Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Titolo: Contratto di lavoro a tutele crescenti - Schema di D.Lgs. n. 134 (art. 1, comma 7, lettera c), L. 183/2014) - Schede di lettura
Riferimenti:
SCH.DEC 134/XVII     
Serie: Atti del Governo    Numero: 137
Data: 16/01/2015
Descrittori:
CONTRATTI DI LAVORO   L 2014 0183
TUTELA DEI LAVORATORI     

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Atti del Governo

 

Contratto di lavoro a tutele crescenti

 

Schema di D.Lgs. n. 134

(art. 1, comma 7, lettera c), L. 183/2014)

Schede di lettura

 

 

 

 

 

n. 137

 

 

 

 

 

 

16 gennaio 2015

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Lavoro

( 066760-4974/ 066760-4884 – * st_lavoro@camera.it

 

 

 

 

 

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File: LA0367.docx


INDICE

 

Schede di lettura

§  PREMESSA  3

§  Art. 1 (Campo di applicazione) 5

§  Art. 2 (Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale) 8

§  Art. 3 (Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa) 10

§  Art. 4 (Vizi formali e procedurali) 16

§  Art. 5 (Revoca del licenziamento) 17

§  Art. 6 (Offerta di conciliazione) 18

§  Art. 7 (Computo dell’anzianità negli appalti) 21

§  Art. 8 (Computo delle indennità per frazioni di anno) 22

§  Art. 9 (Piccole imprese e organizzazioni di tendenza) 23

§  Art. 10 (Licenziamento collettivo) 26

§  Art. 11 (Rito applicabile) 29

§  Art. 12 (Entrata in vigore) 31

 

 

 


Schede di lettura

 


PREMESSA

Lo schema di decreto legislativo n. 134, composto di 12 articoli, è adottato in attuazione dell’articolo 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183/2014, che ha delegato il Governo alla “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”.

 

Per quanto riguarda le modalità di esercizio della delega, il comma 10 prevede che il decreto legislativo venga adottato nel rispetto della procedura di cui all’articolo 14 della legge n.400 del 1988[1].

 

Il comma 11 dispone che lo schema di decreto legislativo deve essere corredato di relazione tecnica (che dia conto della neutralità finanziaria dei medesimi ovvero dei nuovi o maggiori oneri da essi derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura). Lo schema di decreto, a seguito di deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri, è trasmesso alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perché su di esso siano espressi, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, i pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari. Decorso tale termine, il decreto è emanato anche in mancanza dei pareri.

 

Il parere parlamentare dovrà pertanto essere espresso entro il 12 febbraio 2015.

 

Il comma 12 prevede che dall'attuazione delle deleghe non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tale fine, per gli adempimenti previsti dai decreti legislativi attuativi, le amministrazioni competenti provvedono attraverso una diversa allocazione delle ordinarie risorse umane, finanziarie e strumentali, allo stato in dotazione alle medesime amministrazioni. Si prevede, inoltre, che qualora uno o più decreti attuativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri siano emanati solo successivamente o contestualmente all'entrata in vigore dei provvedimenti legislativi, ivi compresa la legge di stabilità, che stanzino le occorrenti risorse finanziarie.

 

Il comma 13 prevede che entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti di cui al comma 1, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi fissati dalla presente legge, il Governo può adottare, con la medesima procedura di cui ai commi 1 e 2, disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi, tenuto conto delle evidenze attuative nel frattempo emerse.

 

Il comma 15 prevede che le legge e i decreti legislativi di attuazione entrino in vigore il giorno successivo a quello della loro pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

 


Art. 1
(Campo di applicazione)

 

L’articolo 1 definisce l’ambito applicativo del provvedimento.

 

Il comma 1 prevede che il nuovo regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo trovi applicazione per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri (non, quindi, per i dirigenti[2]) assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo.

 

In linea generale, andrebbe chiarito se il provvedimento delinei una nuova tipologia contrattuale a tempo indeterminato (come sembrerebbe desumersi dalla legge delega[3] e dal titolo del provvedimento[4]) ovvero preveda (come sembrerebbe desumersi dal contenuto del provvedimento[5] e dal fatto che non trovi applicazione per i lavoratori di qualifica dirigenziale) una nuova disciplina, relativamente alle nuove assunzioni effettuate con il vigente contratto a tempo indeterminato, delle sole conseguenze del licenziamento illegittimo. In tale seconda ipotesi, resterebbero ferme tutte le disposizioni che (escludendo unicamente i profili relativi alle conseguenze del licenziamento illegittimo) disciplinano tale tipologia contrattuale (es. periodo di prova).

In particolare, si rileva l’opportunità di chiarire se la nuova disciplina tiene comunque fermi i regimi speciali di libera recedibilità (recesso ad nutum) attualmente previsti per prestatori di lavoro domestico[6], sportivi professionisti[7] e, in particolare, lavoratori assunti in prova[8] e lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile[9].

Con riferimento all’ambito di applicazione soggettivo del provvedimento, si rileva l’opportunità di chiarire se esso trova applicazione per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni[10] (in primo luogo per quanto concerne i licenziamenti disciplinari illegittimi), eventualmente prevedendo – nel caso si volesse limitarne l’applicazione al settore privato e, in ogni caso, al fine di evitare incertezze interpretative - una apposita clausola di esclusione.

 

Al riguardo si fa presente che in mancanza di una previsione normativa che limiti l’applicazione del provvedimento al settore privato, esso sembrerebbe - alla luce dei principi desumibili dalla normativa vigente, come interpretata dalla giurisprudenza - trovare diretta applicazione nel settore pubblico, quanto meno con riferimento alla disciplina dei licenziamenti disciplinari individuali illegittimi.

L’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n.165/2001[11] prevede, infatti, che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”; il successivo articolo 51, comma 2, del medesimo decreto legislativo n.165/2001, aggiunge che “La legge n.300/1970 e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”[12].

La diretta applicabilità del provvedimento in esame al settore pubblico in mancanza di una clausola espressa di esclusione, potrebbe desumersi anche dalla legge n.92/2012[13], che ha, tra l’altro, riscritto l’articolo 18 della legge n.300/1970, riducendo l’area della tutela reale in caso di licenziamenti illegittimi. Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della legge, i commi 7 e 8 dell’articolo 1 hanno previsto che “le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni” e che “il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”. Nonostante il fatto che le norme di armonizzazione non siano state (fin qui) adottate, la giurisprudenza maggioritaria[14] ritiene infatti direttamente applicabili al pubblico impiego le disposizioni della legge n.92/2012 che hanno riscritto l’articolo 18 della legge n.300/1970 (Statuto dei lavoratori), facendo leva sul principio generale codificato dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n.165/2001, in base al quale (come detto poc’anzi) i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle leggi (tra le quali rientra la legge n.300/1970 e la stessa legge n.92/2012 che l’ha modificata) sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa.

Merita segnalare, infine, che in altri casi nei quali il legislatore ha voluto escludere l’estensione al pubblico impiego di una legge volta a disciplinare “i rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, lo ha fatto attraverso una clausola di esclusione espressa, come nel caso del decreto legislativo n.276/2003 (attuativo della legge n.30/2003, c.d. legge Biagi), che ha introdotto nell’ordinamento una serie di nuove forme contrattuali flessibili, sancendo (articolo 1, comma 2) che “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”.

 

Il comma 2 dispone che la nuova disciplina dei licenziamenti trovi applicazione anche nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, commi 8 e 9, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (superamento della soglia dei 15 dipendenti).

 

L’articolo 18, commi 8 e 9, della legge n.300/1970 prevede che le disposizioni (recate da precedenti commi 4-7) sulla tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo) si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.


Art. 2
(Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale)

 

L’articolo 2 disciplina il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale, riproducendo sostanzialmente i contenuti della disciplina vigente, recata dall’articolo 18, commi 1-3, della legge n.300/1970, che prevede la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) del lavoratore illegittimamente licenziato.

 

Il comma 1 dispone che il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge[15], ovvero inefficace perché intimato in forma orale, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva (c.d. opting out) di cui al comma 3.

 

Il comma 2 prevede che il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto[16] maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso il risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità[17] della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

 

Il comma 3 riconosce al lavoratore, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, la facoltà (c.d. opting out) di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.


Art. 3
(Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa)

 

L’articolo 3 disciplina il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (c.d. licenziamento economico), giustificato motivo soggettivo o giusta causa (c.d. licenziamento disciplinare), nel senso di una riduzione dell’area della tutela reale (ossia della reintegrazione nel posto di lavoro) e, contemporaneamente, di un ampliamento dell’area della tutela obbligatoria (indennità) in caso di licenziamento illegittimo.

 

Il comma 1 regola la tutela obbligatoria, prevedendo che nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (licenziamento economico) o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (licenziamento disciplinare), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

 

Il comma 2 regola la tutela reale, limitandola alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (c.d. licenziamento disciplinare) in cui sia direttamente[18] dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento[19]; in tali casi il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 181/2000[20]. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione[21]. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3, ossia di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, non assoggettata a contribuzione previdenziale (c.d. opting out).

I licenziamenti illegittimi nella normativa vigente

Si distinguono tre tipologie di licenziamento illegittimo: il licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o per mancanza di giustificato motivo “soggettivo” (c.d. licenziamento disciplinare) e per mancanza di giustificato motivo “oggettivo” (c.d. licenziamento per motivi economici).

Nel caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo “soggettivo”, rispetto alla disciplina previgente, che prevedeva in ogni caso l’obbligo di reintegrazione del lavoratore nelle imprese oltre i 15 dipendenti (o oltre i 5 se si tratta di imprenditore agricolo), la legge n.90/2012 (legge Fornero) ha introdotto una distinzione tra:

·      mancanza di giusta causa o di giustificato motivo connessi a insussistenza del fatto contestato ovvero a fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti o dei codici disciplinari: in questi casi continua a valere la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente alla legge n.92/2012 nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

·      mancanza di giusta causa o di giustificato motivo connessi a tutte le restanti ipotesi: in questi casi non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (sempre prevista nelle imprese sopra i 15 dipendenti prima della legge n.92/2012) e il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro, riconosce un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale (in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo).

Nel caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giustificato motivo “oggettivo”, per effetto della legge n.92/2012 (legge Fornero) non trova più applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale; tuttavia, il giudice, nel caso in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo, può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) e riconoscere un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Giusta causa e giustificato motivo nella legge e nella giurisprudenza

Secondo la legge (art. 1 della legge n. 604/1966), il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato può avvenire solo per giusta causa o per giustificato motivo.

La nozione di giusta causa è contenuta nell'articolo 2119 del codice civile, ai sensi del quale ciascuna delle parti del rapporto di lavoro a tempo indeterminato può recedere dal contratto, senza preavviso, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. L'articolo precisa che non costituisce giusta causa il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. La giusta causa ricorre allorché siano commessi fatti di particolare gravità i quali, valutati oggettivamente e soggettivamente, sono tali da configurare una grave e irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto. A differenza dei comportamenti che costituiscono giustificato motivo soggettivo, che devono essere strettamente attinenti al rapporto contrattuale, secondo giurisprudenza e dottrina i comportamenti che integrano la giusta causa possono anche essere estranei alla sfera del contratto, ma idonei a produrre riflessi negativi nell’ambiente di lavoro e a deteriorare la fiducia insita nel rapporto di lavoro stesso.

Secondo la legge (articolo 3 della legge n. 604/1966) il licenziamento per giustificato motivo è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Secondo dottrina e giurisprudenza, nel primo caso ("notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro") ricorre l'ipotesi del c.d. giustificato motivo soggettivo. Poiché si parla di inadempimento, i fatti che lo configurano devono essere costituiti esclusivamente da comportamenti attinenti al rapporto di lavoro. L’inadempimento si caratterizza in questo caso per essere di minore gravità "quantitativa" rispetto a quello che costituisce giusta causa per il recesso. Peraltro, ove esso non abbia le caratteristiche per essere considerato “notevole”, potrà essere sanzionato solo da misure disciplinari.

Il giustificato motivo oggettivo, invece, è determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza in tali casi spetta al datore di lavoro l’onere di provare il nesso di causalità tra il licenziamento e la riorganizzazione del lavoro; il giudice può valutare l'effettiva sussistenza di tale nesso, ma non può sindacare il merito delle scelte imprenditoriali che portano al licenziamento.

Sulla nozione di “giustificato motivo oggettivo” si è nel tempo stratificata una ampia elaborazione giurisprudenziale che, in linea generale, tende a intendere i tre motivi di legittimità del licenziamento (ossia "attività produttiva”, “regolare funzionamento di essa” e “all’organizzazione del lavoro”) come tre profili di un unico parametro di valutazione. Relativamente ai profili di congruità e opportunità delle scelte del datore di lavoro e alla loro insindacabilità, l’orientamento prevalente si è consolidato  intorno alla difesa della discrezionalità e autonomia organizzativa derivante dall’articolo 41 della Costituzione (Cassazione 16 dicembre 2000, n.15894; Cassazione 7 gennaio 2002, n.88; Cassazione 16 maggio 2003, n.7717; Cassazione 7 gennaio 2004, n.28; Cassazione 17 gennaio 2008, n.811; Cassazione 27 ottobre 2009, n.22648).  Nell’ambito delle ragioni inerenti all’attività produttiva rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo per la più economica gestione dell’impresa (Cassazione 27 ottobre 2009, n.22648). Secondo una lettura di matrice economica, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo va valutato sotto il profilo della perdita attesa (costo-opportunità) che il datore subirebbe dal mantenimento in essere di un determinato rapporto di lavoro (teoria del firing cost). Altri osservano che ragionare in termini di perdita attesa (costo-opportunità) comporterebbe comunque l’attribuzione al giudice del potere di valutare se quel costo supera o meno la soglia ritenuta ragionevole. Un importante principio elaborato dalla giurisprudenza (che nel tempo ne ha definito contenuto e limiti) è quello del repechage, in base al quale il datore di lavoro è tenuto a trovare una occupazione alternativa nell’ambito della stessa impresa per evitare il licenziamento (che viene quindi relegato a extrema ratio). Più precisamente, l’onere probatorio a carico del datore relativamente alla stretta necessità del licenziamento dovrebbe essere assolto mediante fatti positivi (e non semplici presunzioni), quali la piena occupazione di altri posti di lavoro con mansioni equivalenti, la non assunzione di altri lavoratori per la medesima qualifica per un periodo di tempo congruo, la contrazione del mercato di riferimento (per una ricognizione delle pronunce in materia di repechage, v. Cassazione 7 agosto 1998, n.7755; nel senso della limitazione del repechage a mansioni compatibili o equivalenti con la qualifica del lavoratore che si intende licenziare v. Cassazione 18 marzo 2009, n.6552; nel senso dell’estensione del principio di repechage anche a mansioni inferiori v. Cassazione 3 maggio 2005, n.9122 e 13 agosto 2008, n.21579).

Infine, si ricorda che alla tipizzazione delle condotte legittimanti il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo si provvede frequentemente nei contratti collettivi, ma tali previsioni non sono comunque vincolanti per il giudice.

 

Il comma 3 dispone (analogamente a quanto previsto dalla normativa vigente[22]) che la tutela reale (reintegrazione del lavoratore) trovi applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68[23].

 

Il comma 4 prevede che non trovi applicazione l’articolo 7 della legge n.604/1966, che definisce una specifica procedura di conciliazione per i licenziamenti economici individuali.

 

Al riguardo appare necessario sostituire le parole “non  trova applicazione” con le seguenti: “non si applica”.

 

L’articolo 7 della legge n.604/1966, introduce una procedura di conciliazione davanti alla Commissione provinciale di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro, che il datore di lavoro, avente i requisiti dimensionali previsti dall’articolo 18, comma 8, della L. 300/1970[24], deve obbligatoriamente esperire prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (c.d. licenziamento economico, ossia il licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa) e si configura, quindi, come condizione di procedibilità. Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l'affidamento del lavoratore ad un'agenzia per il lavoro (di cui all'art. 4, c. 1, lettere a), c) ed e), del D.Lgs. 276/2003[25]). È previsto che nel corso della procedura le parti possano farsi assistere da rappresentanti sindacali, avvocati o consulenti del lavoro. Il comportamento complessivo delle parti in tale sede è valutato dal giudice ai fini della determinazione dell'indennità risarcitoria e della condanna alle spese (o della compensazione, anche parziale, delle stesse).

La suddetta procedura non si applica in caso di licenziamento per il superamento del periodo di comporto di cui all'art. 2110 c.c.[26], di licenziamenti conseguenti a cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro[27], interruzioni di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere.

La stessa procedura si conclude entro venti giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l'incontro, fatta salva l'ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione volta al raggiungimento di un accordo. Se il tentativo di conciliazione fallisce e, comunque, decorso il termine di 7 giorni dalla ricezione della richiesta, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. La mancata presentazione di una o entrambe le parti al tentativo di conciliazione è valutata dal giudice ai sensi dell'articolo 116 del codice di procedura civile[28].

 

 

 


Art. 4
(Vizi formali e procedurali)

 

L’articolo 4 disciplina il licenziamento inficiato da vizi formali e procedurali. Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966[29] o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970[30], il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità[31], a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3.

 

Le uniche differenze sostanziali rispetto alla normativa vigente (di cui all’articolo 18, comma 6, della legge n.300/1970) sono date dalla riduzione dell’indennità risarcitoria (che la normativa vigente stabilisce tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità) e dal fatto che lo schema di decreto non prevede tra i motivi di inefficacia del licenziamento il mancato rispetto della procedura di conciliazione prevista dall’articolo 7 della legge n.604/1966, coerentemente con quanto previsto all’articolo 3, comma 4 (v. retro), che ne ha esclusa, in via generale, l’applicazione.


Art. 5
(Revoca del licenziamento)

 

L’articolo 5 prevede che nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto.

 

Tale disposizione riproduce, senza variazioni, il contenuto della corrispondente normativa vigente (articolo 18, comma 10, della legge n.300/1970).

 

 

 


Art. 6
(Offerta di conciliazione)

 

L’articolo 6 prevede una nuova ipotesi di conciliazione volontaria per la risoluzione stragiudiziale delle controversie sui licenziamenti illegittimi.

 

Il comma 1 prevede che il datore di lavoro può offrire al lavoratore (mediante consegna di un assegno circolare) entro il termine di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni dalla ricezione del recesso)[32] un importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La conciliazione deve avvenire in una delle sedi assistite di cui all’art. 2113, comma 4, del Codice civile o presso le commissioni di certificazione di cui all’articolo 82, comma 1, del decreto legislativo n.276/2003. L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinunzia alla impugnazione del licenziamento (anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta).

 

L’articolo 2113 c.c. e l’articolo 82 del D.Lgs. 276/2003 recano disposizioni in materia di rinunce e transazioni.

L’articolo 2113 c.c. prevede che le rinunce e transazioni aventi per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti le controversie individuali di lavoro non sono valide. L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza entro 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. Le rinunce e le transazioni richiamate possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c. (concernenti diversi tentativi di conciliazione, l’arbitrato di conciliazione e le altre modalità di conciliazione e arbitrato, anche previste dalla contrattazione collettiva).

 

L’articolo 82 del D.Lgs. 276/2003 dispone che le sedi degli organi abilitati alla certificazione dei rapporti di lavoro (di cui all’articolo 76 dello stesso D.Lgs. 276/2003)  siano anche competenti a certificare le rinunce e transazioni di cui all'articolo 2113 c.c., civile a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse. Al riguardo, trovano applicazione, in quanto compatibili, le procedure di certificazione di cui agli articoli 75-81 del medesimo D.Lgs. 276/2003.

 

Il comma 2 quantifica gli oneri derivanti dal comma 1 in 2 milioni di euro per l’anno 2015, 7,9 milioni di euro per il 2016 e 13,8 milioni di euro per il 2017, 17,5 milioni per il 2018, 21,2 milioni per il 2019, 24,4 milioni per il 2020, 27,6 milioni per il 2021, 30,8 milioni per il 2022, , 34 milioni per il 2023 e 37,2 milioni per il 2024, ponendoli a carico del fondo di cui all’articolo 1, comma 107, della legge n.190/2014 (legge di stabilità per il 2015)[33].

 

Il comma 3 prevede che l’attuazione dell’articolo 3 sia oggetto del sistema permanente di monitoraggio e valutazione istituito dall’articolo 1, comma 2, della legge n.92/2012.

 

Appare opportuno non prevedere in questa sede il rinvio al sistema permanente di monitoraggio e valutazione istituito dalla legge n.92/2012, in quanto tutte le disposizioni contenute nei decreti attuativi della delega (non solo, quindi, l’articolo 3 in esame) dovranno comunque essere oggetto del suddetto monitoraggio (secondo quanto previsto da uno specifico criterio di delega, ai sensi dell’articolo 1, comma 13, della legge n.183/2014).

 

L’articolo 1, commi 2-6, della L. 92/2012 (legge Fornero) ha previsto l’istituzione di un sistema permanente di monitoraggio e valutazione della legge, basato su dati forniti dall'Istituto nazionale di statistica (Istat) e da altri soggetti del Sistema statistico nazionale (Sistan), volto a verificare lo stato di attuazione degli interventi e a valutarne gli effetti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini e sulle modalità di entrata e di uscita nell’impiego. Al sistema di monitoraggio e valutazione, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali in collaborazione con le altre Istituzioni competenti, concorrono le parti sociali (attraverso le organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale dei lavoratori e dei datori di lavoro), nonché l’INPS e l’ISTAT, chiamati ad organizzare una banche dati informatizzate anonime (contenente i dati individuali anonimi, relativi ad età, genere, area di residenza, periodi di fruizione degli ammortizzatori sociali con relativa durata ed importi corrisposti, periodi lavorativi e retribuzione spettante, stato di disoccupazione, politiche attive e di attivazione ricevute), aperta ad enti di ricerca e università. Il sistema permanente di monitoraggio e valutazione è chiamato a produrre rapporti annuali sullo stato di attuazione delle singole misure. Dagli esiti del monitoraggio e della valutazione sono desunti elementi per l'implementazione ovvero per eventuali correzioni delle misure e degli interventi introdotti dalla presente legge, anche alla luce dell'evoluzione del quadro macroeconomico, degli andamenti produttivi, delle dinamiche del mercato del lavoro e, più in generale, di quelle sociali.

Successivamente, l’articolo 1, comma 13, della legge-delega n.183/2014 (in attuazione della quale è adottato il provvedimento in esame) ha esteso il sistema di monitoraggio previsto dalla legge n.92/2012 agli effetti dei decreti legislativi adottati per la sua attuazione, con particolare riferimento “agli effetti sull'efficienza del mercato del lavoro, sull'occupabilità dei cittadini e sulle modalità di entrata e uscita nell'impiego, anche ai fini dell'adozione dei decreti legislativi correttivi”.

 

 

 


Art. 7
(Computo dell’anzianità negli appalti)

 

 

L’articolo 7 prevede che ai fini del calcolo delle indennità dovute dal datore di lavoro[34] l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa che subentra nell’appalto si computa tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

 


Art. 8
(Computo delle indennità per frazioni di anno)

 

L’articolo 8 disciplina il computo delle indennità dovute dal datore di lavoro per frazioni di anno, prevedendo che le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.

 


Art. 9
(Piccole imprese e organizzazioni di tendenza)

 

L’articolo 9 disciplina l’applicazione della normativa nelle piccole imprese e nelle organizzazioni di tendenza.

 

Il comma 1 dispone, per le aziende fino a 15 dipendenti[35], la non applicabilità della tutela reale (reintegrazione del lavoratore) in caso di licenziamento disciplinare illegittimo e il dimezzamento delle indennità dovute dal datore di lavoro.

Si tratta dell’indennità di cui all’articolo 3, comma 1 (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità, per il licenziamento illegittimo per giustificato motivo soggettivo o giusta causa), di cui all’articolo 4 (una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, per il licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali) e importo di cui all’articolo 6 (offerta di conciliazione del datore di lavoro attraverso consegna al lavoratore di un importo pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità).

 

Al riguardo si osserva che la disposizione, non escludendo espressamente l’applicabilità alle piccole imprese (non solo del comma 2, ma anche) del comma 3 dell’articolo 3, potrebbe essere interpretata nel senso dell’introduzione per esse di un’area di tutela reale (reintegrazione del lavoratore), non prevista dalla normativa vigente, né richiesta dalla legge delega, nel caso di licenziamento illegittimo per motivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore.

Andrebbe chiarito, inoltre, se il dimezzamento valga come criterio di calcolo delle indennità[36] o solo con riferimento al limite minimo e al tetto massimo previsto per ciascuna indennità.

 

Il comma 2 prevede che la disciplina contenuta nel provvedimento si applichi anche alle c.d. organizzazioni di tendenza, ossia ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

 

La normativa vigente prevede una disciplina speciale per i licenziamenti dei lavoratori delle organizzazioni di tendenza. In caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, l’articolo 4 della L. 108/1990 esclude espressamente il reintegro nel posto di lavoro (cd. tutela reale), stabilendo che le disposizioni dell’articolo 18 della L. 300/1970 non si applicano ai “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto[37]”. Rimane comunque ferma l’applicabilità della tutela obbligatoria (obbligo al risarcimento del danno), così come previsto dall’art. 2 della stessa L. 108/1990[38].

La giurisprudenza ha tuttavia elaborato la fattispecie del licenziamento ideologico, irrogato per ragioni connesse alla tutela della “tendenza”, ossia quello comminato nel caso in cui non vi sia una piena adesione (originaria o sopravvenuta) da parte del dipendente alle finalità e all’etica dell’organizzazione. Nel caso delle organizzazioni di tendenza, il licenziamento ideologico si configura generalmente come legittimo poiché, essendo la finalità ideologica parte essenziale del contratto di lavoro, la relazione tra dipendente e datore di lavoro si fonda prevalentemente sull’affidamento che quest’ultimo ripone nelle qualità del lavoratore: se tale affidamento viene meno, il datore di lavoro può legittimamente recedere dal contratto. L’orientamento giurisprudenziale ritiene legittimo il licenziamento ideologico quando deriva dall’esercizio, da parte del dipendente, di diritti costituzionalmente garantiti (come, ad esempio, la libertà di opinione e di religione) negli stretti limiti in cui esso sia funzionale a consentire l’esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti (come la libertà dei partiti politici, dei sindacati, della scuola e la libertà religiosa)[39]. Bisogna però precisare che anche il licenziamento ideologico deve essere supportato da una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo, in assenza dei quali il licenziamento diviene illegittimo: l’esclusione della tutela reale di cui al citato articolo 4 della L. 108/1990 riguarda, infatti, esclusivamente il tipo di sanzione comminata per il licenziamento ingiustificato, non anche i criteri di valutazione della giustificazione addotta dal datore di lavoro, di cui va comunque verificata la sussistenza. Questo implica anche che il motivo ideologico addotto come giustificazione del licenziamento non può mai essere discriminatorio, ma deve essere “inerente all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3 della L. 604/1966)[40].

Va ricordato, inoltre, che un aspetto rilevante da considerare nello stabilire la tutela da accordarsi al lavoratore è il tipo di attività svolta da quest’ultimo all’interno dell’organizzazione di tendenza. Secondo parte della giurisprudenza[41], infatti, l’organizzazione di tendenza deve comunque reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nel caso in cui questo svolga mansioni non strettamente connesse alle finalità dell’organizzazione, ma meramente esecutive (cd. mansioni neutre). La suddetta differenziazione, però, non trova riscontro nella lettera dell’art. 4 della L. 108/90 che, nell’escludere la tutela reale, permette all’organizzazione di tendenza di interrompere il rapporto di lavoro per motivi ideologici senza distinguere in base alla natura delle mansioni[42].

 


Art. 10
(Licenziamento collettivo)

 

L’articolo 10 disciplina le conseguenze del licenziamento collettivo illegittimo, nel senso di una riduzione dell’area della tutela reale (ossia della reintegrazione nel posto di lavoro) e, contemporaneamente, di un ampliamento dell’area della tutela obbligatoria (indennità). In particolare, la disposizione prevede l’applicazione dell’articolo 2 (tutela reale) nel solo caso in cui il licenziamento sia stato intimato senza l’osservanza della forma scritta e l’applicazione dell’articolo 3, comma 1 (tutela obbligatoria) nel caso di violazione delle disposizioni relative alla procedura sindacale e ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.

 

 

Licenziamenti collettivi: la normativa vigente

 

L’istituto del licenziamento collettivo[43] è disciplinato principalmente dall’articolo 24 della L. 23 luglio 1991, n. 223. Le cause che giustificano il ricorso a tale istituto risiedono nella riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro e nella cessazione dell’attività.

L’ipotesi di licenziamento collettivo si verifica nel caso in cui le imprese che occupano più di 15 dipendenti, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendono effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco temporale di 120 giorni nell’unità produttiva oppure in più unità produttive dislocate nella stessa provincia.

La normativa si applica a tutti i licenziamenti che, nel medesimo arco temporale e nello stesso territorio siano riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione.

Qualora sia assente il requisito quantitativo o quello temporale, si applica invece la disciplina sui licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

E’ sempre obbligatoria la verifica della sussistenza di un nesso di causalità tra la trasformazione produttiva effettuata ed il ridimensionamento dei dipendenti (Cass., 4 dicembre 1998, n. 12297), nonché un nesso di congruità tra gli stessi (cioè una piccola trasformazione produttiva non può comportare un rilevante numero di licenziamenti). Spetta al datore di lavoro provare l’effettività e la definitività della diminuzione del fabbisogno di forza-lavoro, attraverso la mancata sostituzione dei lavoratori licenziati o l’assenza di ulteriori assunzioni.

Si ricorda che la procedura stabilita per il licenziamento collettivo è applicata anche alle aziende in CIGS, qualora nel corso o al termine del programma si verifichi la necessità di procedere anche ad un solo licenziamento.

La procedura è contenuta nell’articolo 4 della L. 223/1991, che disciplina la procedura per la dichiarazione di mobilità (identica in caso di licenziamenti collettivi). In particolare, tale procedura può essere avviata dall'impresa che sia stata ammessa alla CIGS, qualora nel corso di attuazione del programma - che l'impresa stessa intende attuare con riferimento anche alle eventuali misure previste per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale - ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative (comma 1).

La procedura (commi 2-13) consta in una fase cd. sindacale e in una fase cd. amministrativa, nel corso delle quali il datore di lavoro ed i sindacati tentano di trovare soluzioni alternative al licenziamento. Le imprese in primo luogo hanno l’obbligo di effettuare una comunicazione preventiva alle RSA e alle associazioni di categoria della loro intenzione di collocare i lavoratori in mobilità.

Il datore di lavoro imprenditore ha l’obbligo di versare un contributo d’ingresso (tale obbligo non sussiste per i datori di lavoro non imprenditori) e di comunicare alle RSA l’intenzione di ridurre il personale e di collocare i lavoratori in esubero in mobilità. Le RSA possono richiedere un esame congiunto della situazione con il datore di lavoro, al fine di trovare un accordo alternativo. Terminata tale fase, il datore comunica alla Direzione del lavoro competente l’esito dell’esame e i motivi dell’eventuale mancato accordo. Se l’esame sindacale non è stato fatto o non è stato trovato un accordo, la Direzione del lavoro può convocare le parti e tentare di trovare un ulteriore accordo. Se anche in questa fase non viene trovato un accordo alternativo alla messa in mobilità, il datore di lavoro può procedere al licenziamento del personale. L’inosservanza degli adempimenti procedurali comporta la violazione della procedura stessa e la conseguente inefficacia dei licenziamenti (Cass., 22 marzo 1999, n. 2701). In tal caso i lavoratori hanno diritto alla reintegrazione, da far valere mediante impugnazione del recesso entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale. Nei casi di inefficacia dei licenziamenti, per i datori di lavoro non imprenditori si applica la disciplina della tutela obbligatoria dei licenziamenti, di cui alla L. 604/1966, e non la tutela reale di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Più specificamente, il comma 9 del richiamato articolo 4 dispone l'ambito di applicabilità dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale, prescrivendo che, una volta raggiunto l'accordo sindacale sulle cause e sulla necessità di procedere in tal senso (ovvero esperita una diversa procedura presso gli uffici del lavoro), l'impresa comunichi entro 7 giorni ai destinatari l'intervenuto recesso nonché l'elenco, ai fini del collocamento in mobilità, agli uffici territoriali competenti ed alle associazioni di categoria. Il successivo comma 12 dell’articolo 4 dispone l’inefficacia delle richiamate comunicazioni nel caso in cui siano state effettuate senza l'osservanza della forma scritta e delle procedure previste dallo stesso articolo 4. In ogni caso, gli eventuali vizi della comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (con la quale inizia la procedura di licenziamento collettivo) sono sanabili, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della medesima procedura.

L’imprenditore è tenuto a fornire ai sindacati ed agli organi amministrativi una comunicazione relativa alle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Al riguardo, l’articolo 5 prevede che l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati, ovvero, in mancanza di contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative.

L’articolo 5, comma 3, disciplina le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti illegittimi o inefficaci intimati ai singoli lavoratori all’esito della procedura di licenziamento collettivo, prevedendo (in analogia con le disposizioni dell’articolo 18 della legge 300/1970) che:

    in caso di recesso intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18, comma 1, della L. 300/1970 (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione, comunque non inferiore a 5 mensilità);

    in caso di recesso intimato senza il rispetto della procedura sindacale prevista dall’articolo 4, comma 12, della L. 223/1991, si applica la tutela obbligatoria prevista per i licenziamenti economici dall’articolo 18, comma 7, terzo periodo, della L. 300/1970 (ossia indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale);

    in caso di recesso intimato violando i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità (elencati dall’articolo 5 della L. 223/1991), si applica la tutela reale prevista dall’articolo 18, comma 4, della L. 300/1970 (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilità).

In tali ipotesi, inoltre, ai fini dell’impugnazione dei licenziamenti, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 6 della L. 604/1966 (che prevede che il licenziamento debba essere impugnato con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare la volontà del lavoratore, entro 60 giorni dalla sua comunicazione per iscritto, e che nei successivi 180 giorni debba essere depositato il ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o debba essere comunicata alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione).

Tutti i lavoratori subordinati a tempo indeterminato, il cui rapporto sia cessato in ragione di un licenziamento collettivo sono collocati in mobilità, con diritto alla corresponsione della relativa indennità se in possesso di determinati requisiti di anzianità.


Art. 11
(Rito applicabile)

L’articolo 11 esclude per i licenziamenti oggetto del provvedimento l’applicazione dell'art. 1, commi da 47 a 68, della legge n.92/2012 (legge Fornero), con cui è stata introdotta una disciplina processuale speciale per le controversie derivanti dai licenziamenti di cui all'articolo 18 della legge n.300 del 1970.

 

L’articolo 1, commi 47-68 della L. 92/2012, ha disciplinato un rito speciale per le controversie relative all’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi previste dal nuovo art. 18 (licenziamento illegittimo) della L. 300/1970, nonché alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Più specificamente, è stato introdotto un rito particolarmente snello che elimina tutte le formalità procedurali ritenute non essenziali al contraddittorio.

La specifica disciplina procedurale, contenuta nei commi 48 e ss., si svolge essenzialmente in due fasi:

-      una prima fase, necessaria, volta ad assicurare una tutela urgente del lavoratore e che si conclude con una rapida decisione di accoglimento o meno della domanda;

-      una seconda fase, eventuale, che prende avvio con l’opposizione tramite ricorso avverso la decisione di accoglimento o rigetto (strutturata sul giudizio di merito di primo grado davanti al giudice del lavoro, già previsto dal codice di procedura civile).

La prima fase

In sintesi, l'atto con cui impugnare il licenziamento è il ricorso, che deve essere depositato nella cancelleria del Tribunale che giudicherà in funzione di giudice del lavoro. Il giudice fissa con decreto l'udienza entro 40 giorni (che decorrono dal giorno del deposito del ricorso). Fissata l'udienza, il ricorso ed il decreto di fissazione della data dell’udienza devono essere notificati dal lavoratore (anche via PEC) entro il termine fissato dal giudice stesso (non inferiore a 25 giorni prima dell'udienza) Il termine che invece il giudice assegna al resistente per la costituzione, deve essere non inferiore a 5 giorni prima dell'udienza richiamata (con ciò termina la prima fase). Il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti (o disposti d’ufficio) e provvede con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda.

Seconda fase (eventuale)

L’eventuale seconda fase inizia, appunto, con l’opposizione alla citata ordinanza davanti allo stesso giudice tramite ricorso, da depositare “a pena di decadenza entro 30 giorni dalla notificazione” del provvedimento opposto. Il giudice fisserà l’udienza di discussione non oltre i successivi 60 giorni. Il giudice dopo aver proceduto agli atti istruttori, decide senza formalità sull’opposizione con sentenza da depositare entro 10 gg in cancelleria.

Impugnazioni

Per quanto attiene le possibili impugnazioni, si dispone che, contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso reclamo davanti alla Corte d'appello entro 30 giorni dalla comunicazione (o dalla notificazione se anteriore). Nel giudizio d'appello, non sono ammessi nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile. La Corte d'appello fissa con decreto l’udienza di discussione nei successivi 60 giorni (nel qual caso trovano applicazione le specifiche norme previste dalla stessa L. 92/2012) e, in caso di gravi motivi, può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata. Omessa ogni formalità non essenziale, la Corte decide accogliendo o rigettando l’impugnazione con sentenza che va depositata in cancelleria nei successivi 10 giorni.

Nell’eventuale ulteriore fase del ricorso in cassazione contro la sentenza di appello, il ricorso va proposto, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla comunicazione della stessa (o dalla notificazione se anteriore). L’udienza di discussione del ricorso è fissata entro 6 mesi dalla proposizione del ricorso.


 

Art. 12
(Entrata in vigore)

L’articolo 12 prevede, in conformità a quanto stabilito dalla legge delega[44], che il decreto legislativo entri in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

 

 

 



[1]    L’articolo 14 della legge n.400 del 1988 prevede i decreti legislativi adottati dal Governo ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione sono emanati dal Presidente della Repubblica con la denominazione di «decreto legislativo» e con l'indicazione, nel preambolo, della legge di delegazione, della deliberazione del Consiglio dei ministri e degli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione. L'emanazione del decreto legislativo deve avvenire entro il termine fissato dalla legge di delegazione; il testo del decreto legislativo adottato dal Governo è trasmesso al Presidente della Repubblica, per la emanazione, almeno venti giorni prima della scadenza. Se la delega legislativa si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti predetti. In relazione al termine finale stabilito dalla legge di delegazione, il Governo informa periodicamente le Camere sui criteri che segue nell'organizzazione dell'esercizio della delega.

[2]    Si ricorda che ai sensi dell’articolo 2118 del Codice civile per i dirigenti trova tuttora applicazione il regime di libera recedibilità delle parti (c.d. recesso ad nutum). È ammessa l'introduzione di clausole limitative del licenziamento dei dirigenti ad opera dei contratti collettivi (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 7295 del 9 dicembre 1986). Il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (c.d. "tutela reale" ai sensi dell'articolo 18 della L. 300/1970) è stato esteso ai dirigenti nel solo caso di licenziamento "discriminatorio” dall’articolo 3 della legge n.108/1990.

[3]    Si ricorda, al riguardo che l’articolo  1, comma 7, lettera c) della legge n. 183/2014, ha delegato il Governo alla “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio”.

[4]    Il titolo è “Disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”.

[5]    Al riguardo si fa presente che la denominazione “contratto a tutele crescenti” non è mai  presente nel testo del provvedimento, il quale si limita a disciplinare le conseguenze dei licenziamenti dichiarati nulli, illegittimi e inefficaci, senza intervenire su altri profili contrattuali.

[6]    Articolo 4, comma 1, della legge n.108/1990.

[7]    Articolo 4, comma 8, della legge n.91/1981.

[8]    Articolo 10 della legge n.604/1966.

[9]    Articolo 4, comma 1, della legge n.108/1990.

[10]   Si fa presente che l’Analisi di impatto della regolamentazione  (allegata al provvedimento, Sezione I, lettera D) prevede che “i principali destinatari del provvedimento sono i datori di lavoro privati”.

[11]   “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”.

[12]   La diretta applicabilità al settore pubblico dell’articolo 18 della legge n.300/1970 è stata ritenuta pacifica dalla giurisprudenza: per tutte, v. Corte di Cassazione, Sezione lavoro. 1 febbraio 2007, n.2233.

[13]   “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” (c.d. legge Fornero).

[14]   Merita sottolineare, inoltre, che successivamente alla riscrittura dell’articolo 18 della legge n.300 del 1970 ad opera dell’articolo 1, commi 7 e 8, della legge n.92/2012 (che ha ristretto l’area della tutela reale), e nonostante la mancata adozione delle norme di “armonizzazione” ivi previste, la giurisprudenza ha cionondimeno ritenuto sin da subito direttamente applicabili al pubblico impiego le norme del riformato articolo 18 (Trib. Perugia, 9 novembre 2012; Trib. Ancona, 13 gennaio 2013; Tribunale Santa Maria Capua Vetere, 2 aprile 2013).

[15]   Sono nulli, ai sensi della normativa vigente, i licenziamenti disposti dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino; causati dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte del genitore; irrogati in caso di fruizione del congedo di paternità (anche in caso di adozione o affidamento); determinati da motivi illeciti determinanti ai sensi dell’articolo 1354 del Codice civile

[16]   La retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore comprende tutti gli elementi retributivi, salvo quelli occasionali od eccezionali, con conseguente computabilità, tra gli altri, dei compensi per lavoro straordinario continuativo, dell’indennità di turno, del premio di produzione, dell’indennità di mensa (Cass. 4 ottobre 2011, n. 20266; Cass. 16 settembre 2009, n. 19956; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3787).

[17]   La misura del risarcimento (cinque mensilità) corrisponde a quella prevista dalla normativa vigente (articolo 18, comma 2, secondo periodo, della legge n.300/1970).

[18]   L’utilizzo di tale espressione implicherebbe che l’onere della prova sulla insussistenza del fatto materiale ricada sul lavoratore; al riguardo si ricorda che l’articolo 5 della legge n.604/1966 dispone che “L'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”.

[19]   Al riguardo si fa presente che la Corte di Cassazione, con la Sentenza del 6 novembre 2014, n. 23669, ha tenuto distinta dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, imponendo, pertanto, una distinzione tra l'esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. Secondo la Suprema Corte la reintegrazione si realizza in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e sì esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali. Con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.

[20]   Tale disposizione prevede la perdita dello stato di disoccupazione in caso di rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro a tempo pieno ed indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo (c.d. somministrazione di lavoro mediante agenzia), nell'àmbito dei bacini, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici, stabiliti dalle Regioni. Al riguardo si fa presente che la normativa vigente (articolo 18, comma 4, della legge n.300/1970) usa una formulazione più generica, prevedendo che dall’indennità risarcitoria sia dedotto quanto il lavoratore “ avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”.

[21]   Si fa presente, al riguardo, che la normativa vigente, diversamente dal testo del provvedimento in esame, prevede, altresì, che i contributi previdenziali e assistenziali siano “maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro”.

[22]   Articolo 18, comma 7, della legge n.300/1970.

[23]   L’articolo 4, comma 4, della legge n.68/1999 dispone che  lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia non possono essere computati nella quota di riserva se hanno subìto una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60 per cento o, comunque, se sono divenuti inabili a causa dell'inadempimento da parte del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro. Per i predetti lavoratori l'infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Qualora per i predetti lavoratori non sia possibile l'assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi vengono avviati dagli uffici competenti presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative. L’articolo 10, comma 3, della legge n.68/1999 prevede che nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute. Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l'azienda. Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che sia incompatibile con la prosecuzione dell'attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell'organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persista. Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo. Gli accertamenti sono effettuati dalle commissioni mediche operante presso le ASL. La richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda.

[24]   Ossia i datori di lavoro che occupino più di 15 dipendenti (ovvero 5 dipendenti per gli imprenditori agricoli) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento, nonché i datori di lavoro che nell'ambito dello stesso comune occupino più di 15 dipendenti (più di 5 dipendenti in caso di impresa agricola), anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro che occupi più di 60 dipendenti.

[25]   Ossia, le agenzie di somministrazione di lavoro, agenzie di intermediazione e agenzie di supporto alla ricollocazione professionale

[26]   Ossia per il superamento dei limiti massimi di assenza dal lavoro per i casi di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio.

[27]   In attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

[28]   In base al quale il giudice, che deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento (salvo che la legge disponga altrimenti), può desumere argomenti di prova, in generale, “dal contegno delle parti stesse nel processo”.

[29]   Tale disposizione prevede che “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.

[30]   L’articolo 7 della legge n.300 del 1970 definisce le procedure per l’irrogazione delle sanzioni da parte del datore di lavoro. Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio. Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l'autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.

[31]   L’unica differenza sostanziale dello schema di decreto in esame rispetto alla normativa vigente (di cui all’articolo 18, comma 6, della legge n.300/1970) è data dalla misura dell’indennità risarcitoria, stabilita tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità.

[32]   Ai sensi dell’articolo 6, commi 1 e 2, della L. 604/1966 occorre procedere all’impugnazione del licenziamento, che deve avvenire entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale. L’impugnazione del licenziamento può essere fatta con qualsiasi atto stragiudiziale comunque idoneo a manifestare la volontà del lavoratore: normalmente basta una raccomandata A/R (di cui si deve tenere copia). Peraltro, tale impugnazione è inefficace se non è seguita entro il successivo termine di 180 giorni dal deposito in tribunale del ricorso oppure dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.

 

[33]   L’articolo 1, comma 107, della legge n.190/2014 “per fare fronte agli oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti normativi di riforma degli ammortizzatori sociali, ivi inclusi gli ammortizzatori sociali in deroga, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di quelli in materia di riordino dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, nonché per fare fronte agli oneri derivanti dall'attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, al fine di consentire la relativa riduzione di oneri diretti e indiretti” ha istituito nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali un apposito fondo, con una dotazione di 2.200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016 e di 2.000 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2017.

[34]   Indennità di cui all’articolo 3, comma 1 (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità, per il licenziamento illegittimo per giustificato motivo soggettivo o giusta causa), di cui all’articolo 4 (una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, per il licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali) e importo di cui all’articolo 6 (offerta di conciliazione del datore di lavoro attraverso consegna al lavoratore di un importo pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità).

[35]   La disposizione fa riferimento alle imprese che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, commi 8 e 9, della legge n.300/1970, ossia ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupano alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di sessanta dipendenti.

[36]   Con riferimento all’articolo 3, comma 1, si applicherebbe un’indennità pari a una mensilità (in luogo di due) dell’ultima retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio; con riferimento agli articoli 4 e 6 si applicherebbe un’indennità pari a mezza mensilità (in luogo di una) dell’ultima retribuzione per ogni anno di anzianità contributiva.

[37]   Nel novero delle associazioni di tendenza rientrano anche i soggetti di cui all’art. 20 della L. 416/1981, ossia i giornali quotidiani e i periodici che risultino, attraverso esplicita menzione, riportata in testata, organi di partiti, di sindacati o di enti o comunità religiose.

[38]   Giurisprudenza (Cass. sent. n. 10826 del 1998) e dottrina hanno rilevato come l’art. 4, primo comma, della L. 108/90 si riferisca a determinate attività realizzate da datori non imprenditori senza fini di lucro: quello che viene in considerazione, dunque, non è la natura di tendenza dell’organizzazione, ma il tipo di attività imprenditoriale esercitata.

[39]   Sul punto, Cass. sent. 16 giugno 1994, n. 5832.

[40]   Nella sentenza Cass. Sez. Lavoro n. 20500 del 25 luglio 2008  la Corte ha sancito che "la non applicabilità dell'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 ai licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro menzionati dall'art. 4 legge 11 maggio 1990 n. 108 non si estende ai licenziamenti discriminatori, quale che sia il numero dei dipendenti e la categoria alla quale appartengono".

[41]   In questo senso anche Cass. 16 giugno 1994, n. 5832, Cass. 8 luglio 1997, n. 6191 e Cass., 6 novembre 2001, n. 13721

[42]   Sul punto, si veda Cass. sent. n. 9237 del 1998.

[43]   Tale istituto non trova applicazione nei confronti dei dirigenti (Cass. 15 febbraio 1992, n.1836).

[44]   Articolo 1, comma 15, della legge n.183/2014.