Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento giustizia
Titolo: Delega al Governo per l'efficienza del processo civile A.C. 2953 - Schede di lettura
Riferimenti:
AC N. 2953/XVII     
Serie: Progetti di legge    Numero: 302
Data: 06/05/2015
Descrittori:
LEGGE DELEGA   PROCESSO CIVILE
Organi della Camera: II-Giustizia

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Delega al Governo per l’efficienza del processo civile

A.C. 2953

Schede di lettura

 

 

 

 

 

 

n. 302

 

 

 

6 maggio 2015

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Giustizia

( 066760-9148 / 066760-9559 – * st_giustizia@camera.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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File: gi0348.docx

 


INDICE

Schede di lettura

La delega: obiettivi e procedimento                                                                3

La riforma del tribunale delle imprese                                                             5

L’istituzione del tribunale della famiglia e della persona                            10

La riforma del processo civile                                                                        17

§  La riforma del processo di cognizione di primo grado                                  19

§  La riforma dell’appello                                                                                   27

§  La riforma del giudizio di Cassazione                                                            32

La riforma dell’esecuzione forzata                                                                39

La riforma dei procedimenti speciali                                                             43

La riforma delle questioni di giurisdizione                                                   47

L’introduzione del principio di sinteticità degli atti                                     49

L’adeguamento delle norme processuali al processo civile telematico    51

 

 


Schede di lettura

 


La delega: obiettivi e procedimento

Il disegno di legge in esame, che delega il Governo all’adozione di disposizioni per l'efficienza del processo civile, è frutto del lavoro della cd. Commissione Berruti, costituita presso il Ministero della giustizia per predisporre specifici interventi di riforma.

L'articolo unico del disegno di legge, che mira a riformare organicamente il processo civile secondo parametri di maggiore efficienza e specializzazione, si muove lungo quattro fondamentali linee direttrici:

·         specializzazione dell'offerta di giustizia, attraverso l'ampliamento delle competenze del tribunale dell'impresa e l'istituzione del tribunale della famiglia e della persona;

·         accelerazione dei tempi del processo civile, attraverso la razionalizzazione dei termini processuali e la semplificazione dei riti; a tal fine è attribuito un ruolo centrale alla prima udienza, è potenziato il carattere impugnatorio dell'appello, sono accelerati i tempi del giudizio in Cassazione mediante un uso più diffuso del rito camerale;

·         introduzione del principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice;

·         adeguamento delle norme processuali al processo civile telematico.

 

Uno dei punti più rilevanti del provvedimento è la valorizzazione dei positivi risultati raggiunti dalle Sezioni Specializzate in materia di impresa. La delega, infatti, mantiene inalterato il loro numero, ne cambia la denominazione in Sezioni specializzate per l’impresa e il mercato e, soprattutto, ne estende l’ambito di competenza ad una serie di ulteriori materie.

Tale ampliamento è diretto a rendere tale competenza più organica nonchè a definire più puntualmente il ruolo delle sezioni specializzate nel sistema della giustizia civile.

Altro profilo del provvedimento è la realizzazione di una Sezione specializzata per la famiglia, i minori e la persona con competenza su tutti gli affari relativi alla famiglia, anche non fondata sul matrimonio, e su tutti i procedimenti attualmente non rientranti nella competenza del Tribunale per i minorenni in materia civile. Si prevede l’impiego, all’interno delle sezioni specializzate, della professionalità di tecnici specializzati nelle materie minorili; analoga, prevalente specializzazione è richiesta ai magistrati del pubblico ministero che operano presso le sezioni. Il rito davanti a queste ultime è improntato, infine, a criteri di flessibilità e semplificazione.

La delega prevede inoltre interventi per assicurare anche una riduzione dei tempi del processo in primo grado, in appello e in Cassazione, nella consapevolezza che, allo stato, il codice civile italiano prevede una serie di tecnicismi tali da rendere il rito faticoso e a volte non prevedibile nei suoi tempi. L’obiettivo della delega è, invece, come indicato nella relazione illustrativa, quello di rendere prevedibile la durata del processo. Di particolare rilievo risulta la revisione della disciplina della trattazione della causa e della rimodulazione dei termini secondo criteri di concentrazione ed effettività della tutela, con la previsione, tra l’altro, dell’efficacia provvisoria ma immediata di tutte le sentenze di primo grado.

Con la delega si interviene poi sull’esecuzione forzata e sui procedimenti speciali in una prevalente ottica di semplificazione.

 

Quanto ai tempi di attuazione della delega, i commi 1 e 2 individuano in 18 mesi il termine per l’adozione dei decreti legislativi di riforma.

 

La procedura da seguire nell’attuazione della delega è delineata dai commi 3 e 4 dell’articolo unico del disegno di legge; essi prevedono che:

-       gli schemi di decreto legislativo debbano essere adottati su proposta del Ministro della Giustizia;

-       su tali schemi debba essere acquisito il parere delle competenti commissioni parlamentari, che si esprimono entro 45 giorni dalla trasmissione;

-       se il termine di 45 giorni venga a scadenza nei trenta giorni antecedenti il termine per l’esercizio della delega o successivamente, quest’ultimo sia prorogato di 60 giorni;

-       entro due anni il Governo possa adottare disposizioni integrative e correttive della riforma.

 

Per quanto concerne la copertura finanziaria, il comma 5 contiene la clausola di invarianza mentre il comma 6 ammette l’impossibilità di determinare al momento gli effetti finanziari della riforma, demandando ai singoli schemi di decreto legislativo e alla corrispondente relazione tecnica la determinazione di oneri e conseguenti coperture.

Tale possibilità è consentita dall’art. 17, comma 2, della legge 189/2009 (norma richiamata dal citato comma 6) che, in tali ipotesi, prevede che i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente all'entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie.

 


La riforma del tribunale delle imprese

L’articolo 1, comma 1, lett. a), del disegno di legge detta i principi e criteri direttivi di delega per riformare la disciplina del tribunale delle imprese.

Tali principi riguardano.

·         l’ampliamento e la razionalizzazione della competenza per materia delle sezioni specializzate (nn. 1 e 2);

·         il rafforzamento della riserva di collegialità (n. 3);

·         la rideterminazione delle dotazioni organiche degli uffici (n. 4).

 

La disciplina delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale (cd. tribunale delle imprese) è stata significativamente modificata dal DL 1/2012 (cd. decreto liberalizzazioni), conv. dalla L. 72/2012.

Il DL ha, in particolare, incrementato il numero delle sezioni sul territorio nazionale e ampliato l’ambito di competenza delle precedenti sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale (istituite dal D.Lgs. 168/2003 presso alcuni tribunali e corti d'appello), i cui componenti sono scelti tra magistrati dotati di specifiche competenze.

In relazione alle sedi, il D.Lgs 168/2003 aveva istituito dette sezioni presso i tribunali e le corti d'appello di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia. L’articolo 2 del citato DL liberalizzazioni, oltre a modificarne la denominazione in “sezioni specializzate in materia di impresa”, ha istituito nuove sezioni specializzate in tutti i tribunali e corti d’appello con sede nei capoluoghi di regione che fino ad allora ne erano sprovvisti (si tratta delle sedi di Ancona, Cagliari, Campobasso, Catanzaro, L’Aquila, Perugia, Potenza e Trento) nonché, in quanto sede di Corte d’appello, presso il tribunale e la Corte d’appello di Brescia. La competenza per il territorio della Valle d’Aosta è attribuita al tribunale e alla Corte d’appello di Torino.

Il DL 1/2002 aumenta quindi da 12 a 21 il numero delle sezioni specializzate, delineando una competenza per materia prevalentemente su base regionale.

 

Preliminarmente, si segnalano alcuni dati sull’efficienza del tribunale delle imprese che emergono dai dati forniti dall’AIR (Analisi d’impatto sulla regolamentazione), che accompagna il disegno di legge.

Dal 2012 al 2014 risulta che, a fronte di un numero di pendenze quintuplicato (da 1.455 a 5.126), il numero dei procedimenti definiti è quasi quadruplicato (da 16 sentenze nel 2012 a 96 a tutto il 2013), pur con un aumento dei tempi di definizione delle cause (da 362 a 394 giorni).

1. L’ampliamento della competenza per materia delle sezioni specializzate

Fermo restando il numero complessivo degli uffici (21) si prevede, anzitutto, la modifica della denominazione delle sezioni in “sezioni specializzate per l’impresa e il mercato”.

 

L’intervento più rilevante riguarda, tuttavia, l’ampliamento della competenza delle nuove sezioni specializzate.

 

L’attuale competenza delle sezioni comprende:

·       le controversie in materia di proprietà industriale di cui all'articolo 134 del D.Lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale); quelle in materia di diritto d’autore; le cause relative alle azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi per ottenere provvedimenti d’urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni sulla concorrenza di cui ai titoli dal I al IV della legge n. 287/1990 (sostanzialmente le norme sulle intese restrittive della concorrenza, l’abuso di posizione dominante e le operazioni di concentrazione); le controversie per la violazione della normativa antitrust dell’Unione europea;

·       le controversie in materia societaria - in relazione alle società per azioni (spa), alle società in accomandita per azioni ovvero alle società da queste controllate o che le controllano, alle società a responsabilità limitata (s.r.l.); alle società per azioni europee (SE) di cui al Reg. (CE) n. 2157 del 2001; alle società cooperative europee (SCE) di cui al Reg. (CE) n.1435 del 2003; alle “stabili organizzazioni nel territorio dello Stato delle società costituite all’estero” ovvero alle società da queste controllate o che le controllano – riguardanti:

·       rapporti societari;

·       trasferimento delle partecipazioni sociali o ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti;

·       patti parasociali;

·       azioni di responsabilità promosse dai creditori delle società controllate contro le società che le controllano;

·       rapporti tra società controllante e società “sotto influenza dominante” ex art. 2359, primo comma, n. 3, c.c.) o società coordinata (ex art. 2497-septies cc.); a rapporti tra coop facenti parte di gruppo cooperativo paritetico (ex art. 2545-septies c.c.),

·       contratti pubblici di appalto di rilevanza comunitaria, di cui sia parte una delle società sopraindicate (escluse le controversie sull’aggiudicazione, di competenza del giudice amministrativo).

 

Più analiticamente, per quanto concerne la tipologia di controversie e procedimenti societari attratti alla competenza delle sezioni specializzate, il decreto legislativo 168/2003 indica all’art. 3 le cause relative a rapporti societari, compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché contro il soggetto incaricato della revisione contabile per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti illeciti commessi nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati, le opposizioni alla delibera dell’assemblea di riduzione del capitale sociale delle spa e delle srl (articoli 2445, terzo comma e 2482, secondo comma, c.c.), le opposizioni all’iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione di destinazione di un patrimonio della società ad uno specifico affare (art. 2447-quater, secondo comma, c.c.), le opposizioni alla revoca dello stato di liquidazione della società (art. 2487-ter, secondo comma, c.c.), le opposizioni alle fusioni di società da parte dei creditori e dei possessori di obbligazioni delle società partecipanti (artt. 2503 e 2503-bis, c.c.), le opposizioni alla scissione delle società (art. 2506-ter c.c.).

Come disposizione di chiusura, è attribuita ai tribunali dell’impresa la competenza anche sulle cause che presentano ragioni di connessione con quelle sopraelencate.

 

Le nuove competenze attribuite alle sezioni sono:

 

·      le controversie in materia di concorrenza sleale e pubblicità ingannevole;

 

Attualmente, le sezioni sono competenti solo sulle controversie inerenti la concorrenza sleale che interferisca con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale. Dall’attuazione della delega deriverebbe che, indipendentemente da tale interferenza, per gli illeciti in materia di concorrenza sleale sarebbe competente il tribunale delle imprese, cui sarebbero attribuite anche le controversie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa (in cui è preminente il profilo di tutela dell’impresa). Attualmente, la tutela giurisdizionale riguardo a tali illeciti è attribuita al giudice amministrativo, fatta salva la competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria in materia di atti di concorrenza sleale di cui all'articolo 2598 c.c. (abusivo uso di nomi e segni distintivi; diffusione di notizie su prodotti e attività del concorrente per provocarne discredito), nonché, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d'autore e del marchio d'impresa nonché delle denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti.

 

·      l’azione di classe a tutela dei consumatori;

Tale competenza, inizialmente posta a carico dei tribunali delle imprese dal citato DL 1/2012, era stata successivamente espunta in sede di conversione.

Considerando impropria la contrapposizione degli interessi delle imprese a quelli dei consumatori, in ragione del comune interesse ad un corretto funzionamento del mercato, la relazione illustrativa del provvedimento in esame ritiene opportuna la riconduzione ad un unico giudice delle eventuali controversie in materia.

 

L’articolo 49 della legge 99/2009 (cd. collegato in materia di energia) ha complessivamente riformato la disciplina dell'azione di classe (art. 140-bis del D.Lgs. 206/2005, cd. Codice del consumo), sulla quale è successivamente intervenuto anche l'articolo 6 del decreto-legge 1/2012 sulle liberalizzazioni.

Le finalità dell’istituto sono la tutela dei diritti di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica (“diritti individuali omogenei”) nonché di interessi collettivi; può trattarsi di danni derivanti dalla violazione di diritti contrattuali o di diritti comunque spettanti al consumatore finale del prodotto o del servizio (a prescindere da un rapporto contrattuale), da comportamenti anticoncorrenziali o da pratiche commerciali scorrette;

L'oggetto dell'azione di classe è l'accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore degli utenti consumatori; la legittimazione ad agire in giudizio viene riconosciuta ai singoli cittadini-consumatori, anche mediante associazioni cui questi diano mandato o comitati cui partecipino; è possibile per altri consumatori aderire all’azione di classe; l’adesione comporta la rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale.

Il procedimento è scandito in due fasi: la prima volta alla pronuncia sull’ammissibilità dell’azione di classe; la seconda finalizzata invece alla decisione nel merito. In caso di accoglimento della domanda, il procedimento si conclude con la sentenza di condanna alla liquidazione, in via equitativa, delle somme dovute a chi ha aderito all’azione ovvero con la definizione di un criterio omogeneo di calcolo per la suddetta liquidazione.

 

·      le controversie sugli accordi di collaborazione nella produzione e lo scambio di beni o servizi relativi a società interamente possedute dai partecipanti all’accordo di collaborazione di cui all’art. 2341-bis, terzo comma, c.c.

 

Il richiamo ai soli patti parasociali (anche diversi da quelli di cui all’art. 2341-bis c.c.) secondo la relazione illustrativa non appare esaustivo anche in ragione dei profili lesivi della concorrenza potenzialmente derivanti dai citati accordi di collaborazione.

 

·      le controversie di cui all’articolo 3, comma 2, del D.Lgs. 168/2003, relative a società di persone.

Sono in tal modo riunificate davanti alle sezioni specializzate anche le competenze sulle controversie in ambito societario elencate dall’art. 3, comma 2, con riguardo alle società di persone; ciò anche in considerazione del fatto che la legge 168/2003, dopo la riforma del 2012, aveva già attratto alla competenza di tali sezioni le società a responsabilità limitata (che, pur essendo società di capitali, non sono società per azioni).

 

·      le controversie in materia di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario, oltre quelle di cui all’art. 3, comma 2, lett. f), del D.Lgs 168/2003 (ovvero le controversie sugli appalti pubblici di rilevanza comunitaria).

Si ricorda che, dal 1° gennaio 2014, l’attuale rilevanza comunitaria dei contratti pubblici ammonta a euro 5.186.000, ai sensi del Reg. n. 1336/2013 della Commissione Europea.

Come ricordato, le sezioni specializzate sono attualmente competenti per le controversie in materia di contratti pubblici di rilevanza comunitaria in cui sia parte una delle società indicate dall’art. 3 del D.Lgs 168/2003.

La delega nello stabilire la competenza delle sezioni specializzate, mantiene fermo il riparto di competenze in materia con il giudice amministrativo, cui spetta giudicare delle controversie relative all’aggiudicazione. Ciò premesso, sono quindi attribuite alla competenza delle sezioni specializzate le controversie sui contratti pubblici - sopra o sotto-soglia comunitaria - in cui sia parte una società di capitali e, a seguito dell’attuazione della delega, anche una società di persone.

La scelta del legislatore di riservare alle sezioni specializzate tali controversie è ricondotta nella relazione illustrativa del disegno di legge – senza ulteriori precisazioni - anche al venir meno del divieto di arbitrato negli appalti pubblici. Tale divieto, introdotto dall’art. 3, commi 19 e 20, della legge 244/2007, è stato poi rimosso dal decreto correttivo al Codice degli appalti, il D.Lgs 53/2010, che ha previsto la possibilità di deferimento delle controversie ad arbitri (art. 241 del Codice).

 

2. Rafforzamento del principio di collegialità

Un ulteriore principio di delega è inerente al rafforzamento del principio di collegialità delle sezioni specializzate, anche in primo grado (comma 1, lett. a), n. 3).

Tale principio troverebbe attuazione prevedendo l’istituzione, presso ogni sezione specializzata del tribunale, di un albo di esperti in ragioneria, contabilità, economia e mercato da cui il presidente della sezione specializzata, all’occorrenza (e fatta sala la possibilità di nomina di CTU), possa attingere “a supporto conoscitivo e valutativo” del collegio per materie diverse da quelle giuridiche. Il compenso per detti esperti – che possono essere ascoltati anche in udienza pubblica in contraddittorio – sono comunque posti a carico delle parti.

3. Rideterminazione delle dotazioni organiche

L’ultimo principio di delega relativo alle sezioni specializzate riguarda la necessità di adeguare gli organici dei tribunali e delle sezioni alle nuove competenze (comma 1, lett. a), n. 3).

Tale adeguamento dovrebbe avvenire a costo-zero (ovvero senza determinare nuovi oneri aggiuntivi), mediante una razionalizzazione e riorganizzazione degli stessi tribunali; è, infine previsto che successive modifiche delle piante organiche (sia magistrati che personale amministrativo) avvengano con DM giustizia nell’ambito dei limiti complessivi delle rispettive dotazioni organiche.

 

 

L’istituzione del tribunale della famiglia e della persona

L’articolo 1, comma 1, lettera b) del disegno di legge detta i principi e criteri direttivi di delega, volti alla istituzione di sezioni specializzate presso i tribunali, cui devolvere specifiche competenze in materia di famiglia e minori.

Il principio ispiratore della delega in esame consiste soprattutto nell’esigenza di razionalizzare il riparto di competenze tra tribunale dei minorenni e tribunale ordinario, riparto basato sul sistema dualistico previsto dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile.

 

Il vigente art. 38 disp. att. c.c. attribuisce alla competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti previsti dai seguenti articoli del codice civile:

      art. 84 (ammissione di minori al matrimonio);

      art. 90 (nomina del curatore speciale del minore per la stipula delle convenzioni matrimoniali);

      art. 330 (decadenza potestà genitoriale) e 332 (reintegrazione nella potestà);

      art. 333 (provvedimenti in casi di condotta pregiudizievole ai figli);

      art. 334 (rimozione dei genitori dall’amministrazione del patrimonio del minore) e 335 (riammissione all’amministrazione del patrimonio del minore)

      art. 371, ultimo comma (autorizzazione al tutore per la continuazione nell’esercizio dell’impresa).

Per i procedimenti di cui all'articolo 333 (adozione di provvedimenti in casi di condotta pregiudizievole ai figli) resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio (in tali casi è quindi competente il tribunale ordinario) o giudizio in materia di esercizio della potestà dei genitori ex articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.

 

Sono, altresì, di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti di cui:

      all’art. 251 (autorizzazione al riconoscimento di figlio nato da persone tra cui intercorre vincolo di parentela o affinità);

      all’art. 317-bis del codice civile (ricorsi relativi al diritto degli ascendenti di avere rapporti significativi coi nipote minore).

La competenza del tribunale ordinario è prevista in via residuale: sono, infatti, emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria.

 

L’esigenza del riassetto delle competenze su famiglia e minori deriva in particolare dal nuovo assetto della giurisdizione in materia minorile conseguente alla legge di riforma della filiazione (L. 219 del 2012), che detta le disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali (alla legge ha fatto poi seguito il decreto attuativo, D.Lgs 154/2013).

Avendo la riforma comportato l'unificazione dello status di figlio, indipendentemente dalla sua nascita all’interno o fuori dal matrimonio, la competenza per i procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio è passata al tribunale ordinario, in quanto all'articolo 38 è stato soppresso – tra i procedimenti riservati alla competenza del giudice minorile – il riferimento agli articoli 316 e 317-bis del codice civile (norma, quest’ultima, che prima della riforma aveva ad oggetto l'esercizio della potestà dei genitori sul figlio naturale).

Il nuovo riparto di competenze tra tribunale dei minori e tribunale ordinario ha posto numerosi problemi interpretativi, il principale dei quali concerne l’avvenuta attrazione alla competenza al tribunale civile anche dei provvedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale (ex articolo 330 c.c.) che, secondo la dizione letterale dell’art. 38, dovrebbero essere di competenza del tribunale dei minorenni.

 

Un chiarimento sul punto è arrivato da Cassazione civile, VI sezione, Ordinanza 1-14 ottobre 2014 n. 21633, che ha ritenuto sussistente la competenza del giudice minorile quando si sia pronunciato de potestate “prima” dell’instaurazione del giudizio di separazione, negando quindi la vis attrattiva al tribunale ordinario dei provvedimenti successivi in materia. La Cassazione ha sottolineato come, nel caso di specie, ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, affermata a livello sia costituzionale che sovranazionale (art. 8 CEDU e art. 24 della Carta dei Diritti dell'Unione), impediscano qualsiasi interpretazione della disposizione dell'art. 38 tesa a vanificare il percorso processuale già svolto a seguito di una domanda introdotta ex art. 333 c.c. davanti al Tribunale per i Minorenni prima della proposizione del giudizio di separazione e di divorzio; altrimenti opinando, ha sostenuto la Cassazione., sarebbe possibile utilizzare strumentalmente il processo al fine di spostare la competenza dall'uno all'altro giudice.

La Cassazione ha poi rilevato che il testo legislativo non fosse univoco nel limitare l'applicazione dell'art. 38, primo comma, alla sola ipotesi del procedimento di cui all'art. 333 c.c. perché in quella stessa disposizione il legislatore richiama “anche i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo”. La Cassazione intende tale inciso come richiamo ai provvedimenti di cui agli artt. 84, 90, 330, 332, 334, 335 e 371, stabilendo che “per tutta la durata del processo” la competenza spetti al giudice ordinario. L’effetto attrattivo opera quindi non solo relativamente alla proposizione di un ricorso ex art. 333 c.c. ma anche in tutti i casi in cui, pendente un giudizio di separazione o di divorzio ex art. 316 c.c. introdotto “successivamente” al ricorso de potestate, si renda necessaria la pronuncia degli altri provvedimenti nell’interesse del minore previsti dalle norme innanzi indicate.

 

L’obiettivo di razionalizzazione delle competenze in materia è perseguito dalla delega in esame attribuendo alle nuove sezioni specializzate tutte le competenze che la legge di riforma della filiazione già attribuisce al tribunale ordinario e lasciando al tribunale per i minorenni, oltre alle competenze penali, tutte le competenze civili che attengano al pregiudizio per il minore in considerazione della particolare specializzazione e della consolidata competenza maturata dai tribunali per i minorenni in questa materia.

 

Viene segnalato dalla relazione al d.d.l. come tale impostazione differisca dall’originaria versione dello schema di delega legislativa elaborato dalla commissione Berruti, in quanto quest’ultima avrebbe determinato un pesante svuotamento delle competenze dei tribunali per i minorenni, atteso che questi sarebbero stati destinati alla sola trattazione dei procedimenti penali a carico di imputati minorenni e dei procedimenti di adozione, al netto delle dichiarazioni di adottabilità, di cui si prevedeva il trasferimento alle sezioni specializzate.

Inoltre, lasciare ai tribunali per i minorenni le sole competenze penali determinerebbe – prosegue la relazione – “un'inefficiente utilizzazione delle risorse materiali e umane, in quanto costringerebbe al mantenimento di un numero elevato di magistrati (stante il regime delle incompatibilità dei processi penali), con la relativa dotazione delle cancellerie, per far fronte a modesti carichi”. Infine, tale soluzione, oltre ad una evidente disparità di carichi di lavoro “avrebbe provocato la congestione delle sezioni specializzate, con il conseguente allungamento dei tempi di definizione di procedure urgenti”.

 

Sulla base dei principi di delega, alle nuove sezioni specializzate per la famiglia e la persona da istituire presso i tribunali ordinari (n. 1) verrebbe assegnata la competenza (n. 2):

·         sulle controversie attualmente di competenza del tribunale ordinario relative a stato e capacità delle persone, separazioni e divorzi, rapporti di famiglia e minori, procedimenti relativi a figli nati fuori dal matrimonio (n. 2.1);

 

·         sui provvedimenti del giudice tutelare in materia di minori ed incapaci (n. 2.2);

 

Il giudice tutelare è il giudice del tribunale a cui sono affidate diverse e importanti funzioni in materia di tutela delle persone, particolarmente i soggetti più deboli come i minori e gli incapaci, con riguardo agli aspetti sia patrimoniali che non patrimoniali

Il Giudice tutelare sovrintende alla maggior parte di quelle attività definite di "volontaria giurisdizione", ossia caratterizzate dal fatto che non vi sono due o più parti contrapposte, portatrici di interessi in conflitto, ma soltanto delle persone incapaci, o non del tutto capaci, di provvedere da sole ai propri interessi, a cui favore è previsto l'intervento di un giudice con funzioni di tutela e di garanzia su richiesta di parenti o soggetti che agiscono con la stessa finalità di protezione.

Nell'ambito delle sue attribuzioni principali il giudice tutelare:

·       autorizza i genitori a compiere di atti di straordinaria amministrazione relativi al patrimonio dei figli minori);

·       nomina il curatore speciale ai figli minori in caso di conflitto di interessi con i genitori;

·       nomina l'amministratore di sostegno e vigila sul suo operato (per maggiori informazioni vedi scheda "Amministrazione di sostegno");

·       nomina il tutore e il curatore e vigila sul loro operato;

·       vigila sull'osservanza delle condizioni stabilite dal Tribunale per l'esercizio della potestà genitoriale e per l'amministrazione dei beni del minore;

·       adotta, su proposta del tutore, i provvedimenti circa l'educazione del minore sottoposto a tutela e l'amministrazione dei suoi beni;

·       autorizza l'interruzione volontaria della gravidanza di minorenne (art. 12 l. n. 194/1978);

·       emette il decreto di esecutività del provvedimento di affidamento familiare di minore, disposto dal servizio sociale (art. 4 l. n. 184/1983);

·       vigila per riconoscere se la causa dell'interdizione o dell'inabilitazione continui. Se ritiene che sia venuta meno, deve informarne il pubblico ministero;

·       autorizza il rilascio di documento valido per l'espatrio al minore quando manchi l'assenso di uno degli esercenti la potestà, ovvero al genitore di figli minori che non abbia ottenuto l'assenso dell'altro genitore (per maggiori informazioni vedi scheda "Autorizzazione al rilascio di passaporto");

·       convalida il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio adottato dal Sindaco (per maggiori informazioni vedi scheda "Opposizione al trattamento sanitario obbligatorio".

Nell'esercizio dei compiti di tutela delle persone minori o incapaci, il giudice tutelare può, in qualsiasi momento, convocare il tutore, il curatore o l'amministratore di sostegno per chiedere informazioni, chiarimenti e notizie, e per dare istruzioni per la migliore realizzazione degli interessi morali e patrimoniali della persona tutelata.

 

·         su controversie relative al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione internazionale (n. 2.3); tuttavia, se si tratta di minori la competenza è del tribunale dei minorenni (v. ultra).

 

Il riconoscimento dello status di rifugiato è entrato nel nostro ordinamento con l’adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (ratificata con la legge 722/1954) ed è regolato essenzialmente da fonti europee. Successivamente, la normativa UE ha introdotto l’istituto della protezione internazionale, che comprende due distinte categorie giuridiche: i rifugiati, disciplinati dalla Convenzione di Ginevra, e le persone ammissibili alla protezione sussidiaria, di cui possono beneficiare i cittadini stranieri privi dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ossia che non sono in grado di dimostrare di essere oggetto di specifici atti di persecuzione, ma che, tuttavia, se ritornassero nel Paese di origine, correrebbero il rischio effettivo di subire un grave danno e che non possono o (proprio a cagione di tale rischio) non vogliono avvalersi della protezione del Paese di origine. Una ulteriore fattispecie è la protezione temporanea che può essere concessa in caso di afflusso massiccio di sfollati.

Il d.lgs. 25/2008, di attuazione della direttiva 2005/85/CE, prevede che avverso la decisione delle Commissioni territoriali (istituite presso le Prefetture) e della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria è ammesso ricorso dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria, individuato nel tribunale del distretto di corte d’appello.

 

·      su tutte le controversie, attualmente non rientranti nella competenza del tribunale dei minorenni ai sensi dell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile anche eliminando il riferimento ai provvedimenti previsti dal primo periodo del primo comma dello stesso art. 38; è fatta salva la competenza del tribunale dei minorenni sui procedimenti relativi a minori stranieri non accompagnati e a quelli richiedenti protezione internazionale; il rito andrà disciplinato con modalità semplificate (n. 2.4).

 

Occorre precisare se la semplificazione del rito sia riferita al solo procedimento presso il tribunale dei minorenni oppure al solo procedimento davanti alle sezioni specializzate oppure ancora a entrambi i procedimenti.

Inoltre, si consideri che la locuzione “anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo” è presente in coda al secondo periodo del primo comma dell’art. 38. Occorre quindi precisare quale sia l’oggetto della eliminazione del riferimento ai provvedimenti previsti dal primo periodo del primo comma dell’art. 38 e verificare se in tal modo si determini l’attribuzione alle sezioni specializzate anche della titolarità all’adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 84, 90, 330, 332, 334, 335, 371, ultimo comma, del codice civile.

In tale evenienza verrebbe così confermata, tra l’altro, la titolarità del tribunale ordinario (ora delle sezioni specializzate) per l’adozione dei provvedimenti ablativi di cui all’art. 333, in pendenza di separazione e divorzio tra i coniugi del minore. Sarebbe inoltre attribuita al tribunale ordinario (ovverosia alle sezioni specializzate) la titolarità per i provvedimenti ora in capo al giudice tutelare (di cui andrebbe chiarita, in sede di attuazione, la competenza residua) nonché per le impugnazioni delle decisioni in materia di status di rifugiato e di protezione internazionale (attualmente di competenza del tribunale del distretto di corte d’appello).

Attività parlamentare

Del problema della frammentazione delle competenze civili in materia di famiglia e minori si è più volte occupato il Parlamento, senza peraltro giungere all’approvazione di un testo di riforma.

Solo per rimanere alle iniziative più recenti, si ricorda che nella scorsa legislatura, la Commissione Giustizia del Senato avviò (tra maggio e novembre 2012) l’esame di alcuni disegni di legge - poi interrotto per la fine anticipata della legislatura – che testimoniavano l’esistenza di opinioni del tutto diverse sulla soluzione migliore da adottare. A seguito dell’approvazione della legge sull’equiparazione tra figli legittimi e naturali (L. 219/2012), l’Assemblea del Senato aveva, tra l’altro, deliberato (il 22 maggio 2012) la dichiarazione d'urgenza per l’esame dei disegni di legge, ai sensi dell'articolo 77, comma 1, del Regolamento.

 

Alcuni di essi - in particolare il disegno di legge S. 2252 (Serafini ed altri) e il disegno di legge S. 2441 (Garavaglia ed altri) – proponevano un ampliamento della competenza del tribunale dei minorenni all'intera materia delle relazioni famigliari.

I disegni di legge S. 3040 e S. 3323 (entrambi Alberti Casellati ed altri) nonché il disegno di legge S. 3266 (Allegrini ed altri) e S. 3276 (Pedica ed altri) avevano invece come obiettivo l'istituzione di sezioni specializzate in materia di minori, persone e famiglia presso i tribunali ordinari. Il disegno di legge S. 2844 (Cardiello) proponeva addirittura la soppressione del tribunale dei minorenni, trasferendone anche le competenze penali alle sezioni specializzate per la famiglia e per i minori.

Nella seduta del 12 giugno 2012 il disegno di legge S. 3323 fu adottato come testo base.

 

Nell’attuale legislatura, sempre al Senato, sono all’esame della Commissione Giustizia, dal giugno 2013, tre disegni di legge di iniziativa parlamentare:

-       il d.d.l. S. 194 (Alberti Casellati ed altri) Delega al Governo per l'istituzione presso i tribunali e le corti d'appello delle sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia, che ripropone sostanzialmente il disegno di legge S. 3323 della XVI legislatura, che la Commissione adottò a suo tempo come testo base per la prosecuzione dell’esame. In particolare, il provvedimento, tra i criteri direttivi della delega sulla competenza per materia, stabilisce che alle nuove sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia siano trasferite le competenze giurisdizionali civili e le competenze amministrative in materia di famiglia, minori, stato e capacità della persona, attualmente attribuite al tribunale dei minorenni, al giudice ordinario e ai tribunali ordinari. Resterebbero, quindi, ai tribunali dei minorenni le competenze in materia penale.

-       il d.d.l. S. 595 (Cardiello ed altri) che - riproponendo anch’esso il provvedimento a sua firma della scorsa legislatura - prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni, nonché l’istituzione di sezioni specializzate per la famiglia e per i minori presso i tribunali e le corti d'appello, nonché di uffici specializzati della procura della Repubblica presso i tribunali medesimi. Il provvedimento ha nell'articolo 2 una delle norme di maggior rilievo, giacché dispone che le competenze proprie del pubblico ministero nella materia di competenza delle sezioni specializzate siano esercitate da magistrati assegnati in via esclusiva alle sezioni costituite presso la procura della Repubblica.

-       il d.d.l. S. 1238 (Lumia ed altri) – congiunto nella seduta del 24 marzo 2015 - volto ad abolire il tribunale dei minorenni e ad istituire il “tribunale della persona”, un giudice unico specializzato per la persona e le relazioni familiari ed a porre criteri di delega per l'organizzazione dei relativi uffici.

 

Sul punto, si ricorda che nella citata seduta del 24 marzo 2015, in relazione alla presentazione da parte del Governo del d.d.l. delega ora all’esame della Commissione giustizia della Camera, diversi senatori, sia di maggioranza che di opposizione, avevano invitato il Governo ad una riflessione sull’opportunità di presentare al Senato il provvedimento sull’istituzione delle sezioni specializzate della famiglia e della persona lasciando, invece, alla Camera l'esame della riforma del processo civile.


La riforma del processo civile

L’articolo 1, comma 2, delega il Governo ad adottare entro 18 mesi uno o più decreti legislativi per il riassetto della disciplina del codice processuale civile e delle leggi speciali, con la finalità di improntare il processo civile (sia in primo grado che nelle fasi delle impugnazioni) ad obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione.

 

L’esigenza di intervenire sul processo civile è testimoniata dalle numerose misure che dopo l’ampia riforma del 1990 (L. 353 del 1990) si sono susseguite nelle ultime legislature volte, in particolare, a smaltire l’arretrato, a limitare l’accesso al contenzioso ed a semplificare e rendere più veloce il processo.

 

In relazione al rito si ricordano, in particolare: la legge n. 69 del 2009 che - oltre a prevedere una parziale riforma del codice di procedura civile (e ad introdurre un filtro per i procedimenti in cassazione) - ha delegato il Governo a operare la semplificazione e riduzione dei riti di cognizione ed a disciplinare la mediazione obbligatoria nelle controversie civili e commerciali (poi attuati, rispettivamente con D.Lgs 28 del 2010 ed il D.Lgs 150 del 2011); il DL 83 del 2012, che ha introdotto il cd. filtro in appello; il nuovo processo civile telematico avviato definitivamente dal D.L. 179 del 2012 e la cui disciplina è stata integrata dalla legge di stabilità 2013 e dal DL 90/2014 ; il DL 69 del 2013 che ha previsto l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione tra le parti nonché (dopo Corte costituzionale, sent. n. 272 del 2012) del tentativo di mediazione obbligatoria per specifiche controversie; il più recente DL 132 del 2014 che ha previsto la negoziazione assistita ed il possibile trasferimento in sede arbitrale di procedimenti pendenti (v. ultra).

Non vanno, infine dimenticati negli ultimi anni – in funzione di disincentivo e di filtro all’accesso alla giustizia civile - i numerosi aumenti del contributo unificato per l’iscrizione a ruolo, interventi che non sembrano aver tuttavia prodotto cali significativi delle pendenze. L’ultimo aumento (+ 15%) del contributo unificato nel processo civile è stato introdotto dal citato DL 90 del 2014.

 

L’A.I.R. (Analisi d’impatto della regolamentazione) allegata al disegno di legge segnala che, nonostante l’aumentata produttività dei magistrati, dal 2011 al 2013 si è registrata una durata media del processo civile che, da 395 giorni per il solo primo grado, aumenta a 1.100 giorni in presenza di impugnazioni.

 

Per quanto riguarda il problema dell’arretrato, la tabella seguente riporta una serie storica delle pendenze civili dal 2003 al 2013 e mostra un costante aumento dell’arretrato fino al 2009 (quasi 6 mln. di fascicoli). Dall’anno successivo si registra, invece, una costante tendenza alla diminuzione delle pendenze (fonte: Ministero della Giustizia, DOG, Direzione generale di statistica).

 

 

 

 

 

 

Fine periodo

(31/12)

 

Pendenti finali

 

Pendenti finali (compresa Cassazione)

2003

 

4.650.187

 

4.742.150

 

2004

 

4.803.977

 

4.897.703

 

2005

 

4.933.059

 

5.028.140

 

2006

 

5.174.040

 

5.274.845

 

2007

 

5.381.427

 

5.484.015

 

2008

 

5.549.891

 

5.648.957

 

2009

 

5.826.440

 

5.922.673

 

2010

 

5.532.216

 

5.629.869

 

2011

 

5.408.846

 

5.504.439

 

2012

 

5.285.989

 

5.385.781

 

30 giugno 2013

 

5.159.616

 

5.257.693

 

 

La diminuzione dei procedimenti pendenti dal 31 dicembre 2009 è pari a 664.980 (-11,2%).

In relazione alla ripartizione delle pendenze tra i gradi di giudizio, da una delle tabelle riportate nell’A.I.R. risulta (dato 2013) che il primo grado della giurisdizione civile assorbe da solo il 90% del totale delle pendenze; il resto è ripartito tra appello (8%) e cassazione (2%).

 

Dati più recenti sull’arretrato, che testimoniano di un ulteriore lieve miglioramento, sono stati forniti dal Ministro della giustizia Orlando nel suo recente intervento sull’amministrazione della giustizia (Assemblea della Camera dei deputati, 19 gennaio 2015). Il Ministro riferiva come l’analisi dei fascicoli civili pendenti al 30 giugno 2014 evidenziasse un volume di procedimenti pari a 4.898.745, con un calo del 6,7% dei fascicoli aperti alla stessa data dell’anno precedente. Per la prima volta, dal 2009, si scende come dato complessivo sotto la soglia dei 5 milioni di cause pendenti. Tale diminuzione si registra anche per ogni singola tipologia di ufficio corti di appello, tribunali ordinari e dei minori e giudici di pace, mentre mostrano un lieve incremento, le pendenze presso la Cassazione. In particolare per le corti di appello e per il tribunale per i minorenni si registrano i decrementi più marcati, rispettivamente del -9,8% e del -7,3%.

Questi dati – ha affermato il Ministro - pur dando conto di un trend in diminuzione costante dell’arretrato dal 2009 ad oggi, mostrano che rimane comunque elevato il livello del carico di lavoro dei tribunali; circostanza, questa, che si traduce, inevitabilmente, in un allontanamento nel tempo della risposta di giustizia ai cittadini e alle imprese.

 

La riforma del processo di cognizione di primo grado

In relazione al processo di cognizione di primo grado, la lettera a) detta tre principi e criteri direttivi cui dovrà informarsi il legislatore delegato:

 

1) valorizzazione dell’istituto della proposta di conciliazione del giudice di cui all’articolo 185-bis del codice di procedura civile – anche in chiave di valutazione prognostica sull’esito della lite, da compiere allo stato degli atti prima della valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove – in particolare in funzione della definizione dell’arretrato e del contenimento delle richieste di indennizzo per irragionevole durata del processo;

 

Si ricorda che l’art. 185-bis è stato aggiunto al codice di rito civile dall’art. 77 del DL 69 del 2013 (cd. decreto del Fare) per introdurvi l’obbligo per il giudice, nel corso del processo civile, di formulare alle parti una proposta di transazione o conciliazione. E’ stata estesa, quindi, al rito ordinario una disposizione introdotta nel rito del lavoro nel 2010.

Prima di tale novella, il codice di procedura civile prevedeva soltanto la facoltà del giudice di tentare la conciliazione delle parti. La previsione di un tentativo obbligatorio di conciliazione, originariamente inserita nell’art. 183 c.p.c. con riferimento alla prima udienza di trattazione, è stata, infatti, soppressa nel 2005.

In base all’art. 185 c.p.c, rubricato “tentativo di conciliazione”, dopo la prima udienza di trattazione (art. 183) il giudice istruttore può fissare, in caso di richiesta congiunta delle parti, una nuova udienza di comparizione delle parti, al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione. La stessa disposizione aggiunge che «il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione». La rinnovazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, quando ritenga che il tentativo possa essere esperito con nuove probabilità di successo; ciò fino a quando la causa sia stata rimessa al collegio.

Superata la fase istruttoria in primo grado, peraltro, il tentativo di conciliazione potrà essere esperito anche in fase d’appello (art. 350, terzo comma, c.p.c.)

Al contrario, il giudizio di Cassazione esclude per la sua essenza, la possibilità di un componimento giudiziale: l’eventuale transazione raggiunta autonomamente dalle parti, durante il processo, determina la cessazione della materia del contendere.

L’esperimento del tentativo di conciliazione ed il suo risultato, positivo o negativo, devono risultare dal verbale d’udienza redatto ai sensi dell’art. 130. Il contenuto della conciliazione, ove il tentativo abbia avuto esito positivo è, tuttavia, documentato in un apposito e separato processo verbale (art. 88 disp. att.), predisposto dal cancelliere e sottoscritto dal giudice, dal cancelliere e dalle parti. Il processo verbale costituisce titolo esecutivo.

La proposta deve provenire dal giudice istruttore e dunque prima della rimessione della causa al collegio. Il giudice può valutare, ai fini del giudizio, l’eventuale rifiuto che gli venga opposto.

 

La relazione illustrativa al disegno di legge precisa che la valorizzazione della conciliazione dovrebbe derivare, in particolare, dall’anticipazione a un momento anteriore all’udienza di trattazione dello scambio delle memorie tra le parti. Ciò dovrebbe consentire al giudice e alle stesse parti un quadro più esaustivo della questione e della fondatezza della domanda e dell’opportunità, quindi, di proporre una conciliazione.

Dalla data della proposta conciliativa ex art. 185-bis decorrerebbe il triennio di durata del primo grado di giudizio rilevante ai fini risarcitori ex legge Pinto (L. 89/2001), con evidente risparmio per l’erario.

L’art. 2, comma 2-bis, L. 89/2001 indica la ragionevole durata del processoo nei seguenti limiti temporali: 3 anni per il primo grado, 2 anni per l’appello, 1 anno per il giudizio di cassazione.

La relazione ipotizza la possibilità di prevedere come obbligatorio il tentativo di conciliazione ex art. 185-bis in tutti i processi in corso che risultino a rischio di “ragionevole durata”.

 

2) assicurare la semplicità, concentrazione ed effettività della tutela, al fine di garantire la ragionevole durata del processo in particolare mediante la revisione della disciplina delle fasi di trattazione e di rimessione in decisione, nonché la rimodulazione dei termini processuali e del rapporto tra trattazione scritta e trattazione orale;

 

ll rito di cognizione, dal 1990 più volte oggetto di interventi parziali di riforma, si presenta - secondo la relazione illustrativa al d.d.l. - chiaramente farraginoso. Uno degli snodi più critici consiste nel fatto che, dopo l'introduzione della causa, si prevede una trattazione solo formalmente orale della stessa, una lunga appendice temporale dedicata alla trattazione scritta, quindi un'ulteriore dilatazione temporale per consentire al giudice di verificare le istanze e le necessità istruttorie e, infine, dopo l'espletamento eventuale dell'istruttoria, una lunga pausa prima che la causa possa passare nella fase finale della decisione.

La relazione esplicita, in particolare, che il Governo intende attuare i principi direttivi sopra enunciati prevedendo l’assoluta centralità della prima udienza. L’intervento complessivo si sostanzia nelle seguenti misure:

-       anticipazione della fase scritta (scambio delle memorie) rispetto a quella orale in prima udienza di comparizione (art. 183 c.pc.). Lo scambio delle memorie è attualmente appendice scritta, successiva alla stessa udienza e l’esperienza ha dimostrato che gli attuali irragionevoli termini processuali (che verrebbero adeguatamente rimodulati) consentono una dilazione dei tempi del processo assolutamente ingiustificata; sarebbe inoltre invertito l’attuale ordine di presentazione delle memorie (la prima memoria sarebbe di pertinenza dell’attore e ad essa farebbe seguito quella del convenuto). Inoltre, già alla prima udienza il giudice istruttore avrebbe, quindi, disponibile il materiale assertivo e istruttorio dell’intera causa; le prove sarebbero già valutate e ammesse in tale sede e, nei casi più semplici, il giudice potrebbe decidere allo stato degli atti.

-       anticipazione, in una fase anteriore all’udienza di precisazione delle conclusioni (art. 187 c.p.c.), dello scambio delle memorie conclusionali; anche in tal caso si intende evitare la concessione dei termini (60 più 20 gg.) per la presentazione delle conclusioni e per le memorie di replica.

 

3) immediata provvisoria efficacia di tutte le sentenze di primo grado;

 

Il codice di procedura civile già stabilisce che “la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti” (art. 282).

 

La proposizione dell’impugnazione nei confronti della sentenza di primo grado non determina, infatti, la sospensione della sua esecutività (art. 337 c.p.c.). Ciononostante, il giudice d'appello – ex art. 283 c.p.c. - su istanza di parte, proposta con l'impugnazione principale o con quella incidentale, quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilita' di insolvenza di una delle parti, sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione.

Se l’istanza è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.

 

La differenza sostanziale tra quanto previsto dall’art. 282 c.p.c. ed il criterio direttivo enunciato sembra, tuttavia, riferibile all’efficacia di “tutte” le sentenze di primo grado; tale formulazione (sia pure in sede di principi e criteri direttivi) sembrerebbe volere estendere tale effetto alle sentenze non solo di condanna ma anche di altra natura. La sentenza di primo grado avente natura costitutiva o dichiarativa si ritiene, infatti, provvisoriamente esecutiva solo con riferimento al capo relativo alla condanna alle spese di lite, mentre gli effetti costitutivi e dichiarativi divengono esecutivi solo con il passaggio in giudicato.

L’uso del termine efficacia anziché all’esecutività della sentenza (minor rilievo sembra assumere la previsione della sua “immediata” efficacia) sembra avallare tale tesi. Per efficacia si intende, infatti, per consolidata dottrina, la produzione degli effetti giuridici di una sentenza, quali che essi siano (dichiarativi cioè di accertamento, costitutivi ex art. 2908 c.c. e di condanna), mentre l’esecutività è più specificamente l’idoneità ad acquistare la forza di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. (efficacia in senso proprio), propria delle sole sentenze si condanna.

Va segnalato, sul punto, che, nonostante l’art. 282 parli genericamente di "sentenza", senza operare distinzioni, un orientamento restrittivo, maggioritario in dottrina, ritiene che la disciplina della provvisoria esecuzione trovi applicazione solo in riferimento alla sentenza di condanna, che costituisce per natura titolo esecutivo. Il concetto stesso di esecuzione postulerebbe, infatti, un’esigenza di adeguamento della realtà al decisum, che, evidentemente, manca sia nelle pronunce di natura costitutiva che in quelle di accertamento.

La stessa Suprema Corte ha aderito a tale orientamento (v. Cass.,sentenza n. 7369 del 2009) statuendo che le sentenze di accertamento così come quelle costitutive non avrebbero l'idoneità, con riferimento all'art. 282 c.p.c., ad avere efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato.

 

La Cassazione ritiene che “ in considerazione della stessa formulazione della norma che fa riferimento all'esecuzione, devo escludersi che, al di fuori delle statuizioni di condanna consequenziali, le sentenze di accertamento (e quelle costitutive) possono avere efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato, essendo l'esecuzione riferibile soltanto a quelle sentenze (di condanna) suscettibili del procedimento disciplinato dal terzo libro del codice di procedura civile. Tale interpretazione trova ulteriore conferma: a) nell'art. 283 c.p.c. che, prevedendo espressamente la possibilità di sospendere l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, necessariamente intende fare riferimento alle sentenze di condanna; b) nelle disposizioni di cui agli artt. 431 (controversie di lavoro) e 447 bis c.p.c. (controversie in materia di locazione, comodato e affitto), che fanno riferimento alle sole esecutorietà delle sentenze di condanna; c) nella regola generale dell'immutabilità dell'accertamento sancita dall'art. 2909 c.c. (cosa giudicata), atteso che, in mancanza di una espressa previsione legislativa in senso contrario, tale norma non consente di attribuire efficacia a un accertamento che non sia ancora definitivo.

 

Più recentemente, tale giurisprudenza è stata confermata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 4059 del 2010 (in senso conforme, Cass. n. 27090 del 2011).

 

Ove si accedesse a tale interpretazione (ovvero che l’obiettivo del legislatore sarebbe quello di rendere effettivamente efficaci tutte le sentenze di primo grado di condanna e non), la portata dell’intento riformatore andrebbe valutata alla luce delle previsioni dell’art. 1, comma 2, lett. d), n. 2, del disegno di legge, volte a estendere l’ambito di applicazione delle misure coercitive indirette.

Più in generale, si consideri l’opportunità di precisare l’efficacia innovativa del criterio direttivo.

Al di là delle precisazioni contenute nella relazione illustrativa al disegno di legge, la formulazione dei tre principi e criteri direttivi enunciati per la riforma del processo di cognizione di primo grado andrebbe precisata e ulteriormente specificata.

 

Sulla necessità della puntualità dei criteri di delega, la Corte costituzionale (sentenza 156 del 1987) ha precisato che “le norme deleganti debbono essere comunque idonee ad indirizzare concretamente ed efficacemente l’attività normativa del Governo, non potendo esaurirsi in mere enunciazioni di finalità, né di disposizione talmente generiche ad essere riferibili a materie vastissime ed eterogenee”. Allo stesso tempo, la Corte ha riconosciuto che la varietà delle materie riguardo alle quali si può ricorrere alla delega legislativa comporta che neppure è possibile enucleare una nozione rigida valevole per tutte le ipotesi di “principi e criteri direttivi” (sent. n. 98 del 2008), quindi il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose (sentt. n. 250 del 1991 e n 340 del 2007). Tale considerazione non ha comunque impedito alla Corte costituzionale di sollecitare una maggiore precisione da parte del legislatore delegante nell’enunciazione dei principi di delega (ordinanza n. 134 del 2003 e sentenze n. 53 del 1997 e 49 del 1999)

 

Recenti interventi sul processo civile

Il più recente intervento di riforma nel settore della giustizia civile riguarda le disposizioni del decreto legge 132 del 2014 “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”, che ha introdotto nel nostro ordinamento una serie di misure volte in particolare:

-     a bloccare a monte l’afflusso delle cause attraverso strumenti ad hoc finalizzati alla risoluzione stragiudiziale dei conflitti;

-     a garantire la funzionalità del processo civile di cognizione.

 

La convenzione di negoziazione assistita consiste in un accordo stragiudiziale con cui le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati. All'atto del conferimento dell'incarico, l'avvocato deve informare il cliente della possibilità di ricorrere a tale strumento; la mancata informativa costituisce infrazione disciplinare dell'avvocato. La convenzione – che consiste in un accordo amichevole tra le parti finalizzato a risolvere in via amichevole la controversia - non incontra limiti di materia, esclusi i diritti indisponibili e i contenziosi in materia di lavoro. In relazione al suo concreto contenuto, la convenzione - redatta in forma scritta a pena di nullità - deve indicare sia l'oggetto della controversia che il termine concordato dalle parti per la conclusione della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese e non superiore a 3 mesi (fatto salvo un possibile rinnovo di 30 giorni). L'esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità in specifiche materie. Viene, quindi, previsto in tali ipotesi che colui che agisce in giudizio deve preventivamente invitare il convenuto alla stipula della convenzione di negoziazione. Ciò vale:

- per le domande giudiziali relative a controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti;

- per le domande di pagamento, a qualsiasi titolo, di somme non superiori a 50 mila euro.

L'improcedibilità non trova invece applicazione per le controversie in materia di obbligazioni contrattuali derivanti da contratti tra professionisti e consumatori né per quelle in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari; nei procedimenti per ingiunzione (compresa l'eventuale opposizione); di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di opposizione o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata; nei procedimenti camerali e nell'azione civile nel processo penale; quando la parte può stare in giudizio personalmente. La condizione di procedibilità si considera avverata in caso di mancata adesione o di rifiuto della negoziazione assistita entro 30 gg dall'invito nonché per lo spirare del termine mensile per la conclusione del procedimento. E', infine, disciplinata la procedura dei casi in cui una delle parti della negoziazione assistita versi nelle condizioni per l'ammissione al gratuito patrocinio.

Circa gli effetti della mancata accettazione e del fallimento dell'accordo di negoziazione assistita, l'invito all'accordo deve contenere l'avviso all'altra parte che il giudice può valutare la mancata risposta o il rifiuto dell'invito con mala fede o colpa grave ai fini di una possibile condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata; per gli stessi motivi, deve essere avvertita l'altra parte della possibilità che il giudice valuti l'esecuzione provvisoria di una pretesa creditoria quando il credito appaia fondato su titolo certo. Quanto agli effetti del raggiungimento dell'accordo di negoziazione assistita, è attribuita all'accordo che definisce la lite valore di titolo esecutivo e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. L'accordo raggiunto deve essere integralmente trascritto nel precetto. E' sancita, infine, l'illiceità sotto il profilo deontologico della condotta dell'avvocato che impugna l'accordo di cui ha contribuito alla redazione.

Con il DL 132 è, poi, prevista il possibile trasferimento - su istanza congiunta delle parti al giudice - dalla sede giudiziaria a quella arbitrale delle cause civili in corso dinanzi al tribunale o in grado d'appello, pendenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge. Il trasferimento è, tuttavia, escluso per le cause già assunte in decisione; per quelle che hanno ad oggetto diritti indisponibili e, salvo specifici casi, per le cause in materia di lavoro. Il lodo pronunciato ha, a tutti gli effetti, il valore di sentenza. Il giudice deve trasferire il fascicolo di causa al presidente dell'ordine circondariale degli avvocati, che nomina tra gli iscritti all'ordine - a seconda del valore della stessa (inferiore o superiore a 100.000 euro) - un arbitro unico o un collegio arbitrale. In primo grado, il termine di termine di pronuncia del lodo è quello di 240 gg. del codice di procedura civile. Mentre in appello sono stabiliti 120 gg. Se il lodo in appello non viene pronunciato nel termine, la causa va riassunta entro 60 gg. davanti al giudice pena l'estinzione (e, quindi, il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado). Analoga riassunzione, entro 60 gg., va fatta in caso sia dichiarata la nullità del lodo.

Tra le disposizioni, che occupano l’intero capo IV del decreto, rilevano, innanzitutto, quelle dettate per limitare il c.d. “abuso del processo”; il passaggio dal rito ordinario a quello sommario e la riduzione del periodo di sospensione feriale dei magistrati, mentre in sede di conversione, è stata eliminata la possibilità per il difensore di escutere i testi fuori dal processo:

Al fine di scoraggiare i casi di “abuso del processo”, il decreto ha limitato fortemente la discrezionalità del giudice nel disporre la compensazione delle spese, alle sole ipotesi di “soccombenza reciproca”, di “assoluta novità della questione trattata” o di “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”. Soltanto nei suddetti casi, il giudice potrà compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti;

Per le cause di minore complessità, la riforma ha previsto il passaggio dal rito ordinario a quello sommario di cognizione. Il nuovo art. 183-bis stabilisce, infatti, che nelle cause presso il tribunale in composizione monocratica, introdotte a partire dal 30° giorno successivo all’entrata in vigore della l. n. 162/2014, in tribunale di cognizione, “il giudice nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell'art. 702-ter”, invitando le parti ad indicare i mezzi di prova e i documenti di cui intendono avvalersi nella medesima udienza;

E' inoltre ridotto il periodo di sospensione feriale dei termini processuali (da 45 a 31 giorni) e la durata delle ferie dei magistrati e degli avvocati dello Stato, che sono portate da 45 a 30 giorni.

 

In precedenza, il decreto-legge n. 90 del 2014, oltre a introdurre misure di carattere organizzativo, ha in particolare confermato l'obbligatorietà del processo civile telematico con la sua introduzione "scadenzata" (v. ultra, lett. h) del comma 2) e previsto modifiche puntuali del codice processuale civile in materia di contenuto del processo verbale, pubblicazione e comunicazione della sentenza e di processo verbale dell'assunzione.

 

Sempre nella legislatura in corso, il cd. “decreto del Fare” (DL 69/2013, convertito dalla L. 98/2013), insieme a numerose disposizioni urgenti finalizzate al «rilancio dell’economia», ha introdotto anche alcune disposizioni in materia di giustizia civile. Si tratta di norme che, accomunate dall’obiettivo del recupero di “efficienza del sistema giudiziario”, in parte, hanno carattere organizzativo, incidendo sull’ordinamento giudiziario e, per altra parte, introducono nuove modifiche al codice di rito civile.

 

Per quanto riguarda queste ultime, ovvero gli interventi di natura più strettamente processuale - oltre alla citata reintroduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione (art. 185-bis c.p.c.) - vanno richiamate le norme:

·       che reintroducono, a partire dal 21 settembre 2013, l’esperimento obbligatorio della procedura di mediazione in determinate materie del contenzioso civile, superando, così, gli effetti della sentenza 272 del 2012 della Corte costituzionale che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega delle disposizioni del D.Lgs 28/2010 che già in precedenza la prevedevano.

·       che limitano i casi in cui il procuratore generale presso la Corte di cassazione deve intervenire nel giudizio davanti alla Suprema Corte;

·       che semplificano il procedimento per lo scioglimento della comunione, ereditaria o volontaria, quando non siano controversi il diritto alla divisione o le quote o non sussistano altre questioni pregiudiziali;

·       che snelliscono il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sia con riferimento all’anticipazione dell’udienza per la comparizione delle parti, sia con riferimento alla pronuncia dell’ordinanza di provvisoria esecutività del decreto dopo l’opposizione.

Per quanto riguarda le misure di carattere organizzativo, anzitutto viene introdotta dal DL del Fare la nuova figura del «giudice ausiliario» presso le corti d’appello, nel numero massimo di 400 unità. Si prevede, cioè, il «reclutamento» dei nuovi «giudici ausiliari» fra i magistrati ordinari, contabili e amministrativi e avvocati dello Stato, a riposo da non più di tre anni, e i magistrati onorari, che abbiano esercitato le loro funzioni per almeno cinque anni; fra i professori universitari in materie giuridiche anche a tempo definito o a riposo da non più di tre anni e i ricercatori universitari sempre in materie giuridiche; fra gli avvocati, anche se cancellati dall’albo da non più di tre anni e i notai anche se a riposo da non più di tre anni. Questo, evidentemente, al fine di favorire lo smaltimento dell’arretrato, come chiaramente emerge dall’art. 62 dello stesso d.l.

Viene, inoltre, prevista la possibilità che laureati in giurisprudenza, particolarmente qualificati e opportunamente selezionati, svolgano stages formativi di 18 mesi presso gli uffici giudiziari, al fine di consentire, da un lato, ai giovani laureati di acquisire una specifica conoscenza pratica anche dell’attività che si svolge presso questi uffici e, dall’altro lato, ai magistrati di poter contare sulla collaborazione degli stagisti nella preparazione dell’attività di loro competenza.

Sempre con riferimento alle misure di carattere organizzativo, viene istituita anche la figura del giudice «assistente di studio» a supporto delle sezioni civili della Corte di cassazione (senza far parte dei collegi giudicanti), come misura temporanea (5 anni) per la celere definizione dei procedimenti pendenti.

 


 

La riforma dell’appello

La lettera b) del comma 2 riguarda la riforma dell’appello. Della necessità di una riforma delle impugnazioni si parla da tempo sia in dottrina sia tra gli operatori della giustizia. Gli strumenti normativi finora approntati – soprattutto fondati sull’introduzione di “filtri” volti a ridurre il numero delle impugnazioni- non si sono in effetti dimostrati efficaci nel risolvere le criticità emerse nella prassi.

 

Nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2014, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario (23 gennaio 2015), il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Santacroce, parlando della necessità di riformare l’appello, ha criticato la tendenza del legislatore ad insistere sulla predisposizione di “filtri”; tale opzione, secondo il Primo Presidente, “non aiuta il sistema a crescere, a meno che si voglia seguire la via, esistente in altri sistemi, di prevedere la c.d. “autorizzazione all’appello” da parte del giudice di primo grado. I “filtri”, come dimostra l’esperienza, non sono uno strumento di semplificazione, né hanno una funzione acceleratoria, anzi assai spesso si risolvono in un’irragionevole dispersione di risorse”. Analoghe critiche ha espresso nei confronti dell’opinione di chi, per abbreviare i tempi di durata dei processi, civili e penali, suggerisce di ridurre la percorribilità dei gradi di giudizio eliminando l’appello (e perdendo così un’importante fetta di garanzie). Altrettanto inefficace, ritiene Santacroce, risulterà la possibilità, riconosciuta anche alle parti di un processo di appello, di portare la controversia innanzi ad un collegio arbitrale (ai sensi, del decreto-legge 132 del 2014).

Nel merito, la Relazione evidenziava l’opportunità di ridimensionare il doppio giudizio di merito, così da fronteggiare il carico di lavoro, attualmente eccessivo, delle corti di appello. Riferiva, in particolare, dell’opportunità di ricorrere al modello di appello tedesco “puntando esclusivamente sul controllo degli errori che possono aver inficiato il giudizio di primo grado, evitando di insistere sull’alternativa classica tra novum iudicium e revisio prioris instantiae, che è un aspetto decisamente insidioso”.

“Se si tiene conto che nella società contemporanea uno dei valori più apprezzati è costituito dalla “certezza delle decisioni conseguita in un tempo definito, ragionevolmente breve” – ha detto Santacroce – “l’appello non può rimanere un mezzo di impugnazione a critica libera finalizzato a un totale riesame della controversia. La giustizia, per essere tale, richiede una procedura che consenta di “raffinare” le decisioni e non di agevolare una moltiplicazione, tendenzialmente indefinita, dei giudizi: se la giustificazione logica dell’appello è comunemente rinvenuta nella possibilità di errore che è insita in ogni umano giudizio, non può esistere alcuna tranquillante rassicurazione sul fatto che la “seconda valutazione” sia più corretta della prima, laddove il nuovo giudizio continui a essere una “rinnovazione” del primo (il non episodico “ribaltamento delle decisioni” ne può essere un allarmante segnale)…… Il Primo Presidente ha ricordato come “in anni recenti la Prima Presidenza di questa Corte ebbe a suggerire una riforma a “struttura piramidale” del sistema delle impugnazioni. Se proprio non si volesse arrivare a tanto, è certo che occorre una più severa disciplina del requisito di specificità dei motivi di appello, che imponga all’appellante l’onere di individuare in modo circostanziato quale sia l’errore cui ricollega l’ingiustizia della decisione del primo giudice, indicando le ragioni per le quali dall’errore denunciato gli sia derivato un pregiudizio. Occorre, in altri termini, trasformare la struttura dell’appello, abbandonando il modello di “mezzo di gravame a motivi illimitati” e optando per un modello costruito intorno a un predeterminato elenco normativo delle censure proponibili”.

 

Il disegno di legge detta alcuni principi e criteri direttivi volti ad una riforma di entrambi i gradi di gravame.

In particolare, l’art. 1, comma 2, lett. b), riguarda i criteri per la revisione del giudizio di appello, basati essenzialmente sull’impossibilità di portare davanti al giudice del gravame un quid novi rispetto alla sentenza di primo grado. Il disegno di legge prevede i seguenti sei principi e criteri direttivi:

 

1) potenziamento del carattere impugnatorio dello stesso, anche attraverso la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali e la tipizzazione dei motivi di gravame;

 

2) introduzione di criteri di maggior rigore, in relazione all'onere dell'appellante di indicare i capi della sentenza che vengono impugnati e di illustrare le modificazioni richieste, anche attraverso la razionalizzazione della disciplina della forma dell'atto introduttivo;

 

Attualmente, l’art. 342 c.p.c. prevede l’obbligo per l’appellante di indicare nella citazione gli elementi di cui all’art. 163 su cui si fonda l’impugnazione. A pena di inammissibilità, la motivazione deve contenere l’indicazione delle parti della sentenza di primo grado che si intende appellare e delle modifiche ritenute necessarie alla ricostruzione del fatti compiuta in primo grado.

Dalla relazione illustrativa emerge che i principi direttivi citati saranno declinati mediante l’individuazione dei seguenti, vincolanti motivi di appello:

-       violazione di legge (di una norma di diritto sostanziale o processuale;

-       errore manifesto (di valutazione dei fatti).

L’appellante dovrà, inoltre, precisare nella citazione sia gli specifici capi della sentenza impugnati sia illustrare le modifiche che richiede alla sentenza (derivanti dalla violazione di legge o dell’errore manifesto).

Si osserva, in considerazione del contenuto del vigente art. 342, primo comma, che il contenuto del criterio direttivo n. 2 non pare introdurre specifiche innovazioni.

 

3) rafforzamento del divieto di nuove allegazioni nel giudizio di appello anche attraverso l'introduzione di limiti alle deduzioni difensive;

 

Il vigente art. 345 c.p.c., come novellato dal DL 83/2012, prevede l’impossibilità di proporre nel giudizio d'appello domande nuove che, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d'ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.

Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio. Non possono, inoltre, essere ammessi nuovi mezzi di prova nè prodotti nuovi documenti (salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile). Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.

Limiti alle deduzioni difensive sono, quindi, già previsti dall’art. 345. Si tratterebbe quindi - come per le “nuove allegazioni” - di “nuovi” limiti a tali deduzioni.

La relazione illustrativa al disegno di legge chiarisce che l’intervento del legislatore delegato dovrebbe prevedere quale elemento aggiuntivo l’impossibilità di introdurre nuove ragioni giuridiche (ad avallo della fondatezza della domanda) ed eccezioni che non siano state già sottoposte al giudice di primo grado.

 

4) riaffermazione, in sede di appello, dei princìpi del giusto processo e di leale collaborazione tra i soggetti processuali, anche attraverso la soppressione della previsione di inammissibilità dell'impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento;

 

Si tratta della soppressione dell’attuale filtro previsto dall’art. 348-bis del codice processuale civile (v. ultra).

 

5) introduzione di criteri di maggior rigore nella disciplina dell'eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito;

 

In relazione ai citati orientamenti della giurisprudenza da codificare in sede di attuazione della delega (v. ante, n. 1), la relazione del Governo riferisce genericamente di una elaborazione giurisprudenziale in materia di giudicato interno nella disciplina dell’eccepibilità in appello di questioni pregiudiziali di rito.

 

Le questioni pregiudiziali di rito sono quelle attinenti a presupposti diversi dalla giurisdizione o competenza del giudice adìto. Si pensi al difetto di legittimazione processuale (es.: per interdizione) o di una delle condizioni dell’azione (es.: legittimazione ad agire o possibilità giuridica) o, ancora, alla irregolarità della citazione.

 

Attualmente, tali questioni - se non accolte in primo grado - possono essere riproposte in appello mentre le domande non riproposte si intendono rinunciate (art. 346 c.p.c.). Il legislatore ha cioè stabilito una presunzione assoluta di rinuncia alle domande ed eccezioni non espressamente riproposte in appello.

Secondo la relazione illustrativa al disegno di legge, la normativa delegata dovrebbe limitare la riproposizione di tale questioni in sede di gravame, riconoscendo il carattere di giudicato interno (o implicito) alla pronuncia di primo grado sul merito della lite. Secondo alcune decisioni della giurisprudenza (a partire da Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 24883 del 2008), la decisione di primo grado dovrebbe, infatti,, “coprire” implicitamente anche le questioni pregiudiziali. Ci si riferisce, sostanzialmente, alla circostanza secondo cui il giudicato sul merito coprirebbe anche tutto ciò che ne costituisce presupposto logico-giuridico, anche ove non sia stato oggetto di discussione e decisione nel corso della causa.

 

Ulteriori criteri ispiratori della normativa delegata in materia di appello dovrebbero essere una ulteriore restrizione dei casi di rimessione della causa al primo giudice nonché un maggior utilizzo del potere di ordinanza (impugnabile per cassazione) in funzione decisoria.

 

6) immediata provvisoria efficacia di tutte le sentenze di secondo grado;

 

In base alla disciplina vigente, il ricorso per Cassazione non sospende l’esecutività della sentenza di secondo grado; tuttavia è prevista la possibilità che lo stesso giudice dell’appello, su istanza di parte, ne sospenda l’esecuzione quando da quest’ultima possa derivare un grave ed irreparabile danno. Il giudice dell’appello in tal caso si pronuncia con ordinanza non impugnabile.

 

Il fondamento della provvisoria esecuzione delle sentenze di appello risulta risiedere nel citato art. 282 c.p.c., espressamente riferito alla esecutività delle sentenze di primo grado.

 

Si osserva, in relazione ai principi e criteri direttivi enunciati, che appare opportuna una loro maggiore specializzazione, soprattutto laddove ci si riferisce: al potenziamento del carattere impugnatorio dell’appello, anche attraverso la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali; alla razionalizzazione della disciplina della forma dell'atto introduttivo; alla riaffermazione in appello dei princìpi del giusto processo e di leale collaborazione tra i soggetti processuali:

 

Recenti interventi legislativi sull’appello

L’intervento di maggior rilievo sulla disciplina dell’appello è stato introdotto con il decreto-legge n. 83 del 2012 (L. conv. 134 del 2012) che in particolare, ai fini che qui interessano, ha introdotto un doppio filtro in appello.

Aboliti gli “specifici motivi”, il primo filtro riguarda la motivazione dell'appello, che deve contenere, a pena di inammissibilità (art. 342 c.p.c.):

 - l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

 - l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

In tema di prove nuove, viene poi eliminato il riferimento all’indispensabilità: l’ingresso di prove nuove è ammissibile solo ove la parte dimostri di non aver potuto proporle o produrle nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

La novità principale è, però, prevista dall’ulteriore filtro di inammissibilità dell’appello di cui al nuovo art. 348 bis c.p.c., secondo il quale fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, l'impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Tale enunciazione non vale per le cause in cui è obbligatoria la presenza del pubblico ministero e nel grado di appello ad ordinanza decisoria conclusiva di rito sommario di cognizione.

L’art. 348-ter c.p.c., anch’esso introdotto nel codice dal DL 83/2012, prevede che all'udienza di trattazione il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara inammissibile l'appello, a norma dell'articolo 348 bis, comma 1° c.p.c., con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. Quando è pronunciata l'inammissibilità', contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'articolo 360 c.p.c., ricorso per Cassazione.

L'ordinanza di inammissibilità dell’appello è pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che per quella incidentale di cui all'articolo 333 c.p.c. ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell'articolo 348 bis c.p.c.; in mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza; in pratica: o entrambe le impugnazioni sono inammissibili, così da dichiarare l’inammissibilità, oppure deve essere dichiarata l’ammissione (in caso di ammissibilità solo di una impugnazione); non c’è spazio per l’inammissibilità parziale.

 

 

 


 

La riforma del giudizio di Cassazione

Il disegno di legge delega il Governo a riformare il giudizio di cassazione (comma 2, lettera c), individuando quattro principi e criteri direttivi, relativi:

1)    alla revisione del giudizio camerale;

2)    alla razionalizzazione della formazione dei ruoli per il rafforzamento della funzione nomofilattica della Cassazione;

3)    all’introduzione delle sentenze sinteticamente motivate;

4)    al diverso impiego dei magistrati dell’ufficio del ruolo e del massimario.

 

Nella recente Relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2014, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario (23 gennaio 2015), il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Santacroce, ha sottolineato come non sia ragionevole che «una controversia di nessun impatto su di ritti primari e non collegata alla risoluzione di questioni di diritto di un qualche spessore possa impegnare la complessa macchina della Corte di cassazione quando vi sia stata una doppia pronuncia conforme in sede di merito o quando, come avviene non infrequentemente, essa attenga alla tutela di interessi correlati a sanzioni pecuniarie di modesta entità. Il preponderante numero dei ricorsi penali dichiarati inammissibili, pari a circa il 61 per cento, conferma il distorto uso del ricorso per cassazione, teso per lo più non alla tutela di effettive ragioni di giustizia ma solo al differimento della decisione definitiva».

Il Primo presidente ha ribadito dunque «l’esigenza di una profonda riforma del giudizio di cassazione, gravato da una mole smisurata di ricorsi a cui la Corte non riesce più a tener testa. Così la Corte non può espletare completamente la sua essenziale funzione nomofilattica che costituisce, da una parte, una più piena realizzazione del principio di eguaglianza e favorisce, dall’altra, indirettamente, anche la ragionevole durata del processo».

 

Le statistiche presentate dal Primo Presidente in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario hanno evidenziato i seguenti dati di sintesi relativi al 2014:

 

-        le iscrizioni in cancelleria centrale civile sono in crescita rispetto all’anno 2013 e pari a 30.303 procedimenti (+4,2% rispetto al 2013);

-        la definizione è scesa rispetto allo scorso anno del 6,5% (-1.969 procedimenti definiti con la pubblicazione del provvedimento);

-        più della metà dei procedimenti definiti nell’anno 2014 è stata iscritta prima del 2012;

-        la pendenza è in crescita del 2,1% (2.086 pendenti in più) rispetto al 31 dicembre 2013 ed è pari a 100.778 ricorsi;

-        il 46,5% dei procedimenti pendenti è stato iscritto prima del 01/01/2013, in particolare (7.883 pendenti) il 7,8% del totale sono pendenti da più di cinque anni;

-        la durata media dei definiti è di 44 mesi ed è il valore più alto fatto registrare in serie storica dall’anno 2000 (2 mesi in più rispetto allo scorso anno);

-        il numero di procedimenti decisi in maniera definitiva in udienza è cresciuto del 2,9% rispetto al 2013;

-        il numero medio di consiglieri impegnati in udienza è aumentato di dieci unità rispetto al 2013 ed è pari a 131,1;

-        la produttività per consigliere è scesa del 4,8% rispetto al 2013, 228,6 procedimenti trattati in udienza per consigliere contro i 240 dello scorso anno.

 

 

Il principio e criterio direttivo n. 1) delega il Governo a rivedere la disciplina del giudizio camerale.

 

Si ricorda che ogni ricorso alla Corte di cassazione, quando non debba essere trasmesso alle Sezioni Unite, viene assegnato dal Presidente ad un’apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio; se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all'assegnazione alle sezioni semplici (art. 376 c.p.c.).

In base all’art. 375 del codice di procedura civile, da ultimo modificato dalla legge n. 69 del 2009, la Corte di cassazione, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia ordinanza in camera di consiglio quando deve:

1) dichiarare l'inammissibilità del ricorso, anche per mancanza dei motivi previsti dall'articolo 360 c.p.c.;

2) ordinare l'integrazione del contraddittorio;

3) provvedere in ordine all'estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia;

4) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione;

5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza.

 

Il Governo dovrà, in particolare, eliminare il procedimento per la decisione sull’inammissibilità del ricorso e per la decisione in camera di consiglio (c.d. filtro in Cassazione) così come introdotto dalla riforma del 2009 all’art. 380-bis c.p.c.

 

L’art. 380-bis dispone che il relatore della sezione alla quale il Presidente ha trasmesso preliminarmente il ricorso debba - se ritiene che il ricorso sia inammissibile o manifestamente fondato o infondato - depositare in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia.

Spetta invece al relatore appositamente nominato per il ricorso verificare successivamente se possano eventualmente ricorrere le ipotesi previste dall'art. 375, 2° e 3° co., (integrazione del contraddittorio, esecuzione o rinnovo della notifica ex art. 332, estinzione del processo nei casi diversi dalla rinuncia). In presenza di tali ultime ipotesi, ritenuta dal relatore la possibilità di definire il ricorso in camera di consiglio, dovrà depositare in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia. L'ultima novella del 2009 ha anche semplificato il contenuto della relazione, che nel testo originario dell'art. 380-bis prevedeva anche l'esposizione, seppur concisa, dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto.

Successivamente, il Presidente fissa con decreto l'adunanza della Corte e sono disposte le notificazioni alle parti, almeno 20 giorni prima dell’udienza. Gli avvocati delle parti potranno presentare memorie, comparire in udienza e chiedere di essere sentiti.

L'intento del legislatore è chiaramente quello di utilizzare questo meccanismo del procedimento in camera di consiglio per introdurre un vero e proprio "filtro" alla discussione dei ricorsi in pubblica udienza. Peraltro, come da subito rilevato da parte della dottrina, il fatto che l’art. 380-bis preveda che le parti possono chiedere di essere ascoltate rischia di vanificare l'utilità di questo procedimento.

 

In merito, la relazione illustrativa afferma che «oggi il relatore a cui è stata assegnata una causa all'interno delle sezioni, se gli appare possibile definire il giudizio ai sensi dell'articolo 375 del codice di procedura civile, ovvero secondo il percorso camerale che dovrebbe essere di maggiore celerità e semplicità, deposita una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la pronuncia alla quale egli tende. Dopo ciò, come sappiamo, avvenuta la notificazione del giorno dell'adunanza e della relazione, gli avvocati delle parti hanno facoltà di presentare memorie e di chiedere di essere sentiti.

A questo punto abbiamo la situazione di un avvocato che conosce già l'intenzione del relatore e con essa quella, sicuramente probabile, del collegio. Egli in realtà ha di fronte un vero e proprio progetto di definizione della causa con tutte le possibili rationes.

Del tutto evidente, a questo punto, è che il difensore che si vede prospettare una sconfitta si trovi di fronte ad una possibilità difensiva assai più grande di quella che addirittura gli compete nel momento in cui la causa invece viene attribuita al teoricamente più garantito rito dell'udienza pubblica.

Ulteriore risultato è la doppia fatica del relatore: relazione, adunanza, discussione con i colleghi, redazione di una sentenza nella quale tiene conto delle critiche alla relazione, ovvero di un'ordinanza di rimessione alla pubblica udienza. Tutto ciò rende questo rito del tutto irragionevole. Esso contraddice la sua funzione, cosicché accade, probabilmente solo in relazione alla quantità di fatica dei relatori delle singole sezioni, che ancora troppe siano le cause che, sebbene di agevole definizione e nelle quali sostanzialmente il ricorrente si duole solo di aver perduto la causa e ripete argomentazioni già esaminate dal giudice di merito, giungono all'udienza pubblica».

 

Il filtro in Cassazione – così delineato – dovrà essere sostituito dalla previsione di un’udienza in camera di consiglio, da disporre con decreto presidenziale, alla quale intervenga anche il procuratore generale se previsto dalla legge. A tale udienza gli avvocati delle parti non potranno partecipare, potendo però interloquire per iscritto con il procuratore generale.

 

Quanto al ruolo del PM, si ricorda che prima della modifica apportata dall'art. 75 del decreto-legge n. 69 del 2013, il decreto e la relazione dovevano essere comunicati anche al pubblico ministero, il quale aveva facoltà di presentare le proprie conclusioni entro lo stesso termine concesso alle parti per il deposito delle memorie. L'abolizione di tale previsione discende dalla modifica all'art. 70 c.p.c., che ora prevede che il pubblico ministero debba intervenire nella cause davanti alla corte di cassazione solo nei casi previsti dalla legge. La riforma impedisce pertanto al Procuratore Generale di presenziare alle udienze che si svolgono dinanzi alla c.d. «sezione filtro» e di presentare requisitorie scritte. La riforma ha modificato, parallelamente, anche l'art. 76, dell’ordinamento giudiziario (R.D. n. 12 del 1941) specificando (in linea con il testo modificato dell'art. 70) le ipotesi in cui è ammesso l'intervento del Pubblico Ministero nei giudizi dinanzi alla Corte di cassazione: appunto tale intervento è espressamente escluso per le udienze della c.d. «sezione filtro».

 

La relazione illustrativa precisa che il Governo intende sul punto applicare anche ai giudizi civili il modello della Cassazione penale ove, in base agli articoli 610 e 611 del codice di procedura penale, è il Presidente della Corte a destinare, se ritiene, i procedimenti alla camera di consiglio e le parti, avvertite della data di trattazione, fino a quindici giorni prima possono interloquire per iscritto.

 

La relazione ritiene che «quella felice esperienza possa essere riprodotta, con gli adattamenti del caso, nel giudizio civile. I ricorsi, assegnati ai relatori, vengono rimessi alla camera di consiglio, su decisione del presidente titolare della sezione, quando ne appare agevole la soluzione. I difensori e il procuratore generale, avvertiti, nell'udienza possono depositare memorie, atti e ogni altro elemento che ritengano utile. In più i difensori possono, fino ad un termine breve di cinque giorni liberi prima dell'udienza, depositare ulteriori atti anche per replicare al procuratore generale.

La camera di consiglio decide con ordinanza il ricorso ovvero la rimessione dell'esame del medesimo alla pubblica udienza.

In questo modo sembra che, facendo salva l'occasione professionale del difensore attraverso la replica al procuratore generale ed eliminando l'inutile richiesta di discutere oralmente, si possa pervenire ad un risultato processuale assolutamente compatibile con i princìpi costituzionali».

 

 

Il principio e criterio direttivo n. 2) è più generico del precedente, perché delega il Governo a favorire la funzione nomofilattica della Cassazione, ad esempio attraverso la razionalizzazione della formazione dei ruoli, secondo criteri di rilevanza delle questioni.

 

Quanto a quest’ultimo aspetto, la relazione illustrativa precisa che occorre «imporre che la formazione dei ruoli venga effettuata non tanto e non solo in considerazione dell'anzianità della cause, ma della loro rilevanza economica, sociale e comunque nomofilattica, per evitare che nell'attesa si consolidino correnti giurisprudenziali inutilmente costose».

Si osserva che la recente relazione del Capo del DOG intitolata “Progetto organizzativo «Arretrato civile ultratriennale Programma Strasburgo 2»”, del gennaio 2015, evidenzia come il Ministero della Giustizia abbia raccomandato «ai Dirigenti degli Uffici giudiziari che, nella scelta delle priorità di trattazione degli affari civili, tengano conto di un fenomeno particolare, quello delle cause ultratriennali la cui persistenza incide fortemente, giorno dopo giorno, sulle previsioni di bilancio del Dicastero della Giustizia. Da qui l’interesse a sollecitare l’esaurimento in tempi rapidi degli “affari” pendenti nei vari Uffici la cui durata sia eccedente rispetto ai limiti della legge Pinto».

Il Governo, che nel disegno di legge di riforma spinge per una trattazione prioritaria in cassazione dei ricorsi che abbiano interesse economico, sociale e nomofilattico, per altro verso dunque suggerisce a tutti gli uffici giudiziari di affrontare con priorità i ricorsi più vecchi, per evitare di incorrere nella condanna al pagamento degli indennizzi previsti dalla legge Pinto.

 

 

Si rileva la genericità di questo principio e criterio direttivo, che trova una maggiore articolazione solamente nella relazione illustrativa. Quest’ultima, infatti, riconduce al rafforzamento della funzione nomofilattica della Corte tanto interventi funzionali (dalla riforma del numero e delle modalità di selezione dei consiglieri di cassazione alla responsabilizzazione dei presidenti di sezione; dalla revisione dei criteri di conferimento degli incarichi direttivi alla creazione dell'ufficio del giudice di Cassazione), quanto interventi strutturali (dalla riforma del sindacato sulla motivazione a quella dei motivi di ricorso; dalla riforma dell’art. 372 sulla produzione di altri documenti a quella dell’art. 360-bis, sull’inammissibilità del ricorso, a quella dell’art. 392, sulla riassunzione della causa).

 

Il Governo, in base al principio n. 3), è inoltre delegato ad adottare modelli sintetici di motivazione delle decisioni della Cassazione, eventualmente attraverso il rinvio a precedenti, laddove le questioni non richiedano una diversa estensione degli argomenti.

Il disegno di legge sembra sul punto voler esportare nel processo civile un principio già attuato nel processo amministrativo: si ricorda, infatti, che il Codice del processo amministrativo (d. lgs. n. 104 del 2010) prevede all’art. 74 le sentenze in forma semplificata, che il giudice può emettere «nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso», limitandosi nella motivazione a «un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme».

 

Infine, il criterio direttivo n. 4) delega il governo a prevedere una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all'Ufficio del massimario e del ruolo, consentendo in particolare l’applicazione dei magistrati che hanno maggiore anzianità nell’ufficio, nei collegi giudicanti della Corte di Cassazione.

 

L’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione è istituito dall’art. 68 dell’ordinamento giudiziario (R.D. n. 12 del 1941) ed è diretto da un magistrato della stessa Corte, designato dal primo presidente.

All'ufficio sono addetti magistrati di grado non inferiore a magistrato di tribunale con non meno di cinque anni di effettivo esercizio delle funzioni di merito e non superiore a consigliere di corte d'appello o parificato (art. 68).

Attualmente, a seguito della conversione del decreto-legge n. 69 del 2013, che ha ampliato di trenta unità l’organico dell’Ufficio, sono destinati all’ufficio del massimario 67 magistrati, che svolgono anche compiti di assistente di studio (art. 115 dell’ordinamento giudiziario).

In base al recente provvedimento d’urgenza, il primo presidente della Cassazione, tenuto conto delle esigenze dell'ufficio e osservati i criteri stabiliti dal CSM, anno per anno può destinare fino a 30 magistrati addetti all'ufficio del massimario e del ruolo alle sezioni della Corte con compiti di assistente di studio. La disposizione, tenendo conto del fatto che i magistrati addetti all’ufficio non possono essere magistrati di cassazione, specifica che quando tali magistrati sono assistenti di studio nelle Sezioni della Corte, possono assistere alle camere di consiglio, ma non possono prendere parte alla deliberazione né esprimere il voto sulla decisione.

In sede di prima applicazione del nuovo organico, e per 5 anni (dunque fino al 2018), il Primo Presidente della Cassazione, al fine di garantire la più celere definizione dei procedimenti pendenti, destina almeno la metà dei magistrati addetti all'ufficio del massimario e del ruolo, e non più di 40, alle sezioni civili con compiti di assistente di studio.

 

Il disegno di legge delega dunque il Governo a prevedere che alcuni magistrati dell’ufficio del massimario e del ruolo – quelli con maggiore anzianità nell’ufficio – possano essere chiamati a far parte dei collegi giudicanti della Corte di cassazione.

 

La relazione illustrativa specifica che occorre «prevedere o comunque consentire una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all'Ufficio del massimario e del ruolo, mediante la loro applicazione, per un numero limitato di udienze mensili, come consiglieri».

 

Per realizzare il principio il governo dovrà necessariamente modificare le disposizioni dell’ordinamento giudiziario che attualmente escludono che possano essere addetti all’ufficio del massimario, magistrati di cassazione.

Per svolgere, infatti, le funzioni giudicanti nelle sezioni della Cassazione, è essenziale che il magistrato abbia la qualifica di consigliere di cassazione.

 

Si ricorda che, in base all’art. 10 del decreto legislativo n. 160 del 2006[1] il consigliere di cassazione svolge funzioni giudicanti di legittimità. Per il conferimento di tali funzioni è richiesto il conseguimento almeno della quarta valutazione di professionalità (art. 12, co. 5); il 10% dei posti vacanti può essere assegnato con una procedura valutativa riservata ai magistrati che hanno conseguito la seconda o la terza valutazione di professionalità, in possesso di titoli professionali e scientifici adeguati (art. 12, co. 14). Se il conferimento delle funzioni di legittimità avviene in deroga alla quarta valutazione, l’assegnazione delle funzioni non produce alcun effetto sul trattamento giuridico ed economico spettante al magistrato, né sulla collocazione nel ruolo di anzianità o ai fini del conferimento di funzioni di merito.

 

 


La riforma dell’esecuzione forzata

La lettera d) del comma 2 detta due principi e criteri direttivi per la riforma dell’esecuzione forzata.

 

Si ricorda che l’obiettivo di semplificazione del processo esecutivo è stato perseguito in questa legislatura anche dal decreto-legge n. 132 del 2014[2] (artt. 17-20). Il decreto-legge ha introdotto modifiche a tutelato il credito, attraverso misure di contrasto nel ritardo dei pagamenti, l'iscrizione a ruolo nel processo esecutivo per espropriazione, la semplificazione del processo esecutivo, il monitoraggio delle procedure esecutive individuali e concorsuali e il deposito della nota di iscrizione a ruolo con modalità telematiche. In particolare, il decreto-legge ha inserito nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile l’articolo 164-bis con il quale stabilisce che, quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo.

 

Il disegno di legge delega il Governo a riformare la disciplina dell’esecuzione in base ai seguenti principi e criteri direttivi:

 

1) semplificare i riti collegati al processo esecutivo (con particolare riferimento alle opposizioni agli atti esecutivi), prevedendo l’applicazione, anziché del rito di cognizione ordinario, del rito sommario di cognizione.

 

Si ricorda che l’opposizione è il rimedio esperibile dal debitore o dal terzo nel caso in cui questi lamentino di aver subito la lesione di un loro diritto in conseguenza di un atto di esecuzione che ritengono ingiusto. L’opposizione, una volta proposta, dà attualmente luogo ad un ordinario processo di cognizione, che si inserisce nell’ambito del processo di esecuzione come un incidente.

Sotto il titolo “delle opposizioni”, il codice di procedura disciplina le opposizioni proponibili dall’esecutato (debitore o terzo assoggettato all’esecuzione), ovvero l’opposizione all’esecuzione (artt. 615-616) e l’opposizione agli atti esecutivi (artt. 617-618) e le opposizioni di terzi, estranei all’esecuzione ma che vantano diritti sui beni esecutati (artt. 619-622).

A prescindere dalla loro natura, le opposizioni presentano le seguenti caratteristiche comuni:

-       si fondano sulla pretesa illegittimità dell’esecuzione nella sostanza o nella forma;

-       operano solo su istanza di parte e non di ufficio;

-       danno luogo a giudizi di cognizione, che possono provocare la sospensione del processo esecutivo fino alla decisione sull’opposizione.

Autorità competente a conoscere delle opposizioni è il tribunale.

 

Per quanto riguarda il processo sommario di cognizione, si ricorda che è disciplinato dagli articoli 702-bis, 702-ter e 702-quater del codice di procedura civile, introdotti dall’art. 51 della legge n. 69 del 2009[3].

Questo procedimento – destinato a trovare applicazione per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, senza alcuna limitazione di valore o di materia - permette di arrivare ad un rapido soddisfacimento della domanda grazie all’emanazione di un provvedimento immediatamente esecutivo su cui, in mancanza di appello, si forma il giudicato.

In base all’art. 702-bis c.p.c., il procedimento si instaura mediante un ricorso, che deve contenere anche l'avvertimento al convenuto che la costituzione oltre i termini implica le decadenze di cui all'art. 167 c.p.c.

Formato il fascicolo d’ufficio e designato il giudice competente, quest’ultimo fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione delle parti ed il termine per la costituzione in giudizio del convenuto (non oltre 10 giorni prima della data dell’udienza). Il decreto deve quindi essere notificato al convenuto, insieme al ricorso, almeno 30 giorni prima del termine previsto per la sua costituzione.

Il convenuto deve costituirsi con comparsa di risposta, nella quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni. A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d'ufficio. Anche l’eventuale dichiarazione di chiamata in causa del terzo dovrà necessariamente essere contenuta nella comparsa.

Se fino a tale fase, a parte la contrazione dei termini, non vi sono sostanziali differenze rispetto al rito ordinario di cognizione, il vero snodo del nuovo rito si ha in fase di prima comparizione (art. 702-ter). Nell’udienza di comparizione delle parti, il giudice valuta preliminarmente la propria competenza e la correttezza del rito attivato. In particolare, se ritiene di essere incompetente, il giudice lo dichiara con ordinanza. Se invece rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’articolo 702-bis – e dunque tra quelle per le quali sussiste la competenza del giudice unico di tribunale, il giudice, con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile. Nello stesso modo provvede sulla domanda riconvenzionale.

Il giudice deve poi decidere se la causa consente una istruzione non sommaria, deliberando eventualmente con ordinanza non impugnabile il passaggio al rito ordinario e la fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

Se il giudice ritiene che la controversia possa essere trattata col rito sommario, dopo aver sentito le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, alla prima udienza, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande. Tale istruttoria (art. 702-ter, quinto comma) è sostanzialmente identica a quella prevista dall'art. 669-sexies, primo comma, c.p.c. per i procedimenti cautelari, con l'unica attenuazione costituita dal fatto che, mentre in fase cautelare il giudice procede esclusivamente agli atti di istruzione indispensabili, in fase sommaria di cognizione può procedere agli atti di istruzione rilevanti.

L’ordinanza è provvisoriamente esecutiva e costituisce immediatamente titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione; con essa, il giudice si pronuncia, altresì, sulle spese di lite.

Ai sensi dell’art. 702-quater, se non è appellata entro 30 giorni, l’ordinanza produce gli effetti di cosa giudicata (art. 2909 c.c.). Nell’eventuale appello, sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti solo se il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione, ovvero se la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile. Il presidente del collegio può delegare l'assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio.

 

2) estendere le misure coercitive indirette di cui all’art. 614-bis del codice di procedura civile in base al quale - per incentivare l'adempimento spontaneo di obblighi che non sono facilmente coercibili (obbligo di fare non fungibile o di un obbligo di non fare ) - il giudice, con il provvedimento di condanna, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa su istanza di parte la penale in denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Il Governo dovrà prevedere che, previa istanza della parte vittoriosa, il giudice possa fissare la penale dovuta dal soccombente per l’eventuale ritardata esecuzione dell’ordine giudiziale, a fronte di qualsiasi provvedimento di condanna e dunque non solo per gli obblighi infungibili (come attualmente previsto dall’art. 614-bis c.p.c.), ma anche per gli obblighi fungibili.

Il principio può essere posto in correlazione con la precedente disposizione volta a prevedere l’esecutività generalizzata delle sentenze di primo grado.

 

Si ricorda che l’art. 614-bis del codice di procedura civile è stato introdotto dalla legge n. 69 del 2009 art. 49, comma 1). Si tratta di un rimedio che ricalca l'istituto di origine francese dell'astreinte, ossia la previsione una sorta di penale per l'inadempimento totale o per il ritardato adempimento a fronte di una pronuncia di condanna, così come per la reiterazione di violazioni successive a fronte di un'inibitoria che abbia imposto la cessazione di un determinato comportamento. L'istituto mira evidentemente ad ottenere l'esecuzione spontanea della condanna o dell'inibitoria. Per Cass. 15 aprile 2015 n. 7613,  le astreintes previste in altri ordinamenti dirette ad attuare, con il pagamento di una somma crescente con il protrarsi dell’inadempimento, una coercizione per propiziare l’adempimento di obblighi non coercibili in forma specifica, non sono incompatibili con l’ordine pubblico italiano.

Attualmente l’art. 614-bis trova applicazione solo in relazione a provvedimenti di condanna aventi ad oggetto obbligazioni di fare infungibile o di non fare, a fronte dei quali, in difetto della possibilità pratica di procedere ad esecuzione in forma specifica, è concesso di ricorrere alla misura compulsiva che, invece, costituisce titolo esecutivo.

Il base al comma 2 dell’art. 614-bis c.p.c., il giudice determina l'ammontare della somma dovuta a titolo di penale tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.

 


La riforma dei procedimenti speciali

Per quanto riguarda i procedimenti speciali, il Governo è delegato dal comma 2, lettera e) a procedere a ulteriori semplificazioni – rispetto a quanto già realizzato nella scorsa legislatura (v. infra) - e a potenziare l’istituto dell’arbitrato.

 

In particolare, la lettera e) prevede i seguenti due principi e criteri direttivi:

 

1) potenziare l’istituto dell’arbitrato. Il Governo dovrà estendere le possibilità di trasferimento del giudizio dal processo all’arbitrato e viceversa e razionalizzare la disciplina dell’impugnazione del lodo arbitrale.

 

L’arbitrato, tra gli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione, ha da sempre un ruolo privilegiato che il legislatore ha ulteriormente potenziato negli ultimi anni giungendo a far divenire l’arbitrato un equipollente della giurisdizione sia quanto a risultato ed effetti, sia con riferimento alla struttura.

Sotto il primo profilo, l’art. 824-bis, introdotto nel 2006 (d.lgs. n. 40/2006) ha riconosciuto al lodo «dalla data della sua ultima sottoscrizione» tutti gli effetti (diversi da quelli connessi all’esecutorietà) «della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria»; quanto al secondo, già prima dell’ultima riforma, la Corte costituzionale, nel riconoscere agli arbitri rituali la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, aveva descritto l’arbitrato come «procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria», concludendo nel senso che – sotto questo punto di vista - «il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione» (Corte cost., 28 novembre 2001, n. 376).

 

Sintomatico della volontà del legislatore di potenziare l’istituto dell’arbitrato è anche il recente decreto-legge n. 132 del 2014 che, all’articolo 1, prevede il possibile trasferimento - su base volontaria - dalla sede giudiziaria a quella arbitrale di alcune tipologie di cause civili in corso.

 

La disposizione stabilisce, infatti, che nelle cause civili dinanzi al tribunale o in grado d'appello, pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale. Il trasferimento è, tuttavia, soggetto ad un limite temporale e a uno di materia essendo escluso:

      per le cause già assunte in decisione;

      per le cause che hanno ad oggetto diritti indisponibili;

      per le cause in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale purché le stesse cause non abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva e tale contratto abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale.

La stessa disposizione stabilisce quindi la continuità del procedimento giudiziale con quello arbitrale, rimanendo fermi gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale nonché quelli del lodo, che equivalgono a quelli della sentenza.

 

In particolare, il Governo è chiamato in via “eventuale” a intervenire sulla c.d. traslatio iudicii, ovvero sulla possibilità di passare dal processo all’arbitrato e viceversa; sostanzialmente tale intervento – se realizzato - comporterà il superamento della logica ispiratrice della riforma del 2006, basata sulla netta separazione dei due giudizi, e dovrà dare seguito a una recente sentenza della Corte costituzionale.

 

Si ricorda che nel 2006 il legislatore ha riformato alcuni aspetti dell’istituto dell’arbitrato – segnatamente gli artt. 817 e 819-ter c.p.c. – applicando il c.d. principio delle «vie parallele», in base al quale non è concepibile una litispendenza tra arbitrato e giudizio ordinario; è esclusa la sospensione per pregiudizialità di cui all’art. 295 c.p.c., al pari dell’ammissibilità di una “translatio iudicii” nel caso di declinatoria di competenza pronunciata dal giudice o dall’arbitro in ragione della sussistenza della potestas iudicandi dell’altro giudicante con pregiudizio talvolta irrimediabile dell’effettività della tutela.

Su quest’ultimo aspetto è intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2013, con la quale ha dichiarato l’illegittimità «dell’art. 819-ter nella parte in cui esclude nei rapporti tra arbitrato e giudizio l’applicazione di regole corrispondenti alle previsioni dell’art. 50 c.p.c.», rilevando che «[...]nell’ambito di un ordinamento che riconosce espressamente che le parti possano tutelare i propri diritti anche ricorrendo agli arbitri la cui decisione (…) ha l’efficacia propria delle sentenze dei giudici, l’errore compiuto dall’attore nell’individuare come competente il giudice piuttosto che l’arbitro non deve pregiudicare la sua possibilità di ottenere, dall’organo effettivamente competente, una decisione sul merito della lite». La Corte argomenta affermando che se «il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia, struttura l’ordinamento processuale in maniera tale da configurare l’arbitrato come una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse». Tra tali misure va annoverata «quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetenti, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro».

 

Si osserva che il principio di delega risulta formulato in modo generico («potenziamento dell'istituto dell'arbitrato») e pare affievolito dal carattere meramente eventuale della riforma della traslatio iudicii («anche attraverso l'eventuale estensione del meccanismo della translatio iudicii ai rapporti tra processo e arbitrato»).

 

Per quanto riguarda invece l’impugnazione del lodo arbitrale, il Governo è chiamato a razionalizzarne la disciplina.

 

L’attuale regime delle impugnazioni del lodo arbitrale è frutto della riforma del 2006, che si proponeva, anch’essa, l’espresso obiettivo di razionalizzare la disciplina previgente.

Ai sensi dell’art. 827 c.p.c., il lodo, che decide anche solo parzialmente il merito della controversia e indipendentemente dal suo deposito, è suscettibile di impugnazione per nullità, revocazione e opposizione di terzo; mentre il lodo che risolve alcune delle questioni insorte, senza però definire il giudizio, è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo.

I tre rimedi avverso il lodo rituale, gli unici ammessi per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, sono esperibili davanti alla corte d’appello nel cui distretto l’arbitrato ha sede, alla quale è peraltro espressamente attribuita la facoltà di riunire tutte le impugnazioni promosse contro un unico lodo, qualora lo stato della causa proposta per prima consenta l’esauriente trattazione e decisione delle altre.

Il termine per proporre l’impugnativa, che di per sé non sospende l’efficacia del lodo, è di 90 giorni dalla notifica dello stesso ovvero un anno dalla data della sua ultima sottoscrizione.

L’atto di citazione deve contenere la deduzione di alcuno dei motivi di nullità tassativamente individuati dall’art. 829 c.p.c., con onere quindi per l’impugnante di specificare i canoni in concreto violati, nonché il punto ed il modo in cui l’arbitro si sia da essi discostato, non essendo sufficiente una semplice critica libera alla decisione sfavorevole (cfr. Corte di cassazione, sent. 8 aprile 2011, n. 8049). I motivi di impugnativa sono da ricondursi tanto a vizi di attività quanto a vizi di giudizio, salvo sia stato demandato agli arbitri di decidere secondo equità. Gli errores in procedendo non possono comunque essere rilevati d’ufficio, eccezion fatta per il caso d’invalidità della convenzione arbitrale.

Dall’art. 830 c.p.c. si evince che il giudizio di impugnazione per nullità del lodo si compone di una duplice fase, rescindente e rescissoria. Al termine della prima, la corte d’appello, se accoglie il motivo, dichiara con sentenza la nullità del lodo; con l’aprirsi della seconda, invece, il giudice collegiale ordinario decide la controversia nel merito, purché il lodo non sia stato annullato per invalidità della convenzione arbitrale, per violazione delle norme prescritte in tema di nomina degli arbitri o per vizio di ultrapetizione. Dunque, se il lodo non è stato dichiarato nullo per vizi attinenti alla potestas judicandi degli arbitri, il riesame del merito, inammissibile come autonomo motivo di impugnazione, per non essere il giudizio di nullità un mezzo di gravame in senso proprio, diviene possibile in seconda battuta, sempreché ciò non sia impedito dallo stesso patto compromissorio o da accordi successivi, con eventuale riapertura della fase istruttoria, ferma in ogni caso l’inammissibilità di domande nuove.

In ogni caso la sentenza della corte d’appello potrà essere soggetta a ricorso per cassazione per vizi propri, in quanto non sufficientemente motivata rispetto ai motivi di nullità del lodo. Il testo normativo precisa inoltre che in tutte le ipotesi in cui, per legge o volontà delle parti, al giudice ordinario è preclusa la decisione del merito in fase rescissoria, si applica la convenzione arbitrale, salvo che la nullità del lodo dipenda dalla sua invalidità o inefficacia. E ogniqualvolta la corte d’appello non decida nel merito, alla fase rescindente farà seguito l’instaurazione di un nuovo giudizio, in relazione al quale le parti, se non concordano unanimemente di risolvere la convenzione d’arbitrato con riviviscenza della competenza del giudice ordinario, rimaste obbligate dal patto compromissorio, saranno chiamate alla ricostituzione del collegio arbitrale necessariamente diverso dal precedente in quanto giudicante «in secondo grado». Quest’ultimo sarà poi libero nel pronunciare un nuovo lodo, senza vincoli scaturenti dalla statuizione annullatoria del giudice. Anche il decisum arbitrale emanato a seguito di annullamento del lodo da parte della corte d’appello può essere oggetto di impugnazione ai sensi dell’art. 827 c.p.c.

L’art. 831 c.p.c. contempla infine l’impugnazione del lodo per revocazione e opposizione di terzo, quali rimedi straordinari avverso il lodo passato in giudicato, non più impugnabile per nullità.

 

Si rileva che, anche in questo caso, dovrebbe essere specificata nella delega almeno la direzione o l’obiettivo da perseguire nell’opera di razionalizzazione delle impugnazioni del lodo; a tal fine non sopperisce neppure la relazione illustrativa.

 

2) ridurre e semplificare i riti speciali, anche mediante omogeneizzazione dei termini e degli atti introduttivi nonché dei modelli di scambio degli scritti difensivi.

Il principio di delega fa riferimento correttamente ad una ulteriore semplificazione dei riti speciali: si ricorda, infatti, che nella scorsa legislatura il decreto legislativo n. 150 del 2011 ha operato una riduzione e semplificazione dei numerosi procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria, riconducendoli ad uno dei tre modelli base previsti dal codice processuale civile: rito ordinario, rito sommario, rito del lavoro.

Il Governo dovrà procedere con la semplificazione, omogeneizzando tre profili della procedura:

-       contenuto degli atti introduttivi;

-       termini processuali;

-       modelli di scambio degli scritti difensivi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


La riforma delle questioni di giurisdizione

La lettera f) del comma 2 delega il Governo a riformare la disciplina della eccepibilità e rilevabilità della questione di giurisdizione, introducendo limitazioni temporali e, più in generale, con obiettivi di maggior rigore.

 

Si ricorda che la giurisdizione costituisce un presupposto processuale, la cui mancanza impedisce al giudice di decidere il merito della lite, dovendo egli chiudere il processo in rito per la presenza del vizio di carenza del potere giurisdizionale.

In particolare, si ha difetto relativo di giurisdizione in materia civile quando essa spetta a un giudice speciale, quale il TAR o la Corte dei conti. Si ha invece difetto di giurisdizione assoluto quando la materia oggetto della lite appartiene alle funzioni esclusive della pubblica amministrazione; infine, la giurisdizione del giudice ordinario e di tutti i giudici italiani viene a mancare quando il convenuto non è residente o domiciliato in Italia, salve alcune eccezioni.

Il codice di procedura civile disciplina il regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c.), come istituto che può essere attivato dalle parti processuali finché la causa non è decisa nel merito in primo grado, investendo della questione di giurisdizione le Sezioni unite della Cassazione. Ma se non si percorre questa strada, l’art. 37 c.p.c. stabilisce che il difetto di giurisdizione è rilevabile su istanza di parte o d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, quando si pone nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali. Lo stesso art. 360, n. 1, c.p.c. stabilisce che anche la sentenza pronunciata in grado d’appello può essere impugnata in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione (cfr. art. 360, n. 1, c.p.c.), consentendo dunque a questo visio, pur accertato dopo alcuni anni dall’instaurazione della causa, di travolgere il processo già svolto.

 

La relazione illustrativa specifica che l’obiettivo della riforma è l'introduzione «di un meccanismo che acceleri la definizione delle questioni di giurisdizione impedendo quando oggi accade non di rado, e cioè che la questione di giurisdizione venga decisa con una declinatoria a distanza di anni dall'introduzione della causa. A tutt'oggi, le sezioni unite della Corte di cassazione ritengono che la parte che sceglie il giudice di primo grado possa, in caso di esito della lite ad essa sfavorevole, contestare la giurisdizione del giudice prescelto mediante appello, a cui indefettibilmente segue il ricorso per cassazione: il tutto con spreco di tempi processuali da due a quattro anni nella migliore delle ipotesi».

 

Si ricorda che anche sul tema della questione di giurisdizione è intervenuta la riforma del 2009 che - pur non modificando direttamente il testo dell'art. 37 c.p.c. - pone una dettagliata disciplina dell'efficacia della pronuncia con la quale il giudice dichiara la propria mancanza di giurisdizione, la quale integra le disposizioni del codice di rito.

In particolare, infatti, l'art. 59 della legge n. 69 del 2009 disciplina il difetto di giurisdizione del giudice ordinario rispetto ai giudici speciali stabilendo che il giudice che si dichiara sprovvisto di giurisdizione, è tenuto ad indicare, anche implicitamente, il giudice che ritiene munito della stessa, salvo naturalmente il caso di difetto assoluto o di difetto del giudice nazionale. La pronuncia che dichiara il difetto di giurisdizione può essere impugnata con l'appello e successivamente in Cassazione.

Se entro 3 mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia che declina la giurisdizione di un giudice e ne indica un altro, la domanda è riproposta dinanzi al giudice indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Le prove raccolte davanti al giudice sfornito di giurisdizione hanno valore di argomenti di prova. La violazione del termine trimestrale comporta l’estinzione del processo

Il giudice indicato come titolare della giurisdizione può sempre – ove della questione non sia stata investita la Suprema Corte - sollevare d'ufficio, con ordinanza, entro la prima udienza fissata per la trattazione del merito, la questione di giurisdizione davanti alle Sezioni unite della Corte di cassazione.

La pronuncia sulla giurisdizione resa dalla Cassazione ha efficacia panprocessuale ed è dunque vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo.

 

 


 

L’introduzione del principio di sinteticità degli atti

La lettera g) del comma 2 delega il Governo a introdurre nel codice di procedura civile il principio di sinteticità, da applicare tanto agli atti di parte, quanto agli atti del giudice.

La disposizione aggiunge – peraltro con una formulazione non del tutto chiara – che il principio dovrà attuarsi «anche nell’ambito della tecnica di redazione e della misura quantitativa degli atti stessi».

Presumibilmente, l’intento del legislatore è quello di applicare anche al processo civile il principio recentemente affermato nel processo amministrativo, con la previsione di limiti dimensionali agli atti di parte e con ripercussioni sul regime delle spese processuali.

 

L’art. 3 del Codice del processo amministrativo (decreto legislativo n. 104 del 2010), infatti, stabilisce al comma 2 che «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica»; l’art. 26 dello stesso Codice, aggiunge che quando provvede sulle spese del giudizio, il giudice deve tenere conto anche del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2.

Inoltre, per quanto riguarda il rito abbreviato (disciplinato dall’art. 119 del Codice), il legislatore prescrive alle parti «Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2», di contenere «le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto, nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello». Questa specifica disposizione, ancora inattuata, è stata inserita nel Codice del processo amministrativo dal recente decreto-legge n. 90 del 2014[4].

 

La relazione illustrativa collega l’applicazione di questo principio alle esigenze del processo civile telematico, in quanto «la gestione informatica degli atti impone una riconsiderazione della loro lunghezza, del contenuto e della tecnica di redazione».

 

 

 

 


L’adeguamento delle norme processuali al processo civile telematico

Infine, la lettera h) del comma 2 delega il Governo ad adeguare le norme processuali all’introduzione del processo civile telematico.

Presumibilmente ciò dovrà comportare una revisione della disciplina della notificazione degli atti, della costituzione in giudizio e del deposito degli atti di parte.

 

Si ricorda che il processo di digitalizzazione del processo civile è in corso dall’anno 2001[5] ed ha avuto un’accelerata nel corso della XVI legislatura, con il decreto-legge n. 193/2009.

In particolare, l'art. 4 del provvedimento ha disposto che nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano mediante posta elettronica certificata (PEC), ai sensi del Codice dell'amministrazione digitale – (d.lgs. 82/2005) e del regolamento sull'utilizzo della posta elettronica certificata (DPR n. 68/2005). Per la prima volta, dunque, la disciplina del processo telematico è stata estesa anche al settore penale. Il provvedimento ha inoltre stabilito che negli uffici giudiziari indicati nei singoli decreti ministeriali attuativi, le seguenti notificazioni e comunicazioni devono essere effettuate per via telematica ad un indirizzo di posta elettronica certificata:

-       nel processo civile: le notificazioni e comunicazioni, dopo la costituzione in giudizio, al procuratore costituito (art. 170, comma 1, c.p.c.); la notificazione dell'ordinanza di nomina, con invito a comparire all'udienza fissata (art. 192, comma 1, c.p.c.), e ogni ulteriore comunicazione, al consulente tecnico;

-       nel processo penale: le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli artt. 148, comma 2-bis (notifiche ai difensori), 149 (notificazioni urgenti), 150 (forme particolare di notificazione) e 151 (notificazioni richieste dal pubblico ministero) del codice di procedura penale;

-       nelle procedure concorsuali: tutte le notificazioni e comunicazioni previste dalla legge fallimentare (RD n. 267/1942).

Il decreto-legge 138 del 2011 ha previsto poi che, nel processo civile, in ogni citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto, il difensore debba indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax e che con le indicate modalità debbono essere effettuate tutte le comunicazioni alle parti.

La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) è tornata a novellare numerose disposizioni del codice di procedura civile e delle disposizioni di attuazione, per dare piena operatività all'utilizzo della posta elettronica certificata.

In particolare, la legge (art. 25) ha previsto:

-       che l'indirizzo PEC che il difensore deve indicare negli atti di parte (citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto) deve essere quello comunicato al proprio ordine professionale (art. 125 c.p.c.);

-       una nuova disciplina delle comunicazioni di cancelleria. In base alla nuova norma, le comunicazioni di cancelleria si effettuano in via ordinaria tramite consegna al destinatario, che rilascia ricevuta, o tramite PEC, nel rispetto della normativa sui documenti informatici, anche regolamentare, vigente. Se non è possibile procedere con questi mezzi, la comunicazione avviene tramite telefax o tramite notifica dell'ufficiale giudiziario, salva diversa disposizione di legge (art. 136 c.p.c.);

-       la soppressione delle disposizioni che prevedono la comunicazione alle parti da parte della cancelleria delle sentenze e delle ordinanze tramite telefax o posta elettronica. Le comunicazioni delle sentenze e delle ordinanze rientrano così nella nuova disciplina generale.

Si segnala, poi, il decreto-legge n. 179 del 2012 che ha disposto come nei procedimenti civili tutte le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria debbano essere effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di PEC risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procederà, nel processo penale, per le notificazioni a persona diversa dall'imputato.

Per favorire le comunicazioni e notificazioni per via telematica alle pubbliche amministrazioni, queste debbono comunicare al Ministero della giustizia l'indirizzo di PEC presso cui ricevere le comunicazioni e le notificazioni. L'elenco formato dal Ministero della giustizia con gli indirizzi dei posta elettronica certificata delle amministrazioni pubbliche è consultabile solo dagli uffici giudiziari e dagli UNEP (uffici notificazioni, esecuzioni e protesti) del Ministero della giustizia.

Lo stesso provvedimento ha modificato inoltre in molteplici punti la legge fallimentare e le disposizioni sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese, per estendere l'uso della posta elettronica certificata (PEC) nelle diverse fasi delle procedure concorsuali.

Da ultimo, nella scorsa legislatura, la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) ha stabilito che:

-       nei procedimenti penali davanti a tribunali e corti d'appello, le cancellerie devono usare esclusivamente il mezzo telematico per le comunicazioni e le notificazioni a persona diversa dall'imputato, decorre dal 15 dicembre 2014;

-       per gli uffici giudiziari diversi da tribunali e corti d'appello, che tale obbligo decorre dal 15° giorno successivo a quello della pubblicazione nella dei decreti con cui il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione degli uffici stessi;

-       l'elenco formato dal Ministero della giustizia con gli indirizzi di posta elettronica certificata (PEC) delle pubbliche amministrazioni a cui ricevere le comunicazioni e notificazioni è consultabile anche dagli avvocati;

-       con decorrenza dal 30 giugno 2014, è obbligatorio il deposito per via telematica degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione. La decorrenza dell'obbligo può essere anticipata nei tribunali in cui il ministro della giustizia accerti la funzionalità dei servizi telematici;

-       nei procedimenti d'ingiunzione davanti al tribunale che a decorrere dal 30 giugno 2014, il deposito dei provvedimenti, degli atti di parte e dei documenti ha luogo esclusivamente con modalità telematiche (il deposito con modalità diverse può essere autorizzato dal tribunale solo se non siano funzionanti i sistemi informatici del dominio giustizia o in caso di estrema urgenza).

Nell'attuale legislatura il Parlamento è ulteriormente intervenuto sulla c.d. digitalizzazione della giustizia con la conversione del decreto-legge n. 90 del 2014.

In particolare, il decreto:

-       quanto al processo amministrativo, stabilisce un termine certo (60 giorni) per l'adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con cui sono stabilite le regole tecnico-operative per la sperimentazione, la graduale applicazione, l'aggiornamento del processo amministrativo telematico e dispone che dal 1° gennaio 2015 tutti gli atti del processo dovranno essere sottoscritti con firma digitale;

-       prevede che si applichino anche nel processo amministrativo le disposizioni relative alle comunicazioni e notificazioni per via telematica, a cura della cancelleria, quando relative ai soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata o alle pubbliche amministrazioni; queste ultime hanno tempo fino al 30 novembre comunicare al Ministero della giustizia il proprio indirizzo di posta elettronica certificata al fine di poter ricevere le comunicazioni e notificazioni per via telematica;

-       quanto al processo contabile, consente l'utilizzo di modalità telematiche anche nei giudizi contabili dinanzi alla Corte dei Conti;

-       quanto al processo tributario, consente l'utilizzo della posta elettronica certificata (PEC) anche alla parte processuale che non si avvale di un avvocato;

-       quanto al processo civile, precisa che l'obbligo del deposito telematico previsto a decorrere dal 30 giugno 2014 interessa esclusivamente i procedimenti iniziati davanti al tribunale ordinario dal 30 giugno 2014; per i procedimenti iniziati prima del 30 giugno 2014, l'obbligo del deposito telematico decorre dal 31 dicembre 2014.

Il decreto-legge fissa al 30 giugno 2015 la data alla quale scatterà l'obbligo del deposito telematico degli atti processuali per i procedimenti civili davanti alla corte d'appello.

Ulteriori disposizioni, relative alla comunicazione della sentenza e alle comunicazioni telematiche, sono dettate dal decreto-legge a seguito della conversione; in particolare, nel processo esecutivo, il decreto-legge interviene in tema di espropriazione mobiliare presso il debitore prevedendo che le vendite di cose mobili pignorate, disposte a decorrere da un mese dall'entrata in vigore della legge di conversione, debbano essere interamente effettuate con modalità telematiche con alcune eccezioni.

 

Si ricorda, infine, che il decreto-legge 132/2014 ha fissato al 31 marzo 2015 il termine a decorrere dal quale nei procedimenti di espropriazione forzata il deposito della nota di iscrizione a ruolo avrà luogo esclusivamente con modalità telematiche.

 

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[1]     Nuova disciplina dell'accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera a), della L. 25 luglio 2005, n. 150.

[2]     D.L. 12 settembre 2014, n. 132, Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile, convertito in legge, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1, della legge 10 novembre 2014, n. 162 .

[3]     Legge 18 giugno 2009, n. 69, Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile.

[4]     D.L. 24 giugno 2014, n. 90, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari.

[5]     D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123, Regolamento recante disciplina sull'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.