell'accettazione acritica di ogni dictat proveniente da Bruxelles. Tanti e ripetuti sono stati i tentativi della Lega Nord di «suonare una sveglia» verso la classe politica e l'opinione pubblica, per chiamarli a leggere, ad approfondire e a capire cosa si stava decidendo veramente ed irrevocabilmente per il nostro futuro;
    più volte è stato chiesto, anche con puntuali proposte di legge costituzionali, di potere coinvolgere il popolo tramite referendum sulla ratifica di trattati che avrebbero inciso sulla dimensione non solo economica ma anche etica dell'Europa, dal Trattato di Nizza alla Costituzione europea. Trattati che, laddove sono stati sottoposti a giudizio popolare, sono stati sonoramente bocciati dai cittadini dell'Europa. Un diritto di espressione che è stato, invece, sempre negato ai cittadini del nostro Paese;
    la ratifica del «fiscal compact» nel 2012 ha comportato la ratifica di un sistema di governance dell'area euro messo a punto per stratificazioni successive, e quasi sempre come risposta – tardiva – ad emergenze non adeguatamente previste e per le quali il «sistema euro» si è rivelato ben presto impreparato. Il «fiscal compact» incorpora i meccanismi di rientro del debito e di rigore di bilancio già previsti dal patto di stabilità e dal six pack già in vigore dal novembre 2011, il Mes mette a regime i sistemi provvisori già operativi per la crisi greca dal maggio 2010. Questo significa che la costruzione di questo impianto normativo non è avvenuta con la visione lungimirante di costruire un sistema che previene le crisi e fa funzionare al meglio il sistema monetario. Al contrario, si è proceduto per stratificazioni successive, spesso anche tra loro incongruenti, di «toppe» ad un sistema non efficace, concepite da burocrati che evidentemente non si sono dimostrati all'altezza del loro compito, che nel sommarsi rendono sempre più farraginosi ed avvitati i meccanismi di decisione, i passaggi da compiere per giungere alle decisioni, la burocrazia ed i rituali. Se poniamo tutto questo di fronte ai mercati finanziari che operano alla velocità della luce, di giorno e di notte, il confronto è evidentemente ridicolo e ovviamente perdente per l'Europa;
    il grande assente di tutto questo dibattito, assente purtroppo dai dibattiti europei da molti anni, forse proprio da quando si è concepito l'euro, è proprio il progetto, il progetto di un'Europa, con il quale si era partiti più di 50 anni fa, sostenuto da pensatori, intellettuali, politici e cittadini, e che ha iniziato a morire lentamente quando si è deciso di fare una moneta senza uno Stato, come se la prima potesse essere autosufficiente e soppiantare e compensare il secondo. Questa idea assurda ha rivelato alla fine tutti i suoi limiti: l'omologazione monetaria ha esaltato, anziché sopire, gli squilibri interni dei Paesi membri, ha premiato i sistemi produttivi più dinamici, ma allo stesso tempo ha permesso ad altre economie di vivere al di sopra delle proprie possibilità protette dall'illusione della moneta forte, senza riformarsi, gonfiando i debiti pubblici, finché è saltato tutto;
    la risposta eurocratica alla più grande crisi finanziaria ed economica della sua storia è stata ancora una volta una risposta tecnocratica, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo ottusa e non democratica, elaborata alle spalle del popolo sul quale esplicherà i suoi effetti;
    il «fiscal compact», sottoscritto nel marzo 2012, è un trattato internazionale e non un atto comunitario. La scelta è stata resa obbligatoria dal fatto che Repubblica Ceca e Regno Unito non l'hanno sottoscritto. È, dunque, un trattato che impegna solo chi lo ha firmato. Il «fiscal compact» non solo impone di inserire in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio, già previsto nel nostro Paese con legge costituzionale n. 1 del 2012;
    lo stesso trattato impone di ridurre il nostro debito pubblico al ritmo di 1/20 l'anno, per ricondurlo al parametro del 60 per cento del prodotto interno lordo in 20 anni, quindi l'Italia dovrebbe diminuire il suo debito di più di 40 miliardi di euro all'anno per i prossimi 20 anni. Questa cifra era stata calcolata con una crescita del Pil del 2 per cento. Con il perdurare della crisi ed un prodotto interno lordo inferiore o in decrescita, l'entità delle manovre correttive crescerebbe proporzionalmente, deprimendo ancora di più la situazione economica del Paese, in una spirale suicida;
    con il «fiscal compact», inoltre, ben al di là della nostra modifica costituzionale «interna» l'Italia si espone al giudizio di tutti gli altri membri: infatti, ogni altro Stato membro del «fiscal compact», se dovesse a suo giudizio ritenere i conti italiani «non in regola», potrà adire la Corte di giustizia dell'Unione europea contro l'Italia, anche in assenza di un giudizio negativo da parte della Commissione europea;
    contestualmente al «fiscal compact» il nostro Paese ha ratificato, con l'unica opposizione della Lega Nord, l'introduzione del meccanismo del Mes, European stability mechanism, cioè la messa a regime del sistema attraverso il quale, a fronte di un fondo di salvataggio per Paesi in difficoltà erogati dagli altri Paesi europei, come è accaduto per la Grecia, il Mes interviene nei bilanci dei Paesi «aiutati», decidendo, di fatto, che politiche di taglio e di rigore essi debbano seguire all'interno del proprio Paese. Un fondo, il Mes, al quale tutti sono tenuti a contribuire, anche Paesi come l'Italia con bilanci già sotto pressione, mentre non è chiaro poi chi decide i prestiti e, soprattutto, le condizioni da imporre ai beneficiari;
    il meccanismo provvisorio (Efsm), preludio del costituendo Mes, ha finora garantito prestiti per 180 miliardi di euro alla Grecia, 62 miliardi di euro all'Irlanda, 52 miliardi di euro al Portogallo, 100 miliardi di euro alle banche spagnole. Per contro, per contribuire al fondo l'Italia ha dovuto prevedere l'emissione di quote di debito pubblico ulteriore pari a 45,9 miliardi di euro tra il 2010 ed il 2014. A regime, dovremo sottoscrivere quote per 125 miliardi di euro;
    mentre è obbligatorio versare, la possibilità di ricevere aiuto dal Mes è, invece, subordinata ad un negoziato e, soprattutto, prevede l'imposizione di precisi elementi di condizionalità, come sta già avvenendo in Grecia o in Spagna, che non si limitano a disposizioni a carattere finanziario, ma entrano pesantemente nelle scelte di politica economica e sociale dello Stato beneficiario, mettendo ovviamente a dura prova la tenuta dei Governi che devono gestire l'applicazione dei memorandum;
    il Mes, come è noto, non ha nessun meccanismo di controllo democratico del proprio operato. Esso è gestito da un Consiglio dei Governatori e da un vero e proprio consiglio di amministrazione;
    il Consiglio dei Governatori è composto dai Ministri delle finanze degli Stati membri. L'attività operativa è però svolta dal consiglio di amministrazione, nominato tra persone di competenza economica e finanziaria. Saranno, quindi, esperti di finanza senza alcuna elezione popolare a decidere, ad esempio, le normative in materia di lavoro o di sanità, che dovranno applicare i Paesi beneficiari;
    lo sforzo finanziario per la partecipazione al Mes si aggiunge al contributo importante che l'Italia dà al bilancio comunitario. Nonostante la situazione delicata delle finanze pubbliche italiane e a dispetto delle critiche impietose di esponenti della Commissione europea alla gestione economica del nostro Paese, l'Italia resta uno dei pochi contributori netti al bilancio dell'Unione europea e continuerà ad esserlo anche per il periodo pianificato dal nuovo bilancio comunitario 2014-2020; nel 2011 addirittura l'Italia è stato «il primo contribuente netto» al bilancio europeo e «negli ultimi dieci anni ha pagato più di quanto fosse giustificato». Sono dichiarazioni di un europeista convinto, Mario Monti. In quell'anno, scelto a titolo esemplificativo, mentre il nostro Paese più di altri era sofferente a causa della la crisi finanziaria internazionale, l'Italia ha versato al bilancio comunitario ben 6 miliardi di euro in più di quanto ne ha ricevuti;
    la sostanza di questi trattati è, dunque, che la cessione di sovranità dagli Stati nazionali verso l'Unione europea, in nome di un alto ideale comunitario e di una solidarietà economica tra zone più e meno floride dell'Unione stessa, si sta tramutando in una delega all'eurocrazia a decidere della vita dei cittadini, del sistema di diritti, di welfare, di previdenza in nome dell'unico idolo del rigore e della stabilità dei mercati finanziari;
    gli Stati nazionali, come storicamente intesi, di fatto già non esistono più. Sono involucri vuoti, senza sovranità monetaria, senza il controllo delle politiche fiscali, di bilancio, quindi senza la possibilità di fare politiche economiche e sociali autonome. Svuotare gli Stati senza creare un contropotere significa davvero consegnare il popolo alla finanza, con conseguenze davvero devastanti per la gente. È strano come ad essere tacciati di anti-europeismo siano quelli che come la Lega Nord che invece chiedono una vera «Europa politica», politica e democratica, dunque costruita con il consenso popolare, attraverso le forme intermedie che più permettono ai popoli di esprimere la propria identità: un'Europa delle regioni, che travalicano i confini tradizionali e mettono in comune mentalità, cultura, ma anche metodi di lavoro e capacità produttive ed imprenditoriali, non più ingabbiate in criteri e parametri nazionali non corrispondenti alla realtà, elementi su cui potrebbe anche fondarsi una nuova e diversa dinamica economica, che forse ci porterebbe fuori da questa crisi,

impegna il Governo:

   ad avviare urgentemente in sede comunitaria, durante il semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea, una revisione dei meccanismi di stabilità e rigore che stanno strozzando l'economia dell'Europa, dei suoi cittadini e delle sue imprese, per orientarsi nel più breve tempo possibile verso politiche di crescita, di conservazione del patrimonio industriale e delle peculiarità produttive dei Paesi europei e del nostro in particolare;
   a farsi promotore di una revisione dell'intero impianto economico ed istituzionale dell'Unione europea, che superi il principio del rigore come unico orientamento dell'azione comunitaria, che sia orientato allo sviluppo e al bene della persona, rifondando un'Europa politica e non economico burocratica, sulle fondamenta solide della democrazia e del coinvolgimento del popolo;
(1-00303)
«Guidesi, Borghesi, Allasia, Attaguile, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il patto di bilancio europeo o Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria, («fiscal compact»), è un accordo approvato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 Stati membri dell'Unione europea, entrato in vigore il 1o gennaio 2013 e riguarda principalmente i Paesi dell'Unione europea il cui sistema monetario è basato sull'euro. Il trattato non è stato sottoscritto dal Regno Unito e dalla Repubblica Ceca;
    il patto contiene una serie di regole, chiamate «regole d'oro», che sono vincolanti nell'Unione europea per il principio dell'equilibrio di bilancio; la maggior parte delle decisioni riguardanti l'imposizione fiscale e la spesa pubblica rimane di competenza dei Governi nazionali; il controllo sulla politica fiscale è tradizionalmente considerato centrale per la sovranità nazionale;
    l'Italia ha ampiamente dimostrato la propria buona volontà di procedere nel percorso di risanamento del bilancio, approvando, ben prima della gran parte degli Stati dell'Unione europea, le norme interne attuative del Patto di bilancio europeo:
     a) con la legge costituzionale n. 1 del 2012 ha recepito nel proprio ordinamento la regola del pareggio di bilancio;
     b) con le leggi nn. 114, 115 e 116 del 23 luglio 2012 sono stati ratificati i contenuti del «fiscal compact» e cioè la modifica all'articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea relativamente a un «meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l'euro», il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'unione economica e monetaria e il Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (Esm o Mes);
     c) con la legge 24 dicembre 2012, n. 243, si è modificato il ciclo annuale di bilancio per conformarlo alle esigenze comunitarie e sono stati introdotti più stringenti criteri per assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci pubblici e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni;
    gli accordi comunitari prevedono l'inserimento, in ciascun ordinamento statale (con norme di rango costituzionale, o comunque nella legislazione nazionale ordinaria), di diverse clausole o vincoli tra le quali:
     a) l'obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio;
     b) la significativa riduzione del debito pubblico al ritmo di un ventesimo (5 per cento) all'anno, fino al rapporto del 60 per cento sul prodotto interno lordo nell'arco di un ventennio;
     c) l'impegno a coordinare i piani di emissione del debito col Consiglio dell'Unione e con la Commissione europea;
     d) l'obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3 per cento del prodotto interno lordo, come previsto dal Patto di stabilità e crescita; in caso contrario, sono previste sanzioni semi-automatiche;
    il limite del 3 per cento del rapporto del rapporto deficit/prodotto interno lordo sussiste da circa 20 anni. Nel 1992 era uno dei criteri (cosiddetti di Maastricht) per l'accesso all'unione monetaria europea; nel 1997 è diventato la prescrizione del Patto di stabilità e crescita, lo strumento di coordinamento delle politiche fiscali tra i Paesi membri dell'area euro ed è sopravvissuto alle due riforme del 2005 e del 2011. È rimasto immutato anche con l'entrata in vigore del «fiscal compact» (il 1o gennaio 2013), nonostante quest'ultimo vincolo si riferisca ad un diverso aggregato di finanza pubblica, vale a dire il disavanzo corretto per il ciclo e al netto delle misure una tantum;
    i premi Nobel per l'economia Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow, in un appello rivolto al Presidente Obama, hanno affermato che: « (...) inserire nella costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida (...) aggiungere ulteriori restrizioni, quale un tetto rigido della spesa pubblica, avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà diminuisce infatti il gettito fiscale e aumentano alcune spese pubbliche tra cui i sussidi di disoccupazione e le spese assistenziali. Queste spese fanno aumentare il deficit pubblico, anche se limitano la contrazione del reddito disponibile, del potere di acquisto e di conseguenza dei consumi; (...) in una economia recessiva (...)», sostengono i Nobel «(...) è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa economica già di per sé debole»;
    secondo l'economista e premio Nobel Paul Krugman, l'inserimento in Costituzione del vincolo di pareggio del bilancio può portare alla dissoluzione dello stato sociale; tuttavia, per la particolare natura della struttura della spesa italiana, nella quale sono assicurati anche sotto il profilo costituzionale i «livelli essenziali di assistenza» e le spese sociali e assistenziali sono considerate, anche in termini contabili, obbligatorie e non comprimibili, il rischio può consistere anche nella riduzione, sino a termini di insignificanza, di tutte le altre categorie di spesa; ove si esaminino i trend di spesa, comunque, ripartiti, da anni si registra una diminuzione di tutte le categorie di spesa: dagli investimenti, ai consumi intermedi, alle spese di funzionamento delle amministrazioni, alle spese dei comuni e delle regioni; per i dipendenti pubblici, che sono numericamente in diminuzione, da tre anni sussiste il blocco dei rinnovi contrattuali; solo la spesa sociale (e la connessa spesa sanitaria) crescono in media del 2 per cento l'anno; gioverà ricordare che l'eccesso di spesa sociale è stato determinante nel crollo economico della Grecia;
    nel mese di giugno 2013 l'Italia è uscita dalla procedura d'infrazione comunitaria per il superamento del vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/prodotto interno lordo; tuttavia, anche il solo provvedimento di restituzione alle imprese delle somme dovute dalla pubblica amministrazione per appalti e forniture, ha riportato l'Italia in prossimità della suddetta soglia e nell'autunno del 2013 il Governo Letta è dovuto intervenire con una «manovrina correttiva» al fine di evitare ulteriori rischi di sforamento; peraltro, la gran parte dei Paesi dell'Unione europea (23 su 27) è soggetta a una procedura per deficit eccessivi, mentre alcuni di essi hanno potuto, su autorizzazione comunitaria, sforare il tetto del 3 per cento, sia pure in presenza di un debito pubblico assoluto assai inferiore a quello italiano;
    il meccanismo di rientro del debito pubblico al ritmo di un ventesimo (5 per cento) all'anno, fino al rapporto del 60 per cento sul prodotto interno lordo nell'arco di un ventennio, oltre al finanziamento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), comportano la possibilità che, oltre alle normali manovre di riduzione del deficit di bilanci, l'Italia possa essere obbligata a manovre da 40-50 miliardi di euro all'anno, a seconda dei tassi che il Paese dovrà pagare per finanziare il debito sovrano;
    in termini pratici, per cittadini e imprese, il complesso dei vincoli comunitari e delle norme sopra descritte potrebbe comportare una crescita non controllabile, per non dire automatica, della pressione fiscale, in presenza di una riduzione dei servizi,

impegna il Governo:

   ad intervenire in sede di Unione europea, con tutta l'autorità che deriva dall'aver svolto a pieno, prima e meglio di altri Paesi dell'Unione europea, tutti gli impegni assunti con il Trattato comunitario sulla stabilità, coordinamento e governance, al fine di provvedere alla sollecita revisione dei vincoli derivanti dal Trattato sul «fiscal compact» e dal pareggio di bilancio, al fine di liberare risorse da destinare alle politiche di sviluppo economico, nonché ad attenuare l'attuale rigidità delle metodologie con le quali è calcolato il vincolo del 3 per cento del rapporto debito/prodotto interno lordo;
   ad individuare in sede comunitaria meccanismi che consentano di escludere le spese destinate allo sviluppo economico, ivi comprese quelle che consentano la riduzione del carico fiscale sulle imprese, dai vincoli del Patto di stabilità comunitario;
   ad individuare meccanismi interni, ivi compresa la modifica della classificazione contabile, che consentano di tenere sotto controllo la crescita automatica della spesa sociale ed assistenziale.
(1-00305) «Piso, Dorina Bianchi».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica e finanziaria, registrata a partire dal 2009, ha spinto l'Unione europea verso un'ampia revisione della propria governante, con l'obiettivo di rafforzare gli strumenti e le procedure per una più rigorosa politica di bilancio, garantire la solidità finanziaria dell'area europea e rilanciare le proprie prospettive di sviluppo;
    il nuovo sistema di governance economica europea si fonda su un complesso di misure, di natura legislativa e non legislativa, finalizzate a rafforzare i vincoli di finanza pubblica dell'unione economica e monetaria, ma anche a introdurre una cornice comune per le politiche economiche degli Stati membri, in particolare per quanto riguarda la crescita e l'occupazione;
    il sistema si articola in sette principali assi di intervento:
     a) un meccanismo per il coordinamento ex ante delle politiche economiche nazionali, mediante un ciclo di procedure e strumenti europei e nazionali concentrato nel primo semestre di ogni anno (semestre europeo);
     b) il patto «Euro plus», che impegna gli Stati membri dell'area euro e alcuni altri Stati aderenti a porre in essere ulteriori interventi in materia di politica economica, il cui eventuale inadempimento non comporta l'adozione di sanzioni;
     c) il trattato per il coordinamento delle politiche di bilancio (cosiddetto «fiscal compact») entrato in vigore il 1o gennaio 2013;
     d) le modifiche al Patto di stabilità (contenute in parte nel cosiddetto six pack, in parte nel cosiddetto two pack);
     e) la sorveglianza sugli squilibri macroeconomici (derivante dall'applicazione del six pack);
     f) i meccanismi di stabilizzazione dell'eurozona;
     g) il Patto per la crescita (cosiddetto Growth pact, accordo non vincolante stipulato dal Consiglio europeo di giugno 2012);
    in materia fiscale, in particolare, il «fiscal compact» introduce la regola del pareggio di bilancio, stabilendo che esso si consideri realizzato qualora il saldo strutturale (definito come saldo corretto per il ciclo e al netto delle misure una tantum) delle amministrazioni pubbliche sia pari all'obiettivo di medio termine specifico per il Paese, come definito nel Patto di stabilità e crescita, con un limite inferiore di disavanzo strutturale dello 0,5 per cento del prodotto interno lordo; deviazioni temporanee dall'obiettivo di medio termine sono consentite solo in caso di circostanze eccezionali o di gravi crisi economico-finanziarie e, comunque, nella misura in cui tale deroga non comprometta la sostenibilità del debito di lungo periodo; inoltre, gli Stati firmatari del Trattato si impegnano all'inserimento della regola del bilancio in pareggio (in termini strutturali) all'interno del quadro legislativo nazionale con modifiche di carattere vincolante e permanente, preferibilmente a livello costituzionale, e a recepire gli specifici meccanismi di correzione da attivare nel caso di scostamenti tra i risultati conseguiti e l'obiettivo di medio termine;
    l'allineamento del sistema di regole interne con le nuove disposizioni europee è avvenuto per l'Italia con l'approvazione della legge costituzionale n. 1 del 2012, che introduce nell'ordinamento un principio di carattere generale, secondo il quale tutte le amministrazioni pubbliche devono assicurare l'equilibrio tra entrate e spese del bilancio e la sostenibilità del debito, nell'osservanza delle regole dell'Unione europea in materia economico-finanziaria;
    la legge n. 243 del 2012 ha successivamente disciplinato i principi e le regole di bilancio riferite al complesso delle amministrazioni pubbliche, che riguardano, in particolare, la definizione dell'equilibrio di bilancio, l'introduzione di una regola sull'evoluzione della spesa e le regole in materia di sostenibilità del debito pubblico, disciplinando, altresì, specifiche deroghe al principio dell'equilibrio, nonché i necessari meccanismi correttivi da adottare in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi;
    nel 2014 è previsto un importante processo di riesame da parte della Commissione europea dei provvedimenti più recenti in materia di coordinamento delle politiche macroeconomiche e di bilancio (six pack e two pack): i rapporti sulla clausola di revisione, inserita negli articolati dei provvedimenti legislativi in questione, dovrebbero essere inviati dalla Commissione europea al Consiglio e al Parlamento Europeo entro il 14 dicembre 2014 e sarà valutata l'efficacia delle disposizioni, soprattutto riguardo ai meccanismi di voto, includendo, ove necessario, proposte di revisione;
    se le condizioni finanziarie nell'area dell'euro sono oggi molto meno tese rispetto alla fine del 2011, il raggiungimento di un equilibrio stabile è tuttavia ancora lontano, poiché continua a mancare un meccanismo di riduzione delle divergenze nelle strutture economiche dei Paesi dell'area euro, in assenza del quale non sarà possibile dare definitiva soluzione neanche ai problemi dei debiti sovrani; al tempo stesso, risultano ancora in gran parte irrisolti i problemi relativi alle asimmetrie del ciclo economico, che privilegiano alcuni Paesi a danno di altri e che devono essere affrontati con uno sforzo comune, teso a riequilibrare le tendenze spontanee del mercato, con un vero coordinamento delle politiche economiche dell'eurozona che contempli strumenti adeguati a fronteggiare le asimmetrie del ciclo nei singoli Paesi;
    la questione cruciale è il rafforzamento della governance dell'unione economica e monetaria, dal momento che solo 18 Paesi su 28 adottano l'euro: l'attuale asimmetria tra eurozona e Unione europea costituisce, infatti, uno dei principali argomenti a sostegno di una governance imperniata sul metodo intergovernativo e su strumenti e organismi esterni al quadro istituzionale dell'Unione europea, come il «fiscal compact» e il Mes (il cosiddetto Fondo salva Stati);
    in sostanza, la crisi ha dimostrato la necessità di dotare la moneta unica di un vero governo economico, governo che va, però, collocato all'interno del quadro giuridico e istituzionale dell'Unione europea e imperniato sulle sue istituzioni;
    approvando con una larga maggioranza il rapporto Gualtieri-Trzaskowski sui problemi costituzionali della governance multilivello nell'Unione europea, il Parlamento europeo è entrato con forza nel dibattito sul futuro delle istituzioni europee e del governo dell'euro: il rapporto, infatti, sottolinea la necessità di avviare da subito le riforme possibili sulla base degli attuali trattati e dell'utilizzo dei numerosi strumenti di flessibilità presenti al loro interno, a partire dalla costituzione di una «capacità fiscale» aggiuntiva per l'eurozona da collocare all'interno del bilancio dell'Unione europea;
    in questo quadro, il rapporto propone un modello di coordinamento rafforzato delle politiche economiche diverso da quello contenuto nella proposta di «accordi contrattuali», che sarà in discussione al prossimo Consiglio europeo e che trova nella costituzione di un chiaro sistema di incentivi attraverso l'istituzione di uno strumento finanziario, che del bilancio dell'eurozona dovrebbe essere l'embrione (oltre che in un maggiore legittimazione democratica a livello europeo e nazionale e in una maggiore attenzione alla dimensione sociale), i suoi tratti distintivi;
    all'interno della discussione sul future dell'unione economica e monetaria, l'unione bancaria rappresenta un passaggio di fondamentale importanza e si compone di tre elementi: un meccanismo unico di supervisione, un meccanismo unico di risoluzione delle crisi e, nella prospettiva dell'unione di bilancio, un'assicurazione unica dei depositi;
    poiché l'unione bancaria è essenziale per contribuire al raggiungimento di condizioni più distese sui mercati finanziari nell'area dell'euro e nel nostro Paese e all'interruzione della spirale negativa tra rischio sovrano e attivi bancari, è necessario completare il meccanismo di supervisione con un sistema unico di risoluzione delle crisi bancarie, insistendo per il raggiungimento di un accordo tra Consiglio e Parlamento sul meccanismo unico di risoluzione delle crisi che includa anche un fondo unico di risoluzione delle crisi bancarie e una regolamentazione per la garanzie dei depositi bancari il più possibile armonizzata;
    è di particolare rilevanza l'evoluzione della discussione relativa alla mutualizzazione del debito pubblico a livello europeo: entro il marzo 2014, infatti, è attesa la pubblicazione di un rapporto che ne analizzerà le prospettive; anche su questo versante, è importante insistere sulla necessità di collocare i nuovi meccanismi all'interno del quadro giuridico e istituzionale dell'Unione europea, soprattutto alla luce della prossima scadenza per l'elezione di un nuovo Parlamento e dell'impegno delle principali forze politiche europee a legare più fortemente l'esito della competizione democratica con la composizione della futura Commissione europea;
    se va vista con favore la cosiddetta investment clause (sancita dal Consiglio europeo su proposta italiana), sulla base della quale può essere consentito ai Paesi non sottoposti a una procedura per disavanzo eccessivo, ovvero a un programma di aiuti, di versare la quota di cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali dell'Unione europea, in deroga all'obiettivo di pareggio del bilancio, continua ad essere assente una vera e propria golden rule estesa all'insieme degli investimenti che possano esercitare un impatto positivo sulla crescita territoriale e sulla riduzione della disoccupazione;
    dopo i risultati conseguiti nei campi della stabilità finanziaria, della sorveglianza delle politiche economiche e dell'unione bancaria, è importante che la discussione non si areni su quei temi più delicati, come gli incentivi alle riforme strutturali, la mutualizzazione dei debiti e l'unione fiscale, essenziali per la realizzazione di un'unione economica e monetaria efficace ed equilibrata,

impegna il Governo:

   ad attivarsi affinché tutte le decisioni relative al rafforzamento dell'unione economica e monetaria siano adottate sulla base del Trattato sull'Unione europea;
   ad avviare un negoziato con le istituzioni europee finalizzato a far sì che, a seguito del riesame dei provvedimenti in materia di governance economica da parte della Commissione europea per il 2014, sia concessa una maggiore flessibilità degli obiettivi di bilancio a medio termine, per tenere conto del ciclo economico;
   per quanto riguarda l'unione bancaria, ad affermare con forza la necessità di un presidio istituzionale in Europa nella fase di messa a punto della vigilanza bancaria unica e di costruzione del meccanismo di risoluzione delle crisi, per evitare scelte e indirizzi contrari all'interesse del Paese, in particolare in materia di valutazione dei titoli pubblici posseduti dalle banche e dalle assicurazioni e di metodi di vigilanza sulle piccole banche territoriali;
   a promuovere nelle sedi europee l'introduzione di meccanismi asimmetrici e anticiclici incardinati nel bilancio europeo per il finanziamento dei sussidi alla disoccupazione e per il sostegno dell'occupazione, in particolare giovanile;
   a sostenere l'estensione della golden rule in modo da permettere lo scomputo di alcune voci di spesa per investimenti che possano esercitare un impatto a breve positivo sulla crescita territoriale e sulla riduzione della disoccupazione dai parametri finanziari rilevanti nel processo europeo di coordinamento dei bilanci pubblici nazionali;
   a favorire la costituzione di un fondo europeo di remissione del debito (debt redemption fund) e di strumenti di debito europeo a breve termine (eurobills) senza ricorrere a ulteriori trattati intergovernativi, ma utilizzando il quadro giuridico e istituzionale esistente dell'Unione europea;
   a sostenere la necessità di costruire un'adeguata implementazione, nelle procedure e negli strumenti di incentivo/disincentivo, della procedura per gli squilibri macroeconomici (Macroeconomic imbalance procedure-Mip), con l'obiettivo di responsabilizzare i Paesi dell'eurozona eccedentari all'attivazione al loro interno delle misure necessarie per l'assorbimento degli squilibri, come più volte chiesto all'Unione europea dai più importanti partner internazionali, a partire dagli Stati Uniti;
   in materia di unione economica e monetaria, a richiamare l'esigenza di compiere progressi in modo equilibrato e bilanciato su tutte e quattro le direttrici poste dal rapporto dei quattro Presidenti «Verso un'autentica unione economica e monetaria», così da arrivare progressivamente a definire una vera e propria politica economica della zona euro, in modo da assicurare un aggiustamento più equilibrato tra i Paesi in deficit e i Paesi in surplus.
(1-00310)
«Martella, Causi, Marchi, Mosca, Bobba, Bonavitacola, Capodicasa, Censore, De Micheli, Fanucci, Giampaolo Galli, Genovese, Giulietti, Guerra, Laforgia, Losacco, Marchetti, Melilli, Misiani, Parrini, Preziosi, Rubinato, Rughetti, Bargero, Bonifazi, Capozzolo, Carbone, Colaninno, De Maria, De Menech, Marco Di Maio, Marco Di Stefano, Fragomeli, Fregolent, Ginato, Lorenzo Guerini, Gutgeld, Lodolini, Pelillo, Petrini, Ribaudo, Rostan, Sanga».
(13 gennaio 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL CONTRASTO ALLA POVERTÀ

   La Camera,
   premesso che:
    in solo sette anni, dal 2005 al 2012, il numero degli italiani che vivono in povertà assoluta è raddoppiato. Nel 2012, anno a cui risalgono gli ultimi dati dell'Istat, le famiglie che versavano in una condizione di povertà assoluta erano un milione e 725 mila (il 6,8 per cento delle famiglie residenti) per un totale di oltre 4,8 milioni di persone (l'8 per cento della popolazione), di questi poco più di 2,3 milioni erano residenti al Sud;
    la perdurante crisi economica ha prodotto l'impoverimento di un'ampia parte della popolazione ma non ne ha impedito la fruizione dei beni e dei servizi essenziali, a differenza di chi non raggiunge «uno standard di vita minimamente accettabile» calcolato dall'Istat e legato a un'alimentazione adeguata, a una situazione abitativa decente e ad altre spese basilari come quelle per la salute, i vestiti e i trasporti;
    dal 2013, infatti, secondo il Food Security Risk Index (mappa che evidenzia le zone a rischio di tutto il mondo, aggiornata ogni anno dagli esperti della Maplecroft utilizzando i dati sulla sicurezza alimentare forniti dalla Fao), il nostro Paese non è più considerato «a basso rischio fame» ma «a rischio medio» e, a rendere la situazione ancora più instabile, si aggiunge un tasso di inattività tra i 15 e 64 anni pari al 36,6 per cento, dato che si attesta tra i più alti d'Europa;
    si stima che la ripresa potrà ridurre l'attuale percentuale di povertà assoluta ma non di molto, dato che la sua maggiore presenza è un fenomeno strutturale, così come il suo nuovo profilo, non concentrandosi più esclusivamente nel Meridione e tra le famiglie numerose (con almeno tre figli,) anche se queste rimangono le realtà dove risulta maggiormente presente;
    negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad un incremento sempre più crescente di tale fenomeno in segmenti della popolazione prima ritenuti immuni: il Nord – dove le persone in povertà assoluta sono aumentate dal 2,5 per cento (2005) al 6,4 per cento (2012) – e le famiglie con due figli (dal 4,7 per cento al 10 per cento);
    a comportare un maggiore rischio di povertà è anzitutto l'allargamento familiare: avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8 per cento e nel Sud questo valore sale al 42,7 per cento. Il passaggio da 3 a 4 componenti espone 4 famiglie su 10 alla possibilità di essere povere. Appartenere a una famiglia composta da 5 o più componenti aumenta il rischio di essere poveri del 135 per cento, rispetto al valore medio dell'Italia. Ogni nuovo figlio, dunque, costituisce per la famiglia, oltre che una speranza di vita, una crescita del rischio di impoverimento;
    è cresciuta anche l'insicurezza delle famiglie italiane di non essere in grado di far fronte a eventi negativi, come, per esempio, un'improvvisa malattia, associata a non autosufficienza, di un familiare, o l'instabilità del rapporto di lavoro, o gli oneri finanziari sempre maggiori;
    la diffusione del precariato fra le giovani generazioni rende questa categoria tra quelle a maggior rischio di povertà, rinviando le possibilità ed il desiderio di una vita in coppia e di procreare, con riflessi negativi sul tasso di natalità;
    per fronteggiare questa situazione, l'impegno dei comuni e delle tante realtà non profit impegnate nel territorio o di conoscenti o di altri, non è sufficiente ed i grandi numeri della povertà di oggi fanno sì che, nella maggior parte dei casi, chi sperimenta questa condizione debba innanzitutto contare sulle proprie forze;
    l'Italia è l'unico Paese dell'Europa a 15, insieme alla Grecia, privo di una misura nazionale a sostegno di chi si trova in questa condizione;
    anche se con differenze, le legislazioni degli altri Paesi membri dell'Unione europea prevedono fondamentalmente un contributo economico per affrontare le spese primarie, accompagnato da servizi alla persona (sociali, educativi, per l'impiego) che servono ad organizzare diversamente la vita di queste persone aiutandole a cercare di uscire dalla povertà;
    si tratta, null'altro, che della messa in opera del patto di cittadinanza tra lo Stato e il cittadino in difficoltà: chi è in povertà assoluta ha diritto al sostegno pubblico e il dovere d'impegnarsi a compiere ogni azione utile a superare tale situazione;
    alcune delle misure messe in atto dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, a partire dalla «social card», non hanno sortito gli effetti desiderati: si è trattato di «provvedimenti tampone» che non hanno intaccato il problema strutturalmente e contrastato adeguatamente i disagi derivanti dalla condizione di povertà assoluta;
    in uno Stato moderno la spesa sociale dovrebbe svolgere una funzione di perequazione delle differenze in termini di dotazione di servizi tra i territori, operando, in particolare, una redistribuzione delle risorse in base ai rischi specifici dei diversi comparti quali la povertà, le condizioni di salute per la sanità, il disagio per l'assistenza sociale e l'investimento in capitale umano per l'istruzione;
    recentemente sono state elaborate alcune iniziative per contrastare questo fenomeno tra le quali si distinguono quella elaborata da un gruppo di lavoro insediato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, presieduto dal Viceministro Guerra, volte all'introduzione di una nuova misura di contrasto alla povertà, il sia (sostegno all'inclusione attiva) e quella elaborata da Acli e Caritas che hanno proposto il reis (reddito di inclusione sociale), fino ad arrivare all'elaborazione del piano nazionale contro la povertà propugnato da Alleanza contro la povertà in Italia, un insieme di soggetti sociali che ha deciso di unirsi per contribuire alla costruzione di adeguate politiche pubbliche contro la povertà assoluta nel nostro Paese;
    il piano nazionale contro la povertà, da avviare nel 2014, conterrebbe le indicazioni concrete affinché venga gradualmente introdotta una misura nazionale, rivolta a tutte le persone in povertà assoluta nel nostro Paese, che si basi su una logica non meramente assistenziale ma che sostenga un atteggiamento attivo dei soggetti beneficiari dell'intervento;
    sin dal 2014, la misura consisterebbe nel diritto ad una prestazione monetaria accompagnato dall'erogazione dei servizi necessari ad acquisire nuove competenze e/o organizzare diversamente la propria (servizi per l'impiego, contro il disagio psicologico e/o sociale per esigenze di cura e altro);
    in via sperimentale si procederebbe al varo di una «nuova social card» (12 grandi comuni), della «carta per l'inclusione sociale» (8 regioni del Sud), oltre dalla carta acquisti tradizionale (quella introdotta nel 2008);
    l'avvio della nuova misura sulla lotta alla povertà assoluta non dovrà considerarsi in alcun modo sostitutiva del necessario rifinanziamento del fondo nazionale per le politiche sociali e del fondo per la non autosufficienza, oggetto peraltro negli anni recenti di tagli radicali;
    evidenziare la necessità del finanziamento statale non significa assolutamente svilire tutto quello che è già stato realizzato nel territorio contro la povertà che, al contrario, dovrà essere valorizzato e confluire nella riforma, mentre dovranno rimanere comunque destinate alla spesa sociale per le famiglie in condizione disagiata le risorse attualmente impiegate nella lotta alla povertà a livello regionale e territoriale;
    allo stesso modo, tutto il patrimonio di esperienze maturate a livello territoriale, da parte di enti locali, terzo settore e organizzazioni sociali, dovrà essere valorizzato nella costruzione della riforma e confluire in essa;
    nel progetto del piano nazionale contro la povertà si prevede che l'apporto finanziario di donatori privati possa svolgere un ruolo di rilievo, con funzione complementare rispetto al necessario finanziamento statale del livello essenziale;
    occorre evitare che la povertà estrema diventi povertà strutturale, coinvolgendo anche le generazioni successive,

impegna il Governo:

   a promuovere adeguate iniziative condivise ed efficaci contro la povertà assoluta nel nostro Paese, considerandole un obiettivo primario della politica del Paese, nella direzione indicata nelle premesse, favorendo il pieno coinvolgimento delle organizzazioni sociali e del terzo settore con le istituzioni interessate, sia nella programmazione che nella progettazione e gestione degli interventi relativi;
   ad individuare adeguate risorse aggiuntive rispetto a quelle previste per il finanziamento dei fondi attualmente esistenti e destinati alla spesa sociale da parte dello Stato, delle regioni e degli enti locali, incoraggiando e facilitando anche l'impegno finanziario di donatori privati;
   sin dalle prossime iniziative normative, ad assicurare il finanziamento del piano nazionale contro la povertà.
(1-00254)
«Gigli, Sereni, Cimmino, Sberna, Dellai, Marazziti, Albanella, Amato, Amoddio, Basso, Bazoli, Beni, Binetti, Biondelli, Borghi, Braga, Bruno Bossio, Buttiglione, Capodicasa, Capone, Carra, Casati, Casellato, Cenni, Colaninno, Cominelli, Coccia, Coscia, Covello, D'Agostino, D'Incecco, De Menech, De Mita, Marco Di Maio, Fauttilli, Gadda, Galperti, Grassi, Iacono, Lodolini, Marguerettaz, Mariani, Molea, Moscatt, Piccoli Nardelli, Fitzgerald Nissoli, Patriarca, Pellegrino, Piepoli, Giuditta Pini, Preziosi, Quartapelle Procopio, Rampi, Realacci, Rigoni, Santerini, Schirò, Senaldi, Terrosi, Vaccaro, Venittelli, Vargiu, Ventricelli, Vezzali, D'Ottavio, Marchi, Montroni, Fiano».

(20 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    vi è assoluta necessità e urgenza di porre mano alla questione del deterioramento delle condizioni economiche di una parte della popolazione in seguito alla crisi;
    i dati resi pubblici da Confcommercio il 4 aprile 2013 evidenziano un crollo dei consumi in misura pari al 3,6 per cento in un anno, che segue la diminuzione già riscontrata tra il 2011 e il 2012;
    come sottolineato anche da Codacons, la diminuzione dei consumi interessa in modo drammatico i consumi alimentari, scesi del 4,7 per cento rispetto al febbraio 2012, proseguendo una tendenza negativa che dura ormai da 5 anni: diminuzione dell'1,8 per cento nel 2007, del 3,3 nel 2008, del 3,1 per cento nel 2009, dello 0,7 nel 2010, dell'1,8 nel 2011 e del 3 per cento nel 2012;
    il deterioramento delle condizioni di vita dei cittadini era stato ben rappresentato dall'Istat, che constata come «nel 2011, il 28,4 per cento delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell'ambito della strategia Europa 2020» e che: «Rispetto al 2010 l'indicatore cresce di 3,8 punti percentuali a causa dall'aumento della quota di persone a rischio di povertà (dal 18,2 per cento al 19,6 per cento) e di quelle che soffrono di severa deprivazione (dal 6,9 per cento all'11,1 per cento)» (Istat, «Reddito e condizioni di vita», diffuso sul suo sito internet il 10 dicembre 2012);
    i dati resi noti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali il 5 aprile 2013, desunti dalle comunicazioni obbligatorie circa avviamenti e cessazioni dei rapporti di lavoro, evidenziano come nel 2012 oltre un milione di persone abbia perso il proprio posto di lavoro, dato in costante aumento dal 2009 ad oggi, mentre le attivazioni diminuiscono; il numero degli occupati è sceso, secondo l'Istat, di oltre 700.000 unità dal febbraio 2012 al febbraio 2013;
    questi dati trovano conferma in un aumento del tasso di disoccupazione, che a partire dall'ottobre 2012 si è mantenuto al di sopra dell'11 per cento, aumentando di 1,5 punti percentuali rispetto all'anno precedente;
    un'altra conferma delle condizioni di vita di una parte crescente della popolazione sta nei dati diffusi da molte Caritas diocesane, sull'aumento del numero dei cittadini che richiedono aiuti di prima necessità come i pasti; nel rapporto diffuso nell'ottobre 2012, la Caritas evidenzia come tra le persone che si sono rivolte ai suoi centri nel 2011 vi sia un aumento tra categorie che sino a poco tempo fa non erano interessate in misura così pregnante dal rischio di povertà; aumentano tra il 2009 e il 2011 del 25,1 per cento i cittadini italiani, aumentano del 177,8 per cento le casalinghe, del 65,6 i pensionati e del 52,9 per cento le famiglie con minori conviventi;
    un'indagine Istat diffusa il 12 ottobre 2012 ha realizzato una prima stima delle persone senza fissa dimora, quantificandole in 47.000 unità; di questi, quasi i due terzi hanno un passato di relativa normalità, avendo vissuto in una propria abitazione sino ad un periodo che in media risale a 2 anni e mezzo prima;
    il 5 aprile 2013 una nota Eurispes ha evidenziato come «7 italiani su 10 hanno visto peggiorare la situazione economica personale (per il 40,2 per cento di molto, per il 33,3 per cento in parte), il 60,6 per cento, 3 su 5, è costretto a intaccare i propri risparmi per arrivare alla fine del mese; il 62,8 per cento ha grandi difficoltà ad affrontare la quarta (quando non la terza) settimana» e come questa situazione abbia determinato «un circolo vizioso: indebitamento, insolvenze, vendita dei propri beni e rischio usura»;
    recenti fatti di cronaca hanno evidenziato in modo drammatico la disperazione in cui versano i cittadini che subiscono questi processi di impoverimento;
    gli effetti della crisi si sono verificati in un contesto di progressivo smantellamento delle risposte del welfare locale;
    sul fronte delle risorse nazionali, il fondo nazionale per le politiche sociali trasferito alle regioni (e da queste agli enti gestori) per finanziare gli interventi sociali, che aveva avuto dotazioni anche superiori al miliardo di euro nel 2004, è diminuito dai 656 milioni di euro del 2008 ai 518 milioni di euro del 2009, ai 435 milioni di euro nel 2010, ai 218 milioni di euro nel 2011 e a soli 43 milioni di euro nel 2012, con la previsione, ante legge di stabilità 2013, di soli 44 milioni di euro per il 2013;
    l'aumento del fondo nazionale per le politiche sociali di 300 milioni di euro, determinato dall'articolo 1, comma 271, della legge n. 228 del 2012 («Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2013»), è sicuramente un fatto positivo che segna una controtendenza rispetto ai tagli ininterrotti praticati nell'ultimo quinquennio, ma non è sufficiente a ripristinare una dotazione adeguata, soprattutto vista la drammatica situazione;
    le politiche nazionali di sostegno all'abitazione hanno registrato un deciso ridimensionamento, spesso accompagnato dal disimpegno da parte delle regioni;
    appare inderogabile e urgente l'adozione di misure eccezionali, che abbiano un impatto significativo e sensibile sulle condizioni di vita dei cittadini in situazioni di povertà o a rischio di cadervi;
    il Presidente del Consiglio dei ministri, onorevole Enrico Letta, nella seduta n. 10 di lunedì 29 aprile 2013, presso la Camera dei deputati, durante le comunicazioni del Governo, così interveniva: «Il welfare tradizionale, schiacciato sul maschio adulto e su pensioni e sanità, non basta più, non stimola la crescita della persona e non basta a correggere le disuguaglianze. Non occorrono isterismi, occorre un cambiamento radicale: un welfare più universalistico e meno corporativo che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi. Per un welfare attivo, più giovane e al femminile andranno migliorati gli ammortizzatori sociali, estendendoli a chi ne è privo, a partire dai precari. E si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto, per famiglie bisognose con figli»,

impegna il Governo:

   ad adottare iniziative urgenti in materia di povertà, assegnando per il 2014:
    a) un incremento significativo delle risorse del fondo nazionale per le politiche sociali, da trasferirsi per il tramite delle regioni agli enti gestori, condizionando l'erogazione all'adozione entro tempi brevi di piani di azione per il contrasto dei fenomeni di povertà e impoverimento, facendo sì che gli interventi siano gestiti localmente in forma integrata con soggetti non profit con consolidata e comprovata esperienza nella raccolta e distribuzione di beni di prima necessità o nell'elargizione di aiuti per soddisfare bisogni primari;
    b) ulteriori risorse per estendere la sperimentazione della nuova social card, con speciale riguardo ai nuclei familiari poveri con figli minori, in modo da ampliare la platea dei beneficiari e consolidare le caratteristiche di misura universalistica di contrasto alla povertà, quale strumento preliminare alla definizione di un apposito programma di sostegno per l'inclusione attiva, volto al superamento della condizione di povertà, all'inserimento ed al reinserimento lavorativi ed all'inclusione sociale;
    c) ulteriori risorse da destinare, tramite le regioni, al sostegno della morosità incolpevole, per evitare che i fenomeni di impoverimento determinino la perdita dell'abitazione;
   ad assumere iniziative per introdurre nella normativa del nostro Paese i livelli essenziali delle prestazioni socio-assistenziali, affinché si possa realizzare su tutto il territorio nazionale una rete integrata di servizi;
   ad inserire, nell'ambito del programma nazionale di riforma, interventi di riforma delle politiche sociali e abitative, con particolare riferimento alle azioni di contrasto della povertà, quali misure di sostegno al reddito e di supporto a percorsi di uscita dalla condizione di indigenza;
   ad assumere iniziative per reperire le risorse necessarie anche attraverso l'allineamento delle imposte sul gioco d'azzardo;
   ad assumere iniziative per potenziare l'utilizzo dello strumento delle deduzioni e delle detrazioni fiscali per le spese relative all'assistenza e al sostegno delle famiglie con componenti minori, persone non autosufficienti e anziani, al fine di facilitare l'accesso ai servizi per le famiglie meno abbienti e con maggior carico di bisogni e allo stesso tempo di ridurre forme di lavoro nero.
(1-00058)
(Nuova formulazione) «Bobba, Luigi Cesaro, Scotto, Antimo Cesaro, Binetti, Luciano Agostini, Albanella, Amato, Amoddio, Arlotti, Bargero, Bazoli, Bellanova, Benamati, Beni, Berlinghieri, Bini, Biondelli, Bonaccorsi, Bonifazi, Bonomo, Borghi, Boschi, Bossa, Braga, Capua, Cardinale, Carocci, Carra, Carrescia, Casati, Caruso, Causi, Cimbro, Coppola, Cova, Covello, Cuperlo, Culotta, D'Agostino, D'Incecco, D'Ottavio, Dal Moro, Marco Di Maio, Ermini, Fabbri, Fauttilli, Ferrari, Ferro, Fontanelli, Fregolent, Gasparini, Giacobbe, Giulietti, Gnecchi, Gozi, Giuseppe Guerini, Lorenzo Guerini, Gullo, Tino Iannuzzi, Incerti, Iori, Lenzi, Lodolini, Maestri, Magorno, Malpezzi, Manzi, Marazziti, Mariani, Martella, Martelli, Marzano, Mazzoli, Melilli, Montroni, Mura, Fitzgerald Nissoli, Oliverio, Patriarca, Quartapelle Procopio, Rabino, Rampi, Realacci, Ribaudo, Richetti, Rigoni, Rosato, Rubinato, Rughetti, Sanga, Giovanna Sanna, Santerini, Sberna, Sbrollini, Scanu, Senaldi, Simoni, Taricco, Tartaglione, Tidei, Tullo, Valiante, Venittelli, Zanin, Coscia, Morani, Basso, Cenni, Capodicasa, Fossati, Pes, Petitti, Capone, Mattiello, Mariano, Pastorino, Guerra, Lauricella, Coccia, Moretti, Burtone, Carnevali, Piccione, Argentin».

(28 maggio 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    è fin troppo nota la condizione di profonda crisi in cui tuttora versa la società italiana. I dati Istat del 2012 confermano un quadro allarmante in cui 9 milioni e 563.000 persone, pari al 15,8 per cento della popolazione italiana, versano in condizione di povertà relativa, mentre 4 milioni e 814.000 persone, pari al 7,9 per cento della popolazione, si trovano in condizioni di povertà assoluta. Il numero di famiglie in tale, drammatica, situazione sono aumentate, rispetto al 2011, del 33 per cento. Si tratta dell'incremento percentuale più rilevante degli ultimi dieci anni. Sempre stando ai dati del 2012, ben 8,6 milioni di individui fanno parte di nuclei familiari gravemente deprivati, ovvero, famiglie che presentano quattro o più segnali di deprivazione su un elenco di nove, comprendenti, tra l'altro: l'impossibilità di sostenere spese impreviste; non potersi permettere una settimana di ferie l'anno, lontano da casa; avere debiti arretrati per il pagamento di mutui, canoni di locazione e bollette; non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni; non poter riscaldare adeguatamente la propria abitazione; non potersi permettere essenziali elettrodomestici di uso comune; non potersi permettere un'automobile;
    l'incremento vertiginoso degli indicatori sulla povertà assoluta – 2 milioni di persone in più a rischio negli ultimi 5 anni – e di quelli sulla povertà relativa, trovano riscontro nell'aumento dell'indebitamento medio delle famiglie italiane, passato nell'arco temporale 2003-2011, secondo i dati della Banca d'Italia, dal 30,8 per cento al 53,2 per cento del reddito disponibile lordo. Le famiglie si indebitano sempre di più, basti pensare che nei soli primi mesi del 2012 le famiglie indebitate sono passate dal 2,3 per cento al 6,5 per cento e che, secondo l'indagine di Confcommercio e Censis, Outlook Italia 2013, 4,2 milioni di famiglie (il 17 per cento del totale) non riescono a coprire tutte le spese mensili;
    più in dettaglio, gli ultimi rilevamenti dell'Istituto nazionale di statistica (Istat) restituiscono ancora una volta un'immagine drammatica:
     a) nel 2012, il 12,7 per cento delle famiglie è relativamente povero (per un totale di 3 milioni 232 mila) e il 6,8 per cento lo è in termini assoluti (1 milione 725 mila). Le persone in povertà relativa sono il 15,8 per cento della popolazione (9 milioni 563 mila), quelle in povertà assoluta l'8 per cento (4 milioni 814 mila);
     b) tra il 2011 e il 2012 aumenta sia l'incidenza di povertà relativa (dall'11,1 per cento al 12,7 per cento) sia quella di povertà assoluta (dal 5,2 per cento al 6,8 per cento), in tutte e tre le ripartizioni territoriali;
     c) la soglia di povertà relativa, per una famiglia di due componenti, è pari a 990,88 euro, circa 20 euro in meno di quella del 2011 (-2 per cento);
     d) l'incidenza di povertà assoluta aumenta tra le famiglie con tre (dal 4,7 per cento al 6,6 per cento), quattro (dal 5,2 per cento all'8,3 per cento) e cinque o più componenti (dal 12,3 per cento al 17,2 per cento); tra le famiglie composte da coppie con tre o più figli, quelle in povertà assoluta passano dal 10,4 per cento al 16,2 per cento; se si tratta di tre figli minori, dal 10,9 per cento si raggiunge il 17,1 per cento;
     e) aumenti della povertà assoluta vengono registrati anche nelle famiglie di monogenitori (dal 5,8 per cento al 9,1 per cento) e in quelle con membri aggregati (dal 10,4 per cento al 13,3 per cento);
     f) oltre che tra le famiglie di operai (dal 7,5 per cento al 9,4 per cento) e di lavoratori in proprio (dal 4,2 per cento al 6 per cento), la povertà assoluta aumenta tra gli impiegati e i dirigenti (dall'1,3 per cento al 2,6 per cento) e tra le famiglie dove i redditi da lavoro si associano a redditi da pensione (dal 3,6 per cento al 5,3 per cento);
     g) la crescita dell'incidenza di povertà assoluta è tuttavia più marcata per le famiglie con a capo una persona non occupata: dall'8,4 per cento è salita all'11,3 per cento se in condizione non professionale, dal 15,5 per cento al 23,6 per cento se in cerca di occupazione;
     h) le dinamiche della povertà relativa confermano molti dei peggioramenti osservati per la povertà assoluta: famiglie con uno o due figli, soprattutto se minori (dal 13,5 per cento al 15,7 per cento quelle con un minore, dal 16,2 per cento al 20,1 per cento quelle con due); famiglie con tutti i componenti occupati (dal 4,1 per cento al 5,1 per cento), con occupati e ritirati dal lavoro (dal 9,3 per cento all'11,5 per cento), con persona di riferimento dirigente o impiegato (dal 4,4 per cento al 6,5 per cento, particolarmente marcata tra gli impiegati), ma soprattutto in cerca di occupazione (dal 27,8 per cento al 35,6 per cento);
     i) l'aumento di fenomeni di pauperizzazione ha colpito soprattutto i giovani e le regioni meridionali: il panorama regionale mette in evidenza il forte svantaggio dell'Italia meridionale e insulare, con una percentuale di famiglie povere più che doppia rispetto alla media nazionale. Nel Mezzogiorno, le famiglie in povertà relativa sono il 23,3 per cento di quelle residenti (contro il 4,9 del Nord e il 6,4 del Centro) e quelle in povertà assoluta ne rappresentano l'8 per cento (contro il 3,7 per cento e il 4,1 per cento rispettivamente). Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Sicilia (27,3 per cento) e Calabria (26,2 per cento) dove sono povere oltre un quarto delle famiglie. All'opposto, nel resto del Paese si registrano incidenze di povertà relativa decisamente più contenute: la provincia di Trento mostra l'incidenza più bassa (3,4 per cento), seguita da Lombardia (4,2 per cento), Valle d'Aosta e Veneto (4,3 per cento). Nel Mezzogiorno, inoltre, alla più ampia diffusione della povertà si associa anche una maggiore gravità del fenomeno: le famiglie povere sono di più e hanno livelli di spesa mediamente molto più bassi di quelli delle famiglie povere del Centro-Nord. L'intensità della povertà relativa è, infatti, pari al 22,3 per cento (contro il 18,2 per cento del Nord e il 20 per cento del Centro) e quella di povertà assoluta al 18,8 per cento (contro rispettivamente il 16,4 per cento e il 18,4 per cento);
    come riporta la relazione al Parlamento dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, presentata il 13 maggio 2013, il dato che più di altri aiuta ad individuare il fallimento delle politiche sinora adottate è quello relativo al rischio di povertà ed esclusione sociale per i bambini e gli adolescenti che vivono in famiglie con tre o più minorenni: esso è pari al 70 per cento nel Mezzogiorno a fronte del 46,5 per cento a livello nazionale. Settanta su cento minorenni che nascono in una famiglia numerosa del Mezzogiorno d'Italia rischiano di essere poveri;
    le peggiori condizioni di privazione ricadono, peraltro, sui figli degli immigrati, sui bambini delle famiglie giovani o i bambini con un solo genitore, spesso la madre, che, per il tasso di impiego delle donne molto più basso della media europea, non riesce a mantenere il bambino;
    già nella relazione dell'anno precedente l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza aveva sollevato la problematica relativa all'impatto negativo della mancanza di investimenti, da parte dello Stato, a favore dell'infanzia e dell'adolescenza;
    al forte ridimensionamento dell'intervento pubblico per quanto concerne le politiche sociali, si aggiunge la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale;
    i pesanti tagli agli enti locali attuati in questi ultimi anni non hanno fatto che peggiorare la situazione dal punto di vista delle politiche sociali di contrasto alla povertà e della qualità dei relativi servizi. Il dato di fondo resta sempre l'enorme scarto esistente tra le esigenze delle famiglie e la reale possibilità di soddisfare tali esigenze;
    i dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare. Si tratta di una vera e propria emorragia di posti di lavoro, che colpisce gli under 30, ma non di meno tutte le altre fasce di età. Quello che più turba è l'enorme crescita di quanti si dicono «scoraggiati», che hanno smesso di cercare lavoro perché ritengono di non trovarlo. La disoccupazione continua a crescere anche nell'ambito del lavoro precario, a riprova del fatto che la scelta di favorire contratti non a tempo indeterminato ha poco o scarso impatto sul problema occupazionale, mentre priva i lavoratori di molti diritti fondamentali;
    sono 2,8 milioni i lavoratori precari; la disoccupazione è prossima ormai alla soglia inaudita del 12,2 per cento, con punte che sfiorano il 40 per cento tra i più giovani; tra i disoccupati solo uno su quattro riesce a trovare un lavoro, sempre più spesso precario, entro un anno;
    se la disoccupazione giovanile è oltre il 40 per cento, il resto dei giovani è per la maggior parte precario e senza diritti. Tali numeri mettono a rischio la tenuta del sistema Paese. Un'intera generazione di giovani, per la mancanza del lavoro o per la sua discontinuità, vive situazioni di precarietà strutturale;
    i furti dei generi di prima necessità nei supermercati sono aumentati del 7,8 per cento (dato tratto dal «Barometro dei furti nella vendita al dettaglio» a cura del Centre for Retail Research, ottobre 2011);
    la questione abitativa, aggravata dal costante aumento del numero di famiglie ed individui che, a causa della perdita del lavoro e della drastica contrazione del reddito, scendono al di sotto della soglia di povertà, sta assumendo i caratteri di una vera e propria emergenza nazionale. Si stimano in oltre 430.000 le famiglie in difficoltà per il costo dei mutui, mentre solo nel 2012 sono state ben 67.790 le sentenze di sfratto (oltre 250.000 negli ultimi 4 anni) di cui l'87 per cento per morosità. Una situazione di vero allarme che riguarda tutto il Paese, anche se con situazioni di vera e propria emergenza per le grandi aree urbane e per le regioni dell'Italia settentrionale, ove, per l'incidenza della crisi economica, le percentuali di sfratti per morosità incolpevole arrivano a superare il 90 per cento e riguardano spesso anche le locazioni di alloggi popolari;
    da quanto si desume dai dati menzionati, sempre più persone – in una composizione sociale mutata comprendente interi nuclei familiari e tutti quei soggetti che rientrano nella definizione di «nuove povertà» – hanno perso, o rischiano seriamente di perdere, la propria abitazione, incrementando il già considerevole e drammatico numero di utenti bisognosi di accoglienza;
    in Italia, i dati relativi alle sentenze di sfratto emesse, diffusi dal Ministero dell'interno, dicono che nel solo 2012 le sentenze di sfratto sono state circa 68 mila e gli sfratti per morosità incolpevole sono stati oltre 60 mila;
    la crisi economica da almeno cinque anni si sta facendo sentire anche nel settore delle locazioni e produce precarietà abitativa, riduzione dei redditi e disagio sociale che spesso sfociano in questioni di ordine pubblico;
    secondo un'indagine realizzata dalla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, nel 2012 si stimavano in oltre 50.000 le persone senza fissa dimora, con la concreta possibilità che il numero reale si potesse attestare anche nel doppio, rasentando quasi lo 0,2 per cento della popolazione italiana. Le grandi città rispecchiano compiutamente tale tragico contesto: nella città di Milano si contavano oltre 4.000 adulti privi di una casa, nella città di Torino circa 1.300 persone si sono rivolte alle case di prima accoglienza notturna gestite dal comune e 1.500 persone hanno usufruito di interventi e prestazioni presso l'ambulatorio sociosanitario per persone senza fissa dimora. A Napoli, Bologna e Firenze è stata calcolata la presenza stabile di almeno 2.000 homeless, mentre nella capitale vivrebbero circa 8.000 persone senza fissa dimora, di cui ben 5.500 in strada e 2.500 ospitati nei centri di accoglienza notturni del comune e delle associazioni di volontariato;
    nel quadro delle politiche sociali, in Italia, il tema delle persone senza dimora e del grave disagio abitativo è sempre stato ai margini, in posizione analoga allo spazio occupato da queste persone e dai servizi che se ne occupano all'interno del contesto sociale. Questa dimensione di marginalità e separazione, sia nel quadro sociale, sia in quello politico e legislativo, ha impedito, da sempre, lo sviluppo di azioni programmatiche e di interventi che possono essere qualificati come «buone prassi» diffuse a livello nazionale;
    l'assenza di politiche nazionali strutturate e concrete per affrontare il problema di chi perde la propria abitazione o rimane senza fissa dimora sul territorio italiano sta lasciando sempre più in balia dell'emergenza i comuni;
    sebbene siano auspicabili nuove politiche sociali, capaci di non limitarsi a prevedere esclusivamente trasferimenti monetari verso le persone maggiormente in difficoltà, in un Paese fortemente diseguale come il l'Italia – secondo nei livelli di disparità nella distribuzione dei redditi solo al Regno Unito nell'Unione europea e con livelli di disparità superiori alla media dei Paesi Ocse – appare necessario prevedere stanziamenti adeguati finalizzati a garantire un alloggio a tutte quelle persone che ne sono prive;
    l'articolo 6, comma 5, della legge n. 124 del 2013, ha istituito un fondo nazionale per la morosità incolpevole e ha disposto che i comuni programmino azioni di accompagnamento sociale per il passaggio da casa a casa per sfrattati e ha disposto anche che i prefetti graduino gli sfratti sulla base delle attività di accompagnamento predisposte dai comuni. Resta da emanare il decreto attuativo di quanto disposto dall'articolo 6, comma 5, della legge n. 124 del 2013, in materia di ripartizione delle risorse del fondo contro la morosità incolpevole alle regioni e la definizione della morosità incolpevole valida per quelle regioni e comuni che ad oggi non hanno ancora proceduto alla definizione;
    le politiche messe in atto dagli ultimi Governi ruotano sostanzialmente intorno alla cosiddetta social card di impronta marcatamente assistenzialista e che ha dato scarsissimi risultati pratici;
    mercoledì 18 settembre 2013 è stata presentata a Roma la relazione finale: «Proposte per nuove misure di contrasto alla povertà», elaborata dal gruppo di studio appositamente istituito con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali interrogato il 13 giugno 2013. Obiettivo della relazione è quello di descrivere una nuova misura nazionale di contrasto alla povertà assoluta e all'esclusione sociale, il «sostegno per l'inclusione attiva (sia)», che ancora non esiste nel sistema italiano e che dovrebbe rappresentare l'evoluzione naturale delle sperimentazioni già avviate con la carta acquisti;
    nonostante già dal 2008 la Commissione europea abbia emanato una raccomandazione a tutti i Paesi per l'adozione di una strategia d'inclusione attiva, articolata sui tre pilastri del sostegno economico, di mercati del lavoro inclusivi e di servizi personalizzati, e, in particolare, nonostante l'Italia sia stata anche oggetto di una raccomandazione specifica nell'ambito della Strategia Europa 2020, nella quale sia la Commissione europea che il Consiglio europeo hanno chiesto maggiori sforzi nella lotta alla povertà, pur nel contesto di rigore tuttora richiesto al nostro Paese, l'Italia è l'unico grande Paese europeo a non avere ancora una misura di questo tipo;
    secondo la relazione illustrativa, il sostegno per l'inclusione attiva si caratterizzerà: per l'universalità (non è cioè destinato solo ad alcune categorie, come l'assegno sociale o la pensione di invalidità civile, ma a tutti i poveri); per l'erogazione non solo di una semplice elargizione monetaria, ma per il collegamento di questa ad un percorso di inclusione e attivazione dei componenti del nucleo familiare; per la sua disponibilità a tutti i residenti legalmente in Italia da almeno due anni;
    l'Italia è uno dei pochissimi Paesi europei privi di un meccanismo di questo tipo, la cui assenza si è fatta fortemente sentire nel corso della crisi al punto tale che si hanno 5 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta. L'obiettivo del «sostegno per l'inclusione attiva (sia)» sarebbe dunque quello di permettere a tali soggetti l'acquisto di un paniere di beni e servizi ritenuto decoroso. Non si tratterebbe quindi di un reddito di cittadinanza rivolto a tutti indistintamente, ma di un sostegno rivolto ai poveri, identificati come tali da una prova dei mezzi. Al sostegno monetario si prevede di associare un progetto di attivazione e inclusione sociale;
    nella legge di stabilità 2014 è stata estesa la platea dei possibili beneficiari la sperimentazione della cosiddetta carta acquisti, o come ora viene anche chiamata: «Sostegno di inclusione attiva (SIA)» per il contrasto alla povertà, in primo luogo, ai familiari di cittadini italiani o comunitari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente. I destinatari sono principalmente le famiglie povere con minori in cui uno degli adulti ha perso il lavoro negli ultimi tre anni. Si prevede, inoltre, una sorta di presa in carico della famiglia, selezionata dai comuni, in seguito a bandi, che poi verificano se i bimbi sono andati a scuola e dal medico, se il papà o la mamma hanno frequentato i corsi di formazione o fatto domanda di impiego ed altro;
    secondo Maria Cecilia Guerra, Viceministro del lavoro e delle politiche sociali, la norma consentirà di allargare la platea a 400 mila poveri nel 2014, ovvero 160-170 mila in più del previsto: solo per un minoranza del tutto minima;
    dando vita all'Alleanza contro la povertà in Italia, un insieme molto rappresentativo di soggetti sociali, sindacali, del terzo settore, istituzionali (Acli, Anci, Action Aid, Azione Cattolica Italiana, Caritas Italiana, Cgil-Cisl-Uil, Cnca, Comunità di S. Egidio, Confcooperative, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli Consiglio Nazionale Italiano Onlus, Fio-PSD, Fondazione Banco Alimentare, Forum Nazionale del Terzo Settore, Lega delle Autonomie, Movimento dei Focolari, Save the Children, Jesuit Social Network) intende promuovere adeguate politiche contro la povertà assoluta, per far fronte al dilagare di questo grave fenomeno, che riguarda ormai l'8 per cento della popolazione;
    in un documento comune i soggetti che aderiscono all'Alleanza contro la povertà in Italia chiedono al Governo di avviare un piano nazionale contro la povertà, di durata pluriennale;
    questo piano, secondo l'Alleanza contro la povertà in Italia, «dovrebbe contenere le indicazioni concrete affinché venga gradualmente introdotta una misura nazionale, rivolta a tutte le persone in povertà assoluta nel nostro Paese, che si basi su una logica non meramente assistenziale ma che sostenga un atteggiamento attivo dei soggetti beneficiari dell'intervento»;
    l'avvio sin dal 2014 del piano nazionale contro la povertà richiederà investimenti, sviluppo di competenze e programmazione: gli enti locali, il terzo settore e le organizzazioni sociali impegnati nel territorio potranno realizzarla solo se riceveranno adeguata risorse economiche;
    il 21 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sul «reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa», con una maggioranza di 540 voti a favore e 30 contrari;
    tale risoluzione, in modo ancora più netto rispetto ad una precedente sullo stesso tema del 2008, sancisce in modo pieno il riconoscimento di un diritto dei cittadini dell'Unione europea e delle persone che vi risiedano stabilmente ad un reddito che ne salvaguardi la dignità sociale;
    in attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Carta di Nizza, il reddito minimo viene definito come un diritto sociale fondamentale, destinato a fungere da strumento di protezione della dignità della persona e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica»;
    il reddito minimo è uno strumento che assicura, in via principale e preminente, l'autonomia delle persone e la loro dignità e non si riduce ad una mera misura assistenzialistica contro la povertà;
    la piena partecipazione alla vita sociale è richiesta come obiettivo di garanzia della Repubblica italiana, dall'articolo 3 della Costituzione, e è stata richiamata dalla Corte costituzionale tedesca nella sentenza del 9 febbraio 2010, in materia di reddito minino;
    schemi di tutela del reddito sono presenti nella maggior parte dei Paesi europei: infatti, gli Stati membri dell'Unione europea hanno previsto nei loro rispettivi sistemi di protezione sociale un reddito base come fondamento del sistema stesso di integrazione e contrasto alla povertà. Attualmente, tra i ventisette Paesi dell'Unione europea la mancanza di un reddito base è una circostanza riscontrabile solo in Italia, Grecia ed Ungheria;
    la disoccupazione, in particolare quella giovanile, in Italia e in Europa ha raggiunto livelli non più sostenibili e tali da mettere a rischio la tenuta del sistema Paese nel futuro. Un'intera generazione di giovani, per la mancanza del lavoro o per la sua discontinuità, vive situazioni di precarietà strutturale;
    tale situazione non consente a molti giovani di studiare, di fare ricerca, di progettare e realizzarsi nella vita, di creare una famiglia e di mettere al mondo dei figli; li costringe a continuare a dipendere dalle famiglie di origine, anche quando le famiglie sono già, esse stesse, nell'impossibilità di continuare a sostenerli; gli impedisce di concorrere allo sviluppo sociale ed economico dell'Italia, incidendo sulla loro dignità sociale; li discrimina, oggi per il futuro, quando non avranno diritto ad una pensione che possa garantire loro un'esistenza libera e dignitosa;
    il reddito minimo è uno strumento che assicura, in via principale e preminente, l'autonomia delle persone e la loro dignità, e non si riduce ad una mera misura assistenzialistica contro la povertà;
    il reddito minimo è anche uno strumento che tutela la cultura e la dignità del lavoro, perché aiuta ad impedire che lavoratrici e lavoratori siano costretti ad accettare un lavoro purchessia;
    nel corso del 2012, in Italia, è stata avviata una campagna per un reddito minimo garantito, per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, che ha visto il coinvolgimento di molte associazioni della società civile;
    tre proposte di legge d'iniziativa parlamentare di deputati appartenenti ai gruppi di Sinistra Ecologia Libertà, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, propongono l'istituzione anche nel nostro Paese di un reddito minimo garantito, sia pure con formulazioni parzialmente diverse,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per introdurre il reddito minimo garantito, predisponendo un piano che individui la platea degli aventi diritto, con particolare riferimento alle situazioni di disagio sociale descritte in premessa;
   ad assumere iniziative per incrementare le risorse per le politiche sociali, per l'infanzia e l'adolescenza e per fornire adeguate risorse ai comuni per gli interventi di sostegno alle famiglie ed ai singoli in difficoltà;
   ad assumere iniziative per prevedere interventi, anche di tipo fiscale, per il sostegno alle famiglie in condizione di povertà estrema;
   nelle more degli adempimenti previsti dall'articolo 6, comma 5, della legge n. 124 del 2013 e per dare modo alle regioni e ai comuni di procedere alla programmazione e alle attività necessarie per affrontare la questione degli sfratti in maniera strutturale e basata sul passaggio da casa a casa, nonché per dare modo al Governo stesso di avviare i provvedimenti già illustrati dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, ad assumere iniziative per procedere alla proroga degli sfratti, compresi quelli per morosità incolpevole, per tutto l'anno 2014;
   a prevedere, con apposito provvedimento, un piano nazionale per la messa in atto di interventi di alloggiamento a favore di persone senza fissa dimora che preveda chiaramente che, in ogni contesto territoriale nel quale siano presenti delle persone senza dimora, sia affrontato e programmato un intervento a favore di queste persone che comprenda servizi di accoglienza di primo livello, a bassa soglia di accesso, e servizi alloggiativi di secondo livello, capaci di dare risposte che possano trasformarsi in interventi stabili e duraturi nel tempo;
   a prendere le opportune iniziative per:
    a) il recupero di decine di migliaia di case popolari oggi inutilizzate;
    b) sostenere gli affitti agevolati con una ulteriore riduzione della cedolare secca;
    c) un aumento delle risorse a favore del Fondo nazionale di sostegno per l'accesso alle abitazioni in locazione (cosiddetto fondo affitti).
(1-00295)
«Di Salvo, Nicchi, Piazzoni, Aiello, Migliore, Airaudo, Placido».

(10 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il 30 dicembre del 2013 è stato pubblicato il quarto rapporto sulla coesione sociale elaborato congiuntamente da Inps, Istat e Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il rapporto fotografa un Paese caratterizzato da disuguaglianze non trascurabili nelle opportunità di mobilità sociale, che contribuiscono al permanere di un elevato livello di disuguaglianza anche in termini di reddito;
    dal rapporto emergono almeno quattro gruppi caratteristici di nuclei poveri nel nostro Paese: le coppie anziane, le donne anziane sole, le famiglie con persone in cerca di occupazione nel Mezzogiorno e le famiglie con lavoratori a basso profilo professionale;
    nel 2012 si trovava in condizione di povertà relativa il 12,7 per cento delle famiglie residenti in Italia (+ 1,6 punti percentuali sul 2011) e il 15,8 per cento degli individui (+ 2,2 punti). Si tratta dei valori più alti dal 1997;
    la povertà assoluta colpisce, invece, il 6,8 per cento delle famiglie e l'8 per cento degli individui. I poveri in senso assoluto sono raddoppiati dal 2005 e triplicati nelle regioni del Nord (dal 2,5 per cento al 6,4 per cento);
    nel 2012 l'indicatore sintetico «Europa 2020», che considera le persone a rischio di povertà o esclusione sociale, ha quasi raggiunto in Italia il 30 per cento, soglia superata, tra i Paesi dell'Europa a 15, solo dalla Grecia;
    in Italia il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace nel contenere il rischio di povertà rispetto ad altre realtà nazionali del contesto europeo: la quota di popolazione a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali è più bassa solo del 5 per cento rispetto a quella prima dei trasferimenti. Nei Paesi scandinavi questa stessa differenza supera ampiamente il 10 per cento, mentre è vicina al 10 per cento in Francia e Germania;
    nel corso degli anni, a comportare un maggiore rischio di povertà è stato anzitutto l'allargamento familiare: avere tre figli da crescere significa aumentare e di molto il rischio di povertà, soprattutto se si tratta di figli minori, residenti nel Mezzogiorno e per le famiglie con membri aggregati, in cui convivono più generazioni;
    sempre dal rapporto, emerge che una famiglia su tre è relativamente povera e una su cinque lo è in senso assoluto. Un minore ogni cinque vive in una famiglia in condizione di povertà relativa e uno ogni dieci in una famiglia in condizione di povertà assoluta, quest'ultimo valore è più che raddoppiato dal 2005. In Italia, dunque, ogni nuovo figlio costituisce per la famiglia, oltre che una speranza di vita, una crescita del rischio di impoverimento;
    al di là delle percentuali e dei numeri, quando si parla di famiglie «a rischio di povertà», si fa riferimento a quelle famiglie che arrivano con difficoltà alla quarta settimana del mese e sono costrette a indebitarsi e a ricorrere ai centri assistenziali, nonostante abbiano un lavoro e un reddito, per permettersi una vita che sfiori la soglia della dignità;
    esponenzialmente cresce sempre di più l'insicurezza delle famiglie italiane che temono di non essere in grado di far fronte a eventi negativi, come, per esempio, un'improvvisa malattia, associata a non autosufficienza, di un familiare o l'instabilità del rapporto di lavoro o gli oneri finanziari sempre maggiori;
    il parlare di politiche sociali o di contrasto all'esclusione e alla povertà non è, tuttavia, solo una questione nominalistica o terminologica: le politiche sociali dovrebbero saper rispondere ad una molteplicità di problemi legati a diversi fattori, dai nuovi rischi sociali centrati sulla profonda modifica dei cicli di vita, a partire da quelli legati a famiglia e vecchiaia, alla ristrutturazione crescente delle forme di lavoro sempre più orientate alla flessibilità e alla precarizzazione, per arrivare alla presenza di nuove domande di integrazione sociale provenienti da persone che arrivano da altri Paesi;
    l'endemica diffusione del precariato e della disoccupazione fra le giovani generazioni, mai così diffusa dal 1977, rende questa categoria tra quelle a maggior rischio di povertà, rinviando le possibilità ed il desiderio di una vita quantomeno normale e di una progettualità di lungo termine;
    crescono le persone cadute nell'emarginazione senza neppure aver potuto sperimentare una vita lavorativa e familiare normale: persone con una traiettoria di mobilità discendente, contrassegnata dalla perdita del lavoro, dei legami familiari, della stabilità abitativa; persone senza famiglia che con l'avanzare degli anni si trovano senza sostegni; donne sole con bambini, prive del sostegno del coniuge o con compagni a loro volta colpiti dalla precarietà occupazionale, da malattie o inabilità o con genitori anziani da assistere; persone che subiscono a livello psicologico e relazionale i contraccolpi della disoccupazione o del fallimento e della cessazione di attività autonome;
    anche al fine di favorire una ripresa della fiducia nei confronti delle prospettive economiche e sociali del Paese, non si può prescindere da una particolare attenzione sulle politiche per la famiglia, con l'intento di fronteggiare la crisi demografica, che ha effetti negativi soprattutto nel medio e lungo termine, di arrestare l'aumento della povertà assoluta, di contrastare la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli assolutamente intollerabili, e di implementare quei servizi alla persona in grado di incrementare il tasso di occupazione femminile, anche attraverso la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro;
    le politiche sociali, e al loro interno le politiche per l'inclusione sociale e per il contrasto alla povertà, presentano, dunque, la crescente necessità di spingere verso una significativa ristrutturazione le agende politiche di Governi nazionali e locali. È necessario dare rilievo all'aspetto culturale e valoriale delle scelte, a partire dal riconoscimento della centralità della persona, di una maggiore attenzione alla primaria difesa della vita e alla concreta valorizzazione del ruolo della famiglia e dei minori, anche predisponendo forme nuove di reddito d'accompagnamento sulla base di progetti personalizzati e di attenzione particolare ai minori, attraverso una rete di collaborazione con i servizi abitativi, con i servizi di inserimento al lavoro, di istruzione e formazione attiva sul territorio;
    è doveroso ricordare che le uniche misure di lotta alla povertà e integrazione del reddito, che hanno finora sortito effetti concreti, furono quelle dirette al contenimento del carico fiscale delle famiglie, contenute nel decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126, nel corso del Governo Berlusconi: un provvedimento legislativo mirato anche al sostegno delle categorie sociali più deboli, con particolare attenzione alla rinegoziazione dei mutui a tasso variabile sulla prima casa, alla cancellazione dell'imposta comunale sugli immobili, alla detassazione degli straordinari e dei premi di produttività per i dipendenti del settore privato con un reddito non superiore ai trentamila euro. Il Governo di allora mantenne la promessa di «non mettere le mani in tasca agli italiani»;
    così come la manovra finanziaria per il 2009, anticipata con il decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, definì – secondo un ragionevole equilibrio – gli interventi di risanamento e di riduzione della spesa corrente insieme con importanti misure di redistribuzione del reddito, fra le quali la cosiddetta social card, che permise ai cittadini che versavano in gravi condizioni sociali di acquistare prodotti alimentari e di pagare le bollette;
    ad oggi, le risorse a valere sul fondo istituito con il pacchetto anticrisi 2008 per il finanziamento della social card restano le uniche misure contro la povertà ancora operative;
    analizzando nel dettaglio gli attuali livelli di spesa per interventi e servizi sociali a livello regionale, si registrano significativi divari, per cui permangono ampi divari territoriali di spesa sociale, con valori maggiori nelle regioni centro-settentrionali e minori in quelle meridionali, con punte di differenze pari a quasi 2 mila euro annui;
    il problema della disuguaglianza impatta fortemente su altri aspetti fondamentali del vivere e le condizioni di salute sono tra le più importanti. Politiche sui determinanti della salute e contro povertà ed esclusione sociale sono fondamentali per il miglioramento del benessere psicofisico della popolazione: i dati del rapporto Istat sulla salute mostrano che, scendendo lungo la scala sociale e passando da Nord a Sud, aumenta lo svantaggio degli individui e che i poveri del Sud versano in peggiori condizioni di salute rispetto a quelli del Nord;
    in uno Stato moderno la spesa sociale dovrebbe svolgere una funzione di perequazione delle differenze in termini di dotazione di servizi tra i territori, operando, in particolare, una redistribuzione delle risorse in base ai rischi specifici dei diversi comparti, quali la povertà, le condizioni di salute per la sanità, il disagio per l'assistenza sociale e l'investimento in capitale umano per l'istruzione,

impegna il Governo:

   ad adottare tutte le misure atte a prevenire le condizioni di povertà, assumendo come riferimento l'Agenda sociale europea, i cui obiettivi indicati sono:
    a) creare una strategia integrata che garantisca un'interazione positiva delle politiche economiche, sociali e dell'occupazione;
    b) promuovere la qualità dell'occupazione, della politica sociale e delle relazioni industriali, consentendo, quindi, il miglioramento del capitale umano e sociale;
    c) adeguare i sistemi di protezione sociale alle esigenze attuali, basandosi sulla solidarietà e potenziandone il ruolo di fattore produttivo;
    d) tenere conto del «costo dell'assenza di politiche sociali»;
   a prevenire e combattere tutte le forme di povertà, incidendo su alcuni aspetti strutturali del nostro Paese, attraverso la buona e piena occupazione femminile, l'adozione di misure fiscali e monetarie a sostegno dei figli, l'elaborazione di politiche di conciliazione tra lavoro nel mercato e responsabilità di cura per donne e uomini, l'accesso ai servizi socio-educativi per la prima infanzia, l'adozione di misure per prevenire, rallentare e prendere in carico la non autosufficienza.
(1-00297)
«Calabria, Palese, Russo, Elvira Savino, Sandra Savino, Marti, Distaso, Chiarelli, Faenzi, Laffranco».

(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'attuale crisi economica, manifestatasi a livello globale soprattutto negli ultimi tre anni, ha investito tutti i Paesi d'Europa e ha avuto pesanti ripercussioni sull'intero sistema economico nazionale del nostro Paese;
    tale crisi ha avuto origine dal crollo dei mutui sub-prime dell'estate 2007 e il conseguente fallimento a catena di alcune banche di affari (la più importante, la Lehman brothers, quarta banca americana) che senza alcuna regolamentazione, e per giunta con la copertura ufficiale delle agenzie private di certificazione, attuavano una leva finanziaria di 1 a 30;
    gli esperti hanno individuato da subito tra le cause principali dell'attuale crisi economica il fallimento di un modello di mercato senza regole nel quale le istituzioni hanno abdicato al loro ruolo a favore del potere esercitato dalla finanza e dalla grande industria;
    la tanto decantata autoregolamentazione del mercato si è dimostrata totalmente incapace di mantenere il sistema su binari funzionanti;
    il sistema finanziario e monetario, sempre più deregolamentato e sottratto ai controlli preposti, ha minato ogni forma di governance, dando così origine ad una serie di bolle finanziarie, fagocitando i settori industriali, commerciali e agricoli produttivi;
    per evitare il fallimento delle banche e le inevitabili conseguenze, gli Stati sono stati costretti a varare interventi pubblici per la concessione di ingenti prestiti;
    è necessario, però, constatare come le banche, una volta ritrovata la stabilità grazie al sostegno pubblico, abbiano ricominciato a mettere in moto meccanismi speculativi, come se da questa crisi non si sia stati capaci di comprendere la necessità di cambiare rotta e di tornare ad una politica del fare, abbandonando per sempre il sistema viziato da una finanza creativa e dominatrice nel mercato;
    l'economista Röpke scrisse: «l'economia di mercato non è tutto; essa deve essere sorretta da un ordinamento generale, che non solo corregga con le leggi le imperfezioni e le asprezze della libertà economica, ma assicuri all'uomo un'esistenza consona alla sua natura. E l'uomo non può realizzare compiutamente se stesso se non quando si inserisce volontariamente in una comunità alla quale si senta solidamente legato. Se così non è, egli è condannato ad un'esistenza miserabile. E lo sa»;
    stando ai dati elaborati e pubblicati dai principali istituti scientifici, dalle associazioni di categoria e dei consumatori, nel nostro Paese diminuiscono in modo drastico i consumi, anche quelli riferiti ai beni alimentari, aumenta in modo esponenziale il numero dei disoccupati, degli inoccupati e dei cassaintegrati, delle famiglie in sovraindebitamento e in emergenza abitativa, degli anziani in condizione di grave indigenza, delle persone diversamente abili prive di adeguata assistenza;
    dal 2005 al 2012, il numero degli italiani che vivono in povertà assoluta è raddoppiato. Nel 2012, anno a cui risalgono gli ultimi dati dell'Istat, le famiglie che versavano in una condizione di povertà assoluta erano un milione e 725 mila (il 6,8 per cento delle famiglie residenti), per un totale di oltre 4,8 milioni di persone (l'8 per cento della popolazione), di questi poco più di 2,3 milioni erano residenti al Sud;
    la perdurante crisi economica ha prodotto l'impoverimento di un'ampia parte della popolazione, ma non ne ha impedito la fruizione dei beni e dei servizi essenziali, a differenza di chi non raggiunge «uno standard di vita minimamente accettabile» calcolato dall'Istat e legato a un'alimentazione adeguata, a una situazione abitativa decente e ad altre spese basilari, come quelle per la salute, i vestiti e i trasporti;
    negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad un incremento sempre più crescente di tale fenomeno in segmenti della popolazione prima ritenuti immuni: il Nord – dove le persone in povertà assoluta sono aumentate dal 2,5 per cento (2005) al 6,4 per cento (2012) – e le famiglie con due figli (dal 4,7 per cento al 10 per cento);
    l'attuale congiuntura economica, che ha investito l'Italia, ha imposto ai Governi che si sono succeduti una politica di contenimento dei costi che ha generato tagli ingenti ai finanziamenti diretti agli enti locali, con conseguente difficoltà da parte delle amministrazioni comunali nella gestione degli interventi diretti ai servizi ai cittadini secondo standard di qualità, efficienza ed efficacia;
    l'introduzione del federalismo fiscale, pur rappresentando un cambiamento epocale che segna finalmente una netta inversione di rotta in merito alle politiche sociali, nei fatti subisce un inspiegabile rallentamento nella sua effettiva applicazione;
    è fermo il convincimento, infatti, che l'autonomia impositiva regionale e locale disegnata dalla nuova legge delega sul federalismo fiscale, diretta a superare la logica dei trasferimenti vincolati ad alto tasso di burocrazia e a basso tasso d'incidenza sullo sviluppo reale, apra una nuova stagione anche per le politiche fiscali e a tutela dei cittadini e della famiglia;
    questa nuova autonomia regionale e locale sarà, infatti, guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti»;
    si tratta di principi altamente innovativi che connotano questa riforma del federalismo fiscale nella direzione di un maggiore riconoscimento fiscale dei carichi familiari e, quindi, nella direzione di una maggiore attuazione di quel favor familiae che orienta il dettato costituzionale;
    in Italia il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non fosse influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli, mentre, di norma, in tutti gli altri Paesi europei, a parità di reddito, la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Il sistema di tassazione deve essere riformulato in modo tale da lasciare a disposizione del nucleo familiare una maggiore disponibilità di reddito, ponendo fine all'iniqua penalizzazione a cui è sottoposta dall'attuale sistema fiscale;
    al fine di contrastare la diffusa povertà è necessario che si sviluppi una rete di interventi diretti a sostenere l'attività di welfare territoriale, facendo sì che il Governo metta a disposizione delle regioni e dei comuni maggiori risorse finanziarie da destinare alle politiche sociali, con l'obiettivo di sviluppare programmi ed interventi straordinari finalizzati ad una reale presa in carico dei cittadini e delle famiglie più bisognose;
    in un momento drammatico, come quello che sta attraversando l'Europa colpita dalla grave crisi economico-finanziaria, è doveroso che il legislatore e il Governo siano capaci di tutelare quel sistema di garanzia che si fonda sul rispetto dei principi e valori che rappresentano il motore di un Paese civile. La politica di solidarietà deve essere inquadrata in un'azione ampia, finalizzata a garantire la coesione sociale come condizione stessa dello sviluppo. Per questo motivo è necessario mettere in moto una politica diretta a dare un segno decisivo di cambiamento, volta innanzitutto a far sì che la società italiana si riappropri di quei principi e valori insiti nella tradizione religiosa, etica e culturale italiana, certi che, anche attraverso una riforma della Stato in ottica federalista, si possa realizzare una società partecipata, dove il principio di sussidiarietà diventi strumento sinergico dell'attività amministrativa e politica del Governo e degli enti locali,

impegna il Governo:

   a promuovere, da un lato, nel breve periodo, interventi straordinari diretti ad incrementare le risorse del fondo nazionale per le politiche sociali, al fine di permettere agli enti locali di strutturare una rete di aiuti per i cittadini e le famiglie in stato di indigenza, e, dall'altro lato, ad avviare nel lungo periodo una politica di contrasto ai meccanismi speculativi del sistema finanziario, principale causa dell'attuale crisi economica;
   ad avviare, in tempi rapidi, tutti i necessari interventi per attuare immediatamente il federalismo fiscale, destinando le risorse che scaturiscono dall'applicazione del sistema virtuoso dei costi standard a politiche di crescita economica del Paese, e, in particolar modo, ad interventi destinati a migliorare le condizioni delle fasce deboli della popolazione, in primo luogo le famiglie numerose, e a contrastare la disoccupazione e l'emergenza abitativa;
   a porre in essere, nell'ambito delle proprie competenze, qualsiasi tipo di intervento finalizzato a sviluppare le condizioni per far sì che si avvii un cambiamento radicale della società, fondato sui principi di solidarietà, sussidiarietà e piena partecipazione nella ricerca del bene comune.
(1-00304)
«Rondini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    i rapporti economici continuano a fotografare un'Italia in piena crisi: i dati sull'inattività e sull'occupazione sono tra i peggiori d'Europa;
    secondo i dati Istat aggiornati al novembre 2013, l'occupazione, su base annua, diminuisce del 2 per cento (con una diminuzione del 448.000 unità), mentre il tasso di disoccupazione si attesta al 12,7 per cento, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto a ottobre 2013, i senza lavoro a novembre 2013 erano 3 milioni e 254 mila unità;
    sotto i 25 anni la quota dei senza lavoro ha raggiunto la quota allarmante del 41,6 per cento, con un aumento di quattro punti percentuali rispetto al 2012;
    il potere di acquisto delle famiglie nei primi nove mesi è sceso di un ulteriore 1,5 per cento rispetto ai primi nove mesi del 2012;
    secondo il rapporto di Confcommercio «L'economia e il lavoro dentro la crisi», presentato il 22 marzo 2013, nel 2013 in Italia ci saranno oltre 4 milioni di poveri (verrà, dunque, superata la soglia di 3,5 milioni certificata ufficialmente dall'Istat per il 2011, pari a oltre il 6 per cento della popolazione) e una compressione dei consumi del 2,4 per cento; sono più di 9 milioni i cittadini italiani che non percepiscono alcun reddito e, quindi, a rischio di povertà ed esclusione sociale;
    l'Istat ha comunicato che in materia di consumi nella media del trimestre aprile-giugno 2013 l'indice registra una diminuzione dello 0,3 per cento rispetto ai tre mesi precedenti. Nel confronto con maggio 2013, diminuiscono dello 0,2 per cento sia le vendite di prodotti alimentari sia quelle di prodotti non alimentari;
    l'Istituto centrale di statistica (Istat) ha reso noti gli ultimi dati disponibili (relativi al 2012) sul reddito e sulle condizioni di vita della popolazione italiana. Secondo tali dati, nel 2012 era a rischio di povertà il 29,9 per cento dei residenti, con un aumento di 1,7 punti percentuali rispetto al 2011, dovuto soprattutto al diffondersi di situazioni «fortemente deprivate», a sua volta riconducibile al alcuni fenomeni, quali: l'aumento delle famiglie che non possono permettersi durante l'anno una settimana di ferie lontano da casa (dal 46,7 per cento al 50,8 per cento), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente la propria abitazione (dal 18 per cento al 21,2 per cento), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (dal 38,6 per cento al 42,5 per cento);
    quasi la metà, il 48 per cento, dei residenti nelle regioni meridionali del Paese è a rischio di povertà ed esclusione ed è in tale ripartizione che l'aumento della severa deprivazione risulta più marcato: + 5,5 punti (dal 19,7 per cento al 25,2 per cento), contro + 2 punti del Nord (dal 6,3 per cento all'8,3 per cento) e +2,6 punti del Centro (dal 7,4 per cento al 10,1 per cento);
    il rischio di povertà o esclusione sociale è più alto per le famiglie numerose (39,5 per cento) o monoreddito (48,3 per cento); aumenti significativi, tra il 2011 e il 2012, si registrano tra gli anziani soli (dal 34,8 per cento al 38 per cento), i monogenitori (dal 39,4 per cento al 41,7 per cento), le famiglie con tre o più figli (dal 39,8 per cento al 48,3 per cento), se in famiglia vi sono almeno tre minori;
    dal bilancio sociale Inps si evidenzia che il 77 per cento dei pensionati ha una pensione sotto i 1.000 euro al mese, mentre il 17 per cento può contare su un reddito sotto i 500 euro e che vi è un grande divario non solo tra uomini e donne (in media gli uomini percepiscono una pensione pari a 1.366 euro, mentre le donne pari a 930), ma anche tra Nord e Sud Italia (al Nord la pensione media è di 1.238 euro, al Centro di 1.193, 920 al Sud);
    il numero dei cosiddetti esodati secondo i dati forniti dall'Inps ammonta a circa 390.000 e, nonostante ne siano stati, ad oggi, salvaguardati circa 130.000, il fenomeno resta comunque di dimensioni drammatiche;
    le politiche intraprese finora per sconfiggere la povertà, come il «bonus gas», il bonus per l'energia elettrica, i contributi per gli affitti, i libri scolastici gratuiti, l'assegno per la maternità, l'assegno per il nucleo familiare dal terzo figlio sono risultate insufficienti ed inorganiche, mentre è mancato un disegno organico di integrazione al reddito;
    misura altrettanto debole appare la prospettata sperimentazione della nuova social card (il cui avvio è previsto entro pochi mesi dal decreto 10 gennaio 2013 del Ministro del lavoro e delle politiche sociali nelle 12 città con più di 250.000 abitanti) per l'acquisto di beni di primaria necessità per le famiglie in stato di bisogno;
    a fronte di un quadro così drammatico sarebbe necessario avviare una politica di lotta alla povertà che riprenda dai migliori esempi europei, preveda un rafforzamento dei competenti soggetti pubblici e istituisca un reddito minimo di cittadinanza;
    la crisi economica che ha investito il Paese si è riversata anche nel settore delle locazioni, settore nel quale il rapporto annuale del Ministero dell'interno ha registrato che nel solo 2012 su circa 68.000 sentenze emesse circa 61 mila sono motivate da morosità incolpevole, spesso si tratta di famiglie con minori, portatori di handicap e anziani, su tale questione è intervenuto l'articolo 6, comma 5, della legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014), che al momento non appare ancora attuato;
    dal 21 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sul «reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa», con una maggioranza di 540 voti a favore e 30 contrari;
    tale risoluzione, in modo ancora più netto rispetto ad una precedente sullo stesso tema del 2008, ha sancito in modo pieno il riconoscimento di un diritto dei cittadini dell'Unione europea e delle persone che vi risiedano stabilmente ad un reddito che ne salvaguardi la dignità sociale;
    in attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (Carta di Nizza), il reddito minimo viene definito come un diritto sociale fondamentale, destinato a fungere da strumento di protezione della dignità della persona e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica»;
    la piena partecipazione alla vita sociale è richiesta come obiettivo da garantire alla Repubblica italiana dall'articolo 3 della Costituzione;
    misure di attuazione del cosiddetto reddito di cittadinanza sono presenti in tutti i Paesi dell'Unione europea, tranne che in Grecia, Ungheria ed Italia, e in molti Paesi non comunitari;
    il reddito di cittadinanza è uno strumento che assicura, in via principale e preminente, l'autonomia delle persone e la loro dignità e non si riduce ad una mera misura assistenzialistica contro la povertà,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per introdurre il reddito minimo garantito, predisponendo un piano che individui la platea degli aventi diritto, considerando come indicatore il numero di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà relativa, assumendo iniziative per abrogare interventi fallimentari senza alcuna incidenza sulla situazione reale, come quello della social card;
   a procedere al riparto delle risorse del fondo nazionale per le politiche sociali concordato in sede di conferenza delle regioni, al fine di rendere queste risorse immediatamente disponibili alle regioni stesse e quindi agli enti gestori;
   a reperire le risorse necessarie, anche attraverso la lotta all'evasione fiscale e l'incremento delle imposte sul gioco d'azzardo, e in particolare sulle scommesse on line, nonché attraverso specifiche disposizioni volte alla redistribuzione delle «pensioni d'oro»;
   ad attuare specifiche politiche sociali e dell'occupazione per inoccupati e disoccupati tra i 30 e i 54 anni in generale e, in particolare, per le donne inattive, in quanto categorie a più alto rischio di povertà ed esclusione sociale;
   ad assumere iniziative per prevedere la riduzione dell'iva per l'acquisto di prodotti di prima necessità da parte di singoli o famiglie con reddito inferiore alla soglia di povertà relativa come individuata annualmente dall'Istat;
   a procedere alla revisione dell'articolo 5 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n 214, garantendo che l'introduzione dell'isee per l'accesso alle agevolazioni fiscali e ai benefici assistenziali non diventi per le famiglie collocate nella soglia di povertà assoluta e sotto la soglia di povertà relativa o per i disoccupati motivo di esclusione dalle citate agevolazioni e benefici;
   a sostenere, per le parti di propria competenza e d'intesa con l'Anci, il coordinamento con gli enti locali per la distribuzione efficace e tempestiva di derrate alimentari destinate a persone e famiglie con redditi sotto la soglia di povertà relativa ovvero disoccupate;
   a promuovere e sostenere in relazione all'emergenza freddo la capillare distribuzione di materiale di conforto e, in particolare, di sacchi a pelo per i senza fissa dimora;
   a procedere, di intesa con l'Anci, al censimento ufficiale dei senza fissa dimora, in collaborazione con le associazioni di volontariato, prendendo a riferimento anche i dati relativi ai pasti forniti dalle mense;
   a promuovere la lotta alla povertà, sostenendo programmi e iniziative delle imprese sociali e del settore no profit;
   a prevedere agevolazioni per l'accesso al credito finalizzate al sostegno all'imprenditorialità sociale;
   a prevedere la destinazione, se necessario anche predisponendo interventi di modifica della normativa vigente, di una quota parte dell'8 per mille destinata allo Stato per il sostegno alle politiche sociali di contrasto alla povertà;
   a prevedere che la quota del 5 per mille destinata dai contribuenti al sostegno alle associazioni di volontariato sia erogata integralmente e in tempi certi, valutando nell'immediato di assumere iniziative per aumentare da 400 milioni di euro a 500 milioni di euro lo stanziamento disposto dalla legge di stabilità per l'anno 2014;
   ad avviare tutte le iniziative, anche di carattere normativo, finalizzate all'istituzione e riconoscimento della figura del caregiver;
   ad inviare una relazione alle competenti commissioni parlamentari relativa al censimento di iniziative, quali dormitori, banchi alimentari, associazioni, cooperative ed altri soggetti impegnati nel campo del contrasto alla povertà, in particolare indicando il numero di persone assistite e interessate dalle iniziative di lotta alla povertà su base regionale e comunale;
   ad attivarsi, di intesa con l'Anci, affinché per i senza fissa dimora possa trovarsi una soluzione alla problematica dell'indirizzo di residenza, individuando indirizzi di residenza non fittizi, evitando problemi di discriminazione e preclusioni in particolare in ambito lavorativo, tenuto conto delle esperienze attivate dai comuni di Roma e Milano;
   a prevedere, anche con iniziative di carattere normativo, nell'ambito del riordino del sistema delle agevolazioni fiscali, il rafforzamento del sistema attualmente vigente di detrazioni per le famiglie con redditi inferiori alla soglia di povertà relativa come individuata dall'Istat;
   ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, per istituire un apposito fondo di garanzia su prestiti e microcredito da concedere a singoli o famiglie con reddito inferiore alla soglia di povertà relativa;
   a procedere alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, attuando quanto previsto dalla legge n. 328 del 2000, con particolare riferimento a singoli o famiglie con reddito inferiore alla soglia di povertà relativa;
   ad attivare le necessarie intese al fine di prevedere per i comuni, le amministrazioni dello Stato, le regioni ed altri enti o amministrazioni pubbliche l'utilizzo di quota parte degli immobili inutilizzati di proprietà pubblica, al fine di offrire ricovero alle persone senza fissa dimora e alle persone o alle famiglie in accertata e inaspettata difficoltà economica;
   ad attivare tutte le iniziative di propria competenza affinché in materia di sfratti per morosità incolpevole sia data attuazione integrale ed immediata a quanto previsto dall'articolo 6, comma 5, della legge 27 dicembre 2013, n 147, in materia di definizione della morosità incolpevole, di accompagnamento sociale da parte dei comuni al fine di garantire il passaggio da casa a casa, di graduazione degli sfratti per morosità incolpevole da parte dei prefetti.
(1-00306)
«Silvia Giordano, Di Vita, Dall'Osso, Mantero, Baroni, Lorefice, Cecconi, Grillo, Pesco, Lupo, Sorial, Colonnese, Baldassarre, L'Abbate, Basilio, De Lorenzis, Spadoni, Dieni, Alberti, Gallinella, Luigi Di Maio, Fico, Tofalo, Artini».
(13 gennaio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica esplosa nel 2007 negli Stati Uniti e che ha finito per contagiare l'intero Occidente, sia in termini di fallimenti bancari che in termini di drastica diminuzione dei livelli occupazionali, ha prodotto, per quanto concerne il nostro Paese, un radicale cambiamento socio-economico, i cui effetti sono destinati a perdurare negli anni a venire ed a pesare inevitabilmente sulle generazioni future;
    classi sociali, che fino a pochi anni fa si potevano ritenere al riparo dal rischio povertà, potendo esse contare su una sicurezza economica legata alla stabilità lavorativa, si sono viste, con il passare del tempo, coinvolte in una spirale economico-finanziaria che ha finito col minacciare il loro tenore di vita;
    è inevitabile che, in un contesto del genere, in Italia sia aumentato il numero di nuclei familiari che oggi, loro malgrado, possono essere considerate a rischio povertà;
    sono recenti i dati Istat che parlano di 1.725.000 di famiglie che ormai vivono in una costante condizione di assoluta povertà, con una maggiore incidenza nel Meridione d'Italia, zona in cui ben 2,3 milioni di cittadini sono da considerarsi poveri;
    una tale situazione non può non comportare drammatici mutamenti allo strato sociale del nostro Paese: basti pensare alle giovani generazioni, che, in assenza di una sicurezza lavorativa, sono costrette, da una parte, a vivere sempre più a lungo presso le proprie famiglie originarie e, dall'altra, a posticipare o addirittura rimandare l'idea, il progetto di formarsene una propria: diventa difficile infatti, in queste condizioni, pensare ad avere dei figli;
    l'obiettivo dell'Italia non deve limitarsi a fornire assistenza a quanti non riescono a vivere con mezzi propri, ma deve e dovrà essere quello di presentare ai cittadini opportunità di lavoro, di crescita, di prosperità;
    risulta chiaro che il Governo deve attivarsi affinché questo mutamento in negativo del nostro Paese rallenti fino ad arrestarsi definitivamente;
    occorre, però, innanzitutto fornire l'adeguata assistenza a chi, già oggi, vive in condizioni di assoluta povertà in modo da fornire i mezzi necessari per superare un momento tanto difficile;
    occorre, poi, mettere in atto azioni in grado di cambiare radicalmente in positivo la realtà produttiva del nostro Paese e farlo soprattutto in maniera strutturale, evitando, quindi, quelle misure tampone che a nulla servirebbero per la soluzione del problema;
    è necessario sostenere l'apparato produttivo del nostro Paese, che spazia dalle grandi realtà industriali fino alle piccole e medie imprese, in modo da garantirne la ripresa dell'attività a pieno regime, così favorendo il recupero dei livelli occupazionali, la crescita dei redditi e, di conseguenza, dei consumi interni, soprattutto nelle aree del Paese maggiormente colpite dalla crisi in corso, come il Mezzogiorno;
    è necessario recuperare e sostenere il ruolo sociale del terzo settore, ovvero quel complesso di soggetti organizzativi di natura privata ma volti alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative, onlus ed altri), che sono elemento di vitalità della società civile e soggetti spesso in grado di farsi carico dei bisogni delle persone, generando relazioni positive e attivando reti di solidarietà;
    occorre, quindi, incentivare il recupero di risorse attraverso l'istituto del 5 per mille, in modo da poter disporre, attraverso le donazioni, di finanziamenti da destinare al sostegno delle classi meno abbienti e maggiormente bisognose di aiuto,

impegna il Governo:

   ad attivarsi affinché quanto rappresentato in premessa in materia di contrasto alla povertà e relativamente al sostegno effettivo di complessi come il terzo settore e al recupero di risorse attraverso il 5 per mille, trovi la necessaria ed urgente applicazione pratica in una situazione socio-economica di certo non semplice del nostro Paese;
   a coinvolgere l'Europa nell'adozione di politiche di sostegno alla povertà e, conseguentemente, di rilancio dell'economia dei Paesi dell'Unione europea maggiormente colpiti dalla sfavorevole congiuntura economica.
(1-00307) «Dorina Bianchi, Roccella».

(13 gennaio 2014)