Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento trasporti | ||
Altri Autori: | Avvocatura , Servizio Biblioteca - Ufficio Legislazione straniera , Ufficio Rapporti con l'Unione Europea | ||
Titolo: | Verso una Costituzione per Internet? | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 124 | ||
Data: | 16/06/2014 | ||
Descrittori: |
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Camera dei deputati |
XVII LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche |
Convegno Verso una Costituzione per Internet? |
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Camera dei deputati Palazzo Montecitorio - Sala del Mappamondo 16 giugno 2014 |
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n. 124 |
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File:
ID0012.docx |
INDICE
§ Premessa
§ I Trattati e la Carta dei diritti fondamentali
§ La CEDU
Prospetto sulla Giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo
§ Casistica saliente sull’art. 8 della Convenzione
§ Casistica saliente sull’art. 10 della Convenzione
La più recente giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea.
§ a) L’ annullamento della direttiva sulla conservazione dei
dati personali
§ b) L’applicabilità della normativa europea ai gestori di
motori di ricerca
Le iniziative in corso: l’Unione
europea
§ La discussione sulle attività di sorveglianza dei dati di
massa
§ La net neutrality – principi di libera fruizione di
servizi e contenuti della rete
Le iniziative in corso: gli
ordinamenti nazionali
§ Italia
§ Francia
§ Germania
§ Spagna
§ Focus: Le
esperienze di alcuni Paesi dell’America latina
In materia di tutela della riservatezza applicata alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e, in particolare, di protezione dei dati personali la disciplina dell’Unione europea registra un progressivo affinamento. Tale processo si è andato realizzando, in primo luogo, attraverso la previsione di specifiche disposizioni nell’ambito dei Trattati cui si accompagnano le norma previste dalla Carta europea dei diritti fondamentali.
In secondo luogo, alla previsioni delle fonti primarie si sono accompagnati gli interventi del legislatore europeo che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si sono realizzati attraverso la procedura ordinaria che prevede il coinvolgimento su un piano di parità del Parlamento e del Consiglio europeo.
A ciò deve aggiungersi l’elaborazione in sede giurisprudenziale della Corte di giustizia dell’Unione europea, che nelle più recenti pronunce, rispettivamente di aprile e maggio 2014, ha assunto posizioni molto avanzate sul terreno della tutela della sfera dei diritti della persona, arrivando ad invalidare la normativa vigente in materia di conservazione dei dati in quanto non ritenuta sufficientemente garantista rispetto al rischio di una ingerenza della sfera giuridica dei soggetti interessati.
Questo complesso lavoro di continui e successivi adeguamenti della normativa trae origine dalla consapevolezza della delicatezza della materia e dei crescenti rischi che il progresso tecnico amplifica.
Le istituzioni europee hanno, peraltro, dimostrato, anche nella dialettica che si è innescata tra Commissione, Consiglio, Parlamento e Corte di giustizia, di non volersi limitare a rincorrere l’evoluzione tecnologica ma di rivendicare all’Unione europea la capacità di guidare il percorso di aggiornamento del regime giuridico per garantire elevati standard di tutela dei diritti dei cittadini. Esemplare è, al riguardo, il confronto tra l’Unione europea e gli Stati uniti per quanto concerne specificamente il cd scandalo Datagate, relativamente al quale il Parlamento europeo ha addirittura prospettato la sospensione delle trattative relative ad importanti accordi commerciali in assenza di risposte soddisfacenti da parte degli Stati uniti.
Più in generale, si può affermare che l’intervento del legislatore europeo e le pronunce della Corte di giustizia abbiano inteso individuare un accettabile punto di equilibrio tra istanze diverse e non facilmente conciliabili quali sono: la salvaguardia della riservatezza, le esigenze connesse alla sicurezza, al contrasto alle varie forme di criminalità e al terrorismo che possono intensamente avvalersi della strumentazione informatica e le esigenze di mercato connesse all’ampliamento delle occasioni di scambio e dei potenziali vantaggi in termini di riduzione dei costi per gli utenti.
A complicare il quadro si aggiungono: il rilievo che i diritti in questione rivestono anche nell’ambito degli ordinamenti costituzionali dei singoli Stati membri e le difficoltà connesse alla individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione della normativa europea in ragione del fatto che taluni operatori così come le attività di processione dati (tipicamente, le maggiori società gestori di motori di ricerca) hanno sede legale o vengono realizzate al di fuori del territorio dell’UE.
Dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona, l’Unione europea dispone di una specifica base giuridica esplicita ai fini della protezione dei dati.
In particolare l’articolo 16, paragrafo 1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabilisce che ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Il paragrafo successivo conferisce al Parlamento europeo e al Consiglio (secondo la procedura legislativa ordinaria) il potere di adottare norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione, nonché da parte degli Stati membri nell’esercizio di attività che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, e le norme relative alla libera circolazione di tali dati. Il rispetto di tali norme è soggetto al controllo di autorità indipendenti. È comunque fatto salvo l’articolo 39 del Trattato sull’Unione europea, che conferisce al Consiglio il potere di adottare decisioni al fine di stabilire norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale da parte degli Stati membri nell’esercizio di attività che rientrano nel campo della politica estera e di sicurezza comune e le norme relative alla libera circolazione di tali dati.
Oltre che nei Trattati, la sfera della riservatezza delle informazioni personali e della vita privata dell’individuo trovano particolare tutela agli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali la quale ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. In particolare:
§ l’articolo 7 prevede che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni;
§
l’articolo 8 stabilisce che ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano; tali dati devono essere trattati
secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge; ogni persona ha il
diritto di accedere ai dati raccolti
che la riguardano e di ottenerne la rettifica; il rispetto di tali regole è soggetto
al controllo di un’autorità indipendente.
La sfera della riservatezza personale è protetta altresì dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) (su cui vedi oltre), stipulata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa e, dunque, in un ambito che non coincide con quello dell’UE, che, all’articolo 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), prevede che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. La CEDU precisa tale principio stabilendo il divieto di ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Si ricorda che ai sensi dell’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Lo stesso articolo prevede l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adesione il cui processo è tuttora in corso di perfezionamento.
Sempre nell’ambito del Consiglio d’Europa, merita ricordare anche la Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale, nell’ambito del Consiglio d’Europa, che ha lo scopo di tutelare le persone contro l’uso abusivo del trattamento automatizzato dei dati di carattere personale, e che disciplina il flusso transfrontaliero dei dati, e il relativo Protocollo addizionale, concernente le autorità di controllo ed i flussi transfrontalieri.
La Convenzione, entrata in vigore il 1° ottobre del 1985, oltre alle garanzie previste per il trattamento automatizzato dei dati di carattere personale, bandisce il trattamento dei dati « delicati » sull’origine razziale, sulle opinioni politiche, la salute, la religione, la vita sessuale, le condanne penali, in assenza di garanzie previste dal diritto interno; essa garantisce inoltre il diritto delle persone di conoscere le informazioni catalogate su di loro ed ad esigere, se del caso, delle rettifiche. Unica restrizione a tale diritto può aversi solo in caso in cui sia presente un interesse maggiore (sicurezza pubblica, difesa, etc.).
La Convenzione impone anche delle limitazioni ai flussi transfrontalieri di dati negli Stati in cui non esiste alcuna protezione equivalente.
L’analisi della casistica è condotta essenzialmente alla luce dei seguenti articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’art. 8 (diritto alla vita privata e familiare) e l’art. 10 (diritto di libera manifestazione del pensiero).
All’esposizione sintetica degli sviluppi giurisprudenziali, si premetta che entrambi questi articoli attribuiscono alla persona i diritti a che la vita privata e familiare sia rispettata; e a la persona possa liberamente esprimente il proprio pensiero. Tali diritti non sono assegnati in via assoluta. Le medesime disposizioni contengono infatti la riserva che gli Stati sottoscrittori della Convenzione EDU possono limitare quei diritti, purché con provvedimento di legge e per il perseguimento di finalità legittime atte a garantire la tutela di una società democratica e nei limiti in cui ciò sia adeguato e proporzionato al conseguimento della menzionata finalità.
È proprio attraverso questo giudizio sull’adeguatezza e sulla proporzione dell’interferenza pubblica nel diritto del singolo che la Corte di Strasburgo ha sinora tracciato un percorso di elaborazione dello statuto giuridico della persona rispetto alle vie di comunicazioni digitale e alla grandi possibilità che l’informatica offre di accumulare, conservare e diffondere dati.
Laddove, nel caso specifico, la Corte ravvisi un complesso di azioni e provvedimenti proporzionati all’obiettivo dichiara la non violazione del diritto; altrimenti accerta la violazione. Da questo punto di vista, occorre anche chiarire che la Corte ha dilatato la nozione sia di ‘vita privata e familiare’ sia di ‘diritto di espressione’.
Nella prima ha incluso una gamma di situazioni giuridiche assai ampia, che va dalla pretesa riconosciuta di non essere spiati e controllati a distanza, a quella di poter controllare la quantità e la qualità di dati propri che altri detenga, al diritto a veder tutelata la propria salute e sicurezza personale a quello di adottare figli senza discriminazioni e a crearsi una famiglia e a sceglierne il cognome.
Nella seconda, è ricompreso non solo il diritto di cronaca giornalistica e il diritto di critica ma altresì il diritto a essere informati, quello di poter attingere senza restrizioni alle fonti informative più varie e a quello di garantire e fruire del pluralismo informativo.
Si avverta altresì che la Corte europea fa carico agli Stati sottoscrittori non solo di rispettare quei diritti in chiave di astensione dalla loro violazione diretta – per opera di provvedimenti e comportamenti di pubblici agenti – ma fa loro obbligo anche di azioni positive di promozione e tutela.
Sotto l’aspetto del diritto alla vita privata e familiare, in relazione alle banche dati e agli usi di Internet come mezzo di conservazione, comunicazione e diffusione di dati, il caso più rilevante tra i recenti in chiave di protezione dall’interferenza diretta dei pubblici poteri è S. and Marper v. United Kingdom (4 dicembre 2008).
Durante
un’indagine penale a carico di due soggetti, erano stati loro prelevati
campioni genetici e impronte digitali. Successivamente, le indagini si erano
concluse in modo assolutorio ma la banca dati della polizia britannica
continuava a detenere i dati immagazzinati e la polizia medesima rigettava la
richiesta di distruzione avanzata dagli interessati.
La Corte europea ha sottolineato come la protezione
dei dati personali costituisca un aspetto essenziale del diritto alla vita
privata e familiare (n. 103) e al contempo ha ritenuto legittimo lo scopo delle
pubbliche autorità di conservare dati per finalità d’inchiesta penale e
prevenzione dei reati; ma – nella circostanza specifica – si trattava di
soggetti le cui posizioni erano state archiviate ragion per cui la schedatura
biologica così profonda e temporalmente illimitata è stata ritenuta
sproporzionata.
Di rilievo anche il successivo caso Gardel v. France (17 dicembre 2009), relativo al caso di un uomo condannato
in via definitiva per violenza sessuale in danno di minore. Il nome del reo era
stato inserito nel registro – previsto dalla legge francese – dei soggetti
pericolosi in relazione ai reati sessuali (Sex
offenders). Qui la Corte ha constatato che la normativa francese prevedeva
un limite temporale (20 e 30 anni a seconda dei casi) e che comunque si
trattava di soggetto definitivamente condannato. Di qui la non violazione.
Sotto l’aspetto del diritto alla vita privata e familiare, ma in relazione all’insufficiente protezione offerta dai pubblici poteri al diritto medesimo, appaiono di rilievo i casi:
1)
K. U. c. Finlandia del 2 dicembre 2008, in cui
è stata accertata la violazione dell’art. 8 del Paese scandinavo, in ragione
dell’insufficiente protezione garantita dalla legislazione a un minore, i cui
dati personali erano stati “postati” on
line in un sito di appuntamenti. Il minore si era rivolto alle autorità
nazionali per denunciare l’autore del post, ma si era sentito rispondere che il
gestore non era obbligato a rivelarne il nome, per cui l’unico a essere punito
sarebbe stato l’internet provider server.
2)
Soderman c. Svezia del 12 novembre 2013, in cui è
stata accertata la violazione dell’art. 8 del Paese convenuto, a motivo
dell’insufficiente protezione garantita dalle decisioni giudiziali svedesi a
una minore che era stata fraudolentemente ripresa da una telecamera mentre si
spogliava.
Sotto l’aspetto del diritto di espressione in relazione a Internet come mezzo di conservazione, comunicazione e diffusione di dati, il caso più rilevante tra i recenti è Times Newspaper v. United Kingdom (10 marzo 2009).
Il quotidiano
londinese aveva pubblicato, in forma sia cartacea sia sul proprio sito, due
articoli che contenevano la notizia che una persona era implicata in sospette
operazioni di riciclaggio di danaro proveniente dagli illeciti delle mafie
russe.
Il soggetto in questione aveva proposto due distinte
azioni giudiziarie, ritenendo la notizia diffamatoria e domandando il
risarcimento del danno. Una prima azione era stata intentata nell’immediatezza
del rilascio dell’informazione e una seconda un anno più tardi, basata sulla
circostanza che gli articoli erano ancora disponibili sul sito web della testata. Successivamente alla
notifica della seconda citazione per danni, il Times aveva apposto all’articolo, reperibile sul sito web, un’avvertenza del contenzioso in
atto.
I tribunali britannici, in conclusione, avevano
accertato la responsabilità del quotidiano e lo avevano indotto ad accettare la
quantificazione in sede stragiudiziale del danno da risarcire. Essi avevano
argomentato - in particolare - che l’azione giudiziaria iniziata per seconda
non poteva dirsi prescritta (come la difesa del quotidiano pretendeva) in
ragione del decorso di un anno dalla prima pubblicazione. Il termine annuale di
prescrizione (previsto dalla legislazione britannica per la diffamazione a
mezzo stampa) non poteva dirsi applicabile – secondo i giudici inglesi – poiché
su Internet la diffamazione è
permanente e il termine ricomincia a decorrere a ogni visualizzazione.
Adita sulla base dell’art. 10 dagli avvocati del Times, la Corte europea ha deciso per la
non violazione a motivo che:
§
è ben vero che la
regola dell’azzeramento del termine di prescrizione a ogni nuova
visualizzazione deriva da antiche decisioni di common law relative alla ripubblicazione dei libri e che tale
regola è rifiutata, per esempio, negli Stati Uniti, dove viceversa si riconosce
come momento iniziale solo la prima pubblicazione (nn. 20-24);
§
è altresì vero
che Internet ha dato un positivo
impulso alla circolazione delle informazioni e alla ricerca storica, così enucleando
un secondo scopo del giornalismo, da aggiungere a quello primario di essere il
cane da guardia dell’opinione pubblica (n. 45);
§
tuttavia, nel
caso specifico, l’archivio delle notizie era gestito proprio dal Times e non da un’autorità terza e non
sarebbe costato molto apporre l’avvertenza sulla pubblicazione web nell’immediatezza della prima
citazione per danni (n. 47). Sebbene consentire azioni per diffamazione anche a
grande distanza di tempo dalla prima pubblicazione possa configurare
un’interferenza sproporzionata sul diritto di libera manifestazione del
pensiero, in questo caso una simile circostanza non si era data. Pertanto,
limitatamente a questo caso, la Corte non ha ritenuto violato l’art. 10 (nn. 48
e 49).
Il caso Times è in buona sostanza un leading case.
Nella sentenza Pravoie Delo c. Ucraina del 5 maggio 2011, la Corte europea ha ritenuto violato
l’articolo 10 in relazione alla vicenda di un quotidiano che aveva pubblicato
il testo di una lettera anonima, scaricato da Internet e considerato diffamatorio da terzi, e che per questo era
stato condannato a risarcire il danno, ragione per cui – in definitiva – aveva
successivamente chiuso. Qui l’interferenza dello Stato sull’attività del
giornale (in particolare, sulla ricerca delle fonti) è stata considerata
sproporzionata.
Nella sentenza Yildirim c. Turchia (18 dicembre 2012), la Corte europea – rifacendosi alle argomentazioni della Times - ha poi constatato la violazione dell’art. 10 a carico della Turchia.
Si trattava
dell’oscuramento di un sito da cui un ricercatore traeva le informazioni per
sua attività scientifica e accademica. Il sito era stato oscurato in ragione
delle presunte opinioni ivi contenute di critica (e di vilipendio) di Kemal
Ataturk. Nell’occasione la Corte ha chiarito i requisiti in presenza dei quali
sono compatibili con la Cedu interventi diretti a censurare la diffusione di
dati su Internet.
Occorre che la legge nazionale:
1)
indichi quali
siano i soggetti i cui siti possano essere censurati od oscurati, come per
esempio proprietari interni o esteri di contenuti illeciti, siti web, piattaforme, utenti, soggetti che
forniscono iper-links a quei siti o
piattaforme, eccetera;
2)
precisi i tipi di
provvedimento adottabile (blocco del sito, dell’indirizzo IP, di particolari
modalità d’utilizzo, eccetera);
3)
fissi l’ambito di
applicazione territoriale del provvedimento;
4)
determini la
durata dell’intervento censorio;
5)
indichi le
ragioni e gli interessi che il provvedimento è volto a tutelare;
6)
rispetti il
principio di proporzionalità tra il provvedimento e il relativo scopo;
7)
rispetti il
principio di necessità;
8)
determini
l’autorità competente;
9)
preveda una
procedura apposita;
10)
prescriva la
notifica del provvedimento al destinatario;
11)
contempli forme
d’impugnazione.
Successivamente, degni di nota sono i casi:
1)
Delfi AS c. Estonia (10 ottobre 2013), in cui è stata dichiarata la non
violazione dell’art. 10 del Paese baltico, in una vicenda di pubblicazione sul
sito web di un periodico che aveva
aperto a commenti una notizia di cronaca, con la raccolta di molti insulti a
carico di un soggetto determinato e la conseguente condanna risarcitoria dei
responsabili del sito;
2)
Ringier Axel Springer c. Slovacchia n. 3 (7 gennaio
2014) ha ritenuto violato l’art. 10 in relazione a una condanna al risarcimento
dei danni a carico di un quotidiano che aveva diffuso – in via cartacea e su Internet – notizie e opinioni su un
fatto di cronaca. Più in particolare, era insorta una controversia tra un
concorrente a una trasmissione televisiva a quiz
e gli organizzatori del quiz
medesimo. Costoro ebbero ad accusare il concorrente di tentata truffa ma questi
era risultato poi esentato da qualsiasi rilievo penale. Nondimeno, della larga
diffusione a stampa e su Internet del
contenzioso, il concorrente si era doluto in sede giudiziale, ottenendo
soddisfazione risarcitoria dalla testata giornalistica, in via definitiva. Sul
ricorso del giornale, la Corte ha valutato che i tribunali nazionali non avevano
compiutamente affrontato la questione del pubblico interesse che la vicenda del
quiz aveva suscitato (v. 83 della
sentenza). Per questo, secondo la Corte europea, sebbene la cronaca del fatto e
dei suoi sviluppi potesse lasciare nel lettore l’impressione che il concorrente
fosse in effetti implicato in una vicenda non chiara, le autorità giudiziarie
slovacche non avevano colto il giusto equilibrio tra il diritto
all’informazione e il libero dibattito su questioni di pubblico interesse, per
un verso, e le aspettative di tutela del preteso diffamato, per l’altro; né
esse avevano esaminato il profilo dell’eventuale buona fede delle pubblicazioni
e del grado di diligenza nella selezione delle fonti profuso dai giornalisti
nella loro attività. Di qui l’accertamento della violazione dell’art. 10 Cedu
(v. nn. 84 e ss. della sentenza).
Con sentenza del 13 maggio
2014, nella cause riunite C-293/12 e C-594/12, la Corte di giustizia
dell’Unione europea ha dichiarato invalida la direttiva sulla conservazione dei
dati[1] in quanto comportava un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti
fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di
carattere personale, non limitata allo
stretto necessario[2].
In sintesi la
normativa oggetto di annullamento prevede che i fornitori di servizi di
comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di
comunicazione debbano conservare i dati relativi
al traffico, all’ubicazione e i dati connessi per identificare l’abbonato o l’utente, mentre non autorizzano invece la conservazione del contenuto delle comunicazioni e delle informazioni consultate.
La Corte ha preso le mosse dalla considerazione che i dati da conservare ai sensi della direttiva in questione (l’abbonato/utente vive il momento e il luogo da cui ha origine la comunicazione nonché la frequenza con cui si comunica con determinate persone nel periodo considerato), pur non ricomprendendo il contenuto della comunicazione, possono fornire indicazioni circa le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, gli spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, le attività svolte, le relazioni e gli ambienti sociali frequentati.
La Corte:
§ da un lato, valuta l’obbligo di
conservazione di tali dati e l’accessibilità ad essi da parte delle autorità
nazionali quale ingerenza grave nei
diritti fondamentali;
§ dall’altro, considera tale ingerenza di per sé non idonea ad arrecare pregiudizio al contenuto essenziale dei diritti fondamentali atteso che non consente astrattamente l’accesso al contenuto delle comunicazioni e considerato che i fornitori di servizi e di reti debbono rispettare determinati principi di protezione e di sicurezza dei dati. Inoltre la Corte ritiene che la conservazione dei dati ai fini della loro eventuale trasmissione alle autorità nazionali competenti risponde effettivamente a un obiettivo di interesse generale, vale a dire la lotta alla criminalità grave e la salvaguardia della pubblica sicurezza.
§
tuttavia la
Corte ritiene che il legislatore
dell’Unione, con l’adozione della direttiva sulla conservazione dei dati, abbia ecceduto i limiti imposti
dal rispetto del principio di
proporzionalità.
In sostanza la Corte ha rilevato che la materia non è regolamentata in modo da essere effettivamente
limitata allo stretto necessario.
In particolare i rilievi riguardano:
§ l’applicazione
generalizzata della disciplina all’insieme degli individui, dei
mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza alcuna differenziazione,
limitazione o eccezione in ragione dell’obiettivo
della lotta contro i reati gravi;
§ la mancanza di
criteri oggettivi che consentano di garantire che le autorità nazionali
competenti abbiano accesso ai dati e possano utilizzarli solamente per
prevenire, accertare e perseguire penalmente reati che possano essere considerati, tenuto conto della portata e
della gravità dell’ingerenza nei diritti fondamentali summenzionati, sufficientemente gravi da giustificare
una simile ingerenza (la direttiva si limita a fare generico rinvio ai «reati gravi» definiti da ciascuno Stato
membro nella propria legislazione
nazionale). La mancanza di presupposti
materiali e procedurali che consentano alle autorità nazionali competenti
di avere accesso ai dati e di farne
successivo uso, atteso che tale accesso,
tra l’altro non è nemmeno subordinato al previo
controllo di un giudice o di un ente
amministrativo indipendente;
§ il regime circa la durata della conservazione, fissata tra un minimo di 6 e un massimo di 24 mesi senza che la
direttiva precisi i criteri oggettivi
in base ai quali la durata della
conservazione debba essere determinata,
in modo da garantire la sua limitazione allo stretto necessario (e senza operare distinzioni tra le categorie
di dati a seconda delle persone
interessate o dell’eventuale utilità
dei dati rispetto all’obiettivo perseguito);
§ la mancanza di garanzie sufficienti ad assicurare una
protezione efficace dei dati contro i rischi
di abusi e contro qualsiasi accesso
e utilizzo illeciti dei dati, atteso – tra l’altro - che la direttiva
autorizza i fornitori di servizi a tenere conto di considerazioni economiche in sede di determinazione del livello di sicurezza da applicare (in
particolare per quanto riguarda i costi di attuazione delle misure di
sicurezza) e non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione;
§ il fatto che la direttiva non imponga che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione, non
garantendo pertanto la direttiva il
pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle
esigenze di protezione e di sicurezza, elemento essenziale del rispetto della
protezione delle persone con riferimento al trattamento dei dati personali,
considerato tra l’altro che si tratta di requisito espressamente richiesto dalla Carta.
Con la sentenza del 13 maggio 2014 la Corte[3] ha stabilito che:
§ quanto all’ambito territoriale di applicazione della normativa UE, nonostante il server dell’azienda di elaborazione dati si trovi fisicamente al di fuori dell'Europa, le norme UE si applicano ai motori di ricerca se hanno una succursale o una filiale in uno Stato membro;
§ quanto all’applicabilità delle norme UE sulla protezione dei dati a un motore di ricerca, i gestori dei motori di ricerca devono considerarsi responsabili del trattamento dei dati personali; Google non può quindi sottrarsi alle proprie responsabilità derivanti dalla direttiva europea, nella sua attività di trattamento di dati personali invocando la sua natura di motore di ricerca, ed è soggetto in tal senso alla disciplina europea;
§ quanto al diritto di essere dimenticati (oblio): gli individui hanno il diritto - a determinate condizioni – di chiedere ai motori di ricerca di rimuovere i collegamenti alle informazioni personali che li riguardano. Il principio si applica quando le informazioni sono imprecise, inadeguate, non (o non più) pertinenti, o eccessive in rapporto alle finalità per le quali sono state trattate e al tempo trascorso. La Corte ha inoltre osservato che nella fattispecie specifica l’interferenza con il diritto della persona alla protezione dei dati non può essere giustificata meramente dall’interesse economico del motore di ricerca. Nello stesso tempo la Corte ha chiarito in modo esplicito che il diritto all’oblio non è da ritenersi assoluto, ma deve sempre essere bilanciato con altri diritti fondamentali come la libertà di espressione e di informazione. Occorre dunque una valutazione caso per caso, con particolare riferimento al tipo di informazione in gioco, al suo carattere sensibile per la vita privata dell’individuo e all’interesse del pubblico ad accedere a tale informazione, oltre alla rilevanza del ruolo che riveste una persona nella vita pubblica.
Il quadro vigente è costituito dalla direttiva 95/46/CE relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, e dalla decisione quadro 2008/977/GAI sulla protezione dei dati personali trattati nell’ambito ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale. Entrambi gli atti normativi citati sono attualmente in fase di revisione.
La Commissione
europea ha presentato un pacchetto costituito da:
una proposta di
regolamento COM(2012)11, concernente la tutela delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e la libera circolazione
di tali dati (regolamento generale sulla
protezione dei dati), volta a sostituire la direttiva 95/46/CE);
una proposta di
direttiva COM(2012)10, concernente la tutela delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità
competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di
reati o esecuzione di sanzioni penali, volta a sostituire la decisione quadro
2008/977/GAI citata.
Il pacchetto è all’esame delle Istituzioni
europee. Le due proposte sono state oggetto di approvazione in prima lettura da
parte della Assemblea plenaria del Parlamento europeo nella sessione dell’11-14
marzo 2014 (vedi infra).
Rispetto
all’impianto originario delle proposte pubblicate dalla Commissione europea, il
Parlamento europeo ha modificato le
norme sul coinvolgimento delle imprese (per esempio un motore di ricerca, un
social network o un fornitore di cloud): tali soggetti, secondo le nuove norme
dovrebbero chiedere un’autorizzazione
preventiva all’autorità nazionale di protezione dei dati prima di poter divulgare i dati personali di un
cittadino dell’Unione in uno Stato non
membro; l’azienda dovrebbe anche informare la persona interessata della
richiesta. Inoltre il testo emendato della riforma prevede che le società che
infrangono le regole incorrano in multe fino
a 100 milioni di euro o fino al 5% del fatturato
mondiale annuo (si applicherebbe la sanzione più gravosa delle due),
laddove la Commissione aveva proposto sanzioni fino a 1 milione di euro o fino al 2% del fatturato mondiale annuo.
Quanto al Consiglio, gli Stati membri non hanno ancora raggiunto un orientamento
comune complessivo (sulla cui base dovrebbero successivamente svolgersi i
negoziati con il Parlamento ai fini della formulazione di un testo di
compromesso), sollevando rilievi critici con particolare riferimento alla
proposta di regolamento generale protezione dati.
Tra le questioni
più rilevanti dibattute al Consiglio si ricorda il tema relativo
all’introduzione di uno sportello unico,
ovvero un’autorità unica in grado di giudicare i casi transnazionali e
garantire l’applicazione coerente ed omogenea della normativa, riducendo gli
oneri amministrativi a beneficio delle imprese che operano nel commercio
internazionale (vedi infra).
Rispetto alla direttiva 95/46/CE, la proposta di regolamento generale sulla protezione dei
dati ne riorganizza il contenuto[4], ampliandolo
notevolmente (si passa dai sette capi e 34 articoli della direttiva a 91
articoli suddivisi in undici capi contenuti nella proposta di regolamento.
La Commissione
europea ha previsto che le nuove norme UE si applichino anche ai dati personali
trattati all’estero da imprese che sono attive sul mercato
unico e offrono servizi ai cittadini
dell’Unione.
La proposta di direttiva COM(2012)10 è
diretta a disciplinare la materia del trattamento dei dati personali a fini di prevenzione e indagine, accertamento e
perseguimento di reati ovvero di esecuzioni e sanzioni penali. I contenuti
della proposta di direttiva corrispondono
in larga parte a quelli della proposta
di regolamento, fatto salvo il minor dettaglio derivante dalla natura dello
strumento giuridico prescelto che implica quasi inevitabilmente l’attribuzione
a ciascuno Stato membro di un certo margine di discrezionalità per la
definizione di alcuni specifici profili.
La riforma chiarisce che per “consenso dell’interessato” deve intendersi qualsiasi manifestazione di volontà informata ed esplicita con la quale l’interessato accetta, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento.
La direttiva del 1995 aveva già previsto uno strumento volto alla cancellazione – a determinate condizioni – dei dati personali.
La riforma amplia le possibilità di esercizio del diritto alla cancellazione e introduce il cosiddetto diritto all’oblio. In particolare l’interessato (qualora sussistano i motivi indicati nella diposizione: ad esempio, dati non più necessari per le finalità per cui sono stati trattati, dati trattati illecitamente, revoca del consenso, scadenza del periodo di conservazione, etc.) avrà il diritto di ottenere dal responsabile del trattamento la cancellazione di dati personali che lo riguardano e la rinuncia a un’ulteriore diffusione di tali dati.
Qualora abbia reso pubblici dati personali, il responsabile del trattamento di è tenuto ad informare i terzi che stanno trattando tali dati della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali. Se ha autorizzato un terzo a pubblicare dati personali, il responsabile del trattamento è ritenuto responsabile di tale pubblicazione.
Si segnala che il Parlamento europeo ha proposto una serie di emendamenti volti a rafforzare la previsione indicata. In particolare con la risoluzione legislativa detta è, tra l’altro, stabilito l’obbligo per il responsabile del trattamento di assicurare la cancellazione di tali dati, ed è altresì introdotta la previsione del diritto alla cancellazione dei dati qualora tale misura sia decisa in via definitiva da un tribunale o da un'autorità di regolamentazione con sede nell'Unione.
La riforma introduce il diritto dell’interessato alla portabilità dei dati, vale a dire il diritto di trasferire i propri dati da un sistema di trattamento elettronico a un altro, senza che il responsabile del trattamento possa impedirlo. Secondo la Commissione il diritto alla portabilità dei dati, grazie al quale ad esempio dovrebbe essere possibile da un service provider, come i social network, a un altro (allo stesso modi in cui è oggi possibile trasferire il o numero telefonico quando si cambia gestore) dovrebbe comportare un miglioramento della concorrenza tra i servizi.
La nuova disciplina sancisce il diritto di non essere sottoposto a misure basate sulla profilazione (in sostanza, i tentativi di analizzare o prevenire il comportamento di una persona ad esempio sul posto di lavoro, la situazione economica, la posizione). Ampliando il contenuto della direttiva 95/46/CE, sulla base della raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla profilazione: si stabilisce che chiunque ha il diritto di non essere sottoposto a una misura che produca effetti giuridici o significativamente incida sulla sua persona, basata unicamente su un trattamento automatizzato destinato a valutare taluni aspetti della sua personalità o ad analizzarne o prevederne in particolare il rendimento professionale, la situazione economica, l’ubicazione, lo stato di salute, le preferenze personali, l’affidabilità o il comportamento.
La proposta consente
le pratiche di profilazione soltanto
se il trattamento:
a)
è effettuato nel contesto della conclusione o
dell’esecuzione di un contratto, oppure
b)
è espressamente
autorizzato da disposizioni del diritto dell’Unione o di uno Stato membro che
precisi altresì misure adeguate a salvaguardia dei legittimi interessi
dell’interessato, oppure
c)
si basa sul consenso dell’interessato.
La riforma introduce la figura obbligatoria del responsabile della protezione dei dati per il settore pubblico e, nel settore privato, per le grandi imprese o allorquando le attività principali del responsabile del trattamento e dell’incaricato del trattamento consistono in trattamenti che richiedono il controllo regolare e sistematico degli interessati.
Si segnala che rispetto al testo presentato
dalla Commissione, che fissa un parametro dimensionale delle grandi imprese
(250 dipendenti) per l’attivazione dell’obbligo di nomina della figura
indicata, il Parlamento europeo ha adottato una serie di emendamenti la cui
ratio consiste nel fatto che, nell'epoca del "cloud computing", il
livello minimo per la nomina obbligatoria di un responsabile della protezione
dei dati non dovrebbe basarsi sulle
dimensioni dell'impresa, ma piuttosto sulla pertinenza del trattamento dei dati (categoria di dati personali,
tipo di attività di trattamento e numero di individui i cui dati sono oggetto
di trattamento).
La riforma mira a riscrivere anche la disciplina in materia di autorità di controllo indipendenti (la cui istituzione è già prevista dalla disciplina vigente, in particolare potenziandone il ruolo con l’attribuzione dei nuovi poteri di sanzione di illeciti amministrativi, nonché stabilendo una forma di coordinamento attraverso la previsione della nuova competenza di autorità capofila nel caso di un responsabile del trattamento o incaricato del trattamento stabilito in più Stati membri, al fine di assicurare un’attuazione uniforme della disciplina (cosiddetto sportello unico).
La Commissione ritiene che la creazione di
uno “sportello unico” per il controllo della protezione dei dati possa
rafforzare il mercato interno, in particolare grazie all’eliminazione delle
divergenze tra le formalità amministrative, stimando un risparmio globale di circa 2,3 miliardi di euro all’anno.
Il tema dello sportello unico è stato
oggetto di particolare approfondimento in seno al Consiglio de Ministri
competenti dell’UE; alcuni Stati membri hanno infatti espresso perplessità
sull’attribuzione di poteri correttivi
esclusivi all’Autorità garante dello Stato membro dello stabilimento principale (nei casi in
cui sia sotto osservazione un’impresa con sedi e attività dislocate in più
Stati membri), poiché ciò potrebbe limitare l’accesso dei cittadini a mezzi
adeguati di ricorso giurisdizionale (obbligati ad andare all’estero per
contestare una decisione di un’autorità straniera).
La riforma prevede che il trasferimento debba essere subordinato alla preventiva adozione, da parte della Commissione, di una decisione che verifichi l’adeguatezza del livello di protezione accordato dallo Stato terzo destinatario delle informazioni; è peraltro previsto che anche in assenza di una decisione della Commissione si possa procedere al trasferimento purché si verifichino talune circostanze che nella proposta di regolamento sono puntualmente indicate.
A seguito della divulgazione da parte di alcuni organi di comunicazione delle notizie relative al cosiddetto scandalo Datagate (con particolare riferimento ai casi PRISM, Tempora, e ad analoghi programmi di sorveglianza informatica), le Istituzioni europee hanno intrapreso alcune iniziative volte ad approfondire l’effettiva portata di alcuni programmi di intelligence utilizzati dagli Stati Uniti e da alcuni Stati membri.
In estrema
sintesi, secondo quanto riportato dagli organi di stampa, la National Security
Agency (NSA) statunitense, grazie al programma PRISM, avrebbe ottenuto la fornitura di dati (ad esempio email,
file, notifiche di accesso, etc.) da parte delle principali aziende tecnologiche USA che gestiscono informazioni,
comunicazioni e dati-utente in formato digitale (anche relativamente a cittadini UE). Lo scandalo si è
ulteriormente arricchito con la diffusione di notizie secondo le quali
l’Agenzia del Governo americano avrebbe
violato le reti informatiche delle stesse Istituzioni europee e degli Stati membri. Infine, ulteriori
rivelazioni sono emerse in ordine ad eventuali intercettazioni della NSA di dati internazionali sui bonifici bancari gestiti dal consorzio
SWIFT. Ulteriori motivi di preoccupazione sono altresì sorti in relazione al
programma di intelligence Tempora, seguito
dai servizi britannici.
Al riguardo, le Istituzioni europee hanno sin da subito sollevato due
ordini di critiche, afferenti: al corretto
svolgimento delle relazioni internazionali diplomatiche; alla violazione della sfera dei diritti fondamentali dei
cittadini UE (con particolare riferimento alla protezione dei dati personali).
A seguito delle richieste di chiarimenti della
Commissione europea (in particolare della Vicepresidente/Commissaria per la
Giustizia Viviane Reding al segretario alla giustizia (Attorney general) degli
Stati Uniti, Eric Holder, il 14 giugno 2013, si teneva a Dublino un vertice
USA-UE dei responsabili dei settori della giustizia e affari interni, in esito
al quale istituiva un gruppo
transatlantico (UE- USA) di esperti
di sicurezza e di privacy, con il compito di approfondire le questioni non
ancora chiarite relative al programma PRISM.
Il 27 novembre 2013 la Commissione europea ha presentato una serie di documenti relativi alle azioni da intraprendere per ripristinare un clima di fiducia negli scambi di dati fra l’UE e gli USA. L’iniziativa della Commissione comprende: a) un’analisi del funzionamento dell’accordo “Approdo sicuro” che regola il trasferimento di dati a scopo commerciale fra l’UE e gli USA; b) una relazione sui risultati del gruppo di lavoro UE-USA sulla protezione dei dati, costituito nel luglio 2013; c) una relazione di valutazione sul programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi (Terrorist Finance Tracking Programme, TFTP); d) una relazione sulla verifica congiunta dell’accordo con gli USA sui dati del codice di prenotazione (Passenger Name Record, PNR).
L’Accordo sull’approdo sicuro è un accordo concluso
nel 2000 tra Unione europea e Stati Uniti per garantire la protezione dei dati
dei cittadini europei, anche quando i
dati sono in possesso di aziende americane, fuori dal territorio europeo; tale accordo chiedeva il rispetto dei
principi di privacy europei alle azienda americane che utilizzavano o
raccoglievano dati europei.
Il funzionamento dell’accordo si basa sulla richiesta
di autocertificazione alle aziende
americane circa il rispetto delle regole.
A seguito di una verifica da parte di esperti dell’UE
e degli Stati Uniti, la Commissione è giunta alla conclusione che le autorità
statunitensi hanno applicato l’accordo nel rispetto delle norme e delle
condizioni contenute. La prossima revisione congiunta avrà luogo nel primo
semestre del 2015.
Il programma controllo TFTP consente di raccogliere informazioni relative alla messaggistica finanziaria, in particolare, informazioni relative all’identità dell’ordinante e/o beneficiario di una transazione, compreso il nome, il numero di conto, l’indirizzo e il numero d’identificazione nazionale. L’accordo TFTP tra l’Unione europea e gli Stati Uniti è entrato in vigore il 1° agosto 2010. L’accordo contempla misure che garantiscono la protezione dei dati dei cittadini dell’UE e prevede una verifica periodica delle disposizioni “riguardanti le salvaguardie, i controlli e la reciprocità.
In sintesi, la Commissione ha proposto azioni in sei ambiti:
§ adottare rapidamente la riforma europea sulla protezione dei dati;
§ rendere più
sicuro il regime “Approdo sicuro”: in
tale ambito la Commissione ha formulato alcune raccomandazioni volte a
garantire la trasparenza delle
politiche in materia di privacy dei membri dell’Approdo sicuro (le imprese del
web), nonché l’applicazione dei principi
in materia di riservatezza da parte delle imprese negli Stati Uniti e il
carattere effettivo dell’applicazione;
§ rafforzare le salvaguardie in materia di
protezione dei dati nel settore delle
attività di contrasto: in particolare la Commissione ha evidenziato la
necessità di concludere rapidamente gli attuali negoziati su un accordo quadro per i trasferimenti e il
trattamento dei dati nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria
(la Commissione ha insistito sulla necessità che i cittadini dell’UE non
residenti negli Stati Uniti possano avvalersi di meccanismi di ricorso
giudiziario);
§ usare la reciproca assistenza giuridica e gli
accordi settoriali per ottenere i dati:
in particolare, secondo la Commissione, occorre che l’amministrazione americana
si impegni, in linea di principio, a utilizzare un quadro giuridico come la
reciproca assistenza giuridica e gli accordi settoriali UE-USA, quali quelli
sui dati del codice di prenotazione e sul programma di controllo delle
transazioni finanziarie dei terroristi, ogni volta che i trasferimenti di dati
sono richiesti a fini di attività di contrasto;
§ affrontare le preoccupazioni europee sul processo di riforma statunitense in
corso, con particolare riferimento al processo di revisione annunciato dal
Presidente americano Obama delle attività delle autorità nazionali di sicurezza
statunitensi; in particolare, la Commissione europea ha posto l’accento sul
fatto che i cambiamenti più importanti dovrebbero essere l’estensione, ai cittadini
europei non residenti negli USA, delle garanzie
di cui godono i cittadini americani,
una maggiore trasparenza e un migliore controllo;
§ promuovere a
livello internazionale le norme sulla privacy: secondo la Commissione
europea occorre che gli Stati Uniti aderiscano alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di
dati di carattere personale (“Convenzione 108”), così come hanno aderito
alla Convenzione sulla criminalità informatica del 2001.
La Commissione europea ha invece escluso di voler far rientrare le
norme sulla protezione dei dati nei
negoziati in corso per una partnership per gli scambi e gli investimenti transatlantici.
Anche il Parlamento ha espresso preoccupazione per il programma PRISM e per gli altri programmi di sorveglianza (degli stati Uniti e di alcuni Stati membri), e condannato le azioni di spionaggio ai danni delle rappresentanze dell’Unione, chiedendo alle autorità statunitensi di fornire informazioni sulle vicende in questione senza ritardi.
Con una risoluzione del 4 luglio 2014 il Parlamento ha inoltre incaricato la Commissione parlamentare per le libertà civili - LIBE di avviare un’indagine approfondita sui programmi di sorveglianza degli Stati uniti (e di quelli degli Stati membri).
I principali risultati dell’inchiesta
sono stati presentati in una serie di documenti di lavoro[5] nonché nella relazione adottata dalla
LIBE il 21 febbraio 2014, secondo la quale vi sarebbero prove convincenti riguardo l’esistenza
di sistemi complessi tecnologicamente avanzati e di vasta portata
progettati da servizi segreti americani
e di alcuni Stati membri volti a raccogliere, archiviare e analizzare i dati di comunicazione (compresi i
dati contenuti, i dati di posizione e i metadati) di cittadini di tutto il
mondo, su una scala senza precedenti e in modo indiscriminato.
Il
12 marzo 2014 l’Assemblea plenaria del Parlamento europeo ha approvato a
larghissima maggioranza (544 voti favore contro 78) la risoluzione
conclusiva del lavoro d’inchiesta
recante conclusioni e raccomandazioni per
migliorare la tutela della privacy dei cittadini UE.
Secondo la risoluzione il consenso
del Parlamento all’accordo finale sul
commercio e gli investimenti (TTIP) con gli Stati Uniti “potrebbe essere minacciato fino a quando la coltre
delle attività della sorveglianza di massa, le intercettazioni delle
comunicazioni nelle istituzioni dell’UE e le rappresentanze diplomatiche non
saranno completamente fermate”; gli eurodeputati hanno concluso quindi che il
Parlamento dovrebbe, pertanto, rifiutare
il suo consenso all’accordo TTIP finché non siano pienamente rispettati i
diritti fondamentali UE, aggiungendo che la protezione dei dati dovrebbe
essere comunque esclusa dai negoziati commerciali.
I deputati, inoltre, hanno chiesto l’immediata sospensione dei principi sulla privacy del Safe Harbour
in quanto tali principi non provvedono a un’adeguata protezione dei cittadini
europei; gli eurodeputati hanno inoltre esortato gli Stai Uniti a proporre
nuove regole per il trasferimento dei dati personali che soddisfino i requisiti
UE.
Secondo la risoluzione anche il programma finanziario di controllo del
terrorismo (TFTP) dovrebbe essere
sospeso finché le accuse nei confronti delle autorità statunitensi riguardo
l’accesso a dati bancari dei cittadini europei fuori dal contratto siano
chiarite, insistono i deputati.
La risoluzione prevede inoltre un “Programma europeo di protezione informatori”,
che dovrebbe prestare particolare attenzione alla “complessità della denuncia
delle irregolarità nel campo dell’intelligence”. Si invitano dunque gli Stati
membri a esaminare la possibilità di
concedere agli informatori (“whistleblowers”) protezione internazionale.
I deputati chiedono, inoltre, “un
nuovo corso digitale” in UE ed evidenziano che l’Europa dovrebbe sviluppare una propria cloud e soluzioni IT,
includendo tecnologie di sicurezza informatica e crittografia per assicurare un
alto livello di protezione di dati.
Regole comuni per la neutralità della rete[6] sono state inserite nel pacchetto “Un continente connesso” presentato dalla Commissione a settembre 2013 e composto da una comunicazione che illustra e giustifica l'intervento legislativo, in vista dell'obiettivo del mercato unico delle telecomunicazioni, e una proposta di regolamento che: semplifica il regime di autorizzazione e le norme UE per gli operatori delle telecomunicazioni; elimina i costi del roaming; abolisce la maggiorazione del prezzo delle chiamate internazionali in Europa; aumenta il livello di tutela dei diritti dei consumatori; garantisce condizioni di assegnazione prevedibili e tempistiche coordinate per l'accesso allo spettro delle frequenze. Completa il pacchetto una raccomandazione, che intende promuovere la concorrenza e incoraggiare gli investimenti nelle reti ad alta velocità, garantendo la stabilità a lungo termine dei prezzi di accesso alle reti in rame e assicurando condizioni di parità ai richiedenti l'accesso alle reti degli operatori storici.
Per quanto riguarda la neutralità della rete, sulla base delle disposizioni dell’articolo 23 della proposta di regolamento (su Libertà di fornire e di usufruire di un accesso a internet aperto e gestione ragionevole del traffico) ai fornitori di servizi sarà vietato bloccare, rallentare, degradare o discriminare specifici contenuti, applicazioni o servizi di internet. Agli utenti andrà garantito un accesso alla rete completo e aperto, indipendentemente dal costo dell'abbonamento o dalla velocità della connessione, fatta eccezione per i casi in cui sarà necessario applicare misure di gestione ragionevole del traffico. Tali misure dovranno essere trasparenti, non discriminatorie, proporzionate e necessarie a:
§ attuare una disposizione legislativa o un provvedimento giudiziario, oppure impedire od ostacolare reati gravi;
§ preservare l'integrità e la sicurezza della rete, dei servizi erogati tramite tale rete, e dei terminali degli utenti finali;
§ impedire la trasmissione di comunicazioni indesiderate agli utenti che abbiano espresso previamente il loro consenso a tali misure restrittive;
§ minimizzare gli effetti di una congestione della rete temporanea o eccezionale, purché tipologie di traffico equivalenti siano trattate allo stesso modo.
Le imprese del ramo potranno ancora fornire "servizi specializzati" di qualità avanzata (quali la TV via internet, i servizi di video su richiesta, le applicazioni per la diagnostica per immagini ad alta risoluzione, per le sale operatorie virtuali e per i servizi cloud ad alta intensità di dati), purché ciò non interferisca con la velocità di connessione a internet promessa ad altri clienti. I consumatori avranno il diritto di verificare se la velocità di connessione corrisponde effettivamente alla tariffa pagata e di recedere dal contratto se le condizioni pattuite non sono rispettate.
La citata proposta di regolamento è stata esaminata in prima lettura dal Parlamento europeo, che il 3 aprile 2014 ha approvato una risoluzione legislativa, introducendo alcune modifiche al testo della Commissione. In particolare, si rafforza il principio di neutralità della rete, specificando che l’accesso ad Internet deve essere garantito, “indipendentemente dalla sede dell'utente finale o del fornitore e dalla localizzazione, dall'origine o dalla finalità del servizio, delle informazioni o dei contenuti”.
Inoltre, il Parlamento europeo ha limitato la possibilità di fornire servizi specializzati agli utenti finali: la capacità della rete deve essere sufficiente per fornire tali servizi in aggiunta ai servizi di accesso a internet e non deve essere pregiudicata la disponibilità o la qualità dei servizi di accesso a internet.
Il Presidente dell’Autorità Garante dei dati personali, in occasione della presentazione – il 10 giugno 2014 - della relazione 2013, ha osservato che l’equilibrio tra tecnologie e tutela dei diritti fondamentali nello spazio digitale deve trovare un’efficace risposta ultrastatuale.
Ha inoltre evidenziato il rilievo del ricorso, sul piano nazionale, a protocolli d’intesa tra la stessa Autorità Garante e i soggetti coinvolti nella raccolta dei dati, quali l’intelligence o la magistratura inquirente.
In questo
quadro, dopo che il Garante della privacy aveva registrato un notevole aumento
di richieste di intervento in materia di diritto all’oblio in Internet, la Corte di cassazione ha avuto il suo
primo landmark case (la sentenza 5 aprile 2012, n. 5525) che anticipa parzialmente le posizioni
della Corte di giustizia UE emerse con la nota decisione del 13 maggio 2014
nella causa Google-Spain.
Il caso
discusso davanti alla Suprema Corte è emblematico. Una persona nota aveva chiesto
senza successo al Garante prima, e all’autorità giudiziaria poi, di ordinare a
un editore (RCS) l’aggiornamento di un vecchio articolo presente nell’archivio
on-line del Corriere della Sera (e comparente ai primi posti nelle ricerche
fatte in “Google” usando il nome e cognome del ricorrente) che dava conto di un
suo arresto, senza ovviamente dare conto – perché all’epoca non era ancora
intervenuto – del suo successivo proscioglimento da ogni accusa. Il giudice di
merito aveva negato la tutela sulla base della considerazione che la notizia,
all’epoca in cui era stata data, era veritiera e di pubblico interesse, per cui
la sua pubblicazione aveva costituito legittimo esercizio del diritto di
cronaca; mentre la presenza attuale dell’articolo in Internet assolveva a una
funzione storico-documentaristica, che sarebbe stata tradita da un’integrazione
del testo, la quale avrebbe fatto venir meno il valore di documento storico
dell’articolo. Era, anzi, arrivato ad escludere in radice l’esistenza di un
diritto all’oblio del ricorrente, dato il suo status di personaggio pubblico, e
di conseguenza la sussistenza di “un persistente interesse pubblico
all’apprendimento di notizie relative alla storia personale, anche giudiziaria,
dell’interessato”. La Corte ha quindi concluso per la sussistenza nel caso di
specie di un obbligo a carico dell’editore di predisporre un sistema idoneo a
segnalare (nel corpo o a margine) la sussistenza di un seguito e di uno
sviluppo della notizia, consentendone il rapido accesso. Quasi di passaggio, la
Corte ha peraltro rilevato che il fornitore del servizio di motore di ricerca
non avesse alcun ruolo o responsabilità nella vicenda, spettanti invece al
responsabile del sito sorgente, e rigettando così una delle difese
dell’editore, che aveva sostenuto il proprio difetto di legittimazione passiva
in favore di Google.
La Corte
Suprema ha riconosciuto espressamente l’esistenza di un diritto all’oblio,
inteso nel senso di cui sopra di diritto alla tutela della propria (attuale)
identità personale e morale nella sua proiezione sociale. Ha rimarcato la
differenza tra un archivio in senso tradizionale e la Rete, dove tutte le
notizie sono presentate in maniera non strutturata, “piatta”, e
decontestualizzate. Ha osservato che se la finalità di documentazione storica
può legittimare, dal punto di vista del Codice della privacy, la conservazione
e pubblica accessibilità dell’articolo che riporta una determinata notizia e la
persistente identificabilità del protagonista – la non eccedenza e persistente
compatibilità del trattamento dei dati rispetto al legittimo fine del
trattamento stesso è uno dei capisaldi del diritto della privacy – è però
coerente con questa finalità, e al tempo stesso rispettoso del diritto
all’oblio, che la notizia sia aggiornata e contestualizzata, o financo
cancellata dall’archivio, se non risponde più a verità. Si può osservare
incidentalmente che, quando la tutela assume questa seconda (estrema) forma,
viene ripristinata la coincidenza tra l’espressione “diritto all’oblio” e il
contenuto del diritto stesso.
La
Corte ha quindi concluso per la sussistenza nel caso di specie di un obbligo a
carico dell’editore di predisporre un sistema idoneo a segnalare (nel corpo o a
margine) la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della notizia,
consentendone il rapido accesso. Quasi di passaggio, la Corte ha peraltro
rilevato che il fornitore del servizio di motore di ricerca non avesse alcun
ruolo o responsabilità nella vicenda, spettanti invece al responsabile del sito
sorgente, e rigettando così una delle difese dell’editore, che aveva sostenuto
il proprio difetto di legittimazione passiva in favore di Google.
Sulla base
della sentenza Cella cassazione, tra il dicembre 2012 e il gennaio 2013 il Garante ha accolto due ricorsi
prescrivendo all’editore di segnalare con un’annotazione a margine
dell’articolo l’esistenza dello “sviluppo” della notizia, in modo da assicurare
da un lato, all’interessato, il rispetto della propria attuale identità
personale, e dall’altro, ad ogni lettore, un’informazione attendibile e
completa. Si noti che si trattava di articoli già precedentemente
de-indicizzati.
Ma
anche i giudici ordinari si sono adeguati a tale linea (sentenza 26 giugno 2013, n. 5820 del Tribunale di Milano) in relazione a un caso che presenta diverse
analogie con quello deciso dalla Cassazione. L’attore qui lamentava la
perdurante presenza in Rete – nell’archivio
on-line di un quotidiano a diffusione nazionale e, a cascata, nei motori di
ricerca – di un articolo del 1985 in cui lo si descriveva come usuraio ed evasore e lamentava, oltre
che la diffamazione, la violazione del proprio diritto all’oblio.
Il giudice milanese ha escluso la
diffamazione per prescrizione, ma ha
riconosciuto la lesione del diritto all’oblio, ritenuto prevalente su ogni
altro ipotetico interesse. In particolare, ha osservato che i fatti addebitati
all’attore erano risultati essere non tutti veri; che difettava il requisito
dell’interesse pubblico alla loro permanente conoscenza, dato il lasso di tempo
trascorso dalla vicenda e la carenza di un qualche ruolo di rilevo pubblico
dell’attore; e che mancava il perseguimento di un’apprezzabile finalità, tale
da giustificare l’identificabilità in Rete dell’attore in relazione al fatto
storico, considerato che lo scopo di tenuta dell’archivio può essere
soddisfatto con la conservazione di una copia cartacea. Ricordando che la
Cassazione aveva ipotizzato come misura estrema di tutela quella della radicale
cancellazione dell’articolo dalla Rete, il giudice ha ritenuto che nel caso
sottoposto al suo esame fosse proprio questo il rimedio più appropriato, data
la carenza nella fattispecie di apprezzabili interessi da contrapporre alla
tutela dell’identità personale. Ha dunque ordinato la rimozione dell’articolo
dall’archivio telematico del giornale, consentendo solo la tenuta di una copia
cartacea, e condannato l’editore al risarcimento del danno morale.
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Con riferimento al tema della responsabilità
dei prestatori di servizi on line nei confronti dei contenuti immessi
nella Rete, in Italia assume rilievo l’entrata in vigore, il 31 marzo 2014, del
regolamento
in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazioni
elettroniche approvato dall’Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni (Agcom) con la delibera 680/13/Cons.
Il regolamento prevede infatti, tra le altre
cose, una procedura, alternativa a quella giurisdizionale, per la rimozione dei
contenuti illegali (articoli 6-14). Tale procedura contempla: 1) l’istanza
all’Autorità da parte dei soggetti legittimati per ottenere la rimozione di
un’opera digitale resa disponibile su Internet ovvero di un contenuto inserito
in un palinsesto televisivo in violazione della legge sul diritto d’autore; 2)
l’avvio da parte dell’Autorità di un procedimento amministrativo il quale, dopo
una fase in cui l’interessato può controdedurre (ordinariamente entro cinque
giorni, in situazioni di presunta grave lesione entro tre giorni) rispetto alla
contestazione mossa, si può concludere: a) per le pagine Internet con la
rimozione spontanea da parte del gestore della pagina dei contenuti illegali,
ovvero, in caso di mancata rimozione, con l’ordine
ai prestatori di servizi che svolgono attività di hosting di provvedere,
di norma, alla rimozione selettiva delle opere digitali, ovvero, in presenza di
violazioni massive, alla disabilitazione dell’accesso; in caso di
inottemperanza, si prevede l’applicazione della sanzione amministrativa
pecuniaria prevista dall’articolo 1, comma 31, della legge n. 249/1997 (art. 8); b) per i servizi di media
audiovisivi, la diffida dal trasmettere i contenuti illegali, ovvero in caso di
mancata rimozione, l’ordine al fornitore
di servizi di media lineari (tv generalista) e non lineari (piattaforme tipo Sky)
di adottare ogni misura necessaria ad inibire la diffusione di tali programmi o
cataloghi al pubblico italiano (art. 14); in caso di inottemperanza, è
prevista l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista
dall’articolo 1, comma 31, della legge n. 249/1997 (art. 13)
Trattandosi di un provvedimento
amministrativo, è possibile contro le decisioni dell'Autorità il ricorso alla
giustizia amministrativa (art. 17); è inoltre contemplata la possibilità di
ricorrere, in alternativa, all'autorità giudiziaria (art. 6).
In base a notizie di stampa, contro il
regolamento sono stati avanzati da associazioni di difesa dei consumatori e
degli operatori del settore, nonché da parte di soggetti economici operanti nel
settore, ricorsi al TAR del Lazio e un ricorso straordinario al Capo dello
Stato. Oggetto dei ricorsi sarebbero i seguenti profili:
§ viene messo in discussione se i poteri di
regolazione in materia di tutela del diritto d’autore riconosciuti all’Agcom
dal decreto legislativo n. 44/2010 (c.d. “decreto Romani”) possano estendersi
fino alla configurazione del procedimento “paragiurisdizionale” previsto dal
regolamento e delle sue eventuali conseguenze sanzionatorie, che giungono fino
alla rimozione dei contenuti; l’attribuzione di poteri di regolazione in
materia all’Agcom potrebbe inoltre costituire, ad avviso di alcuni ricorrenti,
un eccesso di delega rispetto a quanto previsto dalla legge comunitaria 2008
(L. n. 88/2009) che contemplava il recepimento della direttiva 2007/65/CE
§ con riferimento in generale agli Internet
Service Provider, la possibilità di richiedere da parte dell’Agcom, ai sensi
dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 70/2003, in quanto autorità
amministrativa con funzioni di vigilanza, la rimozione del contenuto illegale, appare
interpretata estensivamente nel momento in cui si prefigura l’ordine ai
fornitori dei servizi di hosting della rimozione dei contenuti[7].
Sulla base del regolamento, l’Agcom ha, alla
data del 6 giugno 2014, avviato
ventotto provvedimenti. In diciassette casi il provvedimento risulta già
concluso. Di questi, in otto casi è stata decisa l’archiviazione; in quattro
casi si sono avuti adeguamenti spontanei da parte dei soggetti destinatari del
provvedimento, mentre in cinque casi l’Autorità ha ordinato ai prestatori di
servizi on line la disabilitazione dell’accesso ai siti destinatari del
provvedimento.
In Italia il principio delle neutralità
della Rete si è affermato principalmente in via “giurisprudenziale”, in
particolare a seguito della decisione dell’Autorità garante della concorrenza e
del mercato di sanzionare come pratica commerciale scorretta ai sensi del
Codice del consumo (Decreto legislativo n. 206/2005) l’omessa informazione agli
utenti sull’utilizzo di sistemi di filtraggio su linee ADSL che limitano
l’accesso ad alcuni siti Internet e programmi peer to peer (decisione
AGCM 18 dicembre 2008, PS540 Tele2 – Filtri di utilizzo).
Più recentemente, sul tema della neutralità della Rete meritano di essere
segnalate, in Italia, le conclusioni della
consultazione pubblica svolta dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
e terminata nel gennaio 2012.
Le conclusioni registrano, tra le altre
cose, un vasto consenso dei soggetti consultati sui seguenti aspetti:
§ le politiche di pricing e di traffic
management (vale a dire le politiche che variano i canoni di accesso ad
Internet in base alla velocità di connessione) non rappresentano di per sé una
violazione dei principi cardine della “neutralità della Rete” individuati nella
libertà, equità, efficienza, trasparenza delle offerte e non discriminazione;
§ la presenza, nel contesto italiano, di
previsioni normative sufficienti ad assicurare un’adeguata protezione degli
utenti;
§ l’opportunità di verificare la necessità di
ulteriori interventi regolamentari per assicurare informazioni accurate agli
utenti in materia di traffic management
§ l’opportunità di un approfondimento in
ordine al rapporto tra neutralità della Rete e libertà della Rete.
Il primo gennaio 2010, dopo un iter durato
quasi due anni, è entrata in vigore la legge francese «Création et Internet»,
comunemente denominata legge Hadopi, acronimo di Haute Autorité pour
la diffusion des oeuvres et la protection des droits sur Internet,
l’autorità preposta al controllo dei comportamenti degli utenti di Internet
lesivi del diritto d’autore. La versione finale della legge (Loi n. 2009-1311, del
28 ottobre 2009 - Hadopi II) è il risultato di un robusto intervento
correttivo svolto dal Conseil constitutionnel (Décision n. 2009-580 DC, del 10 giugno 2009), che ha depotenziato
alcuni principi cardine del primo provvedimento in materia approvato dal
Parlamento nazionale (Loi n. 2009-669, del
19 giugno 2009 – Hadopi). Il Consiglio ha censurato i poteri sanzionatori
inizialmente attribuiti all’Hadopi e ha negato che la tutela dei diritti
di proprietà intellettuale possa giustificare improprie compressioni della
libertà di espressione, che vede in Internet uno dei più efficaci strumenti di
realizzazione. La sentenza identifica anzi una sorta di “diritto fondamentale”
all’accesso ad Internet; contestualmente, essa suggerisce la necessità che
qualsiasi sanzione sia proceduta dal vaglio di un’autorità giurisdizionale,
introducendo un tema di dibattito la cui risonanza sembra poter oltrepassare i
confini francesi. In particolare, il Conseil constitutionnel ha
affermato che “lo sviluppo generalizzato dei servizi pubblici di comunicazione
online e l’importanza di questi ultimi per la partecipazione alla democrazia e
l’espressione di idee e opinioni, le libertà di comunicazione dei pensieri e di
opinioni sancite dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del
1789 costituiscono libertà implicite per accedere a tali servizi”.
Per ciò che riguarda specificamente il
delicato tema del “diritto all’oblio”,
nell’ottobre 2010 è stata siglata, da alcuni importanti operatori di siti e
motori di ricerca (tra i quali Microsoft), la prima carta del diritto all’oblio,
elaborata e promossa dall’allora Segretario di Stato francese all’economia
digitale Nathalie Kosciusko-Morizet (Governo Fillon II), che si configura come
una sorta di codice di condotta il cui contenuto ha valenza prevalentemente
programmatica, ma impegna i firmatari ad agire in modo da agevolare il
conseguimento di particolari obiettivi, quali il miglioramento della
trasparenza nello sfruttamento dei dati e una gestione facilitata dei dati da
parte degli utenti. In tale ambito la carta individua una serie di azioni
mirate al raggiungimento dei seguenti obiettivi: sensibilizzazione ed
educazione degli internauti; protezione dei dati personali dall’indicizzazione
automatica da parte dei motori di ricerca; gestione da parte degli internauti
dei dati pubblicati in rete; adozione di misure d’informazioni specifiche a
beneficio dei minori; istituzione di un organismo competente a ricevere le
richieste di cancellazione o modifica dei dati personali da parte degli utenti
e la gestione del trasferimento di dati. Tuttavia, il rifiuto da parte di due
colossi Google e Facebook di aderire alla carta riduce di molto l’efficacia di
questo tentativo di autoregolamentazione. Alla base del diniego vi è infatti il
timore che un controllo più pervasivo sul trattamento dei dati personali
potrebbe comportare pesanti ricadute su altri diritti fondamentali, tra i quali
in primis la libertà di espressione.
Nell’ordinamento tedesco il diritto relativo
ad Internet (c.d. Internetrecht o Onlinerecht) non costituisce
una branca giuridica a sé stante, ma investe diversi ambiti normativi: diritto
civile e commerciale, diritto d’autore, disciplina della concorrenza, diritto
penale, diritto internazionale privato, protezione dei dati personali, diritto
delle telecomunicazioni. Con riferimento a quest’ultimo settore, Internet è
stato inizialmente classificato come “servizio telematico” ai sensi della legge
federale sui servizi telematici (Teledienstegesetz - TDG dell’11 luglio
1997) e come “servizio mediatico” ai sensi dell’Accordo di Stato tra
Federazione e Länder sui servizi mediatici (Mediendienste-Staatsvertrag
– MDStV del 31 gennaio 1997). Tale bipartizione, oggi superata dalla nuova
disciplina del 2007 che ha abrogato entrambe le normative, si basava sulle
diverse competenze legislative attribuite, rispettivamente, alla Federazione
per quanto riguarda il settore delle telecomunicazioni e l’aspetto economico, e
ai Länder per la regolamentazione della stampa e dei servizi
radiotelevisivi. Nel 2007, con la riforma sistematica del diritto dei media e
di Internet, i due concetti giuridici di servizio telematico e servizio
mediatico sono stati fusi in quello di “mezzo
telematico”, oggetto della legge sui media telematici (Telemediengesetz
del 26 febbraio 2007, da ultimo modificata dall’art. 1 della legge del 31
maggio 2010).
La responsabilità per i contenuti diffusi
online è dell’emittente dalla quale tali contenuti sono stati inviati, a meno che
essa non riesca a dimostrare che i contenuti di un’altra persona sono stati
inoltrati con il suo stesso consenso. Nell’ottica di una rete che supera i
confini nazionali devono essere osservate le leggi del paese in cui i dati
vengono trasmessi ma, in alcuni casi, il diritto nazionale può essere applicato
anche nel paese in cui la legge è stata infranta. Nella maggior parte dei casi,
quindi, trova applicazione il diritto vigente nello Stato che trasmette
determinati contenuti, sempre che lo Stato del ricevente tolleri l’invio di
dati secondo un diritto straniero. Per citare un esempio giurisprudenziale
emblematico, si può far riferimento ad una sentenza
di principio della Corte di cassazione federale (c.d.
Holocaust-Urteil del Bundesgerichstshof) del 12 dicembre 2000,
secondo la quale un cittadino australiano può essere ritenuto penalmente
responsabile in Germania per un sito web negazionista dell’olocausto, ospitato
su un server in Australia.
Sul versante della protezione dei dati
personali e del diritto alla privacy assume particolare rilevanza la sentenza
della Corte costituzionale federale del 2 marzo 2010, che
ha dichiarato l’incostituzionalità delle
disposizioni attuative della direttiva europea 2006/24/CE sulla
conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di
servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico. Nello specifico
si tratta degli artt.
113a e 113b della Telekommunikationsgesetz e
dell’art. 100g
del codice di procedura penale (Strafprozessordnung). Secondo i
giudici costituzionali le norme di recepimento della direttiva europea sono
incompatibili con l’art. 10, comma 1 della
Legge fondamentale (Grundgesetz) che sancisce
l’inviolabilità del segreto della corrispondenza, postale e delle
telecomunicazioni. Tali disposizioni violano quindi un diritto
costituzionalmente garantito, consentendo l’archiviazione di dati sensibili in
mancanza di parametri di sicurezza per i cittadini e non fornendo informazioni
precise in merito alle modalità di utilizzo di tali dati. Pur non mettendo in
discussione in linea di principio la validità della norma europea (che sarà poi
dichiarata invalida dalla sentenza della Corte di giustizia europea dell’8
aprile 2014), la Corte costituzionale tedesca reputa l’applicabilità delle
disposizioni di recepimento di particolare gravità per la segretezza delle
telecomunicazioni, ritendo i dati archiviati sufficienti per una profilazione invasiva degli utenti
riguardo alle loro opinioni politiche, ai loro gusti personali, ai loro
comportamenti in fatto di consumi, e ad altro ancora. I giudici hanno inoltre
sottolineato il rischio di abuso in quanto l’affidamento ad attori privati di
dati di tale importanza non può essere consentito in presenza di deboli
garanzie di sicurezza. Non da ultimo la raccolta e conservazione di tali dati
senza un preciso motivo rischiano di provocare negli utenti una diffusa
sensazione di essere costantemente osservati a scapito della garanzia e tutela
dei propri diritti fondamentali.
Per quanto concerne, invece, il diritto di
accesso alla rete, connesso al diritto all’informazione, si segnala una più
recente pronuncia della Corte di cassazione federale del 24 gennaio 2013 (BGH,
Urteil vom 24.01.2013 – III ZR 98/12), che ha riconosciuto il
diritto al risarcimento ad un cittadino che, a causa di un adeguamento
tariffario, era stato privato della connessione ad internet per due mesi. La
Corte ha invece negato il risarcimento per l’impossibilità di utilizzare il fax
ed il telefono fisso perché il ricorrente avrebbe potuto ovviare con altri
mezzi (fax all’ufficio postale e utilizzo del telefono cellulare). Pur
trattandosi di un risarcimento non elevato, va rilevato che la Corte ha
ritenuto Internet una componente importante della vita moderna ponendolo sullo
stesso piano del diritto alla mobilità (come nel caso dell’impossibilità di
utilizzare la propria auto per un certo periodo a causa di un incidente
imputabile a terzi). Secondo l’allora Ministro federale della giustizia (Sabine
Leutheusser-Schnarrenberger, FDP) la sentenza è una dimostrazione di quanto la
rete sia fondamentale per il diritto all’informazione e configura l’utilizzo di
Internet come un vero e proprio diritto del cittadino (Bürgerrecht).
Nel Regno Unito la normativa rilevante per
la tutela delle posizioni soggettive concernenti l’accesso ad Internet e la sua
utilizzazione ha fonte in una molteplicità di testi legislativi.
La tutela
dei dati personali, in primo luogo, è disciplinata dal Data Protection Act 1998.
Adottata in attuazione delle norme comunitarie, la legge ha innovato un ambito
disciplinare tradizionalmente caratterizzato dall’elaborazione
giurisprudenziale degli istituti tipici della privacy. Peraltro, un
tratto peculiare delle disposizioni del 1998 è da cogliere nella visione
integrata degli aspetti di rilevanza giuridica concernenti la circolazione
delle informazioni, che trova espressione nella attribuzione all’autorità
indipendente di settore (Information Commissioner’s Office) di
competenze di controllo e di garanzia non limitate al campo della data
protection, ma concernenti anche il diritto di accesso dei singoli alle
informazioni di interesse pubblico (disciplinato dal Freedom of Information Act 2000).
Un profilo che ha assunto specifico rilievo,
nell’esperienza britannica, si correla con la questione del bilanciamento tra
le garanzie concernenti il trattamento di dati personali e le esigenze di
tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato, perseguite
attraverso attività di sorveglianza
elettronica disposte dai poteri pubblici. In quest’ambito, le innovazioni
legislative dirette ad adeguare il diritto interno agli aggiornamenti del corpus
normativo comunitario in materia di privacy (con riferimento alle
comunicazioni elettroniche e alla data retention) si sono intersecate,
nel contesto nazionale, con i provvedimenti adottati nell’ambito della lotta al
terrorismo.
Principale testo normativo di riferimento,
assieme alle norme attuative e ai codici di condotta che ne integrano la
disciplina, è a questo riguardo il Regulation of Investigatory Powers Act 2000
(RIPA), con cui il legislatore ha inteso individuare un punto di equilibrio tra
l’azione investigativa dei poteri pubblici – soggetta ad un regime di
autorizzazioni - e il rispetto delle garanzie previste dalla CEDU. La
necessaria applicazione del principio di proporzionalità, sulla cui sola base
possono essere giustificate modalità di controllo certamente invasive della
vita privata, discende, in particolare, dalla vigenza dello Human Rights Act 1998, con
cui il Regno Unito ha incorporato nel proprio ordinamento la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, introducendovi garanzie di rango sostanzialmente
costituzionale che, nel quadro di più recenti ipotesi politico-istituzionali
concernenti l’introduzione di una written constitution nel Regno Unito,
sono state considerate il nucleo di una eventuale codificazione dei diritti
fondamentali nella forma di un moderno Bill of Rights.
Quali che siano i possibili esiti del più
generale dibattito circa l’opportunità di una solenne enunciazione dei diritti
fondamentali, è il caso di segnalare il rilievo particolare assunto, tra
questi, dal diritto alla privacy, venuto al centro dell’attenzione sotto
il profilo del contemperamento delle relative garanzie con diverse e perlopiù
confliggenti finalità di interesse pubblico. Aspetti problematici, a questo
riguardo, sono emersi con riguardo all’aggiornamento degli strumenti normativi in
materia di intercettazione delle comunicazioni elettroniche (oggetto di un Communications Data Bill
redatto nel 2012 e tornato al riesame dello Home Office dopo i rilievi
formulati dagli organi parlamentari in punto di compatibilità con i diritti
fondamentali); all’operatività del National DNA Database, e alle
relative modalità di conservazione (dopo la sentenza di condanna pronunciata
nel 2008 nei confronti del Regno Unito dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo nel caso Marper) dei dati genetici e
biometrici di persone con precedenti penali; alle previsioni (abrogate nel 2010
dall’attuale Esecutivo pochi mesi dopo il suo insediamento) istitutive di una
base centralizzata di dati anagrafici (Identity Cards Act 2006). In
questo quadro, non è mancata la sollecitazione, espressa in forma di mozione in
una delle più recenti sessioni parlamentari, riferita all’opportunità di
disciplinare in modo esplicito, quale aspetto sostanziale di una “carta dei
diritti di Internet” (Internet Bill of Rights), la garanzia della privacy
dell’utente della Rete.
Un profilo non meno rilevante della
disciplina cui soggiace l’utilizzazione di Internet, la libertà di espressione, non è inciso da previsioni specificamente
riferite alla natura del mezzo utilizzato. A parte la prescrizione generale che
vieta l’uso “inappropriato” delle reti di comunicazione elettronica (dettata
dal Communications Act 2003, art. 127),
deve infatti farsi capo, per le ipotesi di espressioni discriminatorie e di istigazione
all’odio diffuse attraverso la Rete, alla legislazione ordinaria in materia di
“hate speech”. Essa è costituita, principalmente, dal Public Order
Act 1986, modificato nel 2008 per integrarne le disposizioni con il
riferimento alla discriminazione sessuale
e di genere; e dal Racial and Religious Hatred Act 2006, di cui è
oggetto la discriminazione fondata
sull’origine etnica e sul credo religioso. Per quel che concerne le disabilità, il termine normativo di
riferimento è costituito dall’Equality Act 2010, di
cui può imputarsi la violazione a chi per mezzo della Rete diffonda contenuti
discriminatori riferiti a tale condizione personale, inclusa tra quelle oggetto
di tutela (oltre all’età, allo stato civile, all’orientamento sessuale, al
mutamento di sesso).
Le disposizioni di questi testi legislativi
sono corredate dall’indicazione di criteri che individuano, in relazione ai
diversi ambiti della discriminazione, la sussistenza e la gravità del
comportamento vietato. La rilevanza di questi criteri, manifestatasi nella loro
applicazione in sede giurisdizionale e nell’attività delle authorities
istituite con compiti di garanzia in taluni settori “sensibili” (come la Equality
and Human Rights Commission), si traduce, sul piano pratico, nella
tipizzazione di comportamenti discriminatori e ispirati dall’odio compiuti per
mezzo della Rete, per la cui rilevazione e segnalazione è operativo, dal 2011,
un apposito servizio on-line gestito dalle autorità di polizia (True
Vision).
Peraltro, un limite alla libertà di
espressione, secondo alcune opinioni critiche, sarebbe derivato dal recente
intervento rubricato sotto l’espressione “economia digitale”, con cui il
legislatore ha previsto (con il Digital Economy Act 2010) un
maggiore coinvolgimento dei providers nell’azione di contrasto dei
fenomeni di violazione dei diritti di privativa sui contenuti digitali, e
delineato strumenti inibitori che possono consistere nel blocco dei siti
Internet di cui sia riconosciuta la responsabilità in atti di pirateria concernenti
il diritto d’autore. Sul piano
operativo, le modalità di blocco dei siti Internet, e le relative opzioni
tecniche, sono state prese in esame da parte dell’autorità di garanzia delle
comunicazioni – OFCOM – in un documento del 2010 espressamente dedicato al “site blocking”.
Un tema ulteriore, di notevole risonanza
presso l’opinione pubblica e posto recentemente anche all’attenzione
parlamentare, riguarda la tutela dei minori
on-line. Sulla base dei risultati di un’inchiesta
indipendente promossa nel 2012 dalla Camera dei Comuni e affidata ad esperti
esterni, è stata prospettata, e sottoposta ad una consultazione pubblica,
l’opportunità di adottare misure normative per ottenere dai providers
una preliminare configurazione delle modalità di connessione alla Rete idonea a
filtrare e a bloccare preventivamente i contenuti potenzialmente lesivi. Tale
soluzione di filtraggio “alla fonte”, tuttavia, è stata ritenuta di dubbia
efficacia e proporzionalità dal Governo, che nella sua replica alla
relazione conclusiva dell’inchiesta ha evidenziato (anche sulla base dei
risultati della consultazione pubblica) il ruolo imprescindibile di un’attiva
vigilanza dei genitori (attraverso le opzioni tecniche di “parental control”)
sull’uso “sicuro” di Internet da parte dei propri figli.
Il tema dell’adozione di metodiche opt-in
oppure opt-out per la connessione alla Rete e la selezione dei contenuti
per suo tramite diffusi è emerso, più di recente, in sede politica e con
riferimento particolare alla tutela dei minori rispetto alla diffusione di contenuti pornografici. Il Primo
Ministro ha annunciato, in un discorso
pronunciato nel 2013, l’intento di voler prevedere l’obbligo per i providers
di predisporre una connessione filtrata (“family-friendly filters”) per
tutti i nuovi utenti salvo loro diversa opzione, e di contattare gli utenti già
abbonati per informarli della possibilità di optare per tale modalità “sicura”
di configurazione di accesso alla rete ove non preferiscano diversamente.
Riguardo alla legislazione vigente, il Primo Ministro ha annunciato modifiche
(attraverso il Criminal Justice and Court Bill
attualmente all’esame del Parlamento) delle norme in materia di pornografia
estrema, al fine di reprimerne con maggiore severità la diffusione anche
attraverso Internet.
La Costituzione spagnola (1978) non contiene
riferimenti diretti a Internet. Tuttavia l’art. 18 garantisce il segreto delle
comunicazioni e in specie di quelle postali, telegrafiche e telefoniche, salva
decisione giudiziale (comma 3), prevedendo inoltre che la legge ponga limiti
all’uso dell’informatica per salvaguardare l’onore e l’intimità personale e
familiare dei cittadini, nonché il pieno esercizio dei loro diritti (comma 4).
La principale norma in materia di protezione
dei dati personali è costituita dalla Ley Orgánica 15/1999, de 13 de diciembre, de protección de datos
de carácter personal, che ha dato
attuazione alla direttiva comunitaria 95/46 del 24 ottobre 1995, “relativa alla
tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali,
nonché alla libera circolazione di tali dati”. L’aspetto peculiare della legge
è costituito dall’enunciazione delle regole che devono presiedere alle
operazioni di trattamento di dati personali. In estrema sintesi, si stabilisce
che i dati debbano essere trattati in modo leale e legittimo, e in conformità
alle condizioni specifiche previste per i dati sensibili (datos especialmente
protegidos, art. 7); si affermano i princìpi di finalità e di pertinenza,
dovendo i dati essere raccolti per uno scopo conforme alla legge, e sottoposti
a trattamento solo a questo fine e non per ulteriori utilizzazioni. Essi devono
essere conservati per il tempo strettamente necessario al loro trattamento,
devono essere accurati e aggiornati, devono essere protetti da misure tecniche
di sicurezza, idonee ad impedire la loro perdita, alterazione o distruzione
accidentale nonché la loro accessibilità da parte di terzi non autorizzati. Ai
soggetti interessati è riconosciuto: il diritto di accesso ai propri dati
detenuti da terzi, nonché quello, in casi prestabiliti, di opporsi al relativo
trattamento (artt. 6, 14); il diritto di impugnare atti dell’amministrazione o
di soggetti privati assunti sulla base di valutazioni sorrette unicamente dal
trattamento di dati personali (art. 13); il diritto di accesso al Registro
generale di protezione dei dati, in cui sono riportate le finalità dei
trattamenti di dati e l’identità dei soggetti responsabili (art. 14); il
diritto di ottenere la rettifica o la
cancellazione di dati personali incompleti, inesatti o non pertinenti (art.
16); il diritto al risarcimento del danno (art. 19). Il legislatore spagnolo ha
infine previsto, conformemente alle disposizioni comunitarie, alcune deroghe
alla disciplina generale, nel quadro delle garanzie riconosciute ai soggetti
interessati: tali deroghe operano con riguardo al trattamento di dati personali
compiuti dalle pubbliche autorità a fini di sicurezza nazionale o di assistenza
sociale, e da soggetti privati nell’ambito dell’attività giornalistica, della
ricerca storica, scientifica e statistica.
Nel 2002 è stata approvata la Ley 34/2002, de 11 de julio, de servicios de la
sociedad de la información y de comercio electrónico, con la quale il legislatore ha accolto un concetto ampio di “servizi
della società dell'informazione”, comprendente, al di là dell’ambito della
contrattazione di beni e servizi per via elettronica, la fornitura di
informazioni, l’invio di comunicazioni commerciali, le attività di
intermediazione per l’accesso a Internet, la trasmissione di dati attraverso le
reti di telecomunicazioni e l’offerta di strumenti di ricerca, accesso e
ricompilazione di dati, purché svolte con finalità economiche. Il principio
della libera prestazione dei servizi della società dell’informazione trova il suo
limite nel rispetto di alcuni valori fondamentali: la salvaguardia dell’ordine
pubblico, delle indagini giudiziarie e della difesa nazionale; la protezione
della salute pubblica o delle persone fisiche dei consumatori, degli utenti e
degli investitori; il rispetto della dignità della persona e il divieto di
discriminazioni in base alla razza, al sesso, alla religione, alle opinioni,
alla nazionalità, all’incapacità o a qualsiasi altra circostanza personale o
sociale; la protezione della gioventù e dell’infanzia. Le amministrazioni
pubbliche devono favorire l’elaborazione e l’applicazione di codici di condotta
volontari, redatti con la partecipazione delle associazioni dei consumatori e
degli utenti e volti alla protezione dei destinatari dei servizi, in particolare
dei minori. Per quanto concerne l’informazione e il controllo, sia i
destinatari sia i fornitori dei servizi possono, indirizzandosi ai Ministeri
competenti e agli organi corrispondenti presso le Comunità autonome, ottenere
informazioni relative ai propri diritti, alle obbligazioni contrattuali, ai
procedimenti di risoluzione dei conflitti, nonché indicazioni concernenti le
autorità, le associazioni e le organizzazioni che possono fornire informazioni
ulteriori o assistenza pratica.
Nel 2009 è stato adottato il Real Decreto 899/2009, de 22 de mayo, por el que se aprueba la
carta de derechos del usuario de los servicios de comunicaciones electrónicas. La Carta
dei diritti dell’utente dei servizi di comunicazione elettronica ha
raccolto le disposizioni relative ad alcuni diritti già riconosciuti,
aggiungendone degli altri. In particolare l’art. 3 del decreto riconosce, tra
gli altri, il diritto a ottenere una connessione alla rete telefonica pubblica
da un’ubicazione fissa, che faciliti l’accesso funzionale a Internet e di
accedere alla prestazione del servizio telefonico, così come al resto delle
prestazioni comprese nel servizio universale, il diritto a ricevere servizi di comunicazioni
elettroniche con garanzia di qualità ed un’informazione comparabile, pertinente
e aggiornata sulla qualità dei servizi di comunicazioni elettroniche
disponibili, e infine il diritto alla protezione dei dati di carattere
personale[8].
L’art. 5 prevede che, in relazione al servizio di banda larga per l’accesso a
Internet, l’operatore non può applicare all’utente finale un’offerta la cui
velocità pubblicizzata sia superiore alla velocità massima permessa dalla
tecnologia utilizzata. L’art. 16 prevede inoltre il diritto a un indennizzo per
l’interruzione temporanea del servizio di accesso a Internet.
La Ley 2/2011, de 4 de marzo, de Economía Sostenible, all’interno della Strategia di recupero
dell’economia spagnola, ha previsto un ampio programma di riforme volte a una
nuova crescita equilibrata e duratura, che sia sostenibile dal punto di vista
economico, ambientale e sociale. In particolare l’art. 52 ha previsto
l’inclusione, come parte integrante del servizio universale di
telecomunicazioni, di una connessione
che consenta comunicazioni di dati di banda larga a una velocità di downstream
di 1 Mbit al secondo, mediante qualsiasi tecnologia. La Commissione
delegata del Governo per gli affari economici può fissare un costo massimo per
le connessioni che permettono comunicazioni in banda larga incluse nel servizio
universale. La quarantatreesima disposizione finale disciplina inoltre
l’attività di download da Internet, prevedendo la possibilità, da parte della
Commissione sulla proprietà intellettuale, di privazione dell’accesso a
Internet per i soggetti che violano i contenuti protetti dalle norme sul
diritto d’autore.
Infine, nel 2014 è stata approvata la nuova
legge sulle comunicazioni: la Ley 9/2014, de 9 de mayo, General de
Telecomunicaciones. L’art. 3 della
legge pone tra gli obiettivi della legge la difesa degli interessi degli
utenti, assicurando il loro diritto di accesso ai servizi di comunicazioni
elettroniche in condizioni adeguate di prezzo e qualità, promuovendo la
capacità degli utenti finali ad accedere e distribuire l’informazione o
utilizzare le applicazioni e i servizi, in particolare attraverso un accesso a
Internet. Tutti gli utenti finali del servizio universale possono ottenere una
connessione alla rete pubblica di comunicazioni elettroniche da un’ubicazione
fissa, che consenta di realizzare comunicazioni tramite voce, fax e dati, a
velocità sufficiente per accedere in maniera funzionale ad Internet. Tale
connessione deve permettere comunicazioni di dati in banda larga a una velocità
di downstream di 1 Mbit al secondo (art. 25). La Strategia nazionale di reti
ultrarapide deve adottare le misure per raggiungere gli obiettivi stabiliti
dall’Agenda digitale per l’Europa e incorporati nell’Agenda digitale per la
Spagna e, in particolare, per assicurare l’universalizzazione di una
connessione che permetta comunicazioni di dati di banda larga che si estenda
progressivamente, in modo da raggiungere nel 2017 una velocità minima di
Internet di 10 Mbit al secondo e, entro il 2020, di consentire a tutti gli
utenti una velocità minima di Internet di 30 Mbit al secondo, e ad almeno il
50% delle famiglie l’accesso a servizi di velocità superiore a 100 Mbit al
secondo (diciottesima disposizione aggiuntiva).
La Grecia
è tra i Paesi i cui ordinamenti contemplano previsioni di rango costituzionale,
rilevanti per la ricostruzione di una sfera di diritti fondamentali
espressamente riconducibili all’accesso e all’utilizzazione di Internet. La
costituzione ellenica, a seguito della revisione costituzionale del 2001,
prevede all’art. 5A), comma 2, che «ciascuno ha il diritto di partecipare alla
Società dell’Informazione. La facilitazione dell’accesso alle informazioni
trattate in forma elettronica, come anche la produzione, lo scambio e la
diffusione di esse, è materia di obblighi per lo Stato, in conformità alle
garanzie di cui agli articoli 9, 9A e 19» (traduzione non ufficiale).
All’esplicita previsione costituzionale di
un diritto di accesso alla rete, fonte del corrispondente obbligo a carico dei
pubblici poteri di garantirne l’effettiva realizzazione, non risulta però che
abbiano fatto seguito provvedimenti attuativi da parte del legislatore
ordinario, la cui adozione non costituisce, presumibilmente, una priorità
attuale, considerata la dura crisi economica che ha colpito il Paese.
Sempre in ambito europeo, una delle
esperienze più significative è quella dell’Estonia,
il cui Telecommunications Act del febbraio 2000 ha inserito l’accesso
alla rete nel novero degli obblighi di servizio universale, prefiggendosi,
all’art. 5, di rendere Internet “(…) universally available to all
subscribers regardless of their geographical location, at a uniform price”. In
più, la Legge specifica l’intenzione di abbattere ogni discriminazione nei
confronti degli utenti residenti in zone geograficamente disagiate del Pese, e
ciò sia dal punto di vista del diniego dell’accesso alla rete, sia sotto il
profilo dell’adeguamento tariffario nei confronti di tali soggetti. Inoltre, in
ragione di una forte promozione delle nuove tecnologie al servizio della
partecipazione democratica, l’Estonia ha introdotto, sin dalle elezioni
amministrative del 2005, un sistema di votazione elettronica da sfruttare, su
massima scala, anche per le elezioni politiche. Il voto elettronico è così
divenuto una realtà consolidata, ripetutasi da ultimo in occasione delle
elezioni politiche del 2011, quando il 24,3% delle preferenze è stato espresso
con questa modalità.
Il meccanismo è stato sottoposto a critiche,
successivamente diradate da una pronunzia della Riigikohus, la Corte
suprema estone, che ha ricondotto l’introduzione dell’e-vote al
tentativo di favorire la massima partecipazione possibile dei cittadini nei
procedimenti elettorali.
La rilevanza di Internet è dunque saldata al
principio partecipativo, tanto da porre la salvaguardia della partecipazione
informatica su un piano sovraordinato rispetto ai dubbi espressi in relazione
alla garanzia del rispetto di numerose caratteristiche del voto, tra cui
segretezza, personalità e libertà.
Infine, anche la Finlandia ha intrapreso un percorso normativo iniziato con
l’approvazione del Communications Market Act (393/2003), e
culminato sei anni dopo con l’introduzione della banda larga tra gli obblighi
di servizio universale.
La Sezione 60c) della legge finnica contiene
la regolamentazione degli obblighi di servizio universale delle
telecomunicazioni. La FI.CO.R.A. (Finnish Communications Regulatory
Authority) individua un provider cui viene attribuito il ruolo di
gestore del servizio universale delle telecomunicazioni, che ha il dovere di
erogare il servizio alla totalità degli utenti ad un prezzo ragionevole ed
indipendentemente dalla collocazione geografica. Tra gli obblighi di servizio
universale, la legge individua anche una “appropriata connessione Internet
per tutti gli utenti”. Il legislatore si cura altresì di stabilire dei
parametri di riferimento per valutare quando un servizio abbia un prezzo
“ragionevole” e quando una connessione possa ritenersi “appropriata”. Dal primo
punto di vista dovranno essere valutati i prezzi medi, nonché il coefficiente
di difficoltà ed i costi da sostenere per la realizzazione dell’infrastruttura.
Dal secondo punto di vista, la legge attribuisce al Ministero dei Trasporti e
delle Comunicazioni il compito di fissare, con decreto, la funzionalità minima
di una connessione alla Rete affinché la stessa possa considerarsi
“appropriata”. Ad oggi il governo finnico, con l’emanazione del Decreto
732/2009 sulle tariffe minime di un accesso funzionale ad Internet come
servizio universale (traduzione
inglese), ha fissato tale misura in almeno 1 Mbit
per secondo in downstream.
Focus: Le esperienze di alcuni Paesi
dell’America latina
In alcune Costituzioni dei Paesi
dell’America latina è possibile rinvenire precisi riferimenti relativi a
Internet e alle reti informatiche. In Venezuela
la Costituzione
(1999-2000), all’art. 28, sancisce il diritto di ogni persona ad accedere
all’informazione e ai dati contenuti in registri ufficiali o privati sulla
persona medesima o sui suoi beni, con le eccezioni stabilite dalla legge,
così come di conoscere l’uso che viene fatto dei dati e di richiedere al
tribunale competente l’aggiornamento, la rettifica o la distruzione degli
stessi, nel caso siano erronei o ledano illegittimamente i propri diritti.
Allo stesso modo si può accedere a documenti di qualsiasi natura che
contengano informazioni la cui conoscenza sia di interesse per comunità o
gruppi di persone, fatto salvo il segreto delle fonti di informazione
giornalistica o di altre professioni determinate dalla legge. L’art. 108
prevede che i mezzi di comunicazione, pubblici e privati, debbano contribuire
alla formazione dei cittadini. Lo Stato deve altresì garantire servizi
pubblici di radio, televisione e reti di biblioteca e informatiche, al fine
di permettere l’accesso universale all’informazione. I centri di istruzione
devono incorporare la conoscenza e l’applicazione delle nuove tecnologie e
delle sue innovazioni, secondo requisiti stabiliti dalla legge. In Honduras
la Costituzione
(1982), all’art. 182 (riformato nel 2006), riconosce, accanto all’hábeas
corpus, un hábeas data. Quest’ultimo può essere promosso dalla
persona i cui dati personali o familiari figurano in archivi, registri
pubblici o privati, al fine di ottenere accesso all’informazione, impedire la
sua trasmissione o divulgazione, rettificare dati inesatti o erronei,
aggiornare l’informazione, esigere confidenzialità e l’eliminazione di false
informazioni, rispetto a qualsiasi archivio o registro, pubblico o privato,
contenuto in mezzi convenzionali, elettronici o informatici, che producano
danno all’onore, all’intimità personale, familiare e alla propria immagine.
Tale garanzia non riguarda il segreto delle fonti di informazione
giornalistica. In Brasile
la Costituzione
(1988), all’art. 5 (2014), prevede che “Tutti sono uguali davanti alla legge,
senza distinzione alcuna; è garantita, tanto ai brasiliani quanto agli
stranieri residenti nel Paese, l’inviolabilità del diritto alla vita, alla
libertà, all’uguaglianza, alla sicurezza e alla proprietà, nei seguenti
termini: (…) LXXII. L’habeas data verrà
concesso: a) per assicurare la conoscenza di
informazioni relative alla persona del richiedente, come risultano nei
registri o nelle banche dati di enti governativi o di carattere pubblico; b) per la rettifica di dati, qualora non
si preferisca farlo con processo segreto, giudiziale o amministrativo”[9]. (…)” Il Brasile ha quindi introdotto nel 2014
una disciplina organica relativa ai principi, alle garanzie, ai diritti e ai
doveri per l’uso di Internet (Lei n. 12.965,
del 23 aprile 2014, cosiddetto “Marco Civil da Internet”). Essa si
fonda sul rispetto della libertà di espressione, come pure sul riconoscimento
della dimensione globale della rete; sui diritti umani, lo sviluppo della personalità
e l’esercizio della cittadinanza nell’ambito dei media digitali; sul
pluralismo e la diversità; sull’apertura e la collaborazione; sulla libera
iniziativa, la libera concorrenza e la tutela dei consumatori; sulla finalità
sociale della rete (art. 2). La disciplina dell’uso di Internet deve
attenersi ai seguenti principi: garanzia della libertà di espressione,
comunicazione e manifestazione del pensiero, ai sensi della Costituzione;
tutela della vita privata; protezione dei dati personali, secondo quanto
previsto dalla legge; mantenimento e garanzia della neutralità della rete;
mantenimento della stabilità, sicurezza e funzionalità della rete, mediante
misure tecniche compatibili con gli standard internazionali e incoraggiando
l’uso delle migliori pratiche; responsabilizzazione degli agenti in base alle
loro attività, conformemente alla legge; mantenimento della natura
partecipativa della rete; libertà quanto ai modelli di attività economica
perseguiti su Internet, purché non in contrasto con gli altri principi
stabiliti dalla legge (art. 3). La nuova normativa si prefigge, infine, i
seguenti obiettivi: promuovere il diritto di tutti all’accesso a Internet;
favorire l’accesso all’informazione, la conoscenza e la partecipazione alla
vita culturale e alla gestione della cosa pubblica; promuovere l’innovazione
e stimolare l’ampia diffusione delle nuove tecnologie e dei nuovi modelli di
utilizzo e di accesso; promuovere l'adesione a standard tecnologici aperti
che consentano la comunicazione, l’accessibilità e l’interoperabilità tra
applicazioni e basi di dati (art. 4). In Ecuador
la Costituzione
(2008), all’art. 16, sancisce che tutte le persone, in forma individuale o
collettiva, hanno diritto a: una comunicazione libera, interculturale,
includente, diversa e partecipativa, in tutti gli ambiti dell’interazione
sociale, in qualsiasi mezzo e forma, nella loro propria lingua e con i propri
simboli; all’accesso universale alle tecnologie di informazione e
comunicazione; alla creazione di mezzi di comunicazione sociale e all’accesso
in eguaglianza di condizioni all’uso delle frequenze dello spettro
radioelettrico per la gestione di stazioni di radio e televisione pubbliche,
private e comunitarie, e a bande libere per lo sfruttamento di reti senza
fili; all’accesso e all’uso di tutte le forme di comunicazione visiva,
uditiva, sensoriale e ad altre che permettano l’inclusione delle persone con
disabilità; ad integrare gli spazi di partecipazione previsti nella
Costituzione nel campo della comunicazione. In ultimo va segnalata un’importante
sentenza della Sala Constitucional (Corte Costituzionale) della Costa Rica, che, con la pronuncia n.
12790 del 30 luglio del 2010, ha affermato che “il ritardo del governo ad
aprire il mercato delle comunicazioni alla concorrenza equivale ad una
violazione delle libertà fondamentali, arrecando un grave pregiudizio alla
libertà di scelta dei consumatori e all’eliminazione del digital divide”.
Secondo le argomentazioni della Corte, “l’evoluzione negli ultimi venti anni
in materia di tecnologia dell’informazione e della comunicazione […] ha
rivoluzionato l’ambiente sociale dell’essere umano […], con la conseguenza
che può affermarsi che questa tecnologia ha avuto un impatto significativo
sul modo nel quale l’essere umano comunica, facilitando la relazione tra
persone ed istituzioni a livello mondiale e eliminando la barriera di spazio
e tempo. Ne discende che l’accesso a queste tecnologie si converte in uno
strumento primario per agevolare l’esercizio dei diritti fondamentali, come,
tra gli altri, la partecipazione democratica (democrazia elettronica) e il
controllo dei cittadini, la formazione, la libertà di espressione e di
pensiero, l’accesso all’informazione ed ai servizi pubblici online, il
diritto a rapportarsi con i pubblici poteri attraverso strumenti elettronici
e la trasparenza amministrativa”. In questo modo, la Sala Constitucional
ha riconosciuto il ruolo di Internet come strumento fondamentale della
comunicazione interpersonale, agevolando il rapporto tra i cittadini privati
e i pubblici poteri, mediante il superamento di barriere tecniche che gli
strumenti tradizionali non erano in grado di eliminare. |
[1] Direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione e che modifica la direttiva 2002/58/CE.
[2] Nel
procedimento confluivano le domande in via pregiudiziale trasmesse dall’Alta
Corte irlandese e dalla Corte costituzionale austriaca rispettivamente
originate da:
§
la controversia
tra una società irlandese per la
promozione e la protezione dei diritti civili e dei diritti dell’uomo, in
particolare nel contesto delle moderne tecnologie di comunicazione, e diverse autorità pubbliche irlandesi, avente ad
oggetto la legittimità di misure legislative ed amministrative in attuazione
della direttiva citata;
§ In particolare, il giudice del rinvio chiedeva alla
Corte del Lussemburgo chiarimenti in merito alla compatibilità della direttiva
con il principio di proporzionalità
ex articolo 5, paragrafo 4, TUE considerate, tra l’altro, le tutele in materia
di vita privata e di protezione dei dati personali previste agli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti
fondamentali (in linea peraltro con i simili principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
§
numerosi ricorsi
volti ad annullare la disciplina nazionale austriaca di trasposizione della
direttiva citata in quanto in violazione del diritto fondamentale dei privati
alla protezione dei propri dati;
§ Similmente alla prima domanda, secondo il giudice del rinvio vi erano dubbi sul idoneità della direttiva al raggiungimento degli obiettivi da essa perseguiti e, dall’altro lato, circa la proporzionalità dell’ingerenza nei diritti fondamentali interessati.
[3] Nel 2010 un
cittadino spagnolo presentava all’Agenzia spagnola per la protezione dei dati
un reclamo nei confronti di un
giornale diffuso in Spagna, nonché contro Google
Spagna e Google Inc.. In sintesi, l'uomo lamentava che gli annunci di vendita all’asta (a seguito
di pignoramento) risalenti al 1998 e
che tuttora comparivano come risultati
del motore di ricerca Google violavano il suo diritto alla privacy, atteso che il procedimento esecutivo nei suoi
confronti era stato completamente risolto da un certo numero di anni e quindi il riferimento alle tesi era diventato del tutto irrilevante.
Il cittadino spagnolo chiedeva, in primo luogo, che il
giornale fosse obbligato a rimuovere o modificare le pagine in questione in
modo che i relativi dati personali non apparissero; in secondo luogo, che
Google Spagna o Google Inc. fossero obbligati a rimuovere i dati personali che
lo riguardavano, in modo tale che non apparissero più nei risultati di ricerca.
Investita della questione, l’Audiencia Nacional ha
proposto alla Corte di giustizia UE domanda
di pronuncia pregiudiziale, chiedendo in sostanza (Causa C-131/12):
§
se la direttiva
sulla protezione dei dati del 1995 si applichi
ai motori di ricerca come Google;
§
se il diritto
dell’Unione (nel caso di specie la direttiva) si applichi a Google Spagna,
considerato che il server della società di elaborazione dati si trova negli Stati Uniti;
§
se un individuo ha
il diritto di chiedere che i propri
dati personali vengano rimossi dall’accessibilità tramite un motore di ricerca (il 'diritto di essere dimenticati' o diritto all’oblio”).
[4] Per l’approfondimento si rinvia alla Scheda di valutazione n. 22/2012 del Servizio Affari internazionali -Ufficio dei rapporti con le istituzioni dell’Unione europea del Senato, e al Dossier di documentazione n. ES 120 “Nuovo quadro giuridico per la protezione dei dati personali nell’Unione europea” del 19 marzo 2012 dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera dei deputati.
[5] In
particolare: il Documento di lavoro di lavoro concernente i programmi di
sorveglianza degli USA e dell’UE e il loro impatto sui diritti fondamentali dei
cittadini dell’UE; il documento di lavoro
sul controllo democratico dei servizi di intelligence degli Stati membri e
degli organismi di intelligence dell’UE;
il documento di lavoro sulla relazione tra le prassi di sorveglianza
nell’ UE e negli Stati Uniti e le disposizioni dell’UE sulla protezione dei
dati; il documento di lavoro sulle attività di sorveglianza degli Stati
Uniti relativamente ai dati dell’UE e sulle possibili implicazioni per gli
accordi e la cooperazione transatlantica.
[6] Con neutralità della rete si intende il principio in base al quale tutto il traffico internet riceve lo stesso trattamento, senza discriminazioni, restrizioni o interferenze, indipendentemente dalla fonte, dalla destinazione, dal tipo, dai contenuti, dal dispositivo, dal servizio o dall'applicazione.
[7] Su questo
aspetto vedi anche la recente sentenza della
Corte di Giustizia dell’Ue nella causa C-314/12, del 27 marzo 2014, che, da un
lato, ha riconosciuto al fornitore di accesso ad Internet la qualifica di
intermediario e, dall’altro lato, ha affermato che i diritti fondamentali
dell’Unione consentono che possa essere vietato, con un’ingiunzione pronunciata
da un giudice (quale quella del caso concreto esaminato dalla Corte, accaduto
in Austria), a un fornitore di accesso ad Internet di mettere a disposizione
materiali non conformi alle regole sul diritto d’autore, qualora tale
ingiunzione non specifichi quali misure il fornitore deve adottare e sia
consentito al fornitore di evitare le sanzioni nel caso in cui dimostri di
avere adottato tutte le misure disponibili (e purché ciò non si traduca in
limitazioni per gli utenti Internet di accesso in modo lecito alle
informazioni).
[8] Sul sito del Governo spagnolo è disponibile
una scheda sul contenuto della Carta dei diritti dell’utente delle
telecomunicazioni.
[9] Una traduzione in italiano della Costituzione brasiliana, aggiornata al 2003,
è disponibile sul sito del Consiglio regionale del Veneto.