Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Recenti sviluppi della questione tibetana
Serie: Note di politica internazionale    Numero: 32
Data: 22/10/2013
Descrittori:
CINA POPOLARE   TIBET
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


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Recenti sviluppi della questione tibetana

22 ottobre 2013




L'evoluzione storica della questione tibetana: dagli anni Cinquanta agli anni Novanta

La questione tibetana ha inizio nel 1950, quando l'esercito della Repubblica popolare cinese, proclamata nel 1949, invade il territorio tibetano.

I reggenti di Lhasa si affrettarono a proclamare ufficialmente XIV Dalai Lama il quindicenne Tenzin Gyatso, che diveniva sovrano del Tibet, sforzandosi negli anni successivi di ottenere condizioni di occupazione meno dure e di gestire gli affari interni del Tibet senza influenze esterne.

Il 23 maggio 1951 fu stipulato tra i rappresentanti di Pechino e quelli di Lhasa l'accordo dei 17 punti (Trattato di liberazione pacifica).in base al quale i tibetani riconoscevano la sovranità cinese e permettevano l'ingresso anche a Lhasa di un contingente dell'esercito per programmare una serie di riforme per la realizzazione dell'integrazione del Tibet nella Cina. Le autorità cinesi si impegnarono in cambio a non occupare il resto del paese e a non interferire nella politica interna, la cui gestione veniva lasciata al governo tibetano, ma prendendosi carico di tutte le relazioni tibetane con l'estero.

Nel corso degli anni Cinquanta ebbe corso un periodo di coesistenza tra il Governo Tibetano e le autorità cinesi, durante il quale la Cina estese il suo controllo militare, logistico (con la costruzione di vie di collegamento tra Cina e Tibet) e politico sul Tibet; che portò, nel 1956, alla costituzione del Comitato Preparatorio per la Regione Autonoma Tibetana (TAR), inizialmente presieduto dal Dalai Lama e allo scioglimento effettivo del Governo Tibetano.

Il progressivo condizionamento politico da parte cinese genera un susseguirsi di proteste che culmina, nel 1959, con la rivolta del popolo di Lhasa contro le violenze e le intolleranze dell'esercito. La dura repressione delle truppe di Pechino, provocò circa 65.000 vittime e la deportazione di 70.000 persone, mentre il Dalai Lama fuggì in India insieme al suo governo, a una parte dell'élite feudale e ad alcuni monaci. La risposta cinese fu l'occupazione integrale del Tibet e la dichiarazione di illegalità del governo tibetano.

Nel maggio 1960, il governo tibetano in esilio, con il nome di "Amministrazione Centrale Tibetana", fissò la sua sede a Dharamsala, nell'Himachal Pradesh, e sebbene mai riconosciuto dai paesi stranieri, rappresentò l'autorità cui facevano riferimento i tibetani in patria come nella diaspora.

Il Tibet fu frazionato: buona parte dei suoi territori fu assegnata alle province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan; la parte restante divenne nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale.

Negli anni seguenti la rivoluzione culturale che ebbe luogo dal 1966 al 1976 portò studenti ed estremisti cinesi, agitati dal regime comunista, a condannare come anti-rivoluzionaria ogni forma d'opinione diversa dalla loro e gran parte dei monasteri, dei templi e di ogni altra forma d'arte vennero distrutti. Il Governo tibetano in esilio e la diaspora hanno fin dall'inizio manifestato un forte sentimento di identità nazionale tibetana e rivendicato l'indipendenza del Tibet.

All'inizio degli anni Ottanta, la politica di liberalizzazione post-maoista, sia economica che culturale, provoca il rifiorire della religione, della cultura e del nazionalismo tibetano. L'apertura delle frontiere internazionalizza la questione tibetana e, sebbene l'interera comunità internazionale riconosca l'appartenenza alla Cina della Regione autonoma del Tibet, accresce la sensibilità dell'opinione pubblica e dei governi di molti paesi per il rispetto della minoranza tibetana e prepara il terreno per una riproposizione delle rivendicazioni di autonomia e di libertà.

In un importante discorso dinnanzi al Parlamento europeo a Strasburgo (15 giugno 1988) il Dalai Lama annunciò di non rivendicare più l'indipendenza del Tibet ma una reale autonomia di tutte le zone tibetane all'interno della Repubblica popolare cinese, nel quadro della Costituzione. La concessione fondamentale di riconoscere il Tibet come appartenente alla Repubblica popolare cinese non produsse risultati con Pechino mentre alimentò in una parte dei tibetani un sentimento di tradimento.

Dimostrazioni e tumulti a sostegno dell'indipendenza tibetana culminarono con l'imposizione, dal 7 marzo al 30 aprile 1989, della legge marziale.

Nel 1989 il Dalai Lama è stato insignito del Premio Nobel per la pace ed a partire dal 1990 ha intensificato gli incontri con capi di Stato, di governo e parlamentari, divenendo un simbolo della lotta per l'autodeterminazione dei popoli.

Negli anni Novanta la Cina ha limitato tutti gli aspetti dell'autonomia tibetana identificandoli come nazionalismo tibetano, religione e lingua comprese, continuando a perseguire gli obiettivi della colonizzazione, della restrizione dell'autonomia, della repressione della resistenza e dello sradicamento dell'influenza del Dalai Lama. E anche negli anni successivi il quadro non cambia, dal momento che i nove round negoziali che si svolgono tra il 2002 e il 2010 tra gli inviati del Dalai Lama e Pechino non portano a nulla dal momento che il governo cinese continua a considerare il Dalai Lama traditore e separatista in cerca di indipendenza mascherata da autonomia.

Nel frattempo la Regione autonoma del Tibet ha goduto di una fase di veloce crescita economica promossa anche da ingenti trasferimenti di risorse da parte del governo centrale, di cui è principale beneficiaria la sempre più corposa comunità cinese di etnia Han residente nell'area. Continua infatti l'afflusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto i tibetani ad una minoranza all'interno del loro paese, con una presenza di sette milioni e mezzo di coloni han contro sei milioni di tibetani. Sono inoltre denunciati problemi di discriminazione nell'impiego di personale tibetano tanto nella Pubblica Amministrazione quanto nel settore privato. Sarebbe stata proprio la discriminazione percepita dalla popolazione di etnia tibetana il motivo scatenante dei disordini scoppiati a Lhasa nel marzo 2008, seguiti dalla dura repressione delle forze di polizia cinesi, che ha generato ulteriori proteste sia in Tibet sia in alcune zone a maggioranza tibetana delle province del Gansu, dello Sichuan e del Quinghai.

Le Autorità cinesi hanno successivamente ripreso il controllo del territorio attraverso una serie di atti, compreso il ricorso alla forza, condannatI dalla comunità internazionale. La scintilla delle proteste dei tibetani, era scattata in occasione del 49° anniversario della rivolta anticinese del 1959 a Lhasa.

Nel 2001 viene introdotto dal governo tibetano in esilio un importante cambiamento con l'elezione da parte dei tibetani in esilio, e non la designazione del Dalai Lama, a primo ministro (Kalön Tripa) del religioso Samdhong Rinpoche (il cui mandato quinquennale sarà rinnovato nel 2006). La portata innovativa, peraltro, è piuttosto limitata atteso che è ancora la voce del Dalai Lama, capo religioso e politico, ad essere predominante.

Gli sviluppi più recenti

Negli anni successivi il quadro non cambia, dal momento che i nove round negoziali (tavole rotonde) che si svolgono tra il 2002 e il 2010 tra gli inviati del Dalai Lama e Pechino non portano a nulla dal momento che il governo cinese continua a considerare il Dalai Lama traditore e separatista in cerca di indipendenza mascherata da autonomia.

Nel frattempo la Regione autonoma del Tibet ha goduto di una fase di veloce crescita economica promossa anche da ingenti trasferimenti di risorse da parte del governo centrale, di cui è principale beneficiaria la sempre più corposa comunità cinese di etnia Han residente nell'area. Continua infatti l'afflusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto i tibetani ad una minoranza all'interno del loro paese, con una presenza di sette milioni e mezzo di coloni han contro sei milioni di tibetani. Sono inoltre denunciati problemi di discriminazione nell'impiego di personale tibetano tanto nella Pubblica Amministrazione quanto nel settore privato.

Sarebbe stata proprio la discriminazione percepita dalla popolazione di etnia tibetana il motivo scatenante dei disordini scoppiati a Lhasa nel marzo 2008, seguiti dalla dura repressione delle forze di polizia cinesi, che ha generato ulteriori proteste sia in Tibet sia in alcune zone a maggioranza tibetana delle province del Gansu, dello Sichuan e del Quinghai. Le Autorità cinesi hanno successivamente ripreso il controllo del territorio attraverso una serie di atti, compreso il ricorso alla forza, condannato dalla comunità internazionale. La scintilla delle proteste dei tibetani, era scattata in occasione del 49° anniversario della rivolta anticinese del 1959 a Lhasa.

Dal 2009 la resistenza tibetana sperimenta un nuovo tipo di lotta non violenta: le auto immolazioni, la morte con il fuoco in segno di protesta contro l'occupazione e la repressione. Un libro bianco sui 98 tibetani che hanno scelto questa forma estrema di protesta è stato pubblicato nel gennaio 2013 a cura del Tibetan Policy Institute di Dharamshala

Nel 2001 viene introdotto dal governo tibetano in esilio un importante cambiamento con l'elezione da parte dei tibetani in esilio, e non la designazione del Dalai Lama, a primo ministro (Kalön Tripa) del religioso Samdhong Rinpoche (il cui mandato quinquennale sarà rinnovato nel 2006). La portata innovativa, peraltro, è piuttosto limitata atteso che è ancora la voce del Dalai Lama, capo religioso e politico, ad essere predominante.

Le elezioni del 20 marzo 2011 segnano un punto di svolta. Solo dieci giorni prima, il 10 marzo, a cinquantadue anni dalla rivolta di Lhasa il Dalai Lama aveva annunciato il ritiro dalla vita politica ed il trasferimento della sua autorità al leader eletto. Nonostante le molte richieste da parte dei tibetani, che non lo comprendono, il Dalai Lama ha rifiutato di assumere il ruolo di leader simbolico del governo, ritagliandosi un ruolo di consulente e quello di incontrare i capi di Stato. Per Pechino si tratta di una mossa d'astuzia. La decisione, prefigurando la separazione tra il potere spirituale e temporale, conferisce al primo ministro poteri sconosciuti ai predecessori.

La decisione del Dalai Lama è stata interpretata da alcuni osservatori alla luce della volontà di stemperare le tensioni che si annunciano per quando, alla morte dell'attuale leader tibetano, Tenzin Gyatso, la comunità religiosa buddista dovrà scegliere la nuova reincarnazione del vertice del buddismo tibetano. Si tratta infatti di una scelta che presumibilmente il governo cinese cercherà di influenzare come dimostra la scomparsa in Cina del giovane designato dal Dalai Lama come undicesima reincarnazione del Panchen Lama (altra figura significativa della gerarchia religiosa buddista), Gedun Choeky Nyima.

Nella competizione elettorale organizzata dal governo tibetano in esilio presso le comunità tibetane nel mondo ma anche nelle tre province tibetane di U-Tsang, Do-Toe e Do-Med e svoltasi in due turni (3 ottobre 2010 e 20 marzo 2011) si sono contrapposti tre candidati fedeli alla linea politica del Dalai Lama ma laici. La comunità dei tibetani in esilio è formata da circa 180.000 persone; degli 83.399 votanti registrati in più di 30 paesi del mondo, circa 49.184 (il 59 per cento) hanno espresso il loro voto. I voti dei tibetani in Nepal e Buthan non sono stati acquisiti per l'opposizione dei relativi governi.

Per quanto concerne le elezioni del primo ministro, i risultati hanno decretato la vittoria del 43enne laureato in diritto internazionale ad Harvard Lobsang Sangay, che ha ottenuto il 55 per cento dei voti (27.051 suffragi).

Sono stati eletti, altresì, quarantasette membri del Parlamento tibetano in esilio a Dharamshala. In particolare, ciascuna delle tre province tibetane elegge dieci deputati (di cui almeno due donne). A questi 30 deputati si aggiungono due deputati per i monaci di ciascuna delle quattro scuole di Buddismo Tibetano, nonché del Bon Faith (corrente religiosa di ascendenza prebuddista riconosciuta dal Dalai Lama come la quinta scuola buddista). Altri quattro deputati vengono eletti dai tibetani residenti in Occidente (due in Europa e due negli Stati Uniti). Infine, il Dalai Lama ha la facoltà di nominare da uno a tre ulteriori parlamentari.

Lobasang Sangay sostiene la strategia politica del Dalai Lama, volta al perseguimento della "via di mezzo", vale a dire la richiesta non dell'indipendenza ma dell'autonomia all'interno della Cina, sottoposta a critiche e contestazioni negli ultimi anni ad opera del più radicale congresso della gioventù tibetana, che richiede invece l'indipendenza del Tibet.

La diaspora tibetana ha raggiunto le 145.150 unità (di essi 101.242 vivono in India, 16.313 in Nepal, 1.883 in Bhutan, 25.712 nel resto del mondo).

L'opera di distruzione della religione tibetana da parte delle autorità cinesi ha causato, secondo fonti tibetane all'estero, la scomparsa di oltre 6.000 monasteri e di innumerevoli oggetti religiosi a causa del fatto che la religione e la cultura tibetana vengono percepite come la principale minaccia per la leadership del Partito comunista.

L'attività parlamentare nella XVI Legislatura

La situazione dei diritti umani in Tibet è stata trattata dal Comitato diritti umani della Commissione Affari esteri nella seduta dell'11 novembre 2008, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo. Il rappresentante tibetano intervenuto, Yungdrung Chime, Presidente del National Democratic Party of Tibet, ha riferito la grande attesa per le decisioni che verranno assunte dagli "stati generali" della società tibetana previsti per il 17 novembre 2008 e destinati a delineare una nuova linea strategica, che molti vorrebbero più marcatamente indipendentista, nei confronti della Cina.

Il rappresentante tibetano ha informato il Comitato sulle attività del Partito democratico del Tibet, tra le quali la "Marcia fino al Tibet", organizzata pochi mesi prima dei Giochi Olimpici di Pechino per mobilitare l'opinione pubblica internazionale sull'irrisolta situazione tibetana che, pur in mancanza di dati certi, riguarda circa 120 mila tibetani fuori dal Tibet e 6 milioni all'interno, questi ultimi destinati a diventare minoranza a causa dell'intensa crescita della popolazione cinese presente in Tibet.

Rispondendo all'on Matteo Mecacci che, con riferimento ad una risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Tibet (n. 7-00021) a sua firma (approvata dalla Commissione esteri il 2 luglio 2008) chiedeva dati aggiornati sulla situazione dei diritti umani in Cina, il rappresentante tibetano ha replicato che al momento sono alla ribalta condanne delle persone in carcere e attività di controllo, da parte della polizia cinese, degli attivisti rilasciati. Sempre in tema di rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche in Tibet l'on. Mecacci è tra i firmatari di una mozione (n. 1-00089) approvata dall'Assemblea nella seduta del 10 marzo 2009 che nella parte dispositiva impegna il Governo a reiterare al Governo cinese le richieste del Parlamento europeo di aprire in via stabile e permanente il Tibet alla stampa, ai diplomatici rappresentanti dell'Unione europea ed agli stranieri in generale, ed a raccomandare alle autorità cinesi di rispondere positivamente alle richieste di visita avanzate dagli organismi Onu di monitoraggio della situazione dei diritti umani, a rafforzare la posizione comune in sede europea a favore di un dialogo costante, aperto, veritiero e costruttivo tra le autorità di Pechino ed i rappresentanti del Dalai Lama, essendo questi ultimi interlocutori essenziali, al fine di giungere ad una soluzione mutuamente soddisfacente della questione tibetana, che, nella cornice della Costituzione cinese e nel rispetto dell'integrità territoriale della Cina, assicuri il massimo grado di tutela e di autonomia per preservare la cultura, le tradizioni e la religione tibetane.

La risoluzione in Commissione 8-00154 (on. Adornato) approvata il 6 dicembre 2011 impegna il governo ad intervenire con urgenza, sollecitando un'incisiva azione europea, per esprimere al Governo cinese viva e forte preoccupazione rispetto al protrarsi di una situazione di aperta violazione dei diritti umani, culturali e religiosi del popolo del Tibet, nonché per chiedere la ripresa del dialogo tra le delegazioni cinese e tibetana interrotto nel 2010, nonché ad attivarsi presso tutte le sedi della comunità internazionale per studiare interventi comuni di sostegno del popolo del Tibet, dei religiosi buddhisti e di tutti coloro che in maniera pacifica chiedono il rispetto dei propri diritti come sancito dalla stessa costituzione cinese.

L'8 febbraio 2012 la Commissione Affari esteri ha approvato la risoluzione 8-00160 dell'on. Vernetti che impegna il Governo a sollecitare dalla controparte cinese l'immediata interruzione delle violenze nei confronti della popolazione e dei religiosi tibetani al fine di creare nelle aree popolate dalla minoranza tibetana un clima di dialogo e tolleranza, nonché a chiedere, nel quadro dell'imminente Vertice UE-Cina, la ripresa del dialogo fra il Governo della Repubblica Popolare Cinese e gli inviati del Dalai Lama, finalizzato all'individuazione di una soluzione condivisa, in grado di permettere alla comunità tibetana in Cina di poter godere di una genuina autonomia e di riaprire il Tibet al mondo esterno permettendo un accesso libero e senza condizioni ai media internazionali.