Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V - Rassegna di giurisprudenza costituzionale - Ddl Cost. AC 2613 e abb.
Riferimenti:
AC N. 2613/XVII     
Serie: Progetti di legge    Numero: 216    Progressivo: 3
Data: 29/10/2014
Descrittori:
COMPETENZA   COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA
LEGGI   PARLAMENTO
RAPPORTI TRA STATO E REGIONI     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni

 

Camera dei deputati

XVII LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Ddl Cost. A.C. 2613 e abb.

Il riparto delle competenze legislative
nel Titolo V

Rassegna della giurisprudenza costituzionale

 

 

 

 

n. 216/3

 

 

29 ottobre 2014

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Istituzioni

( 066760-3855/066760-9475– * st_istituzioni@camera.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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File: ac0500c.doc

 


INDICE

Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V

L’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma del 2001  3

La giurisprudenza costituzionale: principali profili problematici 8

§  Le materie trasversali 8

§  La “concorrenza di competenze” ed il principio di leale collaborazione  11

§  La “attrazione in sussidiarietà”  13

§  La competenza concorrente: principi fondamentali o norme di dettaglio? 14

§  L’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione e la grave crisi economico-sociale  16

§  Dati statistici 18

Rassegna della giurisprudenza costituzionale sulle singole materie  25

§  Istruzione  27

§  Previdenza complementare e integrativa  37

§  Enti locali 39

§  Ambiente ed ecosistema  47

§  Beni culturali 55

§  Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni 59

§  Commercio con l’estero  62

§  Tutela e sicurezza del lavoro  66

§  Professioni 70

§  Ricerca scientifica e tecnologica  73

§  Sostegno all’innovazione per i settori produttivi 77

§  Salute  80

§  Alimentazione  89

§  Ordinamento sportivo  92

§  Protezione civile  96

§  Governo del territorio  101

§  Infrastrutture e trasporti 108

§  Ordinamento della comunicazione  119

§  Energia  123

§  Coordinamento della finanza pubblica  129

§  Coordinamento del sistema tributario  144

§  Attività culturali 150

§  Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale  154

§  Turismo  156

§  Servizi sociali 161

Rassegna della giurisprudenza costituzionale sulle nuove materie espressamente previste nel nuovo art. 117  167

§  Mercati assicurativi 168

§  Procedimento amministrativo  169

§  Disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche  174

§  Istruzione universitaria  181

§  Rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche  184

 

 


Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V

 


L’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma del 2001

La legge di revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001, ha profondamente rivisto il complessivo sistema dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali.

Al modello della Costituzione del 1948, in base al quale lo Stato aveva competenza legislativa in tutte le materie, fatta eccezione per alcune, espressamente elencate, in cui la potestà legislativa era riconosciuta alle regioni, previa comunque definizione dei principi fondamentali da parte della legislazione dello Stato, si è sostituito un nuovo modello che introduce (art. 114 Cost.) il principio innovativo secondo il quale Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono considerati paritariamente quali enti costitutivi dell'ordinamento repubblicano.

Il vigente art. 117 Cost., inoltre, delinea una nuova ripartizione della funzione legislativa tra Stato e regioni.

Lo strumento per delimitare le sfere di attribuzione legislativa è rappresentato dalla elencazione delle materie individuate nei commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 117, in base alle quali si possono distinguere tre tipologie di competenza.

Vi è un primo elenco di materie la cui disciplina è demandata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Si tratta delle materie elencate nell'art. 117, secondo comma, nelle quali solo lo Stato può adottare delle leggi. Alle regioni, non è conseguentemente riconosciuto il potere di legiferare in tali materie.

 

Tali materie sono:

a)   politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;

b)   immigrazione;

c)    rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;

d)   difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;

e)    moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;

f)    organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;

g)   ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;

h)   ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;

i)    cittadinanza, stato civile e anagrafi;

l)    giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;

m)  determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;

n)   norme generali sull'istruzione;

o)   previdenza sociale;

p)   legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;

q)   dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;

r)   pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;

s)    tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.

 

In un secondo elenco di materie, la potestà legislativa è ripartita tra Stato e Regioni, per cui si parla di legislazione concorrente. In particolare, “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117, terzo comma).

 

Si tratta delle seguenti materie: “rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale".

 

Nella XVI legislatura è stata approvata la legge costituzionale n. 1/2012, che novella gli articoli 81, 97, 117 e 119 Cost., ed, in particolare, introduce il principio dell’equilibrio tra entrate e spese del bilancio, cd. “pareggio di bilancio”, correlandolo a un vincolo di sostenibilità del debito di tutte le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle regole in materia economico-finanziaria derivanti dall’ordinamento europeo.

 

Per quanto concerne la disciplina di bilancio degli enti territoriali, la legge costituzionale apporta talune modifiche l'articolo 119 della Costituzione, al fine di specificare che l'autonomia finanziaria degli enti territoriali (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), è assicurata nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci; è inoltre costituzionalizzato il principio del concorso di tali enti all’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

Con una modifica al sesto comma dell’articolo 119 viene altresì precisato che il ricorso all'indebitamento - che la vigente disciplina costituzionale consente esclusivamente per finanziare spese d’investimento - è subordinato alla contestuale definizione di piani di ammortamento e alla condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio.

La legge costituzionale novella, inoltre, l’articolo 117 della Costituzione, inserendo la materia dell'armonizzazione dei bilanci pubblici nel novero delle materie sulle quali lo Stato ha una competenza legislativa esclusiva.

Le nuove disposizioni costituzionali hanno trovato applicazione a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.

 

Infine, l'articolo 117, quarto comma, prevede che la potestà legislativa su ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato spetta alle Regioni. Al riguardo, si parla di competenza generale ‘residuale’.

 

Il sistema di riparto delle competenze normative è completato dal principio di attribuzione della potestà regolamentare, che vede una riduzione della competenza statale, ampliandosi quella delle Regioni e degli enti locali: allo Stato spetta emanare i regolamenti nelle materie riservate alla sua competenza esclusiva, salva la possibilità di delega alle Regioni, mentre alle Regioni è attribuita la potestà regolamentare in ogni altra materia (e quindi anche in quelle di competenza concorrente). I comuni, le province, le città metropolitane hanno potestà regolamentare per la disciplina riguardante l’organizzazione e il funzionamento delle competenze loro attribuite (art. 117, sesto comma).

 

Ferme restando le particolari forme di autonomia delle Regioni a statuto speciale, la riforma del 2001 (art. 116, terzo comma, Cost.) ha previsto la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario, con legge dello Stato, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia relative a tutte le materie che il nuovo art. 117 attribuisce alla competenza concorrente di Stato e regioni e ad alcune tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali).

Si tratta di quello che è stato definito “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre.

Per procedere all'attribuzione di queste forme rafforzate di autonomia è necessaria una legge statale, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali. La legge deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti e deve recare un contenuto definito d'intesa con la Regione medesima.

La nuova previsione costituzionale non ha però avuto attuazione.

 

L’attuazione nelle procedure parlamentari

Sul piano della procedura parlamentare, le due Camere hanno affrontato l’esigenza di dare immediata attuazione al nuovo disposto costituzionale, verificando in itinere la conformità di tutti i progetti di legge al proprio esame al nuovo riparto di competenze delineato dalla Costituzione dopo la riforma del 2001. La Giunta per il regolamento della Camera ha affidato tale compito alla Commissione affari costituzionali, nell’esercizio della sua funzione consultiva, ed ha esteso, in via sperimentale, tale controllo anche agli emendamenti presentati in Assemblea (parere della Giunta del 16 ottobre 2001); analogo orientamento ha assunto la Giunta per il regolamento del Senato.

Non ha invece trovato attuazione – malgrado l’attività istruttoria svolta in tale direzione su iniziativa delle Giunte per il Regolamento delle due Camere – l’art. 11 della legge costituzionale di riforma, che avrebbe consentito l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie regionali e locali e l’attribuzione a tale Commissione del potere di incidere significativamente, con i propri pareri, sull’iter di approvazione delle leggi statali riguardanti le materie di competenza legislativa concorrente e l'autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali.

 

L’art. 11 della legge cost. n. 3/2001 prevede che sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione (riguardanti il Parlamento) i regolamenti della Camera e del Senato possono prevedere la partecipazione alla Commissione parlamentare per le questioni regionali di rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali.

Secondo l’art. 11 della legge di revisione, nel caso in cui i regolamenti parlamentari disciplinino la composizione integrata della Commissione, la stessa esprimerà pareri, aventi particolari effetti procedurali, sui progetti di legge nelle materie di cui al terzo comma dell'art. 117 (quelle di legislazione concorrente) e all’art. 119 (in materia di autonomia finanziaria di regioni, province e comuni). Infatti, per discostarsi dal parere della Commissione bicamerale integrata su tali progetti di legge l'Assemblea dovrà deliberare a maggioranza assoluta dei componenti.

 


La giurisprudenza costituzionale: principali profili problematici

Fin dall’approvazione nel 2001 della riforma del titolo V della parte II della Costituzione, il problema principale posto dalla nuova ripartizione di attribuzioni legislative tra Stato e regioni è stato quello di una chiara individuazione del contenuto delle materie, al fine di determinare una netta linea di demarcazione tra competenza statale e competenza regionale.

Le materie trasversali

Un primo elemento di difficoltà consiste nel fatto che, tra le materie attribuite alla competenza esclusiva statale, ve ne sono alcune di carattere trasversale, che fanno riferimento non ad oggetti precisi, ma a finalità che devono essere perseguite e che pertanto si intrecciano con una pluralità di altri interessi, incidendo in tal modo su ambiti di competenza concorrente o residuale delle regioni (ex multis: sentenze n. 171 del 2012, n. 235 del 2011, n. 225/2009, n. 12 del 2009, n. 345/2004, n. 272/2004). Con riferimento a tali materie, sono stati coniati in dottrina ed utilizzati anche dalla giurisprudenza costituzionale i termini di “materie-funzioni” (cfr. sentenza n. 272 del 2004) o “materie-compito” (cfr. sentenza n. 336 del 2005) o finanche “materie non materie” (cfr. il “ritenuto in fatto” della sentenza n. 228 del 2004).

 

Le principali materie trasversali sono state individuate in:

-         tutela della concorrenza, materia della quale la giurisprudenza costituzionale ha costantemente sottolineato – stante il carattere «finalistico» della stessa – la «trasversalità», “corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento”, con conseguente possibilità di influire su altre materie attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni (sentenze n. 38/2013, 299 del 2012; n. 18 del 2012; n. 150 del 2011; n. 288 del 2010; n. 431, n. 430, n. 401, n. 67 del 2007 e n. 80 del 2006, n. 345 del 2004). Infatti, la materia tutela della concorrenza non ha solo un ambito oggettivamente individuabile che attiene alle misure legislative di tutela in senso proprio ma, dato il suo carattere «finalistico», anche una portata più generale e trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve essere valutata in concreto al momento dell'esercizio della potestà legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro rispettiva competenza (sentenza n. 291/2012). Ad essa è inoltre sotteso "l'intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese" (sentenza n. 14/2004). L’esercizio della competenza esclusiva e trasversale della «tutela della concorrenza» può dunque intersecare qualsivoglia titolo di potestà regionale, seppur nei limiti necessari ad assicurare gli interessi cui essa è preposta, secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità (sentenza n. 41/2013; nello stesso senso, sentenze n. 325 del 2010, n. 452 del 2007, n. 80 e n. 29 del 2006, n. 222 del 2005);

-     tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, con riferimento alla quale la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che “non si può discutere di materia in senso tecnico, perché la tutela ambientale è da intendere come valore costituzionalmente protetto, che in quanto tale delinea una sorta di «materia trasversale», in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, fermo restando che allo Stato spettano le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale” (ex multis: sentenze n. 278/2012, n. 171/2012, n. 20/2012, n. 235/2011, n. 191/2011, n. 225/2009, n. 12/2009, n. 378/2007). Secondo la Corte, dunque, la disciplina unitaria e complessiva dell’ambiente e dell’ecosistema inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto e deve garantire un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore. Sotto questo profilo, dunque, la competenza derivante da altre materie attribuite alla Regione diventa necessariamente recessiva, non potendo in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato (sentenze n. 9/2013, n. 278/2012 e n. 378/2007);

-     determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, anch’essa ritenuta non una materia in senso stretto, ma “una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle” (ex multis, sentenze n. 164/2012 e n. 282/2004).

 

Uguale carattere “espansivo” deve essere riconosciuto anche ad altre materie di competenza esclusiva statale, quali l’ordinamento penale (sentenza n. 185/2004), l’ordinamento civile (sentenze n. 233/2006, n. 380/2004 e n. 274/2003), politica estera e rapporti internazionali dello Stato e rapporti dello Stato con l’Unione europea (sentenza n. 239/2004).

 

Del resto anche alcune delle materie di competenza concorrente presentano un carattere trasversale, che consente alla legislazione statale di incidere, sia pure solo con norme di principio, su materie rimesse alla legislazione residuale delle regioni.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, una disposizione statale di principio, adottata in materia di legislazione concorrente “può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale e determinare una – sia pure parziale – compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative e amministrative delle Regioni” (ex plurimis, sentenze n. 44/2014, n. 237/2009, n. 159/2008, n. 181/2006 e n. 417/2005).

Viene in primo luogo in questione la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, alla base dei ripetuti interventi statali volti al contenimento delle spese degli enti territoriali, che si sono fatti più incisivi negli ultimi anni anche in considerazione della situazione di crisi economico-finanziaria. Al riguardo la Corte ha ritenuto che costituiscono principi fondamentali della materia le norme che “si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi” (sentenza n. 193/2012; nello stesso senso, sentenze n. 44/2014, 148/2012, n. 232/2011 e n. 326/2010, n. 159/2008, n. 95/2007, n. 449/2005, n. 390/2004). Alcune sentenze hanno peraltro ricondotto nell'ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica “norme puntuali adottate dal legislatore per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario, che per sua natura eccede le possibilità d'intervento dei livelli territoriali sub-statali” (sentenze n. 44/2014 e n. 417/2005).

Ma vi sono diverse ulteriori materie ascritte alla competenza concorrente che si prestano ad incidere sugli ambiti propri di altre materie riservate alle regioni, fra le quali la tutela della salute, le professioni (sentenze n. 222/2008 e n. 355/2005) e la ricerca scientifica (sentenza n. 133/2006).

La “concorrenza di competenze” ed il principio di leale collaborazione

La complessità dei fenomeni sociali oggetto di disciplina legislativa rende inoltre molto spesso difficile la riconduzione sic et simpliciter di una normativa ad un'unica materia, determinandosi invece un intreccio tra diverse materie e diversi livelli di competenza che la Corte stessa non ha esitato a definire "inestricabile".

Come rilevato nella fondamentale sentenza n. 50 del 2005, in caso di interferenze tra norme rientranti in materie di competenza statale ed altre di competenza concorrente o residuale regionale, “può parlarsi di concorrenza di competenze e non di competenza ripartita o concorrente. Per la composizione di siffatte interferenze la Costituzione non prevede espressamente un criterio ed è quindi necessaria l'adozione di principi diversi”. I principi enucleati dalla Corte sono il principio di prevalenza, che può applicarsi “qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre” (nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 44 del 2014, n. 118 del 2013, n. 334 del 2010, n. 237 del 2009), ed il principio di leale collaborazione, “che per la sua elasticità consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni” ed impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni, a salvaguardia delle loro competenze (nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 44/2014, n. 234/2012, n. 187/2012, n. 88/2009, n. 50/2008, n. 213/2006, n. 133/2006, n. 231/2005, n. 219/2005).

Numerosissimi sono i casi in cui è emersa la necessità di attivare procedimenti destinati ad integrare il parametro della leale collaborazione, in particolare attraverso il sistema delle Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali, all'interno del quale "si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse locali" (sentenza n. 31/2006, nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 114/2009).

Secondo la Corte, “il principio di leale collaborazione deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni: la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. La genericità di questo parametro, se utile per i motivi sopra esposti, richiede tuttavia continue precisazioni e concretizzazioni. Queste possono essere di natura legislativa, amministrativa o giurisdizionale” (sentenza n. 31/2006).

Il principio di leale collaborazione, cui la Corte ha fatto ampio ricorso anche nei casi di cd. “attrazione in sussidiarietà” (v. immediatamente infra), è divenuto così un princìpio-cardine e costituisce una fondamentale chiave di lettura per delineare il quadro delle attribuzioni nei frequenti casi di intersezione e sovrapposizione tra competenze statali e competenze regionali.

Il principio di leale collaborazione è “suscettibile di essere organizzato in modi diversi, per forme e intensità” (sentenza n. 308/2003), a seconda del quantum di incidenza sulle competenze regionali.

Una nutrita giurisprudenza costituzionale ha spesso richiesto per l’adozione di una disciplina, segnatamente di carattere regolamentare, in ambiti normativi di pertinenza regionale, la previa intesa in sede di Conferenza unificata o di Conferenza Stato-regioni, al fine di garantire un contemperamento tra potestà statali e prerogative regionali; l'intesa è stata talora costruita come intesa “forte”, con un livello di codecisione paritaria tra Stato e regioni (sentenza n. 383 del 2005). La previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una “drastica previsione” della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, ma che siano necessarie “idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze” (ex plurimis, sentenze n. 39/2013, n. 179/2012, n. 121/2010, n. 24/2007, n. 339/2005).

In altri casi di minore impatto sulle competenze regionali, la Corte ha invece ritenuto sufficiente l’acquisizione di un parere della Conferenza (sentenze n. 232/2009 e n. 200/2009). In particolare, “nelle materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio” (sentenze n. 62/2013, n. 265 /2011, n. 254/2010, n. 182/2006, n. 336/2005 e n. 285/2005).

La “attrazione in sussidiarietà”

Un altro principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale che determina un'attribuzione di competenze diversa da quella desumibile dal tenore letterale dell'art. 117 Cost. è quello della c.d. attrazione in sussidiarietà, enunciato per la prima volta nella sentenza n. 303 del 2003.

A partire da tale sentenza, la Corte ha individuato, nel nuovo sistema delineato dalla riforma del 2001, un “elemento di flessibilitànell'art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida la stessa distribuzione delle competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l'esercizio unitario, sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Dall’ “attitudine ascensionale” del principio di sussidiarietà discende che, quando listanza di esercizio unitario trascende anche l'ambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato.

L'allocazione delle funzioni amministrative si riflette anche sulla distribuzione delle competenze legislative: se la legge può assegnare l’esercizio delle funzioni amministrative allo Stato, essa, in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, può anche organizzarle e regolarle, al fine di renderne l'esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale. Ne consegue che lattrazione allo Stato delle funzioni amministrative comporta la parallela attrazione della funzione legislativa.

I principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità e rispetti il principio di leale collaborazione.

Allo stesso modo e negli stessi limiti sono giustificati interventi della legislazione statale in ambiti materiali di competenza residuale (sentenze n. 76 del 2009, n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006).

 

In particolare, la sentenza n. 6 del 2004 ha fissato le condizioni per l'applicazione del “principio di sussidiarietà ascendente”. Affinché la legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l'esercizio, è necessario che:

-     rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni;

-     detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni;

-     risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine;

-     risulti adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione;

-     preveda adeguati meccanismi di cooperazione per l'esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali.

 

Tale impostazione è stata confermata dalla successiva giurisprudenza (sentenze n. 62/2013, n. 88/2009, n. 248/2006 e n. 383/2005).

L'attrazione in sussidiarietà ha trovato applicazione principalmente nei settori delle infrastrutture (sentenza n. 303/2003), dell’energia (sentenze n. 4/2004 e n. 383/2005), dell’ordinamento della comunicazione (sentenza n. 163/2012) e del turismo (sentenze n. 80/2012, n. 76/2009, n. 13/2009, n. 94/2008, n. 339/2007, n. 88/2007 e n. 214/2006).

La competenza concorrente: principi fondamentali o norme di dettaglio?

Un ulteriore elemento di criticità deriva dal fatto che la distinzione tra principi fondamentali e norme di dettaglio, che costituisce il discrimine tra competenza statale e competenza regionale nelle materie di legislazione concorrente, appare ben chiara in linea astratta ma comporta non pochi problemi interpretativi una volta calata sul piano concreto delle singole e specifiche disposizioni.

In linea generale, dunque, il vaglio di costituzionalità, che deve verificare il rispetto del rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio, “va inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi” (sentenze n. 272/2013, n. 16/2010, n. 237/2009 e n. 181/2006). Peraltro, il carattere di principio di una norma non è escluso, di per sé, dalla specificità delle prescrizioni, qualora la norma “risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” (sentenze n. 272/2014, n. 44/2014, n. 211/2012, n. 139/2012, n. 182/2011, n. 16/2010, n. 237/2009, n. 430/2007).

È sul piano concreto, come detto, che insorgono le maggiori difficoltà interpretative, in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, la nozione di principio fondamentalenon ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le ‘materie’ hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. È il legislatore che opera le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l'interprete deve valutare nella loro obiettività.” (sentenza n. 50/2005). Ne consegue che “l'ampiezza e l'area di operatività dei principî fondamentali […] non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa. Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano” (sentenza n. 336/2005).

La sentenza n. 16/2010 ha infine aggiunto che, “nella dinamica dei rapporti tra Stato e Regioni, la stessa nozione di principio fondamentale non può essere cristallizzata in una formula valida in ogni circostanza, ma deve tenere conto del contesto, del momento congiunturale in relazione ai quali l'accertamento va compiuto e della peculiarità della materia”.

 

L’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione e la grave crisi economico-sociale

L’inattuazione dell’articolo 119 Cost., che riconosce agli enti territoriali autonomia finanziaria di entrata e di spesa, si ripercuote anche sul riparto di competenze legislative delineato dall’articolo 117 Cost.

E’ infatti innegabile l’esistenza di un nesso tra esercizio di competenze legislative e, dunque, attuazione di politiche pubbliche, da una parte, e la responsabilità finanziaria connessa a quelle politiche, dall’altra.

Nelle materie di competenza regionale – residuale o concorrente – spetta dunque alle regioni il reperimento delle risorse necessarie per finanziare le relative politiche.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, «l’art. 119 Cost. vieta al legislatore statale di prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 168 del 2008, nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 168 del 2009, nn. 63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005).

Così almeno secondo il disegno costituzionale. Questo orientamento ha dovuto peraltro fare i conti con l’inattuazione dell’articolo 119 Cost. e dunque con l’attuale assenza di una compiuta autonomia finanziaria delle regioni.

La cd. legge delega sul federalismo fiscale (L. n. 42/2009) ha dato avvio al processo di attuazione dell’art. 119 Cost., ma questo processo non è stato ancora completato. Da una parte, infatti, non è giunto a conclusione lo stesso percorso attuativo avviato dalla legge delega e dai decreti legislativi, ad esempio con riguardo alla determinazione dei fabbisogni standard e dei connessi livelli essenziali delle prestazioni; dall’altra, all'attuazione della delega si sono sovrapposti plurimi interventi legislativi, per lo più in via d'urgenza, volti a privilegiare l'equilibrio dei conti pubblici e il coordinamento statale e a ridurre i trasferimenti statali che la legge 42 aveva previsto di trasformare in risorse autonome degli enti territoriali (c.d. fiscalizzazione dei trasferimenti erariali).

La Corte ha in proposito ritenuto che “nella perdurante inattuazione della legge n. 42 del 2009, che non può non tradursi in incompiuta attuazione dell’art. 119 Cost., l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa (sentenze n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011). Tali interventi si configurano infatti come «portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla attuale grave crisi economica nazionale e internazionale» (sentenza n. 121 del 2010), che ben possono essere ritenute giustificazioni sufficienti per legittimare l’intervento del legislatore statale limitativo della competenza legislativa residuale delle Regioni, (così le sentenze n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011, in materia di trasporto pubblico locale).

Sempre la Corte ha rilevato che “il mancato completamento della transizione ai costi e fabbisogni standard, funzionale ad assicurare gli obiettivi di servizio e il sistema di perequazione, non consente, a tutt’oggi, l’integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previsti dall’art. 119 Cost.” (sentenza n. 273/2013).

La Corte dunque “ha ben presente, al riguardo, il disposto dell’art. 119, quarto comma, Cost., secondo cui le funzioni attribuite alle Regioni sono finanziate integralmente dalle fonti di cui allo stesso art. 119 (tributi propri, compartecipazioni a tributi erariali e altre entrate proprie). Ritiene peraltro che, in mancanza di norme che attuino detto articolo […] l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso, oltre a rispondere ai richiamati principi di eguaglianza e solidarietà, riveste quei caratteri di straordinarietà, eccezionalità e urgenza conseguenti alla situazione di crisi internazionale economica e finanziaria” (sentenza n. 10/2010).

Si consideri poi che legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio, ha delimitato in vario modo l'autonomia finanziaria degli enti territoriali, a partire dalla modifica dello stesso art. 119 e dallo spostamento della “armonizzazione dei bilanci pubblici” dall'ambito delle materie concorrenti a quello delle materie di competenza legislativa esclusiva statale.

Del resto, il richiamo al generale contesto di recessione economica è ripetuto in numerose sentenze degli ultimi anni, al fine di giustificare un’interpretazione estensiva delle competenze del legislatore nazionale.

Secondo la Corte, infatti, «la situazione eccezionale di crisi economico-sociale» non è priva di incidenza sul riparto costituzionale delle competenze, perché ha «ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare» la propria competenza legislativa esclusiva in nella materia “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (sentenza n. 62/2013).

Sempre in considerazione della difficile congiuntura economica, la Corte ha progressivamente ampliato gli ambiti di intervento del legislatore statale in un’altra materia “trasversale” come il coordinamento della finanza pubblica, avallando, nei fatti, le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli anche molto puntuali per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali (sentenze n. 23/2014 e n. 198/2012).

Un più ampio potere del legislatore statale è stato riconosciuto anche nei confronti delle regioni a statuto speciale, ritenendo la Corte che in un contesto di grave crisi economica il legislatore possa discostarsi dal modello consensualistico nella determinazione delle modalità del concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica (sentenze n. 23/2014 e n. 193/2012).

Dati statistici

All’indomani della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, realizzata con la legge costituzionale n. 3/2001, è esplosa la conflittualità tra gli enti dotati di potestà legislativa, come dimostrano le analisi del contenzioso tra Stato, Regioni e Province autonome in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale.

In particolare, l’esame dell’attività della Consulta dal 2001 ad oggi evidenzia lo spazio assunto dal giudizio in via principale (lo Stato e le Regioni e Province autonome presentano direttamente un ricorso di incostituzionalità avverso le leggi, rispettivamente, della Regione e dello Stato o di altra Regione), sia in termini assoluti (numero delle sentenze), sia in termini percentuali (in rapporto al totale delle decisioni della Corte).

Il grafico n. 1 mostra l’andamento crescente in percentuale del giudizio in via principale a partire dal 2000.

 

Grafico n. 1 – Il giudizio in via principale in rapporto al totale delle decisioni (2000-2013) Fonte: Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2013

 

 

Complessivamente, dal 2001 al 2013, il giudizio in via principale è salito dal 7,6 al 45,7 per cento del totale delle pronunce della Corte. All’incremento del giudizio in via principale ha corrisposto un quasi equivalente decremento del numero di decisioni del giudizio in via incidentale, come evidenzia il grafico n. 2.

 

Grafico n. 2 – Il totale delle decisioni di legittimità costituzionale, ripartito tra giudizi i via incidentale e in via principale (2000-2013) Fonte: elaborazione su dati della Corte costituzionale, Relazioni annuali

 

Anno

Totale decisioni

Giudizio in via incidentale

Giudizio in via principale

2001

447

350 (78,52%)

34 (7,6%)

2002

535

450 (84,14%)

30 (5,6%)

2003

382

249 (65,18%)

57 (14,92%)

2004

446

286 (64,13%)

97 (21,75%)

2005

482

314 (65,15%)

101 (20,95%)

2006

463

276 (59,61%)

113 (24,41%)

2007

464

319 (68,75%)

76 (16,38%)

2008

449

333 (74,16%)

64 (14,25%)

2009

342

225 (65,79%)

82 (24,27%)

2010

376

211 (56,12%)

141 (37,63%)

2011

342

196 (57,31%)

91 (26,61%)

2012

316

141(44,62%)

150 (47,46%)

2013

326

145 (44,47%)

149 (45,7%)

 

All’interno del periodo considerato, sono individuabili diverse fasi.

I primi dati significativi sono riferibili al 2003. Come evidenziato dalla Corte, “nel corso del 2002 la maggior parte delle decisioni nel settore dei rapporti Stato-regioni aveva riguardato ricorsi promossi nella vigenza del vecchio Titolo V, o problemi di diritto intertemporale, collegati al sopravvenire del nuovo parametro costituzionale, in assenza, tra l’altro, di disposizioni transitorie. Ė invece nel 2003 che si affronta decisamente il merito delle questioni”[1].

 

Fino al 2003, la gran parte del contenzioso costituzionale è occupato dal giudizio di legittimità in via incidentale, i cui dati hanno oscillato tra il 75 ed il 90% del totale delle pronunce, attestandosi su una media dell’83,64% per il periodo 1983-2002.

 

Il giudizio in via principale, infatti, si è attestato, per il periodo 1983-2002, ad una media del 7,29% (il 2002 si è posto leggermente al di sotto, con una percentuale di 5,61), con un picco negativo di 2,76% (nel 1998) ed uno positivo di 11,14% (nel 1988). Proprio nel 2003 tale giudizio ha conosciuto un notevole incremento, giungendo al 14,92%. Tale trend si è confermato anche negli anni immediatamente successivi: nel 2004 è salito al 21,75%, nel 2005 ha subito una lieve flessione in termini percentuali (20,95%) per poi arrivare nel 2006 ad occupare il 24,41% delle decisioni della Corte.

 

Avendo come riferimento le decisioni adottate con la forma della sentenza, deve sottolinearsi che nel 2004, per la prima volta nella cinquantennale storia della Corte costituzionale, il giudizio nell’ambito del quale è stato reso il maggior numero di sentenze non è il giudizio in via incidentale. Già nel 2003 la distanza tra i due tipi di giudizi di legittimità costituzionale si era fortemente assottigliata (54 sentenze nell’incidentale contro 48 nel principale); nel 2004, il giudizio in via principale ha superato – e nettamente – il giudizio in via incidentale. In termini percentuali, le sentenze sono state rese nel 37,72% dei casi in sede di giudizio in via incidentale, contro il 48,50% del giudizio in via principale (nel 2003, le percentuali erano, rispettivamente, il 40,29% ed il 35,92%).

 

La crescita del contenzioso tra Stato e Regioni, in questa prima fase, è determinata dall’introduzione di nuove norme costituzionali nel Titolo V, che ha chiamato la Corte ad una complessa opera di interpretazione, nell’ambito della quale la precedente giurisprudenza forniva un ausilio limitato.

 

L’incremento registrato tra il 2003 e il 2006 ha subito un arresto nel biennio 2007-2008; in tali anni il giudizio di legittimità costituzionale in via principale subisce un calo non marginale (riportando il dato percentuale al di sotto del 20%) e, parallelamente, il giudizio in via incidentale presenta un significativo incremento, riavvicinandosi alla media dei venti anni precedenti al 2003. L’insieme di questi dati ha suggerito una relativa stabilizzazione del contenzioso tra Stato e Regioni derivante dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, stabilizzazione che si è attestata, comunque, su valori decisamente più alti rispetto a quelli constatati prima della riforma costituzionale.

 

Tuttavia, a partire dal 2009, si è aperta una nuova stagione di conflittualità Stato-regioni, “in un contesto parzialmente diverso da quello degli anni 2003-2006, non fosse altro perché alcune delle difficoltà nell’attuazione del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che avevano suggerito una spiegazione dei dati tanto elevati raggiunti dal giudizio in via d’azione, sono state proprio in quel periodo superate”[2].

In riferimento all’attività della Corte, negli ultimi anni sono rinvenibili tre caratteristiche principali. La prima consiste nella netta preponderanza dei giudizi di legittimità costituzionale e nella connessa marginalizzazione degli altri giudizi (conflitti interistituzionali e interorganici, giudizi sull’ammissibilità del referendum e ordinanze di correzione di errori materiali).

 

La somma delle percentuali del giudizio in via incidentale e di quello in via principale è stata pari all’88,42% nel 2008; al 90,06% nel 2009; al 93,75% nel 2010; 83,92% nel 2011; 92,08% nel 2012 e 90,17 nel 2013.

 

Il secondo elemento da rimarcare è la notevole crescita del numero di decisioni rese in sede di giudizio in via principale, ed il terzo si collega strettamente al secondo, consistendo nella chiara diminuzione del numero di decisioni rese nell’ambito del giudizio in via d’eccezione.

Infatti, nel 2009 si era riscontrata una nuova crescita del contenzioso tra Stato e Regioni, che nel 2010 si è significativamente rafforzata, sino a giungere alle 141 decisioni nel 2010, 91 nel 2011, 150 nel 2012 e 149 nel 2013[3].

 

Tradotti questi valori in termini percentuali, può notarsi che il giudizio in via incidentale, che aveva tradizionalmente rappresentato la fetta più cospicua del contenzioso costituzionale, ha conosciuto, rispetto al passato, una chiara contrazione e, negli ultimi due anni, è stato superato dal giudizio in via principale.

Infatti, nel 2012 e nel 2013, per la prima volta della storia della Corte, il giudizio in via principale ha espresso la quota più rilevante del contenzioso costituzionale. Il dato assoluto si è mantenuto costante (150 pronunce nel 2012 e 149 nel 2013). Percentualmente si è invece registrata una lieve diminuzione (dal 47,46% del 2012 al 45,7% del 2013).

Lo spazio assunto dal giudizio principale risulta più evidente considerando, per le decisioni rese nei giudizi di legittimità costituzionale (in via principale e in via incidentale), il numero delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

 

 

Grafico n. 3/a – Numero dichiarazioni di illegittimità costituzionale nelle decisioni
rese nei giudizi in via principale

Anno

Totale decisioni

Dichiarazioni di illegittimità costituzionale[4]

2013

149

208 (95 sentenze)

2012

150

120 (73 sentenze)

2011

91

84 (57 sentenze)

2010

141

109 (67 sentenze)

2009

82

77 (37 sentenze)

 


 

Grafico n. 3/b – Numero dichiarazioni di illegittimità costituzionale nelle decisioni
rese nei giudizi in via incidentale

Anno

Totale decisioni

Dichiarazioni di illegittimità costituzionale

2013

145

48 (42 sentenze)

2012

141

33 (25 sentenze)

2011

196

39 (35 sentenze)

2010

211

50 (42 sentenze)

2009

225

34 (31 sentenze)

 

Per quanto riguarda i ricorsi, nella maggior parte delle ipotesi, i giudizi in via principale sono promossi dallo Stato avverso leggi regionali o provinciali. Nell’ultimo triennio, il numero assoluto dei ricorsi statali e dei relativi giudizi instaurati dinanzi alla Corte ha segnato un incremento costante, passando da 75 nel 2011 a 90 nel 2012 e 126 nel 2013.

In relazione all’esito di tali ricorsi, inoltre, una recente ricerca (limitata all’analisi degli ultimi tre anni di giurisprudenza – 2011-2013) mette in evidenza il rapporto tra tipologia del ricorso e dichiarazione di incostituzionalità. Al riguardo emerge che, nelle decisioni rese dalla Corte su ricorsi regionali o provinciali avverso leggi statali, le dichiarazioni di incostituzionalità rappresentano circa un quinto del totale (19% nel 2013; 20% nel 2012; 19,7% nel 2011), mentre, per quanto concerne i ricorsi promossi dallo Stato, le pronunce di incostituzionalità sono ben più numerose (62,5% nel 2013, 55% nel 2012; 50% nel 2011).[5]

 

Grafico n. 4 – Giudizi in via principale: analisi quantitativa dei ricorsi promossi dallo Stato e da Regioni o Province autonome. Fonte: elaborazione su dati della Corte costituzionale[6]

 

Anno

Totale decisioni

Ricorsi promossi da regioni e province autonome

Ricorsi promossi dallo Stato

 

 

numero

ill. cost.(%)

numero

ill. cost.(%)

2013

149

27

19%

126

62,5%

2012

150

57

20%

90

55%

2011

91

16

19,67%

75

50%

 

Per quanto concerne il contenuto delle leggi impugnate, la ricerca rileva che le Regioni e le Province autonome hanno indirizzato i propri ricorsi prevalentemente avverso le leggi finanziarie annuali, i provvedimenti d’urgenza adottati per far fronte alla crisi economica, le riforme di impatto sulle autonomie locali (come, ad esempio, il federalismo fiscale). In tale ambito, le decisioni di illegittimità costituzionale di fonti statali hanno riguardato norme non rispettose del principio di leale collaborazione. Nella maggior parte dei casi, i giudizi si sono conclusi con pronunce di non fondatezza delle questioni sollevate, motivate, in prevalenza, dal riconoscimento in capo allo Stato di competenze c.d. finalistiche o trasversali (tutela della concorrenza, tutela dell’ambiente e determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni) suscettibili di comprimere l’autonomia regionale, o giustificate dalla legittima posizione di principi fondamentali in materie di competenza concorrente (in particolare, il coordinamento della finanza pubblica).

 

In relazione alle decisioni sui ricorsi dello Stato avverso leggi regionali e provinciali, le numerose dichiarazioni di incostituzionalità hanno accertato la violazione di competenze legislative esclusive dello Stato nelle c.d. materie trasversali o non trasversali (in particolare, ordinamento civile e sistema tributario dello Stato), ovvero di principi fondamentali stabiliti in materie di competenza concorrente (in prevalenza, coordinamento della finanza pubblica, ma anche professioni, governo del territorio, protezione civile, tutela della salute ed energia).

 

 

 


Rassegna della giurisprudenza costituzionale sulle singole materie

Nei paragrafi che seguono sono analizzate le materie ricomprese negli elenchi di cui al testo vigente dell’articolo 117 della Costituzione, limitatamente a quelle oggetto di modifica da parte del progetto di legge di riforma costituzionale, approvato dal Senato in prima lettura e ora all’esame della Camera (A.C. 2613).

Ogni paragrafo è diviso in quattro sezioni in cui, per ciascuna materia, sono richiamati:

1)    l’attuale assetto di competenze fissato in Costituzione, arricchito in alcuni casi dal quadro normativo primario di riferimento;

2)    le principali questioni emerse dalla giurisprudenza costituzionale in relazione alla materia interessata;

3)    le proposte di modifica previste al riguardo dalla riforma in esame;

4)    la rassegna della giurisprudenza costituzionale sulla materia interessata, con particolare attenzione ai profili di modifica del disegno di legge di riforma costituzionale.

L’ordine di esame delle materie segue l’elenco del vigente articolo 117 per ciascuna tipologia di competenza (esclusiva, concorrente e residuale).

 

 


Istruzione

Assetto delle competenze e questioni principali

L’art. 117, secondo comma, lett. n), Cost. annovera le norme generali sull’istruzione tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre l’art. 117, terzo comma, Cost., include l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale – che rientra, dunque, nella competenza residuale delle regioni – tra le materie di legislazione concorrente.

Quanto al diritto allo studio, esso non è espressamente citato nel vigente art. 117 Cost., ma trova fondamento nell’art. 34, i cui commi terzo e quarto dispongono che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

 

 

 

lente

 

 

Con riferimento all’istruzione, la Corte costituzionale ha dovuto tracciare un quadro generale di riferimento per l’interpretazione del sistema delle competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione, che in qualche misura può essere considerato paradigmatico nel riparto delle competenze tra le “norme generali” e i “principi fondamentali” da una parte e la legislazione concorrente dall’altra.

La Corte infatti ha avuto modo di chiarire tale distinzione: “le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale”. In tal senso, le norme generali si differenziano dai “principi fondamentali”, i quali, “pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose” (sentenza n. 279/2005).

Successivamente, la Corte ha precisato che appartengono alla categoria delle disposizioni espressive di principi fondamentali quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, discipline, pur tese ad assicurare l’esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio, da un lato non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema di istruzione che caratterizza le norme generali, dall’altro necessitano “per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale”. In particolare, nel settore dell’istruzione “lo svolgimento attuativo dei predetti principi è necessario quando si tratta di disciplinare situazioni legate a valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle regioni, anche sotto il profilo socio-economico” (sentenza n. 200/2009).

In questa cornice si inquadrano, in particolare, le pronunce della Corte in materia di programmazione della rete scolastica, che pertiene alla competenza del legislatore regionale (sentenze nn. 92/2011 e 147/2012).

 

Quadro normativo

Sulla materia il quadro normativo successivo all’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione si è evoluto con l’approvazione della legge n. 53/2003 ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi per la definizione delle norme generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale. Con riferimento al sistema di istruzione e formazione professionale (IeFP) - i cui percorsi rappresentano una delle componenti del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione ai sensi di quanto sancito dalla medesima L. 53/2003[7] – la competenza legislativa esclusiva è delle regioni, spettando allo Stato la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.)[8] (v., più ampiamente, infra).

Sulla base della delega contenuta nella citata legge n. 53/2003, sono stati emanati i D.Lgs. 59/2004 (Norme generali sulla scuola dell’infanzia e sul primo ciclo di istruzione), 286/2004 (Istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione), 76/2005 (Norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione), 77/2005 (Norme generali sull’alternanza scuola-lavoro), 226/2005 (Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione) e 227/2005 (Norme generali sulla formazione degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento), quest’ultimo successivamente abrogato dall’art. 2, co. 416, della L. 244/2007.

La nuova disciplina incide su un sistema normativo previgente alla riforma ampiamente consolidato. In particolare, con riferimento alle funzioni e ai compiti amministrativi, l’art. 138 del D.Lgs. 112/1998 ha delegato alle regioni le funzioni – prima attribuite allo Stato – relative, in particolare: alla programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale; alla programmazione della rete scolastica, assicurando il coordinamento con la programmazione dell’offerta formativa; alla suddivisione, sulla base anche delle proposte degli enti locali interessati, del territorio regionale in ambiti funzionali al miglioramento dell'offerta formativa; alla determinazione del calendario scolastico; ai contributi alle scuole non statali[9].

Sono rimasti, invece, attribuiti allo Stato, fra gli altri - in base all’art. 137 dello stesso D.Lgs. - i compiti e le funzioni concernenti i criteri e i parametri per l'organizzazione della rete scolastica, previo parere della Conferenza unificata, le funzioni di valutazione del sistema scolastico, le funzioni relative alla determinazione e all'assegnazione delle risorse finanziarie a carico del bilancio dello Stato e del personale alle istituzioni scolastiche, le funzioni relative alle scuole ed alle istituzioni culturali straniere in Italia.

 

Con riguardo al profilo dell’autonomia scolastica occorre ricordare che il regolamento emanato con DPR 275/1999 ha disposto che alle istituzioni scolastiche è attribuita autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo. In particolare, le scuole provvedono alla definizione e alla realizzazione dell'offerta formativa, nel rispetto delle funzioni delegate alle regioni e dei compiti e funzioni trasferiti agli enti locali, ai sensi degli artt. 138 e 139 del D.Lgs. 112/1998, mediante la predisposizione del Piano dell’offerta formativa (artt. 3-7).

Inoltre, alle istituzioni scolastiche sono state attribuite le funzioni relative alla carriera scolastica degli alunni, all’amministrazione e alla gestione del patrimonio e delle risorse e allo stato giuridico ed economico del personale non riservate all'amministrazione centrale e periferica, e quelle in materia di articolazione territoriale della scuola (art. 14).

Infine, il regolamento ha disposto che dall'attribuzione alle istituzioni scolastiche sono escluse le seguenti funzioni: formazione delle graduatorie permanenti riferite ad ambiti territoriali più vasti di quelli della singola istituzione scolastica; reclutamento del personale docente, amministrativo, tecnico e ausiliario con rapporto di lavoro a tempo indeterminato[10]; mobilità esterna alle istituzioni scolastiche e utilizzazione del personale eccedente l'organico funzionale di istituto; autorizzazioni per utilizzazioni ed esoneri per i quali sia previsto un contingente nazionale; comandi, utilizzazioni e collocamenti fuori ruolo; riconoscimento di titoli di studio esteri, fatto salvo il riconoscimento degli studi compiuti in Italia e all'estero ai fini della prosecuzione degli studi medesimi, la valutazione dei crediti e debiti formativi (art. 15).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il nuovo articolo 117 attribuisce:

·       allo Stato la competenza legislativa esclusiva nelle materie disposizioni generali e comuni sull’istruzione e ordinamento scolastico(secondo comma, lett. n));

·       alle regioni la competenza legislativa, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di istruzione e formazione professionale e di promozione del diritto allo studio.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 279/2005, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale di numerose disposizioni del citato D.Lgs. n. 59/2004 – recante norme generali sulla scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione in attuazione della L. n. 53/2003 – ha tracciato un quadro generale di riferimento per l’interpretazione del quadro delle competenze delineato dalla Costituzione in materia di istruzione.

In particolare, la Corte – intendendo preliminarmente distinguere la categoria delle “norme generali sull’istruzione”, di competenza esclusiva dello Stato, da quella dei “principi fondamentali” in materia di istruzione, destinati ad orientare le regioni negli ambiti di competenza concorrente – ha precisato che “le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale”. In tal senso, le norme generali si differenziano dai “principi fondamentali”, i quali, “pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose”.

 

La Corte è tornata sull’argomento con la sentenza n. 200/2009, volta a stabilire la legittimità costituzionale di talune disposizioni dell’art. 64 del D.L. n. 112/2008 (L. n. 133/2008), con la quale ha evidenziato che “una chiara definizione vincolante – ma ovviamente non tassativa – degli ambiti riconducibili al “concetto” di norme generali sull’istruzione è ricavabile dal contenuto degli artt. 33 e 34 Cost.

In particolare, la Corte ha evidenziato che il legislatore costituzionale ha inteso individuare già negli artt. 33 (in base al quale alla Repubblica è affidato il compito di dettare le norme generali sull’istruzione) e 34 Cost. le caratteristiche basilari del sistema scolastico, relative:

a) alla istituzione di scuole per tutti gli ordini e gradi (art. 33, secondo comma, Cost.);

b) al diritto di enti e privati di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato (art. 33, terzo comma, Cost.);

c) alla parità tra scuole statali e non statali sotto gli aspetti della loro piena libertà e dell'uguale trattamento degli alunni (art. 33, quarto comma, Cost.);

d) alla necessità di un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuola o per la conclusione di essi (art. 33, quinto comma, Cost.);

e) all'apertura della scuola a tutti (art. 34, primo comma, Cost.);

f) alla obbligatorietà e gratuità dell'istruzione inferiore (art. 34, secondo comma, Cost.);

g) al diritto degli alunni capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. 34, terzo comma, Cost.);

h) alla necessità di rendere effettivo quest'ultimo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (art. 34, quarto comma, Cost.).

 

La Corte ha rilevato inoltre che rientrano nelle norme generali sull’istruzione gli ambiti individuati dalla citata L. 53/2003.

Si tratta in particolare di:

a) definizione generale e complessiva del sistema educativo di istruzione e formazione, delle sue articolazioni cicliche e delle sue finalità ultime;

b) regolamentazione dell'accesso al sistema ed i termini del diritto-dovere alla sua fruizione;

c) previsione generale del contenuto dei programmi delle varie fasi e dei vari cicli del sistema e del nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la “quota nazionale”;

d) previsione e regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli;

e) definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all'esito dei percorsi formativi, nonché per il passaggio ai percorsi scolastici;

f) definizione generale dei “percorsi” tra istruzione e formazione che realizzano diversi profili educativi, culturali e professionali (cui conseguono diversi titoli e qualifiche, riconoscibili sul piano nazionale) e possibilità di passare da un percorso all'altro;

g) valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento degli studenti;

h) princípi della valutazione complessiva del sistema;

i) modello di alternanza scuola-lavoro, al fine di acquisire competenze spendibili anche nel mercato del lavoro;

l) princípi di formazione degli insegnanti.

 

La Corte infine ha rilevato che in via interpretativa sono, in linea di principio, considerate norme generali sull'istruzione, fra le altre, quelle sull'autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche (di cui all'art. 21 della L. n. 59/1997), sull'assetto degli organi collegiali (di cui al D.Lgs. n. 233/1999), sulla parità scolastica e sul diritto allo studio e all'istruzione (di cui alla L. n. 62/2000)[11].

Nella stessa sentenza n. 200/2009, la Corte ha evidenziato che appartengono, invece, alla categoria delle disposizioni espressive di principi fondamentali della materia dell’istruzione quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio, da un lato non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema di istruzione che caratterizza le norme generali, dall’altro necessitanoper la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale”. In particolare, “la relazione tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] va intesa […] nel senso che alla prima spetta prescrivere criteri ed obiettivi, essendo riservata alla seconda l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi”.

Nello specifico settore dell’istruzione, la Corte ha, dunque, ritenuto che “lo svolgimento attuativo dei predetti principi è necessario quando si tratta di disciplinare situazioni legate a valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle regioni, anche sotto il profilo socio-economico”.

Su tali basi, la Corte ha ritenuto qualificabili come “norme generali sull’istruzione” quelle recate dall’art. 64, co. 4, lett. da a) ad f), del D.L. 112/2008 – riguardanti la razionalizzazione e l’accorpamento delle classi di concorso, la ridefinizione dei curriculi, la revisione dei criteri di formazione delle classi, la rimodulazione dell’organizzazione didattica delle scuole primarie, la revisione dei criteri per la definizione degli organici, la revisione dell’assetto organizzativo-didattico dei centri di formazione per gli adulti – in quanto disposizioni che contribuiscono a delineare la struttura di base del sistema di istruzione, che non necessitano di un’ulteriore normazione a livello regionale. Le stesse, infatti, pur avendo un impatto indiretto su profili organizzativi del servizio scolastico, rispondono alla esigenza essenziale di fissare standard di qualità dell'offerta formativa volti a garantire un servizio scolastico uniforme sull'intero territorio nazionale.

A diverse conclusioni la Corte è giunta, invece, per le disposizioni recate dalle lett. f-bis) ed f-ter) dello stesso co. 4, in materia di dimensionamento della rete delle istituzioni scolastiche, ambito ritenuto di spettanza regionale.

Al riguardo, infatti, la Corte, richiamando la sentenza n. 13/2004 e la sentenza n. 34/2005, ha evidenziato che “è da escludersi che il legislatore costituzionale del 2001 abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che era già ad esse conferita”, sia pure soltanto sul piano meramente amministrativo, dall’art. 138 del D.Lgs. n. 112/1998.

Più in generale, la Corte ha sottolineato che la definizione del riparto di competenze amministrative attuato con il citato D.Lgs. fornisce un tendenziale criterio utilizzabile per la individuazione degli ambiti materiali che la riforma del Titolo V ha attribuito alla potestà legislativa concorrente o residuale delle regioni[12].

Nello specifico, la Corte, guardando all'obiettivo perseguito dalle lett. f-bis) ed f-ter) – concernenti, più nel dettaglio, la definizione di criteri e modalità per il dimensionamento della rete scolastica e l’attivazione di servizi qualificati per la migliore fruizione dell’offerta formativa, nonché, nel caso di chiusura o accorpamento degli istituti scolastici aventi sede nei piccoli comuni, la previsione da parte di Stato, regioni ed enti locali, di misure finalizzate alla riduzione del disagio degli utenti – ha sottolineato che la preordinazione dei criteri volti alla attuazione del dimensionamento della rete scolastica ha una diretta ed immediata incidenza su situazioni strettamente legate alle varie realtà territoriali ed alle connesse esigenze socio-economiche di ciascun territorio, che ben possono e devono essere apprezzate in sede regionale, senza che, dunque, possano venire in rilievo aspetti che ridondino sulla qualità dell'offerta formativa e sulla didattica.

Ha, pertanto, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tali disposizioni.

 

L’attribuzione al legislatore regionale degli interventi in materia di programmazione della rete scolastica è stata ribadita anche nelle sentenze n. 92/2011 e n. 147/2012.

In particolare, con la prima sentenza citata la Corte ha annullato l’art. 2, co. 4 e 6, del DPR 89/2009 – emanato in attuazione del citato art. 64, co. 4, del D.L. 112/2008 (prima della pubblicazione della sentenza n. 200/2009) – concernente la revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, evidenziando che non spettava allo Stato disciplinare l’istituzione di nuove scuole dell’infanzia e di nuove sezioni della scuola dell’infanzia, nonché la composizione di queste ultime, attenendo gli argomenti, in maniera diretta, al dimensionamento della rete scolastica sul territorio.

Con la seconda sentenza, la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, co. 4, del D.L. 98/2011 (L. 111/2011) che aveva disposto l’aggregazione in istituti comprensivi, a decorrere dall’a.s. 2011-2012, di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado prevedendo che, per il conseguimento dell’autonomia, i citati istituti comprensivi dovevano avere un numero minimo di 1.000 alunni, ridotti a 500 per particolari realtà.

In tal caso, la Corte ha rilevato che “è indubbio che la disposizione in esame incide direttamente sulla rete scolastica e sul dimensionamento degli istituti”, materia che non può ricondursi nell’ambito delle norme generali sull’istruzione e va, invece, ricompresa nella competenza concorrente relativa all’istruzione.

 

In tema di istruzione e formazione professionale, si ricorda che nella sentenza n. 50/2005 la Corte ha chiarito, in linea generale, che “la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale riguarda l’istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi”, mentre non è compresa nell’ambito della suindicata competenza né in altre competenze regionali la disciplina della istruzione e della formazione aziendale che i privati datori di lavoro somministrano in ambito aziendale ai loro dipendenti, rientrando, invece, nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile.

In tale quadro, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 60 del D.Lgs. n. 276/2003, recante la disciplina dei tirocini estivi di orientamento, in quanto la stessa, dettata senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni, attiene alla formazione professionale di competenza esclusiva delle regioni.

Nello stesso ambito, con la sentenza n. 309/2010, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, co. 2 e 3, della L. della Regione Toscana 32/2002, come sostituito dall’art. 3 della L.R. n. 63/2009, con il quale, al fine di assolvere all’obbligo di istruzione, è stato introdotto un percorso di formazione professionale diverso rispetto a quello individuato dalla disciplina statale, con ciò violando le norme generali sull’istruzione e il principio di leale collaborazione. In particolare, la Corte ha rilevato che lo stesso legislatore statale ha definito “generali” le norme sul diritto-dovere di istruzione e formazione, contenute nel D.Lgs. 76/2005, e che l’obbligo di istruzione appartiene a quella categoria di “disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio di istruzione“.

 

 

 


Previdenza complementare e integrativa

Assetto delle competenze e questioni principali

Nel vigente testo costituzionale, la previdenza sociale è attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. o), mentre la materia della previdenza complementare ed integrativa, è oggetto di competenza concorrente (art. 117, terzo comma).

 

 

 

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L’esigenza di una disciplina unitaria ed omogenea in materia di previdenza sociale, che ricomprenda anche la previdenza complementare ed integrativa, è stata evidenziata in varie occasioni nella giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 189 del 2011, n. 325 del 2011, n. 26 del 2013 e n. 98 del 2013).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia della previdenza complementare ed integrativa viene inclusa nell’ambito della previdenza sociale, transitando così dalla competenza concorrente alla competenza dello Stato in via esclusiva (art. 117, secondo comma, lett. o)).

 

Giurisprudenza costituzionale

L’esigenza di una disciplina unitaria ed omogenea in materia di previdenza sociale, che ricomprenda anche la previdenza complementare ed integrativa, è stata evidenziata dalla Corte costituzionale, che negli anni ha più volte ribadito la competenza esclusiva statale sull’intera materia.

Con la sentenza n. 189 del 2011 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 della L.R. Basilicata 31/2010 - che attribuiva una qualificazione di lavoro subordinato ad un rapporto di lavoro essenzialmente precario, quale quello presso le segreterie particolari degli amministratori regionali, al fine di incrementare il trattamento pensionistico dei dipendenti - in quanto incideva “in modo chiaro nella materia della previdenza sociale che, in base a quanto disposto dall’art. 117, secondo comma, lettera o), Cost., rientra nella competenza esclusiva dello Stato”, richiamando così la necessità di dar luogo ad una disciplina unitaria della materia.

Le sentenze n. 325 del 2011 e n. 98 del 2013 sono intervenute in merito all’ambito di applicazione della disciplina previdenziale statale. Nella prima la Corte costituzionale ha censurato l’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina previdenziale statale relativa al personale delle pubbliche amministrazioni ai dipendenti pubblici nominati assessori regionali, in quanto “non spetta alla legislazione regionale disporre una equiparazione del trattamento previdenziale degli assessori regionali non consiglieri con quello degli assessori che ricoprano la carica di consigliere. Ove tale equiparazione fosse effettuata con legge regionale, come nel caso in esame, non solo si avrebbe una lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, ma si determinerebbero difformità nella disciplina del trattamento previdenziale dei dipendenti pubblici da una regione all’altra”. Nella seconda delle sentenze richiamate la Corte ha affermato che solo lo Stato può estendere l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione di disposizioni oggetto di competenza legislativa esclusiva statale, tra cui specificamente quello della previdenza sociale.

Nella sentenza n. 26 del 2013, in merito alla legittimità costituzionale degli articoli 4, comma 2, e 7, comma 5, della L.R. Sardegna 27/2011 (Riforma della legge istitutiva di un fondo per l’integrazione del trattamento di quiescenza, di previdenza e di assistenza del personale dipendente dall’Amministrazione regionale) la Corte ha evidenziato la stretta connessione tra la materia della previdenza sociale e quella della previdenza complementare e integrativa. Proprio questa connessione fa sì che la materia della previdenza complementare ed integrativa possa essere attratta in un ambito rientrante nella competenza esclusiva statale: nel caso di specie, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla competenza concorrente, la regione Sardegna aveva comunque toccato un aspetto collegato al principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, attribuito alla competenza esclusiva statale dall’ultima parte dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.


Enti locali

Assetto delle competenze e questioni principali

L’articolo 117, comma secondo, lett. p), attribuisce allo Stato, in via esclusiva, la competenza legislativa in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, province e Città metropolitane.

 

 

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Nel declinare la competenza esclusiva statale legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost, la Corte costituzionale ha evidenziato (sentenza n. 220 del 2013) come tale previsione debba intendersi riferita alle componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. Allo Stato spetta dunque l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale; la disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi – Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce. Lungo tale direzione si è mossa anche la giurisprudenza costituzionale relativa alle leggi regionali che intervengono sulle funzioni degli enti locali, ammettendo, in generale, che il legislatore regionale possa - nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni costituzionali o statutarie -, in presenza di esigenze di carattere generale, articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, con il limite della permanenza di almeno una sfera adeguata di funzioni (sentenze n. 238 del 2007, n. 378 del 2000, n. 286 del 1997, n. 83 del 1997).

Riguardo alla materia forme associative dei comuni, la giurisprudenza costituzionale ha, in una prima fase, ritenuto illegittime le disposizioni ordinamentali dettate dal legislatore statale, ritenendo la materia riconducibile alla competenza legislativa residuale regionale. In tale ambito, la Corte, intervenendo con riferimento alla forma associativa delle comunità montane, ha evidenziato come il richiamo alla competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. sia in proposito inconferente, giacché le stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost.

In una seconda fase (da ultimo con le sentenze n. 22 e n. 44 del 2014) la Corte costituzionale, pur mantenendo immutato il titolo competenziale di riferimento, ha ritenuto ammissibile un intervento del legislatore statale in forza della competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, legittimando anche interventi dalla chiara natura ordinamentale, tra cui quelli volti ad individuare nel dettaglio gli organi dell’unione e le modalità della loro costituzione. La Corte ha, in particolare, ritenuto che, di fronte a disposizioni orientate finalisticamente al contenimento della spesa pubblica, poste in un provvedimento di riesame delle condizioni di spesa e con contenuto armonici rispetto all’impianto complessivo della rimodulazione delle unioni dei comuni, operi il titolo legittimante della competenza in materia di “coordinamento della finanza pubblica” esercitata dallo Stato attraverso previsioni che si configurano come principi fondamentali e che non si esauriscono in una disciplina di mero dettaglio.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Nell’ambito della competenza legislativa esclusiva in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane:

·       viene esplicitata anche la competenza in materia di ordinamento di Comuni e Città metropolitane;

·       viene enucleata una nuova competenza in materia di disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni;

·       viene soppresso, come già nelle altre parti della Costituzione, il riferimento alle “Province”.

La disposizione finale di cui all’art. 39, comma 4, primo periodo, del disegno di legge di riforma interviene in materia di riparto di competenze legislative relativamente agli enti di area vasta.

Essa prevede che per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, i ‘profili ordinamentali generali’ sono definiti con legge dello Stato, mentre le ‘ulteriori disposizioni’ sono adottate con legge regionale.

 

Giurisprudenza costituzionale

Nel declinare tale competenza, la Corte costituzionale ha evidenziato (sentenza n. 220 del 2013) come tale previsione debba intendersi riferita alle componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali.

Ne consegue, in base alla costante giurisprudenza costituzionale sulla materia, che allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale, cui, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi pubblici locali. La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi – Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce. In definitiva, in base alla giurisprudenza costituzionale, la legge statale è attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, mentre l’organizzazione della funzione rimane attratta alla rispettiva competenza materiale dell’ente che ne può disporre in via regolativa. Esemplificativo è l’ambito di intervento del testo unico, di cui al decreto legislativo 267/2000, che – in base all’art. 1 – detta “i principi e le disposizioni in materia di ordinamento degli enti locali”.

Lungo tale direzione si è mossa anche la giurisprudenza costituzionale relativa alle leggi regionali che intervengono sulle funzioni degli enti locali, ammettendo, in generale, che il legislatore regionale possa (nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni costituzionali o statutarie), in presenza di esigenze di carattere generale, articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, con il limite della permanenza di almeno una sfera adeguata di funzioni (sentenze n. 238 del 2007, n. 378 del 2000, n. 286 del 1997, n. 83 del 1997).

Al tempo stesso, riguardo alle regioni a statuto speciale, esprimendosi riguardo ad una disposizione della regione Friuli Venezia Giulia volta alla soppressione delle comunità montane, la Corte ha richiamato la riserva di competenza regionale prevista nello statuto di tale regione in materia di “ordinamento degli enti locali” (sentenza n. 229 del 2001), ed ha dichiarato non fondata la questione di illegittimità sollevata dallo Stato. Lo stesso articolo 1 del suddetto testo unico degli enti locali (267/2000) dispone che le relative disposizioni non si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano se incompatibili con le attribuzioni previste dagli statuti e dalle relative norme di attuazione.

Riguardo all’ambito soggettivo di applicazione, la Corte costituzionale, intervenendo con riferimento alla forma associativa delle comunità montane, ha evidenziato come il richiamo alla competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. sia, in tale ambito, inconferente, giacché le stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost, che reca un elenco che “deve ritenersi tassativo” (sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del 2006, n. 456 del 2005 e n. 244 del 2005) e non è dunque possibile delineare, a livello costituzionale, alcuna equiordinazione tra comuni e comunità montane (e, quindi, forme associative di comuni in generale).

 

Sotto altro profilo, va ricordato che, in molteplici occasioni (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2013, n. 193 del 2012, n. 151 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297 del 2009), la Corte ha ritenuto che il legislatore statale possa, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali. Vincoli che possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscano un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.

La Corte ha inoltre affermato, sotto altro aspetto, che la disciplina posta dal legislatore statale in materia di controlli sugli enti territoriali ha assunto maggior rilievo a seguito dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, tra cui, in particolare, l’obbligo imposto agli Stati membri di rispettare un determinato equilibrio complessivo del bilancio nazionale. A tali vincoli, si riconnette essenzialmente la normativa nazionale sul “patto di stabilità interno”, il quale coinvolge Regioni ed enti locali nella realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica scaturenti, appunto, dai richiamati vincoli europei, diversamente modulati negli anni in forza di disposizioni legislative, costantemente qualificate come «princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 267 del 2006).

In tale quadro, la Corte ha ricordato come il rispetto dei vincoli europei discende direttamente, oltre che dai principi di coordinamento della finanza pubblica, dall’art. 117, primo comma, Cost. e dall’art. 2, comma 1, della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che, nel comma premesso all’art. 97 Cost., richiama il complesso delle pubbliche amministrazioni, ad assicurare in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 60 del 2013). Da ciò consegue la differenza tra i controlli di regolarità e legittimità contabile, attribuiti alla Corte dei conti al fine di prevenire squilibri di bilancio, e i controlli istituiti dalle autonomie speciali sulla contabilità degli enti insistenti sul loro territorio e, più in generale, sulla finanza pubblica di interesse regionale. Mentre questi ultimi sono resi nell’interesse della Regione stessa e delle Province autonome, quelli affidati alla Corte dei conti sono strumentali al rispetto degli obblighi che lo Stato ha assunto nei confronti dell’Unione europea in ordine alle politiche di bilancio. In questa prospettiva, funzionale ai principi di coordinamento e di armonizzazione dei conti pubblici, essi possono essere accompagnati anche da misure atte a prevenire pratiche contrarie ai principi della previa copertura e dell’equilibrio di bilancio (sentenze n. 266 e n. 60 del 2013), che ben si giustificano in ragione dei caratteri di neutralità e indipendenza del controllo di legittimità della Corte dei conti (sentenza n. 226 del 1976). Detti controlli si risolvono in un esito alternativo, nel senso che devono decidere se i bilanci preventivi e successivi degli enti territoriali siano o meno rispettosi del patto di stabilità e del principio di equilibrio (sentenze n. 60 del 2013 e n. 179 del 2007). Cionondimeno, essi non impongono nella discrezionalità propria della particolare autonomia di cui sono dotati gli enti territoriali destinatari, ma sono mirati unicamente a garantire la sana gestione finanziaria, prevenendo o contrastando pratiche non conformi ai richiamati principi costituzionali.

 

Riguardo alla materia forme associative dei comuni, la giurisprudenza costituzionale, in una prima fase, ha ritenuto illegittime le disposizioni ordinamentali dettate dal legislatore statale, ritenendo la materia riconducibile alla competenza legislativa residuale regionale (sentenze n. 244 e n. 456 del 2005; n. 397 del 2006).

In particolare, la giurisprudenza costituzionale in tema di forme associative di enti locali ha riguardato, in un primo momento, soprattutto le comunità montane, qualificandole come «un caso speciale di unioni di Comuni, create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, “funzioni proprie”, “funzioni conferite” e funzioni comunali».

Al contempo, la Corte, intervenendo sempre con riferimento alla forma associativa delle comunità montane, ha evidenziato come il richiamo alla competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. sia, in tale ambito, inconferente, giacché le stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost, che reca un elenco che “deve ritenersi tassativo” (sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del 2006, n. 456 del 2005 e n. 244 del 2005). L'art. 114 Cost. non contempla inoltre – ha evidenziato la Corte - le comunità montane tra i soggetti di autonomia destinatari del precetto in esso contenuto e non è possibile delineare, a livello costituzionale, alcuna equiordinazione tra comuni e comunità montane.

Riguardo a tale ambito competenziale, la Corte ha altresì evidenziato (sentenza n. 220 del 2013) come la lettera p) indichi le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali.

La Corte, ha, inoltre, ritenuto (sentenze n. 237 del 2009 e n. 456 del 2005) che, riguardo alle comunità montane, non possono venire in rilievo neppure i principi fondamentali desumibili dal Testo unico sugli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 2000) e, dunque, non può trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 117, terzo comma, ultima parte, Cost., «la quale presuppone, invece, che si verta nelle materie di legislazione concorrente».

In una seconda fase (da ultimo con le sentenze n. 22 e n. 44 del 2014) la Corte costituzionale, pur mantenendo immutato il titolo competenziale di riferimento, ha ritenuto ammissibile un intervento del legislatore statale in forza della competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 151 del 2012, n. 91 del 2011, n. 326 del 2010, n. 27 del 2010 e n. 237 del 2009), legittimando peraltro anche interventi di natura ordinamentale, tra cui quelli volti ad individuare nel dettaglio gli organi dell’unione e le modalità della loro costituzione. La Corte ha, in particolare, ritenuto che, di fronte a disposizioni orientate finalisticamente al contenimento della spesa pubblica, poste in un provvedimento di riesame delle condizioni di spesa e con contenuto armonici rispetto all’impianto complessivo della rimodulazione delle unioni dei comuni, operi il titolo legittimante della competenza in materia di “coordinamento della finanza pubblica” esercitata dallo Stato attraverso previsioni che si configurano come principi fondamentali e che non si esauriscono in una disciplina di mero dettaglio.

Sulla base di queste argomentazioni, la sentenza n. 22 del 2014 ha dunque ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale riferite ad una normativa in materia di unione di comuni che disciplinava aspetti ordinamentali quali gli organi, lo statuto, le funzioni, in quanto finalisticamente orientata al contenimento della spesa pubblica (nello stesso senso, anche sentenza n. 44/2014).

La Corte ha infatti confermato l’impostazione (ex multis, sentenze n. 236 del 2013, n. 193 del 2012, n. 151 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297 del 2009) in base alla quale il legislatore statale può, con una disciplina di principio, imporre vincoli alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari o dalle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali. Vincoli che possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscano un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.

Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto le norme riguardanti l’unione dei comuni (in particolare, sull’«unione di comuni montani», sulla possibilità per ciascun comune di partecipare ad una sola unione e per le unioni di Comuni di stipulare apposite convenzioni tra loro o con singoli Comuni, sugli organi dell’unione e sulle modalità della loro costituzione; sulle previsioni dello statuto riguardo l’individuazione delle funzioni svolte dall’unione e le corrispondenti risorse; su nuovi vincoli in materia di spesa di personale), “decisamente orientate ad un contenimento della spesa pubblica”. Ciò in quanto creano un “sistema tendenzialmente virtuoso di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni”, che mira ad un risparmio di spesa sia sul piano dell’organizzazione “amministrativa”, sia su quello dell’organizzazione “politica”, lasciando comunque alle Regioni l’esercizio contiguo della competenza materiale ad esse costituzionalmente garantita, senza, peraltro, incidere in alcun modo sulla riserva del comma quarto dell’art. 23 Cost. In definitiva, ha ritenuto si trattasse di un legittimo esercizio della potestà statale concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.

 

 

 


Ambiente ed ecosistema

Assetto delle competenze e questioni principali

Con riferimento al riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni in materia di ambiente, il legislatore costituzionale ha distinto fra la legislazione in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117, secondo comma, lett. s)), riservata alla competenza esclusiva dello Stato, e la legislazione finalizzata alla valorizzazione dei beni ambientali, rientrante nella competenza concorrente di Stato e regioni di cui al comma terzo dell’art. 117 della Costituzione.

 

 

 

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La tutela dell’ambiente costituisce una materia estremamente rilevante, che è stata oggetto di una copiosa giurisprudenza costituzionale.

La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che "non si può discutere di materia in senso tecnico, perché la tutela ambientale è da intendere come valore costituzionalmente protetto, che in quanto tale delinea una sorta di «materia trasversale», in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, fermo restando che allo Stato spettano le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale" (ex multis: sentenze n. 278/2012, n. 171/2012, n. 20/2012, n. 235/2011, n. 191/2011, n. 225/2009, n. 12/2009, n. 378/2007);

Nella sentenza n. 225/2009, (e analogamente, ex plurimis, nelle sentenze nn. 12/2009, 30/2009, 61/2009, 164/2009, 220/2009, 249/2009, 315/2009) che la «tutela dell’ambiente» ha un contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene, l’ambiente, e finalistico, perché tende alla migliore conservazione del bene stesso e si pone in evidenza un dato di rilevante importanza: sullo stesso bene (l’ambiente) concorronodiverse competenze, le quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline.

Dunque, la competenza statale, quando è espressione della tutela dell’ambiente, costituisce "limite" all’esercizio delle competenze regionali, anche in altri ambiti materiali. Le Regioni, nell’esercizio delle loro competenze, debbono dunque rispettare la normativa statale di tutela dell’ambiente, ma possono stabilire per il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze (in materia di tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione dei beni ambientali, etc.) livelli di tutela più elevati.

La sentenza n. 58 del 2013 ha ribadito che «interventi specifici del legislatore regionale sono ammessi nei soli casi in cui essi, pur intercettando gli interessi ambientali, risultano espressivi di una competenza propria della Regione (sentenza n. 398 del 2006)»; ed «è consentito alla legge regionale incrementare gli standard di tutela dell’ambiente, quando essa costituisce esercizio di una competenza legislativa della Regione e non compromette un punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 66 del 2012, n. 225 del 2009, n. 398 del 2006, n. 407 del 2002)».

La tutela del paesaggio come valore primario, nonché assoluto, cioè insuscettibile di essere subordinato a qualunque altro valore, è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 367/2007).

La Corte ha ricompreso la tutela del paesaggio nell’ambito della tutela dell’ambiente attribuendola alla competenza esclusiva dello Stato. Ne consegue che, anche in materia di tutela del paesaggio, la disciplina statale costituisce un limite minimo di tutela non derogabile dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale, e dalle Province autonome (sentenza n. 101/2010).

Relativamente al rapporto tra i vari interessi pubblici gravanti sul territorio, la Corte ha affermato che la tutela paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali (sentenza n. 367 del 2007).

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Per quanto riguarda la competenza in materia, essa rimane nell’ambito della potestà legislativa esclusiva statale, ma muta denominazione da tutela dell’ambiente e dell’ecosistema ad ambiente ed ecosistema (art. 117, secondo comma, lett. s)). Inoltre:

·       viene esplicitata tra le materie statali la potestà legislativa esclusiva sulla tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici;

·       è attribuita alla competenza regionale la disciplina, per quanto di interesse regionale, della promozione dei beni ambientali e paesaggistici.

 

Giurisprudenza costituzionale

Dopo la riforma del 2001, la giurisprudenza costituzionale si è occupata in più occasioni della tutela dell’ambiente.

Nella sentenza n. 407 del 2002, la Corte ha affermato una serie di importanti principi. In particolare, la Corte, nel precisare che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell'art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come "materie" in senso stretto - poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie (cfr. sentenza n. 282 del 2002) – ha sottolineato che l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come tutela dell'ambiente, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. La Corte precisa che dalla giurisprudenza  della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come “valore” costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998). Alla luce del quadro delineato, allo Stato, pertanto, spetta il potere di fissare standard di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. Quanto affermato nella sentenza n. 407 viene successivamente ripreso in molte sentenze (ex plurimis, sentenze n. 307 del 2003, n. 232 del 2005, n. 398 del 2006).

Nella sentenza n. 378/2007 la Corte parte dalla considerazione che sovente l'ambiente è stato considerato come “bene immateriale”. Sennonché, quando si guarda all'ambiente come ad una “materia” di riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti. Oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via. Occorre, in altri termini, guardare all'ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto. La Corte, nell’enfatizzare anche l’importanza della parola “ecosistema” che la norma costituzionale pone accanto alla parola “ambiente”, svolge ulteriori considerazioni sul carattere unitario dell’ambiente rilevando che spetta allo Stato disciplinare l'ambiente come una entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto. Ed è da notare, a questo proposito, che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario (sentenza n. 151 del 1986) ed assoluto (sentenza n. 210 del 1987), e deve garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore. La Corte sottolinea, tuttavia, che, accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possono coesistere altri beni giuridici, aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi giuridicamente tutelati. Si parla, in proposito, dell'ambiente come “materia trasversale”, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell'ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni. In questi casi, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi. Ciò comporta che la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, investendo l'ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato.

Nella sentenza n. 225 del 2009, la Corte rileva come sullo stesso bene (l'ambiente) “concorrano” diverse competenze, le quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline: da una parte, sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell'ambiente, mediante la fissazione di livelli «adeguati e non riducibili di tutela» (sentenza n. 61 del 2009) e, dall'altra, compete alle regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell'ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell'ambiente stesso. In relazione a tale “concorso” di competenze – continua la Corte nella sentenza n. 225 del 2009 – “può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela dell'ambiente, costituisce “limite” all'esercizio delle competenze regionali”.

La Regione, pertanto, non può prevedere soglie di tutela inferiori a quelle dettate dallo Stato, mentre può, nell’esercizio di una sua diversa potestà legislativa, prevedere eventualmente livelli maggiori di tutela, che presuppongono logicamente il rispetto degli standard adeguati ed uniformi fissati nelle leggi statali (sentenza n. 263 del 2011 e 315 del 2010; v. anche sentenze n. 193 del 2010 e n. 61 del 2009).

Nelle sentenze n. 58 del 2013 e n. 145 del 2013 è stato ribadito il principio in base al quale “è consentito alla legge regionale incrementare gli standard di tutela dell’ambiente, quando essa costituisce esercizio di una competenza legislativa della Regione e non compromette un punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato”.

 

Per quanto riguarda l’individuazione della materia relativa alla tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici, occorre ricordare che l’art. 9 della Costituzione, nell’ambito dei principi fondamentali della Costituzione, affida alla Repubblica il compito di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, erigendo quindi “il valore estetico-culturale riferito (anche) alla forma del territorio a valore primario dell’ordinamento” (sentenza n. 359/1985).

La qualifica della tutela del paesaggio come valore primario, nonché assoluto, cioè insuscettibile di essere subordinato a qualunque altro valore, è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza costituzionale.

Merita in proposito riportare di seguito il contenuto del settimo considerato in diritto della sentenza n. 367/2007 della Corte (la quale ha rappresentato anche un punto di partenza per la riformulazione, operata dal D.lgs. n. 63/2008, della definizione di paesaggio introdotta nella legislazione statale dall’art. 131 del D.Lgs. n. 42/2004): «come si è venuto progressivamente chiarendo già prima della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, il concetto di paesaggio indica, innanzitutto, la morfologia del territorio, riguarda cioè l'ambiente nel suo aspetto visivo. Ed è per questo che l'art. 9 della Costituzione ha sancito il principio fondamentale della “tutela del paesaggio” senza alcun'altra specificazione. In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale. Si tratta peraltro di un valore “primario”, come ha già da tempo precisato questa Corte (sentenza n. 151 del 1986; ma si vedano anche sentenze n. 182 e n. 183 del 2006), ed anche “assoluto”, se si tiene presente che il paesaggio indica essenzialmente l'ambiente (sentenza n. 641 del 1987). L'oggetto tutelato non è il concetto astratto delle “bellezze naturali”, ma l'insieme delle cose, beni materiali, o le loro composizioni, che presentano valore paesaggistico».

Ai fini dell’individuazione del soggetto territorialmente competente, la medesima giurisprudenza ritiene che la tutela del paesaggio debba essere ricompresa nell’ambito della tutela dell’ambiente, che la lettera s) del secondo comma dell’art. 117 Cost. attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, cosicché il potere centrale gode di una sfera di competenza legislativa capace di imporsi anche sulla disciplina dettata dalle regioni nelle materie di propria competenza, garantendo in questo modo una protezione unitaria di entrambi i principi (cfr. sentenza n. 51/2006).

Ne consegue che in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio, la disciplina statale costituisce un limite minimo di tutela non derogabile dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale, e dalle Province autonome (sentenza n. 101/2010 e, in precedenza, sentenze n. 272 del 2009 e n. 378 del 2007).

In un siffatto contesto, la Corte ha altresì puntualizzato (con la sentenza n. 226 del 2009) che il predetto titolo di competenza statale “riverbera i suoi effetti anche quando si tratta di Regioni speciali o di Province autonome, con l'ulteriore precisazione, però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia (sentenza n. 378 del 2007)”.

La Corte si è, infine, interrogata sul rapporto tra i vari interessi pubblici gravanti sul territorio, ossia tra quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. Al riguardo, è stato affermato che la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. In sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni. Secondo la sentenza n. 367/2007 “in sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni. Si tratta di due tipi di tutela, che ben possono essere coordinati fra loro, ma che debbono necessariamente restare distinti”.

Da ultimo, si segnala che con la sentenza n. 66 del 2012 la Corte ha avuto modo di ribadire come la stessa qualificazione di «norma di grande riforma economico-sociale» – che già designava il sistema vincolistico in materia di paesaggio introdotto dalla cosiddetta “legge Galasso” – deve essere mantenuta in riferimento, proprio, all’art. 142 del D.lgs. n. 42 del 2004, la cui elencazione delle aree vincolate per legge rappresenta nella sostanza un continuum rispetto alla precedente disciplina (sentenza n. 164 del 2009). Per altro verso, a sottolineare l’assoluta centralità di tale disciplina – ed il risalto che, sul piano costituzionale, ad essa deve essere effettivamente riconosciuto –, sta anche l’osservazione per la quale, attraverso le disposizioni dettate dal codice dei beni culturali e del paesaggio, proprio laddove hanno reintrodotto la tipologia dei beni paesaggistici e ne hanno operato la relativa ricognizione, si è inteso dare «attuazione al disposto del (citato) articolo 9 della Costituzione, poiché la prima disciplina che esige il principio fondamentale della tutela del paesaggio è quella che concerne la conservazione della morfologia del territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali» (sentenza n. 367 del 2007).

 

 

 


Beni culturali

Assetto delle competenze e questioni principali

Il testo attualmente vigente dell’articolo 117 secondo comma, lett. s), Cost. annovera la tutela dei beni culturali tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre la valorizzazione dei beni culturali rientra tra le materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.

 

 

 

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Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali e alla competenza legislativa concorrente la valorizzazione degli stessi, la Corte costituzionale ha evidenziato che la tutela dei beni culturali e, in generale, lo sviluppo della cultura, corrispondono a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni” (sentenze nn. 478/2002 e 307/2004).

In particolare, la Corte ha evidenziato la possibilità per le regioni di integrare la normativa in materia di tutela dei beni culturali, con misure diverse ed aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale (sentenze nn. 401/2007 e 194/2013).

 

Quadro normativo

Su queste basi, l’art. 4 del D.Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) ha previsto l’attribuzione al Ministero per i beni e le attività culturali delle funzioni di tutela, disponendo che lo stesso le esercita direttamente o ne può conferire l'esercizio alle regioni, tramite forme di intesa e coordinamento. Specifiche previsioni relative alla cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale sono recate dall’art. 5.

L’art. 7 ha, invece, disposto che il codice fissa i principi fondamentali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale – recati dalla Parte Seconda, Titolo II, Capo II (artt. 111-121) –, nel rispetto dei quali le regioni esercitano la potestà legislativa. Ha, inoltre, previsto che il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali perseguono il coordinamento, l'armonizzazione e l'integrazione delle attività di valorizzazione dei beni pubblici.

A sua volta, l’art. 8 ha disposto che nelle materie disciplinate dal codice restano ferme le potestà attribuite alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione.

E’ utile, peraltro, ricordare che l’art. 112 ha disposto che la legislazione regionale disciplina le funzioni e le attività di valorizzazione dei beni di appartenenza pubblica presenti negli “istituti e nei luoghi della cultura”[13] non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità. Pertanto, la potestà legislativa regionale (concorrente) risulta non solo condizionata dal rispetto dei principi fondamentali posti dalla legge dello Stato, ma anche limitata in relazione ai beni.

Lo stesso art. 112 ha, altresì, previsto che possono essere definiti accordi tra lo Stato – per il tramite del Ministero – le regioni e gli altri enti pubblici territoriali per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi, relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica. In assenza degli accordi, ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità[14].

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il nuovo articolo 117 della Costituzione attribuisce:

·       allo Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia tutela e valorizzazione dei beni culturali (secondo comma, lett. s));

·       alle regioni la competenza legislativa, per la disciplina, per quanto di interesse regionale, della promozione dei beni culturali.

 

Giurisprudenza costituzionale

Con riferimento al riparto di competenze sopra delineato, con la sentenza n. 9/2004 la Corte Costituzionale, evidenziato, in via preliminare, che “la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono state considerate attività strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili”, ha reso una definizione delle due funzioni:

·       la tutela “è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale”;

·       la valorizzazione “è diretta, soprattutto, alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa”.

Successivamente all’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Corte, nella sentenza n. 232/2005, ha richiamato, ai fini del riparto di competenze, le disposizioni in esso contenute: tale testo legislativo, secondo la Corte, ribadisce l’esigenza dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela dei beni culturali (art. 4, co. 1) e, nel contempo, stabilisce, però, che siano non soltanto lo Stato, ma anche le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni ad assicurare e sostenere la conservazione del patrimonio culturale e a favorirne la pubblica fruizione e la valorizzazione (art. 1, co. 3).

In generale, nelle sentenze nn. 478/2002 e 307/2004 – ripercorrendo quanto già evidenziato, nel contesto del previgente titolo V, parte seconda, della Costituzione, con le sentenze nn. 276 del 1991, 348 del 1990, 562 e 829 del 1988 (esplicitamente citate nella sentenza n. 307/2004) – la Corte ha affermato che lo sviluppo della cultura, nonché – per quanto qui interessa – la tutela dei beni culturali, corrispondono a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni”.

In particolare, nella sentenza n. 401/2007 la Corte ha evidenziato la possibilità per le regioni di integrare la normativa in materia di tutela dei beni culturali, con misure diverse ed aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale.

Tale posizione è stata ripresa nella sentenza n. 194/2013, concernente il giudizio di legittimità costituzionale di parti della legge della regione Lombardia n. 16/2012, Valorizzazione dei reperti mobili e dei cimeli appartenenti a periodi storici diversi dalla prima guerra mondiale. In particolare, la Corte - sottolineato come sia indubitabile che soltanto la disciplina statale possa assicurare, in funzione di tutela (e in considerazione della unitarietà del patrimonio culturale), le misure più adeguate, con la previsione di specifici procedimenti e di dettagliate procedure di ricognizione e di riscontro delle caratteristiche dei beni - ha precisato[15] che la potestà legislativa delle regioni può essere legittimamente esercitata, non in una posizione antagonistica rispetto allo Stato, ma in funzione di salvaguardia diversa ed aggiuntiva, in riferimento a quei beni che non sono qualificati come “culturali” dalla normativa statale ma che possono, invece, presentare un qualche interesse “culturale” in relazione al patrimonio storico e culturale di una determinata comunità regionale o locale.

 

 


Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni

Assetto delle competenze e questioni principali

La materia rapporti internazionali e con lUnione europea delle Regioni rientra tra le materie di competenza concorrente tra Stato e regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma.

 

 

 

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La giurisprudenza costituzionale ha spesso considerato la competenza concorrente in materia di rapporti internazionali e con lUnione europea delle Regioni unitamente alla disposizione dell’art. 117, quinto comma, a mente del quale le Regioni e le Province autonome, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.

Può essere altresì richiamato l’art. 117, nono comma, Cost., secondo il quale nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato.

La sentenza della Corte costituzionale n. 378 del 2007 ha inoltre affermato il principio della unitarietà della rappresentazione della posizione italiana nei confronti dell’Unione europea.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il nuovo articolo 117 della Costituzione non contempla più la competenza concorrente in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni.

 

Giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza costituzionale in materia di “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni” si è soffermata sugli aspetti relativi alla partecipazione delle regioni ai processi decisionali europei e alle iniziative che le regioni hanno provato ad adottare nel campo della cooperazione internazionale.

Secondo la Corte, la disciplina statale delle modalità di partecipazione delle Regioni, sia ordinarie che speciali, alla c.d. «fase ascendente» dei processi decisionali comunitari trova il proprio titolo abilitativo nel quinto comma dell'art. 117 della Costituzione, che istituisce una competenza statale ulteriore e speciale rispetto a quella contemplata dall'art. 117, terzo comma, consistente nel dettare in via esclusiva «norme di procedura» (sentenza n. 239 del 2004).

Inoltre, “in base al principio sancito dai commi terzo e quinto dell'art. 117 della Costituzione - i quali attribuiscono allo Stato la competenza a disciplinare i rapporti delle Regioni e delle Province autonome con l'Unione europea e a definire le procedure di partecipazione delle stesse, nelle materie di loro competenza, alla formazione degli atti comunitari - spetta allo Stato […] il potere di interloquire con la Commissione europea.

La Corte richiama in proposito l'art. 1, comma 5, della legge 8 luglio 1986, n. 349, ribadito dall'art. 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131,che attribuisce al Ministro dell'ambiente il compito di rappresentare l'Italia presso gli organismi della Comunità Europea in materia di ambiente e di patrimonio culturale.

E’ stata conseguentemente dichiarata costituzionalmente illegittima una disposizione legislativa della provincia autonoma di Trento, che attribuisce al Presidente della Giunta la competenza a tenere i “rapporti” con la Commissione europea in relazione alla valutazione di incidenza dei progetti sulle zone speciali di conservazione di piani o progetti non direttamente connessi o necessari alla gestione del sito, non potendo la Provincia autonoma di Trento ascrivere direttamente alla propria competenza il potere di mantenere “rapporti” con l'Unione europea, prescindendo dalle leggi dello Stato (sentenza n. 378/2007).

 

La Corte costituzionale ha altresì censurato le norme regionali che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinare gli obiettivi della cooperazione internazionale e gli interventi di emergenza ed il potere di individuare i destinatari dei benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione, giacché tali norme, implicando l'impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione internazionale, sono riconducibili alla materia politica estera, di competenza esclusiva statale, e non alla materia rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni (sentenza n. 285/2008).

 

 

 


Commercio con l’estero

Assetto delle competenze e questioni principali

Il testo attualmente vigente della Costituzione annovera il commercio con l’estero tra le materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.

 

 

 

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Sulla base di una serie di valutazioni, fondate prevalentemente sulla configurabilità delle misure adottate quali strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo, la giurisprudenza costituzionale, che ha riguardato in poche occasioni la materia “commercio con l’estero”, ha ricondotto alcune disposizioni sulla tutela del made in Italy (in particolare, con riguardo a norme riguardanti fondi) nell’alveo della materia “tutela della concorrenza”, di pertinenza statale piuttosto che in quella del commercio con l’estero, di competenza concorrente tra lo Stato e le regioni nel testo vigente dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 175 del 2005). La Corte ha evidenziato che la circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie come non la comporterebbe, ad esempio, con il commercio con l’estero un intervento statale in tema di “dogane” o di “rapporti internazionali”.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia commercio con l’estero, attualmente di competenza concorrente, transita tra le materie di competenza esclusiva statale, ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. q)).

 

Giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza costituzionale sulla materia commercio con l’estero ha riguardato soprattutto i profili attinenti alla tutela del made in Italy, ambito materiale che è stato prevalentemente ricondotto dalla Corte costituzionale, sulla base di una serie di valutazioni, sviluppate in modo particolare nella sentenza n. 175 del 2005, nell’alveo della tutela della concorrenza, di pertinenza statale.

In particolare, con la suddetta sentenza, intervenendo sulle disposizioni di cui all'art. 4, commi 61 e 63, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Fondo per il sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del "made in Italy"), la Corte costituzionale ha osservato che il carattere asseritamente modesto dal punto di vista finanziario dell’intervento non è certamente decisivo per escludere la sua riconducibilità alla materia della tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ma può, al più, costituire un indizio in tale senso: ed infatti la Corte ha, in altra occasione, sottolineato che «proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico […] ma anche in quell’accezione dinamica […] che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenza n. 14 del 2004).

Di conseguenza, la Corte ha in più occasioni precisato (sentenza n. 272 del 2004) che «non spetta ad essa valutare in concreto la rilevanza degli effetti economici derivanti dalle singole previsioni di interventi statali […] stabilire, cioè, se una determinata regolazione abbia effetti così importanti sull’economia di mercato […] tali da trascendere l’ambito regionale […] ma solo che i vari strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi».

In sintesi, la Corte ha evidenziato come le scelte del legislatore sono, sotto tale profilo, censurabili solo quando «i loro presupposti siano manifestamente irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi» (sentenza n. 14 del 2004) e, pertanto, «il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla “tutela della concorrenza” e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali» (sentenza n. 272 del 2004). La norma in questione è stata dunque ritenuta per la sua natura, un “ragionevole e proporzionato” intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio “made in Italy”, un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità: ad avviso della Corte, dunque, dove è evidente la presenza di un rapporto, che certamente non può ritenersi irragionevole (e, tanto meno, manifestamente irragionevole), tra lo strumento impiegato e l’obiettivo (di sviluppo economico del Paese) che si è prefisso il legislatore statale, così come è evidente che sussiste il requisito dell’adeguatezza per ciò solo che lo strumento impiegato, per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo (sentenza n. 303 del 2003).

La Corte costituzionale ha quindi precisato, con riguardo al caso di specie, che seppure il comma 61 dell’art. 4 mira dichiaratamente alla diffusione all’estero nei mercati mediterranei, dell’Europa continentale e orientale del “made in Italy”, tale previsione, lungi dall’implicare la riconducibilità alla ovvero una commistione con la materia del commercio con l’estero, esprime soltanto l’auspicata ripercussione sul commercio con l’estero dell’intervento statale volto alla diffusione di un’idea di qualità dei prodotti (in generale) di origine italiana. La circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie come non la comporterebbe, ad esempio, con il commercio con l’estero un intervento statale in tema di “dogane” o di “rapporti internazionali”.

Sotto altro profilo, con la sentenza n. 454 del 2007 la Corte Costituzionale ha stabilito che non è illegittima la norma regionale che attribuisce alla Regione le funzioni concernenti «l'organizzazione e il coordinamento delle attività delle imprese che partecipano in Italia e all'estero a manifestazioni fieristiche, incontri operativi di commercializzazione, sondaggi di mercato, anche in collaborazione con l'Istituto per il commercio con l'estero (ICE), l'Agenzia nazionale del turismo, altri enti pubblici, i sistemi turistici locali, agenzie, aziende e le associazioni di categoria rappresentative del settore turistico». Tale disposizione, prevedendo una mera facoltà e non già un obbligo di collaborazione, esclude che il coinvolgimento di organi statali in tale attività regionale sia imposto unilateralmente dalla Regione e non determina quindi alcuna alterazione delle ordinarie attribuzioni che i diversi organi sono chiamati a svolgere in seno agli enti di appartenenza.

 

 

 

 


Tutela e sicurezza del lavoro

Assetto delle competenze e questioni principali

La riforma del Titolo V ha inserito la materia della tutela e sicurezza del lavoro tra gli ambiti di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

 

 

 

lente

 

 

Fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2008 (Testo unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro), la giurisprudenza della Corte costituzionale è stata impegnata a dipanare le difficoltà connesse alla ripartizione di competenze tra Stato e regioni, determinata dal fatto che alcuni aspetti della materia tutela e sicurezza del lavoro possono, direttamente o indirettamente, essere ricondotti alla potestà esclusiva dello Stato.. In linea generale, la giurisprudenza costituzionale distingue gli aspetti riconducibili alla materia “ordinamento civile” (come quelli inerenti alla disciplina del contratto di lavoro e al diritto sindacale), oggetto di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.), da quelli relativi alle materie “tutela e sicurezza del lavoro”, rientranti nella competenza legislativa concorrente.

A seguito della sistemazione normativa realizzata con il testo unico, il contenzioso costituzionale è stato efficacemente prevenuto grazie alla traduzione normativa del principio di “leale collaborazione” tra Stato e regioni (nel frattempo affermatosi nel quadro della complessiva giurisprudenza formatasi a seguito della legge costituzionale 3/2001 di riforma del titolo V), che ha indotto il legislatore, consapevole dell’esistenza di un’interferenza di competenze tale da non poter consentire l’assegnazione della materia all’uno o all’altro titolo competenziale, a prevedere un ampio ricorso alla contrattazione dei contenuti normativi in sede di Conferenza Stato-regioni.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia tutela e sicurezza del lavoro passa dalla competenza concorrente alla competenza esclusiva statale, limitatamente alle disposizioni generali e comuni, ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. m).

 

Giurisprudenza costituzionale

Nell’ambito della materia del lavoro, la giurisprudenza costituzionale distingue gli aspetti riconducibili alla materia ordinamento civile (come quelli inerenti alla disciplina del contratto di lavoro e al diritto sindacale), oggetto di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.), da quelli relativi alle materie tutela e sicurezza del lavoro, rientranti nella competenza legislativa concorrente. In questo quadro si collocano le sentenze della Corte costituzionale n. 359 del 2003 e nn. 50 e 384 del 2005.

La sentenza n. 359 del 2003 rappresenta il primo intervento della Corte costituzionale in tema di lavoro dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e per prima pone in luce come uno stesso aspetto in materia di lavoro possa essere ricondotto, a seconda del profilo che si considera, nell’ambito della competenza esclusiva statale o di quella concorrente. La richiamata sentenza ha avuto ad oggetto un legge regionale in materia di mobbing (L.R. Lazio 16/2002), adottata in mancanza di una qualsiasi disciplina statale della materia. In tale occasione, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge, la Corte ha operato una distinzione, osservando che “la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell' “ordinamento civile” (materia che l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, riserva alla competenza esclusiva statale) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione). Per altro verso, tuttavia, con riguardo all'incidenza che gli atti vessatori possono avere sulla salute fisica (malattie psicosomatiche) e psichica del lavoratore (disturbi dell'umore, patologie gravi), la disciplina che tali conseguenze considera rientra nella “tutela e sicurezza del lavoro”, nonché nella “tutela della salute”, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire (entrambe materie di potestà concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione).

Le sentenze nn. 50 e 384 del 2005, intervenendo sulla riforma del mercato del lavoro operata dal D.Lgs. 276/2003 (c.d. riforma Biagi), hanno ulteriormente sviluppato il quadro definitorio della materia tutela e sicurezza del lavoro, confermando che la sua estensione viene limitata dal concorrere di altre disposizioni che definiscono le relazioni tra Stato e regioni, previste dal secondo comma dell’art. 117 (e, quindi, di competenza statale esclusiva).

Nella sentenza n. 50 del 2005, la Corte ha chiarito, innanzitutto, che, a prescindere da quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia tutela e sicurezza del lavoro, non si dubita che in essa rientri la disciplina dei servizi per l’impiego e, in particolare, quella del collocamento. Occorre però aggiungere che, essendo i servizi per l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti per l’esercizio della potestà statale di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la “tutela della concorrenza” (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.).

Nella sentenza n. 384 del 2005 la Corte ha evidenziato il principio secondo cui la vigilanza sul lavoro non rientra nella materia di potestà concorrente della tutela e sicurezza del lavoro, ma deve essere connotata, di volta in volta, in relazione al suo oggetto specifico: su questa base, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della L. 30/2003, il quale delega, tra l’altro, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto della disciplina vigente sulle ispezioni in materia di previdenza sociale e di lavoro. Ha dichiarato, invece, costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 1, ultimo periodo, del D.Lgs. 124/2004, nella parte in cui non prevedeva che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali concernente le modalità di attuazione e funzionamento della banca dati che raccoglie le informazioni concernenti i datori di lavoro ispezionati, dovesse adottarsi previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (sentenza recepita dalla nuova formulazione del suddetto comma operata dall’art. 36-bis, c. 10, del D.L. 223/2006).

Infine, per quanto concerne il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), con cui l’intera materia ha trovato una compiuta sistemazione normativa, si ricorda che il contenzioso costituzionale è stato efficacemente prevenuto grazie alla traduzione normativa del principio di “leale collaborazione” tra Stato e regioni (nel frattempo affermatosi nel quadro della complessiva giurisprudenza formatasi a seguito della Legge costituzionale 3/2001 di riforma del titolo V), che ha indotto il legislatore, consapevole dell’esistenza di un’interferenza di competenze tale da non poter consentire l’assegnazione della materia all’uno o all’altro titolo competenziale, a prevedere un ampio ricorso alla contrattazione dei contenuti normativi in sede di Conferenza Stato-regioni, con particolare riferimento alla fase attuativa della delega legislativa.

 

 

 

 


Professioni

Assetto delle competenze e questioni principali

La riforma del Titolo V ha inserito la materia delle professioni tra gli ambiti di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.

 

 

 

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Con riferimento alla materia professioni, la Corte costituzionale, con costante giurisprudenza, ha riconosciuto che per i profili ordinamentali che non hanno uno specifico collegamento con la realtà regionale si giustifica una uniforme regolamentazione sul piano nazionale. Per la Corte, l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato. Non è dunque nei poteri delle Regioni dare vita a nuove figure professionali e l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale.

Sempre per la Corte, ulteriori profili attinenti alla legislazione sulle professioni sono invece riconducibili alla materia “tutela della concorrenza”, di competenza legislativa esclusiva statale. Ad esempio è stata censurata una legge regionale laddove essa prevede l'obbligo - da parte di professionisti provenienti da altre regioni - di applicare tariffe determinate a livello regionale, ostacolando la competitività tra gli operatori. Peraltro, la legge regionale che comporta l'obbligo di iscrizione nell'albo della regione in cui si intende esercitare una determinata professione non prevede un obbligo di sostenere nuovamente le prove di abilitazione necessarie e dunque non configura un intralcio al libero regime concorrenziale.

 

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia professioni viene ascritta nel nuovo art. 117, secondo comma, lett. t), alla competenza esclusiva statale come ordinamento delle professioni.

 

Giurisprudenza costituzionale

Con riferimento alla materia delle professioni, posta tra le materie di legislazione concorrente dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, la Corte costituzionale, con costante giurisprudenza, ha riconosciuto che per i profili ordinamentali che non hanno uno specifico collegamento con la realtà regionale - da cui la Corte fa derivare la natura concorrente - si giustifica una uniforme regolamentazione sul piano nazionale. Ad esempio, sulla base di considerazioni di tale tenore, la Corte, con sentenza n. 98/2013 (richiamata poi anche dalla sentenza n. 178/2014), ha censurato una legge regionale recante definizione delle attività di alcune figure professionali, in quanto “la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato”. La Corte, nella citata pronuncia, conferma come la competenza delle Regioni debba limitarsi “alla disciplina di quegli aspetti che presentino uno specifico collegamento con la realtà regionale: tale principio [...] si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale, da ciò derivando che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali”. Sulla medesima linea argomentativa si muovono anche pronunce meno recenti, come le sentenze n. 131/2010, n. 300/2010 e n. 138/2009. Quest'ultima, inoltre, richiama numerosi precedenti: le sentenze n. 153/2006, e, ex plurimis, n. 57/2007, n. 424/2006; le sentenze n. 179/2008 e n. 300/2007 (sotto il particolare profilo del divieto delle Regioni di dare vita a nuove figure professionali); le sentenze n. 93/2008, n. 57/2007 e n. 355/2005 (nelle quali in particolare si chiarisce che l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale); la sentenza n. 222/2008, nella quale si chiarisce che il settore cui la professione è riconducibile non rileva ai fini dell'attribuzione della competenza della determinazione dei principi fondamentali della relativa disciplina spetti sempre allo Stato.

Di particolare interesse possono essere gli ulteriori profili nella legislazione sulle professioni che sono invece riconducibili alla materia tutela della concorrenza. Ad esempio, nella sentenza n. 219/2012 la Corte censura una legge regionale laddove essa prevede l'obbligo - da parte di professionisti provenienti da altre regioni - di applicare tariffe determinate a livello regionale, ostacolando la competitività tra gli operatori e invadendo l'ambito della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza riservata allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. D'altra parte la sentenza n. 282/2013 ha stabilito che la legge regionale che comporta l'obbligo di iscrizione nell'albo della regione in cui si intende esercitare una determinata professione, non viola la competenza statale in materia in quanto non prevede un obbligo di sostenere nuovamente le prove di abilitazione necessarie e dunque non configura un intralcio al libero regime concorrenziale.

 

 

 


Ricerca scientifica e tecnologica

Assetto delle competenze e questioni principali

L’articolo 117, terzo comma, nel testo attualmente vigente, include la materia ricerca scientifica e tecnologica fra quelle di competenza concorrente.

 

 

 

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Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato la ricerca scientifica e tecnologica alla competenza legislativa concorrente, la Corte costituzionale ha dapprima evidenziato che “la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una ‘materia’, ma anche un ‘valore’ costituzionalmente protetto (artt. 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati” (sentenze nn. 423/2004 e 31/2005).

Successivamente, la Corte ha evidenziato che, qualora la ricerca verta su materie di competenza esclusiva statale, a queste occorre riferirsi per stabilire la competenza legislativa. In buona sostanza la ricerca scientifica, qualora si delimiti l’area su cui verte e si individuino le finalità perseguite, riceve da queste la propria connotazione (sentenza n. 133/2006).

 

Quadro normativo

Il D.Lgs. 204/1998 ha stabilito, all'art. 1, che il Governo, nel Documento di economia e finanza (DEF), determina gli indirizzi e le priorità strategiche per gli interventi a favore della ricerca scientifica e tecnologica, definendo il quadro delle risorse finanziarie da attivare e assicurando il coordinamento con le altre politiche nazionali.

Sulla base degli indirizzi citati, nonché di altri elementi - risoluzioni parlamentari di approvazione del DEF, direttive del Presidente del Consiglio, proposte delle amministrazioni statali - è predisposto, approvato e aggiornato annualmente dal CIPE (le cui funzioni in materia sono coordinate dal MIUR) il Programma nazionale per la ricerca (PNR), di durata triennale[16], che definisce gli obiettivi generali e le modalità di realizzazione degli interventi.

Da ultimo, l'art. 5 del D.Lgs. 213/2009 ha disposto che, in conformità alle linee guida enunciate nel PNR, i consigli di amministrazione degli enti di ricerca vigilati dal MIUR, previo parere dei rispettivi consigli scientifici, adottano un piano triennale di attività (PTA), aggiornato annualmente, ed elaborano un documento di visione strategica decennale. Il piano è valutato e approvato dal MIUR, anche ai fini della identificazione e dello sviluppo degli obiettivi generali di sistema, del coordinamento dei PTA dei diversi enti di ricerca, nonché del riparto del fondo ordinario per il finanziamento degli enti di ricerca (di cui al citato D.Lgs. 204/1998).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il testo del disegno di legge di riforma assegna alla competenza esclusiva statale la programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica (art. 117, secondo comma, lett. n)).

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale ha evidenziato che “la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una ‘materia’, ma anche un ‘valore’ costituzionalmente protetto (artt. 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati” (sentenza n 423/2004).

Alla luce di tale considerazione, in particolare, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 4, co. 159, della L. 350/2003, che, nel destinare nuove risorse per il triennio 2004-2006 al sostegno e all’ulteriore potenziamento dell'attività di ricerca scientifica e tecnologica, aveva rinviato la determinazione delle misure dei contributi, della tipologia degli interventi ammessi e dei destinatari ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

Infatti, ha ritenuto, anzitutto, che “un intervento ‘autonomo’ statale è ammissibile in relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, sesto comma, Cost.). Detta norma ha, infatti, previsto una ‘riserva di legge’ statale (sentenza n. 383 del 1998), che ricomprende in sé anche quei profili relativi all’attività di ricerca scientifica che si svolge, in particolare, presso le strutture universitarie”.

Inoltre, la Corte ha rilevato che, al di fuori di questo ambito, lo Stato conserva una propria competenza in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un migliore espletamento, sia organizzando direttamente le attività di ricerca, sia promuovendo studi finalizzati.

Infine, ha evidenziato che il legislatore statale può sempre, in caso di potestà legislativa concorrente, non solo fissare i principi fondamentali, ma anche attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio – nel rispetto dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza – mediante una disciplina che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini.

Le medesime argomentazioni sono presenti nella sentenza n. 31/2005, con la quale la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 56 della L. 289/2002, che ha istituito un fondo finalizzato al finanziamento di progetti di ricerca, di rilevante valore scientifico, stabilendo, altresì, che alla sua ripartizione provvede il Presidente del Consiglio dei ministri, con proprio decreto, su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentiti i Ministri dell’economia e delle finanze, della salute e per l’innovazione tecnologica.

Con specifico riferimento all’organizzazione del sistema della ricerca in enti, in dottrina è stata altresì avanzata l’ipotesi che la materia sia riconducibile anche all’ambito dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. g), Cost.

Nella sentenza n. 133/2006, la Corte ha poi evidenziato che la materia “ricerca scientifica” presenta delle peculiarità. In particolare, “alla materia della ricerca scientifica è sotteso un valore la cui promozione può essere perseguita anche con una disciplina che precipuamente concerna materie diverse. E, correlativamente, si è affermato che, qualora la ricerca verta su materie di competenza esclusiva statale, a queste occorra riferirsi per stabilire la competenza legislativa (sentenze n. 423/2004 e n. 31/2005). In buona sostanza la ricerca scientifica, qualora si delimiti l’area su cui verte e si individuino le finalità perseguite, riceve da queste la propria connotazione”.

 

 

 

 

 


Sostegno all’innovazione per i settori produttivi

Assetto delle competenze e questioni principali

La materia sostegno all’innovazione per i settori produttivi, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, è riservata alla potestà legislativa concorrente.

 

 

 

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La Corte costituzionale in diverse sentenze ha ricondotto le disposizioni volte ad accelerare il processo di circolazione della conoscenza ed accrescere la capacità competitiva delle piccole e medie imprese e delle piattaforme industriali a materie spettanti alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (in particolare, alla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi) ed a quella residuale (industria). Nelle stesse occasioni la Corte ha ribadito che anche in tali materie possono esservi quelle “esigenze di carattere unitario” che legittimano l'avocazione in sussidiarietà sia delle funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia della relativa potestà normativa per l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni. Tuttavia l'attrazione al centro delle funzioni amministrative, mediante la “chiamata in sussidiarietà”, richiede, per costante giurisprudenza costituzionale, che l'intervento legislativo preveda forme di leale collaborazione con le Regioni.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il testo del disegno di legge di riforma assegna alla competenza regionale la promozione dello sviluppo economico locale e l’organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese, ai sensi del nuovo terzo comma dell’articolo 117.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale si è pronunciata in merito all’istituzione dell'Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione, (l'art. 1, comma 368, lettera d), numero 4, della legge 23 dicembre 2005, n. 266) strumentale ad «accelerare il processo di circolazione della conoscenza ed accrescere la capacità competitiva delle piccole e medie imprese e delle piattaforme industriali», nonché ad «assistere le piattaforme industriali in ogni fase del percorso di ricerca, applicazione ed ingegnerizzazione di una nuova tecnologia». Riconducendo la relativa disciplina a materie spettanti alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (in particolare, alla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi) ed a quella residuale (industria), la Corte ha ribadito che sussistono quelle “esigenze di carattere unitario” che legittimano l'avocazione in sussidiarietà sia delle funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori (tra le molte, sentenze n. 214 del 2006, n. 383, n. 270, n. 242 del 2005, n. 6 del 2004), sia della relativa potestà normativa per l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni (sentenza n. 285 del 2005), che è stata realizzata con modalità tali da escluderne l'irragionevolezza.

In relazione alla norma concernente l'Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione, l'attrazione appare giustificata dalla considerazione che lo svolgimento dell'attività di promozione dell'integrazione fra il sistema di ricerca ed il sistema produttivo, attraverso la valorizzazione e la diffusione di nuove conoscenze, tecnologie, brevetti ed applicazioni industriali prodotti su scala nazionale ed internazionale presuppone, all'evidenza, un'attività unitaria. In secondo luogo, secondo la corte, la disciplina risulta proporzionata, dato che i compiti affidati all'Agenzia, sono appunto quelli connessi all'esigenza di unitarietà e da questa giustificati, mentre l'approvazione dello statuto da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri evoca un controllo di mera legittimità.

Tuttavia la Corte ribadisce che “l'attrazione al centro delle funzioni amministrative, mediante la “chiamata in sussidiarietà”, benché sia giustificata, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, richiede tuttavia che l'intervento legislativo preveda forme di leale collaborazione con le Regioni (soprattutto sentenza n. 214 del 2006; ma anche sentenze n. 425, n. 406, n. 213 del 2006)”. Non essendo contemplate forme di leale collaborazione con le Regioni nella disposizione oggetto del giudizio di legittimità, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità.

In materia può altresì citarsi la sentenza n. 308 del 2009, nella quale la Corte è chiamata a pronunciarsi sull'art. 4, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, nella parte in cui non prevede il ricorso allo strumento dell'intesa allorché demanda ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, la disciplina delle modalità di costituzione e funzionamento dei fondi che possono essere istituiti per lo sviluppo di programmi di investimento destinati alla realizzazione di iniziative produttive con elevato contenuto di innovazione. Nel caso di specie la Corte ritiene infondata la questione in quanto “la mera previsione della possibilità di istituire fondi di investimento per lo sviluppo di iniziative produttive non è idonea a ledere le competenze regionali neppure sotto il profilo della leale collaborazione, potendo, secondo il principio già affermato da questa Corte, «la lesione derivare non già dall'enunciazione del proposito di destinare risorse per finalità indicate in modo così ampio e generico, bensì (eventualmente) dalle norme nelle quali quel proposito si concretizza, sia per entità delle risorse sia per modalità di intervento sia, ancora, per le materie direttamente e indirettamente implicate da tali interventi» (sentenze n. 453 e n. 141 del 2007)”.


Salute

Assetto delle competenze e questioni principali

L’articolo 117 della Costituzione in tema di salute riserva alla competenza esclusiva del legislatore statale la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ed alla competenza legislativa concorrente la materia tutela della salute.

 

 

 

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Dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato che la materia tutela della salute è “assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” (così, ex plurimis, sentenze n. 270/2005, 181/2006). In essa rientra anche l’organizzazione sanitaria, considerata “parte integrante” della tutela della salute (così espressamente sentenza n. 371/2008): pertanto le Regioni possono legiferare in tema di organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei “principi fondamentali” stabiliti dallo Stato (siano essi formulati in appositi atti legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via interpretativa: così già in sentenza n. 282/2002).

Del resto, l'intreccio e la sovrapposizione di materie, quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela della salute ed il coordinamento della finanza pubblica, (sentenze n. 187/2012, n. 330/2011 e n. 200/2009), fa sì che la disciplina della materia sia interamente improntata al principio di leale cooperazione.

La giurisprudenza costituzionale ha costantemente sottolineato inoltre come l’esigenza di coniugare una necessaria opera di contenimento della spesa deve essere raccordata con la garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il rispetto del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli utenti (sentenze n. 279 del 2006, n. 271 del 2008 e n. 330 del 2011).

La congiuntura economica sfavorevole degli ultimi anni ha orientato sempre più il legislatore nazionale nel senso di scelte volte al contenimento delle spese e alla messa a punto di un sistema in grado, attraverso la standardizzazione dei costi sanitari su scala nazionale, di ridurre le spese del settore.

L’ambito di intervento delle Regioni è stato oggetto più volte di limitazioni da parte del legislatore statale, che può legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il conseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (a partire dalla sentenza n. 36 del 2005, fino alle più recenti sentenze n. 51 del 2013, n. 79 del 2013, n. 104 del 2013, n. 91 del 2012).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia tutela della salute viene così ripartita:

·       le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute spettano alla competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lett. m));

·       la programmazione e organizzazione dei servizi sanitari è ascritta alla competenza regionale (art. 117, terzo comma).

Non è invece oggetto di modifiche la materia determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Costituzione italiana protegge la salute come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività.

In tal senso, il diritto alla salute rientra a pieno titolo nella più ampia categoria dei diritti sociali, la cui tutela impegna tutti i livelli di governo ad assicurare le condizioni minime di salute e il benessere psicofisico dell’individuo.

La legge costituzionale n. 3 del 2001 di modifica del Titolo V ha ridisegnato le competenze di Stato e regioni in campo sanitario ponendo la tutela della salute nell’ambito delle materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni e attribuendo allo Stato la definizione su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

La stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 510/2002 ha sottolineato che "con la riforma del Titolo V il quadro delle competenze è stato profondamente rinnovato e in tale quadro le regioni possono esercitare le attribuzioni, di cui ritengano di essere titolari, approvando [...] una propria disciplina legislativa anche sostitutiva di quella statale".

Infatti, immediatamente dopo la Riforma del Titolo V, molte pronunce della Corte hanno riconosciuto alle regioni la potestà di adottare, in materia sanitaria, una propria disciplina, anche sostitutiva di quella statale. Si vedano in questo senso, le sentenze n. 282 del 2002, la n. 12 del 2004 e la n. 162 del 2004: in quest'ultima, la Corte ha sostenuto che le norme statali che prescrivono la certificazione di idoneità sanitaria per gli addetti alle industrie alimentari, benché non abrogate, potevano essere superate da forme di controllo diverse, e più adeguate, previste dalla legislazione regionale, potendo, il legislatore regionale, effettuare un'analisi della legislazione statale al fine di enucleare i principi fondamentali vigenti.

Una prima indicazione restrittiva in ordine a tale potestà delle regioni è riscontrabile nella sentenza n. 359 del 2003, sul mobbing (già richiamata sub ‘tutela e sicurezza del lavoro): secondo la Corte, la Regione non può esercitare la propria potestà normativa, in quanto l'assenza di principi fondamentali costituirebbe di per sé un fattore idoneo ad impedirne l'esercizio. In tale ottica, la Corte opera l’ampliamento della nozione di "principi fondamentali della materia" proprio con la finalità di garantire una disciplina uniforme, a livello nazionale, della tutela della salute. La salute della persona - afferma la Corte - è un “bene che per sua natura non si presterebbe ad essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali” (sentenza n. 361 del 2003). Sulla base di tale principio, la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità della legge della Regione Piemonte che, in assenza di determinazioni nazionali, incide direttamente sul merito di scelte terapeutiche (sentenza n. 338 del 2003, in tema di lobotomia e terapia elettroconvulsivante, sentenza n. 59 del 2006 in tema di divieto di fumo), fino ad affermare che la competenza regionale nel campo della tutela della salute non può consentire, in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti di una Regione medesima, interventi preclusivi che pregiudichino il medesimo interesse della salute nei territori limitrofi (sentenza n. 62 del 2005 sullo smaltimento di rifiuti radioattivi). In questa ultima sentenza, la compressione della potestà legislativa regionale è stata giustificata, considerando la disciplina statale come ‘punto di equilibrio’ tra contrapposte esigenze: analogo principio è stato enunciato nelle sentenze n. 307 del 2003, n. 331 del 2003 e n. 336 del 2005 (limiti di esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici).

 

Dopo la riforma del Titolo V, la concorrenza tra la competenza residuale regionale in materia di “assistenza ed organizzazione sanitaria” e la competenza concorrente in materia di tutela della salute diviene oggetto di molte controversie, che la Consulta risolve utilizzando il “criterio della prevalenza”, fatto operare in favore della competenza più ampia, ovvero della materia riferibile alla tutela della salute. Sul tema, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato che la materia tutela della salute è “assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” (così, ex plurimis, sentenze nn. 270/2005 e 181/2006), tanto che in essa rientra anche l’organizzazione sanitaria, considerata parte integrante della tutela della salute (così espressamente, sentenza 371/2008): pertanto le Regioni possono legiferare in tema di organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dallo Stato (siano essi formulati in appositi atti legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via interpretativa: così già in sentenza n. 282/2002). Alla luce di ciò, si è precisato che l’organizzazione del servizio sanitario inerisce, invece, ai metodi ed alle prassi di razionale ed efficiente utilizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali destinate a rendere possibile l’erogazione del servizio (sentenza n. 105 del 2007).

Tale orientamento è stato confermato, peraltro, dalla sentenza n. 301 del 2013, in cui si ribadisce che, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la libera professione intramuraria, ascrivibile alla competenza legislativa ripartita in materia di sanità ed assistenza sanitaria ed ospedaliera, si radica nella più ampia materia della tutela della salute, di competenza concorrente[17].

Anche in materia di tutela della salute, la Corte Costituzionale, si è quindi adoperata per distinguere le norme espressione di principi fondamentali dalle norme di dettaglio, attribuendo le prime alla competenza statale e le seconde alla competenza regionale. In tal senso, la sentenza n. 181 del 2006, sottolinea come la norma statale prescriva criteri ed obiettivi, mentre la disposizione regionale individui gli strumenti concreti per raggiungere quegli obiettivi. Pertanto, alla norma statale è lasciata la nomina del direttore di struttura sanitaria in una rosa di candidati, mentre alla norma regionale è dato il compito di giungere alla individuazione, operata da apposita commissione, dei tre candidati. Successivamente con la sentenza 371 del 2008, la Corte ha anche chiarito che “nelle materie di competenza ripartita è da ritenere vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto specifico e dettagliato, è da considerare per la finalità perseguita, in rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione con le norme-principio che connotano il settore”.

 

Sotto un diverso profilo, la Corte ha affrontato il tema della partecipazione delle regioni alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (in ambito sanitario LEA), affermando, con la sentenza n. 88 del 2003, la necessaria partecipazione degli enti territoriali all’individuazione di tali livelli. Successivamente, la sentenza n. 134 del 2006 ha ribadito che lo Stato non può disciplinare i livelli essenziali in violazione del principio di leale collaborazione, sostituendo all'Intesa un mero parere della Conferenza Stato-Regioni. Con la stessa sentenza la Corte si è pronunciata anche sulla determinazione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici di processo e di esito, nonché quantitativi, dei livelli essenziali di assistenza. La Corte definisce tali standard come integrazioni e specificazioni dei livelli essenziali delle prestazioni, e giudica “non definibile, almeno in astratto, un livello di specificazione delle prestazioni che faccia venire meno il requisito della loro essenzialità, essendo questo tipo di valutazioni costituzionalmente affidato proprio al legislatore statale”.

Nella sentenza n. 187/2012, la Corte costituzionale rileva che “la disciplina del settore sanitario, del resto, è interamente improntata al principio di leale cooperazione. A partire dal 2000, lo Stato e le Regioni stipulano particolari intese, denominate «Patti per la salute», volte a garantire l’equilibrio finanziario e i livelli essenziali delle prestazioni per il successivo triennio”.

Per quanto riguarda i LEA aggiuntivi rispetto a quelli fissati a livello nazionale, la giurisprudenza costituzionale ne ha ammesso l’implementazione da parte regionale, purché i LEA aggiuntivi non siano in contrasto con il principio di contenimento della spesa pubblica sanitaria quale principio di coordinamento della finanza pubblica. A questo proposito, la Corte ha rilevato un contrasto tra l’erogazione di prestazioni aggiuntive nelle regioni in disavanzo sottoposte ai Piani di rientro con gli obiettivi di risanamento economico sottesi al Piano di rientro medesimo (sentenza n. 104 del 2013).

 

La disciplina del meccanismo di contribuzione degli assistiti ai costi delle prestazioni sanitarie (cd. ticket) è ascrivibile, secondo la giurisprudenza costituzionale, sia alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, di competenza esclusiva dello Stato, sia alla tutela della salute ed al coordinamento della finanza pubblica, oggetto di competenza concorrente; l'intreccio e la sovrapposizione di materie non consentono di individuare una materia prevalente (sentenze n. 187/2012, n. 330/2011 e n. 200/2009). Ne consegue che in tale ambito lo Stato non può esercitare la potestà regolamentare la quale è ad esso attribuita solo nelle materie nelle quali abbia competenza esclusiva (sentenza n. 187/2012).

La giurisprudenza costituzionale ha sottolineato come l’esigenza di coniugare una necessaria opera di contenimento della spesa deve essere raccordata con la garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il rispetto del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli utenti (in materia di ticket la sentenza n. 279 del 2006, successivamente le sentenze n. 271 del 2008 e n. 330 del 2011).

Secondo la Corte costituzionale, inoltre, “la misura della compartecipazione deve essere omogenea su tutto il territorio nazionale, giacché non sarebbe ammissibile che l’offerta concreta di una prestazione sanitaria rientrante nei LEA si presenti in modo diverso nelle varie Regioni, considerato che dell’offerta concreta fanno parte non solo la qualità e quantità delle prestazioni che devono essere assicurate sul territorio, ma anche le soglie di accesso, dal punto di vista economico, dei cittadini alla loro fruizione” (sentenza n. 187/2012; nello stesso senso, sentenza n. 203 del 2008). E ciò vale anche rispetto alle Regioni a statuto speciale che sostengono il costo dell’assistenza sanitaria nei rispettivi territori, in quanto «la natura stessa dei cosiddetti LEA, che riflettono tutele necessariamente uniformi del bene della salute, impone di riferirne la disciplina normativa anche ai soggetti ad autonomia speciale» (sentenze n. 187/2012 e n. 134 del 2006).

In un caso la Corte ha peraltro ritenuto che l'omogeneità delle forme di compartecipazione alla spesa non è contraddetta da norme che “si limitano a consentire una contenuta variabilità dell'importo del ticket fra Regione e Regione, pur sempre entro una soglia massima fissata dallo Stato” (sentenza n. 341/2009).

 

Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra nella materia della tutela della salute, di competenza concorrente tra Stato e Regioni, l’organizzazione dei servizi farmaceutici (ex multis, sentenze n. 132 del 2013, n. 231 del 2012, n. 150 del 2011, n. 295 del 2009 e n. 87 del 2006).

In particolare, sono stati ritenuti “principi fondamentali” in materia di tutela della salute i criteri di contingentamento delle sedi farmaceutiche e del concorso per la loro assegnazione (sentenze n. 231 del 2012, n. 150 del 2011, n. 295 del 2009, n. 87 del 2006, n. 352 del 1992, n. 177 del 1988), nonché le norme in materia di illeciti amministrativi relativi alla tutela della salute (sentenza n. 361 del 2003). La sentenza n. 132 del 2013 ha ribadito che devono essere considerati “principi fondamentali” la determinazione del livello di governo competente alla individuazione e localizzazione delle sedi farmaceutiche, la individuazione dei requisiti di partecipazione ai concorsi per l’assegnazione delle sedi, la definizione delle fattispecie illecite e delle relative sanzioni nel commercio dei farmaci. Questi criteri sono finalizzati ad assicurare un’adeguata distribuzione dell’assistenza farmaceutica sull’intero territorio nazionale, garantendo, al contempo, che sia mantenuto elevato il livello di qualità dei servizi e che non vi siano aree prive della relativa copertura. Inoltre, l’uniformità di queste norme, soprattutto con riferimento alla definizione delle fattispecie illecite e delle relative sanzioni, mira alla protezione di un bene, quale la salute della persona, “che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali” (sentenze n. 132 del 2013 e n. 361 del 2003)”.

 

Alla materia di competenza concorrente tutela della salute la Corte ha ascritto inoltre il riconoscimento del diritto di scelta dell'assistito tra le strutture sanitarie pubbliche e private, negando la riconducibilità della materia alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”. L'esistenza del diritto di libera scelta si deve accompagnare, a tutela dell'utente, ad una disciplina generale, uniforme in tutto il territorio nazionale, destinata a rendere possibile la verifica degli standard di qualificazione delle strutture, mediante la fissazione di requisiti minimi affinché le stesse siano autorizzate e accreditate (sentenza n. 387 del 2007; nello stesso senso, sentenza n. 132 del 2013).

La giurisprudenza costituzionale ha, in particolare, chiarito come «subito dopo l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario», sicché deve concludersi che «il principio di libera scelta non è assoluto e va contemperato con gli altri interessi costituzionalmente protetti, in considerazione dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore ordinario incontra in relazione alle risorse finanziarie disponibili» (sentenze n. 248 del 2011, n. 94 del 2009, n. 200 e n. 111 del 2005).

 

Più in particolare, si ritiene che le disposizioni legislative statali che prevedono i piani di rientro sanitari nelle regioni in disavanzo, finalizzati a verificare la qualità delle prestazioni ed a raggiungere il riequilibrio dei conti dei servizi sanitari regionali interessati, sono principi fondamentali della materia di coordinamento finanziario. Da ciò consegue che un principio fondamentale in materia concorrente, quale il coordinamento finanziario, incide sull'intero spettro della competenza legislativa regionale in altra materia concorrente, quale la tutela della salute (n. 163 del 2011).

 

 

 

 


Alimentazione

Assetto delle competenze e questioni principali

L’alimentazione rientra tra le materie di competenza legislativa concorrente, nelle quali, in base all’art. 117, terzo comma, Cost., lo Stato detta i principi generali, la cui attuazione è assegnata alle Regioni. Tuttavia, per il rispetto dei vincoli comunitari in materia, divenuti nel corso del tempo sempre più stringenti, le funzioni amministrative sono ripartite, ex art. 118 Cost., tra lo Stato, le regioni e gli enti locali in base ai criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

In questo senso, la disciplina europea ha demandato alle amministrazioni nazionali l’esercizio dei compiti di controllo e sanzionatori previsti dalla normativa, al fine di assicurare il rispetto di obblighi quali quelli di etichettatura, pubblicità e rintracciabilità dell’origine dei prodotti.

 

 

 

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La materia alimentazione è stata oggetto di sentenze della Corte costituzionale solo in casi sporadici e perlopiù in connessione con altre materie, tra le quali dominante risulta il richiamo alla materia della “tutela della salute”.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

A fronte della soppressione della competenza concorrente nella materia alimentazione il nuovo articolo 117, secondo comma, lett. m), ascrive alla competenza esclusiva statale le disposizioni generali e comuni per la sicurezza alimentare.

 

Giurisprudenza costituzionale

Con la sentenza n. 162 del 2004 - in ordine alla legittimità dell’abolizione, in alcune regioni, delle certificazioni di idoneità sanitaria - la Corte ricorda che la legislazione in materia di tutela della disciplina igienica degli alimenti è stata profondamente trasformata dalla adozione di una serie di direttive della Comunità europea, recepite dal legislatore statale, che hanno introdotto modalità diverse di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari, affiancando al previgente sistema, delineato dall’art. 14 della legge 283/1962, un diverso sistema, basato su vasti poteri di controllo e di ispezione, che si riferiscono fra l’altro anche al comportamento igienico del personale che entra in contatto con le sostanze alimentari. Per questo, la legislazione regionale può scegliere fra le diverse possibili modalità date a garanzia dell’igiene degli operatori del settore. Resta invece vincolante a parere della Corte, “l’autentico principio ispiratore della disciplina in esame, ossia il precetto secondo il quale la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri”. La scelta delle Regioni di sopprimere l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, pertanto, non determina di per sé la violazione di tale principio fondamentale, dal momento che le mutate condizioni igieniche e sanitarie dei processi di produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari, discendenti dall’adozione della normativa comunitaria, hanno riformato completamente il settore della tutela dell'igiene dei prodotti alimentari. In conseguenza di ciò, la Corte afferma che le precedenti prescrizioni non possono più considerarsi principi fondamentali della materia “esse, infatti, devono essere ritenute nulla più che semplici modalità nelle quali può essere concretizzato l’autentico principio ispiratore della normativa in esame". La Corte ricorda in sostanza che, “qualora nelle materie di legislazione concorrente i principi fondamentali devono essere ricavati dalle disposizioni legislative statali esistenti, tali principi non devono corrispondere senz’altro alla lettera di queste ultime, dovendo viceversa esserne dedotta la loro sostanziale consistenza  e ciò tanto più in presenza di una legislazione in accentuata evoluzione”[18].

Con la sentenza n. 467 del 2005 la Consulta ha stabilito che, posta la propria competenza legislativa in una determinata materia, la Regione disciplina la stessa con norme cogenti per tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano sul territorio regionale. Poiché le Regioni hanno competenza legislativa concorrente sia in materia di tutela della salute che di alimentazione, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., le leggi dalle stesse validamente emanate, nel rispetto dei princípi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, devono avere effetto nei confronti di tutti i soggetti istituzionali che esercitano potestà amministrative ad esse riconducibili, con possibili riflessi anche sull'organizzazione di queste. È stata conseguentemente dichiarata infondata una questione di costituzionalità relativa ad una disposizione regionale che poneva a carico di tutte le amministrazioni pubbliche l’obbligo di fornire pasti differenziati a soggetti aventi problemi connessi con l’alimentazione.

Nella sentenza n. 104 del 2014, la Corte costituzionale ha esaminato una disciplina regionale relativa all'accesso all'attività commerciale nel settore merceologico alimentare, che prevedeva, diversamente dalla normativa statale, la frequenza di un corso professionale ad hoc ovvero una pregressa specifica esperienza nel settore alimentare ovvero ancora il possesso di un titolo per il cui conseguimento sia previsto lo studio di materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti. Tale disciplina è stata ricondotta alla materia tutela della salute, attribuita alla competenza legislativa concorrente, ponendosi quale misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori e la relativa questione di costituzionalità è stata dichiarata infondata.

 

 

 


Ordinamento sportivo

Assetto delle competenze e questioni principali

La riforma del Titolo V ha inserito la materia ordinamento sportivo tra gli ambiti di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.

 

 

 

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Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, la Corte costituzionale ha chiarito che nell’ambito della materia ordinamento sportivo rientra senza dubbio la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive. Lo Stato deve, perciò, limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali, spettando invece alle regioni la regolamentazione di dettaglio, salvo una diversa allocazione, a livello nazionale, delle funzioni amministrative, per assicurarne l’esercizio unitario, in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 118, primo comma, della Costituzione (sentenza n. 424/2004).

 

Quadro normativo

In materia, è utile rammentare che, ai sensi dell’art. 1 del D.L. 220/2003 (L. 280/2003), la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale.

In particolare, i rapporti tra l'ordinamento sportivo e l'ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo.

L’art. 2 dello stesso D.L. dispone che, in applicazione del principio di autonomia, è riservata all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto:

a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;

b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.

Per completezza, si ricorda che, prima della modifica del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, sancita dalla L. cost. 3/2001, il DPR 616/1977 aveva trasferito alle regioni le funzioni amministrative relative a “turismo ed industria alberghiera”, materia nella quale risultavano esplicitamente incluse la promozione di attività sportive e ricreative e la realizzazione dei relativi impianti ed attrezzature. Tuttavia, aveva tenuto ferme le attribuzioni del CONI riferite all’organizzazione delle attività agonistiche e le relative attività promozionali disponendo, per quanto riguarda gli impianti e le attrezzature, che la regione si doveva avvalere della consulenza tecnica dello stesso CONI (artt. 50 e 56)[19]. Successivamente, l’art. 157 del D.Lgs. 112/1998 aveva trasferito alle regioni le competenze in merito all’approvazione dei programmi relativi alla realizzazione, all’ampliamento e alla ristrutturazione degli impianti sportivi e delle loro pertinenze destinati ad ospitare manifestazioni agonistiche riferite a campionati organizzati secondo criteri di ufficialità.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia ordinamento sportivo passa dalla soppressa competenza concorrente alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi del nuovo articolo 117, secondo comma, lett. s).

 

Giurisprudenza costituzionale

Con sentenza n. 424/2004 la Corte costituzionale, evidenziando che non si può dubitare che la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive rientri nella materia dell’ordinamento sportivo, ha chiarito che “lo Stato deve limitarsi alla determinazione, in materia, dei principi fondamentali, spettando invece alle regioni la regolamentazione di dettaglio, salvo una diversa allocazione, a livello nazionale, delle funzioni amministrative, per assicurarne l’esercizio unitario, in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 118, primo comma, della Costituzione”.

Alla luce di ciò, la Corte ha ritenuto che le disposizioni contenute all’art. 90, commi 24, 25 e 26 della L. 289/2002, che erano state impugnate da parte di alcune regioni, non invadevano le competenze regionali, in quanto recanti principi fondamentali.

In particolare, la Corte ha qualificato principi fondamentali della materia:

-      il co. 24, che assicura la possibilità di utilizzo degli impianti sportivi da parte di tutti i cittadini;

-      il co. 25, che è diretto a garantire che la gestione degli impianti sportivi comunali, quando i Comuni non vi provvedano direttamente, avvenga di preferenza mediante l’attribuzione a determinati organismi sportivi, in via surrogatoria rispetto ai possibili atti di autonomia degli enti locali, e quindi nel rispetto delle scelte appunto autonomistiche degli enti stessi, ai quali è assicurata, in via principale, la possibilità di gestire direttamente gli impianti in questione;

-      il co. 26, teso a favorire la massima fruibilità, da parte delle associazioni sportive dilettantistiche, degli impianti sportivi scolastici, compatibilmente con le esigenze dell'attività della scuola.

Sempre con la sentenza n. 424/2004, invece, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, co. 204, della L. 350/2003, recante un finanziamento finalizzato alla promozione dei programmi dello sport sociale e a favorire lo svolgimento dei compiti istituzionali degli enti di promozione sportiva, in quanto per l’adozione dei criteri di riparto non prevedeva il necessario coinvolgimento delle regioni.

 

Da ultimo, la Corte, con sentenza n. 254/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, co. 1 e 2, del D.L. 83/2012 (L. 134/2012), che aveva previsto l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Fondo per lo sviluppo e la capillare diffusione della pratica sportiva, finalizzato alla realizzazione di nuovi impianti o alla ristrutturazione di quelli già esistenti, disponendo che i criteri per l’erogazione delle risorse fossero definiti con decreto di natura non regolamentare, adottato dal Ministro per gli affari regionali, il turismo e lo sport, di concerto con quello dell’economia e delle finanze, sentiti il CONI e la Conferenza unificata.

In particolare, la Corte ha rilevato che la destinazione del fondo in questione attiene all’ambito materiale di competenza concorrente dell’ordinamento sportivo e ha ribadito che in base all’art. 119 Cost. il legislatore statale non può prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. “Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 168 del 2008, nonché, in termini sostanzialmente coincidenti, ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008, n. 201 del 2007 e n. 118 del 2006). Ciò, in particolare, quando la finalizzazione è, come in questo caso, specifica e puntuale”.

 

 

 

 


Protezione civile

Nel vigente testo costituzionale la protezione civile rientra tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

 

 

 

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Sulla materia protezione civile la giurisprudenza costituzionale ha, da una parte, evidenziato le inestricabili connessioni con la competenza esclusiva statale della tutela dell’ambiente (ex plurimis, sentenza n. 214 del 2005); dall’altra parte, ha ritenuto lo Stato legittimato a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme primarie. La Corte ha infatti ritenuto che le previsioni in materia di stati di emergenza e potere di ordinanza (recate, in particolare, dalla legge 225/1992) sono «espressive di un principio fondamentale della materia della protezione civile, sicché deve ritenersi che esse delimitino il potere normativo regionale» (sentenza n. 284 del 2006).

Riguardo alle questioni attinenti all’edilizia nelle zone sismiche, materia anch’essa riconducibile all’alveo della protezione civile (sentenze n. 101 e n. 300 del 2013), l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo ha chiarito – dichiarando l’illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale – che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 201 del 2012 e n. 254 del 2010) che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio per attingere a valori che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui allo Stato compete la determinazione dei principi fondamentali (sentenza n. 64 del 2013).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia protezione civile è attribuita, nel nuovo art. 117, secondo comma, lett. t), alla competenza esclusiva statale, in cui è peraltro individuata come sistema nazionale e coordinamento della protezione civile.

 

Giurisprudenza costituzionale

In tale materia, merita rilevare quanto affermato nella sentenza n. 32 del 2006 in cui la Corte ha ribadito l'orientamento interpretativo e ricostruttivo sull'identificazione della materia tutela dell'ambiente, che si presenta «sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti» (sentenza n. 214 del 2005), con la conseguenza che essa si connette in modo quasi naturale con la competenza regionale concorrente della «protezione civile».

Riguardo alla disciplina degli stati di emergenza e del potere di ordinanza, con la sentenza n. 284 del 2006, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 14, comma 5, e 33, comma 2, della legge della Regione Calabria 17 agosto 2005, n. 13, che prevedevano, rispettivamente, la sospensione della realizzazione del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, nonché la sospensione della realizzazione e dell’esercizio dell’impianto di smaltimento e stoccaggio di rifiuti solidi urbani sito in Reggio Calabria, frazione di Sambatello, località «Cartiera», in attesa dell’approvazione del nuovo «piano regionale dei rifiuti». La Corte ha ricordato quanto già rilevato in precedenti pronunce, ossia che le previsioni contemplate nell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992 (che disciplina gli stati di emergenza e il potere di ordinanza) e 107 del D.Lgs. n. 112 del 1998 (che elenca le funzioni in materia di protezione civile di competenza statale) sono «espressive di un principio fondamentale della materia della protezione civile, sicché deve ritenersi che esse delimitino il potere normativo regionale, anche sotto il nuovo regime di competenze legislative» delineato dopo il 2001. Nella pronuncia, si sottolinea che lo Stato è, dunque, legittimato a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme primarie. Sulla scorta di quanto sottolineato nella citata pronuncia n. 32 del 2006 (v. anche sentenze n. 214 e n. 135 del 2005; n. 407 del 2002), lo Stato rinviene, altresì, un ulteriore titolo a legiferare in ragione della propria competenza legislativa in materia di “tutela dell’ambiente”, nel cui ambito si colloca il settore relativo alla gestione dei rifiuti, competenza che si connette, tra l’altro, «in modo quasi naturale con la competenza regionale concorrente della protezione civile».

La Corte, inoltre, si è pronunciata più volte sulla materia della “protezione civile” affrontando specifiche questioni riguardanti, tra l’altro, l’edilizia nelle zone sismiche. In tale ambito, la Corte ha sottolineato - con riferimento alla illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale per l’edilizia in zone sismiche – che le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 201 del 2012 e n. 254 del 2010).

In materia edilizia in zona sismica, nella sentenza n. 64 del 2013, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto 24 febbraio 2012, n. 9, che escludeva, per interventi edilizi in zone sismiche la necessità del rilascio delle autorizzazioni dell'ufficio tecnico regionale per «progetti» e «opere di modesta complessità strutturale», privi di rilevanza per la pubblica incolumità, la Corte ha specificato che la disposizione contrasta con l’articolo 94 del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia), il quale prevede che nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. In proposito, la Corte ha ricordato che nella pronuncia n. 182 del 2006 si è affermato che il principio della previa autorizzazione scritta di cui all’art. 94 del D.P.R. n. 380 del 2001 trae «il proprio fondamento dall’intento unificatore del legislatore statale, il quale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».

L’inquadramento degli interventi edilizi nelle zone sismiche nell’ambito della materia della protezione civile è stato, altresì, ribadito con le sentenze n. 101 e n. 300 del 2013. Con quest’ultima pronuncia la Corte ha sottolineato che “il vizio di illegittimità costituzionale si palesa alla luce della risolutiva considerazione che la disposizione impugnata (art. 171 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 26 del 2012, volto ad esentare da taluni adempimenti disciplinati dal T.U. edilizia gli “interventi di limitata importanza statica”) si pone in contrasto con il principio fondamentale che orienta tutta la legislazione statale, che esige una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico”.

La Corte si è infine pronunciata sull’intreccio delle competenze in materie di competenza concorrente e sul coinvolgimento delle Regioni con la sentenza n. 62/2013: in essa, infatti, la Corte ha reputato, tra l’altro, non fondata la questione di legittimità riguardante il comma 7 dell’articolo 53 del decreto legge n. 5 del 2012, che demanda a un decreto interministeriale, da emanare sentita la Conferenza unificata, l’adozione delle norme tecniche-quadro contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia, al fine di adeguare la normativa tecnica vigente agli standard europei e alle più moderne concezioni di realizzazione e impiego degli edifici scolastici. In tale pronuncia, la Corte - dopo aver riconosciuto che nelle norma impugnate «si intersecano più materie, quali il governo del territorio, l’energia e la protezione civile, tutte rientranti nella competenza concorrente Stato-Regioni» – ha ribadito che, «nelle materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio (sentenze n. 265 del 2011, n. 254 del 2010, n. 182 del 2006, nn. 336 e 285 del 2005). In tali casi la disciplina statale costituisce principio generale della materia (sentenze n. 254 del 2010 e n. 182 del 2006)».

Sotto altro profilo, si ricorda che la Corte, con la sentenza n. 22 del 2012 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, nella parte in cui introduceva i commi 5-quater e 5-quinquies, primo periodo, nell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, che delineavano un sistema di finanziamento degli stati di emergenza attribuendo, tra l'altro, alla regione interessata da calamità naturali per le quali fosse deliberato lo stato di emergenza, qualora il bilancio della regione fosse insufficiente a coprire le relative spese, il potere di deliberare aumenti, sino al limite massimo consentito dalla vigente legislazione, delle imposizioni tributarie attribuite alla regione, nonché di elevare la misura dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione. La citata sentenza, oltre a costituire una pronuncia rilevante in tema di decretazione d’urgenza, ha censurato le predette disposizioni in quanto lesive dell’autonomia di entrata delle regioni e, pertanto, contrastanti con l’articolo 119 della Costituzione.

 

 


Governo del territorio

Assetto delle competenze e questioni principali

Nell’assetto costituzionale vigente, la materia governo del territorio è attribuita alla competenza concorrente tra Stato e regioni, di cui all’articolo 117, terzo comma.

 

 

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Il governo del territorio rappresenta una delle più significative materie di legislazione concorrente, su cui la Corte è ripetutamente intervenuta.

Chiarito che il nucleo duro della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia (cfr. ex plurimis, sentenze n. 102 e n. 6 del 2013, n. 309 e n. 192 del 2011; n. 340 del 2009; nonché sentenze n. 303 e n. 362 del 2003), lo sforzo della giurisprudenza è stato quello di delimitare all’interno e all’esterno un materia molto ampia (cfr. sentenze n. 307 del 2003 e n. 196 del 2004), anche alla luce del fatto che alcune materie limitrofe, come porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia sono espressamente previsti quali autonomi titoli di legittimazione legislativa.

Per quanto concerne il contenuto interno, la Corte ha avuto modo di desumere dalla normativa primaria, alla luce del dettato costituzionale, alcuni principi fondamentali interni alla materia (cfr. sentenze n. 309/2011, n. 341 del 2010, n. 340 del 2009, n. 196 del 2004).

Al tempo stesso, dalla giurisprudenza costituzionale è emerso chiaramente come il “governo del territorio” incontri anche numerosi limiti provenienti “dall’esterno”, ossia da altre materie con cui inevitabilmente finisce per intrecciarsi. Ciò, in quanto, l’ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una rilevanza in termini di impatto territoriale va ricercato, non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività (cfr. sentenza n. 383 del 2005).

Di qui una certa difficoltà a tracciare una delimitazione precisa della materia, che spesso si intreccia ad altri ambiti materiali riconducibili a competenze legislative diverse, quali, in particolare, la tutela dell’ambiente, l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, la tutela della salute, l’energia, la protezione civile.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Nel nuovo testo dell’art. 117 – che, come più volte ricordato, elimina la competenza concorrente – sono ascritte alla competenza esclusiva dello Stato le disposizioni generali e comuni sul governo del territorio (art. 117, secondo comma, lett. u)).

Alla competenza delle regioni è invece ricondotta la materia pianificazione del territorio regionale.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale è intervenuta con importanti sentenze per risolvere i problemi interpretativi che si sono posti fin dall’inizio in ordine alla delimitazione della materia governo del territorio.

Il nucleo duro della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e all’edilizia (cfr. sentenze n. 303 e n. 362 del 2003). Al tempo stesso, all’indomani della riforma, la Corte ha messo in evidenza come la materia vada ben oltre questi aspetti, affermando che il governo del territorio “comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti e attività” (cfr. sentenza n. 307 del 2003). L’ampiezza della materia del governo del territorio è stata poi riconosciuta anche nella sentenza n. 196 del 2004, laddove la Corte l’ha ricondotta all’“insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio”.

Più in dettaglio, nel merito della giurisprudenza costituzionale, la Corte ha cercato di desumere dalla normativa primaria, alla luce del dettato costituzionale, i principi fondamentali interni al governo del territorio, risolvendo caso per caso il problema della qualificazione normativa delle singole disposizioni come norme di principio.

Secondo la giurisprudenza, sono da considerarsi principi fondamentali le disposizioni che definiscono le categorie di interventi edilizi perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (sentenza n. 309/2011)[20].

Sono qualificabili come principi anche: l’onerosità del titolo abilitativo (sentenza n. 303 del 2003) la tempestività delle procedure e la riduzione dei termini per l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica (cfr. sentenze n. 129 e n. 265 del 2006); la qualificazione delle infrastrutture di reti di comunicazioni elettroniche come opere di urbanizzazione primaria (sentenza n. 336 del 2005); il principio della distanza minima tra fabbricati fissata con legge statale, fatta salva la derogabilità in presenza di determinate condizioni riferibili all’assetto del territorio (sentenza n. 232 del 2005).

 

Oltre a ritagliare la materia dall’interno per verificare il corretto riparto di potestà legislativa tra Stato e Regione, la Corte ha evidenziato come la materia «governo del territorio» venga in considerazione in numerosi casi, anche incidentalmente, in quanto finisce con il connettersi con altre materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato o con altre materie di potestà concorrente.

Pertanto, la Corte ha respinto la pretesa, spesso avanzata dalle regioni, di utilizzare come autonomo parametro la competenza in tema di «governo del territorio», in relazione a tutte le attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale. Infatti, in tali casi, il parametro deve essere identificato, non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al «governo del territorio» e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati (sentenza n. 383 del 2005). Tali intrecci di competenze sono stati di volta in volta sciolti dalla Corte costituzionale, modellando ulteriormente i profili della materia in esame.

In alcuni casi, la Corte ha valutato l’intreccio tra competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e competenza concorrente in materia di governo del territorio, con riferimento alla possibilità di derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici ed alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile (sentenza n. 114 del 2012).

In più pronunce, la Corte ha affermato che nella disciplina del condono edilizio convergono la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale e la competenza concorrente in tema di governo del territorio (sentenze n. 49 del 2006 e n. 70 del 2005). Ciò comporta che «alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio, certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell’art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante […] di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo» (sentenza n. 196 del 2004).

Un concorso di competenze tra governo del territorio e determinazione dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali viene ravvisato nella disciplina in tema di segnalazione certificata di inizio attività in materia edilizia, che, secondo la Corte, rientra nel «governo del territorio». Tuttavia, a prescindere dal rilievo che in tale materia spetta comunque allo Stato dettare i principî fondamentali, è vero del pari che nel caso di specie il titolo di legittimazione dell’intervento statale nella specifica disciplina della SCIA si ravvisa nell’esigenza di determinare livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, compreso quello delle Regioni a statuto speciale. In altri termini, si è in presenza di un concorso di competenze che vede prevalere la competenza esclusiva dello Stato, essendo essa l’unica in grado di consentire la realizzazione dell’esigenza suddetta (sentenza n. 203 del 2012).

Analogo intreccio di competenze viene ravvisato nella materia dell’edilizia residenziale pubblica, rispetto alla quale la Corte chiarisce che gli spazi normativi coperti dalla potestà legislativa dello Stato sono da una parte la determinazione di quei livelli minimali di fabbisogno abitativo che siano strettamente inerenti al nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana (ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m)) e dall’altra parte la fissazione di principi generali, entro i quali le Regioni possono esercitare validamente la loro competenza a programmare e realizzare in concreto insediamenti di edilizia residenziale pubblica o mediante la costruzione di nuovi alloggi o mediante il recupero e il risanamento di immobili esistenti. L’una e l’altra competenza (la prima ricadente nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, la seconda in quella concorrente del governo del territorio) si integrano e si completano a vicenda, giacché la determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate (sentenze n. 166 del 2008, n. 94 del 2007 e n. 451 del 2006).

Un ulteriore limite esterno al governo del territorio deriva dalla materia della sicurezza di competenza esclusiva statale ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett. h). Ciò in quanto, se nel governo del territorio rientrano gli usi ammissibili del territorio e la localizzazione di impianti o attività, ne restano esclusi i profili legati alla sicurezza degli edifici. Per la Corte, la disciplina degli impianti relativi agli edifici, quale che ne sia la destinazione d’uso, involge l’individuazione dei requisiti essenziali di sicurezza sia in fase di installazione, sia nelle successive fasi di manutenzione e gestione, in modo che sia assicurato l’obiettivo primario di tutelare gli utilizzatori degli impianti medesimi, garantendo la loro incolumità, nonché l’integrità delle cose. In quest’ambito è coinvolta, non solo la determinazione dei principi fondamentali, ma anche la regolamentazione tecnica di dettaglio (sentenza n. 21 del 2010).

Numerosi risultano anche gli esempi di intreccio con la materia relativa alla tutela dell’ambiente, che attraversa, con la sua vocazione finalistica, una pluralità di competenze regionali, tra cui il governo del territorio assume un particolare rilievo. Ciò in quanto il territorio, quale componente dell’ambiente, è oggetto di disciplina di entrambe le attribuzioni di potestà legislativa.

Così, in materia di attività a rischio di incidente rilevante, la Corte ha riconosciuto la competenza della tutela ambientale, a cui si collega l’interesse del governo del territorio, inteso come disciplina degli adempimenti necessari per l’edificazione e la localizzazione degli stabilimenti in cui si svolgono le attività ad alto rischio (sentenze n. 407 del 2002 e n. 248 del 2009).

In materia di gestione dei rifiuti radioattivi, alla competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, si affianca, su di un piano di concorrenza, la competenza in materie di governo del territorio, per quanto concerne la localizzazione degli impianti. Si tratta, infatti, di localizzare e costruire strutture sul territorio regionale, sicché si rende costituzionalmente necessario un coinvolgimento sia del sistema regionale complessivamente inteso, quanto alla individuazione del sito, sia della Regione interessata, quanto alla «specifica localizzazione e alla realizzazione» delle opere (sentenza n. 33 del 2011).

 

In altre sentenze, la Corte ha posto in evidenza come talune discipline si pongano al crocevia tra governo del territorio e diversi titoli competenziali, tutti di tipo concorrente.

Le competenze più frequentemente evocate, nel loro operare congiunto, sono la tutela della salute ed il «governo del territorio» (sentenza n. 336 del 2005). Rientrano in tali ipotesi, in particolare gli investimenti nel campo dell’edilizia sanitaria (sentenze n. 99 del 2009, n. 45 del 2008, n. 105 del 2007)[21].

È stata inoltre messa in evidenza la sussistenza di una connessione della materia in esame con quella relativa alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, soprattutto sotto il profilo della localizzazione degli impianti energetici. In questo filone di pronunce, il conflitto di competenze è stato risolto di volta in volta mediante il criterio di prevalenza dell’interesse pubblico sotteso alla disciplina di specie. In tale contesto, la Corte ha ricondotto alla materia “energia” le norme che disciplinano la costruzione e l’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare e quelle che individuano le tipologie degli impianti di produzione (sentenza n. 278 del 2010), ovvero in relazione alla disciplina dei procedimenti autorizzatori in materia d i energia eolica (sentenza n. 119 del 2010).

Il governo del territorio può interferire altresì con la materia agricoltura, ad esempio in relazione all’attività agrituristica. Così, rientrano nella materia «governo del territorio» i limiti alla utilizzabilità per fini agrituristici dei fabbricati rurali posti dalla legge per regolare in modo razionale l’inserimento nei territori agricoli di attività connesse, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, destinate alla ricezione ed all’ospitalità (sentenza n. 96 del 2012).


Infrastrutture e trasporti

Assetto delle competenze e questioni principali

Nell’assetto costituzionale vigente, le materie porti e aeroporti civili e grandi reti di trasporto e di navigazione sono attribuite alla competenza concorrente tra Stato e regioni, di cui all’articolo 117, terzo comma. Non è invece esplicitata la competenza in ordine alla materia infrastrutture.

 

 

 

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Per le grandi reti di trasporto e di navigazione e i porti e aeroporti civili la giurisprudenza della Corte costituzionale ha applicato il principio della “chiamata in sussidiarietà”, ammettendo l'intervento statale in materie pure attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni, a condizione che siano individuate adeguate procedure concertative e di coordinamento orizzontale tra lo Stato e le regioni (le intese; ex plurimis la sentenza n. 79/2011). La Corte ha applicato il principio della “chiamata in sussidiarietà” anche per le infrastrutture strategiche legittimando pertanto l’intervento statale al fine di soddisfare esigenze unitarie (sentenza n. 303 del 2003) e sottolineando la necessità di ricorrere ad adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni nel rispetto del principio di leale collaborazione (sentenza n. 179 del 2012). In proposito, la predeterminazione di un termine irragionevolmente breve per il raggiungimento dell’intesa, non accompagnato da adeguate procedure per garantire il prosieguo delle trattative tra i soggetti coinvolti nella realizzazione dell’opera, è stato reputato un insuperabile motivo di illegittimità costituzionale (sentenza n. 274 del 2013).

La materia connessa del trasporto pubblico locale è invece riconosciuta dalla Corte costituzionale come di competenza residuale delle regioni (sentenza n. 222/2005). In proposito, la sentenza n. 273/2013 ha però riconosciuto la legittimità dell’intervento statale per il finanziamento del settore, in considerazione della perdurante inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione, a causa della mancata individuazione dei costi standard; in questo quadro l’intervento statale è giustificato dall’esigenza “di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa”.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Nel nuovo testo dell’art. 117 – che, come più volte ricordato, elimina la competenza concorrente – sono ascritte alla competenza esclusiva dello Stato le materie infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale ed internazionale (art. 117, secondo comma, lett. z)).

Alla competenza delle regioni sono invece ricondotte le materie mobilità all’interno del territorio regionale e dotazione infrastrutturale.

 

Giurisprudenza costituzionale sulle infrastrutture strategiche

Per quanto riguarda le infrastrutture strategiche, primaria importanza riveste la già citata sentenza n. 303 del 2003, che ha respinto una serie di ricorsi presentati dalle regioni concernenti sia la legge delega (legge n. 443 del 2001, cd. “legge obiettivo”), sia il decreto legislativo n. 190 del 2002. La sentenza, oltre ad affermare i principi richiamati all’inizio della scheda relativi alla “chiamata in sussidiarietà” e al principio di leale collaborazione, rileva che “la disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività”. Relativamente alle censure che le regioni sollevano avverso il comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, la Corte, pertanto, afferma: “non di lesione di competenza delle regioni si tratta, ma di applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”. Di particolare interesse è, inoltre, il giudizio che attiene alla collocazione della “materia” dei lavori pubblici: “la mancata inclusione dei “lavori pubblici” nella elencazione dell’art. 117 Cost., a seguito dell’assetto di competenze delineato dopo il 2001, diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti”.

Sulla materia dei lavori pubblici un’altra sentenza fondamentale è la sentenza 401/2007 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili o infondate, per la maggior parte, le censure prospettate dalle Regioni, facendo sostanzialmente salvo il riparto di competenze legislative fra Stato Regioni e Province autonome così come delineato dal decreto legislativo n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici di lavori, forniture e servizi) nel quale, tra l’altro, è confluita la disciplina delle infrastrutture strategiche. In tale pronuncia la Corte ha ritenuto che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione, essendo funzionalizzata al perseguimento dell'interesse pubblico, si caratterizza per la esistenza di una struttura bifasica: al momento tipicamente procedimentale di evidenza pubblica, ascrivibile alla materia tutela della concorrenza segue un momento negoziale riconducibile alla materia ordinamento civile. La Corte ha, inoltre, affermato due principi di carattere generale suscettibili di essere estesi all’intera attività contrattuale della pubblica amministrazione. Il primo attiene all’esclusione della configurabilità di una materia relativa ai lavori pubblici nazionali, già affermata nella sentenza n. 303 del 2003, e l’altro riguarda l’irrilevanza del profilo soggettivo (ovvero della natura statale o regionale del soggetto che indice la gara o al quale è riferibile un determinato bene o servizio) al fine di definire le competenze statali o regionali, dovendosi piuttosto “fare riferimento, invece, al contenuto delle norme censurate al fine di inquadrarlo negli ambiti materiali indicati dall'art. 117 Cost.”.

Con la sentenza n. 16 del 2010 è stato precisato che la nozione di infrastrutture non si presta ad essere ricondotta in quella di ‘materie’, prevista dall’art. 117 Cost. Per infrastrutture, invece, devono intendersi le opere finalizzate alla realizzazione di complessi costruttivi destinati ad uso pubblico, nei campi più diversi, che incidono senza dubbio su materie di competenza legislativa concorrente (governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica ai fini del reperimento e dell’impiego delle risorse), ma coinvolgono anche materie di competenza esclusiva dello Stato, come l’ambiente, la sicurezza e la perequazione delle risorse finanziarie. In tale sentenza la Corte, nel giudicare circa le modalità di ripartizione del cd. Fondo infrastrutture (di cui all’articolo 6-quinquies del D.L. 112/2008) e dichiarando infondata la questione di illegittimità posta da alcune regioni relativamente alla previsione del semplice parere della Conferenza unificata in luogo dell’intesa. In tal caso la Corte sottolinea che “l’esigenza di esercizio unitario, idonea a giustificare l’affidamento al CIPE della ripartizione del Fondo […], discende dalla normativa comunitaria che, con l’obiettivo di ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali emerse in particolare nei Paesi e nelle Regioni in ritardo di sviluppo, e quindi di accelerare la convergenza degli Stati membri e di dette Regioni migliorando le condizioni per la crescita e l’occupazione (Regolamento CE n. 1083 del 2006, primo considerando, nonché art. 3, commi 1 e 2, lett. a), impone l’intervento statale per una valutazione del contesto generale delle diverse realtà”. La Corte fa presente che ai sensi dell’art. 6-sexies, comma 5, del citato D.L. n. 112 del 2008, lo strumento di attuazione di quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 6-quinquies è costituito dalle intese istituzionali di programma: si tratta, dunque, di un incisivo strumento di partecipazione che, correlato al parere della Conferenza unificata, attribuisce spazio e ruolo adeguati all’intervento regionale.

Con la già citata sentenza n. 79 del 2011 la Corte ha affermato che lo Stato può legittimamente revocare i finanziamenti per la realizzazione di infrastrutture strategiche d’interesse nazionale, senza previa consultazione della Regione interessata. Si trattava, in proposito, del finanziamento statale concesso e deliberato dal CIPE per la metropolitana di Parma. Con riferimento alle procedure di localizzazione di infrastrutture strategiche d’interesse nazionale, “si deve rilevare come la necessità di osservare le procedure collaborative, che sfociano nell’intesa tra Stato e Regione, riguardi soltanto la fase di decisione e di localizzazione dell’opera, la quale astrattamente rientrerebbe nella competenza residuale delle Regioni, ma che, in seguito all’attrazione in sussidiarietà determinata dal suo inserimento tra le infrastrutture strategiche, si sposta nell’ambito della competenza statale”. L’intesa nella fase di progettazione e di localizzazione è indispensabile per dare validità ad uno spostamento di competenza legislativa ed amministrativa; la stessa intesa, uguale e contraria, non è invece necessaria se lo Stato decide di revocare il proprio finanziamento, senza tuttavia impedire alla Regione di esercitare la sua competenza, legislativa e amministrativa, sul medesimo oggetto. La decisione statale di escludere unilateralmente l’opera dal novero di quelle ritenute strategiche sul piano nazionale – e di revocare, di conseguenza, il relativo finanziamento – non incide sulle competenze legislative e amministrative della Regione, che ha piena facoltà di realizzarla con fondi propri. Con la revoca del finanziamento statale – a seguito di valutazione di politica economica non censurabile in sede di sindacato di legittimità costituzionale – vengono meno le ragioni che avevano giustificato l’attrazione in sussidiarietà.

Da ultimo, appare opportuno segnalare la recente sentenza n. 179 del 2012 nella quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 3, lettera b), del D.L. n. 78 del 2010, nella parte in cui prevede che, in caso di dissenso espresso in sede di conferenza di servizi da una Regione o da una Provincia autonoma, in una delle materie di propria competenza, ove non sia stata raggiunta, entro il breve termine di trenta giorni, l’intesa, «il Consiglio dei ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate», senza che siano previste ulteriori procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze. La Corte ha ricostruito la giurisprudenza per richiamare, da un lato, l’esistenza di un’esigenza unitaria che legittima l’intervento del legislatore statale anche in ordine alla disciplina di procedimenti complessi estranei alle sfere di competenza esclusiva statale affidati alla conferenza di servizi, e per escludere, dall’altro, che l’intera disciplina della conferenza di servizi, e dunque anche la disciplina del superamento del dissenso all’interno di essa, sia riconducibile ad una materia di competenza statale esclusiva, tenuto conto della varietà dei settori coinvolti, molti dei quali sono innegabilmente relativi anche a competenze regionali (es.: governo del territorio, tutela della salute, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali). L’esigenza di esercizio unitario deve comunque “obbedire alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza costituzionale, fra le quali questa Corte ha sempre annoverato la presenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni”.

Con la sentenza n. 122 del 2013 è stato giudicato il ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Provincia di Trento nei confronti del Governo in relazione alla nota del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 27 giugno 2012 di inserimento dell’autostrada Valdastico Nord nella nuova rete transeuropea dei trasporti. La pronuncia, nel respingere il ricorso provinciale siccome fondato su un «erroneo presupposto interpretativo», ha sostenuto la spettanza allo Stato del potere di «proporre l’inserimento del tratto autostradale Valdastico Nord nella rete transeuropea dei trasporti, in quanto tale inserimento non pregiudica la necessaria acquisizione dell’intesa con la Provincia autonoma».

La sentenza n. 274 del 2013 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale - per violazione del principio di leale collaborazione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale - dell’art. 16, comma 10-bis, del D.L. n. 83 del 2012, il quale, al fine di garantire l’approvazione in tempi certi del progetto definitivo del prolungamento a nord dell’autostrada A31, già compresa nelle Reti transeuropee dei trasporti (TEN-T), prevedeva che l’intesa generale quadro prevista dall’art. 161, comma 1, D.Lgs. n. 163 del 2006, dovesse essere raggiunta entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto censurato. La Corte ha ricordato che “l’autostrada in questione non può essere realizzata senza previa intesa, sia in quanto l’opera è inserita nel Programma Infrastrutture Strategiche (per il quale l’intesa stessa è prescritta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001), sia, più in generale, per il rispetto dovuto allo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol ed alle sue norme di attuazione”. A giudizio della Corte, comunque, a prescindere da ogni considerazione, «costituisce un insuperabile motivo di illegittimità costituzionale la predeterminazione di un termine irragionevolmente breve, non accompagnato da adeguate procedure per garantire il prosieguo delle trattative tra i soggetti coinvolti nella realizzazione dell’opera, in caso di mancato raggiungimento di un accordo nel breve periodo di tempo concesso dal legislatore». Infatti, in coerenza col proprio consolidato orientamento, il suddetto termine è «così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa” (sentenza n. 179 del 2012), cosicché la sua rapida decorrenza contrasta irrimediabilmente con la logica collaborativa che informa la previsione stessa dell’intesa».

Giurisprudenza costituzionale sulle grandi reti di trasporto e di navigazione

Con riferimento a tale materia devono ritenersi applicabili in via generale i principi della giurisprudenza costituzionale in merito alla ‘chiamata in sussidiarietà’ sviluppatisi in particolare nell’ambito della materia “governo del territorio”. In proposito, si ricorda che la Corte, in merito al principio di sussidiarietà ritenuto titolo giustificativo dell’intervento statale in materie formalmente attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, ha precisato in diverse occasioni che l’attrazione in sussidiarietà comporta la necessità che lo Stato coinvolga le Regioni stesse «poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003).

In questo quadro, con riferimento ad aspetti specifici, si possono segnalare le seguenti prese di posizione della Corte costituzionale:

·     in materia di legislazione portuale, la sentenza n. 79/2011 ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla regione Emilia Romagna in ordine all’istituzione, con l’articolo 4, comma 6, del decreto-legge n. 40/2010 di un fondo per le infrastrutture portuali in quanto per la ripartizione del fondo veniva previsto il parere del CIPE, ma non l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o l’intesa con le singole Regioni interessate. Al riguardo, la Corte ha ricordato che il Fondo concerneva interventi che rientrano nella materia «porti e aeroporti civili», rimessa alla competenza legislativa concorrente dal terzo comma dell’art. 117 Cost. Tuttavia, poiché si tratta di porti a rilevanza nazionale, si deve ritenere che la competenza legislativa in materia sia attratta in sussidiarietà allo Stato. In proposito la sentenza ricorda che la Corte ha ritenuto ammissibile la previsione di un fondo a destinazione vincolata anche in materie di competenza regionale, residuale o concorrente, precisando che «il titolo di competenza statale che permette l’istituzione di un Fondo con vincolo di destinazione non deve necessariamente identificarsi con una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117 Cost. (cioè di competenza esclusiva dello Stato), ma può consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di “chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost. (sentenza n. 16 del 2010 , in conformità a sentenza n. 168 del 2008). Tuttavia dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata discende l’illegittimità di disposizioni che non prevedano alcuna forma di leale collaborazione tra Stato e Regione, che deve invece esistere per effetto della deroga alla competenza regionale. Fermo restando pertanto il potere dello Stato di istituire un Fondo per le infrastrutture portuali di rilevanza nazionale, si deve aggiungere che la ripartizione di tale fondo è subordinata al raggiungimento di un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, per i piani generali di riparto delle risorse allo scopo destinate, e con le singole Regioni interessate, per gli interventi specifici riguardanti singoli porti;

·     sempre in materia di legislazione portuale, la sentenza n. 378/2005 ha dichiarato incostituzionale la disposizione del comma 1-bis dell’articolo 8 della legge n. 84/1994, introdotto dall’articolo 6 del decreto-legge n. 136/2004, la quale prevedeva che qualora entro trenta giorni non si fosse raggiunta l'intesa con la regione interessata, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti indicasse il presidente dell'autorità nell'ambito di una terna formulata dal presidente della giunta regionale, tenendo conto anche delle indicazioni degli enti locali e delle camere di commercio interessati. Ove il presidente della giunta regionale non avesse provveduto alla indicazione della terna entro trenta giorni dalla richiesta allo scopo indirizzatagli dal Ministro delle infrastrutture e dei  trasporti, questi avrebbe richiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre la questione al Consiglio dei ministri, che avrebbe provveduto con deliberazione motivata. In proposito, la Corte costituzionale ha evidenziato che “il meccanismo escogitato per superare la situazione di paralisi determinata dal mancato raggiungimento dell'intesa è tale da svilire il potere di codeterminazione riconosciuto alla Regione, dal momento che la mera previsione della possibilità per il Ministro di far prevalere il suo punto di vista, ottenendone l'avallo dal Consiglio dei ministri, è tale da rendere quanto mai debole, fin dall'inizio del procedimento, la posizione della Regione che non condivida l'opinione del Ministro e da incidere sulla effettività del potere di codeterminazione che, ma (a questo punto) solo apparentemente, l'art. 8, comma 1, continua a riconoscere alla Regione”;

·     in materia di trasporto marittimo, la sentenza n. 230/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 19, del decreto-legge n. 95/2012 nella parte in cui non prevedeva l’intesa, bensì la semplice consultazione, per le modifiche e integrazioni delle convenzioni per la gestione del servizi pubblico di trasporto marittimo con la Sardegna; infatti, se da un lato la materia appare riconducibile alla tutela della concorrenza, di esclusiva competenza statale (art. 117, secondo comma, lettera e) Cost.), dall’altro lato, l’adozione di intese appare necessaria per garantire il rispetto dell’articolo 53 dello statuto speciale della Regione Sardegna, il quale prevede che la Regione sia “rappresentata nella elaborazione delle tariffe ferroviarie e della regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi ed aerei che possano direttamente interessarla”.

Nel settore aeroportuale, infine, la sentenza n. 299/2013 ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo n. 69/2012 che disponeva un sostegno economico all’aeroporto di Pescara senza prevedere la previa notifica della misura alla Commissione europea ai sensi degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in materia di divieto degli aiuti di Stato. In questo modo si configurava infatti una violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione , il quale stabilisce che le Regioni, al pari dello Stato, debbano esercitare la propria potestà legislativa anche nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Con riferimento alla disciplina delle aviosuperfici e dei campi di volo, la sentenza n. 162/2013 ha stabilito l’incostituzionalità della disposizione della legge della Regione Lazio n. 9/2012 che prevede ipotesi di responsabilità in materia di sicurezza della pubblica incolumità, di uso del territorio e di tutela dell’ambiente per i piloti dei velivoli e ulteriori ipotesi a carico del gestore delle aviosuperfici, per quanto riguarda le strutture facenti parte della stessa nella fase di decollo e di atterraggio dell’aeromobile. Questi aspetti sono stati infatti ritenuti riconducibili alla materia di esclusiva competenza statale “ordinamento civile e penale” (art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.) e non alla materia di legislazione concorrente porti e aeroporti civili (art. 117, terzo comma, Cost.).

 

In materia di trasporti, merita poi ricordare che la materia del trasporto pubblico locale è invece assegnata alla competenza legislativa residuale delle regioni, come affermato dalla Corte costituzionale in particolare con la sentenza n. 222/2005. In proposito, la Corte è successivamente intervenuta con le seguenti pronunce:

·     la sentenza n. 273/2013 del 6 novembre 2013, si è espressa sulla costituzionalità del Fondo per il finanziamento del trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle regioni a statuto ordinario, alimentato da un'aliquota di compartecipazione su gasolio e benzina di autotrazione, fondo istituito dalla legge di stabilità 2013 (legge n. 228/2012). Rispetto a numerosi aspetti della disposizione la regione Veneto aveva infatti sollevato una questione di legittimità costituzionale per la presunta violazione degli articoli 117 e 119 della Costituzione e, in particolare, del divieto, conseguente al riparto di competenze tra Stato e regioni, di istituzione di fondi a destinazione vincolata statali in materia di competenza legislativa concorrente o residuale delle regioni, come è il trasporto pubblico locale. La Corte ha però rigettato il ricorso, rilevando come non si tratti di un fondo a destinazione vincolata in quanto la finalità del fondo è quella di assicurare in via generale il concorso finanziario dello Stato al trasporto pubblico locale senza vincolare il legislatore regionale a uno specifico impiego delle risorse stanziate in tale settore materiale, ascrivibile alla potestà legislativa regionale. La Corte ha inoltre rilevato la perdurante inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione, a causa della mancata individuazione dei costi standard; pertanto, in questa situazione “l’intervento dello Stato è ammissibile nei casi in cui, come quello di specie, esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa”. Come già affermato dalla Corte in precedenti sentenze (sentenza n. 121/2010) “siffatti interventi si configurano […] come portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’articolo 119 e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla grave crisi economica nazionale e internazionale”;

·     la sentenza n. 264/2013 è intervenuta in materia di autotrasporto pubblico non di linea. In particolare, è stata dichiarata l’incostituzionalità della disciplina della Regione Molise (L.R. n. 25/2012) in quanto, attraverso la costituzione di un ruolo dei conducenti di autoservizi pubblici non di linea, l’iscrizione al quale era condizione necessaria per l’esercizio dell’attività sul territorio regionale, si determinava “un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale […] con ciò violando anche il principio di parità di trattamento […] sotteso alla previsione dell’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento”. Anche in questo caso si configurava quindi una violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

·     la sentenza n. 41/2013 si è invece soffermata sul rapporto tra la competenza regionale in materia di trasporto pubblico locale e i poteri dell’Autorità di regolazione dei trasporti, istituita dall’articolo 37 del decreto-legge n. 201/2011. In proposito, la Corte ha affermato che “le funzioni conferite all’Autorità di regolazione dei trasporti, se intese correttamente alla luce della ratio che ne ha ispirato l’istituzione, non assorbono le competenze spettanti alle amministrazioni regionali in materia di trasporto pubblico locale, ma le presuppongono e le supportano. Valgono anche in questo caso i principi affermati dalla Corte in una fattispecie analoga [cioè con riferimento alle competenze dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, ora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ndr]: «le attribuzioni dell’Autorità non sostituiscono né surrogano alcuna competenza di amministrazione attiva o di controllo; esse esprimono una funzione di garanzia, in ragione della quale è configurata l’indipendenza dell’organo» (sentenza n. 482 del 1995). Compito dell’Autorità dei trasporti è, infatti, dettare una cornice di regolazione economica, all’interno della quale Governo, Regioni e enti locali sviluppano le politiche pubbliche in materia di trasporti, ciascuno nel rispettivo ambito”.

 

 

 


Ordinamento della comunicazione

Assetto delle competenze e questioni principali

La riforma costituzionale del Titolo V della parte seconda della Costituzione del 2001 ha collocato l’ordinamento della comunicazione tra le materie di legislazione concorrente, laddove allo Stato è riservata la definizione di principi fondamentali e alle Regioni la normativa di dettaglio (art. 117, terzo comma, Cost.).

 

 

 

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L’ordinamento della comunicazione viene ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale tra le materie per le quali è prevista “l’attrazione in sussidarietà”: si registra infatti la tendenza a tutelare, sia pure in una materia di legislazione concorrente, l'esercizio delle funzioni unitarie da parte dello Stato, contemperata dall'individuazione di procedure concertative e di coordinamento orizzontale con le regioni (le intese; si veda ad esempio la sentenza n. 163/2012). La Corte ha inoltre rilevato (sentenza n. 336/2005) come la materia “ordinamento della comunicazione” possa “intersecarsi” con le materie di competenza esclusiva statale della “tutela della concorrenza” (art. 117, secondo comma, lettera e)) e del coordinamento informativo statistico e informatico (art. 117, secondo comma, lettera r)). Ciò in un contesto in cui, già precedentemente alla riforma costituzionale del 2001, era stato sottolineato il legame tra ordinamento della comunicazione e tutela della libertà d’informazione, e quindi, del valore costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.; sentenza n. 348/1990).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia ordinamento della comunicazione viene spostata nel nuovo art. 117, secondo comma, lett. t), alla competenza esclusiva statale.

Giurisprudenza costituzionale

Appare nella giurisprudenza costituzionale la tendenza a tutelare, in tale ambito materiale, l'esercizio delle funzioni unitarie da parte dello Stato, contemperata dall'individuazione di procedure concertative e di coordinamento orizzontale con le Regioni quando, in una materia come l’ordinamento della comunicazione, di legislazione concorrente, si ponga l’esigenza dell’attrazione in sussidiarietà dell’esercizio della funzione da parte dello Stato (cfr. ex plurimis, la sentenza n. 303/2003) così come l'esigenza di tutela del diritto costituzionalmente garantito di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) – preservando, comunque, spazi di differenziazione alle autonomie territoriali. A tale proposito si ricorda che la Corte costituzionale – pur sotto la vigenza del vecchio Titolo V - ha riconosciuto all’informazione la natura di “condizione preliminare […] per l’attuazione ad ogni livello, centrale e locale, della forma propria dello Stato democratico” nella quale “qualsivoglia soggetto o organo rappresentativo investito di competenze di natura politica” (e quindi anche le Regioni) “non può, pur nel rispetto dei limiti connessi alle proprie attribuzioni, risultare estraneo all’impiego di comunicazione di massa” (sentenza n. 348 del 1990). Ulteriori vincoli derivano inoltre dalle normative comunitarie di settore che impongono un adeguamento alle stesse sia sulla fonte statale che su quelle regionali. Si è andata progressivamente stratificando e una giurisprudenza costituzionale (sentenze nn. 29 del 1996; 201, 303, 307, 308, 313, 324 del 2003) secondo la quale l’attribuzione di competenza legislativa regionale diviene plausibile relativamente a taluni aspetti della materia informativa e radiotelevisiva. Tale giurisprudenza enuclea l'esercizio della competenza legislativa da parte della Regione nella misura in cui sia rispettosa delle previsioni della legislazione (statale) «di sistema».

In questo quadro, ai sensi della sentenza n. 163 del 2012, alla luce dell’istituto della chiamata in sussidiarietà, lo Stato può esercitare funzioni sia amministrative che legislative in materie di competenza concorrente e residuale quando esigenze di esercizio unitario lo richiedano, purché l’intervento statale sia proporzionato e pertinente rispetto allo scopo perseguito e non leda il principio di leale collaborazione. Come più volte affermato dalla Corte, tuttavia “nei casi di attrazione in sussidiarietà di funzioni relative a materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e Regioni, è necessario, per garantire il coinvolgimento delle Regioni interessate, il raggiungimento di un’intesa, in modo da contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni” (ex plurimis, sentenze nn. 383 e 62 del 2005, n. 6 del 2004, n. 278 del 2010 e n. 165 del 2011).

La Corte costituzionale era già intervenuta per garantire l’esercizio unitario delle competenze in materia di comunicazioni anche con la sentenza n. 336 del 2005 relativa ad alcune disposizioni del codice delle comunicazioni elettroniche in materia di installazione degli impianti, impugnate in quanto ritenute disposizioni di dettaglio e, quindi, lesive della competenza regionale. La Corte ha infatti precisato che nel caso specifico non si può prescindere dalla considerazione che ciascun impianto di telecomunicazione costituisce parte integrante di una complessa ed unitaria rete nazionale, sicché non è neanche immaginabile una parcellizzazione di interventi nella fase di realizzazione di una tale rete. Ciò comporta che i relativi procedimenti autorizzatori dovrebbero essere necessariamente disciplinati con carattere di unitarietà e uniformità per tutto il territorio nazionale, dovendosi evitare ogni frammentazione degli interventi. Ed è, dunque, alla luce di tali esigenze e finalità che dovrebbero essere valutate ampiezza ed operatività dei principî fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.

Nella medesima occasione la Corte ha inoltre rilevato come l’ambito materiale ordinamento della comunicazione possa “intersecarsi” con le materie di competenza esclusiva statale della tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e)) e del coordinamento informativo statistico e informatico (art. 117, secondo comma, lettera r)).[22]

Alla medesima logica appare rispondere anche la sentenza n. 307 del 2003, con la quale la Corte costituzionale ha stabilito che è costituzionalmente illegittimo, introdurre un valore limite di induzione magnetica in prossimità di determinati edifici ed aree, il quale si sovrapponga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato. Infatti, la fissazione a livello nazionale dei valori-soglia, non derogabili dalle Regioni nemmeno in senso più restrittivo, rappresenta il punto di equilibrio fra le esigenze contrapposte di evitare al massimo l'impatto delle emissioni elettromagnetiche, e di realizzare impianti necessari al Paese, nella logica per cui la competenza delle Regioni in materia di trasporto dell'energia e di ordinamento della comunicazione è di tipo concorrente, vincolata ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.

 

 

 


Energia

Assetto delle competenze e questioni principali

Nel riparto di competenze legislative derivante dal titolo V attualmente vigente, la materia produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia è rimessa alla competenza concorrente tra Stato e Regioni.

 

 

 

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La potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni in materia di energia ha conosciuto una serie di interventi del giudice costituzionale, che, divenuti sempre più numerosi dal 2004, hanno finito per incidere profondamente sulle relazioni tra i livelli territoriali di governo, nell’ottica di un approccio globale al settore energetico, inteso non tanto come “materia”, quanto, invece, quale “politica energetica nazionale”.

In linea generale il giudice costituzionale giustifica e legittima, con riferimento al settore energetico, la norma che attribuisce maggiori poteri amministrativi ad organi statali, in quanto ritenuti gli unici a cui naturalmente non sfugge la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia e quindi idonei ad operare in modo adeguato per ridurre eventuali situazioni di gravi carenze a livello nazionale, seppure a determinate condizioni. Secondo costante giurisprudenza, infatti, la disciplina statale può conferire allo Stato il potere di emanare degli indirizzi ed anche di incidere indirettamente ed in modo significativo sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali.

La giurisprudenza della Corte costituzionale riconosce in astratto sempre ammissibile l’avocazione sussidiaria da parte dello Stato di funzioni amministrative e legislative concernenti l’individuazione (e anche la realizzazione) degli interventi in materia di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione. In concreto, però, al fine di valutare la legittimità dell’attrazione in sussidiarietà, deve essere effettuato un giudizio sulla proporzionalità degli interventi stessi. La “natura strategica” degli interventi “urgenti ed indifferibili” può soddisfare il principio di proporzionalità, se l’intervento statale è finalizzato a garantire l’effettività dell’attuazione e realizzazione «in modo unitario e coordinato » degli interventi individuati.

Di fronte ad un principio fondamentale di riforma economico-sociale, trattandosi di iniziative di rilievo strategico, può dunque esservi uno spostamento di competenze amministrative a seguito dell’attrazione in sussidiarietà. Al riguardo, la Corte ha costantemente affermato il principio del doveroso coinvolgimento delle regioni e degli enti locali nei processi decisionali di elaborazione e realizzazione delle politiche energetiche.

In particolare, la Corte ha affermato il principio in base al quale la legislazione statale che preveda e disciplini il conferimento delle funzioni amministrative a livello centrale nelle materie affidate alla potestà legislativa regionale può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il nuovo articolo 117, secondo comma, lett. v), attribuisce la materia produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia alla competenza esclusiva statale (si noti che l’aggettivo è volto al plurale e risulta dunque riferibile a tutti e tre i sostantivi precedenti).

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale ha avuto modo di soffermarsi in molteplici occasioni sul rapporto tra Stato e Regioni relativamente alle questioni concernenti l’energia. In particolare, la Corte, con la sentenza n. 6 del 2004, relativa al contenzioso costituzionale sorto tra Stato e Regioni relativamente alle disposizioni contenute nel decreto legge n. 7 del 2002, convertito dalla legge n. 55 del 2002, recante "Misure urgenti per garantire la sicurezza del settore elettrico nazionale", ha sciolto alcuni dubbi interpretativi relativi al rapporto fra le competenze legislative e le funzioni amministrative dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali in materia di energia, con particolare riferimento alle procedure di autorizzazione alla costruzione e all’esercizio degli impianti.

Segnatamente, la Corte, nel dichiarare infondati i ricorsi delle Regioni Umbria, Basilicata e Toscana avverso il citato decreto legge n. 7 del 2002 - adottato dal Governo al fine di consentire che i processi di costruzione di nuove centrali e di ampliamento di quelle già esistenti potessero avviarsi nonostante gli impedimenti frapposti dalle autorità locali competenti a rilasciare le autorizzazioni - ha confermato il proprio indirizzo giurisprudenziale in base al quale per giudicare della legittimità costituzionale della norma impugnata bisogna non già considerare la conformità rispetto all'articolo 117 Cost., bensì valutarne la rispondenza da un lato ai criteri indicati dall'articolo 118 Cost. per la allocazione e la disciplina delle funzioni amministrative, dall'altro al principio della leale collaborazione.

Nella sentenza citata la Corte, riprendendo nella sostanza l’orientamento della sentenza n. 303 del 2003, oltre a confermare, almeno in parte, la tendenza ad una interpretazione restrittiva delle materie “trasversali” di competenza esclusiva statale, ha chiarito come nelle materie di competenza statale esclusiva o concorrente, in virtù dell'art. 118, primo comma, Cost., la legge possa attribuire allo Stato funzioni amministrative, nonché organizzarle e regolarle, al fine di renderne l'esercizio raffrontabile a un parametro legale. In tale prospettiva, precisa la Corte, i principî di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel nuovo Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata. Quindi per l’attribuzione delle competenze nel settore energetico al livello statale, assumono una peculiare valenza gli accordi, le intese e le altre forme di concertazione e di coordinamento orizzontale delle rispettive competenze, che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione.

Con la sentenza n. 383 del 2005, la Corte costituzionale si è pronunciata sui ricorsi promossi dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento avverso numerose disposizioni del decreto legge 29 agosto 2003, n. 239, recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale (convertito con modificazioni, dalla legge n. 290 del 2003), e della legge di riordino del settore energetico (legge 23 agosto 2004, n. 239). La sentenza, molto articolata, decide ben 22 punti di impugnazione delle disposizioni del D.L., accogliendo i motivi di ricorso, con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni del D.L., su 11 di tali punti.

In due casi la dichiarazione di incostituzionalità consegue al riconoscimento della natura di dettaglio delle disposizioni del D.L., non idonee come tali ad integrare gli estremi di principi fondamentali in materia di legislazione concorrente.

Il filo conduttore della sentenza è tuttavia la ricognizione, ai sensi dei principi affermati nella precedente sentenza n. 6/2004, dei requisiti necessari ad assicurare in concreto, in relazione alle fattispecie concrete oggetto di impugnazione, la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione.

In questa ottica la Corte ha dichiarato incostituzionali numerose disposizioni del D.L. n. 239/2003, per la parte nella quale non prevedono che i poteri attribuiti agli organi statali debbano essere esercitati d’intesa, a seconda dei casi, con la Conferenza Unificata Stato regioni e Stato-città di cui all’art. 8 del D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, oppure direttamente con le Regioni e le Province interessate.

Particolare rilievo assume poi la definizione da parte della Corte delle caratteristiche che le intese in questione debbono assumere, con la sottolineatura del carattere necessariamente paritario delle stesse.

Con la sentenza n. 165 del 2011 la Consulta in riferimento ad interventi urgenti ed indifferibili nella materia energetica con carattere strategico nazionale ha ribadito, nel segno della continuità, una lettura della sostituzione statale di cui all’art. 120, comma 2, Cost. ancorata al carattere della straordinarietà, quale presupposto legittimante la deroga temporanea all’ordine legale delle competenze costituzionali. La Corte ricorda infatti di avere già precedentemente escluso che il potere sostitutivo statale possa essere previsto nei casi in cui vi sia uno spostamento di competenze amministrative, a seguito di attrazione in sussidiarietà, “dovendosi ritenere che la leale collaborazione, necessaria in tale evenienza, non possa essere sostituita, puramente e semplicemente, da un atto unilaterale dello Stato (sentenza n. 383 del 2005)”. La Corte rammenta di aver affermato, con giurisprudenza costante, che “nei casi di attrazione in sussidiarietà di funzioni relative a materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e Regioni, è necessario, per garantire il coinvolgimento delle Regioni interessate, il raggiungimento di un’intesa, in modo da contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni (ex plurimis, sentenze n. 383 del 2005 e n. 6 del 2004)”. La Corte considera dunque le intese tra Stato e Regioni su tali materie come intese forti, che necessitano, in caso di dissenso, di “idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze (ex plurimis, sentenze n. 121 del 2010, n. 24 del 2007, n. 339 del 2005). Solo nell’ipotesi di un ulteriore esito negativo di tali procedure mirate all’accordo, può essere rimessa al Governo una decisione unilaterale (sentenza n. 33 del 2011)”.

Con la sentenza n. 13 del 2014 la Corte ha ricordato la consolidata giurisprudenza costituzionale secondo cui i principi fondamentali nazionali in materia di individuazione di aree non idonee agli impianti a fonti rinnovabili[23] impongono alle Regioni di individuare le aree non idonee specificandole esattamente, essendo loro vietato introdurre un divieto generalizzato che ribalta il principio generale stabilito dal legislatore nazionale (si devono indicare le “aree non idonee”, non le “aree idonee”, di fatto escludendo tutte le altre). Si ricorda anche che la Corte ha già avuto modo di affermare che il principio di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, derivante dalla normativa europea e recepito dal legislatore nazionale, «trova attuazione nella generale utilizzabilità di tutti i terreni per l’inserimento di tali impianti, con le eccezioni, stabilite dalle Regioni, ispirate alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti nell’ambito delle materie di competenza delle Regioni stesse. Non appartiene invece alla competenza legislativa della stessa Regione la modifica, anzi il rovesciamento, del principio generale.» (sentenza n. 224 del 2012).

In precedenza, con la sentenza n. 344 del 2010, la Corte Costituzionale aveva precisato che l’indicazione da parte delle Regioni dei luoghi ove non è possibile costruire gli impianti eolici può avvenire solo in conformità alle linee guida nazionali per il corretto inserimento degli impianti eolici nel paesaggio. La Corte aveva poi ritenuto che le norme che prevedessero limiti, condizioni e adempimenti al cui rispetto fosse subordinato il rilascio dell’autorizzazione all’installazione di un impianto eolico, contrastassero anche con l’art. 117, terzo comma della Costituzione, e, nello specifico, con i principi fondamentali fissati dal legislatore statale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia (art. 12, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 387 del 2003).

Con la sentenza n. 182 del 2013 la Corte nell’individuare l’ambito competenziale di una norma regionale relativa alla “gestione del territorio” e alla “produzione e trasporto nazionale dell’energia” in base al presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative, ha privilegiato le “esigenze di carattere unitario” invocate dalla legislazione nazionale, ritenute “ancora più pressanti” in zone a rischio sismico. Lo strumento attraverso il quale realizzare il coinvolgimento di entrambi gli Enti è l’intesa e quindi una disposizione regionale che violasse il principio di leale collaborazione sottraendo la scelta al confronto e prevedendo “a priori” l’incompatibilità fra la localizzazione e la realizzazione di gasdotti e oleodotti di maggiori dimensioni e le zone sismiche di prima categoria, sebbene maggiormente garantista, dovrebbe essere dichiarata incostituzionale. Al riguardo, la Corte, ha costantemente affermato che «la previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una “drastica previsione” della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso» (ex plurimis, sentenza n. 165 del 2011), ma che siano invece necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze» (ex plurimis, sentenze n. 278 e n. 121 del 2010), come presupposto fondamentale di realizzazione del principio di leale collaborazione (ex plurimis, sentenze n. 117 del 2013, n. 39 del 2013, n. 24 del 2007 e n. 339 del 2005).

 

 

 

 


Coordinamento della finanza pubblica

Assetto delle competenze e questioni principali

Nel vigente testo costituzionale la materia del coordinamento della finanza pubblica rientra tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

 

 

 

lente

 

 

Il coordinamento della finanza pubblica costituisce una materia estremamente rilevante in quanto ad essa una copiosa giurisprudenza costituzionale ha costantemente ricondotto le disposizioni statali volte al contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali.

Sulla materia si rileva peraltro una evoluzione nella giurisprudenza della Corte costituzionale degli ultimi anni, nel senso dell’ampliamento degli ambiti di intervento del legislatore statale.

Secondo il primo orientamento della Corte in materia, il legislatore statale può stabilire solo un limite complessivo che lasci agli enti territoriali ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenze n. 36 del 2004 e n. 417 del 2005), mentre non può fissare limiti puntuali relativi a singole voci di spesa, vincolando Regioni e Province autonome all’adozione di misure analitiche e di dettaglio, perché verrebbe a comprimere illegittimamente la loro autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia (sentenze n. 36 del 2004; n. 417 del 2005; n. 169 del 2007; n. 120 e n. 159 del 2008; n. 237 del 2009).

Più recentemente, tuttavia, anche in considerazione della situazione di eccezionale gravità del contesto finanziario, la Corte ha fornito una lettura estensiva delle norme di principio nella materia del coordinamento della finanza pubblica. Pur ribadendo, in via generale, che possono essere ritenuti principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica le norme che «si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi», la Corte ha, nei fatti, avallato le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli specifici per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali, quali, ad esempio, quelli relativi alle riduzioni di spesa per incarichi di studio e consulenza (sentenza n. 262 del 2012), all'obbligo di soppressione o accorpamento da parte degli enti locali di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro conferite (sentenza n. 236 del 2013), alla determinazione del numero massimo di consiglieri e assessori regionali e alla riduzione degli emolumenti dei consiglieri (sentenze n. 198 del 2012 e n. 23 del 2014).

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia coordinamento della finanza pubblica passa dalla competenza concorrente alla competenza esclusiva statale ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. e).

È invece riconosciuta una specifica competenza regionale per gli specifici profili inerenti la regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale, sin dalle prime sentenze rese all’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V, ha costantemente ricondotto le disposizioni statali volte al contenimento della spesa corrente alle finalità di coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 4 e 36 del 2004 e n. 417 del 2005), riconoscendo che “il legislatore statale può legittimamente imporre alle Regioni vincoli di bilancio – anche se questi ultimi vengono indirettamente ad incidere sull’autonomia regionale di spesa – per ragioni di coordinamento finanziario volte a salvaguardare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali condizionati anche da obblighi comunitari” (sentenze n. 139 e n. 237 del 2009; n. 52 del 2010). Ciò in virtù dell’assunto in base al quale “non può dubitarsi che la finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali sia parte della finanza pubblica allargata” (sentenze n. 425 del 2004 e n. 267 del 2006), ancor più rilevante alla luce della configurazione dei vincoli posti dal diritto dell’Unione europea (da ultimo, sentenza n. 60 del 2013).

La giurisprudenza costituzionale ha però contestualmente precisato, sin dalle prime sentenze in materia, che il legislatore statale può stabilire solo un limite complessivo che lasci agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenze n. 36 del 2004 e n. 417 del 2005), mentre non può fissare limiti puntuali relativi a singole voci di spesa, vincolando Regioni e Province autonome all’adozione di misure analitiche e di dettaglio, perché verrebbe a comprimere illegittimamente la loro autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia (sentenze n. 36 del 2004; n. 417 del 2005; n. 169 del 2007; n. 120 e n. 159 del 2008; n. 237 del 2009).

In particolare, tra il 2004 e il 2005, la Corte costituzionale ha ulteriormente delimitato l’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica, affermando, anzitutto, che non sono riconducibili a tale categoria disposizioni che fissino vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali, in quanto, in tal caso, esse finirebbero per ledere l’autonomia finanziaria di spesa delle autonomie territoriali garantita dall’art. 119 Cost. (ex plurimis, sentenza n. 417 del 2005).

Tuttavia il coordinamento finanziario può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo (sentenza n. 376 del 2003).

Nel ribadire tale concetto la Consulta ha precisato che il carattere 'finalistico' dell'azione di coordinamento postula che "a livello centrale si possano collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento, per sua natura eccedente le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali, possa essere concretamente realizzata". (sentenza n. 35 del 2005).

In secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale ha precisato che il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio ancorché si traducano - inevitabilmente - in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti, ma solo, con “disciplina di principio”, “per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari” (sentenza n. 376 del 2003; nn. 4, 36 e 390 del 2004).

In terzo luogo, il Giudice delle leggi ha affermato che perché detti vincoli possano considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali debbono stabilire solo un “limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa” (sentenza n. 36 del 2004 e n. 417 del 2005).

La Corte costituzionale ha infine concluso che la previsione da parte della legge statale di limiti all’entità di una singola voce di spesa non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve perciò “in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell’area [...] riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri [...] ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi” (sentenze n. 390 del 2004 e n. 417 del 2005).

Muovendo da questi presupposti, la Corte ha successivamente precisato che possono qualificarsi come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica anche norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali alla seguente duplice condizione: qualora si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi anche nel senso di un transitorio contenimento complessivo, sebbene non generale, della spesa corrente; qualora non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 88 del 2006; n. 169 e n. 412 del 2007; n. 120 e n. 289 del 2008; n. 139, n. 237 e n. 297 del 2009; n. 326 del 2010 e n. 232 del 2011).

La Corte costituzionale ha affermato che sono consentite limitazioni all’ammontare complessivo delle spese di personale (sentenza n. 169 del 2007), qualificando poi, ad esempio, principi di coordinamento le disposizioni che prescrivono riduzioni dei componenti di consigli di amministrazione di enti dipendenti (sentenza n. 139 del 2009), nonché ulteriori misure di contenimento della spesa (v., ad esempio, sentenza n. 297 del 2009).

Nella fase successiva all’avvio del processo di attuazione dell’art. 119 Cost. e alla legge n. 42 del 2009, la Corte costituzionale ha anche avvalorato una nozione del principio di coordinamento della finanza pubblica decentrata, ribadendo che esso è volto ad assicurare “l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari” (sentenze n. 237 del 2009; n. 52 del 2010), vieppiù alla luce del parametro dell’unità economica della Repubblica (sentenze n. 78 del 2011; nn. 28, 51, 79 e 104 del 2013).

Tali indicazioni del giudice delle leggi sugli ambiti di intervento, requisiti e limiti dell’applicazione nei confronti delle regioni, del principio di coordinamento in oggetto, nonché delle concrete fattispecie di diritto positivo nelle quali esso si sostanzia, evidenziatesi dopo l’ ingresso del nuovo Titolo V nella Carta fondamentale, si sono via via consolidate e meglio precisate, in relazione alle nuove fattispecie normative sottoposte a giudizio fino agli anni più recenti.

Sulla individuazione delle norme statali in concreto riconducibili al principio in esame, con riguardo alle spese di personale, interviene la sentenza n. 108/2011, con la quale viene censurata una norma regionale con riferimento alla lesione dei principi fondamentali della legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Tale norma regionale, disponendo l’introduzione di procedure finalizzate alla progressione di carriera mediante selezione interna, si pone in particolare in contrasto con alcune disposizioni (art. 1, commi 557 e 557-bis) della legge n. 296/1996 (legge finanziaria 2007), che obbligano le Regioni alla riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva, ivi inclusi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e tutti i rapporti precari in organismi e strutture facenti capo alla Regione. Tali norme statali, ispirate alla finalità del contenimento della spesa pubblica, costituiscono princìpi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto pongono obiettivi di riequilibrio, senza, peraltro, prevedere strumenti e modalità vincolanti per il perseguimento dei medesimi da parte degli enti interessati. Come ha infatti chiarito nella pronuncia la Corte, «…la spesa per il personale, per la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interna (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente, con la conseguenza che le disposizioni relative al suo contenimento assurgono a principio fondamentale della legislazione statale» (sentenza n. 69 del 2011, che richiama la sentenza n. 169 del 2007).

Al tema del coordinamento della finanza pubblica dedica poi una specifica attenzione la sentenza n. 229 del 2011, che nel richiamare preliminarmente la propria giurisprudenza, rammenta come questa abbia, per un verso, elaborato una nozione ampia di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e, per altro verso, ha precisato come la piena attuazione del coordinamento medesimo possa far sì che la competenza statale non si esaurisca con l’esercizio del potere legislativo, ma implichi anche «l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo» (sentenza n. 376 del 2003; in senso conforme, sentenze n. 112 del 2011, n. 57 del 2010, n. 190 e n. 159 del 2008). Viene  poi anche messo in rilievo il carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento e, quindi, l’esigenza che «a livello centrale» si possano collocare anche «i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento» venga «concretamente realizzata» (sentenza n. 376 del 2003). Viene infine ricordato come la Corte abbia ritenuto, con giurisprudenza costante, che i principi fondamentali fissati dalla legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica siano applicabili anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome (ex plurimis, sentenze n. 120 del 2008, n. 169 del 2007).

Su tali basi, precisa il giudice costituzionale in ordine all’oggetto del decidere, la competenza statale a fissare una tempistica uniforme per tutte le Regioni, circa la trasmissione di dati attinenti alla verifica del mantenimento dei saldi di finanza pubblica, può logicamente dedursi dalle esigenze di coordinamento, specie in un ambito – come quello del patto di stabilità interno – strettamente connesso alle esigenze di rispetto dei vincoli comunitari. Tempi non coordinati delle attività di monitoraggio – strumentali, queste ultime, allo scopo di definire, per ciascun anno, i termini aggiornati del patto di stabilità – provocherebbero difficoltà operative e incompletezza della visione d’insieme, indispensabile perché si consegua l’obiettivo del mantenimento dei saldi di finanza pubblica.

 

In seguito, significativa appare sul tema del coordinamento in questione una pronuncia recante una enunciazione di natura sistematica, individuabile nella la sentenza n. 311 del 2012, con la quale la Corte ha ribadito che possono essere ritenuti principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Costituzione, le norme che «si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».

Di rilievo appaiono pure le numerose affermazioni contenute in diverse pronunce della Corte circa la rilevanza delle situazioni di eccezionale gravità del contesto finanziario, che pur non consentendo deroghe all’ordine costituzionale delle competenze legislative, legittimano- da un lato - una lettura estensiva delle norme di principio nella materia del coordinamento della finanza pubblica ma nel contempoconfermano la presenza di limiti alla disciplina di fonte statuale.

Per questo secondo profilo può richiamarsi la sentenza n. 148 del 2012, nella quale, giudicando della legittimità costituzionale di una serie di disposizioni nel D.L. n. 78 del 2010, è stato negato che una situazione emergenziale possa legittimare lo Stato ad esercitare funzioni legislative in modo da sospendere le garanzie costituzionali (art.117 Cost.) di autonomia degli enti territoriali; analogamente, e in relazione al medesimo D.L. n. 78 del 2010, con la sentenza n. 151 del 2012 è stato negato che lo Stato possa «intervenire in ogni materia» per l’esigenza di far fronte con urgenza ad una gravissima crisi finanziaria.

Più ancora, con la sentenza n. 193 del 2012 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 20, commi 4 e 5 del D.L. n. 98 del 2011, che hanno esteso anche negli anni “successivi” al 2014 alcune misure di contenimento della spesa. Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in materia, secondo la quale possono essere ritenuti principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Costituzione, le norme che «si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi», la Corte ha osservato che l’estensione a tempo indeterminato delle misure restrittive già previste nella precedente normativa fa venir meno una delle due condizioni indicate, ovvero quella della temporaneità delle restrizioni.

Si iscrive invece sotto il primo profilo la sentenza n. 262 del 2012, che ha dichiarato, l’illegittimità costituzionale di una disposizioni della legge n. 1/2011 della Regione Puglia, rilevando che la disposizione, pur riproducendo il contenuto dell’art. 6, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, quanto a percentuale di riduzione della spesa per incarichi di studio e consulenza, recava alcune significative differenziazioni rispetto a questa, in tal modo violando il principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica da esso espresso, posto a salvaguardia del contenimento della spesa delle pubbliche amministrazioni. Infatti, la predetta norma statale, pur non imponendo alle Regioni di adottare i puntuali tagli alle singole voci di spesa da essa considerate, richiede che esse, anche attraverso una diversa modulazione delle percentuali di riduzione, conseguano comunque, nel complesso, un risparmio pari a quello che deriverebbe dall’applicazione di quelle percentuali. Tale sentenza, inoltre, censurando una altra disposizione della medesima legge regionale, ha statuito che anche la riduzione della spesa per i contratti di lavoro flessibili e per quelli di collaborazione coordinata e continuativa stabilita dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78 del 2010, detta un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Anche una altra norma regionale, legge n. 17/2011 della Regione Basilicata, che contiene disposizioni in varia misura incidenti su indennità, compensi, rimborsi di enti regionali è stata dalla Corte (sentenza n. 211 del 2012) ritenuta in contrasto con gli obiettivi di contenimento e riduzione della spesa pubblica perseguiti dal legislatore statale con l’art. 6 del D.L. n. 78 del 2010, che, viene ribadito, costituisce espressione di un principio fondamentale della finanza pubblica.

Anche il meccanismo del turn-over è stato ritenuto dalla Corte avente natura di principio di coordinamento della finanza pubblica, come affermato nella sentenza n. 161 del 2012, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione della legge n. 17/2011 della Regione Abruzzo con la quale venivano consentite deroghe parziali in relazione al turn-over, in contrasto, come detto, con la sua natura di principio di coordinamento della finanza pubblica.

E’ stato invece escluso, con la sentenza n. 147 del 2012, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 19, comma 4, del D.L. n. 98 del 2011 (il quale per finalità di risparmi di spesa disponeva la immediata costituzione di istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche costituite separatamente) che una disciplina statale che regoli la rete scolastica e il dimensionamento degli istituti con carattere di dettaglio, possa essere ricompresa tra i principi di coordinamento della finanza pubblica.

Tali criteri interpretativi della materia del coordinamento della finanza pubblica, relativamente alle spese di personale sono stati ribaditi nelle sentenze n. 212 e 217 del 2012, con le quali:

·     è stata dichiarata l’illegittimità di una disposizione della legge n. 16/2011 della Regione Sardegna, in quanto contrastante con il principio di coordinamento della finanza pubblica espresso dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78 del 2010, con il quale sono stati posti specifici vincoli alle assunzioni a tempo determinato. Con la stessa sentenza è stato ritenuto espressione del medesimo principio (come già ritenuto dalla sentenza n. 108/2011 in precedenza citata) l’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, il quale obbliga le Regioni, alla riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva;

·     è stato affermato, confermando precedenti pronunce (e sancendo l’illegittimità di una disposizione della legge n. 11/2011 della Regione Friuli-Venezia Giulia), che all’art. 76, comma 7, del D.L. n. 112 del 2008 – che pone limiti alle assunzioni e alla spesa complessiva per il personale delle amministrazioni pubbliche – deve essere riconosciuta la natura di principio fondamentale della materia del coordinamento della finanza pubblica, attesa (in via pertanto interposta) la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interno, il quale, come già affermato nella sopra citata sentenza n. 108 del 2011, costituisce non una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente.

 

Ulteriori pronunce più recentemente intervenute hanno enucleato alcune ulteriori fattispecie legislative mediante le quali si esplica nell’ordinamento il principio di coordinamento, con riguardo, tra le altre, alle misure premiali per la crescita economica. Nella sentenza n. 8 del 2013 si afferma in proposito che introdurre un regime finanziario più favorevole per le Regioni che sviluppano adeguate politiche di crescita economica costituisce una misura premiale non incoerente rispetto alle politiche economiche che si intendono, in tal modo, incentivare. Non sussiste pertanto, precisa la Corte, alcuna violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Anche la presenza di un piano di rientro dal disavanzo sanitario appare riconducibile alla norma costituzionale in esame, secondo quanto espresso dalla la sentenza n. 180 del 2013, poi ribadita dalla successiva sentenza n 79 dello stesso anno, la Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale di una norma della regione Campania (legge n. 27 del 2012) che incide negativamente sulla spesa sanitaria. A tal fine la Corte ha richiamato il principio consolidato nella propria giurisprudenza, per cui «l'autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute e, in particolare, nell'ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa », peraltro in un «quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario» (sentenze n. 79 del 2013, n. 91 del 2012 e n. 193 del 2007).

Ancora, in tema di dismissioni e vincolo di destinazione delle risorse, con la sentenza n. 63 del 2013 (che ha respinto l’impugnativa di una norma del decreto legge n. 1 del 2012, nella parte in cui prevede la destinazione delle risorse derivanti dalle operazioni di dismissioni dei beni dell'ente territoriale all'obiettivo di riduzione dei debiti dell'ente medesimo). Con essa la Corte ha ritenuto tale disposizione «espressiva di un principio fondamentale nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della finanza pubblica [...] come tale, non [...] invasiva delle attribuzioni della Regione nella materia stessa, in quanto il finalismo della previsione normativa esclude che possa invocarsi [...] la logica della norma di dettaglio». Tale orientamento è stato ribadito con la sentenza n. 205 del 2013, anche essa in reiezione di una impugnativa di una analoga norma dettata in materia di dismissioni dal decreto legge n. 95 del 2012, nella parte in cui stabilisce le risorse risultanti dalla valorizzazione ed alienazione degli immobili di proprietà delle Regioni e degli enti locali trasferiti ai fondi comuni di investimento immobiliare (di cui alla medesima disposizione), debba essere destinata alla riduzione del debito dell'ente e, solo in assenza di questo, o, comunque, per la parte eventualmente eccedente, a spese di investimento. La Corte ha affermato che la correlazione funzionale tra operazioni di dismissione di beni demaniali, sia dello Stato che delle Regioni ed altri enti territoriali, e riduzione del debito rispettivo risponde ad una scelta di politica economica nazionale, e si pone quindi come espressione del perseguimento di un obiettivo di interesse generale in un quadro di necessario concorso, anche delle autonomie, al risanamento della finanza pubblica. La Corte, nella medesima pronuncia, ha aggiunto che detta disposizione, «per la sua finalità e per la proporzionalità al fine che intende perseguire, risulta espressiva di un principio fondamentale nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della finanza pubblica.

Nell’ambito del principio di esame possono rientrare anche misure di contenimento della spesa e riorganizzazione degli enti locali, secondo quanto affermato dalla sentenza n. 236 del 2013, nella quale il giudice delle leggi ha ritenuto conforme a Costituzione una norma del decreto legge n. 95 del 2012, portata a giudizio sotto il profilo dell'illegittima imposizione agli enti locali, da parte del legislatore statale, dell'obbligo di soppressione o accorpamento di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro conferite.

Questi vincoli, ha precisato invece la Corte, possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» costituiscono effettivamente espressione di principi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica proprio per la chiara finalità di riduzione della spesa e per la proporzionalità dell'intervento rispetto al fine che il legislatore statale intende perseguire.

Per quanto concerne il sistema di tesoreria unica per enti ed organismi pubblici (di cui all'art. 1 della legge n. 720/1984 ed art. 35, del decreto-legge n. 1 del 2012) esso, secondo quanto statuito dalla sentenza 256 del 2013, confermativa della sentenza 311 del 2012 è «uno strumento essenziale per assicurare il contenimento del fabbisogno finanziario dello Stato ordinamento», che consente di emettere una minore quantità di titoli di Stato: la relativa disciplina rientra pertanto tra le scelte di politica economica adottate per far fronte alla contingente emergenza finanziaria, e come tale si colloca nell'ambito dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica la cui determinazione spetta alla potestà legislativa statale.

 

In ordine alla questione della durata temporale dei vincoli e degli obiettivi finanziari posti alle regioni ai fini del concorso delle stesse agli obiettivi di finanza pubblica, su cui è già intervenuta la sentenza n. 193/2012 prima richiamata, viene di nuovo affrontata, più recentemente, dalla sentenza n. 79 del 2014, confermandosi la non conformità a Costituzione di norme che, seppur riconducibili al principio del coordinamento della finanza pubblica, non operino entro prefissati limiti temporali.

La Corte infatti, con tale sentenza, ha dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune norme del D.L. 95/2012, ed in particolare dell’articolo 16, comma 2, recante disposizioni in materia di concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica e tagli alle spese, in relazione alla mancanza del limite temporale alle misure di limitazione delle spese stesse. Il giudice costituzionale rileva in proposito come sia senz’altro consentito al legislatore statale imporre limiti alla spesa di enti pubblici regionali, che si configurano quali principi di «coordinamento della finanza pubblica», anche nel caso in cui gli obiettivi di riequilibrio della medesima tocchino singole voci di spesa a condizione che:

·     tali obiettivi consistano in «un contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente», in quanto dette voci corrispondano ad un «importante aggregato della spesa di parte corrente», come nel caso delle spese per il personale (sentenze n. 287 del 2013 e n. 169 del 2007);

·     il citato contenimento sia comunque «transitorio», in quanto necessario a fronteggiare una situazione contingente, e non siano previsti «in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (sentenze n. 23 e n. 22 del 2014; n. 236, n. 229 e n. 205 del 2013; n. 193 del 2012; n. 169 del 2007, citate nella sentenza in commento).

 

Quanto, infine, alla applicabilità del principio del coordinamento della finanza pubblica in esame alle autonomie speciali (in ordine al quale si è prima segnalata la pronuncia n. 229/2011, e poi è intervenuta anche un’altra sentenza del 2012, la n. 139), la sentenza n. 72 del 2014, ha rilevato come la norma portata in giudizio nel caso concreto, costituita dall’articolo 6 del decreto legge n. 78 del 2010, stabilisca principi di coordinamento della finanza pubblica, in base all'art. 117, terzo comma, Cost. ed, in quanto tale, non leda l'autonomia finanziaria di Regioni e Province a statuto speciale (art. 119 Cost. e Titolo VI dello statuto del Trentino-Alto Adige). Anche gli enti ad autonomia differenziata, infatti, sono soggetti ai vincoli legislativi derivanti dal rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica.

 

Nel progetto di riforma costituzionale all’esame della Camera, è affidata alle regioni la potestà legislativa in materia di “regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica”.

La potestà in commento potrebbe far riferimento, sotto un profilo generale, ad alcuni istituti già operanti nell’ordinamento, sulla base di norme legislative rinvenibili prevalentemente nelle più recenti leggi di stabilità annuali, finalizzate ad agevolare a livello territoriale il rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno per gli enti locali.

Tali istituti - individuabili nel patto regionale verticale e nel patto regionale orizzontale, la cui applicazione risulta al momento estesa fino al 2015 ad opera articolo 1, comma 505, lett. d), della legge n. 147/2013 (legge di stabilità per il 2014) – prevedono, in sostanza, la possibilità di compensazioni orizzontali e verticali a livello regionale, con le quali si consente alle regioni di intervenire a favore degli enti locali del proprio territorio, attraverso una rimodulazione degli obiettivi finanziari assegnati ai singoli enti e alla regione medesima – fermo restando il rispetto degli obiettivi complessivi posti dal legislatore ai singoli comparti - al fine di consentire agli enti locali di poter disporre di maggiori margini per l’effettuazione di spese, soprattutto in conto capitale, senza incorrere nella violazione del patto. Ciò anche in ragione delle difficoltà emerse per le spese di investimento, che in applicazione del criterio di computo dei saldi obiettivo in termini di competenza mista sono risultate fortemente compresse dai vincoli del patto, rappresentando uno dei maggiori punti di criticità dello stesso.

In particolare:

·     con il patto regionale verticale, disciplinato dall’articolo 1, commi 138-140, della legge n. 220/2010 (legge di stabilità 2011), le regioni possono autorizzare gli enti locali del proprio territorio a peggiorare il loro saldo obiettivo, consentendo un aumento dei pagamenti in conto capitale, e procedere contestualmente alla rideterminazione del proprio obiettivo di risparmio, per un ammontare pari all'entità complessiva dei pagamenti in conto capitale autorizzati, al fine di garantire – considerando insieme regione ed enti locali - il rispetto degli obiettivi finanziari. La legge di stabilità 2014, nell’estendere, come detto, tale misura al 2015, ha precisato (comma 506 dell’art. 1) che per gli anni 2014 e 2015, le regioni e le province autonome (escluse la regione Trentino-Alto Adige e le province autonome di Trento e Bolzano) che attivano il patto regionale verticale provvedono a rideterminare il loro obiettivo programmatico in termini di competenza eurocompatibile (i cui contenuti in questa sede non si dettagliano), in linea con le modifiche apportate alle modalità di calcolo dell'obiettivo di patto per regioni;

·     con il patto regionale orizzontale, disciplinato dai commi 141 e 142 dell'articolo 1, della legge n. 220 del 2010, la regione può intervenire per consentire una rimodulazione “orizzontale” degli obiettivi finanziari tra gli enti locali del proprio territorio, in relazione alla diversità delle situazioni finanziarie esistenti sul territorio medesimo, purché venga garantito il rispetto dell’obiettivo complessivamente determinato per gli enti locali della regione. Il meccanismo si fonda sulla cessione di “spazi finanziari” da parte dei comuni e delle province che prevedono di conseguire un differenziale positivo rispetto all’obiettivo prefissato in favore di quelli che rischiano, invece, di conseguire un differenziale negativo rispetto all’obiettivo. Tali spazi finanziari non possono essere utilizzati dagli enti che li acquisiscono per spesa corrente discrezionale, ma soltanto per effettuare spese in conto capitale ovvero spese inderogabili ovvero spese capaci di incidere positivamente sul sistema economico. Le amministrazioni che cedono o acquisiscono spazi finanziari di patto ottengono nel biennio successivo, rispettivamente, un alleggerimento o un aggravio del proprio obiettivo. La procedura prevede che ogni regione provveda, dunque, a ridefinire e a comunicare  in corso d’anno agli enti locali il nuovo obiettivo annuale del patto di stabilità interno, comunicando altresì al Ministero dell'economia e delle finanze tutti gli elementi informativi per la verifica del mantenimento dell'equilibrio dei saldi di finanza pubblica per ciascun ente locale che partecipa al meccanismo di compensazione orizzontale;

·     con il patto regionale integrato - introdotto come evoluzione del patto regionalizzato con l’articolo 20, comma 1, del D.L. n. 98/2011 -, superando il meccanismo delle compensazioni verticali ed orizzontali si prevede la possibilità, per ciascuna regione, di concordare direttamente con lo Stato le modalità di raggiungimento dei propri obiettivi, esclusa la componente sanitaria, e quelli degli enti locali del proprio territorio, previo accordo concluso in sede di Consiglio delle autonomie locali e, ove non istituito, con i rappresentanti dell'ANCI e dell'UPI regionali. Tale patto, poi ulteriormente ridefinito dalla legge di stabilità per il 2012 (articolo 32, comma 17, legge n. 183/2011), che ne ha rinviato ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze le modalità di attuazione e le condizioni della eventuale esclusione dal 'patto concordato' delle regioni che nel triennio precedente non abbiano rispettato il patto o siano sottoposte al piano di rientro dal deficit sanitario, non ha al momento ancora trovato applicazione, atteso che da ultimo la legge di stabilità per il 2014 ne ha posticipato l’operatività al 2015.

 

 

 


Coordinamento del sistema tributario

Assetto delle competenze e questioni principali

Nel vigente testo costituzionale la materia del coordinamento del sistema tributario rientra tra le materie di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

La riforma operata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ha comportato l’assegnazione di poteri in materia di entrata e di spesa agli enti territoriali (regioni, province, comuni, città metropolitane) e di correlate funzioni normative, da esercitarsi nel quadro definito dalla legislazione statale. Tale assetto di rapporti, nel quale a ciascun ente è riconosciuta autonomia finanziaria entro i limiti necessari a mantenere l’unitarietà dell’ordinamento e la solidarietà tra le articolazioni territoriali della Repubblica, si riassume nella formula del “federalismo fiscale”.

Nel conferire autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni, il nuovo assetto costituzionale ha conferito ad essi risorse autonome, in aggiunta a compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio, nonché il potere di stabilire e applicare tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

 

 

 

lente

 

 

Per ciò che attiene al coordinamento del sistema tributario, nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha cercato di enucleare il significato delle disposizioni costituzionali introdotte dalla riforma del 2001 sull’autonomia di entrata delle Regioni.

Per quanto riguarda, in generale, l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione e l’esplicazione della potestà legislativa regionale relativamente all’istituzione di tributi propri, la Corte costituzionale ha segnalato l’urgenza di realizzare il sistema di finanza regionale ivi prefigurato, per realizzare le previsioni del nuovo Titolo V e prevenire “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza n. 370 del 2003).

Il necessario presupposto per l'attuazione del disegno costituzionale è stato rintracciato nell'intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, deve fissare i principi cui i legislatori regionali devono attenersi e determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario, definendo gli spazi e i limiti entro i quali può esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali. Per quanto riguarda in particolare i tributi locali, la riserva di legge stabilita dall’articolo 23 della Costituzione comporta la necessità di definire l'ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti sub-regionali, sforniti di poteri legislativi, e il rapporto fra quest’ultima e la legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario. La Corte ha quindi concluso che “non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale” (sentenza n. 37 del 2004). Questa conclusione è stata confermata nella sentenze n. 241 del 2004 (sulla delega per la riforma del sistema fiscale statale) e n. 261 del 2004 (sulla determinazione delle basi di calcolo dei sovracanoni per la produzione di energia idroelettrica).

Per quanto riguarda la specificazione della nozione di tributo proprio, la Corte ha affermato costantemente che nell’attuale quadro normativo non si danno tributi che possano essere definiti propri delle regioni, nel senso inteso dall’articolo 119 della Costituzione. Infatti, attualmente esistono soltanto tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla sola particolarità che il loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina di questi “tributi regionali” non è divenuta oggetto di legislazione concorrente, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma appartiene alla competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che disciplina i casi e i limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa regionale. Spetta quindi al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti.

Con la sentenza n. 296 del 2003 la Corte ha dichiarato, ad esempio, che l’IRAP non può qualificarsi tributo proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale articolo 119 della Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la disciplina soltanto nei limiti consentiti dalla normativa statale, non rilevando in contrario la devoluzione del relativo gettito alle regioni stesse.

Nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha proseguito nell’opera di enucleazione del significato delle nuove disposizioni, al fine di precisarne la collocazione nel sistema giuridico e di determinare l’ambito di azione della potestà legislativa regionale la quale, ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, deve espletarsi in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia coordinamento del sistema tributario, passa dalla competenza concorrente alla competenza esclusiva statale ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. e).

 

Giurisprudenza costituzionale

Nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale si è sforzata di enucleare il significato delle nuove disposizioni e di precisarne la collocazione nel sistema giuridico.

Per quanto riguarda, in generale, l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione e l’esplicazione della potestà legislativa regionale relativamente all’istituzione di tributi propri, la Corte costituzionale ha segnalato l’urgenza di realizzare il sistema di finanza regionale ivi prefigurato, “al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni” e per prevenire “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza n. 370 del 2003).

La sentenza n. 37 del 2004 ha indicato come necessario presupposto per l'attuazione del disegno costituzionale “l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali”. Per quanto riguarda in particolare i tributi locali, la riserva di legge stabilita dall’articolo 23 della Costituzione comporta la necessità di definire l'ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti sub-regionali, sforniti di poteri legislativi, e il rapporto fra quest’ultima e la legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario. La Corte ha quindi concluso che “non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale”. Questa conclusione è stata confermata nella sentenze n. 241 del 2004 (sulla delega per la riforma del sistema fiscale statale) e n. 261 del 2004 (sulla determinazione delle basi di calcolo dei sovracanoni per la produzione di energia idroelettrica).

Per quanto riguarda la specificazione della nozione di tributo proprio, la Corte ha affermato costantemente che nell’attuale quadro normativo non si danno tributi che possano essere definiti propri delle regioni, nel senso inteso dall’articolo 119 della Costituzione. Infatti, attualmente esistono soltanto tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla sola particolarità che il loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina di questi “tributi regionali” non è divenuta oggetto di legislazione concorrente, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma appartiene alla competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che disciplina i casi e i limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa regionale. Spetta quindi al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti. Tale potestà deve tuttavia esercitarsi in armonia con i nuovi princìpi costituzionali: in particolare, non potrebbe sopprimere, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti alle regioni e agli enti locali dal vigente ordinamento, né configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica tali princìpi (sentenza n. 37 del 2004).

La prima pronunzia a questo proposito è contenuta nella sentenza n. 296 del 2003 che, su ricorso del Governo avverso la legge della regione Piemonte 5 agosto 2002, n. 20, ha dichiarato illegittime le disposizioni ivi contenute in materia di imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e di tassa automobilistica.

La Corte ha dichiarato che l’IRAP non può qualificarsi tributo proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale articolo 119 della Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la disciplina soltanto nei limiti consentiti dalla normativa statale in proposito, non rilevando in contrario la devoluzione del relativo gettito alle regioni stesse. Spetta quindi alle regioni soltanto una limitata facoltà di variare l’aliquota e di disciplinare le procedure applicative secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997. Quest’impostazione è stata confermata dalle sentenze n. 241 e n. 381 del 2004, che hanno deciso ricorsi delle regioni avverso leggi statali intervenute in materia di IRAP e di addizionali regionali all’IRPEF.

Analogamente, in materia di tassa automobilistica, la Corte, nella citata sentenza n. 296 del 2003, ha affermato che alle regioni è stato attribuito “il gettito della tassa, unitamente alla attività amministrativa connessa alla sua riscossione, restando invece ferma la disciplina statale per ogni altro aspetto sostanziale della tassa stessa”. La disciplina sostanziale dell’imposta non è divenuta quindi oggetto di legislazione concorrente ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione. Le successive sentenze n. 297 e n. 311 del 2003 nonché n. 455 del 2005 hanno confermato quest’impostazione.

Nei medesimi termini sono state decise controversie riguardanti il tributo speciale per il deposito dei rifiuti solidi in discarica (previsto dalla legge n. 549 del 1995). Le sentenze n. 335 e n. 397 del 2005 hanno dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni di legge regionale che, rispettivamente, rimettevano a deliberazione della Giunta regionale il metodo di determinazione del tributo (art. 44, comma 3, della legge della regione Emilia-Romagna 14 aprile 2004, n. 7) e ne disponevano l’aumento oltre il termine fissato dalla legge dello Stato (art. 1 della legge della Regione Molise 31 agosto 2004, n. 18). Anche questo tributo deve infatti considerarsi statale e non proprio della regione, che può dunque legiferare solo nei casi e nei limiti previsti dalla legge dello Stato.

Verte in materia di IRAP, ma afferma un principio di più generale applicazione, la sentenza n. 431 del 2004, con cui la Corte costituzionale ha deciso il ricorso della regione Veneto avverso l’articolo 19 della legge n. 289 del 2002 (legge finanziaria per il 2003), che prorogava agevolazioni fiscali relative all’IRAP nel settore agricolo. La Corte ha rigettato infatti la tesi, sostenuta dalla regione, secondo cui ogni intervento sul tributo che, o per modificazione delle aliquote o per variazioni delle agevolazioni previste, comporti un minor gettito per le Regioni, dovrebbe essere accompagnato da misure compensative a ristoro della finanza regionale. Secondo il giudice delle leggi, la manovra fiscale dev’essere considerata nel suo insieme e non è quindi possibile, sotto questo profilo, valutare singole disposizioni. La tesi è stata ribadita in occasione di un altro giudizio (sentenza n. 155 del 2006) relativo a disposizioni dell’articolo 1, commi 347 e seguenti, della legge n. 311 del 2004 (legge finanziaria per il 2005) direttamente o indirettamente incidenti sulla determinazione della base imponibile dell’IRAP.

Nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha proseguito nell’opera di enucleazione del significato delle nuove disposizioni, al fine di precisarne la collocazione nel sistema giuridico e di determinare l’ambito di azione della potestà legislativa regionale la quale, ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, deve espletarsi in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

In merito appare significativo segnalare quanto disposto con la sentenza n. 102 del 2008, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’imposta regionale sulle plusvalenze delle seconde case ad uso turistico (prevista dall’articolo 2 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006 e successive modifiche) e dell’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico (prevista dall’art. 3 della medesima legge regionale e successive modifiche).

La Corte ha rilevato “la contraddizione fra la ratio ispiratrice del tributo regionale censurato e la scelta di politica fiscale del legislatore statale di limitare la tassazione alle sole plusvalenze realizzate nel quinquennio”, peraltro “accentuata dal rilievo che la norma denunciata, in entrambe le sue formulazioni, realizza un'ingiustificata discriminazione tra i soggetti aventi residenza anagrafica all'estero e i soggetti fiscalmente non domiciliati in Sardegna aventi residenza anagrafica in Italia, violando così gli artt. 3 e 53 Cost.”.

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Attività culturali

Assetto delle competenze e questioni principali

L’art. 117, terzo comma, Cost. include la promozione e organizzazione di attività culturali tra le materie di legislazione concorrente.

Pertanto, nell’assetto attuale lo Stato può emanare i “principi fondamentali” concernenti i due contenuti indicati (promozione e organizzazione), spettando poi alle regioni la disciplina di dettaglio sugli stessi aspetti.

 

 

 

lente

 

 

Nel quadro delineato dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato la promozione e organizzazione di attività culturali alla competenza legislativa concorrente, la Corte costituzionale, oltre ad evidenziare che lo sviluppo della cultura corrisponde a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.)” (sentenza n. 307/2004), ha chiarito che le attività culturali riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura e, dunque, anche le attività di sostegno degli spettacoli (sentenza n. 255/2004) e quelle di sostegno delle attività cinematografiche (sentenza n. 285/2005).

Con una più recente sentenza (n. 153/2011) la Corte ha peraltro sancito la competenza statale in materia di interventi di riorganizzazione del settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, che afferisce alla materia «ordinamento e organizzazione amministrativa […] degli enti pubblici nazionali».

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Nel assetto delineato dal nuovo art. 117, a seguito della soppressione della competenza concorrente, è attribuita allo Stato la competenza legislativa esclusiva per la definizione delle disposizioni generali e comuni sulle attività culturali (art. 117, secondo comma, lett. s)) e alle regioni la competenza legislativa per la disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali.

 

Giurisprudenza costituzionale

Con riferimento al riparto di competenze sopra delineato, si ricorda innanzitutto, che nella sentenza n. 307/2004 la Corte costituzionale ha affermato che lo sviluppo della cultura corrisponde a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni”.

Più nello specifico, nella sentenza n. 255/2004, la Corte, evidenziato che le “attività culturali” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., “riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura”, ha sottolineato che, anche se nell’elenco delle materie di cui all’art. 117 della Costituzione non si fa espressa menzione delle attività di sostegno degli spettacoli, da ciò non può dedursi che tale settore sarebbe affidato alla esclusiva responsabilità delle regioni, dal momento che la materia concernente la “promozione e organizzazione di attività culturali”, affidata alla legislazione concorrente di Stato e regioni, ricomprende senza dubbio anche le azioni di sostegno degli spettacoli.

In particolare, la Corte ha esaminato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del D.L. 24/2003 (L. 82/2003) che, in attesa che la legge di definizione dei principi fondamentali di cui all’art. 117 della Costituzione definisse gli ambiti di competenza dello Stato, ha stabilito che i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo, previsti dalla L. 163/2005, e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo, fossero indicati annualmente con decreti del Ministro per i beni e le attività culturali non aventi natura regolamentare: pur confermando la legittimità della norma, in ragione del suo carattere transitorio, la Corte ha in quella circostanza segnalato l’esigenza di prevedere opportuni strumenti di collaborazione con le autonomie regionali[24].

La posizione è stata ribadita nella sentenza n. 285/2005, in riferimento al sostegno delle attività cinematografiche. Nel caso specifico, la Corte, evidenziando “come il livello di governo regionale – e, a maggior ragione, quello infraregionale – appaiano strutturalmente inadeguati a soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico”[25], ha ritenuto legittimo, sulla base della cosiddetta “chiamata in sussidiarietà”, un intervento dello Stato che abbia ad oggetto sia funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia la potestà normativa per l’organizzazione e la disciplina di tali funzioni. Al contempo, ha ritenuto indispensabile ricondurre ai moduli della concertazione necessaria e paritaria fra organi statali e Conferenza Stato-Regioni tutti i numerosi poteri di tipo normativo o programmatorio caratterizzanti il nuovo sistema di sostegno ed agevolazione delle attività cinematografiche. Sono state, pertanto, dichiarate costituzionalmente illegittime diverse disposizioni della L. 28/2004, di riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, nella parte in cui non prevedevano l’intesa con la Conferenza Stato-regioni.

 

Con sentenza n. 153/2011, la Corte costituzionale ha, invece, sancito la competenza statale in materia di interventi per il settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, rigettando la tesi della regione Toscana secondo la quale l’art. 1 del D.L. 64/2010 (L. 100/2010), recante disposizioni per il riordino di tale settore, essendo riconducibile alla materia “promozione e organizzazione di attività culturali”, di competenza concorrente, era stato emanato in violazione del terzo comma dell’art. 117 Cost.

In particolare, la Corte ha ritenuto che l’art. 1 del D.L. afferisce alla materia ordinamento e organizzazione amministrativa […] degli enti pubblici nazionali, di competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lett. g), Cost., in virtù della qualificazione in senso pubblicistico degli enti lirici, ancorché privatizzati[26]. Ha, inoltre, ritenuto che alla natura pubblica di tali enti si accompagni il loro carattere nazionale, in considerazione del fatto che le finalità che essi perseguono, ossia la diffusione dell'arte musicale, la formazione professionale dei quadri artistici e l'educazione musicale della collettività, travalicano largamente i confini regionali e si proiettano in una dimensione estesa a tutto il territorio nazionale.

Ha, inoltre, rilevato che “l’assoggettamento - «per quanto non espressamente previsto dal presente decreto» (art. 4 del D.Lgs. n. 367 del 1996) - alla disciplina del codice civile e delle disposizioni di attuazione del medesimo, colloca per questo aspetto residuo le fondazioni in esame, munite di personalità giuridica di diritto privato pur svolgendo funzioni di sicuro rilevo pubblicistico, all'interno dell’ordinamento civile”, materia anch’essa rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.

 

 

 


Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale

Assetto delle competenze e questioni principali

Nel riparto di competenze legislative derivante dal titolo V attualmente vigente, la materia casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale è rimessa alla competenza concorrente tra Stato e Regioni.

 

 

 

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Sul punto non si rinviene giurisprudenza costituzionale; si segnala peraltro che la Corte costituzionale ha stabilito che la disciplina delle fondazioni di origine bancaria è estranea alla materia concorrente “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per essere ricondotta invece a quella, statale, dell’ordinamento civile (sentenze nn. 300 del 2003 e 438 del 2007; si ricorda, peraltro, che una delle prime sentenze nel rapporto tra materia bancaria ed ordinamento civile è la n. 72/1965).

 

Quadro normativo

Si ricorda, preliminarmente, che il Testo unico delle leggi sull'ordinamento delle Casse rurali e artigiane è stato abrogato dall'art. 116, del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, (Testo unico bancario – TUB). Ai sensi dell’articolo 14 TUB possono esercitare attività bancaria le società per azioni o le società cooperativa per azioni a responsabilità limitata. Queste ultime – che hanno di fatto assorbito le casse rurali e artigiane - possono assumere la forma di banche popolari o banche di credito cooperativo (articolo 28 TUB).

A seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, il D.Lgs. 18 aprile 2006, n. 171 ha individuato i principi fondamentali in materia di casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. In primo luogo, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, tali istituti sono definiti banche a carattere regionale.

Ai sensi dell'articolo 2, la potestà legislativa regionale concorrente in materia bancaria si esercita nei confronti delle banche a carattere regionale.

Sono quindi definite le caratteristiche di una banca a carattere regionale: l'ubicazione della sede e delle succursali nel territorio di una stessa regione, la localizzazione regionale della sua operatività, nonché, ove la banca appartenga a un gruppo bancario, la circostanza che anche le altre componenti bancarie del gruppo e la capogruppo presentino carattere regionale ai sensi del presente articolo. L'esercizio di una marginale operatività al di fuori del territorio della regione non fa venir meno il carattere regionale della banca. La localizzazione regionale dell'operatività è determinata dalla Banca d'Italia, in conformità ai criteri deliberati dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (CICR), che tengano conto delle caratteristiche dell'attività della banca e dell'effettivo legame dell'operatività aziendale con il territorio regionale.

Le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia di banche a carattere regionale nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, nonché dalle norme e dagli obblighi internazionali e nei limiti dei principi fondamentali individuati dal decreto (articolo 3). Ai sensi dell'articolo 159 del TUB le valutazioni di vigilanza sono riservate alla Banca d'Italia.

La legge regionale può, in particolare, disciplinare l'istituzione di un albo delle banche a carattere regionale; l'adozione, previo parere vincolante della Banca d'Italia a fini di vigilanza, dei provvedimenti relativi all'autorizzazione all'attività bancaria, alle modifiche statutarie, ivi comprese quelle dipendenti da trasformazioni, fusioni e scissioni; le modalità di verifica dei requisiti di esperienza e onorabilità degli esponenti aziendali.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Nel nuovo articolo 117 la competenza concorrente in materia di casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale non è più contemplata.

 

Giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale ha stabilito, avuto riguardo alla evoluzione legislativa, che la disciplina delle fondazioni di origine bancaria è ritenuta estranea alla materia concorrente “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per essere ricondotta invece a quella, statale, dell’ordinamento civile (sentenze n. 300 del 2003 e n. 438 del 2007; si ricorda, peraltro, che una delle prime sentenze nel rapporto tra materia bancaria ed ordinamento civile è la n. 72/1965).

 


Turismo

Assetto delle competenze e questioni principali

In base all’art. 117 attualmente vigente, il turismo, materia non menzionata nella competenza esclusiva statale e nella competenza concorrente, rientra nell’ambito della competenza residuale delle regioni.

 

 

 

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Il turismo rientra dunque tra le materie “residuali” (art. 117, quarto comma), in riferimento alle quali le Regioni non sono più soggette ai limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali. Questo mutamento del titolo competenziale delle Regioni è stato confermato in più occasioni dalla Corte costituzionale. Nonostante ciò per numerosi e rilevanti profili della disciplina del turismo, il riferimento alla legislazione statale appare tuttora preponderante.

In base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, non è esclusa la possibilità per la legge di attribuire funzioni legislative al livello statale e di regolarne l’esercizio, vista l’importanza del settore turistico per l’economia nazionale. Secondo la Corte la chiamata in sussidiarietà a livello centrale è legittima soltanto se l’intervento statale sia giustificato nel senso che, a causa della frammentazione dell’offerta turistica italiana, sia doverosa un’attività promozionale unitaria; d’altra parte, l’intervento deve essere anche proporzionato nel senso che lo Stato può attrarre su di sé non la generale attività di coordinamento complessivo delle politiche di indirizzo di tutto il settore turistico, bensì soltanto ciò che è necessario per soddisfare l’esigenza di fornire al resto del mondo un’immagine unitaria. Infine, lo Stato deve prevedere un adeguato coinvolgimento delle Regioni, in quanto la materia turismo, appartenendo a tali enti territoriali, deve essere trattata dallo Stato stesso con atteggiamento lealmente collaborativo.

 

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Nel nuovo assetto costituzionale invece, le disposizioni generali e comuni sul turismo sono attribuite alla competenza esclusiva statale, mentre spetta alle regioni la competenza in materia di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo.

 

Giurisprudenza costituzionale

In base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonostante la materia del turismo appartenga «alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenza n. 94 del 2008, n. 214 e n. 90 del 2006), non è esclusa la possibilità «per la legge di attribuire funzioni legislative al livello statale e di regolarne l’esercizio», vista l’importanza del settore turistico per l’economia nazionale. Come ha rilevato la Corte «la chiamata in sussidiarietà a livello centrale è legittima soltanto se l’intervento statale sia giustificato nel senso che, a causa della frammentazione dell’offerta turistica italiana, sia doverosa un’attività promozionale unitaria; d’altra parte, l’intervento deve essere anche proporzionato nel senso che lo Stato può attrarre su di sé non la generale attività di coordinamento complessivo delle politiche di indirizzo di tutto il settore turistico, bensì soltanto ciò che è necessario per soddisfare l’esigenza di fornire al resto del mondo un’immagine unitaria. Infine, lo Stato deve prevedere il coinvolgimento delle Regioni, non fosse altro perché la materia turismo, appartenendo oramai a tali enti territoriali, deve essere trattata dallo Stato stesso con atteggiamento lealmente collaborativo (sentenza n. 214 del 2006, punti 8-9 diritto; sentenza n. 76 del 2009, punti 2-3)».

Il riconoscimento al legislatore statale del titolo all'intervento, attraverso il meccanismo dell'attrazione in sussidiarietà trova ulteriore manifesto nella sentenza n. 80 del 2012: «Lo Stato, in taluni casi, è legittimato ad intervenire nella materia del turismo; ciò avviene in relazione alle materie cosiddette trasversali, quali la tutela della concorrenza, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, il coordinamento informativo statistico e informatico, ovvero quando talune funzioni amministrative non possano essere efficacemente svolte a livello regionale. In questo secondo caso, lo Stato avoca a sé l’esercizio di dette funzioni amministrative, congiuntamente alle corrispondenti funzioni legislative, secondo lo schema della cosiddetta chiamata in sussidiarietà.

Anche nella materia del turismo è dunque possibile che si realizzi tale meccanismo, come la giurisprudenza costituzionale ha affermato nelle sentenze n. 76 del 2009, n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006, ma ciò deve avvenire secondo lo ‘statuto’ elaborato dalla stessa Corte nelle note sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004. Infine, lo Stato può disciplinare ambiti materiali che si pongono in stretta correlazione con quello del turismo o che hanno una indubbia influenza sulle attività che si riferiscono ad esso, come ad esempio nel caso delle professioni o dell’ordinamento civile. In sostanza, il riconoscimento della competenza legislativa residuale regionale nella materia del turismo non esclude la possibilità, per lo Stato, di incidere con proprie discipline legislative su tale settore o su settori contigui.».

Si deve inoltre segnalare la ricorrente affermazione, nella giurisprudenza della Corte, della necessità di un intervento unitario del legislatore statale in materia di turismo in considerazione delle esigenze di valorizzare tale settore (fondamentale risorsa economica del Paese) a livello interno e internazionale e di ricondurre ad unità la grande varietà dell’offerta turistica italiana (sentenze n. 76/2009, n. 88/2007, n. 214/2006).

 

In questo quadro, sono stati ritenuti assistiti da un’effettiva esigenza di esercizio unitario a livello statale di funzioni amministrative, gli interventi legislativi dello Stato che prevedevano:

·     l’attribuzione al Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo il compito di assicurare il supporto tecnico-specialistico in favore di soggetti nazionali ed internazionali che intendono promuovere progetti di investimenti diretti a riqualificare il prodotto turistico nazionale (sentenza n. 76/2009);

·     la previsione di stanziamenti diretto a rafforzare le capacità competitive delle strutture turistiche nazionali (sentenza n. 94/2008, che ha ritenuto tuttavia necessaria la decreto attuativo);

·     l’adozione, da parte dello Stato, di un programma per lo sviluppo dell’agriturismo (sentenza n. 339/2007: la norma statale dichiarata legittima prevede l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni);

·     la disciplina relativa alla realizzazione di insediamenti turistici di qualità di interesse nazionale (sentenza n. 88/2007, che ha richiesto la necessità dell’intesa con le Regioni con riferimento alla fissazione dei requisiti che debbono essere posseduti dai soggetti promotori);

·     riforma di un ente nazionale (ENIT-Agenzia nazionale del turismo) avente compiti promozionali dell’offerta turistica italiana sulla base di un’immagine unitaria della stessa. Con la sentenza 214/2006, la Corte chiamata a pronunciarsi sulle disposizioni legislative concernenti la riorganizzazione dell’ENIT non censura il legislatore statale sia perché la nomina dei componenti di tutti gli organi dell’ente è effettuata previa intesa (condizione della leale collaborazione) con la Conferenza Stato-Regioni (e il consiglio di amministrazione ha una rappresentanza regionale superiore a quella statale), sia per il compito affidato all’ente, che consiste (come osserva la Corte, p. 9 cons. dir.) esclusivamente nella promozione dell’immagine turistica italiana in senso unitario (condizione della proporzionalità).

 

Sono state ritenute invece illegittime (in quanto invasive della competenza regionale), norme statali che regolavano:

·    l’istituzione di organismi centrali senza alcun coinvolgimento delle Regioni (sentenza n. 339/2007, in riferimento all’istituzione dell’Osservatorio nazionale per l’agriturismo) ovvero con un coinvolgimento insufficiente in termini di componenti di provenienza regionale (sentenza n. 214/2006, in riferimento all’istituzione del Comitato nazionale per il turismo);

·    attività amministrative affidate agli uffici regionali secondo modalità proprie dell’avvalimento d’ufficio (sentenza n. 88/2007);

·    in materia di agriturismo (sentenza n. 339/2007): i criteri di prevalenza dell’attività agricola rispetto a quella turistica, i criteri che l’azienda agrituristica deve rispettare nella somministrazione di pasti e bevande, il procedimento amministrativo che consente l’avvio dell’esercizio di un agriturismo, le comunicazioni circa la sospensione dell’attività.

 

Inoltre, con la sopra citata sentenza n. 80/2012 la Corte ha dichiarato l’illegittimità di numerose disposizioni del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79 (c.d. Codice del turismo), in quanto volte all’accentramento di funzioni rientranti nella competenza legislativa residuale delle Regioni.

 

In particolare sono state dichiarate illegittime:

   la classificazione delle strutture ricettive;

   classificazione degli standard qualitativi delle imprese turistiche ricettive;

   la classificazione e disciplina delle strutture ricettive alberghiere ed extralberghiere;

   la classificazione e disciplina delle strutture ricettive all'aperto;

   la definizione delle strutture ricettive di mero supporto;

   la disciplina degli standard qualitativi dei servizi e delle dotazioni per la classificazione delle strutture ricettive;

   norme sulla semplificazione degli adempimenti amministrativi delle strutture turistico-ricettive;

   le «definizioni» in materia di agenzie di viaggio e turismo;

   la disciplina dei procedimenti amministrativi in materia di turismo;

   la definizione e disciplina dei «sistemi turistici locali», riferendosi a «contesti turistici omogenei o integrati, comprendenti ambiti territoriali appartenenti anche a regioni diverse, caratterizzati dall'offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni turistiche, compresi i prodotti tipici dell'agricoltura e dell'artigianato locale, o dalla presenza diffusa di imprese singole o associate;

   la disciplina delle agevolazioni in favore dei turisti con animali domestici al seguito;

   la disciplina delle attività di assistenza al turista;

   la norma che disponendo che l'apertura di filiali, succursali e altri punti vendita di agenzie, già legittimate ad operare, non richiede la nomina di un direttore tecnico per ciascun punto di erogazione del servizio, disciplina un aspetto di dettaglio nella materia "turismo", attribuita alla competenza legislativa residuale delle Regioni.

 

 

 


Servizi sociali

Assetto delle competenze e questioni principali

Nell’attuale sistema di riparto delle competenze, la materia servizi sociali (talora definita anche come politiche sociali), in quanto non nominata né tra gli ambiti di competenza esclusiva statale né tra quelli di competenza concorrente, è pacificamente attribuita dalla giurisprudenza costituzionale alla competenza residuale regionale (cfr., ex plurimis, sentenze n. 296 del 2012, n. 61 del 2011, n. 121 del 2010, n. 10 del 2010, n. 168 del 2008, n. 166 del 2008, n. 50 del 2008 e n. 300 del 2005).

 

 

 

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La competenza residuale regionale in materia di servizi sociali è destinata ad intrecciarsi con la competenza esclusiva statale in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

I rapporti tra i due ambiti materiali sono messi a fuoco nella sentenza della Corte costituzionale n. 297 del 2012. Secondo la Corte, l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che sancisce la competenza statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, pone, in tema di livelli essenziali di assistenza socio-assistenziale (LIVEAS), una riserva di legge che deve ritenersi rinforzata (in quanto vincola il legislatore ad apprestare una garanzia uniforme sul territorio nazionale) e relativa (in quanto, considerata la complessità tecnica della determinazione dei livelli delle prestazioni, essi possono essere stabiliti anche in via amministrativa, purché in base alla legge). La determinazione dei LIVEAS non esclude peraltro che le Regioni e gli enti locali possano garantire, nell’àmbito delle proprie competenze, livelli ulteriori di tutela (sentenze n. 207 e n. 10 del 2010; n. 322 e n. 200 del 2009; n. 387 del 2007; n. 248 del 2006).

La forte incidenza della competenza in materia di determinazione dei livelli essenziali sull’esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni (sentenza n. 8 del 2011; n. 88 del 2003) è stata talora ritenuta tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e n. 121 del 2010; n. 322 e n. 124 del 2009; n. 162 del 2007; n. 134 del 2006; n. 88 del 2003), salvo che ricorrano ipotesi eccezionali in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni «non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità […] di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana», tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza n. 10 del 2010, a proposito della social card, ricondotta ai LEP e messa in connessione con gli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost.). Proprio in ragione di tale impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni (nella forma dell’«intesa») a salvaguardia delle competenze di queste.

La specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS introdotta dal legislatore statale dopo la riforma del titolo V del 2001 (art. 46, comma 3, legge n. 289/2002) non ha peraltro mai trovato applicazione.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Tra le materie di competenza regionale, il nuovo terzo comma dell’art. 117 individua espressamente la materia programmazione ed organizzazione dei servizi sociali.

 

Giurisprudenza costituzionale

All'indomani dell'intervento costituzionale del 2001, sono state assegnate alle Regioni le competenze residuali e concorrenti, rispettivamente, per le materie dei servizi sociali e della tutela della salute mentre allo Stato è stata assegnata la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, (articolo 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione), quale competenza esclusiva e trasversale idonea ad investire una pluralità di materie che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto (sentenza n. 50/2008, sentenza n. 322/2009).

Rispetto alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni,  la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 282/2002, ha chiarito che “non si tratta di una materia in senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle”. Successivamente, con la sentenza n. 134/2006, la Corte costituzionale ha chiarito che i livelli essenziali si impongono anche alle Regioni speciali.

Da ciò consegue che lo Stato, quando alla Regione spetta la competenza legislativa residuale, come avviene per i servizi sociali, non ha alcuna competenza legislativa, ad esclusione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che tuttavia devono essere stabiliti in accordo con le autonomia territoriali. Questa peculiare competenza comporta infatti “una forte incidenza sull'esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni” (sentenza n. 8/2011 sull’aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione, salvo che ricorrano ipotesi eccezionali, in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni “non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità [...] di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana”, tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza n. 10/2010). In particolare, con la sentenza 10/2010 sulla social card, la Consulta ribadisce che la restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni è giustificata solo per assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione (sentenza n. 387/2007). Allo stesso tempo, la Corte sottolinea che la ratio di tale titolo di competenza è riscontrabile anche nella previsione e nella diretta erogazione di una determinata provvidenza/prestazione, nel caso in cui questa assicuri il soddisfacimento di un interesse ritenuto meritevole di tutela, come nel caso della social card. La Corte ricorda che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. Per la Consulta, il complesso di queste norme costituzionali permette di ricondurre tra i “diritti sociali” di cui deve farsi carico il legislatore nazionale il diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in particolare, alimentare – e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una tale previsione possa pregiudicarlo.

 

Proprio in ragione dell’impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni (nella forma dell’Intesa) a salvaguardia delle competenze degli enti territoriali (sentenza n. 297/2012 relativa alle modalità di determinazione e campi di applicazione dell’ISEE[27]).

Come per altri settori di intervento delle politiche legislative di natura concorrente e residuale, anche per i servizi sociali, il finanziamento previsto dalla legge incontra un preciso limite che il legislatore statale deve rispettare sulla modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie territoriali. Non sono, infatti, consentiti finanziamenti a destinazione vincolata in materie di competenza regionale concorrente ovvero residuale, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 423/2004).

Le sentenze citate sottolineano, con evidenza, all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, una difficoltà dello Stato e delle Regioni a legiferare sulla materia dei servizi sociali, soprattutto, per la perdurante assenza della previsione dei livelli essenziali di assistenza (LEP/LIVEAS), la cui definizione è rimasta ferma a quella generica contenuta nella legge quadro 328/2000. L’esigenza di una chiara definizione dei livelli essenziali per le prestazioni sociali appare tanto più opportuna dopo la riforma in senso federalista della legge delega 42/2009 che delinea un sistema basato sulla distinzione fra spese essenziali, destinate a finanziare i livelli essenziali delle prestazioni, e per le quali è previsto il finanziamento integrale sulla base del fabbisogno standard, e spese libere, svincolate da un sistema di riferimento vincolante.

D’altra parte il procedimento di adozione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria è stato oggetto della sentenza n. 88/2003 in materia di servizi per le tossicodipendenze, dove viene giudicato incostituzionale il tentativo di imporre nuovi vincoli alle regioni con un semplice decreto del Ministro della salute. La Corte costituzionale ricorda che dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della seconda parte della Costituzione, la competenza affidata allo Stato di definizione dei livelli essenziali rischiando di incidere sulle competenze regionali richiede, da parte dello Stato stesso, l’uso dello strumento legislativo, e la previsione del coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome attraverso la previa intesa con il Governo, da conseguire in sede di Conferenza Stato-regioni.

Si ricorda infine che, nella giurisprudenza costituzionale, la tutela dell’uguaglianza si estende anche al riconoscimento delle prestazioni di assistenza sociale agli stranieri presenti sul territorio nazionale (sentenze nn. 306/2008, 187/2010 sull’assegno mensile di invalidità, 269/2010, 40/2011[28] e 61/2011).


Rassegna della giurisprudenza costituzionale sulle nuove materie espressamente previste nel nuovo art. 117

 

In questa sezione sono analizzate le materie, finora innominate nell’ambito del Titolo V della Costituzione, che il progetto di riforma attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato o a quella delle regioni.

 


Mercati assicurativi

Assetto delle competenze e questioni principali

Attualmente la materia mercati assicurativi, non espressamente prevista dall’articolo 117 Cost., sembrerebbe riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato, che comprende le materie tutela del risparmio e mercati finanziari e tutela della concorrenza, nonché la materia ordinamento civile (art. 117, secondo comma, lettere e) ed l), Cost.).

 

 

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Nella sua giurisprudenza, la Corte costituzionale non ha mai affrontato specificamente la materia mercati assicurativi.

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Viene esplicitata la competenza esclusiva statale in materia di mercati assicurativi.

 

Giurisprudenza costituzionale

Nella sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha affrontato solo il profilo della disciplina dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore, riconducendola alla materia di competenza statale esclusiva ordinamento civile (sentenza n. 428 del 2004).

 

Anche il Consiglio di Stato - nel parere reso nell’adunanza del 14 febbraio 2005 dalla sezione consultiva degli atti normativi in merito al codice delle assicurazioni - ha rilevato come la materia oggetto del codice sia ricompresa in competenze legislative esclusive statali ed in particolar modo in quella dell’ordinamento civile di cui all’art. 117 lett. l), Cost.; alle norme generali del contratto di assicurazione e di riassicurazione, infatti, è dedicato il Capo XX del titolo III del IV libro del vigente Codice civile (artt. 1882-1932).

 


Procedimento amministrativo

Assetto delle competenze e questioni principali

Attualmente la materia procedimento amministrativo non è prevista nel testo dell’articolo 117.

 

 

 

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Nella giurisprudenza costituzionale sulla materia è stato posto in evidenza come il procedimento amministrativo non possa considerarsi una vera e propria materia, atteso che lo stesso, in relazione agli aspetti di volta in volta disciplinati, può essere ricondotto a più ambiti materiali di competenza statale o regionale entro i quali la disciplina statale regola in modo uniforme i diritti dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 401/2007).

In una prima fase, la giurisprudenza costituzionale ha riguardato in modo particolare l’applicazione del principio di leale collaborazione con riguardo ai singoli procedimenti amministrativi incidenti su materie competenza dello Stato e/o delle Regioni. Sotto altro profilo, riguardo alle norme istitutive delle Autorità nazionali di regolazione, la Corte costituzionale ha ritenuto che con le stesse non vengono incise le competenze di amministrazione attiva o di controllo e non si altera la ripartizione dell'esercizio di queste ultime tra Stato, Regioni ed enti locali, alla luce della funzione di garanzia svolta da tali soggetti.

La giurisprudenza costituzionale più recente ha, in diverse occasioni, ricondotto alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” concernenti i diritti civili e sociali anche norme di semplificazione amministrativa, quali quelle sull'introduzione della segnalazione certificata di inizio attività, ritenendo che anche l’attività amministrativa possa assurgere alla qualifica di ‘prestazione’ - quindi, anche i procedimenti amministrativi in genere - della quale lo Stato è competente a fissare un ‘livello essenziale’ a fronte di una specifica pretesa dei singoli. Ne deriva, secondo l’impostazione seguita dalla Corte, che quando il legislatore statale intende dettare regole del procedimento amministrativo, valide in ogni contesto geografico della Repubblica, queste, adeguandosi a canoni di proporzionalità e adeguatezza, si sovrappongono al normale riparto di competenze contenuto nel Titolo V della Parte II della Costituzione.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La materia del procedimento amministrativo è attribuita alla competenza esclusiva statale limitatamente alle norme tese ad assicurarne l'uniformità sul territorio nazionale.

 

Giurisprudenza costituzionale

In via generale, la Corte costituzionale (sentenza n. 401 del 2007) si è espressa nel senso che il procedimento amministrativo non sia "una vera e propria materia, atteso che lo stesso, in relazione agli aspetti di volta in volta disciplinati, può essere ricondotto a più ambiti materiali di competenza statale o regionale (sentenza n. 465 del 1991), entro i quali la disciplina statale regola in modo uniforme i diritti dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

La Corte ha poi esaminato numerosi casi di singoli procedimenti amministrativi in relazione ai quali lo Stato o le Regioni hanno lamentato lesioni delle rispettive prerogative, ivi compresi alcuni in cui sono state attivate procedure d’intesa ritenute però inadeguate dai ricorrenti.

La sentenza n. 39/2013 ha dichiarato illegittimo che lo Stato, pur in considerazione di gravi esigenze di tutela della sicurezza, della salute, dell’ambiente o dei beni culturali o per evitare un grave danno all’Erario, adotti unilateralmente un atto amministrativo incidente in materie di competenza regionale non avendo raggiunto la necessaria intesa con la Regione interessata.

La Corte ha osservato che “il rilievo nazionale degli interessi menzionati [...] non è da solo sufficiente a rendere legittimo il superamento dei limiti alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni fissati dal riparto costituzionale delle competenze”. Prima ancora, la sentenza n. 303 del 2003 aveva affermato che l’accentramento dell’esercizio di funzioni amministrative da parte dello Stato può superare il vaglio di legittimità costituzionale “solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”. Devono quindi essere previste procedure di reiterazione delle trattative, con l’impiego di specifici strumenti di mediazione, ai quali possono aggiungersi ulteriori garanzie di bilateralità.

Tuttavia, quando i dissensi tra le parti sono talmente radicali da non lasciare intravedere “un possibile punto di incontro, pur a seguito di ulteriori trattative”, allora “obbligo di cooperare non significa affatto obbligo di astenersi dal provvedere”, puntualizza la sentenza n. 219/2013. La sentenza n. 239/2013 aggiunge che “una condotta meramente passiva che si traduca nell’assenza di ogni forma di collaborazione, si risolve in una inerzia idonea a creare un vero e proprio blocco procedimentale con indubbio pregiudizio per il principio di leale collaborazione e per il buon andamento dell’azione amministrativa”.

Il principio di leale collaborazione non si applica però “allorché lo Stato eserciti la propria competenza legislativa esclusiva” (sentenza n. 8/2013 e similmente, ex plurimis, n. 8/2005). Se invece, in relazione ad un medesimo oggetto, un titolo di competenza esclusiva dello Stato si intreccia con materie di competenza regionale, le istanze della leale collaborazione devono essere soddisfatte e, a tal fine, la sentenza n. 62/2013 reputa sufficiente la previsione del parere della Conferenza unificata Stato-Regioni “come momento partecipativo”.

Nei casi di spostamento di competenze amministrative a seguito di attrazione in sussidiarietà, la Corte ha escluso che possa essere previsto un potere sostitutivo, ritenendo che un atto unilaterale dello Stato non rappresenti leale collaborazione, necessaria in tale evenienza (ex multis, sentenze n. 165 del 2011 e n. 383 del 2005).

Al contempo, riguardo alle Autorità nazionali di regolazione, la Corte costituzionale ha rilevato come esse abbiano una funzione di garanzia (sentenza n. 88/2009) e perciò l'istituzione di una di esse non incide sulle competenze di amministrazione attiva o di controllo e non altera la ripartizione dell'esercizio di queste ultime tra Stato, Regioni ed enti locali (sentenza n. 41/2013).

Più di recente, con le sentenze n. 203 e n. 207 del 2012, n. 62 del 2013 e n. 121 del 2014, la Corte costituzionale ha ricondotto alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” concernenti i diritti civili e sociali anche norme di semplificazione amministrativa, in quanto “anche l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di ‘prestazione’ - quindi, anche i procedimenti amministrativi in genere - della quale lo Stato è competente a fissare un ‘livello essenziale’ a fronte di una specifica pretesa di individui, imprese, operatori economici ed, in generale, di soggetti privati”.

Sviluppando tale impostazione la Corte ha ribadito come la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non costituisca una «materia» in senso stretto, quanto una competenza del legislatore statale «idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (sentenze n. 322 del 2009 e n. 282 del 2002).

Ad avviso della Corte, deve dunque riconoscersi che anche con la disciplina di semplificazione riguardante la segnalazione di inizio attività il legislatore statale ha voluto dettare regole del procedimento amministrativo, valide in ogni contesto geografico della Repubblica, le quali, adeguandosi a canoni di proporzionalità e adeguatezza, si sovrappongono al normale riparto di competenze contenuto nel Titolo V della Parte II della Costituzione (sentenza n. 207 del 2012). Tale disciplina è infatti diretta ad impedire che le funzioni amministrative risultino inutilmente gravose per i soggetti amministrati ed è volta a semplificare le procedure in un’ottica di bilanciamento tra l’interesse generale e l’interesse particolare.

Nel caso di specie, la normativa esaminata dalla Corte prevedeva che gli interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale, potessero  svolgere temporaneamente l’attività di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali straordinari, mediante una mera segnalazione di inizio attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e anche in assenza del possesso dei requisiti previsti dall’art. 71, comma 6, del D.Lgs. n. 59 del 2010.

La Corte ha dunque ritenuto che si fosse in presenza di un atto da collocare all’inizio della fase procedimentale, la quale è strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima (sentenza n. 203 del 2012).

Nella citata sentenza n. 62/2013 la Corte rileva inoltre che “la situazione eccezionale di crisi economico-sociale ha ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare la [sua] competenza legislativa esclusiva”. Nella stessa logica, le “imperiose necessità sociali, indotte anche dall'attuale grave crisi economica nazionale e internazionale”, sono state ritenute “giustificazioni sufficienti per legittimare l'intervento del legislatore statale limitativo della competenza residuale delle Regioni” dalla sentenza n. 121/2010, orientamento che è stato confermato dalla sentenza n. 273/2013.

 

 

 

 

 

 

 


Disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche

La disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche è materia non espressamente prevista dal testo costituzionale vigente.

 

 

 

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Nel vigente assetto costituzionale, pacifica è sempre stata l’attribuzione alla competenza esclusiva dello Stato della disciplina del pubblico impiego dei dipendenti statali e degli enti pubblici nazionali, in quanto ascrivibile alla materia “ordinamento civile” o alla materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.

Più articolata è la questione in merito alla competenza sui rapporti di lavoro del personale delle regioni e degli enti pubblici locali, potendosi richiamare la materia “ordinamento e organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti locali”, spettante alla competenza residuale delle regioni. E’ rimasta in proposito isolata un’affermazione contenuta in una sentenza della Corte costituzionale del 2003 che riconduceva l’intera materia dello stato giuridico ed economico del personale regionale alla potestà legislativa residuale regionale (sentenza n. 274/2003, punto 3.2).

La giurisprudenza costituzionale successiva riconduce l’impiego pubblico regionale:

-     all’ordinamento civile e, dunque, alla competenza esclusiva dello Stato, relativamente ai profili privatizzati del rapporto, dato che “la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico vincola anche le Regioni” (sentenza n. 2/2004);

-     all’ordinamento e organizzazione amministrativa delle regioni, e, quindi, alla competenza residuale regionale, relativamente ai profili “pubblicistico-organizzativi”, nei quali rientra la disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego regionale (sentenza n. 233/2006).

Con riferimento ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni sanitarie, la Corte costituzionale ha in invece ritenuto che la relativa disciplina, in quanto strumentale alla prestazione del servizio, può essere ricondotta alla materia di competenza concorrente “tutela della salute” (sentenze n. 150/2010, n. 295/2009, n. 422/2006, n. 233/2006).

La disciplina dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni si interseca inoltre con la competenza concorrente in tema di coordinamento della finanza pubblica, cui sono riferibili le disposizioni nazionali volte al contenimento delle spese di personale degli enti territoriali.

Con riferimento all'accesso ai pubblici uffici la Corte (tra le altre, sentenze n. 28 del 2013, n. 72/2013, n. 73/2013 e 137/2013) ha ribadito che il principio del pubblico concorso è da considerarsi derogabile (anche da parte delle regioni e degli enti locali) soltanto qualora ciò sia funzionale al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

La riforma aggiunge le norme sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale tra le materie di competenza esclusivamente statale di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. g).

 

Giurisprudenza costituzionale

Passando ad un’analisi della casistica della giurisprudenza costituzionale, con riguardo alla materia ordinamento civile, la sentenza n. 95/2007 ha affermato che il rapporto di impiego alle dipendenze di regioni ed enti locali, essendo stato “privatizzato” (ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. n. 165 del 2001), è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati ed è, perciò, soggetto alle regole che garantiscono l’uniformità di tale tipo di rapporti (nello stesso senso, sentenza n. 19/2013). Con la conseguenza che la legge statale, in tutti i casi in cui interviene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, costituisce un limite alla competenza residuale regionale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni (sentenze n. 233/2006, n. 380/2004 e n. 274/2003). La Corte ha conseguentemente ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative alla soppressione delle indennità di trasferta per tutte le amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti territoriali.

Nella sentenza n. 189/2007, la Corte ha ribadito che i princípi fissati dalla legge statale in materia di rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali “privatizzato” costituiscono tipici limiti di diritto privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati e ha precisato che detti principi si impongono anche alle Regioni a statuto speciale (nello stesso senso sentenze n. 234 e n. 106/2005; n. 282/2004).

In base alla riconducibilità alla materia ordinamento civile, sono state dichiarate costituzionalmente illegittime disposizioni regionali che:

-     stabilivano l’applicabilità della qualifica e del trattamento contrattuale di capo servizio anche ai componenti degli uffici stampa degli enti locali (sentenza n. 189/2007);

-     incidevano sul periodo in cui può essere esercitata la facoltà di chiedere l’esonero dal servizio (sentenza n. 151/2010);

-     intervenivano in materia riservata alla contrattazione collettiva o in materia di orario di lavoro e di trattamenti economici (sentenza n. 7/2011) nonché in materia di buoni pasto (sentenza n. 77/2011) o che incidevano sulla disciplina del riposo festivo (sentenza n. 150/2011);

-     autorizzavano gli enti del servizio sanitario regionale a trasformare contratti di lavoro precario o flessibile, in corso o comunque già stipulati, in veri e propri contratti di lavoro a tempo indeterminato (sentenza n. 69/2011) o consentivano ai dirigenti di prorogare i contratti di collaborazione (sentenza n. 170/2011);

-     introducevano incentivi economici alla risoluzione anticipata del rapporto (sentenza n. 69/2011);

-     prorogavano la validità di incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’amministrazione (sentenza n. 310/2011);

-     destinavano le economie derivanti dalla riduzione dell’organico della dirigenza alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate ai sensi del CCNL (sentenza n. 339/2011);

-     prevedevano che i dipendenti regionali potessero essere autorizzati all’utilizzo del mezzo proprio consentendo, a determinate condizioni, il relativo rimborso spese (sentenza n. 19/2013).

 

Per quanto attiene alla competenza regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrazione delle regioni, la Corte costituzionale ha sempre ricondotto in questo ambito la disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego regionale, in ragione dei suoi contenuti marcatamente pubblicistici e la sua intima correlazione con l’attuazione dei principi sanciti dagli artt. 51 e 97 Cost. (sentenze n. 100/2010, n. 95/2008, n. 380/2004, n. 4/2004).

È stata pertanto ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento ad una norma regionale che sottoponeva a limiti la possibilità della regione e degli enti pubblici regionali di ricorrere, per far fronte alle proprie esigenze, a contratti a tempo determinato (sentenza n. 235/2010).

Ha inoltre superato il vaglio di costituzionalità, in quanto riconducibile alla competenza regionale residuale, una disposizione regionale che autorizza la Giunta e il suo presidente a dotarsi di personale assunto con forme di collaborazione flessibile, anche in deroga dei principi dettati dalle legislazione statale, in ragione del rapporto fiduciario che caratterizza questi rapporti (sentenza n. 7/2011).

 

Con riferimento ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni sanitarie, la Corte costituzionale ha ritenuto che la relativa disciplina, ove relativa alla delimitazione temporale dei rapporti di lavoro, può essere ricondotta alla materia di competenza concorrente tutela della salute. In tale ambito la Corte ha sempre riconosciuto la natura di principio fondamentale alla disciplina statale, dichiarando conseguentemente l’illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali in materia (sentenze n. 150/2010, n. 295/2009, n. 422/2006, n. 233/2006).

 

 

Per quanto riguarda infine le norme volte al contenimento della spesa di personale degli enti territoriali, ascrivibili alla materia concorrente coordinamento della finanza pubblica, secondo la giurisprudenza costituzionale, la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi, ma non può imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi, che si risolverebbero in una invasione nell’ambito materia dell’organizzazione amministrativa, riservata alle autonomie regionali e degli enti locali.

In base a questi principi la Corte ha sempre ritenuto che non è illegittima l’imposizione, da parte dello Stato, di un limite alla spesa complessiva del personale degli enti territoriali, poiché trattasi di un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica, che può dar luogo, nell’organizzazione degli uffici, ad inconvenienti di mero fatto, come tali non incidenti sul piano della legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 169/2007, n. 412/2007).

La Corte ha inoltre considerato principio generale di coordinamento della finanza pubblica, al quale devono adeguarsi gli enti territoriali, l’imposizione di limiti alla possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere alle assunzioni a tempo determinato e alla stipula di convenzioni e contratti di collaborazione coordinata e continuativa e di limiti alla spesa sostenibile dalle stesse amministrazioni per i contratti di formazione-lavoro, gli altri rapporti formativi, la somministrazione di lavoro e il lavoro accessorio (sentenza n. 173/2012).

La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali che introducevano deroghe al divieto, posto dal legislatore statale, di assumere personale oltre il limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente (sentenza n. 130/2013).

In altra occasione la Corte, ricollegandosi pure alle sue precedenti sentenze n. 3/2013 e n. 60/2013, ha affermato che la disposizione regionale contrastante con la normativa statale espressiva di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica trasmoda dai limiti competenziali fissati in detta materia alla potestà legislativa concorrente delle Regioni. Tali limiti sono opponibili, per costante giurisprudenza della Corte stessa, anche alle Regioni ad autonomia differenziata quale il Friuli-Venezia Giulia (sentenza n. 218 del 2013).

Tra le disposizioni nazionali dichiarate incostituzionali in quanto recanti precetti specifici e puntuali – sulla base peraltro di una giurisprudenza non recente - si ricorda l’imposizione di un limite percentuale alla copertura delle vacanze di personale verificatesi in un determinato anno (sentenza n. 390/2004).

 

Con una serie di sentenze (tra le altre: n. 28 del 2013, n. 72/2013, n. 73/2013 e 137/2013) la Corte ha ribadito i principi di uguaglianza, imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione, nonché il principio del pubblico concorso, che è da considerarsi derogabile (anche da parte delle regioni e degli enti locali) soltanto qualora ciò sia funzionale al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico, invero non sono ravvisabili nel caso concreto preso in esame.

 

Secondo la Corte, ai sensi dell’articolo 97, terzo comma, Cost. (il quale prevede che, salvo i casi stabiliti dalla legge, «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso») la «forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni» (sentenza n. 363 del 2006) è rappresentata da una selezione trasparente, comparativa, basata esclusivamente sul merito e aperta a tutti i cittadini in possesso di requisiti previamente e obiettivamente definiti. Il concorso pubblico è, innanzitutto, condizione per la piena realizzazione del diritto di partecipazione all’esercizio delle funzioni pubbliche da parte di tutti i cittadini, Il concorso, inoltre, è «meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione» (sentenza n. 205 del 2004), cioè al principio di buon andamento (sancito dall’art. 97, primo comma, Cost.). Il reclutamento dei dipendenti in base al merito si riflette, migliorandolo, sul rendimento delle pubbliche amministrazioni e sulle prestazioni da queste rese ai cittadini. Infine, il concorso pubblico garantisce il rispetto del principio di imparzialità, enunciato dall’art. 97 e sviluppato dall’art. 98 Cost. Infatti, il concorso impedisce che il reclutamento dei pubblici impiegati avvenga in base a criteri di appartenenza politica e garantisce, in tal modo, un certo grado di distinzione fra l’azione del governo, «normalmente legata agli interessi di una parte politica», e quella dell’amministrazione, «vincolata invece ad agire senza distinzioni di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate nell’ordinamento». Sotto tale profilo il concorso rappresenta, pertanto, «il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità e al servizio esclusivo della Nazione» (sentenza n. 453 del 1990).

Le deroghe legislative al principio del pubblico concorso sono sottoposte ad uno stringente sindacato di costituzionalità. Innanzitutto, la Corte ha affermato che anche le «modalità organizzative e procedurali» del concorso devono «ispirarsi al rispetto rigoroso del principio di imparzialità» (sentenza n. 453 del 1990). Di conseguenza, non qualsiasi procedura selettiva, diretta all’accertamento della professionalità dei candidati, può dirsi di per sé compatibile con il principio del concorso pubblico. Quest’ultimo non è rispettato, in particolare, quando «le selezioni siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi» (sentenza n. 194 del 2002). La natura comparativa e aperta della procedura è, pertanto, elemento essenziale del concorso pubblico; procedure selettive riservate, che escludano o riducano irragionevolmente la possibilità di accesso dall’esterno, violano il «carattere pubblico» del concorso (sentenza n. 34 del 2004). La Corte ha poi chiarito che al concorso pubblico deve riconoscersi un ambito di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni. Il concorso è necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio (ciò che comunque costituisce una «forma di reclutamento» - sentenza n. 1 del 1999) e di trasformazione di rapporti non di ruolo (non instaurati ab origine mediante concorso) in rapporti di ruolo (sentenza n. 205 del 2004). Sotto quest’ultimo profilo, infine, la Corte ha precisato i limiti entro i quali può consentirsi al legislatore di disporre procedure di stabilizzazione di personale precario che derogano al principio del concorso. Secondo l’orientamento progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza costituzionale, infatti, «l’area delle eccezioni» al concorso deve essere «delimitata in modo rigoroso» (sentenza n. 363 del 2006). Le deroghe sono pertanto legittime solo in presenza di «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico» idonee a giustificarle (sentenza n. 81 del 2006). Non è in particolare sufficiente, a tal fine, la semplice circostanza che determinate categorie di dipendenti abbiano prestato attività a tempo determinato presso l’amministrazione (sentenza n. 205 del 2006), né basta la «personale aspettativa degli aspiranti» ad una misura di stabilizzazione (sentenza n. 81 del 2006). Occorrono invece particolari ragioni giustificatrici, ricollegabili alla peculiarità delle funzioni che il personale da reclutare è chiamato a svolgere, in particolare relativamente all’esigenza di consolidare specifiche esperienze professionali maturate all’interno dell’amministrazione e non acquisibili all’esterno, le quali facciano ritenere che la deroga al principio del concorso pubblico sia essa stessa funzionale alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione.


Istruzione universitaria

La materia università non è espressamente citata nel vigente art. 117 Cost.

 

 

 

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L’art. 117 della Costituzione non cita espressamente la materia università. Soccorre, tuttavia, l’art. 33, sesto comma, della Costituzione, che stabilisce che le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

Già prima del 2001, la Corte costituzionale ha chiarito che al sesto comma dell'art. 33 della Costituzione è conferita una funzione di cerniera, attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria (sentenza n. 383/1998).

 

Quadro normativo

In materia di autonomia delle università ha disposto, tra l’altro, l’art. 6 della L. 168/1989 che ha stabilito che le università sono dotate di autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile e che le stesse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti. Più in particolare, il co. 2 del medesimo articolo ha disposto che ”Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall'articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento. È esclusa l'applicabilità di disposizioni emanate con circolare[29].

 

Neanche il diritto allo studio è esplicitamente citato nel vigente art. 117 Cost., ma trova fondamento nell’art. 34, i cui commi terzo e quarto dispongono che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, e che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Appare utile ricordare, peraltro, che, in base a quanto disposto (da ultimo[30]) dall’art. 3, co. 2, del D.Lgs. 68/2012, la potestà legislativa in materia di diritto allo studio universitario spetta esclusivamente alle regioni, ferma restando la competenza esclusiva dello Stato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., al fine di garantirne l’uniformità su tutto il territorio nazionale.

Le procedure di reclutamento dei docenti universitari, invece, possono essere ricondotte alla materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” (art. 117, secondo comma, lett. g), Cost., non modificato – per l’ambito che qui interessa - dal provvedimento in esame), di competenza legislativa esclusiva statale.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il nuovo art. 117 attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia istruzione universitaria (secondo comma, lett. n)), mentre assegna alla competenza legislativa delle regioni la promozione del diritto allo studio, anche universitario (terzo comma).

 

Giurisprudenza costituzionale

Con la sentenza n. 383/1998, la Corte costituzionale - nel dichiarare non fondata la questione di legittimità dell’art. 9, co. 4, della L. 341/1990, come modificato dall’art. 17, co. 116, della L. 127/1997, che demanda al Ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica la definizione dei criteri generali per la regolamentazione dell'accesso alle scuole di specializzazione ed ai corsi universitari - ha chiarito che al sesto comma dell'art. 33 della Costituzione è conferita una funzione di cerniera, attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria.

Da ciò la Corte ne ha fatto discendere che “i criteri di accesso all'università, e dunque anche la previsione del numerus clausus non possono legittimamente risalire ad altre fonti, diverse da quella legislativa”, chiarendo, altresì, che “la riserva di legge in questione è tale da comportare, da un lato, la necessità di non comprimere l'autonomia delle università, per quanto riguarda gli aspetti della disciplina che ineriscono a tale autonomia; dall'altro, la possibilità che la legge, ove non disponga essa stessa direttamente ed esaustivamente, preveda l'intervento normativo dell'esecutivo, per la specificazione concreta della disciplina legislativa, quando la sua attuazione, richiedendo valutazioni d'insieme, non è attribuibile all'autonomia delle università”.

Con la sentenza n. 102/2006 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 2, lett. b), della legge della regione Campania 13/2004, nella parte in cui prevedeva l’istituzione da parte della regione di nuovi corsi di studio universitario (scuole di eccellenza e master) e relativi titoli, intervenendo in un settore nel quale alle università è affidata, ai sensi dell’art. 33, sesto comma, della Costituzione, la competenza a definire, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, i propri ordinamenti, che ovviamente ricomprendono le scelte relative all’istituzione dei singoli corsi.

La Corte ha rilevato che, coerentemente con tale quadro costituzionale, l’art. 17, co. 95, della L. 127/1997 prevede che l’ordinamento degli studi dei corsi universitari è disciplinato dagli atenei “in conformità a criteri generali definiti [...] con uno o più decreti del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica“, ai quali è tra l’altro demandata “la previsione di nuove tipologie di corsi e di titoli universitari“. A tale previsione ha fatto seguito, dopo il D.M. 509/1999, il D.M. 270/2004 che, all’art. 3, ha individuato i titoli e i corsi di studio universitari, disponendo che “le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea magistrale, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master universitari di primo e di secondo livello”.

 


Rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche

Assetto delle competenze e questioni principali

La materia rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche non è contemplata nell’attuale assetto delle competenze.

 

 

lente

 

 

Secondo il riparto di competenze definite dal testo costituzionale vigente, la “materia elettorale” è attribuita alla competenza esclusiva statale e, in base alla giurisprudenza costituzionale, al legislatore statale è riconosciuto un ruolo fondamentale in tema “tutela delle minoranze linguistiche”.

 

 

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Le novità previste dal progetto di riforma costituzionale

Il nuovo art. 117 assegna la materia rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche alla competenza legislativa regionale.

 

Giurisprudenza costituzionale

Si ricorda in proposito che, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 159 del 2009), “l'attuazione in via di legislazione ordinaria dell'art. 6 Cost. in tema di tutela delle minoranze linguistiche genera un modello di riparto delle competenze fra Stato e Regioni che non corrisponde alle ben note categorie previste per tutte le altre materie nel Titolo V della seconda parte della Costituzione, sia prima che dopo la riforma costituzionale del 2001. Infatti, il legislatore statale appare titolare di un proprio potere di individuazione delle lingue minoritarie protette, delle modalità di determinazione degli elementi identificativi di una minoranza linguistica da tutelare, nonché degli istituti che caratterizzano questa tutela, frutto di un indefettibile bilanciamento con gli altri legittimi interessi coinvolti ed almeno potenzialmente confliggenti […].

A tale proposito, la Corte ha avuto occasione di affermare che il legislatore statale «dispone in realtà di un proprio potere di doveroso apprezzamento in materia, dovendosi necessariamente tener conto delle conseguenze che, per i diritti degli altri soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica protetta e sul piano organizzativo dei pubblici poteri – sul piano quindi della stessa operatività concreta della protezione – derivano dalla disciplina speciale dettata in attuazione dell'art. 6 della Costituzione» (sentenza n. 406 del 1999). Si tratta, inoltre, di un potere legislativo che può applicarsi alle più diverse materie legislative, in tutto od in parte spettanti alle Regioni. Peraltro, malgrado tutte queste caratteristiche, ci si trova dinanzi ad una potestà legislativa non solo limitata dal suo specifico oggetto, ma non esclusiva (nel senso di cui al secondo comma dell'art. 117 Cost.), dal momento che alle leggi regionali spetta l'ulteriore attuazione della legge statale che si renda necessaria”.

 

 

 


 



[1]    Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2003.

[2]    Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2009.

[3]    Rispetto al trend di crescita, è da segnalare la relativa contrazione del giudizio in via principale nel 2011, che è sceso nuovamente sotto la soglia delle 100 decisioni e che, in termini percentuali, ha visto una diminuzione rilevante del suo peso. Tuttavia, secondo i dati messi a disposizione dalla Corte, a trarre beneficio da questa diminuzione sono stati i conflitti (soprattutto quello tra poteri dello Stato), oltre ovviamente ai giudizi sull’ammissibilità del referendum ed alle ordinanze di correzione di errori materiali. Il giudizio in via incidentale è rimasto, invece, quasi costante in termini percentuali, pur essendo diminuite le decisioni totali, che sono scese, per la prima volta dal 1981, sotto la soglia delle 200 unità. Si v. Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2011.

[4]    Il numero delle decisioni e quello delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale non coincidono in quanto ciascuna sentenza può dichiarare la illegittimità costituzionale di più disposizioni.

[5]    Si v. Corte costituzionale, Servizio Studi, Analisi del contenzioso Stato/Regioni. Anni 2011-2013, febbraio 2014.

[6]    Non sono reperibili dalle fonti ufficiali i dati relativi agli anni precedenti al 2011.

[7]    Come ha ricapitolato la Corte costituzionale nella sentenza 309/2010 (v. infra), i due sistemi che compongono il secondo ciclo di istruzione sono distinti, ma funzionalmente integrati, dal momento che: a) entrambi concorrono all’adempimento dell’obbligo di istruzione; b) è possibile transitare dall’uno all’altro; c) da ambedue, con diverse modalità (fissate con legge statale), è consentito l’accesso all’esame di Stato.

[8]    I livelli essenziali delle prestazioni per i percorsi di istruzione e formazione professionale sono stati definiti con il già citato D.Lgs. 226/2005. In particolare, ai sensi dello stesso, le regioni assicurano l’articolazione di percorsi di durata triennale (che si concludono con il conseguimento di un titolo di qualifica professionale, che consente l’accesso al quarto anno del sistema dell’istruzione e formazione professionale) e di percorsi di durata almeno quadriennale (che si concludono con il conseguimento di un titolo di diploma professionale, che consente l’accesso all’istruzione e formazione tecnica superiore).

[9]    Ulteriori funzioni amministrative sono state attribuite dall’art. 139 del medesimo D.Lgs. alle province, in relazione all’istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in relazione ai gradi inferiori di scuola. Da ultimo, l’art. 14, co. 27, lett. h), del D.L. 78/2010 (L. 122/2010) – come modificato dall’art. 19, co. 1, lett. a), del D.L. 95/2012 (L. 135/2012) – ha annoverato tra le funzioni fondamentali dei comuni, ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, quella relativa all’organizzazione e gestione dei servizi scolastici.

[10] Si ricorda, peraltro, che la Corte costituzionale, con sentenza n. 76/2013, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 8 della legge della regione Lombardia n. 7/2012 che disponeva in merito all’assunzione – seppure a tempo determinato – di personale, quale è quello docente, alle dipendenze dello Stato e non delle singole regioni. Da ciò la Corte ne conseguiva che “ogni intervento normativo finalizzato a dettare regole per il reclutamento dei docenti non può che provenire dallo Stato, nel rispetto della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., trattandosi di norme che attengono alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato”.

[11] Con sentenza n. 33/2005, invece, la Corte costituzionale, pronunciandosi (fra l’altro) sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 9 e 10, della L. 62/2000 (anteriore, dunque, alla riforma del Titolo V operata con L. costituzionale 3/2001) – in base ai quali, al fine di rendere effettivo il diritto allo studio e all’istruzione per tutti gli alunni delle scuole statali e paritarie, lo Stato adotta un piano straordinario di finanziamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano da utilizzare a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione mediante l’assegnazione di borse di studio di pari importo, eventualmente differenziate per ordine e grado di istruzione – aveva  ritenuto non fondata la censura riferita alla presunta invadenza dello Stato in un ambito, quello dell’assistenza scolastica, all’epoca esplicitamente attribuito alla competenza regionale. In particolare, la Corte aveva evidenziato che la disposizione censurata – in quanto volta a rendere effettivo il diritto allo studio anche per gli alunni delle scuole paritarie, dalla stessa legge disciplinate - costituiva un principio fondamentale della materia “assistenza scolastica” e quindi era idonea a porre un vincolo all'esercizio delle competenze regionali.

 

[12] Sulla base dello stesso ragionamento, nella sentenza n. 50/2008, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del co. 635 dell’art. 1 della L. 296/2006 (salvi gli eventuali procedimenti di spesa in corso) che aveva disposto un incremento degli stanziamenti iscritti nelle unità previsionali di base «Scuole non statali» del Ministero della pubblica istruzione, da destinare prioritariamente alle scuole dell’infanzia. In particolare, la Corte richiamando anche la sentenza n. 423/2004, ha evidenziato che il settore dei contributi alle scuole paritarie  “incide sulla materia dell’‘istruzione’ attribuita alla competenza legislativa concorrente”. Ha ricordato, infatti, a tal fine, che già l’art. 138 del D.Lgs. 112/1998 aveva conferito alle Regioni le funzioni amministrative relative ai «contributi alle scuole non statali», nel cui ambito devono essere ricomprese anche le scuole paritarie. Pertanto, la Corte ha ritenuto che la norma, nella parte in cui prevede un finanziamento vincolato in un ambito materiale di spettanza regionale, si pone in contrasto con gli artt. 117, quarto comma, e 119 della Costituzione.

[13]  L’art. 101 del Codice dispone che sono istituti e luoghi della cultura i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali.

[14]  Sull’argomento, si ricorda che la Corte costituzionale, con sentenza n. 26/2004, nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 33 della L. 448/2001 (L. finanziaria 2002) - che aveva inserito la lett. b-bis) nel co. 1 dell’art. 10 del D.Lgs. 368/1998, poi abrogato dall'art. 6 del D.Lgs. 156/2006, in relazione alla nuova disciplina delle forme di gestione delle attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica recata dall’art. 115 del D.Lgs. 42/2004 - aveva rigettato le censure proposte da varie regioni,  che eccepivano, fra l’altro, la competenza legislativa concorrente in materia di valorizzazione dei beni culturali. In particolare, la Corte aveva evidenziato che “La norma censurata, rinviando all’art. 152 del D.Lgs. 112 del 1998 il quale stabilisce, sia pure ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che Stato, regioni ed enti locali esercitano le relative attività ‘ciascuno nel proprio ambito’, presuppone un criterio di ripartizione di competenze, che viene comunemente interpretato nel senso che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità. Tale criterio, pur essendo inserito nel decreto legislativo n. 112 del 1998, anteriore alla modifica del Titolo V della Costituzione, conserva tuttora la sua efficacia interpretativa non solo perché è individuabile una linea di continuità fra la legislazione degli anni 1997-98, sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la legge costituzionale n. 3 del 2001, ma soprattutto perché è riferibile a materie-attività, come, nel caso di specie, la tutela, la gestione o anche la valorizzazione dei beni culturali, il cui attuale significato è sostanzialmente corrispondente con quello assunto al momento della loro originaria definizione legislativa”. Per completezza si evidenzia che l’art. 152 del D.Lgs. 112/1998 è stato abrogato dall’art. 184 del D.Lgs. 42/2004.

[15] Riprendendo un ragionamento già presente nella sentenza n. 94/2003.

[16] Al riguardo, si ricorda che nel comunicato relativo al Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2014, in cui è stato presentato il Piano Nazionale per la Ricerca 2014-2020, è evidenziato che vi è l’intenzione di trasformare il PNR da triennale a settennale (2014-20), per allinearsi con il Programma Quadro europeo Horizon 2020.

[17] La sentenza n. 301 del 2013, a seguito di un ricorso della Provincia autonoma di Trento, interviene censurando una norma statale che disponeva una disciplina autoapplicativa in materia di libera professione intramuraria, in quanto “non ha preso in considerazione in alcun modo la specificità della provincia sotto il profilo delle procedure di adeguamento ai sopravvenuti principi statali”. La previsione di una clausola di salvaguardia dello speciale regime di autonomia che avesse permesso di applicare la legislazione statale nei limiti e con le modalità previste dallo statuto speciale, a detta della Corte, avrebbe rimosso ogni ostacolo all’applicazione della speciale procedura di adeguamento prevista dalle norme di attuazione.

 

 

[18] Ribadita nella sentenza n. 95/2005, dove la Corte precisa come l’autentico principio ispiratore che resta vincolante è quello secondo cui la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri, e come tale principio sia comunque fatto salvo dall’applicazione delle altre prescrizioni in materia di igiene dei prodotti alimentari.

[19] Nella sentenza n. 517/1987 la Corte costituzionale aveva spiegato che le attività sportive devono essere distinte secondo il loro carattere agonistico o non agonistico: le prime ricadono nella materia "ordinamento sportivo", di competenza statale e degli organi dello sport, le seconde sono attribuite alle regioni in base all’art. 56 del DPR 616/1977. In particolare, la Corte aveva rilevato che: "La vera e unica linea di divisione fra le predette competenze è quella fra l'organizzazione delle attività sportive agonistiche, che sono riservate al C.O.N.I., e quella delle attività sportive di base o non agonistiche, che invece spettano alle regioni. La ripartizione delle competenze sugli impianti e sulle attrezzature è del tutto consequenziale alla precedente distinzione, nel senso che, mentre lo Stato è pienamente legittimato a programmare e a decidere gli interventi sugli impianti e sulle attrezzature necessari per l'organizzazione delle attività sportive agonistiche, le regioni vantano invece la corrispondente competenza in relazione all'organizzazione delle attività sportive non agonistiche".

[20] L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. Pertanto, secondo la Corte, la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.

 

[21] Sotto altro aspetto, principio fondamentale in materia di tutela della salute e di governo del territorio è stata considerata, nella sentenza n. 339 del 2007, la definizione dei criteri ai quali deve attenersi l’autorità sanitaria ai fini della valutazione di idoneità dei locali al trattamento ad alla somministrazione di alimenti all’interno delle aziende agrituristiche.

[22] Con riferimento al coordinamento informativo statistico e informatico si rileva che la Corte costituzionale ne ha precisato con una serie di interventi il contenuto: esso riguarda anche i profili della qualità dei servizi e della razionalizzazione della spesa in materia informatica, dovendosi procedere ad apposite intese quando si vada a coinvolgere l’organizzazione amministrativa delle regioni (sentenza n. 31/2005); non è solo un coordinamento tecnico di trasmissione dei dati ma riguarda anche le modalità con le quali questi sono raccolti (sentenza n. 240/2007); cfr. anche le sentenze n. 133/2008, n. 145/2008, 232/2009, n. 15/2010 (con la quale al coordinamento è stata ricondotta l’attività dello sportello unico delle attività produttive), n. 293/2012 (con la quale al coordinamento è stata ricondotta l’anagrafe delle opere pubbliche incompiute) e n. 46/2013.

[23] Art. 12, comma 10 del D.Lgs. 387/2003 e DM 10 settembre 2010.

[24] Dopo l’intervento del D.L. 314/2004 (L. 26/2005), che confermava per il 2005 la disciplina transitoria, è intervenuta la L. 239/2005, che, in linea con quanto richiesto dalla Corte, ha introdotto l’intesa con la Conferenza unificata nella procedura di adozione dei decreti ministeriali previsti dal D.L. 24/2003.

[25] Ciò in quanto tali attività “risulterebbero esposte al rischio di eccessivi condizionamenti localistici nella loro gestione, a fronte, invece, della necessità di sostenere anche iniziative di grande rilevanza culturale prescindendo da questi ultimi”.

[26] Secondo quanto ricordato dalla Corte, gli indici della connotazione pubblica degli enti lirici sono stati ravvisabili nella preminente rilevanza dello Stato nei finanziamenti, nel conseguente assoggettamento al controllo della Corte dei conti, nel patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, confermato dall'art. 1, co. 3, del D.L. 345/2000, nell'inclusione nel novero degli organismi di diritto pubblico soggetti al Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 163/2006.

[27] La sentenza 297/2012  risponde al ricorso promosso dalla Regione Veneto che lamenta la violazione del principio di leale collaborazione per la mancata partecipazione della Regione alla modifica dell’ISEE. La Corte con la sentenza richiama la competenza statale alla quale va ricondotta la normativa impugnata, concernente la determinazione di livelli essenziali delle prestazioni, tuttavia, i giudici costituzionali ribadiscono che “detta peculiare competenza comporta una forte incidenza sull’esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni”, tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e n. 121 del 2010; n. 322 e n. 124 del 2009; n. 162 del 2007; n. 134 del 2006; n. 88 del 2003), salvo che ricorrano ipotesi eccezionali in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana (vedi al proposito la richiamata sentenza 10/2012 sulla carta acquisti).

[28] La sentenza 40/2011 dichiara incostituzionale una legge del Friuli Venezia Giulia che rende accessibile il sistema integrato di interventi e servizi sociali della Regione soltanto ai cittadini comunitari ivi residenti da almeno trentasei mesi. La Consulta giudica l’esclusione di intere categorie di persone non rispettosa del principio di uguaglianza, in quanto introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari, che costituiscono il presupposto di fruibilità di provvidenze che, per la loro stessa natura, non tollerano distinzioni basate né sulla cittadinanza, né su particolari tipologie di residenza.

[29]   Inoltre, l’art. 1, co. 4, lett. d), della L. 59/1997 aveva escluso l’istruzione universitaria dagli ambiti per i quali occorreva procedere al trasferimento di funzioni e compiti amministrativi alle regioni.

[30] Precedentemente, la L. 390/1991 – abrogata dall’art. 24 del medesimo D.Lgs. 68/2012 – aveva introdotto, per la prima volta, indicazioni tese ad uniformare, a livello nazionale, l’applicazione dei criteri di individuazione dei destinatari degli interventi per il diritto allo studio, superando la precedente frammentarietà registrata a livello regionale. In particolare, l’art. 3 della legge attribuiva allo Stato funzioni di indirizzo, coordinamento e programmazione in materia, mentre alle regioni era attribuito il compito di attivare gli interventi.