| Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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| Autore: | Servizio Studi - Dipartimento istituzioni | ||
| Titolo: | Disciplina dei vitalizi dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali - A.C. 3225 e abb. | ||
| Riferimenti: |
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| Serie: | Progetti di legge Numero: 343 Progressivo: 1 | ||
| Data: | 18/05/2017 | ||
| Organi della Camera: | I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni | ||
Disciplina dei vitalizi dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali - A.C. 3225 e abb.
18 maggio 2017
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L'esame in CommissioneIl 24 settembre 2015 la I Commissione della Camera ha avviato l'esame di due proposte di legge costituzionali (A.C. 1978 e A.C. 3173) che intervengono in materia di vitalizi e trattamenti pensionistici dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali (vedi dossier n. 342). Lo stesso giorno la Commissione ha iniziato anche l'esame di 5 proposte di legge ordinaria vertenti nella stessa materia (pdl A.C. 1093 Grimoldi, 2409 Nuti, 2446 Piazzoni e 3140 Caparini e 3225 Richetti). L'esame di tali proposte è proseguito il 10 dicembre 2015, con l'abbinamento di altri 3 progetti di legge: C. 3276 Giacobbe, C. 3323 Sanna e C. 3326 Turco. La Commissione ha proceduto quindi ad una serie di audizioni informali svolte dal 19 gennaio 2016 al 26 maggio 2016. L'esame in sede referente è ripreso il 16 maggio 2017: nel corso dell'esame della pdl A.C. 2354 Lombardi, adottata in precedenza come testo base per il proseguo dell'esame di diverse pdl concenenti il trattamento economico e previdenziale spettante ai membri del Parlamento, la Commissione ha deciso di ridefinire il perimetro d'esame e di abbinare le proposte di legge sul trattamento economico dei parlamentari con quelle relative ai vitalizi. I due procedimenti legislativi, dunque, sono confluiti in un unico iter. Nella stessa seduta l'on. Lombardi ha rinunciato a svolgere la funzione di relatrice e il Presidente della Commissione ha conferito l'incarico di relatore all'on. Richetti. Nella seduta del 17 maggio il relatore, on. Richetti, ha proposto l'adozione - come testo base per il proseguimento dell'esame in sede referente - della pdl A.C. 3225 di cui è il primo firmatario. |
Contenuto della proposta di testo baseLa La proposta di legge AC 3225 proposta di legge A.C. 3225 (Richetti ed altri) è volta alla abolizione dei vitalizi dei parlamentari e all'estensione nei loro confronti del sistema previdenziale contributivo vigente per i dipendenti pubblici. La proposta prevede altresì che il nuovo sistema, interamente contributivo, si applichi integralmente non solo ai parlamentari in carica, ma anche a quelli cessati dal mandato che percepiscono gli assegni vitalizi o il trattamento previdenziale nella misura definita dalla disciplina vigente al momento della maturazione del diritto. E' disposta inoltre l'estensione di tale disciplina nei confronti dei consiglieri regionali, attraverso l'adozione di provvedimenti da parte delle regioni e delle province autonome. Sotto il profilo delle fonti, la materia del trattamento previdenziale di deputati e senatori, attualmente disciplinata da regolamenti interni delle Camere, viene definita con legge ordinaria. L'articolo 1 reca le finalità della proposta di legge in esame e l'Finalità ed ambito di applicazioneambito di applicazione. L'obiettivo del provvedimento consiste nell'abolizione degli assegni vitalizi e di ogni tipo di trattamento pensionistico vigente degli eletti, comunque esso sia denominato, e nella loro sostituzione con un trattamento previdenziale basato sul sistema contributivo vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali (comma 1). Per quanto riguarda l'ambito di applicazione, il medesimo articolo 1 (comma 2) chiarisce che la proposta di legge si applica a tutti gli eletti: a quelli in carica alla data di entrata in vigore della legge, a quelli eletti successivamente e a quelli cessati dal mandato. L'articolo 2 modifica la legge n. 1261 del 1965 che disciplina l'Indennità dei parlamentariindennità dei parlamentari in attuazione dell'art. 69 della Costituzione. Il dettato costituzionale sancisce il diritto dei parlamentari all'indennità e demanda alla legge ordinaria la relativa definizione. In attuazione di tale disposizione è stata emanata la legge n. 1261 del 1965, il cui articolo 1, comma 1, è modificato dalla disposizione in esame, la quale prevede che l'indennità sia costituita, oltre che da quote mensili comprensive anche del rimborso di spese di segreteria e di rappresentanza (come già stabilito dalla normativa vigente), anche da un trattamento previdenziale basato sul sistema contributivo vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali. La legge n. 1261 del 1965 stabilisce inoltre che l'indennità non può superare il trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzioni di presidente di Sezione della Corte di cassazione, diminuito del 10 per cento, e affida agli Uffici di Presidenza di stabilire in concreto l'importo dell'indennità (art. 1, comma 2, L. n. 1261/1965 e art. 1, comma 52, L. n. 266/2005).
In materia di trattamento previdenziale per i lavoratori dipendenti, si ricorda che l'art. 24 del D.L. 201/2011 (cd. Riforma Fornero), ha attuato una revisione complessiva del sistema pensionistico: in particolare, a decorrere dal 1° gennaio 2012:
Per quanto riguarda il sistema di calcolo contributivo, il comma 2 del richiamato articolo 24 del D.L. 201/2011 prevede, a decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità maturate a decorrere dalla medesima data, il calcolo della quota di pensione corrispondente a tali anzianità secondo il metodo di calcolo contributivo, calcolo pro-rata: il sistema di calcolo contributivo viene applicato ad una parte del montante complessivo (intendendo l'altra parte calcolata con il sistema retributivo, fino al 31 dicembre 2011).
Si ricorda che il sistema di calcolo contributivo del trattamento pensionistico, introdotto dalla L. 335/1995 (che prevedeva l'applicazione del sistema retributivo sino al 31 dicembre 1995 per i lavoratori che a tale data non avevano raggiunto i 18 anni di contributi), differendo dal sistema retributivo, non lega la prestazione pensionistica alla retribuzione, ma la vincolata alla contribuzione accreditata a favore del dipendente nell'arco dell'intera sua vita lavorativa. L'importo della pensione si ottiene quindi moltiplicando il montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all'età del dipendente alla data di decorrenza della pensione, al fine di ottenere l'importo attualizzato della pensione annua; in altri termini è la percentuale per la quale si moltiplicano i contributi accumulati in tutta la vita lavorativa al fine di determinare l'importo dell'assegno pensionistico. Tale indice è determinato tenendo conto della speranza di vita media alla pensione e incorporando il tasso di crescita del PIL di lungo periodo
Il testo del citato comma 2 è stato successivamente integrato dall'art. 1, c. 707, della L. 190/2014 (Stabilità 2015) il quale ha disposto che, in ogni caso, l'importo complessivo del trattamento pensionistico non possa eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l'applicazione delle regole di calcolo (retributivo) vigenti prima della data di entrata in vigore del medesimo D.L. n. 201/2011, computando, ai fini della determinazione della misura del trattamento, l'anzianità contributiva necessaria per il conseguimento del diritto alla prestazione, integrata da quella eventualmente maturata fra la data di conseguimento del diritto e la data di decorrenza del primo periodo utile per la corresponsione della prestazione stessa.
Si ricorda infine che il comma 708 del medesimo art. 1 della L. 190/2014 stabilisce che il richiamato limite si applichi ai trattamenti pensionistici (compresi quelli già liquidati al 1° gennaio 2015) con effetto a decorrere dal 1° gennaio 2015. Resta in ogni caso fermo il termine di 24 mesi di cui al primo periodo del comma 2 dell'articolo 3 del D.L. n. 79/1997, per le modalità di liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, per i lavoratori che accedono al pensionamento a età inferiore a quella corrispondente ai limiti di età, con esclusione delle cause di cessazione per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente.
L'articolo 3 prevede l'Adeguamento da parte del regioni e delle province autonomeadeguamento alle disposizioni della legge da parte delle regioni e delle province autonome, quale principio di coordinamento della finanza pubblica. Le regioni e le province autonome dovranno adottare propri provvedimenti in tal senso entro 6 mesi. In caso di inadempienza si prevede quale sanzione la riduzione dei trasferimenti statali a qualunque titolo spettanti alle regioni, in misura proporzionale ai mancati risparmi derivanti dal mancato adeguamento, con una disposizione analoga a quella dell'art. 2 del D.L. 174/2012.
Si ricorda che, a livello regionale, sono state approvate da parte delle regioni, negli ultimi anni, previsioni normative volte a superare l'istituto degli assegni "vitalizi" per i consiglieri regionali e a ridisciplinare l'intera materia. Per la disciplina in materia del trattamento pensionistico dei consiglieri regionali si veda la sintesi pubblicata del sito della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle regioni e delle province autonome.
E' stato inoltre adottato nel 2014 un ordine del giorno dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, volto ad individuare parametri minimi e comuni per le leggi regionali da adottare sull'istituto dell'assegno vitalizio, con l'obiettivo di disporre di un quadro interregionale omogeneo. Tale ordine del giorno prevede in particolare:
- che, a decorrere dall'entrata in vigore della legge regionale, l'assegno vitalizio compete ai consiglieri cessati dal mandato che abbiano compiuto 65 anni di età e che abbiano corrisposto il contributo per un periodo di almeno cinque anni di mandato svolto nel Consiglio regionale;
- la riduzione temporanea dei vitalizi (trienno 2015-2017) in base a percentuali ivi indicate.
A seguito dell'adozione del citato ordine del giorno sono state approvatediverse leggi regionali, tra cui:
Per la regione Sardegna l'Ufficio di presidenza ha approvato una delibera relativa al triennio 2015/2017.
Si ricorda infine che la lettera m) del comma 1 dell'art. 2 del DL 174/2012 - abrogando l'istituto degli "assegni vitalizi" per i consiglieri regionali - ha previsto il passaggio al sistema contributivo per il calcolo dei vitalizi dei consiglieri regionali, in aderenza con l' art. 14, co. 1, lett. f), del D.L. n. 138/2011, quale misura indispensabile per non incorrere nel mancato trasferimento di risorse erariali. L'articolo 14, co. 1, lett. f) del D.L. 138/2011 ha infatti disposto il passaggio, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso e con efficacia a decorrere dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore del decreto, al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali.
La norma esclude dall'ambito di applicazione della norma i "trattamenti già in erogazione" a decorrere dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto-legge.L'art. 2 richiede che venga data attuazione alle misure di risparmio entro il 23 dicembre 2012, ovvero, se sono necessarie modifiche statutarie, entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge (quindi entro l'8 giugno 2013). L'applicazione di gran parte delle disposizioni è condizione per la concessione di una serie di trasferimenti erariali alle regioni (al di fuori di quelli dovuti a titolo di finanziamento del trasporto pubblico locale, delle politiche sociali e del servizio sanitario regionale) a decorrere dal 2013. Inoltre, si prevede il commissariamento delle regioni in caso di mancata attuazione delle misure di risparmio (comma 5). Un'ulteriore sanzione consiste nella decurtazione di una quota dei trasferimenti erariali, corrispondente alla metà delle somme destinate per l'esercizio 2013 al trattamento economico complessivo spettante ai membri del consiglio regionale e di quelli della giunta.In base a tale disposizione, nelle more dell'attuazione del passaggio al sistema contributivo per i consiglieri, le regioni possono prevedere o corrispondere trattamenti pensionistici o vitalizi in favore di coloro che abbiano ricoperto la carica di presidente della regione, di consigliere regionale o di assessore regionale solo a condizione che abbiano compiuto 66 anni di età; abbiano ricoperto tali cariche, anche non continuativamente, per un periodo non inferiore a dieci anni.L'articolo 4 reca disposizioni in materia di Versamento dei contributi previdenzialiversamento dei contributi previdenziali, specificando che, ai fini della determinazione del trattamento previdenziale (di cui all'articolo 1 della legge 1261/1965, come modificato dall'articolo 2 del provvedimento in esame), i parlamentari siano assoggettati al versamento di contributi previdenziali trattenuti d'ufficio sull'indennità parlamentare (comma 1). E' inoltre previsto che, nel caso in cui i parlamentari optino (ai sensi dell'articolo 68 del D.Lgs. 165/2001) per il trattamento economico in godimento presso l'amministrazione di appartenenza, in luogo dell'indennità parlamentare, gli stessi possano chiedere di essere ammessi al versamento di contributi, allo scopo di ottenere la valutazione del mandato parlamentare ai fini previdenziali. In tal caso, le trattenute si effettuano sulle competenze accessorie (comma 2). L'articolo 5 prevede l'iIstituzione presso l'INPS di un'apposita gestione separatastituzione presso l'INPS di un'apposita gestione separata dei fondi destinati al trattamento previdenziale dei parlamentari. Nella suddetta gestione separata, dotata di autonomia finanziaria, contabile e di gestione, afferiscono le risorse destinate unicamente al trattamento previdenziale dei parlamentari (comprese le quote contributive a carico del parlamentare e dell'organo di appartenenza, di cui al successivo articolo 8, comma 3 – vedi infra), definite in sede di programmazione del bilancio di previsione della Camera e del Senato, nell'ambito della dotazione finanziaria triennale, e sono iscritte nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze in un apposito capitolo ("Gestione separata previdenza dei parlamentari presso l'INPS"), nell'ambito delle spese per il funzionamento degli organi costituzionali (comma 1). Come evidenziato nella relazione illustrativa, allo scopo anche di aumentare il grado di trasparenza del bilancio degli organi rappresentativi, le risorse sono trasferite al bilancio degli organi parlamentari e da questi all'INPS, con corrispondente riduzione del bilancio degli organi parlamentari.
La gestione delle summenzionate risorse è affidata ad un Consiglio di amministrazione, appositamente istituito, composto dal Presidente dell'INPS, che lo presiede, e da cinque rappresentanti degli organi interessati (individuati dai rispettivi Uffici di presidenza); i componenti del consiglio non percepiscono alcuna indennità, comunque denominata (comma 2).
Considerato il riferimento a "cinque" componenti, sembra intendersi che saranno designati dagli uffici di presidenza congiuntamente. L'articolo 6 stabilisce i requisiti per l'Requisiti per l'accesso al trattamento previdenzialeaccesso al trattamento previdenziale. Si ricorda che con deliberazioni del 14 dicembre 2011 e 30 gennaio 2012 l'Ufficio di Presidenza della Camera ha operato una profonda trasformazione del regime previdenziale dei deputati con il superamento dell'istituto dell'assegno vitalizio - vigente fin dalla prima legislatura del Parlamento repubblicano - e l'introduzione, con decorrenza dal 1° gennaio 2012, di un trattamento pensionistico basato sul sistema di calcolo contributivo, sostanzialmente analogo a quello vigente per i pubblici dipendenti.
Il nuovo sistema di calcolo contributivo si applica integralmente ai deputati eletti dopo il 1° gennaio 2012, mentre per i deputati in carica, nonché per i parlamentari già cessati dal mandato e successivamente rieletti, si applica un sistema pro rata, determinato dalla somma della quota di assegno vitalizio definitivamente maturato alla data del 31 dicembre 2011, e di una quota corrispondente all'incremento contributivo riferito agli ulteriori anni di mandato parlamentare esercitato. I deputati cessati dal mandato, indipendentemente dall'inizio del mandato medesimo, conseguono il diritto alla pensione al compimento dei 65 anni di età e a seguito dell'esercizio del mandato parlamentare per almeno 5 anni effettivi. Per ogni anno di mandato ulteriore, l'età richiesta per il conseguimento del diritto è diminuita di un anno, con il limite all'età di 60 anni. A tal fine, i deputati sono assoggettati d'ufficio al versamento di un contributo pari all'8,80 per cento dell'indennità parlamentare lorda. Analoghe misure sono state assunte con riferimento ai senatori: dal 1° gennaio 2012 è stato introdotto il nuovo trattamento previdenziale dei senatori, basato sul sistema di calcolo contributivo già adottato per il personale dipendente della Pubblica Amministrazione. Il diritto al trattamento pensionistico si matura al conseguimento di un duplice requisito, anagrafico e contributivo: l'ex parlamentare ha infatti diritto a ricevere la pensione a condizione di avere svolto il mandato parlamentare per almeno 5 anni e di aver compiuto 65 anni di età. Per ogni anno di mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno sino al minimo inderogabile di 60 anni. Coerentemente con quanto previsto per la generalità dei lavoratori, anche ai senatori in carica alla data del 1° gennaio 2012 è applicato un sistema pro rata: la loro pensione risulta dalla somma della quota di assegno vitalizio definitivamente maturato, al 31 dicembre 2011, e della quota di pensione riferita agli anni di mandato parlamentare esercitato dal 2012 in poi. La pensione pro rata non può superare in nessun caso l'importo massimo previsto dal previgente Regolamento per gli assegni vitalizi.
Come riportato anche nella Relazione illustrativa, viene dunque meno la possibilità, attualmente prevista dai Regolamenti di Camera e Senato in materia di trattamento previdenziale dei parlamentari, di scontare gli ulteriori anni di mandato, fino al massimo di cinque, dal computo dell'età pensionabile; attualmente, infatti, come si è detto, l'accesso al relativo trattamento è consentito al compimento del sessantacinquesimo anno di età, a seguito dell'esercizio del mandato parlamentare per almeno 5 anni effettivi, con possibilità di diminuire tale limite di età di un anno per ogni anno di mandato ulteriore, fino ad un limite di sessanta anni. Inoltre, viene confermata la possibilità (già prevista dai Regolamenti di Camera e Senato in materia di trattamento previdenziale dei parlamentari), ai fini della maturazione del diritto al trattamento, di computare come anno intero la frazione di anno superiore a sei mesi, con l'obbligo di versare i contributi per l'intero anno.
In materia di trattamento previdenziale per i lavoratori dipendenti, si ricorda che l'art. 24, c. 6, del D.L. 201/2011 (cd. Riforma Fornero), ha attuato una revisione complessiva del sistema pensionistico: in particolare, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere dal 1° gennaio 2012 (comma 6), disponendo l'innalzamento a 66 anni del limite minimo per accedere alla pensione di vecchiaia (sia per i lavoratori dipendenti sia per quelli autonomi), nonché l'anticipazione della disciplina a regime dell'innalzamento progressivo dell'età anagrafica delle lavoratrici dipendenti private al 2018 (in luogo del 2026) Più specificamente, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nei seguenti termini:
Si ricorda, inoltre, che nell'ambito degli interventi volti al progressivo innalzamento dei requisiti anagrafici per il diritto all'accesso dei trattamenti pensionistici, particolare importanza hanno assunto i provvedimenti volti ad adeguare i requisiti anagrafici per l'accesso al sistema pensionistico all'incremento della speranza di vita (accertato dall'ISTAT). Infine, si dispone che, in caso di annullamento dell'elezione di un parlamentare, al parlamentare che lo sostituisce è attribuita figurativamente la contribuzione relativa al periodo della legislatura compreso tra la data in cui si è verificata la causa di annullamento e la data del subentro, fermo restando il versamento per intero dei contributi da parte dello stesso (comma 3). Appare opportuno un chiarimento in ordine alla portata dell'inciso "fermo restando il versamento per intero dei contributi": la disposizione fa infatti riferimento ad un'ipotesi di contribuzione figurativa (che, nell'ordinamento giuridico, è di norma considerata "fittizia", in quanto i periodi di riferimento sono accreditati senza alcun onere a carico del lavoratore e del datore di lavoro).
L'articolo 7 prevede che la determinazione del trattamento previdenziale venga effettuata con il Applicazione del sistema di calcolo contributivosistema di calcolo contributivo vigente per la generalità dei lavoratori. Si ricorda che l'articolo 24, comma 2, del D.L. 201/2011, ha disposto, a decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità maturate a decorrere dalla medesima data, il calcolo della quota di pensione corrispondente a tali anzianità secondo il metodo di calcolo contributivo (calcolo pro-rata).
In particolare, il comma 1 dispone che il trattamento pensionistico dei parlamentari (che è corrisposto in 12 mensilità) sia determinato con il sistema contributivo, in particolare moltiplicando il montante individuale dei contributi per i coefficienti di trasformazione in vigore per i lavoratori dipendenti e autonomi, di cui alla tabella A dell'allegato 2 della L. 247/2007, in relazione all'età del parlamentare al momento del conseguimento del diritto alla pensione. La riforma della previdenza obbligatoria operata dalla L. 335/1995 (c.d. riforma Dini) ha introdotto il metodo di calcolo contributivo dei trattamenti pensionistici, in luogo del metodo retributivo. Muovendo dalla constatazione che il metodo retributivo costituisse una fonte di iniquità del sistema, sia intergenerazionale, sia interna a ciascuna generazione di percettori, tale legge ha introdotto un nuovo metodo di calcolo dei trattamenti pensionistici, mediante il quale si ritengono perseguibili, a regime, entrambi gli obiettivi della sostenibilità finanziaria del sistema e della equità nei rendimenti corrisposti.
Differentemente da quest'ultimo, il metodo contributivo, come prefigurato nei commi da 6 a 16 dell'articolo 1 della L. 335/1995, mette in relazione vita contributiva e trattamento previdenziale di ciascun soggetto: ciò comporta che, a regime, il pensionato riceverà un trattamento commisurato a quanto ha accumulato nel suo periodo attivo. E' però importante sottolineare che il nuovo sistema contributivo si muove sempre all'interno di un sistema previdenziale a ripartizione: la pensione è sì commisurata alla storia contributiva del lavoratore, ma è comunque pagata dalle entrate contributive correnti del sistema, che resta a pieno titolo un sistema pensionistico pubblico. Può dunque parlarsi di un sistema contributivo che funziona all'interno di un quadro ripartitorio pubblico. La totale diversità del nuovo metodo impose una sua introduzione graduale, delineata dai commi 12 e 13 dell'articolo 1, che in sostanza stabilirono una tripartizione del sistema di computo delle pensioni. In particolare: - per i lavoratori privi di anzianità contributiva alla data del 1° gennaio 1996 (c.d. neo-assunti) la pensione sarebbe stata calcolata interamente con il metodo contributivo; - per i lavoratori con una anzianità contributiva inferiore a 18 anni, la pensione sarebbe stata calcolata con il metodo del "pro-rata", cioè dalla somma di una quota, corrispondente alle anzianità anteriori al 31 dicembre 1995, determinata, (con riferimento alla data di decorrenza della pensione), con il metodo retributivo previgente alla predetta data e di una quota, corrispondente alle ulteriori anzianità contributive, calcolata con il sistema contributivo; - per i lavoratori con almeno 18 anni di anzianità, la pensione sarebbe stata liquidata interamente secondo il sistema retributivo. Negli ultimi due casi, fu prevista l'eventualità di liquidare il trattamento esclusivamente con le regole contributive, in conseguenza dell'esercizio della facoltà di opzione prevista dal comma 23 dell'articolo 1 della L. 335/1995, ai sensi del quale i lavoratori interessati potevano optare per l'integrale liquidazione della pensione con il metodo contributivo, se in possesso di una anzianità contributiva pari almeno a 15 anni, di cui almeno 5 nel nuovo sistema contributivo (cioè a partire dal 1° gennaio 2001, iniziando il nuovo sistema dal 1° gennaio 1996). Il secondo elemento innovatore, strettamente dipendente dalla scelta del metodo contributivo, è costituito dal meccanismo di funzionamento del metodo medesimo, incentrato sulla capitalizzazione (figurativa) dei contributi versati. In particolare, la capitalizzazione è effettuata secondo un indicatore oggettivo, costituito, secondo quanto puntualmente specifica l'articolo 1, comma 9, della L. 335/1995, dalla variazione media quinquennale del PIL nominale, calcolata con riferimento al quinquennio di ciascun anno da rivalutare. L'accumulo contributivo così capitalizzato dà luogo al "montante contributivo": quest'ultimo, rapportato ai divisori (cd. coefficienti di trasformazione) previsti dalla Tabella A allegata alla legge (e che sono anch'essi costituiti secondo un criterio oggettivo, rapportato alla speranza di vita del pensionato viene moltiplicato per i coefficienti di trasformazione), danno come prodotto l'ammontare della rendita pensionistica di ciascuno. E' importante sottolineare, coerentemente con quanto prima accennato in ordine al quadro ripartitorio pubblico in cui si muoveva il nuovo sistema, che la capitalizzazione di ciascuna contribuzione è di carattere figurativo, (è stata infatti definita come capitalizzazione simulata) poiché con i versamenti via via acquisiti si continuano a pagare le pensioni a carico del sistema. Più specificamente, il metodo contributivo presuppone che per ciascun destinatario venga istituita una sorta di conto di tipo patrimoniale, nel quale vengono accreditati anno per anno i contributi versati, che sono capitalizzati ad un tasso di rendimento pari al tasso di crescita del sistema economico; il processo è continuo, nel senso che il conto patrimoniale individuale si accresce anno per anno sia per effetto del versamento di nuovi contributi, sia per la rivalutazione di quelli già versati. Alla fine della vita lavorativa, l'interessato si vede accreditato una patrimonio finanziario (ovviamente di carattere nozionale e teorico, poiché nel frattempo i suoi contributi hanno pagato i trattamenti pensionistici correnti), che verrà distribuito sugli anni di godimento atteso della pensione. In questo punto si introduce il parametro del divisore, ovvero il numero utilizzato per trasformare il montante contributivo in rendita, che varia (principalmente, ma non soltanto) in relazione all'età di pensionamento: chi va in pensione in età più giovane ha infatti una speranza di vita maggiore, e di conseguenza, a parità di montante contributivo, gli si applicherà un divisore più elevato (cioè un minor coefficiente di trasformazione) e dall'operazione deriverà una rendita di minor ammontare rispetto a coloro che, con il medesimo montante, vanno in pensione in età più tarda Si ricorda che, nell'ambito del sistema contributivo di calcolo della pensione, il coefficiente di trasformazione è il valore al quale si moltiplica il montante individuale dei contributi al fine di ottenere l'importo attualizzato della pensione annua, in altri termini è la percentuale per la quale si moltiplicano i contributi accumulati in tutta la vita lavorativa al fine di determinare l'importo dell'assegno pensionistico. Ai sensi del comma 2, per le frazioni di anno si applica un incremento pari al prodotto tra un dodicesimo della differenza tra il coefficiente di trasformazione dell'età immediatamente superiore e il coefficiente dell'età inferiore a quella del parlamentare e il numero di mesi. L'articolo 8, comma 1, definisce le modalità di Determinazione del montante contributivo individualedeterminazione del montante contributivo individuale, individuato applicando alla base imponibile contributiva l'aliquota di cui al successivo comma 3. La contribuzione così ottenuta si rivaluta su base composta al 31 dicembre di ciascun anno, con esclusione della contribuzione dello stesso anno, al tasso annuo di capitalizzazione. Ai sensi del comma 2, la base imponibile contributiva viene determinata sulla base dell'indennità parlamentare, con esclusione di qualsiasi ulteriore indennità di funzione o accessoria. L'ammontare delle quote contributive a carico del parlamentare e dell'organo di appartenenza è pari a quello per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali, di cui all'articolo 2, comma 2, della L. 335/1995 (comma 3). Si ricorda che il richiamato articolo 2, comma 2, della L. 335/1995 ha stabilito l'obbligo, per le Amministrazioni statali, di versare una contribuzione, rapportata alla base imponibile, per un'aliquota di finanziamento, al netto di specifici incrementi contributivi, complessivamente pari a 32 punti percentuali (di cui 8,20 punti a carico del dipendente). Successivamente tale aliquota è stata portata, sulla base di una serie di interventi legislativi, al 33% (con l'8,80% a carico del lavoratore). Si osserva, sotto il profilo formale, l'opportunità di sostituire la dizione "quote contributive" con la dizione "aliquote contributive", peraltro già richiamata nel precedente comma 1 dello stesso articolo 8. Si ricorda inoltre che il richiamo all'art. 2 della L. 335/1995 va inteso come comprensivo anche delle successive modifiche normative intervenute. Il comma 4, infine, dispone il metodo di calcolo del tasso annuo di Tasso di capitalizzazione capitalizzazione (ricalcando anche in questo caso il metodo utilizzato per i lavoratori dipendenti), dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo nominale, calcolata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), con riferimento ai 5 anni precedenti l'anno da rivalutare. In occasione delle revisioni della serie storica del P.I.L. operate dall'ISTAT, il tasso di variazione da considerare ai fini della rivalutazione del montante contributivo è quello relativo alla serie preesistente anche per l'anno in cui si verifica la revisione e per quello relativo alla nuova serie per gli anni successivi. Nel sistema contributivo, il calcolo della pensione si basa sui contributi effettivamente versati dal lavoratore (e dal datore di lavoro) durante tutta la vita lavorativa.
In sostanza, ogni anno occorre:
- Tasso di sconto (tasso annuo di crescita del PIL di lungo periodo stimato) = + 1,5%.
L'articolo 9 reca norme in tema di Decorrenza del trattamento previodenzialedecorrenza dell'erogazione del trattamento previdenziale. In via generale, il comma 1 dispone che l'erogazione del suddetto trattamento decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale il parlamentare cessato dal mandato ha compiuto il sessantacinquesimo anno di età. I successivi commi 2 e 3 fissano termini diversi di decorrenza per determinate situazioni:
L'articolo 10 prevede la Sospensione del trattamentosospensione dell'erogazione del trattamento previdenziale del parlamentare in godimento in caso di elezione o nomina ad altra carica pubblica. Attualmente è prevista la sospensione del pagamento della pensione qualora il deputato sia rieletto al Parlamento nazionale, sia eletto al Parlamento europeo o ad un Consiglio regionale, ovvero sia nominato componente del Governo nazionale, assessore regionale o titolare di incarico istituzionale per il quale la Costituzione o altra legge costituzionale prevede l'incompatibilità con il mandato parlamentare. La sospensione è inoltre prevista in caso di nomina ad incarico per il quale la legge ordinaria prevede l'incompatibilità con il mandato parlamentare, ove l'importo della relativa indennità sia superiore al 50 per cento dell'indennità parlamentare. Tale regime di sospensioni costituisce una deroga rispetto alla normativa generale, nell'ambito della quale le ipotesi di divieto di cumulo della pensione con altri redditi sono state ormai abolite. L'articolo in esame non solo estende la sospensione a tutte le cariche incompatibili con il mandato parlamentare (sia quelle definite incompatibili per legge costituzionale, sia quelle per legge ordinaria) e a prescindere dall'ammontare dell'indennità, ma introduce la sospensione anche in relazione all'assunzione di qualsiasi altra carica, compresa quella di amministratore di enti pubblici o di enti privati in controllo pubblico. Tuttavia, in tal caso si ha la sospensione solamente se l'ammontare dell'indennità superi quella del trattamento previdenziale (comma 1). Nella relazione illustrativa della proposta di legge si fa presente che "non è stato inserito il divieto di cumulo di più trattamenti pensionistici derivanti da diverse cariche elettive, del resto non contemplato neanche dalla normativa vigente, in quanto il sistema contributivo delineato dalla proposta di legge avrebbe potuto determinare una sorta di ricongiungimento dei contributi versati, che potrebbe perfino risultare più oneroso per le finanze pubbliche".
Il comma 2 prevede che, una volta concluso l'incarico che ha provocato la sospensione dell'erogazione del trattamento previdenziale, questo riprende a partire alla cessazione dell'incarico medesimo. Inoltre, si dispone in ordine alla rivalutazione del trattamento previdenziale nei periodi di sospensione: nel caso di rielezione al Parlamento nazionale, il trattamento previdenziale è integrato da contributi dovuti nel corso del nuovo mandato, negli altri casi, è rivalutato alla stregua della legislazione vigente ai sensi dell'articolo 12 (vedi oltre). L'articolo 11 equipara il diritto alla Pensione ai superstitipensione ai superstiti alle condizioni previste per tutti i lavoratori. In particolare, si dispone che, in caso di morte del titolare del trattamento previdenziale (a condizione che al momento della morte il titolare sia in possesso dei requisiti contributivi indicati nel provvedimento in esame) trovino applicazione le disposizioni per i lavoratori dipendenti e autonomi di cui all'articolo 13 del R.D.L. 636/1939, e all'articolo 1, comma 41, della L. 335/1995, nonché le disposizioni vigenti ai fini della verifica dei requisiti previsti per l'accesso alla pensione ai superstiti, nonché al calcolo delle aliquote di reversibilità e alle modalità di liquidazione e di rivalutazione della pensione medesima. La pensione ai superstiti (di cui all'articolo 13 del R.D.L. 636/1939) del lavoratore subordinato è la prestazione che spetta al coniuge, ai figli e, in mancanza, ai genitori e (mancanti anche questi ultimi) ai fratelli e sorelle, ove ricorrano le condizioni e i requisiti che la legge richiede per ciascuna categoria di aventi diritto. La sua funzione è di assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita dei superstiti del lavoratore alla morte di quest'ultimo.
La pensione ai superstiti può essere di: - "reversibilità" se il defunto era già titolare di pensione diretta (vecchiaia, anzianità, invalidità del vecchio ordinamento, inabilità); "indiretta", se il defunto alla data del decesso poteva far valere i requisiti di assicurazione e di contribuzione.
Più specificamente, per la pensione di reversibilità i requisiti contributivi e assicurativi risultano soddisfatti se il defunto era già titolare di pensione diretta (vecchiaia, anzianità, inabilità, ma non dell'assegno ordinario di invalidità, che non è reversibile in quanto non ha natura di pensione), in caso di pensione indiretta i requisiti assicurativi e contributivi risultano soddisfatti se il defunto alla data della morte poteva far valere almeno i requisiti previsti per la pensione di vecchiaia anteriormente alla riforma di cui al D.Lgs. 503/1992, ossia almeno 15 anni, ovvero, a seconda della data del decesso, i requisiti previsti per l'assegno ordinario di invalidità o per la pensione di invalidità del vecchio ordinamento (sono pertanto necessari almeno 5 anni di assicurazione e da 52 a 156 contributi settimanali, a seconda della decorrenza).
La pensione spetta: al coniuge, anche se separato o divorziato, a condizione che abbia beneficiato di un assegno di mantenimento e non si sia risposato; ai figli (legittimi, legittimati, adottivi, naturali, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge) che alla data della morte del genitore siano minori, studenti, universitari o inabili e a carico del dante causa; ai nipoti minori che erano a carico della persona defunta. In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti, la richiamata pensione spetta, anche, ai genitori e ai fratelli e alle sorelle (questi ultimi solo se inabili e a carico).
Si ricorda che, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, della L. 125/2011, non hanno diritto alla fruizione della pensione in oggetto i familiari superstiti condannati per omicidio del pensionato o dell'iscritto; gli stessi soggetti, se già titolari di pensione ai superstiti, ne perdono il diritto dalla data di entrata in vigore della richiamata L. 125 (articolo 1, comma 2, della L. 125/2011).
La pensione ai superstiti di assicurato o di pensionato spetta nella misura del 60% al coniuge; 80% al coniuge con un figlio con i requisiti già richiamati; 100% al coniuge con due o più figli con i requisiti già richiamati.
Qualora abbiano diritto alla pensione soltanto i figli, i fratelli o le sorelle, o i genitori, si hanno le seguenti percentuali spettanti: un figlio: 60% (se trattasi di pensione avente decorrenza anteriore al 1° settembre 1995); 70% (per tutte le pensioni aventi decorrenza dal 1° settembre 1995 in poi).
L'articolo 12 equipara il Diritto alla rivalutazionediritto alla rivalutazione dei trattamenti previdenziali alle condizioni previste per tutti i lavoratori, disponendo che l'importo del trattamento previdenziale, determinato ai sensi degli articoli 7 e 8 del provvedimento in esame, è rivalutato annualmente ai sensi di quanto disposto per i lavoratori dipendenti e autonomi dall'articolo 11 del D.Lgs. 503/1992. L'articolo 11 del D.Lgs. 503/1992 dispone che gli aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali si applicano, con decorrenza dal 1994, sulla base del solo adeguamento al costo vita con cadenza annuale ed effetto dal primo novembre di ogni anno. Tali aumenti sono calcolati applicando all'importo della pensione spettante alla fine di ciascun periodo la percentuale di variazione che si determina rapportando il valore medio dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati, relativo all'anno precedente il mese di decorrenza dell'aumento, all'analogo valore medio relativo all'anno precedente. Si applicano inoltre i criteri e le modalità di cui ai commi 4 e 5 dell'articolo 24 della L. 41/1986 (rispettivamente, applicazione della percentuale di aumento sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti9, con riduzione della percentuale al 90% per le fasce di importo comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento minimo detta percentuale e al 75% per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo; determinazione delle variazioni dell'indice da effettuare tramite D.M.). Lo stesso articolo stabilisce altresì che ulteriori aumenti possano essere stabiliti con legge finanziaria in relazione all'andamento dell'economia e tenuto conto di specifici obiettivi rispetto al P.I.L.
L'articolo 13 reca una serie di Disposizioni transitorie e finalidisposizioni transitorie e finali.
In primo luogo, si dispone in ordine alla rideterminazione, da parte delle Camere, dell'ammontare di tutti gli assegni vitalizi e pensioni attualmente erogate, entro sei mesi, in modo da adeguarle alle nuove norme introdotte dal provvedimento in esame. In ogni caso l'importo non può essere inferiore a quello dell'assegno sociale (comma 1).
L'assegno sociale, istituito dall'articolo 3, comma 6, della L. 335/1995 (e che ha sostituito dal 1° gennaio 1996 la pensione sociale) è una prestazione economica, erogata a domanda, in favore dei cittadini che si trovano in condizioni economiche particolarmente disagiate con redditi non superiori alle soglie previste annualmente dalla legge.
La misura massima dell'assegno per il 2015 (circolare INPS n. 1/2015) è pari a 448,52 euro per 13 mensilità, con limite di reddito pari ad 5.830,76 euro annui.
Per quanto riguarda l'età pensionabile, si prevede che i parlamentari cessati dal mandato e che attualmente già beneficiano del vitalizio o della pensione continuino a percepire il trattamento previdenziale (ricalcolato con il sistema contributivo come previsto dal comma 1), anche se non hanno raggiunto i 65 anni di età (comma 2). Invece, gli ex parlamentari che non percepiscono ancora un trattamento previdenziale perché non hanno ancora raggiunto l'età pensionabile beneficeranno del nuovo trattamento previdenziale al compimento del sessantacinquesimo anno di età (comma 3).
Infine, il comma 4 reca una norma di chiusura che rinvia, per quanto non previsto dal provvedimento in commento, alle norme generali di disciplina del sistema pensionistico obbligatorio del lavoratori del settore statale.
L'articolo 14 dispone l'immediata entrata in vigore della legge. |
Necessità dell'intervento con leggeLa proposta di legge A.C. 3225 Richetti modifica la legge n. 1261 del 1965 che disciplina l'indennità dei parlamentari in attuazione dell'art. 69 della Costituzione. Tale articolo stabilisce che "i membri del Parlamento ricevono un'indennità stabilita dalla legge". La legge n. 1261 del 1965 attualmente fissa il tetto massimo per la diaria e per l'indennità dei parlamentari affidando alla determinazione degli Uffici di presidenza l'ammontare delle relative quote.La materia del trattamento previdenziale di deputati e senatori è stata finora disciplinata dai regolamenti parlamentari e dalle determinazioni degli Uffici di presidenza (l'assegno di fine mandato è stato istituito da delibere degli Uffici di presidenza della Camera e del Senato adottate rispettivamente il 30 e il 23 ottobre 1968, con le quali è stata definita la materia del trattamento previdenziale, più volte modificata) mentre con le proposte di legge in commento la materia viene per la prima volta definita con legge ordinaria. |
Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definiteLa proposta di legge interviene sulla disciplina dei vitalizi e dei trattamenti pensionistici dei consiglieri regionali e dei parlamentari, prevedendo l'adeguamento alle disposizioni fissate per i parlamentari anche da parte del regioni e delle province autonome in ossequio al principio del coordinamento della finanza pubblica. In proposito, si ricorda che la Corte Costituzionale è intervenuta con riferimento alle previsioni dell'art. 2, comma 1, del DL 174/2012 che recano un elenco di adempimenti a carico delle regioni quali condizioni necessarie per l'erogazione di una serie di trasferimenti erariali, dichiarando non fondate le questioni di legittimità poste con riguardo agli artt. 116 e 117 Cost. Si tratta, in particolare, delle disposizioni relative a: la fissazione del numero massimo dei consiglieri e degli assessori regionali; la commisurazione del trattamento economico dei primi all'effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio; la definizione dell'importo delle indennità di funzione e di carica, nonché delle spese di esercizio del mandato; la regolamentazione dell'assegno di fine mandato; il divieto di cumulo di indennità o emolumenti; l'obbligo di introdurre modalità di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo; la definizione dell'importo dei contributi in favore dei gruppi consiliari e delle spese per il relativo personale; il passaggio al sistema previdenziale contributivo dei consiglieri regionali e all'esclusione dell'erogazione del vitalizio in favore di chi sia stato condannato in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione. In proposito, la Corte Costituzionale (sentenza 23 del 2014) ha evidenziato come le previsioni del citato art. 2, comma 1, pur contenendo alcune previsioni puntuali, le configura non come obblighi bensì come oneri e non viene dunque utilizzata la tecnica tradizionale d'imposizione di vincoli alla spesa ma un meccanismo indiretto che lascia alle regioni la scelta se adeguarsi o meno, prevedendo, in caso negativo, la conseguenza sanzionatoria del taglio dei trasferimenti erariali. La Corte ha ricordato che possono essere ricondotti nell'ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica "norme puntuali adottate dal legislatore per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario, che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali" (sentenza n. 237 del 2009 e già sentenza n. 417 del 2005)» (sentenza n. 52 del 2010). Le prescrizioni del citato art. 2, comma 1, DL 174/2012, che costituiscono espressione di tale principio, nonché le conseguenze del mancato adeguamento, essendo legate al principio medesimo da un «evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione» (sentenze n. 16 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007), non possono considerarsi, secondo la Corte, una irragionevole limitazione dell'autonomia finanziaria regionale. |
Rispetto degli altri princìpi costituzionaliPer quanto concerne la natura giuridica del vitalizio, la Corte Costituzionale (in particolare nella sentenza n. 289 del 1994, peraltro antecedente alle recenti decisioni che ne hanno ridefinito requisiti e presupposti, introducendo un sistema contributivo che ne ha accentuato i caratteri previdenziali) ha rilevato come l'assegno vitalizio, a differenza della pensione ordinaria, viene a collegarsi ad una indennità di carica goduta in relazione all'esercizio di un mandato pubblico: indennità che, nei suoi presupposti e nelle sue finalità, ha sempre assunto, nella disciplina costituzionale e ordinaria, connotazioni distinte da quelle proprie della retribuzione connessa al rapporto di pubblico impiego. "La diversità tra assegno vitalizio e pensione - pur variando in relazione alla diversa tipologia dei vitalizi previsti dalla legislazione in vigore - assume, d'altro canto, un'evidenza particolare in relazione ai vitalizi spettanti ai parlamentari cessati dal mandato, dal momento che questo particolare tipo di previdenza ha trovato la sua origine in una forma di mutualità (Casse di previdenza per i deputati ed i senatori istituite nel 1956) che si è gradualmente trasformata in una forma di previdenza obbligatoria di carattere pubblicistico, conservando peraltro un regime speciale che trova il suo assetto non nella legge, ma in regolamenti interni delle Camere (v. il regolamento della previdenza per i deputati, approvato il 30 ottobre 1968, con successive modificazioni, ed il regolamento per la previdenza ed assistenza ai senatori e loro familiari, approvato il 23 ottobre 1968, con successive modificazioni)". "L'evoluzione che, nel corso del tempo, ha caratterizzato questa particolare forma di previdenza ha condotto anche a configurare l'assegno vitalizio - secondo quanto è emerso dai dati acquisiti presso la Presidenza delle due Camere - come istituto che, nella sua disciplina positiva, ha recepito, in parte, aspetti riconducibili al modello pensionistico e, in parte, profili tipici del regime delle assicurazioni private. Con una tendenza che di recente ha accentuato l'assimilazione del regime dei contributi a carico dei deputati e dei senatori a quello proprio dei premi assicurativi (v., in particolare, la delibera dell'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati n. 61/93 e del Consiglio di presidenza del Senato n. 44/93, dove si stabilisce, a fini fiscali, di includere i contributi stessi nella base imponibile dell'indennità parlamentare "in analogia ai premi assicurativi destinati a costituire le rendite vitalizie")." Per quanto riguarda i profili che attengono alla possibilità di privare i titolari di "trattamenti economici traenti titolo da un rapporto di lavoro" a seguito di una condanna a pena detentiva, si ricorda che la Corte Costituzionale (sentenza 3/1966), in relazione all'interdizione dai pubblici uffici (disciplinati dagli artt. 28 e 29 c.p.), ha evidenziato come l'art. 36 Cost. garantisce espressamente il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La Corte ha di conseguenza rilevato come non appaia dunque compatibile con i principi ispiratori di tale precetto costituzionale collegare indiscriminatamente (come faceva l'art. 28, n. 5, c.p., integrato dall'art. 29 c.p.), per il personale degli enti pubblici e i loro aventi causa, la perdita di tale diritto al fatto che il titolare di esso avesse riportato la condanna a una certa pena detentiva. La Corte ha precisato, in tale occasione, che non intende escludere in via assoluta la possibilità di misure del genere di quella in esame a carico di trattamenti economici traenti titolo da un rapporto di lavoro ma non può ritenersi conforme alla Costituzione che una sanzione siffatta venga collegata puramente e semplicemente all'entità della pena detentiva inflitta. E' stata inoltre ravvisato un contrasto con l'art. 3 Cost., considerato che la previsione codicistica si applicava soltanto ai lavoratori pubblici e non a quelli privati.
In seguito alla citata sentenza è stata approvata la legge n. 424 del 1966, che ha disposto l'abrogazione di tutte le disposizioni che prevedevano, a seguito di condanna penale o di provvedimento disciplinare, la riduzione o la sospensione del diritto del dipendente al conseguimento e al godimento della pensione e di ogni altro assegno od indennità da liquidarsi in conseguenza della cessazione del rapporto di dipendenza.
Successivamente la Corte Costituzionale si è espressa confermando, nella sostanza, il predetto orientamento (sentenze n. 83 del 1979 e n. 288 del 1983); al contempo (sentenza n. 113 del 1968) la Corte che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del numero 5 dell'articolo 28, secondo comma, c.p. «per quanto attiene alle pensioni di guerra». La Corte ha rilevato come, al riguardo, non vengono in rilievo gli artt. 36 e 38 Cost. in quanto se è vero che diverso è il presupposto che sostiene le due specie di concessioni – le pensioni privilegiate dei militari di carriera e le pensioni di guerra – e che quelle effettuate in dipendenza di eventi bellici, "non essendo collegate a vincoli discendenti da un preesistente rapporto di servizio consentono una più ampia discrezionalità del legislatore, cui rimane affidata, insieme alla decisione di indennizzare, facendone gravare l'onere sull'intera collettività nazionale, in applicazione di un principio solidaristico, i colpiti nell'integrità fisica a causa di eventi bellici, quella di determinare i limiti quantitativi dell'indennizzo, nonché le condizioni e le modalità per la sua attribuzione. Dal che deriva che nessun ostacolo di principio è invocabile che inibisca al legislatore di disporre la cessazione del diritto alla pensione per il sopravvenire di cause di indegnità connesse a reati"». In tale caso rileva peraltro, ad avviso della Corte, l'art. 3 Cost. in quanto «ragioni di gravi perplessità non possono non sorgere sulla ragionevolezza della diversità di trattamento che si viene a determinare fra i militari di carriera e quelli non professionali per il fatto che i primi, in quanto forniti di pensione privilegiata ordinaria, in funzione di pensione di guerra (ex art. 37 legge n. 313 del 1968) conservino il relativo diritto dopo la condanna a reati, pur se tali da importare degradazione o destituzione, mentre i secondi, in dipendenza degli stessi fatti o di fatti delittuosi assai meno gravi, ne vengono privati».
Si ricorda inoltre che la giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale, con riferimento ai principali profili della materia (natura dei contributi previdenziali, adeguatezza delle prestazioni ai sensi dell'articolo 38 Cost., limitazione di benefici precedentemente riconosciuti e conseguente discrezionalità del legislatore, tutela dell'affidamento dei singoli e sicurezza giuridica) riflette, sostanzialmente, l'evoluzione della legislazione pensionistica, segnata dall'inversione di tendenza operata a partire dalla metà degli anni '80 a fronte dell'esplosione della spesa e della necessità di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema. Negli anni '60 e '70 la Corte è impegnata soprattutto nel tentativo di dare razionalità a un quadro normativo assai complesso e articolato (ereditato in parte dalla legislazione fascista), che si caratterizza per le numerose sentenze "additive" (le c.d. sentenze che costano) con le quali, assumendo a parametro l'articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale), si procede ad adeguare le normative meno favorevoli a quelle più favorevoli, livellando verso l'alto prestazioni e benefici (tra le tante: sentenze n. 78 del 1967; n. 124 del 1968; n. 5 del 1969; n. 144 del 1971, n. 57 del 1973 e n. 240/1994).
Per quanto concerne, specificamente, la possibilità per il legislatore di modificare in senso peggiorativo i trattamenti pensionistici, la giurisprudenza di questo periodo (sentenze n. 26/80 e 349/85), facendo leva sugli articoli 36 e 38 Cost., porta sostanzialmente a ritenere che il lavoratore abbia diritto a "una particolare protezione, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, del quale lo stato di pensionamento costituisce un prolungamento ai fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa". A tale riguardo la Corte precisa, in particolare, che "proporzionalità e adeguatezza alle esigenze di vita non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta".
A partire dalla metà degli anni ‘80, la Corte fornisce il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie. Già nelle sentenze n. 180/1982 e n. 220/1988 la Corte afferma il principio della discrezionalità del legislatore nella determinazione dell'ammontare delle prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Le scelte del legislatore, volte a contenere la spesa (anche con misure peggiorative a carattere retroattivo), vengono tuttavia censurate dalla Corte laddove la normativa si presenti manifestamente irrazionale (sentenze n. 73/1992, n. 485/1992 e n. 347/1997).
Quanto alla natura dei contributi previdenziali, la Corte, pur con una giurisprudenza non sempre lineare (frutto del compromesso tra la logica mutualistica e quella solidaristica che, allo stesso tempo, informano il nostro sistema previdenziale), ha affermato che "i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicché i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi"; allo stesso tempo, però, per quanto i contributi trascendano gli interessi dei singoli che li versano, "essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali", ciò da cui discende che il legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n. 173/1986; si vedano anche, a tale proposito, le sentenze n. 501/1988 e n. 96/1991).
Per quanto concerne i trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente (sentenze n. 349/1985, n. 173/1986, n. 822/1998, n. 211/1997, n. 416/1999).
Per quanto concerne, specificamente, la giurisprudenza costituzionale relativa ai contributi di solidarietà sulle pensioni di importo elevato, la Corte ha sostenuto che il contributo può ritenersi misura consentita al legislatore purché non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza dell'operare dei principi di ragionevolezza, di affidamento e di tutela previdenziale, il cui rispetto è oggetto di uno stretto scrutinio di costituzionalità. A tale riguardo, si segnala, in primo luogo, la sentenza n. 146 del 1972, con cui la Corte ha rigettato la questione di costituzionalità dell'articolo unico della legge n. 369/1968, che introduceva un contributo di solidarietà progressivo (16% fino a 12 milioni; 32% da 12 a 18 milioni; 48% oltre 18 milioni), a carico dei trattamenti previdenziali superiori a 7.200.000 lire, finalizzato a contribuire all'istituzione delle pensioni sociali. In tale occasione la Corte osservava che la legittimità del contributo, di cui evidenziava il carattere tributario in forza della progressività delle aliquote e dall'assenza di limiti temporali, si legava al nesso teleologico tra il contributo medesimo e "la destinazione del relativo provento alla realizzazione di un interesse pubblico, quale la collaborazione all'apprestamento dei mezzi per l'attuazione di quel principio generale di sicurezza sociale, sancito dal primo comma dell'articolo 38 Cost., cui è appunto informata la istituzione delle pensioni sociali". Chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla stessa disposizione legislativa, con la sentenza n. 119/1981 la Corte, prendendo atto che nel frattempo il legislatore, dando attuazione all'articolo 53 Cost., aveva provveduto ad introdurre un'imposta personale progressiva (IRPEF, introdotta a decorrere dal 1° gennaio 1974), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del contributo di solidarietà limitatamente alla sua applicazione successivamente al 1° gennaio 1974. La Corte osserva che "le pensioni assoggettate alla "ritenuta" sono state, nel biennio che intercorre tra il 1 gennaio 1974 (inizio dell'applicazione dell'IRPEF) ed il 1 gennaio 1976 (cessazione dell'efficacia delle disposizioni istitutive del contributo di solidarietà), incise da un duplice prelievo per effetto di due concomitanti imposizioni, la cui progressività, caratteristica di entrambe, non è stata nemmeno coordinata. Appare in conseguenza vulnerato il principio dell'eguaglianza in relazione alla capacità contributiva, sancito dagli artt. 3 e 53 della Costituzione, atteso che, nei confronti dei titolari di altri redditi, e più specificamente di redditi da lavoro dipendente (cui la pensione, ai fini dell'applicazione dell'IRPEF, è assimilata), i titolari delle pensioni su cui si è applicato tanto l'IRPEF quanto la ritenuta a favore del Fondo sociale, sono stati, a parità di reddito e di capacità contributiva, colpiti in misura ingiustificatamente e notevolmente maggiore".
Successivamente, la Corte (ordinanza n. 22/2003, confermata dall'ordinanza n. 160/2007) ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 37 della legge n. 488/1999, con cui era stato introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2000 e per un periodo di tre anni, un contributo di solidarietà del 2 per cento sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a un massimale annuo (123 milioni di lire). Le motivazioni della decisione si fondano sul fatto che le risorse derivanti dal contributo di solidarietà hanno "concorso inizialmente ad alimentare un apposito fondo destinato a garantire misure di carattere previdenziale per i lavoratori temporanei" e, successivamente, sono state "acquisite alle gestioni previdenziali obbligatorie". La Corte osserva, in particolare, che "il contributo di solidarietà, non potendo essere configurato come un contributo previdenziale in senso tecnico (sentenza n. 421 del 1995), va inquadrato nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'art. 23 della Costituzione, costituendo una prestazione patrimoniale avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori (sentenza n. 178 del 2000), con la conseguenza che l'invocato parametro di cui all'art. 53 Cost. deve ritenersi inconferente, siccome riguardante la materia della imposizione tributaria in senso stretto". La Corte aggiunge, poi, che la scelta discrezionale del legislatore "è stata operata in attuazione dei principi solidaristici sanciti dall'art. 2 della Costituzione, attraverso l'imposizione di un'ulteriore prestazione patrimoniale gravante solo su alcuni trattamenti previdenziali obbligatori che superino un certo importo stabilito dalla legge, al fine di concorrere al finanziamento dello stesso sistema previdenziale.
Più di recente, la Corte costituzionale è tornata sul tema con la sentenza n. 116/2013, con cui ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. La Corte, assumendo che il contributo di solidarietà ha natura tributaria e, quindi, deve essere commisurato alla capacità contributiva ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione, ha ritenuto che la disposizione violi il principio di uguaglianza e i criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio. Secondo la Corte, infatti, "[…] trattasi di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi". La Corte nell'evidenziare anche come sia stato adottato un criterio diverso per i pensionati rispetto a quello usato per gli altri contribuenti, penalizzando i primi, osserva che "i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento" e che "a fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici", con ciò portando a "un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita". La Corte aggiunge, poi, che "nel caso di specie, il giudizio di irragionevolezza dell'intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 30/2004 e ordinanza n. 166/2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro". Infine, con la sentenza n. 173 del 2016 la Corte Costituzionale è intervenuta nuovamente sul contributo di solidarietà (variabile tra i 6 e il 18 per cento), introdotto dalla legge di stabilità 2014 (art. 1, co. 486, L. 147/2013) per il triennio 2014-2016 sulle pensioni di importo più elevato, dichiarando le questioni poste non fondate. In particolare la Corte costituzionale ha precisato come: a) il citato contributo di solidarietà nulla ha a che vedere con il precedente contributo perequativo dichiarato costituzionalmente illegittimo; b) il citato contributo non ha natura tributaria ma ha natura di solidarietà previdenziale, restando lo stesso all'interno del sistema previdenziale, in quanto prelevato direttamente dall'INPS ed altri enti previdenziali; c) incidendo sulle pensioni più elevate rispetta il principio di proporzionalità; d) trattasi di misura una tantum e non di misura che alimenta il sistema previdenziale in via definitiva. Il ragionamento svolto dalla Corte sottolinea, pertanto, che il contributo "deve operare all'interno dell'ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà forte (...) e di sostegno ai più deboli, anche in un'ottica di mutualità intergenerazionale". Anche in un contesto di crisi il contributo deve costituire "una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza". Affinché il prelievo sia solidale e ragionevole, "non può, altresì, che incidere sulle pensioni più elevate" e "le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità". In materia di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, l'ordinanza n. 256 del 2001 e la sentenza n. 316 del 2010 hanno ritenuto la compatibilità costituzionale di fattispecie caratterizzate dalla durata annuale della sospensione e dalla limitazione del campo di applicazione a pensioni notevolmente superiori al minimo INPS.
Successivamente con la sentenza n. 70 del 2015 la Corte ha valutato come illegittimo, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., l'azzeramento della rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013 prescritto dall'art. 24, comma 25, del D.L. n. 201 del 2011 per le pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo INPS. La Corte, nel ripercorrere l'evoluzione della disciplina, ha sottolineato la propensione del legislatore a tutelare integralmente «soltanto le fasce più basse (…) dall'erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni». Ad avviso della Corte, la censurata misura del 2011 si è palesemente discostata dagli scrutinati precedenti legislativi sia perché aveva una durata biennale, sia perché – realizzando un'indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo ed escludendo la rivalutazione per le pensioni superiori a euro 1.217 netti – colpiva anche trattamenti di importo non elevato. La contestata scelta legislativa non ha ascoltato il monito lanciato dalla sentenza n. 316 del 2011, secondo cui «la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità» delle pensioni, comprese quelle «di maggiore consistenza». Il Collegio ha poi sostenuto che «la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica», volto a garantirne nel tempo l'adeguatezza; essa, pertanto, «si impone (…) sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario», secondo un «progetto di eguaglianza sostanziale (…) così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici» e l'«adozione di misure disomogenee e irragionevoli». Il comma 25 dell'art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 ha valicato «i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con "irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività"». Avuto riguardo alle garanzie offerte dagli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., il legislatore è tenuto a «proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di spesa». L'impugnata disposizione si è limitata a «richiamare genericamente la "contingente situazione finanziaria", senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi». L'interesse dei pensionati (pur titolari di modesti trattamenti) «alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite» ed il correlativo diritto «costituzionalmente fondato» ad una «prestazione previdenziale adeguata» sono risultati perciò «irragionevolmente» sacrificati «nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio». In tal modo, sono stati illegittimamente «intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l'adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.)», quest'ultimo «da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale».
Da ultimo, la Consulta, nella citata sentenza n. 173 del 2016, ha giudicato la conformità al dettato costituzionale della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici che la citata legge di stabilità 2014 ha previsto in misura progressivamente decrescente (dal 100 al 40 per cento) in corrispondenza all'importo del trattamento pensionistico, rispettivamente, superiore da tre a sei volte il trattamento minimo INPS, non trattandosi di un blocco integrale ma di una rimodulazione conforme ai principi di proporzionalità e di adeguatezza.
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Compatibilità con la Convenzione europea dei diritti umani (a cura dell'Avvocatura della Camera dei deputati)Il principio del legittimo affidamento nella giurisprudenza della Corte EDU è ben consolidato ed è ricondotto a due principi, l'equità del processo (art. 6 della Convenzione) e al diritto di proprietà (art. 1 del Protocollo addizionale 1). Al riguardo, si può citare la sentenza Beyeler c. Italia del 5 gennaio 2000, nella quale la Corte ha ritenuto che l'aspettativa di profitto sia un concetto che rientra nella nozione di "bene" e che pertanto esso può essere sacrificata e compressa solo in presenza di imperiose e motivate esigenze d'interesse pubblico e sempre che il sacrificio imposto sia proporzionato alle esigenze da soddisfare. Più di recente, nella sentenza Agrati e altri c. Italia del 7 giugno 2011, la Corte ha chiarito che anche l'aspettativa di incassare una somma derivante da un reclamo per il quale si è ottenuta una sentenza giudiziale anche non definitiva è legittima e rientra nella nozione di bene. Analogamente, nella sentenza Centro Europa 7 c. Italia del 7 giugno 2012 la Corte ha ribadito che rientra nella nozione di bene ai sensi dell'articolo 1 Protocollo addizionale 1 anche la legittima aspettativa da attività imprenditoriale. In tutti questi casi la Corte è pervenuta a condannare l'Italia per la violazione dell'articolo 1 Protocollo 1, poiché il comportamento (latamente considerato) delle autorità italiane aveva illegittimamente compresso l'integrità dei beni dei ricorrenti. Nel caso Agrati, inoltre è stata constata anche la violazione del giusto processo di cui all'articolo 6 della Convenzione, a motivo che il mutamento di normativa intervenuto medio tempore aveva interferito indebitamente nel contenzioso in corso alterando il rapporto tra le parti processuali e con lo scopo di vincolare la decisione giudiziale a favore di una di esse. |