Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano - A.C. 2168-B
Riferimenti:
AC N. 2168-B/XVII     
Serie: Note per la I Commissione affari costituzionali    Numero: 285
Data: 21/06/2017
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni


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Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano

21 giugno 2017
Elementi per la valutazione degli aspetti di legittimità costituzionale


Indice

Contenuto|Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite|Rispetto degli altri princìpi costituzionali|


La proposta di legge trasmessa dal Senato introduce nell'ordinamento italiano il delitto di tortura. La proposta torna all'esame della Camera in quarta lettura: dopo l'approvazione del Senato in un testo unificato il 5 marzo 2014, il provvedimento è stato approvato dalla Camera con modifiche il 9 aprile 2015. Il Senato lo ha approvato con ulteriori modifiche il 17 maggio 2017.

Contenuto

La proposta di legge, modificata dal Senato (C. 2168-B), introduce nel codice penale il delitto di tortura.

Il divieto di tortura è già sancito da fonti sovranazionali. L'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo prevede che "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".  Identica formulazione è contenuta nell'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Il dibattito presso il Senato si è sostanzialmente concentrato sull'opportunità di una formulazione del reato di tortura quanto più possibile attinente a quella della Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti  (la c.d. CAT) e quindi sulla scelta o meno della tortura come reato proprio - del solo pubblico ufficiale - e a dolo specifico. Altro profilo ampiamente dibattuto è stato quello relativo alla necessità della reiterazione delle condotte illecite ai fini della configurazione del reato.

La Convenzione di New York contro la torturaLa citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura, ratificata dall'Italia con la legge n. 498/1988, prevede l'obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno (articolo 4). Per tortura ai sensi dell'articolo 1, comma 1, della Convenzione si intende "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate". Nella CAT, quindi, la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica. La tortura è ivi individuata come reato proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell'abuso di potere, quindi nell'esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima. Per quanto riguarda poi l'elemento soggettivo-psicologico del reato, sono richiesti al pubblico ufficiale due requisiti: il perseguimento di un particolare scopo, ossia ottenere dalla persona torturata (o da una terza persona) informazioni o una confessione; il dolo nell''infliggere dolore e sofferenze (uso dell'avverbio intenzionalmente). In base alla Convenzione, questi ultimi elementi (di natura oggettiva) non debbono, tuttavia, essere di lievi entità: le condotte di violenza o di minaccia per connotare il reato devono cioè aver prodotto sofferenze "forti" a livello fisico e psichico. L'ultima parte della definizione di tortura contenuta nella CAT si prefigge l'obbiettivo di escludere dalle azioni proibite quegli atti che derivano dall'applicazione di sanzioni legittime, quindi previste dalla legge. In questo modo, gli autori della Convenzione hanno voluto proteggere gli Stati dall'essere condannati a livello internazionale per il normale funzionamento del loro ordinamento giudiziario e carcerario. Il comma 2 dell'art. 1 lascia impregiudicato ogni strumento internazionale e ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia.
L'art. 3 della Convenzione ha previsto, per ogni Stato parte, il divieto di espulsione, respingimento ed estradizione di una persona verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura. Per determinare l'esistenza di tali condizioni, le autorità competenti terranno conto di tutte le considerazioni pertinenti, ivi compresa, se del caso, l'esistenza nello Stato interessato, di un insieme di violazioni sistematiche dei diritti dell'uomo, gravi, flagranti o massicce. 

Gli elementi costitutivi del reato di tortura nel testo in esameLa proposta approvata dal Senato, dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l'applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta. 

In particolare:

  • l'incipit del nuovo art. 613-bis ("Chiunque, con violenze o minacce gravi....") fa pensare a un reato comune; peraltro, la tortura sembra rivestire doppia natura di reato comune e reato proprio (anziché reato proprio del solo pubblico ufficiale, come nella CAT); pare essere reato comune in relazione alla tortura di un soggetto che si trovi in condizione di minorata difesa; sempre in relazione all'elemento soggettivo, le altre fattispecie del primo comma sembrano, invece, assimilabili a un reato proprio in considerazione della particolare qualifica che deve connotare l'autore del reato rispetto alla vittima ("custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza");
  • diversamente dal testo-Camera, la fattispecie è caratterizzata dal dolo generico.

Nel testo, la commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio costituisce, anziché un elemento costitutivo, una fattispecie aggravata del delitto di tortura.

Ulteriore elemento di distinzione, rispetto al testo della Convenzione ONU, concerne la situazione di inferiorità della vittima del reato, non più limitata alla privazione della libertà personale.

 

Nello specifico, la proposta  si compone di 6 articoli.

Il reato di torturaL'articolo 1 introduce nel titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) del codice penale gli articoli 613-bis e 613-ter.

Il primo articolo disciplina la fattispecie incriminatrice del delitto di tortura, costruito come reato comune, eventualmente aggravato.

L'art. 613-bis c.p. punisce, infatti, con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano o degradante per la dignità della persona.

Pertanto, affinché si realizzi il reato di tortura:

- deve sussistere un nesso di causalità tra l'azione posta in essere dall'agente e le acute sofferenza fisiche ovvero il verificabile trauma psichico;

- la condotta deve essere stata connotata da almeno uno dei seguenti elementi: violenze, minacce gravi, crudeltà;

- la vittima deve trovarsi in almeno una delle seguenti condizioni: essere persona privata della libertà personale; essere affidata alla custodia (o potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza) dell'autore del reato; trovarsi in situazione di minorata difesa;

- il fatto deve essere stato commesso secondo almeno una delle seguenti modalità: pluralità di condotte; tale da comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Rispetto al testo Camera si segnala, in particolare:

  • la necessaria pluralità delle violenze o delle minacce;
    Il testo, elaborato nel corso dell'esame in terza lettura dalla Commissione Giustizia del Senato e sottoposto all'esame dell'Assemblea (S. 10 e abb.-C), puniva chi cagiona acute sofferenze con "reiterate violenze o minacce gravi". L'Assemblea del Senato, nella seduta del 14 luglio 2016, ha soppresso la parola "reiterate". Successivamente, nella seduta del 16 maggio 2017, ha aggiunto in coda al primo comma dell'art. 613-bis c.p. una nuova condizione per il perfezionamento del reato, consistente nella commissione del fatto mediante più condotte ovvero se esso comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona;
  • il requisito della gravità delle violenze e delle minacce; si valuti se la locuzione utilizzata ("violenze o minacce gravi") consenta di riferire univocamente la gravità anche alle violenze;
  • l'estensione della fattispecie agli atti commessi con crudeltà;  si ricorda che l'aver agito con crudeltà verso le persone costituisce già un'aggravante in base all'art. 61, n. 4), c.p.;
  • la soppressione del richiamo alla violazione degli obblighi di protezione, cura o assistenza;
  • la soppressione del riferimento alla intenzionalità nel provocare acute sofferenze;
  • l'esplicito riferimento alle persone private della libertà personale (formalmente assente nella CAT) e alla condizione di minorata difesa; si ricorda che il codice penale (art. 61, n. 5) prevede come aggravante del reato la condizione di minorata difesa ovvero "l'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa".
  • l'estensione dell'elenco dei casi di affidamento della vittima al potere del reo;
  • in relazione agli effetti dell'illecito, l'introduzione del richiamo al verificabile trauma psichico provocato dalla tortura; la locuzione "trauma psichico" non è definita nella legislazione; il riferimento alla sua verificabilità sembra superfluo, in quanto ogni elemento di qualsiasi fattispecie criminale richiede di essere accertato in sede giudiziale;
  • la soppressione del riferimento alla commissione della tortura per motivi etnici, orientamento sessuale od opinioni politiche o religiose;
  • la scomparsa del dolo specifico (nel testo trasmesso al Senato lo scopo della tortura era quello di ottenere informazioni, infliggere una punizione o vincere una resistenza);
  • il riferimento alla illiceità della tortura in quanto trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (sia il titolo della Convenzione ONU che l'art. 3 della CEDU fanno, invece, riferimento a trattamenti inumani o degradanti). Si valuti se, per la realizzazione del reato - che in tal caso prescinde dalla pluralità delle condotte - sia necessaria la sussistenza di entrambi i requisiti del trattamento illecito (se, cioè, deve essere sia inumano che degradante); in caso affermativo, qualora non sia possibile considerare la locuzione come una endiadi (utilizzo di più parole coordinate per esprimere un unico concetto), l'ambito applicativo della fattispecie potrebbe risultare più limitato.

Il reato appare quindi caratterizzato sia dal dolo generico e, in quanto reato di evento, dalla gravità della tortura (le sofferenze "acute" inflitte alla vittima o il verificabile trauma psichico).

Già dal dibattito in prima lettura al Senato (Assemblea, 5 marzo 2014) emerge dalle parole del relatore (sen. D'Ascola) come si sia ritenuto di qualificare le sofferenze cagionate dalla tortura "come acute, traendo questo termine dalla medicina, da quella generale ma anche dalla medicina legale, che ha elaborato il concetto di un'acuta sofferenza come un concetto ristretto e determinabile. Quindi, il legislatore penale ha guardato anche ad altri rami del nostro sistema e, in particolare, alla scienza medica e ai contenuti e ai significati elaborati dalla scienza medica, come si conviene fare allorquando il legislatore apre una finestra su settori diversi dall'ordinamento giuridico in generale e dall'ordinamento giuridico in particolare e sostanzialmente richiama, nel contesto di quella scienza, le elaborazioni che sono proprie di quel determinato settore scientifico".

 Diversamente dall'art. 1 della Convenzione, che non descrive le modalità della condotta dell'autore del reato, l'art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante).

La necessità della pluralità delle condotte (violenze o minacce) non sembra consentire di contestare il reato di tortura in presenza di un solo atto di violenza o minaccia. Peraltro, dalla formulazione del testo pare che, pur in assenza di una pluralità di condotte, si perfezioni il reato di tortura qualora si sia determinato un trattamento inumano o degradante per la dignità della persona. In tale ultima ipotesi, per la contestazione del reato, si dovrebbe prescindere dalla  pluralità delle condotte. 

Si consideri inoltre che, tra i reati già previsti dal codice penale vigente, l'art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi) punisce con la reclusione da due a sei anni - tra l'altro - chiunque maltratti una persona a lui affidata per ragioni di cura,vigilanza o custodia. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da 4 a 9 anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da 7 a 15 anni; se ne deriva la morte, la reclusione da 12 a 24 anni (secondo comma).

 Si valuti – soprattutto in relazione alle conseguenze sull'entità della sanzione - il rapporto tra la nuova disciplina e quella sul concorso materiale di reati o del concorso formale di norme. Occorre quindi valutare se e quando il delitto di tortura possa concorrere con quelli, ad essa connessi, già previsti dal codice (quali ad esempio percosse, minacce, lesioni, violenza privata, ecc.). Va valutato, in particolare, se e quando tali condotte possano ritenersi assorbite dal delitto previsto dal nuovo articolo 613-bis.

Si valuti inoltre se, in talune delimitate ipotesi (ad esempio rispetto al vigente art. 572, secondo comma, c.p.), la proposta di legge possa determinare pene meno severe.

 

Fattispecie aggravate del reatoL'art. 613-bis prevede poi specifiche fattispecie formulate sotto forma di fattispecie aggravate del reato di tortura.

La prima fattispecie aggravata (secondo comma), conseguente all'opzione del delitto come reato comune, interessa la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell'autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la pena prevista è in tal caso la reclusione da 5 a 12 anni (era da 5 a 15 anni nel testo Camera).

L'analoga aggravante comune (art. 61, n. 9, c.p.) renderebbe possibile l'aumento della pena fino a un terzo (teoricamente, quindi, avrebbe potuto portare ad una condanna anche più elevata).

Viene precisato dal terzo comma dell'art. 613-bis che la fattispecie in questione ("il comma precedente") non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Si osserva che il testo approvato dalla Camera, nell'ipotesi di legittima esecuzione di misure privative o limitative di diritti, non escludeva solo l'applicazione dell'aggravante ma escludeva espressamente anche la sussistenza della stessa fattispecie di tortura di cui al primo comma.

Si osserva inoltre che, alla lettera della disposizione, l'inapplicabilità dell'aggravante è prevista solo con riferimento alle sofferenze e non anche al trauma psichico.

Il secondo gruppo di fattispecie aggravate (quarto comma) consiste nell'avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà). Il Senato ha precisato che anche tali fattispecie aggravate derivano "dai fatti" indicati dal primo comma e non "dal fatto". Anche in questo caso il reato aggravato si perfeziona solo in presenza di una pluralità di azioni.

Le altre fattispecie aggravate (quinto comma) riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell'attività di tortura (30 anni di reclusione, mentre nel testo della Camera era previsto l'aumento di due terzi delle pene); di morte come conseguenza voluta da parte dell'autore del reato (pena dell'ergastolo). Anche in questo caso, Il Senato ha precisato che tali fattispecie aggravate derivano "dai fatti" indicati dal primo comma.

Con riguardo alla pena per l'aggravante della morte come conseguenza non voluta della tortura (30 anni) si ricorda che per l'omicidio preterintenzionale, cui la fattispecie potrebbe ricondursi, l'art. 584 c.p. stabilisce che chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 (percosse) e 582 (lesioni), cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da 10 a 18 anni. La pena – in base all'art. 585 – è aumentata fino a un terzo, se concorre – tra l'altro – la circostanza aggravante relativa all'avere agito con sevizie o crudeltà.

Si osserva inoltre che, mentre la prima e la terza fattispecie sono formulate con autonoma determinazione della pena, la seconda fa riferimento all'aumento di pena rispetto al primo comma. Si valuti se la diversa formulazione porti a configurare aggravanti oppure autonome figura di reato. In questa seconda evenienza, alcune di tali figure sarebbero caratterizzate da pena fissa.

 

L'istigazione alla tortura da parte del pubblico ufficialeL'art. 1 della proposta di legge aggiunge, poi, al codice penale l'art. 613-ter con cui si punisce il reato proprio consistente nell'istigazione a commettere tortura commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio, sempre nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.In base all'art. 414 c.p. chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell'istigazione: con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni (primo comma). Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena da uno a cinque anni (secondo comma). Alla medesima pena soggiace anche chi pubblicamente fa l'apologia di uno o più delitti. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (terzo comma). Fuori dei casi di cui all'articolo 302, se l'istigazione o l'apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l'umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (quarto comma).

La nuova fattispecie introdotta dall'art. 613-ter non è connotata dalla pubblicità della condotta.

Rispetto al testo-Camera:

  • è stato introdotto il riferimento alle modalità concretamente idonee proprie della istigazione alla tortura; il testo non esplicita a cosa sia riferito il requisito della idoneità;
  • è soppressa la clausola di specialità del reato di cui all'art. 613-ter rispetto all'istigazione a delinquere di cui all'art. 414 c.p. ("fuori dei casi previsti dall'articolo 414); si valuti se, a seguito di tale soppressione, l'istigazione pubblica a commettere tortura - con la sanzione più severa prevista dal  codice - possa essere ancora sanzionata in base all'art. 414 c.p.
  • è stata ridotta l'entità della sanzione (ora da sei mesi a tre anni, nel testo della Camera era da uno a sei anni).

L'istigazione sarà punibile sia nel caso in cui non sia accolta sia nel caso in cui sia accolta ma ad essa non segua alcun reato. Va, inoltre, segnalato che la rilevanza penale qui conferita all'istigazione pare derivare dal fatto che non si è in presenza di istigazione alla commissione di un generico reato bensì a commettere reato di tortura, che avviene in genere in un contesto caratterizzato dalla presenza di due (o più) pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.

Si osserva che la nuova fattispecie prevista dall'art. 613-ter c.p. non prevede l'aggravante per l'utilizzazione di strumenti informatici o telematici, invece prevista dall'art. 414 c.p.

 

Profili processualiL'articolo 2  - identico al testo-Camera - è norma procedurale che novella l'art. 191 del codice di procedura penale, aggiungendovi un comma 2-bis che introduce il principio dell'inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l'autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

 L'art. 191 c.p.p. prevede che le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate. La norma mira a riaffermare il principio di legalità della prova: solo le prove acquisite in modo conforme alle previsioni di legge possono essere utilizzate ai fini della corretta formazione del convincimento del giudice. Viola, ad esempio, il divieto stabilito dall'art. 188 c.p. - che impedisce l'uso di metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di determinazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti - le testimonianze estorte tramite la minaccia delle armi o attraverso la somministrazione di droghe o sotto ipnosi.

 

Il Senato ha soppresso la disposizione del testo trasmesso dalla Camera (già art. 3) di modifica dell'art. 157  del codice penale che inseriva anche il delitto di tortura fra i reati per i quali sono raddoppiati i termini di prescrizione.

I divieti di espulsione, respingimento ed estradizioneL'articolo 3 coordina con l'introduzione del resto di tortura l'art. 19 del TU immigrazione (D.Lgs 286/1998), cui è aggiunto un comma 1-bis che vieta le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione - sostanzialmente aderente al contenuto dell'art. 3 della Convenzione -  precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni "sistematiche e gravi" dei diritti umani.

Diversamente, il testo-Camera integrava col riferimento alla tortura  il contenuto del comma 1 dello stesso art. 19 TU che, attualmente, prevede il divieto di espulsione e respingimento (manca il riferimento all'estradizione) ogni qualvolta, nei Paesi di provenienza degli stranieri, essi avrebbero potuto essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali. Il comma 1 era integrato dal riferimento al pericolo di tortura della persona oggetto della misura ovvero al rischio di rinvio verso un altro Stato nel quale non sarebbe protetto dalla persecuzione o dalla tortura ovvero da violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani.

 

Esclusione dall'immunità per condannati o indagati per torturaL'articolo 4 - i cui contenuti sono stati parzialmente riformulati durante l'esame al Senato -  esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati  per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). Il testo trasmesso al Senato riguardava, negli stessi casi, la sola immunità dalla giurisdizione e faceva espresso riferimento al rispetto del diritto internazionale.

L'immunità diplomatica di cui si tratta riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia, e secondariamente il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l'Italia da parte di uno Stato estero. La fonte normativa del riconoscimento delle immunità diplomatiche risiede nella ratifica, da parte del nostro paese (legge n. 804 del 1967), delle due Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961) e sulle relazioni consolari (1963). La codificazione di questo tema riguarda però direttamente i soli agenti diplomatici o consolari accreditati presso uno Stato estero. L'estensione ai Capi di Stato e di governo delle immunità diplomatiche quando si trovino in un altro paese consegue per analogia e in base al diritto internazionale consuetudinario (o generale) – che, diversamente dalla consuetudine nel diritto interno, costituisce livello normativo prevalente sul diritto pattizio risultante da trattati internazionali. Occorre altresì segnalare che in ambito giurisprudenziale si è affermata la tendenza a riconoscere l'immunità anche ai militari all'estero, che comporta la loro non sottoponibilità al giudizio penale o civile per atti compiuti in servizio in uno Stato estero. E' tuttavia da escludersi l'immunità personale di cui godono altri organi statali (come gli agenti diplomatici) che non può essere oggetto d'interpretazione estensiva.

In relazione a tale previsione, che costituirebbe norma di rango ordinario, andrebbe valutato se la sua portata può configurare una limitazione ad immunità penali costituzionalmente tutelate. Infatti, occorre considerare non solo le citate Convenzioni di Vienna del 1961 e del 1963 sulle relazioni diplomatiche e consolari, ma anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (v. le sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007) nonché gli articoli 10, 11, 87 e soprattutto 117, primo comma, della Costituzione, che conferisce ai trattati natura di norma interposta. Le immunità delle quali godono gli agenti diplomatici costituirebbero pertanto immunità coperte dal diritto costituzionale.

 

Obbligo di estradizioneIl comma 2 dell'articolo 4, non modificato dal Senato, prevede l'obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

 

Gli articoli 5 e 6 della proposta di legge contengono, rispettivamente, la disposizione di invarianza finanziaria e quella sull'entrata in vigore della legge il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.


Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite

Il provvedimento introduce nuove fattispecie penali, modificando il codice penale e il codice di procedura penale. L'intervento legislativo è dunque ascrivibile alla materia "ordinamento penale" e "norme processuali", di competenza legislativa statale esclusiva in base all'art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione.


Rispetto degli altri princìpi costituzionali

Il comma 1 del nuovo art. 613-bis c.p. definisce come tortura il cagionare con violenza o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico". Va considerata la descrizione delle conseguenze dell'illecito alla luce del principio di determinatezza-tassatività delle fattispecie penali, che si ritiene garantito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione.

Sul punto, si ricorda la sentenza della Corte costituzionale in favore della legittimità della formulazione del delitto di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p., il cd. stalking (Corte costituzionale, sentenza n. 172 del 2014); il delitto sanziona chiunque, "con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto...". Si legge nella citata sentenza del 2014 che "il fatto che il legislatore, nel definire le condotte e gli eventi, abbia fatto ricorso a una enunciazione sintetica della norma incriminatrice (come avviene, del resto, nella gran parte dei Paesi dove è stata adottata una normativa cosiddetta "anti-stalking") e non abbia adottato, invece, una tecnica analitica di enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza, purché attraverso l'interpretazione integrata, sistemica e teleologica, si pervenga alla individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell'enunciato". Ricordando la sua pregressa giurisprudenza, la Corte ha ritenuto che l'esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost., non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extragiuridici diffusi (sentenze n. 42 del 1972, n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (sentenza n. 126 del 1971). Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l'ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a "giustificare" l'inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell'incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (sentenze n. 302 e n. 5 del 2004). In relazione specifica al riferimento fatto dall'art. 612-bis al "grave stato di ansia e di paura" (cui può avvicinarsi il "verificabile trauma psichico" previsto dal reato di tortura), la Corte ha ricordato come "spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l'area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986)".

Il nuovo articolo 613-bis c.p. prevede, al quinto comma, che se dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta del reato di tortura la pena è della reclusione di anni trenta. Si rileva al riguardo che la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione della legittimità costituzionale delle "pene fisse" (senza la previsione di un minimo e di un massimo). Superando un primo orientamento volto a riconoscere la legittimità costituzionale delle pene fisse (sentenze n 67 del 1963 e n. 167 del 1971), la Corte ha ritenuto che l'ordinamento costituzionale richieda una commisurazione ‘individualizzata" della sanzione penale. Nella sentenza n. 50 del 1980, la Corte ha infatti affermato che "l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile ‘personale' la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile ‘finalizzata', nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, Cost. […] L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, ‘proporzione' della pena rispetto alle ‘personali' responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale. In questi termini, sussiste di regola l'esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, ‘proporzionale', delle pene inflitte con le sentenze di condanna. Di tale esigenza, appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice costituiscono lo strumento normale. In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il ‘volto costituzionale' del sistema penale; ed il dubbio d'illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente ‘proporzionata' rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato." Nel caso di specie la Corte ha peraltro giudicata infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione ad una norma che prevedeva una pena fissa per il reato di circolazione con un veicolo che superi il peso complessivo a pieno carico consentito, ritenendo che essa rientrasse nei "limiti apposti (in funzione di tutela individuale e di giustizia proporzionale) dalla Costituzione alla potestà punitiva".

Occorre poi considerare se i contenuti della proposta di legge siano rispettosi dei vincoli derivanti dall'ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma, Cost.).

Con riferimento al vincoli derivanti dall'ordinamento europeo, l'articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, intitolato «Dignità umana», stabilisce che «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata», mentre l'articolo 4, intitolato «Proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti», prevede che «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», con formulazione identica all'articolo 3 CEDU. In alcune sentenze, la Corte di Giustizia UE (CGUE) ha toccato il tema della tortura nell'ambito del procedimento del mandato di arresto europeo o delle domande di asilo.

Ad esempio, la CGUE, nella sentenza del 5 aprile 2016 nelle cause riunite C‑404/15 e C‑659/15, pronunciandosi in via pregiudiziale, ha ritenuto che gli articoli 1, paragrafo 3, 5 e 6, paragrafo 1, della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, devono essere interpretati nel senso che, in presenza di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione per quanto riguarda le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente, l'autorità giudiziaria di esecuzione deve verificare, in modo concreto e preciso, se sussistono motivi seri e comprovati di ritenere che la persona colpita da un mandato d'arresto europeo emesso ai fini dell'esercizio dell'azione penale o dell'esecuzione di una pena privativa della libertà, a causa delle condizioni di detenzione in tale Stato membro, corra un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, ai sensi dell'articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in caso di consegna al suddetto Stato membro.
Con riferimento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, occorre considerare in primo luogo il contenuto della Convenzione ONU del 1984, in particolare la definizione del reato di tortura (v. sopra), a confronto con il contenuto della proposta di legge (v. oltre, le considerazioni svolte dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa).

Compatibilità con la Convenzione EDU (a cura dell'Avvocatura della Camera dei deputati)

Contenuto della Convenzione e giurisprudenza della Corte

L'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) proibisce espressamente la tortura. In particolare, vi si prevede che "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti", distinguendo tre tipi di condotte: la tortura, i trattamenti o le pene inumane, i trattamenti o le pene degradanti. Una sola delle condotte descritte nell'articolo 3 è sufficiente a integrarne la violazione, purché esse raggiungano un livello minimo di gravità. In che cosa esse debbano consistere precisamente la Convenzione non dichiara. Si è tuttavia sempre adottata una concezione elastica sia di tortura (intesa come inflizione di dolore intenso o di mantenimento in condizioni di prostrazione fisica) sia di trattamento disumano e degradante, facendo riferimento a comportamenti violenti, arbitrari o minacciosi nei confronti di vittime che non possono difendersi, minori, anziane, in condizioni di assoggettamento et similia.  

Come dalla gran parte delle disposizioni della Convenzione, anche dall'articolo 3 derivano sia obblighi negativi (vale a dire, divieti per la pubblica autorità di incidere negativamente sulla sfera della persona), sia obblighi positivi (vale a dire, doveri di promozione e tutela dei diritti umani, anche attraverso l'efficace e celere inchiesta giudiziaria sulle violazioni patite dai cittadini a opera di terzi).

I principi esposti sono stati enucleati in una consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che parte dal caso Irlanda c. Regno Unito del 1978, per arrivare ai numerosi casi più recenti, tra i quali Mouisel c. Francia del 2003 e Gäfgen c. Germania del 2010 fino, da ultimo, a Mindadze c. Georgia del 2017. Questi assunti restano confermati anche dalle pronunce nei confronti dell'Italia.

Si ricorda, infatti, una copiosa giurisprudenza in materia riferita, in parte, alla situazione carceraria e, in parte, alle espulsioni dei migranti.

Quanto al primo profilo, si rammenta la sentenza Scoppola c. Italia del 2008, in cui fu accertata la violazione dell'articolo 3 in ragione del regime detentivo applicato a una persona disabile, senza le adeguate garanzie mediche; e la Torreggiani c. Italia del 2013, in cui è stata ravvisata la violazione dell'art. 3 nell'insufficienza degli spazi negli stabilimenti carcerari a motivo del sovraffollamento.

In ordine al secondo aspetto, la Corte ha riconosciuto a più riprese che l'espulsione e il connesso rimpatrio verso Paesi nei quali gli stranieri rischiavano di essere imprigionati o torturati costituisce violazione del parametro di cui all'articolo 3 (si vedano, in proposito, le sentenze Saadi c. Italia del 2008, Ben Salah c. Italia del 2009, Trabelsi c. Italia del 2010 e Hirsi c. Italia del 2012).

La pronuncia più recente riguarda i fatti di Genova del 2001 e l'irruzione delle forze dell'ordine nella scuola Diaz, nella quale a molti manifestanti erano state cagionate fratture agli arti, lesioni agli organi interni, ecchimosi di varia gravità e altro. Pur risarcito in sede penale in Italia, uno di essi aveva fatto ricorso alla CEDU per sentire condannata l'Italia per la violazione dell'articolo 3, poiché in definitiva coloro che materialmente avevano posto in essere quelle condotte erano andati sostanzialmente esenti da qualsiasi sanzione. Nella sentenza (Cestaro c. Italia del 2015) la Corte ha affermato, tra l'altro, che essa deve assicurarsi che lo Stato adempia come si deve all'obbligo di tutelare i diritti delle persone che rientrano nella sua giurisdizione. Di conseguenza, la Corte «deve mantenere la sua funzione di controllo e intervenire nel caso esista una evidente sproporzione tra la gravità dell'atto e la sanzione inflitta. Altrimenti, il dovere che hanno gli Stati di condurre un'inchiesta effettiva perderebbe molto del suo senso». La sentenza ha anche affermato che «affinché un'inchiesta sia effettiva nella pratica, la condizione preliminare è che lo Stato abbia promulgato delle disposizioni di diritto penale che puniscono le pratiche contrarie all'articolo. In effetti, l'assenza di una legislazione penale sufficiente per prevenire e punire effettivamente gli autori di atti contrari all'articolo 3 può impedire alle autorità di perseguire le offese a questo valore fondamentale delle società democratiche, di valutarne la gravità, di pronunciare pene adeguate e di escludere l'applicazione di qualsiasi misura che possa alleggerire eccessivamente la sanzione, a scapito del suo effetto preventivo e dissuasivo».

Il testo in discussione

Il testo approvato dalla Camera (S. 10 e abb.-B), introducendo nell'articolo 1, comma 1, gli articoli 613-bis e 613-ter nel codice penale, concepiva il delitto di tortura centrandolo sulla condotta di cagionare a una persona affidata o comunque sottoposta all'autorità, alla vigilanza o alla custodia dell'agente acute sofferenze psichiche o fisiche. La modalità della condotta descritta era la violenza o la minaccia. La disposizione approvata dalla Camera prevedeva altresì il dolo diretto (era infatti previsto che la condotta del cagionare le sofferenze fosse intenzionale); e, alternativamente, il dolo specifico dell'ottenere informazioni o dichiarazioni, o di infliggere una punizione, o ancora di vincere una resistenza; o la motivazione della discriminazione etnica, politica, religiosa o di orientamento sessuale.

Nell'articolo 4, la proposta approvata dalla Camera introduceva una modifica del Testo unico sull'immigrazione, che vietava in modo assoluto l'espulsione o il respingimento dello straniero verso uno Stato in cui egli potesse essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche o condizioni personali o sociali, od oggetto di tortura o comunque rinviato dallo Stato di destinazione a un altro in cui corresse i medesimi pericoli.

Quanto alla fattispecie incriminatrice di base, ne derivava che l'accertamento del giudice sulla condotta era unico, poiché diretto alla verifica di un'azione volta a cagionare le acute sofferenze fisiche o psichiche.

Nel complesso, appare che quel testo fosse conforme al diritto della Convenzione, come sinteticamente descritto supra.

Viceversa, il testo modificato dal Senato e ritrasmesso alla Camera modifica l'assetto strutturale del reato (v. la nuova formulazione dell'articolo 1, comma 1, capoverso comma 613-bis) poiché, in primo luogo, richiede che le modalità della condotta (violenza o minaccia) assumano il carattere della gravità; in secondo luogo, contempla l'alternativa dell'agire con crudeltà; in terzo luogo, muta l'evento della sofferenza psichica in un "verificabile trauma psichico"; e da ultimo richiede che il fatto sia commesso con più condotte, oppure che comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Si segnala che, in data 16 giugno 2017, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, ha indirizzato ai Presidenti di entrambe le Camere, delle Commissioni Giustizia di ciascuna di esse e al senatore Manconi, quale Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani costituita presso il Senato, una nota con cui rappresenta talune preoccupazioni su alcuni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, che, a suo avviso, sembrano in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e con la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura – UNCAT).

Si ricorda che il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa (CdE) è un'istituzione indipendente volta a promuovere la sensibilizzazione e il rispetto dei diritti umani nei 47 Stati membri del Consiglio d'Europa. Si tratta di un organo istituito il 7 maggio 1999 con la risoluzione (99) 50 del Comitato dei Ministri, seguito della decisione adottata dai Capi di Stato e di Governo del Consiglio d'Europa, riuniti in occasione del Secondo Vertice di Strasburgo del 1997.
Il Commissario è un'istituzione senza poteri giurisdizionali; tuttavia, sebbene non possa esaminare ricorsi individuali, può trarre conclusioni e intraprendere ulteriori iniziative sulla base di informazioni ottenute nell'ambito di violazioni dei diritti umani subite dai singoli individui.
Tra le attività svolte dal Commissario rientra quella relativa a raccomandazioni e sensibilizzazioni: il Commissario, di propria iniziativa o su richiesta delle autorità nazionali, fornisce pareri su progetti di legge e attività specifiche in materia di diritti umani, offrendo inoltre consigli e informazioni al riguardo. Il Commissario si è avvalso spesso del potere di formulare raccomandazioni e di sensibilizzare le assemblee legislative degli Stati membri del CdE in occasione dell'approvazione di progetti di legge in materia di diritti umani, sollevando puntuali rilievi e formulando osservazioni in merito ad iniziative legislative all'esame dei parlamenti degli Stati membri del CdE.
 

In particolare le preoccupazioni manifestate dal Commissario si riferiscono al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, siano necessarie "più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà" ; che la tortura si configuri anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l'articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva "trattamenti inumani o degradanti"); e inoltre, quanto alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. La nota del Commissario europeo sottolinea ancora che vi sono altri aspetti di divergenza della definizione contenuta nel testo di legge rispetto a quella di cui all'art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura e che ciò comporta il rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo a casi di impunità.

Inoltre la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adotta una definizione ampia di tortura che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, sottolinea l'importanza di garantire che questo non conduca a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.

In conclusione, il Commissario rileva che le nuove disposizioni dovrebbero prevedere pene adeguate per i responsabili di atti di tortura o pene e trattamenti inumani o degradanti, avendo quindi un effetto deterrente e dovrebbero garantire che la punibilità per questo reato non sia soggetta a prescrizione, né sia possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, indulto o sospensione della sentenza.