Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento istituzioni | ||||||
Titolo: | Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V - Rassegna di giurisprudenza costituzionale - Ddl Cost. AC 2613 e abb. | ||||||
Riferimenti: |
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Serie: | Progetti di legge Numero: 216 Progressivo: 3 | ||||||
Data: | 29/10/2014 | ||||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni |
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Camera
dei deputati |
XVII
LEGISLATURA |
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SERVIZIO
STUDI |
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Documentazione per l’esame di |
Ddl Cost. A.C. 2613 e abb. Il riparto delle
competenze legislative |
Rassegna della giurisprudenza costituzionale |
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n.
216/3 |
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29
ottobre 2014 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Istituzioni ( 066760-3855/066760-9475– * st_istituzioni@camera.it |
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File:
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INDICE
Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V
L’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma del
2001
La giurisprudenza costituzionale: principali profili
problematici
§ La “concorrenza di competenze” ed il principio di leale
collaborazione
§ La “attrazione in sussidiarietà”
§ La competenza concorrente: principi fondamentali o norme
di dettaglio?
§ L’inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione e la
grave crisi economico-sociale
Rassegna della giurisprudenza costituzionale sulle
singole materie
§ Previdenza complementare e integrativa
§ Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle
Regioni
§ Tutela e sicurezza del lavoro
§ Ricerca scientifica e tecnologica
§ Sostegno all’innovazione per i settori produttivi
§ Salute
§ Ordinamento della comunicazione
§ Energia
§ Coordinamento della finanza pubblica
§ Coordinamento del sistema tributario
§ Turismo
§ Disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche
§ Rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche
La
legge di revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione,
introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001, ha profondamente rivisto
il complessivo sistema dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali.
Al
modello della Costituzione del 1948, in base al quale lo Stato aveva competenza
legislativa in tutte le materie, fatta eccezione per alcune, espressamente
elencate, in cui la potestà legislativa era riconosciuta alle regioni, previa
comunque definizione dei principi fondamentali da parte della legislazione
dello Stato, si è sostituito un nuovo modello che introduce (art. 114 Cost.) il principio innovativo secondo il quale Comuni,
Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono considerati paritariamente
quali enti costitutivi dell'ordinamento repubblicano.
Il
vigente art. 117 Cost., inoltre, delinea una nuova ripartizione
della funzione legislativa tra Stato e regioni.
Lo
strumento per delimitare le sfere di attribuzione legislativa è rappresentato
dalla elencazione delle materie individuate nei commi secondo, terzo e quarto
dell'articolo 117, in base alle quali si possono distinguere tre tipologie di
competenza.
Vi è
un primo elenco di materie la cui disciplina è demandata alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato. Si tratta delle materie
elencate nell'art. 117, secondo comma, nelle quali solo lo Stato può
adottare delle leggi. Alle regioni, non è conseguentemente riconosciuto il
potere di legiferare in tali materie.
Tali
materie sono:
a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti
dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei
cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed
esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della
concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione
dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum
statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli
enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia
amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale;
giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale;
n) norme generali sull'istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali
di Comuni, Province e Città metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi
internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo
statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e
locale; opere dell'ingegno;
s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.
In un
secondo elenco di materie, la potestà legislativa è ripartita tra Stato e
Regioni, per cui si parla di legislazione concorrente. In particolare, “spetta
alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la
determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione
dello Stato” (art. 117, terzo comma).
Si
tratta delle seguenti materie: “rapporti internazionali e con l'Unione europea
delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro;
istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione
della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica
e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della
salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del
territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di
navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa;
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione
dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività
culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere
regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale".
Nella
XVI legislatura è stata approvata la legge
costituzionale n. 1/2012, che novella gli articoli 81, 97, 117 e 119 Cost.,
ed, in particolare, introduce il principio dell’equilibrio tra entrate e spese del bilancio, cd. “pareggio di
bilancio”, correlandolo a un vincolo di sostenibilità
del debito di tutte le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle
regole in materia economico-finanziaria derivanti dall’ordinamento europeo.
Per
quanto concerne la disciplina di bilancio degli enti territoriali, la legge
costituzionale apporta talune modifiche l'articolo 119 della Costituzione, al
fine di specificare che l'autonomia finanziaria degli enti territoriali
(Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), è assicurata nel rispetto
dell’equilibrio dei relativi bilanci; è inoltre costituzionalizzato il
principio del concorso di tali enti all’osservanza dei vincoli economici e
finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.
Con
una modifica al sesto comma dell’articolo 119 viene altresì precisato che il
ricorso all'indebitamento - che la vigente disciplina costituzionale consente
esclusivamente per finanziare spese d’investimento - è subordinato alla
contestuale definizione di piani di ammortamento e alla condizione che per il
complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di
bilancio.
La
legge costituzionale novella, inoltre, l’articolo 117 della Costituzione,
inserendo la materia dell'armonizzazione dei bilanci pubblici nel novero delle
materie sulle quali lo Stato ha una competenza legislativa esclusiva.
Le
nuove disposizioni costituzionali hanno trovato applicazione a decorrere
dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.
Infine,
l'articolo 117, quarto comma, prevede che la potestà legislativa su ogni
materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato
spetta alle Regioni. Al riguardo, si parla di competenza generale
‘residuale’.
Il
sistema di riparto delle competenze normative è completato dal principio di
attribuzione della potestà regolamentare, che vede una riduzione della
competenza statale, ampliandosi quella delle Regioni e degli enti locali: allo
Stato spetta emanare i regolamenti nelle materie riservate alla sua competenza
esclusiva, salva la possibilità di delega alle Regioni, mentre alle Regioni è
attribuita la potestà regolamentare in ogni altra materia (e quindi anche in
quelle di competenza concorrente). I comuni, le province, le città
metropolitane hanno potestà regolamentare per la disciplina riguardante l’organizzazione
e il funzionamento delle competenze loro attribuite (art. 117, sesto comma).
Ferme
restando le particolari forme di autonomia delle Regioni a statuto speciale, la
riforma del 2001 (art. 116, terzo comma, Cost.) ha
previsto la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario, con
legge dello Stato, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia relative
a tutte le materie che il nuovo art. 117 attribuisce alla competenza
concorrente di Stato e regioni e ad alcune tra le materie di legislazione
esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace; norme generali
sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali).
Si
tratta di quello che è stato definito “regionalismo differenziato” o “regionalismo
asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri
diversi dalle altre.
Per
procedere all'attribuzione di queste forme rafforzate di autonomia è necessaria
una legge statale, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti
locali. La legge deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei
componenti e deve recare un contenuto definito d'intesa con la Regione
medesima.
La
nuova previsione costituzionale non ha però avuto attuazione.
Sul
piano della procedura parlamentare, le due Camere hanno affrontato l’esigenza
di dare immediata attuazione al nuovo disposto costituzionale, verificando in
itinere la conformità di tutti i progetti di legge al proprio esame al
nuovo riparto di competenze delineato dalla Costituzione dopo la riforma del
2001. La Giunta per il regolamento della Camera ha affidato tale compito alla Commissione
affari costituzionali, nell’esercizio della sua funzione consultiva, ed ha
esteso, in via sperimentale, tale controllo anche agli emendamenti presentati
in Assemblea (parere della Giunta del 16 ottobre 2001); analogo orientamento ha
assunto la Giunta per il regolamento del Senato.
Non
ha invece trovato attuazione – malgrado l’attività istruttoria svolta in tale
direzione su iniziativa delle Giunte per il Regolamento delle due Camere – l’art.
11 della legge costituzionale di riforma, che avrebbe consentito l’integrazione
della Commissione parlamentare per le questioni regionali con
rappresentanti delle autonomie regionali e locali e l’attribuzione a tale
Commissione del potere di incidere significativamente, con i propri pareri,
sull’iter di approvazione delle leggi
statali riguardanti le materie di competenza legislativa concorrente e
l'autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali.
L’art.
11 della legge cost. n. 3/2001 prevede che sino
alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione
(riguardanti il Parlamento) i regolamenti della Camera e del Senato possono
prevedere la partecipazione alla Commissione parlamentare per le questioni
regionali di rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti
locali.
Secondo
l’art. 11 della legge di revisione, nel caso in cui i regolamenti parlamentari
disciplinino la composizione integrata della Commissione, la stessa esprimerà
pareri, aventi particolari effetti procedurali, sui progetti di legge nelle
materie di cui al terzo comma dell'art. 117 (quelle di legislazione
concorrente) e all’art. 119 (in materia di autonomia finanziaria di regioni,
province e comuni). Infatti, per discostarsi dal parere della Commissione
bicamerale integrata su tali progetti di legge l'Assemblea dovrà deliberare a
maggioranza assoluta dei componenti.
Fin
dall’approvazione nel 2001 della riforma del titolo V della parte II della
Costituzione, il problema principale posto dalla nuova ripartizione di
attribuzioni legislative tra Stato e regioni è stato quello di una chiara
individuazione del contenuto delle materie, al fine di determinare una netta
linea di demarcazione tra competenza statale e competenza regionale.
Un
primo elemento di difficoltà consiste nel fatto che, tra le materie attribuite
alla competenza esclusiva statale, ve ne sono alcune di carattere trasversale,
che fanno riferimento non ad oggetti precisi, ma a finalità che devono essere
perseguite e che pertanto si intrecciano con una pluralità di altri interessi,
incidendo in tal modo su ambiti di competenza concorrente o residuale delle
regioni (ex multis: sentenze n. 171 del 2012,
n. 235 del 2011, n. 225/2009, n. 12 del 2009, n. 345/2004, n. 272/2004). Con
riferimento a tali materie, sono stati coniati in dottrina ed utilizzati anche
dalla giurisprudenza costituzionale i termini di “materie-funzioni” (cfr.
sentenza n. 272 del 2004) o “materie-compito” (cfr. sentenza n. 336 del 2005) o
finanche “materie non materie” (cfr. il “ritenuto in fatto” della sentenza n.
228 del 2004).
Le
principali materie trasversali sono state individuate in:
- tutela della concorrenza,
materia della quale la giurisprudenza costituzionale ha costantemente
sottolineato – stante il carattere «finalistico» della stessa – la
«trasversalità», “corrispondente ai mercati di riferimento delle attività
economiche incise dall’intervento”, con conseguente possibilità di influire su
altre materie attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale
delle Regioni (sentenze n. 38/2013, 299 del 2012; n. 18 del 2012; n. 150 del
2011; n. 288 del 2010; n. 431, n. 430, n. 401, n. 67 del 2007 e n. 80 del 2006,
n. 345 del 2004). Infatti, la materia tutela della concorrenza non ha
solo un ambito oggettivamente individuabile che attiene alle misure legislative
di tutela in senso proprio ma, dato il suo carattere «finalistico», anche una
portata più generale e trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve
essere valutata in concreto al momento dell'esercizio della potestà legislativa
sia dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro rispettiva competenza
(sentenza n. 291/2012). Ad essa è inoltre sotteso "l'intendimento del
legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti
di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese"
(sentenza n. 14/2004). L’esercizio della competenza esclusiva e trasversale
della «tutela della concorrenza» può dunque intersecare qualsivoglia titolo di
potestà regionale, seppur nei limiti necessari ad assicurare gli interessi cui
essa è preposta, secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità (sentenza n.
41/2013; nello stesso senso, sentenze n. 325 del 2010, n. 452 del 2007, n. 80 e
n. 29 del 2006, n. 222 del 2005);
- tutela dell’ambiente e dell’ecosistema,
con riferimento alla quale la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato
che “non si può discutere di materia in senso tecnico, perché la tutela
ambientale è da intendere come valore costituzionalmente protetto, che in
quanto tale delinea una sorta di «materia trasversale», in ordine alla quale si
manifestano competenze diverse, anche regionali, fermo restando che allo Stato
spettano le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina
uniforme sull'intero territorio nazionale” (ex multis:
sentenze n. 278/2012, n. 171/2012, n. 20/2012, n. 235/2011, n. 191/2011, n. 225/2009,
n. 12/2009, n. 378/2007). Secondo la Corte, dunque, la disciplina unitaria e
complessiva dell’ambiente e dell’ecosistema inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto e
deve garantire un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre
discipline di settore. Sotto questo profilo, dunque, la competenza derivante da
altre materie attribuite alla Regione diventa necessariamente recessiva, non
potendo in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo
Stato (sentenze n. 9/2013, n. 278/2012 e n. 378/2007);
- determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale, anch’essa ritenuta non una
materia in senso stretto, ma “una competenza del legislatore statale idonea ad
investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve
poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio
nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di
tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o
condizionarle” (ex multis, sentenze n.
164/2012 e n. 282/2004).
Uguale
carattere “espansivo” deve essere riconosciuto anche ad altre materie di
competenza esclusiva statale, quali l’ordinamento penale (sentenza n.
185/2004), l’ordinamento civile (sentenze n. 233/2006, n. 380/2004 e n.
274/2003), politica estera e rapporti internazionali dello Stato e rapporti
dello Stato con l’Unione europea (sentenza n. 239/2004).
Del
resto anche alcune delle materie di competenza concorrente presentano un
carattere trasversale, che consente alla legislazione statale di
incidere, sia pure solo con norme di principio, su materie rimesse alla
legislazione residuale delle regioni.
Secondo
la giurisprudenza costituzionale, infatti, una disposizione statale di
principio, adottata in materia di legislazione concorrente “può incidere su una
o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale e determinare
una – sia pure parziale – compressione degli spazi entro cui possono
esercitarsi le competenze legislative e amministrative delle Regioni” (ex plurimis, sentenze n. 44/2014, n. 237/2009, n.
159/2008, n. 181/2006 e n. 417/2005).
Viene
in primo luogo in questione la materia del coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario, alla base dei ripetuti interventi
statali volti al contenimento delle spese degli enti territoriali, che si sono
fatti più incisivi negli ultimi anni anche in considerazione della situazione
di crisi economico-finanziaria. Al riguardo la Corte ha ritenuto che
costituiscono principi fondamentali della materia le norme che “si limitino a
porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un
transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa
corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il
perseguimento dei suddetti obiettivi” (sentenza n. 193/2012; nello stesso
senso, sentenze n. 44/2014, 148/2012, n. 232/2011 e n. 326/2010, n. 159/2008,
n. 95/2007, n. 449/2005, n. 390/2004). Alcune sentenze hanno peraltro
ricondotto nell'ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica “norme
puntuali adottate dal legislatore per realizzare in concreto la finalità del
coordinamento finanziario, che per sua natura eccede le possibilità
d'intervento dei livelli territoriali sub-statali” (sentenze n. 44/2014 e n.
417/2005).
Ma vi
sono diverse ulteriori materie ascritte alla competenza concorrente che si
prestano ad incidere sugli ambiti propri di altre materie riservate alle
regioni, fra le quali la tutela della salute, le professioni
(sentenze n. 222/2008 e n. 355/2005) e la ricerca scientifica (sentenza
n. 133/2006).
La
complessità dei fenomeni sociali oggetto di disciplina legislativa rende
inoltre molto spesso difficile la riconduzione sic et simpliciter di una normativa ad un'unica materia,
determinandosi invece un intreccio tra diverse materie e diversi livelli di
competenza che la Corte stessa non ha esitato a definire "inestricabile".
Come
rilevato nella fondamentale sentenza n. 50 del 2005, in caso di interferenze tra norme rientranti in materie di
competenza statale ed altre di competenza concorrente o residuale regionale, “può
parlarsi di concorrenza di competenze e non di competenza ripartita o
concorrente. Per la composizione di siffatte interferenze la Costituzione non
prevede espressamente un criterio ed è quindi necessaria l'adozione di principi
diversi”. I principi enucleati dalla Corte sono il principio di prevalenza,
che può applicarsi “qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo
essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre”
(nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n.
44 del 2014, n. 118 del 2013, n. 334 del 2010, n. 237 del 2009), ed il principio
di leale collaborazione, “che per la sua elasticità consente di aver
riguardo alle peculiarità delle singole situazioni” ed impone alla legge
statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni, a
salvaguardia delle loro competenze (nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 44/2014, n. 234/2012, n.
187/2012, n. 88/2009, n. 50/2008, n. 213/2006, n. 133/2006, n. 231/2005, n.
219/2005).
Numerosissimi
sono i casi in cui è emersa la necessità di attivare procedimenti destinati ad
integrare il parametro della leale collaborazione, in particolare attraverso il
sistema delle Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali, all'interno
del quale "si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali
della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di
questioni controverse locali" (sentenza n. 31/2006, nello stesso senso, ex
multis, sentenze n. 114/2009).
Secondo la Corte, “il principio di leale collaborazione deve
presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni: la sua elasticità
e la sua adattabilità lo rendono
particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione,
attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. La genericità di
questo parametro, se utile per i motivi sopra esposti, richiede tuttavia continue precisazioni e concretizzazioni.
Queste possono essere di natura legislativa, amministrativa o giurisdizionale”
(sentenza n. 31/2006).
Il
principio di leale collaborazione, cui la Corte ha fatto ampio ricorso anche nei
casi di cd. “attrazione in sussidiarietà” (v.
immediatamente infra), è divenuto
così un princìpio-cardine e costituisce una fondamentale
chiave di lettura per delineare il quadro delle attribuzioni nei frequenti casi
di intersezione e sovrapposizione tra competenze statali e competenze
regionali.
Il
principio di leale collaborazione è “suscettibile di essere organizzato in modi
diversi, per forme e intensità” (sentenza n. 308/2003), a seconda del quantum di incidenza sulle competenze
regionali.
Una
nutrita giurisprudenza costituzionale ha spesso richiesto per l’adozione di una
disciplina, segnatamente di carattere regolamentare, in ambiti normativi di
pertinenza regionale, la previa intesa in sede di Conferenza unificata o
di Conferenza Stato-regioni, al fine di garantire un contemperamento tra
potestà statali e prerogative regionali; l'intesa è stata talora costruita come
intesa “forte”, con un livello di codecisione
paritaria tra Stato e regioni (sentenza n. 383 del
2005). La previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale
collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una
“drastica previsione” della decisività della volontà di una sola parte, in caso
di dissenso, ma che siano necessarie “idonee procedure per consentire reiterate
trattative volte a superare le divergenze” (ex
plurimis, sentenze n.
39/2013, n. 179/2012, n. 121/2010, n. 24/2007, n. 339/2005).
In
altri casi di minore impatto sulle competenze regionali, la Corte ha invece
ritenuto sufficiente l’acquisizione di un parere
della Conferenza (sentenze n. 232/2009 e n. 200/2009). In particolare, “nelle
materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni
amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura tecnica
che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate
all’osservanza di standard e
metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato
Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio” (sentenze n.
62/2013, n. 265 /2011, n. 254/2010, n. 182/2006, n. 336/2005 e n. 285/2005).
Un
altro principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale che determina
un'attribuzione di competenze diversa da quella desumibile dal tenore letterale
dell'art. 117 Cost. è quello della c.d. attrazione
in sussidiarietà, enunciato per la prima volta nella sentenza n. 303 del
2003.
A
partire da tale sentenza, la Corte ha
individuato, nel nuovo sistema delineato dalla riforma del 2001, un “elemento di flessibilità” nell'art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle
funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che
finisce col rendere meno rigida la stessa distribuzione delle competenze legislative,
là dove prevede che le funzioni
amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate
ad un livello di governo diverso per assicurarne
l'esercizio unitario, sulla base dei principî di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza. Dall’ “attitudine ascensionale” del principio
di sussidiarietà discende che, quando l’istanza di esercizio unitario trascende anche l'ambito regionale, la
funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato.
L'allocazione delle funzioni amministrative si
riflette anche sulla distribuzione delle competenze legislative: se la legge
può assegnare l’esercizio delle funzioni amministrative allo Stato, essa, in
ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, può anche organizzarle e
regolarle, al fine di renderne l'esercizio permanentemente raffrontabile a un
parametro legale. Ne consegue che l’attrazione allo Stato delle funzioni amministrative comporta la
parallela attrazione della funzione legislativa.
I principi
di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di
competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una
deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante
all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non
risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di
costituzionalità e rispetti il principio di leale collaborazione.
Allo
stesso modo e negli stessi limiti sono giustificati interventi della
legislazione statale in ambiti materiali di competenza residuale (sentenze n.
76 del 2009, n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006).
In
particolare, la sentenza n. 6 del 2004 ha fissato le condizioni per
l'applicazione del “principio di sussidiarietà ascendente”. Affinché la legge
statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello
centrale ed al tempo stesso regolarne l'esercizio, è necessario che:
- rispetti i principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni
amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni;
- detti una disciplina logicamente
pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni;
- risulti limitata a quanto strettamente
indispensabile a tale fine;
- risulti adottata a seguito di procedure che
assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso
strumenti di leale collaborazione;
- preveda adeguati meccanismi di
cooperazione per l'esercizio concreto delle funzioni amministrative
allocate in capo agli organi centrali.
Tale
impostazione è stata confermata dalla successiva giurisprudenza (sentenze n.
62/2013, n. 88/2009, n. 248/2006 e n. 383/2005).
L'attrazione
in sussidiarietà ha trovato applicazione principalmente nei settori delle infrastrutture
(sentenza n. 303/2003), dell’energia (sentenze n. 4/2004 e n. 383/2005),
dell’ordinamento della comunicazione (sentenza n. 163/2012) e del turismo
(sentenze n. 80/2012, n. 76/2009, n. 13/2009, n. 94/2008, n. 339/2007, n.
88/2007 e n. 214/2006).
Un
ulteriore elemento di criticità deriva dal fatto che la distinzione tra
principi fondamentali e norme di dettaglio, che costituisce il discrimine tra
competenza statale e competenza regionale nelle materie di legislazione
concorrente, appare ben chiara in linea astratta ma comporta non pochi
problemi interpretativi una volta calata sul piano concreto delle singole e
specifiche disposizioni.
In
linea generale, dunque, il vaglio di costituzionalità, che deve verificare il
rispetto del rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio, “va
inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre
all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per
raggiungere quegli obiettivi” (sentenze n. 272/2013, n. 16/2010, n. 237/2009 e
n. 181/2006). Peraltro, il carattere di principio di una norma non è escluso,
di per sé, dalla specificità delle prescrizioni, qualora la norma “risulti
legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità
e di necessaria integrazione” (sentenze n. 272/2014, n. 44/2014, n. 211/2012,
n. 139/2012, n. 182/2011, n. 16/2010, n. 237/2009, n. 430/2007).
È sul
piano concreto, come detto, che insorgono le maggiori difficoltà interpretative,
in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, la nozione di principio
fondamentale “non ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le ‘materie’
hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. È il
legislatore che opera le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna
materia sulla base di criteri normativi essenziali che l'interprete deve
valutare nella loro obiettività.” (sentenza n. 50/2005). Ne consegue che “l'ampiezza
e l'area di operatività dei principî fondamentali […] non possono essere
individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di
disciplina normativa. Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle
specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo
particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano” (sentenza
n. 336/2005).
La
sentenza n. 16/2010 ha infine aggiunto che, “nella dinamica dei rapporti tra
Stato e Regioni, la stessa nozione di principio fondamentale non può essere
cristallizzata in una formula valida in ogni circostanza, ma deve tenere conto
del contesto, del momento congiunturale in relazione ai quali l'accertamento va
compiuto e della peculiarità della materia”.
L’inattuazione dell’articolo 119 Cost.,
che riconosce agli enti territoriali autonomia finanziaria di entrata e di
spesa, si ripercuote anche sul riparto di competenze legislative delineato
dall’articolo 117 Cost.
E’
infatti innegabile l’esistenza di un
nesso tra esercizio di competenze legislative e, dunque, attuazione di
politiche pubbliche, da una parte, e la responsabilità
finanziaria connessa a quelle politiche, dall’altra.
Nelle
materie di competenza regionale – residuale o concorrente – spetta dunque alle
regioni il reperimento delle risorse necessarie per finanziare le relative
politiche.
Secondo
la giurisprudenza costituzionale, «l’art.
119 Cost. vieta al legislatore statale di
prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o
concorrente, nuovi finanziamenti a
destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. Tali misure,
infatti, possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello
Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché
di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli
legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria
competenza (sentenza n. 168 del 2008, nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 168 del 2009, nn.
63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005).
Così
almeno secondo il disegno costituzionale. Questo orientamento ha dovuto
peraltro fare i conti con l’inattuazione
dell’articolo 119 Cost. e dunque con l’attuale
assenza di una compiuta autonomia finanziaria delle regioni.
La
cd. legge delega sul federalismo fiscale (L. n. 42/2009) ha dato avvio al
processo di attuazione dell’art. 119 Cost., ma questo
processo non è stato ancora completato. Da una parte, infatti, non è giunto a
conclusione lo stesso percorso attuativo avviato dalla legge delega e dai
decreti legislativi, ad esempio con riguardo alla determinazione dei fabbisogni standard e dei connessi
livelli essenziali delle prestazioni; dall’altra, all'attuazione della delega
si sono sovrapposti plurimi interventi legislativi, per lo più in via
d'urgenza, volti a privilegiare l'equilibrio dei conti pubblici e il
coordinamento statale e a ridurre i trasferimenti statali che la legge 42 aveva
previsto di trasformare in risorse autonome degli enti territoriali (c.d.
fiscalizzazione dei trasferimenti erariali).
La
Corte ha in proposito ritenuto che “nella perdurante inattuazione
della legge n. 42 del 2009, che non può non tradursi in incompiuta attuazione
dell’art. 119 Cost.,
l’intervento dello Stato sia
ammissibile nei casi in cui […] esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento
dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa (sentenze n. 273 del 2013 e n.
232 del 2011). Tali interventi si configurano infatti come «portato temporaneo
della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla
attuale grave crisi economica nazionale e internazionale» (sentenza n. 121 del
2010), che ben possono essere ritenute giustificazioni sufficienti per
legittimare l’intervento del legislatore statale limitativo della competenza
legislativa residuale delle Regioni, (così le sentenze n. 273 del 2013 e n. 232
del 2011, in materia di trasporto pubblico locale).
Sempre
la Corte ha rilevato che “il mancato completamento della transizione ai costi e
fabbisogni standard, funzionale ad assicurare gli obiettivi di servizio e il
sistema di perequazione, non consente, a tutt’oggi, l’integrale applicazione degli
strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previsti dall’art. 119 Cost.” (sentenza n. 273/2013).
La
Corte dunque “ha ben presente, al riguardo, il disposto dell’art. 119, quarto
comma, Cost., secondo cui le funzioni attribuite alle
Regioni sono finanziate integralmente dalle fonti di cui allo stesso art. 119
(tributi propri, compartecipazioni a tributi erariali e altre entrate proprie).
Ritiene peraltro che, in mancanza di norme che attuino detto articolo […]
l’intervento dello Stato sia ammissibile nei casi in cui […] esso, oltre a
rispondere ai richiamati principi di eguaglianza e solidarietà, riveste quei
caratteri di straordinarietà, eccezionalità e urgenza conseguenti alla
situazione di crisi internazionale economica e finanziaria” (sentenza n.
10/2010).
Si
consideri poi che legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto il
principio del pareggio di bilancio, ha delimitato in vario modo l'autonomia
finanziaria degli enti territoriali, a partire dalla modifica dello stesso art.
119 e dallo spostamento della “armonizzazione dei bilanci pubblici” dall'ambito
delle materie concorrenti a quello delle materie di competenza legislativa
esclusiva statale.
Del
resto, il richiamo al generale contesto di recessione economica è ripetuto in numerose
sentenze degli ultimi anni, al fine di giustificare un’interpretazione
estensiva delle competenze del legislatore nazionale.
Secondo
la Corte, infatti, «la situazione
eccezionale di crisi economico-sociale» non è priva di incidenza sul
riparto costituzionale delle competenze, perché ha «ampliato i confini entro i
quali lo Stato deve esercitare» la propria competenza legislativa esclusiva in
nella materia “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale” (sentenza n. 62/2013).
Sempre
in considerazione della difficile congiuntura economica, la Corte ha
progressivamente ampliato gli ambiti di intervento del legislatore statale in
un’altra materia “trasversale” come il coordinamento della finanza pubblica,
avallando, nei fatti, le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli
anche molto puntuali per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti
locali (sentenze n. 23/2014 e n. 198/2012).
Un
più ampio potere del legislatore statale è stato riconosciuto anche nei
confronti delle regioni a statuto speciale, ritenendo la Corte che in un
contesto di grave crisi economica il legislatore possa discostarsi dal modello consensualistico nella determinazione delle modalità del
concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica (sentenze n.
23/2014 e n. 193/2012).
All’indomani
della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, realizzata con la
legge costituzionale n. 3/2001, è esplosa la conflittualità tra gli enti dotati
di potestà legislativa, come dimostrano le analisi del contenzioso tra Stato,
Regioni e Province autonome in sede di giudizio di legittimità costituzionale
in via principale.
In
particolare, l’esame dell’attività della Consulta dal 2001 ad oggi evidenzia lo
spazio assunto dal giudizio in via principale
(lo Stato e le Regioni e Province autonome presentano direttamente un ricorso
di incostituzionalità avverso le leggi, rispettivamente, della Regione e dello
Stato o di altra Regione), sia in termini assoluti (numero delle sentenze), sia
in termini percentuali (in rapporto al totale delle decisioni della Corte).
Il
grafico n. 1 mostra l’andamento crescente in percentuale del giudizio in via
principale a partire dal 2000.
Grafico
n. 1 – Il giudizio in via principale in rapporto al totale delle decisioni
(2000-2013) Fonte: Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza
costituzionale del 2013
Complessivamente, dal 2001 al 2013, il giudizio in via
principale è salito dal 7,6 al 45,7 per
cento del totale delle pronunce della Corte. All’incremento del giudizio in
via principale ha corrisposto un quasi equivalente decremento del numero di
decisioni del giudizio in via incidentale, come evidenzia il grafico n. 2.
Grafico
n. 2 – Il totale delle decisioni di legittimità costituzionale, ripartito tra
giudizi i via incidentale e in via principale (2000-2013) Fonte: elaborazione
su dati della Corte costituzionale, Relazioni annuali
Anno |
Totale decisioni |
Giudizio in via
incidentale |
Giudizio in via
principale |
2001 |
447 |
350 (78,52%) |
34 (7,6%) |
2002 |
535 |
450 (84,14%) |
30 (5,6%) |
2003 |
382 |
249 (65,18%) |
57 (14,92%) |
2004 |
446 |
286 (64,13%) |
97 (21,75%) |
2005 |
482 |
314 (65,15%) |
101 (20,95%) |
2006 |
463 |
276 (59,61%) |
113 (24,41%) |
2007 |
464 |
319 (68,75%) |
76 (16,38%) |
2008 |
449 |
333 (74,16%) |
64 (14,25%) |
2009 |
342 |
225 (65,79%) |
82 (24,27%) |
2010 |
376 |
211 (56,12%) |
141 (37,63%) |
2011 |
342 |
196 (57,31%) |
91 (26,61%) |
2012 |
316 |
141(44,62%) |
150 (47,46%) |
2013 |
326 |
145 (44,47%) |
149 (45,7%) |
All’interno
del periodo considerato, sono individuabili diverse fasi.
I
primi dati significativi sono riferibili al 2003. Come evidenziato dalla Corte,
“nel corso del 2002 la maggior parte delle decisioni nel settore dei rapporti Stato-regioni
aveva riguardato ricorsi promossi nella vigenza del vecchio Titolo V, o
problemi di diritto intertemporale, collegati al sopravvenire del nuovo
parametro costituzionale, in assenza, tra l’altro, di disposizioni transitorie.
Ė invece nel 2003 che si affronta decisamente il merito delle questioni”[1].
Fino
al 2003, la gran parte del contenzioso costituzionale è occupato dal giudizio
di legittimità in via incidentale, i cui dati hanno oscillato tra il 75 ed il
90% del totale delle pronunce, attestandosi su una media dell’83,64% per il
periodo 1983-2002.
Il
giudizio in via principale, infatti, si è attestato, per il periodo 1983-2002,
ad una media del 7,29% (il 2002 si è posto leggermente al di sotto, con una
percentuale di 5,61), con un picco negativo di 2,76% (nel 1998) ed uno positivo
di 11,14% (nel 1988). Proprio nel 2003 tale giudizio ha conosciuto un notevole
incremento, giungendo al 14,92%. Tale trend
si è confermato anche negli anni immediatamente successivi: nel 2004 è salito
al 21,75%, nel 2005 ha subito una lieve flessione in termini percentuali (20,95%)
per poi arrivare nel 2006 ad occupare il 24,41% delle decisioni della Corte.
Avendo
come riferimento le decisioni adottate con la forma della sentenza, deve
sottolinearsi che nel 2004, per la prima volta nella cinquantennale storia
della Corte costituzionale, il giudizio nell’ambito del quale è stato reso il
maggior numero di sentenze non è il giudizio in via incidentale. Già nel 2003
la distanza tra i due tipi di giudizi di legittimità costituzionale si era
fortemente assottigliata (54 sentenze nell’incidentale contro 48 nel
principale); nel 2004, il giudizio in via principale ha superato – e nettamente
– il giudizio in via incidentale. In termini percentuali, le sentenze sono
state rese nel 37,72% dei casi in sede di giudizio in via incidentale, contro
il 48,50% del giudizio in via principale (nel 2003, le percentuali erano, rispettivamente,
il 40,29% ed il 35,92%).
La
crescita del contenzioso tra Stato e Regioni, in questa prima fase, è
determinata dall’introduzione di nuove norme costituzionali nel Titolo V, che
ha chiamato la Corte ad una complessa opera di interpretazione, nell’ambito
della quale la precedente giurisprudenza forniva un ausilio limitato.
L’incremento
registrato tra il 2003 e il 2006 ha subito un arresto nel biennio 2007-2008; in tali anni il giudizio di legittimità
costituzionale in via principale subisce un calo non marginale (riportando il
dato percentuale al di sotto del 20%) e, parallelamente, il giudizio in via
incidentale presenta un significativo incremento, riavvicinandosi alla media
dei venti anni precedenti al 2003. L’insieme di questi dati ha suggerito una relativa
stabilizzazione del contenzioso tra
Stato e Regioni derivante dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte
seconda della Costituzione, stabilizzazione che si è attestata, comunque, su
valori decisamente più alti rispetto a quelli constatati prima della riforma
costituzionale.
Tuttavia,
a partire dal 2009, si è aperta una nuova stagione di conflittualità
Stato-regioni, “in un contesto parzialmente diverso da quello degli anni
2003-2006, non fosse altro perché alcune delle difficoltà nell’attuazione del
nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che avevano suggerito
una spiegazione dei dati tanto elevati raggiunti dal giudizio in via d’azione,
sono state proprio in quel periodo superate”[2].
In
riferimento all’attività della Corte, negli ultimi anni sono rinvenibili tre
caratteristiche principali. La prima consiste nella netta preponderanza dei
giudizi di legittimità costituzionale e nella connessa marginalizzazione degli
altri giudizi (conflitti interistituzionali e interorganici, giudizi sull’ammissibilità del referendum e ordinanze di correzione di
errori materiali).
La
somma delle percentuali del giudizio in via incidentale e di quello in via
principale è stata pari all’88,42% nel 2008; al 90,06% nel 2009; al 93,75% nel
2010; 83,92% nel 2011; 92,08% nel 2012 e 90,17 nel 2013.
Il secondo
elemento da rimarcare è la notevole crescita del numero di decisioni rese in
sede di giudizio in via principale, ed il terzo si collega strettamente al
secondo, consistendo nella chiara diminuzione del numero di decisioni rese
nell’ambito del giudizio in via d’eccezione.
Infatti,
nel 2009 si era riscontrata una nuova crescita del contenzioso tra Stato e
Regioni, che nel 2010 si è significativamente rafforzata, sino a giungere alle
141 decisioni nel 2010, 91 nel 2011, 150 nel 2012 e 149 nel 2013[3].
Tradotti
questi valori in termini percentuali, può notarsi che il giudizio in via
incidentale, che aveva tradizionalmente rappresentato la fetta più cospicua del
contenzioso costituzionale, ha conosciuto, rispetto al passato, una chiara
contrazione e, negli ultimi due anni, è stato superato dal giudizio in via
principale.
Infatti,
nel 2012 e nel 2013, per la prima volta
della storia della Corte, il giudizio in via principale ha espresso la quota più
rilevante del contenzioso costituzionale. Il dato assoluto si è mantenuto
costante (150 pronunce nel 2012 e 149 nel 2013). Percentualmente si è invece
registrata una lieve diminuzione (dal 47,46% del 2012 al 45,7% del 2013).
Lo
spazio assunto dal giudizio principale risulta più evidente considerando, per
le decisioni rese nei giudizi di legittimità costituzionale (in via principale
e in via incidentale), il numero delle dichiarazioni di illegittimità
costituzionale.
Grafico
n. 3/a – Numero dichiarazioni di illegittimità costituzionale nelle decisioni
rese nei giudizi in via principale
Anno |
Totale
decisioni |
Dichiarazioni
di illegittimità costituzionale[4] |
2013 |
149 |
208 (95 sentenze) |
2012 |
150 |
120 (73 sentenze) |
2011 |
91 |
84 (57 sentenze) |
2010 |
141 |
109 (67 sentenze) |
2009 |
82 |
77 (37 sentenze) |
Grafico
n. 3/b – Numero dichiarazioni di illegittimità costituzionale nelle decisioni
rese nei giudizi in via incidentale
Anno |
Totale
decisioni |
Dichiarazioni
di illegittimità costituzionale |
2013 |
145 |
48 (42 sentenze) |
2012 |
141 |
33 (25 sentenze) |
2011 |
196 |
39 (35 sentenze) |
2010 |
211 |
50 (42 sentenze) |
2009 |
225 |
34 (31 sentenze) |
Per
quanto riguarda i ricorsi, nella maggior parte delle ipotesi, i giudizi in via
principale sono promossi dallo Stato avverso leggi regionali o provinciali.
Nell’ultimo triennio, il numero assoluto dei ricorsi statali e dei relativi
giudizi instaurati dinanzi alla Corte ha segnato un incremento costante,
passando da 75 nel 2011 a 90 nel 2012 e 126 nel 2013.
In
relazione all’esito di tali ricorsi, inoltre, una recente ricerca (limitata
all’analisi degli ultimi tre anni di giurisprudenza – 2011-2013) mette in
evidenza il rapporto tra tipologia del ricorso e dichiarazione di
incostituzionalità. Al riguardo emerge che, nelle decisioni rese dalla Corte su
ricorsi regionali o provinciali avverso leggi statali, le dichiarazioni di
incostituzionalità rappresentano circa un quinto del totale (19% nel 2013; 20%
nel 2012; 19,7% nel 2011), mentre, per quanto concerne i ricorsi promossi dallo
Stato, le pronunce di incostituzionalità sono ben più numerose (62,5% nel 2013,
55% nel 2012; 50% nel 2011).[5]
Grafico
n. 4 – Giudizi in via principale: analisi quantitativa dei ricorsi promossi
dallo Stato e da Regioni o Province autonome. Fonte: elaborazione su dati della
Corte costituzionale[6]
Anno |
Totale decisioni |
Ricorsi promossi da regioni e province
autonome |
Ricorsi promossi dallo Stato |
||
|
|
numero |
ill. cost.(%) |
numero |
ill. cost.(%) |
2013 |
149 |
27 |
19% |
126 |
62,5% |
2012 |
150 |
57 |
20% |
90 |
55% |
2011 |
91 |
16 |
19,67% |
75 |
50% |
Per
quanto concerne il contenuto delle leggi
impugnate, la ricerca rileva che le
Regioni e le Province autonome hanno indirizzato i propri ricorsi prevalentemente avverso le
leggi finanziarie annuali, i provvedimenti d’urgenza adottati per far fronte
alla crisi economica, le riforme di impatto sulle autonomie locali (come, ad
esempio, il federalismo fiscale). In tale ambito, le decisioni di illegittimità
costituzionale di fonti statali hanno riguardato norme non rispettose del
principio di leale collaborazione. Nella maggior parte dei casi, i giudizi si
sono conclusi con pronunce di non fondatezza delle questioni sollevate,
motivate, in prevalenza, dal riconoscimento in capo allo Stato di competenze
c.d. finalistiche o trasversali (tutela della concorrenza, tutela dell’ambiente
e determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni) suscettibili di
comprimere l’autonomia regionale, o giustificate dalla legittima posizione di
principi fondamentali in materie di competenza concorrente (in particolare, il
coordinamento della finanza pubblica).
In
relazione alle decisioni sui ricorsi
dello Stato avverso leggi regionali e provinciali, le numerose
dichiarazioni di incostituzionalità hanno accertato la violazione di competenze
legislative esclusive dello Stato nelle c.d. materie trasversali o non
trasversali (in particolare, ordinamento civile e sistema tributario dello
Stato), ovvero di principi fondamentali stabiliti in materie di competenza
concorrente (in prevalenza, coordinamento della finanza pubblica, ma anche professioni,
governo del territorio, protezione civile, tutela della salute ed energia).
Nei
paragrafi che seguono sono analizzate le materie ricomprese negli elenchi di
cui al testo vigente dell’articolo 117 della Costituzione, limitatamente a
quelle oggetto di modifica da parte del progetto di legge di riforma
costituzionale, approvato dal Senato in prima lettura e ora all’esame della
Camera (A.C. 2613).
Ogni
paragrafo è diviso in quattro sezioni in cui, per ciascuna materia, sono
richiamati:
1) l’attuale assetto di
competenze fissato in Costituzione, arricchito in alcuni casi dal quadro
normativo primario di riferimento;
2) le principali questioni
emerse dalla giurisprudenza costituzionale in relazione alla materia
interessata;
3) le proposte di modifica
previste al riguardo dalla riforma in esame;
4) la rassegna della giurisprudenza
costituzionale sulla materia interessata, con particolare attenzione ai profili
di modifica del disegno di legge di riforma costituzionale.
L’ordine
di esame delle materie segue l’elenco del vigente articolo 117 per ciascuna
tipologia di competenza (esclusiva, concorrente e residuale).
L’art.
117, secondo comma, lett. n), Cost. annovera le norme generali
sull’istruzione
tra
le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre l’art. 117, terzo comma,
Cost., include l’istruzione, salva l’autonomia
delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della
formazione professionale – che rientra, dunque, nella competenza
residuale delle regioni – tra le materie di legislazione concorrente.
Quanto
al diritto allo studio, esso non è
espressamente citato nel vigente art. 117 Cost., ma
trova fondamento nell’art. 34, i cui commi terzo e quarto dispongono che i capaci e meritevoli, anche se privi di
mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e che la Repubblica rende effettivo questo
diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso.
|
Con riferimento all’istruzione, la Corte costituzionale ha dovuto tracciare un quadro
generale di riferimento per l’interpretazione del sistema delle competenze
delineato dall’art. 117 della Costituzione, che in qualche misura può essere
considerato paradigmatico nel riparto delle competenze tra le “norme generali”
e i “principi fondamentali” da una parte e la legislazione concorrente
dall’altra. La Corte infatti ha avuto modo di
chiarire tale distinzione: “le norme generali in materia di istruzione sono
quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e,
quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente
regionale”. In tal senso, le norme generali si differenziano dai “principi
fondamentali”, i quali, “pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono
in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime,
altre norme, più o meno numerose” (sentenza n. 279/2005). Successivamente, la Corte ha precisato
che appartengono alla categoria delle disposizioni espressive di principi
fondamentali quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, discipline,
pur tese ad assicurare l’esistenza di elementi di base comuni sul territorio
nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio, da un lato non
sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema di istruzione
che caratterizza le norme generali, dall’altro necessitano “per la loro
attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del
legislatore regionale”. In particolare, nel settore dell’istruzione “lo
svolgimento attuativo dei predetti principi è necessario quando si tratta di
disciplinare situazioni legate a valutazioni coinvolgenti le specifiche
realtà territoriali delle regioni, anche sotto il profilo socio-economico”
(sentenza n. 200/2009). In
questa cornice si inquadrano, in particolare, le pronunce della Corte in
materia di programmazione della rete scolastica, che pertiene alla competenza
del legislatore regionale (sentenze nn. 92/2011 e
147/2012). |
Sulla
materia il quadro normativo successivo all’entrata in vigore del nuovo Titolo V
della Costituzione si è evoluto con l’approvazione della legge n. 53/2003 ha
delegato il Governo ad adottare decreti
legislativi per la definizione delle
norme generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni
in materia di istruzione e formazione professionale. Con riferimento al sistema
di istruzione e formazione professionale (IeFP) - i
cui percorsi rappresentano una delle
componenti del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione
ai sensi di quanto sancito dalla medesima L. 53/2003[7] – la competenza legislativa esclusiva è
delle regioni, spettando allo Stato
la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117,
secondo comma, lett. m), Cost.)[8] (v., più ampiamente, infra).
Sulla
base della delega contenuta nella citata legge n. 53/2003, sono stati emanati i
D.Lgs. 59/2004 (Norme generali sulla scuola
dell’infanzia e sul primo ciclo di istruzione), 286/2004 (Istituzione del
Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e
formazione), 76/2005 (Norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla
formazione), 77/2005 (Norme generali sull’alternanza scuola-lavoro), 226/2005
(Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo
ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione) e 227/2005 (Norme
generali sulla formazione degli insegnanti ai fini dell’accesso
all’insegnamento), quest’ultimo successivamente abrogato dall’art. 2, co. 416,
della L. 244/2007.
La
nuova disciplina incide su un sistema normativo previgente alla riforma
ampiamente consolidato. In particolare, con riferimento alle funzioni e ai compiti amministrativi, l’art. 138 del D.Lgs.
112/1998 ha delegato alle regioni le funzioni – prima attribuite allo
Stato – relative, in particolare: alla programmazione dell'offerta formativa
integrata tra istruzione e formazione professionale; alla programmazione della
rete scolastica, assicurando il coordinamento con la programmazione
dell’offerta formativa; alla suddivisione, sulla base anche delle proposte
degli enti locali interessati, del territorio regionale in ambiti funzionali al
miglioramento dell'offerta formativa; alla determinazione del calendario
scolastico; ai contributi alle scuole non statali[9].
Sono
rimasti, invece, attribuiti allo Stato,
fra gli altri - in base all’art. 137 dello
stesso D.Lgs. - i compiti e le funzioni concernenti i
criteri e i parametri per l'organizzazione della rete scolastica, previo parere
della Conferenza unificata, le funzioni di valutazione del sistema scolastico,
le funzioni relative alla determinazione e all'assegnazione delle risorse
finanziarie a carico del bilancio dello Stato e del personale alle istituzioni
scolastiche, le funzioni relative alle scuole ed alle istituzioni culturali
straniere in Italia.
Con
riguardo al profilo dell’autonomia
scolastica occorre ricordare che il regolamento emanato con DPR 275/1999 ha
disposto che alle istituzioni scolastiche è attribuita autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e
sviluppo. In particolare, le scuole provvedono alla definizione e alla
realizzazione dell'offerta formativa,
nel rispetto delle funzioni delegate alle regioni e dei compiti e funzioni
trasferiti agli enti locali, ai sensi degli artt. 138 e 139 del D.Lgs. 112/1998, mediante la
predisposizione del Piano dell’offerta
formativa (artt. 3-7).
Inoltre,
alle istituzioni scolastiche sono state attribuite le funzioni relative alla carriera scolastica degli alunni, all’amministrazione e alla gestione del
patrimonio e delle risorse e allo
stato giuridico ed economico del personale non riservate
all'amministrazione centrale e periferica, e quelle in materia di articolazione territoriale della scuola
(art. 14).
Infine,
il regolamento ha disposto che dall'attribuzione alle istituzioni scolastiche
sono escluse le seguenti funzioni:
formazione delle graduatorie permanenti riferite ad ambiti territoriali più
vasti di quelli della singola istituzione scolastica; reclutamento del personale docente, amministrativo, tecnico e
ausiliario con rapporto di lavoro a tempo indeterminato[10]; mobilità esterna alle
istituzioni scolastiche e utilizzazione del personale eccedente l'organico
funzionale di istituto; autorizzazioni per utilizzazioni ed esoneri per i quali
sia previsto un contingente nazionale; comandi, utilizzazioni e collocamenti fuori
ruolo; riconoscimento di titoli di studio esteri, fatto salvo il riconoscimento
degli studi compiuti in Italia e all'estero ai fini della prosecuzione degli
studi medesimi, la valutazione dei crediti e debiti formativi (art. 15).
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il nuovo articolo 117 attribuisce: ·
allo Stato la competenza legislativa esclusiva nelle materie
disposizioni generali e comuni sull’istruzione e ordinamento
scolastico(secondo comma, lett. n)); · alle regioni la
competenza legislativa, salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di istruzione e formazione
professionale e di promozione del diritto allo studio. |
La
Corte Costituzionale, nella sentenza n. 279/2005, pronunciandosi sulla
legittimità costituzionale di numerose disposizioni del citato D.Lgs. n. 59/2004 – recante norme generali sulla scuola
dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione in attuazione della L. n. 53/2003
– ha tracciato un quadro generale di riferimento per l’interpretazione del quadro delle competenze delineato dalla
Costituzione in materia di istruzione.
In
particolare, la Corte – intendendo preliminarmente distinguere la categoria
delle “norme generali sull’istruzione”, di competenza esclusiva dello Stato, da
quella dei “principi fondamentali” in materia di istruzione, destinati ad
orientare le regioni negli ambiti di competenza concorrente – ha precisato che
“le norme generali in materia di
istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze
unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito
propriamente regionale”. In tal senso, le norme generali si differenziano dai “principi fondamentali”, i quali, “pur
sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro
operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno
numerose”.
La
Corte è tornata sull’argomento con la sentenza n. 200/2009, volta a stabilire
la legittimità costituzionale di talune disposizioni dell’art. 64 del D.L. n.
112/2008 (L. n. 133/2008), con la quale ha evidenziato che “una chiara definizione vincolante – ma ovviamente non tassativa – degli
ambiti riconducibili al “concetto” di norme generali sull’istruzione è ricavabile dal contenuto
degli artt. 33 e 34 Cost.
In
particolare, la Corte ha evidenziato che il legislatore costituzionale ha
inteso individuare già negli artt. 33 (in base al quale alla Repubblica è
affidato il compito di dettare le norme generali sull’istruzione) e 34 Cost. le caratteristiche basilari del sistema scolastico,
relative:
a) alla istituzione di scuole per tutti gli ordini
e gradi (art. 33, secondo comma, Cost.);
b) al diritto di enti e privati di istituire scuole
e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato (art. 33, terzo comma, Cost.);
c) alla parità tra scuole statali e non statali
sotto gli aspetti della loro piena libertà e dell'uguale trattamento degli
alunni (art. 33, quarto comma, Cost.);
d) alla necessità di un esame di Stato per
l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuola o per la conclusione di essi (art.
33, quinto comma, Cost.);
e) all'apertura della scuola a tutti (art. 34,
primo comma, Cost.);
f) alla obbligatorietà e gratuità dell'istruzione
inferiore (art. 34, secondo comma, Cost.);
g) al diritto degli alunni capaci e meritevoli,
anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. 34,
terzo comma, Cost.);
h) alla necessità di rendere effettivo quest'ultimo
diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso (art. 34, quarto comma, Cost.).
La
Corte ha rilevato inoltre che rientrano nelle norme generali sull’istruzione
gli ambiti individuati dalla citata
L. 53/2003.
Si
tratta in particolare di:
a) definizione generale e
complessiva del sistema educativo di istruzione e formazione, delle sue
articolazioni cicliche e delle sue finalità ultime;
b) regolamentazione
dell'accesso al sistema ed i termini del diritto-dovere alla sua fruizione;
c) previsione generale del contenuto
dei programmi delle varie fasi e dei vari cicli del sistema e del nucleo
essenziale dei piani di studio scolastici per la “quota nazionale”;
d) previsione e regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli;
e) definizione degli standard
minimi formativi, richiesti per la spendibilità
nazionale dei titoli professionali conseguiti all'esito dei percorsi
formativi, nonché per il passaggio ai percorsi scolastici;
f) definizione generale dei
“percorsi” tra istruzione e formazione che realizzano diversi profili
educativi, culturali e professionali (cui conseguono diversi titoli e
qualifiche, riconoscibili sul piano nazionale) e possibilità di passare da un
percorso all'altro;
g) valutazione periodica degli
apprendimenti e del comportamento degli studenti;
h) princípi della valutazione complessiva del sistema;
i) modello di alternanza
scuola-lavoro, al fine di acquisire competenze spendibili anche nel mercato
del lavoro;
l) princípi di formazione degli insegnanti.
La
Corte infine ha rilevato che in via
interpretativa sono, in linea di principio, considerate norme generali sull'istruzione, fra le
altre, quelle sull'autonomia
funzionale delle istituzioni scolastiche (di cui all'art. 21 della L. n.
59/1997), sull'assetto degli organi
collegiali (di cui al D.Lgs. n. 233/1999), sulla parità scolastica e sul diritto allo studio e all'istruzione
(di cui alla L. n. 62/2000)[11].
Nella
stessa sentenza n. 200/2009, la Corte ha evidenziato che appartengono, invece,
alla categoria delle disposizioni espressive di principi fondamentali della materia dell’istruzione quelle norme
che, nel fissare criteri, obiettivi, discipline, pur tese ad assicurare la
esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle
modalità di fruizione del servizio, da un lato non sono riconducibili a quella
struttura essenziale del sistema di istruzione che caratterizza le norme
generali, dall’altro necessitano “per la loro attuazione (e non già per la
loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale”. In
particolare, “la relazione tra normativa di principio e normativa di dettaglio
[…] va intesa […] nel senso che alla prima spetta prescrivere criteri ed
obiettivi, essendo riservata alla
seconda l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per
raggiungere detti obiettivi”.
Nello
specifico settore dell’istruzione, la Corte ha, dunque, ritenuto che “lo
svolgimento attuativo dei predetti principi è necessario quando si tratta di disciplinare situazioni legate a
valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle regioni,
anche sotto il profilo socio-economico”.
Su
tali basi, la Corte ha ritenuto qualificabili come “norme generali
sull’istruzione” quelle recate dall’art. 64, co. 4, lett.
da a) ad f), del D.L. 112/2008 – riguardanti la razionalizzazione e
l’accorpamento delle classi di concorso, la ridefinizione dei curriculi, la
revisione dei criteri di formazione delle classi, la rimodulazione
dell’organizzazione didattica delle scuole primarie, la revisione dei criteri
per la definizione degli organici, la revisione dell’assetto
organizzativo-didattico dei centri di formazione per gli adulti – in quanto
disposizioni che contribuiscono a delineare la struttura di base del sistema di
istruzione, che non necessitano di un’ulteriore normazione a livello regionale.
Le stesse, infatti, pur avendo un impatto indiretto su profili organizzativi
del servizio scolastico, rispondono alla esigenza essenziale di fissare
standard di qualità dell'offerta formativa volti a garantire un servizio
scolastico uniforme sull'intero territorio nazionale.
A
diverse conclusioni la Corte è giunta, invece, per le disposizioni recate dalle
lett. f-bis)
ed f-ter) dello stesso co. 4, in
materia di dimensionamento della rete
delle istituzioni scolastiche, ambito ritenuto di spettanza regionale.
Al
riguardo, infatti, la Corte, richiamando la sentenza n. 13/2004 e la sentenza
n. 34/2005, ha evidenziato che “è da escludersi che il legislatore
costituzionale del 2001 abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che
era già ad esse conferita”, sia pure soltanto sul piano meramente amministrativo,
dall’art. 138 del D.Lgs. n. 112/1998.
Più
in generale, la Corte ha sottolineato che la definizione del riparto di
competenze amministrative attuato con il citato D.Lgs.
fornisce un tendenziale criterio utilizzabile per la individuazione degli
ambiti materiali che la riforma del Titolo V ha attribuito alla potestà
legislativa concorrente o residuale delle regioni[12].
Nello
specifico, la Corte, guardando all'obiettivo perseguito dalle lett. f-bis) ed
f-ter) – concernenti, più nel
dettaglio, la definizione di criteri e modalità per il dimensionamento della
rete scolastica e l’attivazione di servizi qualificati per la migliore
fruizione dell’offerta formativa, nonché, nel caso di chiusura o accorpamento
degli istituti scolastici aventi sede nei piccoli comuni, la previsione da
parte di Stato, regioni ed enti locali, di misure finalizzate alla riduzione
del disagio degli utenti – ha sottolineato che la preordinazione dei criteri
volti alla attuazione del dimensionamento della rete scolastica ha una diretta
ed immediata incidenza su situazioni strettamente legate alle varie realtà
territoriali ed alle connesse esigenze socio-economiche di ciascun territorio,
che ben possono e devono essere apprezzate in sede regionale, senza che,
dunque, possano venire in rilievo aspetti che ridondino sulla qualità
dell'offerta formativa e sulla didattica.
Ha,
pertanto, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tali disposizioni.
L’attribuzione
al legislatore regionale degli interventi in materia di programmazione della rete scolastica è stata ribadita anche nelle sentenze
n. 92/2011 e n. 147/2012.
In
particolare, con la prima sentenza citata la Corte ha annullato l’art. 2, co. 4
e 6, del DPR 89/2009 – emanato in attuazione del citato art. 64, co. 4, del
D.L. 112/2008 (prima della pubblicazione della sentenza n. 200/2009) –
concernente la revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico
della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, evidenziando che
non spettava allo Stato disciplinare l’istituzione di nuove scuole
dell’infanzia e di nuove sezioni della scuola dell’infanzia, nonché la
composizione di queste ultime, attenendo gli argomenti, in maniera diretta, al
dimensionamento della rete scolastica sul territorio.
Con
la seconda sentenza, la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale
dell’art. 19, co. 4, del D.L. 98/2011 (L. 111/2011) che aveva disposto
l’aggregazione in istituti comprensivi, a decorrere dall’a.s.
2011-2012, di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado
prevedendo che, per il conseguimento dell’autonomia, i citati istituti
comprensivi dovevano avere un numero minimo di 1.000 alunni, ridotti a 500 per
particolari realtà.
In
tal caso, la Corte ha rilevato che “è indubbio che la disposizione in esame
incide direttamente sulla rete scolastica e sul dimensionamento degli
istituti”, materia che non può ricondursi nell’ambito delle norme generali
sull’istruzione e va, invece, ricompresa nella competenza concorrente relativa
all’istruzione.
In
tema di istruzione e formazione
professionale, si ricorda che nella sentenza n. 50/2005 la Corte ha
chiarito, in linea generale, che “la competenza esclusiva delle Regioni in
materia di istruzione e formazione professionale riguarda l’istruzione e la
formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli
istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le
singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà
locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi”, mentre
non è compresa nell’ambito della suindicata competenza né in altre competenze
regionali la disciplina della istruzione e della formazione aziendale che i
privati datori di lavoro somministrano in ambito aziendale ai loro dipendenti,
rientrando, invece, nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello
Stato in materia di ordinamento civile.
In
tale quadro, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 60
del D.Lgs. n. 276/2003, recante la disciplina dei
tirocini estivi di orientamento, in quanto la stessa, dettata senza alcun
collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad
eventuali assunzioni, attiene alla formazione professionale di competenza
esclusiva delle regioni.
Nello
stesso ambito, con la sentenza n. 309/2010, la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 13, co. 2 e 3, della L. della Regione Toscana 32/2002,
come sostituito dall’art. 3 della L.R. n. 63/2009, con il quale, al fine di
assolvere all’obbligo di istruzione, è stato introdotto un percorso di
formazione professionale diverso rispetto a quello individuato dalla disciplina
statale, con ciò violando le norme generali sull’istruzione e il principio di
leale collaborazione. In particolare, la Corte ha rilevato che lo stesso
legislatore statale ha definito “generali” le norme sul diritto-dovere di
istruzione e formazione, contenute nel D.Lgs.
76/2005, e che l’obbligo di istruzione appartiene a quella categoria di
“disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema
nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo
necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale,
assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di
trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio di istruzione“.
Nel
vigente testo costituzionale, la previdenza sociale è attribuita alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo
comma, lett. o),
mentre la materia della previdenza complementare ed integrativa, è
oggetto di competenza concorrente (art. 117, terzo
comma).
|
L’esigenza di una
disciplina unitaria ed omogenea in materia di previdenza sociale, che
ricomprenda anche la previdenza complementare ed integrativa, è stata evidenziata in varie occasioni nella
giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 189 del 2011, n. 325
del 2011, n. 26 del 2013 e n. 98 del 2013). |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia della previdenza
complementare ed integrativa viene inclusa
nell’ambito della previdenza sociale, transitando così
dalla competenza concorrente alla competenza dello Stato in via esclusiva
(art. 117, secondo comma, lett. o)). |
L’esigenza
di una disciplina unitaria ed omogenea
in materia di previdenza sociale, che ricomprenda anche la previdenza
complementare ed integrativa, è stata evidenziata dalla Corte costituzionale,
che negli anni ha più volte ribadito la competenza esclusiva statale
sull’intera materia.
Con
la sentenza n. 189 del 2011 la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 5 della L.R. Basilicata 31/2010 - che attribuiva
una qualificazione di lavoro subordinato ad un rapporto di lavoro
essenzialmente precario, quale quello presso le segreterie particolari degli
amministratori regionali, al fine di incrementare il trattamento pensionistico
dei dipendenti - in quanto incideva “in modo chiaro nella materia della previdenza sociale che, in base a quanto
disposto dall’art. 117, secondo comma, lettera o), Cost.,
rientra nella competenza esclusiva dello Stato”, richiamando così la necessità
di dar luogo ad una disciplina unitaria della materia.
Le
sentenze n. 325 del 2011 e n. 98 del 2013 sono intervenute in merito all’ambito
di applicazione della disciplina previdenziale statale. Nella prima la Corte
costituzionale ha censurato l’estensione dell’ambito di applicazione della
disciplina previdenziale statale relativa al personale delle pubbliche
amministrazioni ai dipendenti pubblici nominati assessori regionali, in quanto “non
spetta alla legislazione regionale disporre una equiparazione del trattamento
previdenziale degli assessori regionali non consiglieri con quello degli
assessori che ricoprano la carica di consigliere. Ove tale equiparazione fosse
effettuata con legge regionale, come nel caso in esame, non solo si avrebbe una
lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, ma si
determinerebbero difformità nella disciplina del trattamento previdenziale dei
dipendenti pubblici da una regione all’altra”. Nella seconda delle sentenze
richiamate la Corte ha affermato che solo lo Stato può estendere l’ambito
soggettivo e oggettivo di applicazione di disposizioni oggetto di competenza
legislativa esclusiva statale, tra cui specificamente quello della previdenza
sociale.
Nella
sentenza n. 26 del 2013, in merito alla legittimità costituzionale degli
articoli 4, comma 2, e 7, comma 5, della L.R. Sardegna 27/2011 (Riforma della
legge istitutiva di un fondo per l’integrazione del trattamento di quiescenza,
di previdenza e di assistenza del personale dipendente dall’Amministrazione
regionale) la Corte ha evidenziato la stretta
connessione tra la materia della previdenza sociale e quella della previdenza
complementare e integrativa. Proprio questa connessione fa sì che la
materia della previdenza complementare ed integrativa possa essere attratta in
un ambito rientrante nella competenza esclusiva statale: nel caso di specie,
pur nel rispetto dei limiti imposti dalla competenza concorrente, la regione
Sardegna aveva comunque toccato un aspetto collegato al principio fondamentale
di coordinamento della finanza pubblica, attribuito alla competenza esclusiva
statale dall’ultima parte dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
L’articolo
117, comma secondo, lett. p), attribuisce allo Stato, in via esclusiva, la competenza
legislativa in materia di
legislazione
elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, province e
Città metropolitane.
|
Nel declinare la
competenza esclusiva statale legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost, la Corte costituzionale ha evidenziato (sentenza n.
220 del 2013) come tale previsione debba intendersi riferita alle componenti
essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro
natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo, secondo le linee
di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato
dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. Allo Stato spetta
dunque l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che
vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale; la disciplina
di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi – Stato o Regione – è
intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce. Lungo tale
direzione si è mossa anche la giurisprudenza costituzionale relativa alle
leggi regionali che intervengono
sulle funzioni degli enti locali, ammettendo, in generale, che il legislatore
regionale possa - nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni
costituzionali o statutarie -, in presenza di esigenze di carattere generale,
articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, con il limite
della permanenza di almeno una sfera adeguata di funzioni (sentenze n. 238
del 2007, n. 378 del 2000, n. 286 del 1997, n. 83 del 1997). Riguardo alla materia forme
associative dei comuni, la giurisprudenza costituzionale ha, in una prima fase,
ritenuto illegittime le disposizioni ordinamentali dettate dal legislatore
statale, ritenendo la materia riconducibile alla competenza legislativa
residuale regionale. In tale ambito, la Corte, intervenendo con riferimento
alla forma associativa delle comunità montane, ha evidenziato come il
richiamo alla competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p),
Cost. sia in proposito inconferente, giacché le
stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost. In una
seconda fase (da ultimo con le sentenze n. 22 e n. 44 del 2014) la Corte
costituzionale, pur mantenendo immutato il titolo competenziale
di riferimento, ha ritenuto ammissibile un intervento del legislatore statale
in forza della competenza concorrente in materia di coordinamento della
finanza pubblica, legittimando
anche interventi dalla chiara natura ordinamentale, tra cui quelli volti ad
individuare nel dettaglio gli organi dell’unione e le modalità della loro
costituzione. La Corte ha, in particolare, ritenuto che, di fronte a
disposizioni orientate finalisticamente al contenimento della spesa pubblica,
poste in un provvedimento di riesame delle condizioni di spesa e con
contenuto armonici rispetto all’impianto complessivo della rimodulazione
delle unioni dei comuni, operi il titolo legittimante della competenza in
materia di “coordinamento della finanza pubblica” esercitata dallo Stato
attraverso previsioni che si configurano come principi fondamentali e che non
si esauriscono in una disciplina di mero dettaglio. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Nell’ambito della competenza legislativa esclusiva in
materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali
di Comuni, Province e Città metropolitane: ·
viene esplicitata anche la competenza in materia di ordinamento di Comuni e Città
metropolitane; ·
viene enucleata una nuova competenza in materia di disposizioni di
principio sulle forme associative dei comuni; ·
viene soppresso, come già nelle altre parti della
Costituzione, il riferimento alle “Province”. La disposizione finale di cui all’art.
39, comma 4, primo periodo, del disegno di legge di riforma interviene in
materia di riparto di competenze legislative relativamente agli enti di area vasta. Essa prevede che per gli enti di area vasta,
tenuto conto anche delle aree montane, i ‘profili ordinamentali generali’ sono definiti con legge dello Stato, mentre le ‘ulteriori disposizioni’ sono adottate
con legge regionale. |
Nel
declinare tale competenza, la Corte costituzionale ha evidenziato (sentenza n.
220 del 2013) come tale previsione debba intendersi riferita alle componenti
essenziali dell’intelaiatura
dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi
destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali
di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali
nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli
regionali.
Ne
consegue, in base alla costante giurisprudenza costituzionale sulla materia,
che allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale,
cui, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi
pubblici locali. La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi
– Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione stessa si
riferisce. In definitiva, in base alla giurisprudenza costituzionale, la legge
statale è attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate,
mentre l’organizzazione della funzione
rimane attratta alla rispettiva competenza materiale dell’ente che ne può disporre in via regolativa. Esemplificativo è
l’ambito di intervento del testo unico, di cui al decreto legislativo 267/2000,
che – in base all’art. 1 – detta “i principi e le disposizioni in materia di
ordinamento degli enti locali”.
Lungo
tale direzione si è mossa anche la giurisprudenza costituzionale relativa alle
leggi regionali che intervengono sulle
funzioni degli enti locali, ammettendo, in generale, che il legislatore
regionale possa (nei differenziati ambiti lasciati dalle disposizioni
costituzionali o statutarie), in presenza di esigenze di carattere generale,
articolare diversamente i poteri di amministrazione locale, con il limite della permanenza di almeno una
sfera adeguata di funzioni (sentenze n. 238 del 2007, n. 378 del 2000, n. 286
del 1997, n. 83 del 1997).
Al
tempo stesso, riguardo alle regioni a
statuto speciale, esprimendosi riguardo ad una disposizione della regione
Friuli Venezia Giulia volta alla soppressione delle comunità montane, la Corte
ha richiamato la riserva di competenza
regionale prevista nello statuto di tale regione in materia di “ordinamento degli enti locali”
(sentenza n. 229 del 2001), ed ha dichiarato non fondata la questione di illegittimità
sollevata dallo Stato. Lo stesso articolo 1 del suddetto testo unico degli enti
locali (267/2000) dispone che le relative disposizioni non si applicano alle
regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano se
incompatibili con le attribuzioni previste dagli statuti e dalle relative norme
di attuazione.
Riguardo
all’ambito soggettivo di applicazione, la Corte costituzionale, intervenendo
con riferimento alla forma associativa delle comunità montane, ha evidenziato
come il richiamo alla competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost. sia, in tale ambito, inconferente,
giacché le stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost,
che reca un elenco che “deve ritenersi
tassativo” (sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del 2006, n. 456 del 2005 e n.
244 del 2005) e non è dunque possibile delineare, a livello costituzionale,
alcuna equiordinazione tra comuni e comunità montane
(e, quindi, forme associative di comuni in generale).
Sotto
altro profilo, va ricordato che, in molteplici occasioni (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2013, n.
193 del 2012, n. 151 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297 del
2009), la Corte ha ritenuto che il legislatore statale possa, con una
disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad
obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio,
anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali.
Vincoli che possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e
degli enti locali quando stabiliscano un «limite
complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle
risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del
canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento
normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
La
Corte ha inoltre affermato, sotto altro aspetto, che la disciplina posta dal
legislatore statale in materia di controlli
sugli enti territoriali ha assunto maggior rilievo a seguito dei vincoli
derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, tra cui, in
particolare, l’obbligo imposto agli Stati membri di rispettare un determinato
equilibrio complessivo del bilancio nazionale. A tali vincoli, si riconnette
essenzialmente la normativa nazionale sul “patto di stabilità interno”, il
quale coinvolge Regioni ed enti locali nella realizzazione degli obiettivi di
finanza pubblica scaturenti, appunto, dai richiamati vincoli europei,
diversamente modulati negli anni in forza di disposizioni legislative,
costantemente qualificate come «princìpi
fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli
articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione» (sentenza
n. 267 del 2006).
In
tale quadro, la Corte ha ricordato come il rispetto dei vincoli europei
discende direttamente, oltre che dai principi di coordinamento della finanza pubblica,
dall’art. 117, primo comma, Cost. e dall’art. 2,
comma 1, della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del
principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che, nel comma
premesso all’art. 97 Cost., richiama il complesso
delle pubbliche amministrazioni, ad assicurare in coerenza con l’ordinamento
dell’Unione europea, l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito
pubblico (sentenza n. 60 del 2013). Da ciò consegue la differenza tra i
controlli di regolarità e legittimità contabile, attribuiti alla Corte dei
conti al fine di prevenire squilibri di bilancio, e i controlli istituiti dalle autonomie speciali sulla contabilità degli
enti insistenti sul loro territorio e, più in generale, sulla finanza
pubblica di interesse regionale. Mentre questi ultimi sono resi nell’interesse
della Regione stessa e delle Province autonome, quelli affidati alla Corte dei
conti sono strumentali al rispetto degli obblighi che lo Stato ha assunto nei
confronti dell’Unione europea in ordine alle politiche di bilancio. In questa
prospettiva, funzionale ai principi di coordinamento e di armonizzazione dei
conti pubblici, essi possono essere accompagnati anche da misure atte a
prevenire pratiche contrarie ai principi della previa copertura e
dell’equilibrio di bilancio (sentenze n. 266 e n. 60 del 2013), che ben si
giustificano in ragione dei caratteri di neutralità e indipendenza del
controllo di legittimità della Corte dei conti (sentenza n. 226 del 1976).
Detti controlli si risolvono in un esito alternativo, nel senso che devono
decidere se i bilanci preventivi e successivi degli enti territoriali siano o
meno rispettosi del patto di stabilità e del principio di equilibrio (sentenze
n. 60 del 2013 e n. 179 del 2007). Cionondimeno, essi non impongono nella
discrezionalità propria della particolare autonomia di cui sono dotati gli enti
territoriali destinatari, ma sono mirati unicamente a garantire la sana gestione finanziaria, prevenendo o
contrastando pratiche non conformi ai richiamati principi costituzionali.
Riguardo
alla materia forme associative dei
comuni, la giurisprudenza costituzionale, in una prima fase, ha ritenuto
illegittime le disposizioni ordinamentali dettate dal legislatore statale,
ritenendo la materia riconducibile alla competenza
legislativa residuale regionale (sentenze n. 244 e n. 456 del 2005; n. 397
del 2006).
In
particolare, la giurisprudenza costituzionale in tema di forme associative di
enti locali ha riguardato, in un primo momento, soprattutto le comunità montane, qualificandole come «un caso speciale di unioni di Comuni,
create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di
esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione
dei comuni montani, “funzioni proprie”, “funzioni conferite” e funzioni
comunali».
Al
contempo, la Corte, intervenendo sempre con riferimento alla forma associativa
delle comunità montane, ha evidenziato come il richiamo alla competenza statale
di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. sia, in tale ambito, inconferente, giacché le stesse non
sono contemplate dall’art. 114 Cost, che reca un
elenco che “deve ritenersi tassativo” (sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del
2006, n. 456 del 2005 e n. 244 del 2005). L'art. 114 Cost.
non contempla inoltre – ha evidenziato la Corte - le comunità montane tra i
soggetti di autonomia destinatari del precetto in esso contenuto e non è
possibile delineare, a livello costituzionale, alcuna equiordinazione
tra comuni e comunità montane.
Riguardo
a tale ambito competenziale, la Corte ha altresì
evidenziato (sentenza n. 220 del 2013) come la lettera p) indichi le componenti
essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro
natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad
esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di
svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal
legislatore statale ed integrato da quelli regionali.
La
Corte, ha, inoltre, ritenuto (sentenze n. 237 del 2009 e n. 456 del 2005) che,
riguardo alle comunità montane, non possono venire in rilievo neppure i
principi fondamentali desumibili dal Testo unico sugli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 2000) e, dunque, non può trovare
applicazione la disposizione di cui all’art. 117, terzo comma, ultima parte, Cost., «la quale presuppone, invece, che si verta nelle
materie di legislazione concorrente».
In
una seconda fase (da ultimo con le
sentenze n. 22 e n. 44 del 2014) la Corte costituzionale, pur mantenendo immutato
il titolo competenziale di riferimento, ha ritenuto
ammissibile un intervento del legislatore statale in forza della competenza concorrente in materia di
coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 151 del 2012, n. 91 del
2011, n. 326 del 2010, n. 27 del 2010 e n. 237 del 2009), legittimando peraltro
anche interventi di natura ordinamentale, tra cui quelli volti ad individuare
nel dettaglio gli organi dell’unione e le modalità della loro costituzione. La
Corte ha, in particolare, ritenuto che, di fronte a disposizioni orientate
finalisticamente al contenimento della spesa pubblica, poste in un
provvedimento di riesame delle condizioni di spesa e con contenuto armonici
rispetto all’impianto complessivo della rimodulazione delle unioni dei comuni,
operi il titolo legittimante della competenza in materia di “coordinamento
della finanza pubblica” esercitata dallo Stato attraverso previsioni che si
configurano come principi fondamentali e che non si esauriscono in una
disciplina di mero dettaglio.
Sulla
base di queste argomentazioni, la sentenza n. 22 del 2014 ha dunque ritenuto
infondate le questioni di legittimità costituzionale riferite ad una normativa
in materia di unione di comuni che disciplinava aspetti ordinamentali quali gli
organi, lo statuto, le funzioni, in quanto finalisticamente orientata al contenimento della spesa
pubblica (nello stesso senso, anche sentenza n. 44/2014).
La
Corte ha infatti confermato l’impostazione (ex
multis, sentenze n. 236 del 2013, n. 193 del
2012, n. 151 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297 del 2009) in
base alla quale il legislatore statale può, con una disciplina di principio,
imporre vincoli alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento
finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi
comunitari o dalle politiche di bilancio, anche se questi si traducono,
inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti
territoriali. Vincoli che possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle
Regioni e degli enti locali quando stabiliscano un «limite complessivo, che
lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i
diversi ambiti e obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del canone generale
della ragionevolezza e proporzionalità
dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
Nel
caso in esame, la Corte ha ritenuto le norme riguardanti l’unione dei comuni
(in particolare, sull’«unione di comuni montani», sulla possibilità per ciascun
comune di partecipare ad una sola unione e per le unioni di Comuni di stipulare
apposite convenzioni tra loro o con singoli Comuni, sugli organi dell’unione e
sulle modalità della loro costituzione; sulle previsioni dello statuto riguardo
l’individuazione delle funzioni svolte dall’unione e le corrispondenti risorse;
su nuovi vincoli in materia di spesa di personale), “decisamente orientate ad
un contenimento della spesa pubblica”. Ciò in quanto creano un “sistema tendenzialmente virtuoso di
gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra
Comuni”, che mira ad un risparmio di spesa sia sul piano dell’organizzazione
“amministrativa”, sia su quello dell’organizzazione “politica”, lasciando
comunque alle Regioni l’esercizio contiguo della competenza materiale ad esse
costituzionalmente garantita, senza, peraltro, incidere in alcun modo sulla
riserva del comma quarto dell’art. 23 Cost. In
definitiva, ha ritenuto si trattasse di un legittimo esercizio della potestà
statale concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai
sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.
Con
riferimento al riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni in materia
di ambiente, il legislatore costituzionale ha distinto fra la legislazione in
materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117, secondo
comma, lett. s)),
riservata alla competenza esclusiva dello Stato, e la legislazione finalizzata
alla valorizzazione dei beni ambientali, rientrante nella
competenza concorrente di Stato e regioni di cui al comma terzo dell’art. 117
della Costituzione.
|
La tutela
dell’ambiente costituisce una materia estremamente rilevante, che è stata oggetto di una copiosa
giurisprudenza costituzionale. La Corte costituzionale ha ripetutamente
affermato che "non si può discutere di materia in senso tecnico, perché
la tutela ambientale è da intendere come valore costituzionalmente protetto,
che in quanto tale delinea una sorta di «materia trasversale», in ordine alla
quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, fermo restando che
allo Stato spettano le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di
disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale" (ex multis: sentenze n.
278/2012, n. 171/2012, n. 20/2012, n. 235/2011, n. 191/2011, n. 225/2009, n.
12/2009, n. 378/2007); Nella sentenza n. 225/2009, (e analogamente, ex plurimis, nelle sentenze nn.
12/2009, 30/2009, 61/2009, 164/2009, 220/2009, 249/2009, 315/2009) che la
«tutela dell’ambiente» ha un contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto
riferito ad un bene, l’ambiente, e finalistico, perché tende alla migliore
conservazione del bene stesso e si pone in evidenza un dato di rilevante
importanza: sullo stesso bene (l’ambiente) “concorrono” diverse competenze, le quali, tuttavia, restano
distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità
attraverso la previsione di diverse discipline. Dunque, la competenza statale, quando è espressione della tutela
dell’ambiente, costituisce "limite" all’esercizio delle competenze
regionali, anche in altri ambiti materiali. Le Regioni, nell’esercizio delle
loro competenze, debbono dunque rispettare la normativa statale di tutela dell’ambiente,
ma possono stabilire per il raggiungimento dei fini propri delle loro
competenze (in materia di tutela della salute, di governo del territorio, di
valorizzazione dei beni ambientali, etc.) livelli di tutela più elevati. La sentenza n. 58 del
2013 ha ribadito che «interventi specifici del legislatore regionale sono
ammessi nei soli casi in cui essi, pur intercettando gli interessi
ambientali, risultano espressivi di una competenza propria della Regione
(sentenza n. 398 del 2006)»; ed «è consentito alla legge regionale
incrementare gli standard di tutela dell’ambiente, quando essa costituisce
esercizio di una competenza legislativa della Regione e non compromette un
punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla
norma dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 66 del 2012, n. 225 del 2009, n. 398 del 2006, n. 407
del 2002)». La tutela del paesaggio come valore primario, nonché assoluto, cioè
insuscettibile di essere subordinato a qualunque altro valore, è stata più
volte ribadita dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 367/2007). La Corte ha ricompreso la tutela del
paesaggio nell’ambito della tutela dell’ambiente attribuendola alla
competenza esclusiva dello Stato. Ne consegue che, anche in materia di tutela
del paesaggio, la disciplina statale costituisce un limite minimo di tutela
non derogabile dalle Regioni, ordinarie o a statuto speciale, e dalle
Province autonome (sentenza n. 101/2010). Relativamente
al rapporto tra i vari interessi pubblici gravanti sul territorio, la Corte
ha affermato che la tutela paesaggistica, gravando su un bene complesso ed
unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario
ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e
comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici
assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del
territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali (sentenza n.
367 del 2007). |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Per quanto riguarda la competenza in materia, essa rimane
nell’ambito della potestà legislativa esclusiva statale, ma muta
denominazione da tutela dell’ambiente e dell’ecosistema ad ambiente
ed ecosistema (art. 117, secondo comma, lett.
s)). Inoltre: ·
viene esplicitata tra le materie statali la potestà
legislativa esclusiva sulla tutela e valorizzazione dei beni
paesaggistici; · è attribuita alla
competenza regionale la disciplina, per quanto di interesse regionale, della
promozione dei beni ambientali e paesaggistici. |
Dopo
la riforma del 2001, la giurisprudenza costituzionale si è occupata in più
occasioni della tutela dell’ambiente.
Nella
sentenza n. 407 del 2002, la Corte ha affermato una serie di importanti
principi. In particolare, la Corte, nel precisare che non tutti gli ambiti
materiali specificati nel secondo comma dell'art. 117 possono, in quanto tali,
configurarsi come "materie" in senso stretto - poiché, in alcuni casi,
si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad
investire una pluralità di materie (cfr. sentenza n. 282 del 2002) – ha
sottolineato che l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale
portano ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso
tecnico, qualificabile come tutela dell'ambiente, dal momento che non
sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente
circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e
competenze. La Corte precisa che dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova
formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come “valore”
costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”, in
ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere
regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze
meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (sentenze n.
507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998). Alla luce del quadro
delineato, allo Stato, pertanto, spetta
il potere di fissare standard di tutela uniformi sull'intero territorio
nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale
alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente
ambientali. Quanto affermato nella sentenza n. 407 viene successivamente
ripreso in molte sentenze (ex plurimis, sentenze n. 307 del 2003, n. 232 del 2005, n.
398 del 2006).
Nella
sentenza n. 378/2007 la Corte parte dalla considerazione che sovente l'ambiente
è stato considerato come “bene immateriale”. Sennonché, quando si guarda
all'ambiente come ad una “materia” di riparto della competenza legislativa tra
Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della
vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la
salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti.
Oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del
1972, è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue
varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro
equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via.
Occorre, in altri termini, guardare all'ambiente come “sistema”, considerato
cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di
vista statico ed astratto. La Corte, nell’enfatizzare anche l’importanza della
parola “ecosistema” che la norma costituzionale pone accanto alla parola
“ambiente”, svolge ulteriori considerazioni sul carattere unitario
dell’ambiente rilevando che spetta allo
Stato disciplinare l'ambiente come una
entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il
tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto. Ed è da notare,
a questo proposito, che la disciplina
unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di
valore costituzionale primario (sentenza n. 151 del 1986) ed assoluto (sentenza n. 210 del 1987),
e deve garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di
tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore. La Corte
sottolinea, tuttavia, che, accanto al
bene giuridico ambiente in senso unitario, possono coesistere altri beni giuridici, aventi ad oggetto
componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi
giuridicamente tutelati. Si parla, in proposito, dell'ambiente come “materia
trasversale”, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi:
quello alla conservazione dell'ambiente e quelli inerenti alle sue
utilizzazioni. In questi casi, la disciplina unitaria del bene complessivo
ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella
dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materie di competenza
propria, ed in riferimento ad altri interessi. Ciò comporta che la disciplina ambientale, che scaturisce
dall'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, investendo l'ambiente
nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a funzionare
come un limite alla disciplina che le
Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza,
per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il
livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato.
Nella
sentenza n. 225 del 2009, la Corte rileva come sullo stesso bene (l'ambiente) “concorrano” diverse competenze, le
quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro
specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline: da una
parte, sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell'ambiente,
mediante la fissazione di livelli «adeguati e non riducibili di tutela»
(sentenza n. 61 del 2009) e, dall'altra, compete alle regioni, nel rispetto dei
livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di esercitare le proprie
competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell'ambiente,
evitando compromissioni o alterazioni dell'ambiente stesso. In relazione a tale
“concorso” di competenze – continua la Corte nella sentenza n. 225 del 2009 –
“può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela
dell'ambiente, costituisce “limite” all'esercizio delle competenze regionali”.
La Regione, pertanto, non può prevedere soglie
di tutela inferiori a quelle dettate dallo Stato, mentre può, nell’esercizio di
una sua diversa potestà legislativa, prevedere eventualmente livelli maggiori
di tutela,
che presuppongono logicamente il rispetto degli standard adeguati ed uniformi
fissati nelle leggi statali (sentenza n. 263 del 2011 e 315 del 2010; v. anche
sentenze n. 193 del 2010 e n. 61 del 2009).
Nelle
sentenze n. 58 del 2013 e n. 145 del 2013 è stato ribadito il principio in base
al quale “è consentito alla legge regionale incrementare gli standard di tutela
dell’ambiente, quando essa costituisce
esercizio di una competenza legislativa della Regione e non compromette un
punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla
norma dello Stato”.
Per
quanto riguarda l’individuazione della materia relativa alla tutela e
valorizzazione dei beni paesaggistici,
occorre ricordare che l’art. 9 della
Costituzione, nell’ambito dei principi fondamentali della Costituzione,
affida alla Repubblica il compito di tutelare
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, erigendo
quindi “il valore estetico-culturale riferito (anche) alla forma del territorio
a valore primario dell’ordinamento” (sentenza n. 359/1985).
La
qualifica della tutela del paesaggio
come valore primario, nonché assoluto, cioè insuscettibile di essere
subordinato a qualunque altro valore, è stata più volte ribadita dalla
giurisprudenza costituzionale.
Merita
in proposito riportare di seguito il contenuto del settimo considerato in
diritto della sentenza n. 367/2007 della Corte (la quale ha rappresentato anche
un punto di partenza per la riformulazione, operata dal D.lgs. n. 63/2008,
della definizione di paesaggio introdotta nella legislazione statale dall’art.
131 del D.Lgs. n. 42/2004): «come
si è venuto progressivamente chiarendo già prima della riforma del Titolo V
della parte seconda della Costituzione, il concetto di paesaggio indica,
innanzitutto, la morfologia del territorio, riguarda cioè l'ambiente nel suo
aspetto visivo. Ed è per questo che l'art. 9 della Costituzione ha sancito il
principio fondamentale della “tutela del paesaggio” senza alcun'altra specificazione.
In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e
culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale. Si tratta
peraltro di un valore “primario”, come ha già da tempo precisato questa Corte
(sentenza n. 151 del 1986; ma si vedano anche sentenze n. 182 e n. 183 del
2006), ed anche “assoluto”, se si tiene presente che il paesaggio indica
essenzialmente l'ambiente (sentenza n. 641 del 1987). L'oggetto tutelato non è
il concetto astratto delle “bellezze naturali”, ma l'insieme delle cose, beni
materiali, o le loro composizioni, che presentano valore paesaggistico».
Ai
fini dell’individuazione del soggetto
territorialmente competente, la medesima giurisprudenza ritiene che la
tutela del paesaggio debba essere ricompresa nell’ambito della tutela
dell’ambiente, che la lettera s) del secondo comma dell’art. 117 Cost. attribuisce alla competenza
esclusiva dello Stato, cosicché il potere centrale gode di una sfera di
competenza legislativa capace di imporsi anche sulla disciplina dettata dalle
regioni nelle materie di propria competenza, garantendo in questo modo una
protezione unitaria di entrambi i principi (cfr. sentenza n. 51/2006).
Ne
consegue che in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio, la disciplina statale costituisce un limite
minimo di tutela non derogabile dalle Regioni, ordinarie o a statuto
speciale, e dalle Province autonome (sentenza n. 101/2010 e, in precedenza,
sentenze n. 272 del 2009 e n. 378 del 2007).
In un
siffatto contesto, la Corte ha altresì puntualizzato (con la sentenza n. 226
del 2009) che il predetto titolo di competenza statale “riverbera i suoi
effetti anche quando si tratta di
Regioni speciali o di Province autonome, con l'ulteriore precisazione,
però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia (sentenza
n. 378 del 2007)”.
La
Corte si è, infine, interrogata sul rapporto tra i vari interessi pubblici
gravanti sul territorio, ossia tra quelli concernenti la conservazione
ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e
quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni
culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla
competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. Al riguardo, è stato
affermato che la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene
complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un
valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello
Stato, precede e comunque costituisce un
limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza
concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di
valorizzazione dei beni culturali e ambientali. In sostanza, vengono a
trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla
conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del
territorio, affidato anche alle Regioni. Secondo la sentenza n. 367/2007 “in
sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi:
quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla
fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni. Si tratta di due tipi di tutela, che ben possono
essere coordinati fra loro, ma che
debbono necessariamente restare distinti”.
Da
ultimo, si segnala che con la sentenza n. 66 del 2012 la Corte ha avuto modo di
ribadire come la stessa qualificazione di «norma di grande riforma
economico-sociale» – che già designava il sistema vincolistico in materia di
paesaggio introdotto dalla cosiddetta “legge Galasso”
– deve essere mantenuta in riferimento, proprio, all’art. 142 del D.lgs. n. 42
del 2004, la cui elencazione delle aree vincolate per legge rappresenta nella
sostanza un continuum rispetto alla precedente disciplina (sentenza n. 164 del
2009). Per altro verso, a sottolineare l’assoluta centralità di tale disciplina
– ed il risalto che, sul piano costituzionale, ad essa deve essere
effettivamente riconosciuto –, sta anche l’osservazione per la quale, attraverso le disposizioni dettate dal
codice dei beni culturali e del paesaggio, proprio laddove hanno reintrodotto la tipologia dei beni paesaggistici e ne
hanno operato la relativa ricognizione, si
è inteso dare «attuazione al disposto del (citato) articolo 9 della Costituzione,
poiché la prima disciplina che esige il principio fondamentale della tutela del
paesaggio è quella che concerne la conservazione della morfologia del
territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali» (sentenza n. 367 del
2007).
Il testo attualmente vigente dell’articolo 117 secondo comma, lett. s), Cost. annovera la tutela dei beni culturali tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre la valorizzazione dei beni culturali rientra tra le materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117,
terzo comma.
|
Nel quadro delineato
dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali e alla competenza legislativa concorrente la valorizzazione degli stessi, la Corte costituzionale ha evidenziato che
la tutela dei beni culturali e, in generale, lo sviluppo della cultura,
corrispondono a finalità di interesse
generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue
articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del
riparto di competenze per materia fra Stato e regioni” (sentenze nn. 478/2002 e 307/2004). In
particolare, la Corte ha evidenziato la possibilità per le regioni di
integrare la normativa in materia di tutela dei beni culturali, con misure
diverse ed aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale (sentenze nn. 401/2007 e 194/2013). |
Su
queste basi, l’art. 4 del D.Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)
ha previsto l’attribuzione al Ministero
per i beni e le attività culturali delle funzioni
di tutela, disponendo che lo stesso le esercita direttamente o ne può
conferire l'esercizio alle regioni, tramite forme di intesa e coordinamento.
Specifiche previsioni relative alla cooperazione delle regioni e degli altri
enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale sono
recate dall’art. 5.
L’art.
7 ha, invece, disposto che il codice fissa i principi fondamentali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale
– recati dalla Parte Seconda, Titolo II, Capo II (artt. 111-121) –, nel
rispetto dei quali le regioni esercitano la potestà legislativa. Ha, inoltre,
previsto che il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali
perseguono il coordinamento, l'armonizzazione e l'integrazione delle attività
di valorizzazione dei beni pubblici.
A sua
volta, l’art. 8 ha disposto che
nelle materie disciplinate dal codice restano ferme le potestà attribuite alle
regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano dagli
statuti e dalle relative norme di attuazione.
E’
utile, peraltro, ricordare che l’art. 112
ha disposto che la legislazione regionale disciplina le funzioni e le attività di
valorizzazione dei beni di appartenenza pubblica presenti negli “istituti e nei luoghi della cultura”[13] non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la
disponibilità. Pertanto, la potestà legislativa regionale (concorrente) risulta
non solo condizionata dal rispetto dei principi fondamentali posti dalla legge
dello Stato, ma anche limitata in relazione ai beni.
Lo
stesso art. 112 ha, altresì, previsto che possono essere definiti accordi tra lo Stato – per il tramite
del Ministero – le regioni e gli altri enti pubblici territoriali per definire
strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i
conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi, relativamente
ai beni culturali di pertinenza pubblica. In assenza degli accordi, ciascun
soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione
dei beni di cui ha comunque la
disponibilità[14].
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il nuovo articolo 117 della Costituzione attribuisce: ·
allo Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia tutela e valorizzazione dei beni culturali (secondo comma, lett. s)); · alle regioni la
competenza legislativa, per la disciplina, per
quanto di interesse regionale, della promozione dei beni culturali. |
Con
riferimento al riparto di competenze sopra delineato, con la sentenza n. 9/2004
la Corte Costituzionale, evidenziato, in via preliminare, che “la tutela e la
valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all’entrata in
vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono state considerate
attività strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita,
sovrapponibili”, ha reso una definizione delle due funzioni:
· la tutela “è diretta principalmente ad impedire che il bene possa
degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale”;
· la valorizzazione “è diretta, soprattutto, alla fruizione del bene
culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a
quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa”.
Successivamente
all’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Corte, nella sentenza
n. 232/2005, ha richiamato, ai fini del riparto di competenze, le disposizioni
in esso contenute: tale testo legislativo, secondo la Corte, ribadisce l’esigenza dell’esercizio unitario delle
funzioni di tutela dei beni culturali (art. 4, co. 1) e, nel contempo,
stabilisce, però, che siano non soltanto lo Stato, ma anche le regioni, le
città metropolitane, le province e i comuni ad assicurare e sostenere la
conservazione del patrimonio culturale e a favorirne la pubblica fruizione e la
valorizzazione (art. 1, co. 3).
In
generale, nelle sentenze nn. 478/2002 e 307/2004 –
ripercorrendo quanto già evidenziato, nel contesto del previgente titolo V,
parte seconda, della Costituzione, con le sentenze nn.
276 del 1991, 348 del 1990, 562 e 829 del 1988 (esplicitamente citate nella
sentenza n. 307/2004) – la Corte ha
affermato che lo sviluppo della cultura,
nonché – per quanto qui interessa – la tutela
dei beni culturali, corrispondono a finalità
di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in
tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al
di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni”.
In
particolare, nella sentenza n. 401/2007 la Corte ha evidenziato la possibilità per le regioni di integrare la
normativa in materia di tutela dei beni culturali, con misure diverse ed
aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale.
Tale
posizione è stata ripresa nella sentenza n. 194/2013,
concernente il giudizio di legittimità costituzionale di parti della
legge della regione Lombardia n. 16/2012, Valorizzazione dei reperti mobili e
dei cimeli appartenenti a periodi storici diversi dalla prima guerra mondiale.
In particolare, la Corte - sottolineato come sia indubitabile che soltanto la
disciplina statale possa assicurare, in funzione di tutela (e in considerazione
della unitarietà del patrimonio culturale), le misure più adeguate, con la
previsione di specifici procedimenti e di dettagliate procedure di ricognizione
e di riscontro delle caratteristiche dei beni -
ha precisato[15] che la potestà legislativa delle regioni può essere
legittimamente esercitata, non in una posizione antagonistica rispetto allo
Stato, ma in funzione di salvaguardia diversa ed aggiuntiva, in riferimento a
quei beni che non sono qualificati come “culturali” dalla normativa statale ma
che possono, invece, presentare un qualche interesse “culturale” in relazione
al patrimonio storico e culturale di una determinata comunità regionale o
locale.
La materia rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni rientra
tra le materie di competenza concorrente tra Stato e regioni ai sensi dell’art.
117, terzo comma.
|
La giurisprudenza costituzionale ha spesso considerato la competenza
concorrente in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni unitamente alla disposizione dell’art. 117,
quinto comma, a mente del quale le Regioni e le Province autonome, nelle
materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla
formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e
all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea,
nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che
disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di
inadempienza. Può essere altresì
richiamato l’art. 117, nono comma, Cost., secondo il quale nelle materie di sua competenza
la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali
interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello
Stato. La sentenza della Corte costituzionale
n. 378 del 2007 ha
inoltre affermato il principio della unitarietà della
rappresentazione della posizione italiana nei confronti dell’Unione europea. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il nuovo articolo 117 della Costituzione non contempla
più la competenza concorrente in materia di rapporti internazionali
e con l’Unione europea delle Regioni. |
La giurisprudenza costituzionale in materia di “rapporti
internazionali e con l’Unione europea delle regioni” si è soffermata sugli
aspetti relativi alla partecipazione delle regioni ai processi decisionali
europei e alle iniziative che le regioni hanno provato ad adottare nel campo
della cooperazione internazionale.
Secondo la Corte, la disciplina statale delle modalità di partecipazione delle Regioni, sia ordinarie che speciali,
alla c.d. «fase ascendente» dei processi
decisionali comunitari trova il proprio titolo abilitativo nel quinto comma
dell'art. 117 della Costituzione, che istituisce una competenza statale
ulteriore e speciale rispetto a quella contemplata dall'art. 117, terzo comma,
consistente nel dettare in via esclusiva «norme di procedura» (sentenza n. 239
del 2004).
Inoltre, “in base al principio sancito dai commi terzo e quinto
dell'art. 117 della Costituzione - i quali attribuiscono allo Stato la
competenza a disciplinare i rapporti delle Regioni e delle Province autonome
con l'Unione europea e a definire le procedure di partecipazione delle stesse,
nelle materie di loro competenza, alla formazione degli atti comunitari -
spetta allo Stato […] il potere di interloquire con la Commissione europea.
La Corte richiama in proposito l'art. 1, comma 5, della legge 8
luglio 1986, n. 349, ribadito dall'art. 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131,che
attribuisce al Ministro dell'ambiente il compito di rappresentare l'Italia presso
gli organismi della Comunità Europea in materia di ambiente e di patrimonio
culturale.
E’ stata conseguentemente dichiarata costituzionalmente
illegittima una disposizione legislativa della provincia autonoma di Trento,
che attribuisce al Presidente della Giunta la competenza a tenere i “rapporti”
con la Commissione europea in relazione alla valutazione di incidenza dei
progetti sulle zone speciali di conservazione di piani o progetti non
direttamente connessi o necessari alla gestione del sito, non potendo la
Provincia autonoma di Trento ascrivere direttamente alla propria competenza il
potere di mantenere “rapporti” con l'Unione europea, prescindendo dalle leggi
dello Stato (sentenza n. 378/2007).
La Corte costituzionale ha altresì censurato le norme regionali
che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinare gli obiettivi
della cooperazione internazionale e
gli interventi di emergenza ed il potere di individuare i destinatari dei
benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione, giacché tali
norme, implicando l'impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in
progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli
Stati beneficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione
internazionale, sono riconducibili alla materia politica
estera, di competenza esclusiva statale, e non alla materia rapporti internazionali e con l’Unione
europea delle Regioni (sentenza n. 285/2008).
Il testo attualmente vigente della Costituzione annovera il
commercio
con l’estero tra le materie di
legislazione concorrente
di cui all’art. 117, terzo comma.
|
Sulla base di una
serie di valutazioni, fondate prevalentemente sulla configurabilità delle
misure adottate quali strumenti di politica economica tendenti a svolgere
sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo, la
giurisprudenza costituzionale, che ha riguardato in poche occasioni la materia
“commercio con l’estero”, ha ricondotto alcune disposizioni sulla tutela del
made in Italy (in particolare, con riguardo a norme
riguardanti fondi) nell’alveo della materia “tutela della concorrenza”, di
pertinenza statale piuttosto che in quella del commercio
con l’estero, di competenza
concorrente tra lo Stato e le regioni nel testo vigente dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 175 del 2005). La Corte ha evidenziato
che la circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in
futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà
legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie come non la
comporterebbe, ad esempio, con il commercio con l’estero un intervento
statale in tema di “dogane” o di “rapporti internazionali”. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia commercio con l’estero, attualmente di
competenza concorrente, transita tra le materie di competenza esclusiva
statale, ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett.
q)). |
La
giurisprudenza costituzionale sulla materia commercio con l’estero ha riguardato soprattutto i profili
attinenti alla tutela del made in Italy, ambito materiale che è stato prevalentemente
ricondotto dalla Corte costituzionale, sulla base di una serie di valutazioni,
sviluppate in modo particolare nella sentenza n. 175 del 2005, nell’alveo della
tutela della concorrenza, di
pertinenza statale.
In
particolare, con la suddetta sentenza, intervenendo sulle disposizioni di cui
all'art. 4, commi 61 e 63, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Fondo per il
sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del "made in Italy"), la Corte costituzionale ha osservato che il
carattere asseritamente modesto dal punto di vista
finanziario dell’intervento non è certamente decisivo per escludere la sua riconducibilità
alla materia della tutela della
concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, Cost.,
ma può, al più, costituire un indizio in tale senso: ed infatti la Corte ha, in
altra occasione, sottolineato che «proprio l’aver accorpato, nel medesimo
titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati
finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato,
la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza rende
palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica
statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico […] ma anche in quell’accezione dinamica […] che giustifica misure pubbliche volte a ridurre
squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad
instaurare assetti concorrenziali» (sentenza n. 14 del 2004).
Di
conseguenza, la Corte ha in più occasioni precisato (sentenza n. 272 del 2004)
che «non spetta ad essa valutare in concreto la rilevanza degli effetti
economici derivanti dalle singole previsioni di interventi statali […] stabilire, cioè, se una determinata regolazione
abbia effetti così importanti sull’economia di mercato […]
tali da trascendere l’ambito regionale […] ma
solo che i vari strumenti di intervento siano disposti in una relazione
ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi».
In
sintesi, la Corte ha evidenziato come le scelte del legislatore sono, sotto
tale profilo, censurabili solo quando «i loro presupposti siano manifestamente
irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione
ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi» (sentenza n. 14 del
2004) e, pertanto, «il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare
essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa
statale attinente alla “tutela della concorrenza” e conseguentemente la
legittimità dei relativi interventi statali» (sentenza n. 272 del 2004). La
norma in questione è stata dunque ritenuta per la sua natura, un “ragionevole e
proporzionato” intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo
del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio “made in Italy”,
un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare
qualità: ad avviso della Corte, dunque, dove è evidente la presenza di un
rapporto, che certamente non può ritenersi irragionevole (e, tanto meno, manifestamente
irragionevole), tra lo strumento impiegato e l’obiettivo (di sviluppo economico
del Paese) che si è prefisso il legislatore statale, così come è evidente che
sussiste il requisito dell’adeguatezza per ciò solo che lo strumento impiegato,
per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti
di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale
un’azione di promozione e sviluppo (sentenza n. 303 del 2003).
La Corte
costituzionale ha quindi precisato, con riguardo al caso di specie, che seppure
il comma 61 dell’art. 4 mira dichiaratamente alla diffusione all’estero nei
mercati mediterranei, dell’Europa continentale e orientale del “made in Italy”,
tale previsione, lungi dall’implicare la riconducibilità alla ovvero una
commistione con la materia del commercio
con l’estero, esprime soltanto
l’auspicata ripercussione sul commercio con l’estero dell’intervento statale
volto alla diffusione di un’idea di qualità dei prodotti (in generale) di
origine italiana. La circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato
abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla
potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie come non
la comporterebbe, ad esempio, con il commercio con l’estero un intervento
statale in tema di “dogane” o di “rapporti internazionali”.
Sotto
altro profilo, con la sentenza n. 454 del 2007 la Corte Costituzionale ha
stabilito che non è illegittima la norma
regionale che attribuisce alla Regione le funzioni concernenti
«l'organizzazione e il coordinamento
delle attività delle imprese che partecipano in Italia e all'estero a
manifestazioni fieristiche, incontri operativi di commercializzazione, sondaggi
di mercato, anche in collaborazione con l'Istituto per il commercio con
l'estero (ICE), l'Agenzia nazionale del turismo, altri enti pubblici, i sistemi
turistici locali, agenzie, aziende e le associazioni di categoria
rappresentative del settore turistico». Tale disposizione, prevedendo una mera
facoltà e non già un obbligo di collaborazione, esclude che il coinvolgimento
di organi statali in tale attività regionale sia imposto unilateralmente dalla
Regione e non determina quindi alcuna alterazione delle ordinarie attribuzioni
che i diversi organi sono chiamati a svolgere in seno agli enti di
appartenenza.
La
riforma del Titolo V ha inserito la materia della tutela e sicurezza del
lavoro tra gli ambiti di
legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
|
Fino all’entrata in
vigore del decreto legislativo n. 81/2008 (Testo unico in materia di
sicurezza nei luoghi di lavoro), la giurisprudenza della Corte costituzionale
è stata impegnata a dipanare le difficoltà connesse alla ripartizione di
competenze tra Stato e regioni, determinata dal fatto che alcuni aspetti
della materia tutela e sicurezza del lavoro possono, direttamente o indirettamente, essere
ricondotti alla potestà esclusiva dello Stato.. In linea generale,
la giurisprudenza costituzionale distingue gli aspetti riconducibili alla
materia “ordinamento civile” (come quelli inerenti alla disciplina del
contratto di lavoro e al diritto sindacale), oggetto di competenza esclusiva
dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.), da quelli relativi alle materie “tutela e
sicurezza del lavoro”, rientranti nella competenza legislativa concorrente. A
seguito della sistemazione normativa realizzata con il testo unico, il
contenzioso costituzionale è stato efficacemente prevenuto grazie alla
traduzione normativa del principio di “leale collaborazione” tra Stato e
regioni (nel frattempo affermatosi nel quadro della complessiva giurisprudenza
formatasi a seguito della legge costituzionale 3/2001 di riforma del titolo
V), che ha indotto il legislatore, consapevole dell’esistenza di
un’interferenza di competenze tale da non poter consentire l’assegnazione
della materia all’uno o all’altro titolo competenziale,
a prevedere un ampio ricorso alla contrattazione dei contenuti normativi in
sede di Conferenza Stato-regioni. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia tutela e sicurezza
del lavoro passa dalla
competenza concorrente alla competenza esclusiva statale, limitatamente alle disposizioni generali
e comuni, ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. m). |
Nell’ambito
della materia del lavoro, la giurisprudenza costituzionale distingue gli
aspetti riconducibili alla materia ordinamento civile (come quelli inerenti
alla disciplina del contratto di lavoro e al diritto sindacale), oggetto di
competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett.
l), Cost.),
da quelli relativi alle materie tutela e sicurezza del lavoro, rientranti nella
competenza legislativa concorrente. In questo quadro si collocano le sentenze
della Corte costituzionale n. 359
del 2003 e nn. 50 e 384 del 2005.
La sentenza
n. 359 del 2003 rappresenta il primo intervento della Corte costituzionale in
tema di lavoro dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e per prima pone
in luce come uno stesso aspetto in materia di lavoro possa essere ricondotto, a
seconda del profilo che si considera, nell’ambito della competenza esclusiva
statale o di quella concorrente. La richiamata sentenza ha avuto ad oggetto un
legge regionale in materia di mobbing
(L.R. Lazio 16/2002), adottata in mancanza di una qualsiasi disciplina statale
della materia. In tale occasione, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale
della legge, la Corte ha operato una distinzione, osservando che “la disciplina
del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il
profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell'
“ordinamento civile” (materia che l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, riserva alla
competenza esclusiva statale) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare
sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt.
2 e 3, primo comma, della Costituzione). Per altro verso, tuttavia, con
riguardo all'incidenza che gli atti vessatori possono avere sulla salute fisica
(malattie psicosomatiche) e psichica del lavoratore (disturbi dell'umore,
patologie gravi), la disciplina che tali conseguenze considera rientra nella
“tutela e sicurezza del lavoro”, nonché nella “tutela della salute”, cui la
prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire
(entrambe materie di potestà concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzo comma,
della Costituzione).
Le sentenze
nn. 50 e 384 del 2005, intervenendo sulla riforma del
mercato del lavoro operata dal D.Lgs. 276/2003 (c.d.
riforma Biagi), hanno ulteriormente sviluppato il quadro definitorio della
materia tutela e sicurezza del lavoro,
confermando che la sua estensione viene limitata dal concorrere di altre
disposizioni che definiscono le relazioni tra Stato e regioni, previste dal
secondo comma dell’art. 117 (e, quindi, di competenza statale esclusiva).
Nella
sentenza n. 50 del 2005, la Corte ha chiarito, innanzitutto, che, a prescindere
da quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia tutela e sicurezza del lavoro, non si
dubita che in essa rientri la disciplina
dei servizi per l’impiego e, in particolare, quella del collocamento.
Occorre però aggiungere che, essendo i servizi per l’impiego predisposti alla
soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti
per l’esercizio della potestà statale di “determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale” (di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.),
come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di
intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello
Stato per la “tutela della concorrenza” (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.).
Nella
sentenza n. 384 del 2005 la Corte ha evidenziato il principio secondo cui la vigilanza sul lavoro non rientra nella
materia di potestà concorrente della tutela e sicurezza del lavoro, ma deve
essere connotata, di volta in volta, in relazione al suo oggetto specifico: su
questa base, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 8, comma 1, della L. 30/2003, il quale delega, tra
l’altro, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto
della disciplina vigente sulle ispezioni in materia di previdenza sociale e di
lavoro. Ha dichiarato, invece, costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma
1, ultimo periodo, del D.Lgs. 124/2004, nella parte
in cui non prevedeva che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali concernente le modalità di attuazione e funzionamento della banca dati
che raccoglie le informazioni concernenti i datori di lavoro ispezionati,
dovesse adottarsi previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (sentenza
recepita dalla nuova formulazione del suddetto comma operata dall’art. 36-bis, c. 10, del D.L. 223/2006).
Infine,
per quanto concerne il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico in
materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), con cui
l’intera materia ha trovato una compiuta sistemazione normativa, si ricorda che
il contenzioso costituzionale è stato efficacemente prevenuto grazie alla
traduzione normativa del principio di
“leale collaborazione” tra Stato e regioni (nel frattempo affermatosi nel
quadro della complessiva giurisprudenza formatasi a seguito della Legge
costituzionale 3/2001 di riforma del titolo V), che ha indotto il legislatore,
consapevole dell’esistenza di un’interferenza di competenze tale da non poter
consentire l’assegnazione della materia all’uno o all’altro titolo competenziale, a prevedere un ampio ricorso alla contrattazione dei contenuti normativi in sede di
Conferenza Stato-regioni, con particolare riferimento alla fase attuativa
della delega legislativa.
La
riforma del Titolo V ha inserito la materia delle professioni tra
gli ambiti di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.
|
Con riferimento alla
materia professioni, la Corte costituzionale, con costante giurisprudenza, ha
riconosciuto che per i profili ordinamentali che non hanno uno specifico
collegamento con la realtà regionale si giustifica una uniforme
regolamentazione sul piano nazionale. Per la Corte, l'individuazione delle
figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è
riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato. Non è
dunque nei poteri delle Regioni dare vita a nuove figure professionali e
l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni
per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla
competenza regionale. Sempre
per la Corte, ulteriori profili attinenti alla legislazione sulle professioni
sono invece riconducibili alla materia “tutela della concorrenza”, di
competenza legislativa esclusiva statale. Ad esempio è stata censurata una
legge regionale laddove essa prevede l'obbligo - da parte di professionisti
provenienti da altre regioni - di applicare tariffe determinate a livello
regionale, ostacolando la competitività tra gli operatori. Peraltro, la legge
regionale che comporta l'obbligo di iscrizione nell'albo della regione in cui
si intende esercitare una determinata professione non prevede un obbligo di
sostenere nuovamente le prove di abilitazione necessarie e dunque non
configura un intralcio al libero regime concorrenziale. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia professioni viene ascritta nel
nuovo art. 117, secondo comma, lett. t), alla competenza esclusiva statale
come ordinamento delle professioni. |
Con riferimento alla materia delle professioni, posta tra le materie di legislazione concorrente
dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, la Corte costituzionale,
con costante giurisprudenza, ha riconosciuto che per i profili ordinamentali
che non hanno uno specifico collegamento con la realtà regionale - da cui la
Corte fa derivare la natura concorrente - si giustifica una uniforme regolamentazione sul piano
nazionale. Ad esempio, sulla base di considerazioni di tale tenore, la
Corte, con sentenza n. 98/2013 (richiamata poi anche dalla sentenza n.
178/2014), ha censurato una legge regionale recante definizione delle attività
di alcune figure professionali, in quanto “la potestà legislativa regionale
nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio
secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili
e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente
unitario, allo Stato”. La Corte, nella citata pronuncia, conferma come la
competenza delle Regioni debba limitarsi “alla disciplina di quegli aspetti che
presentino uno specifico collegamento con la realtà regionale: tale principio
[...] si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge
regionale, da ciò derivando che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove
figure professionali”. Sulla medesima linea argomentativa si muovono anche
pronunce meno recenti, come le sentenze n. 131/2010, n. 300/2010 e n. 138/2009.
Quest'ultima, inoltre, richiama numerosi precedenti: le sentenze n. 153/2006,
e, ex plurimis, n. 57/2007, n.
424/2006; le sentenze n. 179/2008 e n. 300/2007 (sotto il particolare profilo
del divieto delle Regioni di dare vita a nuove figure professionali); le
sentenze n. 93/2008, n. 57/2007 e n. 355/2005 (nelle quali in particolare si
chiarisce che l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle
condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza
regionale); la sentenza n. 222/2008, nella quale si chiarisce che il settore
cui la professione è riconducibile non rileva ai fini dell'attribuzione della
competenza della determinazione dei principi fondamentali della relativa
disciplina spetti sempre allo Stato.
Di
particolare interesse possono essere gli ulteriori profili nella legislazione
sulle professioni che sono invece riconducibili alla materia tutela della concorrenza. Ad esempio,
nella sentenza n. 219/2012 la Corte censura una legge regionale laddove essa
prevede l'obbligo - da parte di professionisti provenienti da altre regioni -
di applicare tariffe determinate a livello regionale, ostacolando la
competitività tra gli operatori e invadendo l'ambito della potestà legislativa
esclusiva in materia di tutela della
concorrenza riservata allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. D'altra parte la
sentenza n. 282/2013 ha stabilito che la legge regionale che comporta l'obbligo
di iscrizione nell'albo della regione in cui si intende esercitare una
determinata professione, non viola la competenza statale in materia in quanto
non prevede un obbligo di sostenere nuovamente le prove di abilitazione
necessarie e dunque non configura un intralcio al libero regime concorrenziale.
L’articolo
117, terzo comma, nel testo attualmente vigente, include la materia ricerca scientifica e
tecnologica fra quelle di competenza concorrente.
|
Nel quadro delineato
dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato la ricerca
scientifica e tecnologica alla
competenza legislativa concorrente, la Corte costituzionale ha dapprima
evidenziato che “la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una
‘materia’, ma anche un ‘valore’ costituzionalmente protetto (artt. 9 e 33
della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da
ambiti di competenze rigorosamente delimitati” (sentenze nn.
423/2004 e 31/2005). Successivamente,
la Corte ha evidenziato che, qualora la ricerca verta su materie di
competenza esclusiva statale, a queste occorre riferirsi per stabilire la
competenza legislativa. In buona sostanza la ricerca scientifica, qualora si
delimiti l’area su cui verte e si individuino le finalità perseguite, riceve
da queste la propria connotazione (sentenza n. 133/2006). |
Il
D.Lgs. 204/1998 ha stabilito, all'art. 1, che il Governo, nel Documento di economia e
finanza (DEF), determina gli indirizzi e
le priorità strategiche per gli interventi a favore della ricerca scientifica e
tecnologica, definendo il quadro delle risorse finanziarie da attivare e
assicurando il coordinamento con le altre politiche nazionali.
Sulla
base degli indirizzi citati, nonché di altri elementi - risoluzioni
parlamentari di approvazione del DEF, direttive del Presidente del Consiglio,
proposte delle amministrazioni statali - è predisposto, approvato e aggiornato
annualmente dal CIPE (le cui funzioni in materia sono coordinate dal MIUR) il
Programma nazionale per la ricerca (PNR), di durata triennale[16], che definisce gli
obiettivi generali e le modalità di realizzazione degli interventi.
Da
ultimo, l'art. 5 del D.Lgs.
213/2009 ha disposto che, in conformità alle linee guida enunciate nel PNR, i
consigli di amministrazione degli enti di ricerca vigilati dal MIUR, previo
parere dei rispettivi consigli scientifici, adottano un piano triennale di attività (PTA), aggiornato annualmente, ed
elaborano un documento di visione
strategica decennale. Il piano è valutato e approvato dal MIUR, anche ai
fini della identificazione e dello sviluppo degli obiettivi generali di
sistema, del coordinamento dei PTA dei diversi enti di ricerca, nonché del
riparto del fondo ordinario per il finanziamento
degli enti di ricerca (di
cui al citato D.Lgs. 204/1998).
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il testo del disegno di legge di riforma assegna alla
competenza esclusiva statale la programmazione strategica della ricerca
scientifica e tecnologica (art. 117, secondo
comma, lett. n)). |
La
Corte costituzionale ha evidenziato che “la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una ‘materia’,
ma anche un ‘valore’ costituzionalmente
protetto (artt. 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di
rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati”
(sentenza n 423/2004).
Alla
luce di tale considerazione, in particolare, ha ritenuto non fondata la
questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 4,
co. 159, della L. 350/2003, che, nel destinare nuove risorse per il triennio
2004-2006 al sostegno e all’ulteriore potenziamento dell'attività di ricerca
scientifica e tecnologica, aveva rinviato la determinazione delle misure dei
contributi, della tipologia degli interventi ammessi e dei destinatari ad un
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
Infatti,
ha ritenuto, anzitutto, che “un intervento ‘autonomo’ statale è ammissibile in
relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed
accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti
stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, sesto comma, Cost.).
Detta norma ha, infatti, previsto una ‘riserva di legge’ statale (sentenza n.
383 del 1998), che ricomprende in sé
anche quei profili relativi
all’attività di ricerca scientifica che si svolge, in particolare, presso
le strutture universitarie”.
Inoltre,
la Corte ha rilevato che, al di fuori di questo ambito, lo Stato conserva una
propria competenza in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale
e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un
migliore espletamento, sia organizzando direttamente le attività di ricerca,
sia promuovendo studi finalizzati.
Infine,
ha evidenziato che il legislatore statale può sempre, in caso di potestà
legislativa concorrente, non solo fissare i principi fondamentali, ma anche
attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze
di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio – nel rispetto
dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza – mediante una
disciplina che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto
strettamente indispensabile a tali fini.
Le
medesime argomentazioni sono presenti nella sentenza n. 31/2005, con la quale
la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata con riferimento all’art. 56 della L. 289/2002, che ha istituito un
fondo finalizzato al finanziamento di progetti di ricerca, di rilevante valore
scientifico, stabilendo, altresì, che alla sua ripartizione provvede il
Presidente del Consiglio dei ministri, con proprio decreto, su proposta del
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentiti i Ministri
dell’economia e delle finanze, della salute e per l’innovazione tecnologica.
Con
specifico riferimento all’organizzazione del sistema della ricerca in enti, in dottrina è stata altresì
avanzata l’ipotesi che la materia sia riconducibile anche all’ambito dell’ordinamento e
organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di cui all’art. 117,
secondo comma, lett. g), Cost.
Nella
sentenza n. 133/2006, la Corte ha poi evidenziato che la materia “ricerca scientifica”
presenta delle peculiarità. In particolare, “alla materia della ricerca
scientifica è sotteso un valore la cui promozione può essere perseguita anche
con una disciplina che precipuamente concerna materie diverse. E,
correlativamente, si è affermato che, qualora
la ricerca verta su materie di competenza esclusiva statale, a queste occorra
riferirsi per stabilire la competenza legislativa (sentenze n. 423/2004 e
n. 31/2005). In buona sostanza la
ricerca scientifica, qualora si delimiti l’area su cui verte e si individuino
le finalità perseguite, riceve da queste la propria connotazione”.
La
materia sostegno all’innovazione per i settori produttivi, ai sensi
dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, è riservata alla potestà
legislativa concorrente.
|
La Corte costituzionale
in diverse sentenze ha ricondotto le disposizioni volte ad accelerare il
processo di circolazione della conoscenza ed accrescere la capacità
competitiva delle piccole e medie imprese e delle piattaforme industriali a
materie spettanti alla competenza legislativa concorrente delle Regioni (in
particolare, alla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno
all’innovazione per i settori produttivi) ed a quella residuale (industria). Nelle stesse
occasioni la Corte ha ribadito che anche in tali materie possono esservi
quelle “esigenze di carattere unitario” che legittimano l'avocazione in sussidiarietà
sia delle funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente svolte
ai livelli inferiori, sia della relativa potestà normativa per
l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni. Tuttavia l'attrazione al
centro delle funzioni amministrative, mediante la “chiamata in
sussidiarietà”, richiede, per costante giurisprudenza costituzionale, che
l'intervento legislativo preveda forme di leale collaborazione con le
Regioni. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il testo del disegno di legge di riforma assegna alla
competenza regionale la promozione dello sviluppo economico locale e l’organizzazione
in ambito regionale dei servizi alle imprese, ai sensi del nuovo
terzo comma dell’articolo 117. |
La
Corte costituzionale si è pronunciata in merito all’istituzione dell'Agenzia
per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione, (l'art. 1, comma 368,
lettera d), numero 4, della legge 23 dicembre 2005, n. 266) strumentale ad
«accelerare il processo di circolazione della conoscenza ed accrescere la
capacità competitiva delle piccole e medie imprese e delle piattaforme
industriali», nonché ad «assistere le piattaforme industriali in ogni fase del
percorso di ricerca, applicazione ed ingegnerizzazione di una nuova
tecnologia». Riconducendo la relativa disciplina a materie spettanti alla
competenza legislativa concorrente delle Regioni (in particolare, alla ricerca
scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi)
ed a quella residuale (industria), la Corte ha ribadito che sussistono quelle “esigenze di carattere unitario” che
legittimano l'avocazione in
sussidiarietà sia delle funzioni amministrative che non possono essere
adeguatamente svolte ai livelli inferiori (tra le molte, sentenze n. 214 del
2006, n. 383, n. 270, n. 242 del 2005, n. 6 del 2004), sia della relativa
potestà normativa per l'organizzazione e la disciplina di tali funzioni
(sentenza n. 285 del 2005), che è stata realizzata con modalità tali da
escluderne l'irragionevolezza.
In
relazione alla norma concernente l'Agenzia per la diffusione delle tecnologie
per l'innovazione, l'attrazione appare giustificata dalla considerazione che lo
svolgimento dell'attività di promozione dell'integrazione fra il sistema di
ricerca ed il sistema produttivo, attraverso la valorizzazione e la diffusione
di nuove conoscenze, tecnologie, brevetti ed applicazioni industriali prodotti
su scala nazionale ed internazionale presuppone, all'evidenza, un'attività
unitaria. In secondo luogo, secondo la corte, la disciplina risulta
proporzionata, dato che i compiti affidati all'Agenzia, sono appunto quelli
connessi all'esigenza di unitarietà e da questa giustificati, mentre
l'approvazione dello statuto da parte della Presidenza del Consiglio dei
ministri evoca un controllo di mera legittimità.
Tuttavia
la Corte ribadisce che “l'attrazione al centro delle funzioni amministrative,
mediante la “chiamata in sussidiarietà”,
benché sia giustificata, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte,
richiede tuttavia che l'intervento legislativo preveda forme di leale collaborazione con le Regioni (soprattutto sentenza
n. 214 del 2006; ma anche sentenze n. 425, n. 406, n. 213 del 2006)”. Non
essendo contemplate forme di leale collaborazione con le Regioni nella
disposizione oggetto del giudizio di legittimità, la Corte ne ha dichiarato
l’incostituzionalità.
In
materia può altresì citarsi la sentenza n. 308 del 2009, nella quale la Corte è
chiamata a pronunciarsi sull'art. 4, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008,
n. 112, nella parte in cui non prevede il ricorso allo strumento dell'intesa
allorché demanda ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, la disciplina delle
modalità di costituzione e funzionamento dei fondi che possono essere istituiti
per lo sviluppo di programmi di investimento destinati alla realizzazione di
iniziative produttive con elevato contenuto di innovazione. Nel caso di specie
la Corte ritiene infondata la questione in quanto “la mera previsione della
possibilità di istituire fondi di investimento per lo sviluppo di iniziative
produttive non è idonea a ledere le competenze regionali neppure sotto il
profilo della leale collaborazione, potendo, secondo il principio già affermato
da questa Corte, «la lesione derivare non già dall'enunciazione del proposito
di destinare risorse per finalità indicate in modo così ampio e generico, bensì
(eventualmente) dalle norme nelle quali quel proposito si concretizza, sia per
entità delle risorse sia per modalità di intervento sia, ancora, per le materie
direttamente e indirettamente implicate da tali interventi» (sentenze n. 453 e
n. 141 del 2007)”.
L’articolo
117 della Costituzione in tema di salute riserva alla competenza esclusiva del
legislatore statale la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale, ed alla competenza legislativa
concorrente la materia tutela della salute.
|
Dopo la riforma del Titolo V della
Parte II della Costituzione, la giurisprudenza costituzionale ha
costantemente affermato che la materia tutela
della salute è “assai più ampia
rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” (così, ex plurimis, sentenze
n. 270/2005, 181/2006). In essa rientra anche l’organizzazione sanitaria,
considerata “parte integrante” della tutela della salute (così espressamente sentenza
n. 371/2008): pertanto le Regioni possono legiferare in tema di
organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei “principi
fondamentali” stabiliti dallo Stato (siano essi formulati in appositi atti
legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via interpretativa:
così già in sentenza n. 282/2002). Del resto, l'intreccio e
la sovrapposizione di materie, quali la determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela della
salute ed il coordinamento della finanza pubblica, (sentenze n. 187/2012, n.
330/2011 e n. 200/2009), fa sì
che la disciplina della materia sia interamente improntata al principio di
leale cooperazione. La giurisprudenza costituzionale ha
costantemente sottolineato inoltre come l’esigenza di coniugare una
necessaria opera di contenimento della spesa deve essere raccordata con la
garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il
rispetto del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli
utenti (sentenze n. 279 del 2006, n. 271 del 2008 e n. 330 del 2011). La congiuntura economica sfavorevole
degli ultimi anni ha orientato sempre più il legislatore nazionale nel senso
di scelte volte al contenimento delle spese e alla messa a punto di un
sistema in grado, attraverso la standardizzazione dei costi sanitari su scala
nazionale, di ridurre le spese del settore. L’ambito
di intervento delle Regioni è stato oggetto più volte di limitazioni da parte
del legislatore statale, che può
legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per
assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in
connessione con il conseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche
da obblighi comunitari (a partire dalla sentenza n. 36 del 2005, fino alle
più recenti sentenze n. 51 del 2013, n. 79 del 2013, n. 104 del 2013, n. 91
del 2012). |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia tutela della salute viene così
ripartita: ·
le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute spettano alla
competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lett.
m)); ·
la programmazione e organizzazione dei servizi sanitari è ascritta alla
competenza regionale (art. 117, terzo comma). Non
è invece oggetto di modifiche la materia determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. |
La
Costituzione italiana protegge la salute come diritto fondamentale
dell’individuo e come interesse della collettività.
In
tal senso, il diritto alla salute rientra a pieno titolo nella più ampia
categoria dei diritti sociali, la cui tutela impegna tutti i livelli di governo
ad assicurare le condizioni minime di salute e il benessere psicofisico
dell’individuo.
La
legge costituzionale n. 3 del 2001 di modifica del Titolo V ha ridisegnato le
competenze di Stato e regioni in campo sanitario ponendo la tutela della salute
nell’ambito delle materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e
Regioni e attribuendo allo Stato la definizione su tutto il territorio
nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali.
La
stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 510/2002 ha sottolineato che
"con la riforma del Titolo V il quadro delle competenze è stato
profondamente rinnovato e in tale quadro le regioni possono esercitare le
attribuzioni, di cui ritengano di essere titolari, approvando [...] una propria
disciplina legislativa anche sostitutiva di quella statale".
Infatti,
immediatamente dopo la Riforma del Titolo V, molte pronunce della Corte hanno riconosciuto alle regioni la potestà di adottare, in materia
sanitaria, una propria disciplina, anche
sostitutiva di quella statale. Si vedano in questo senso, le sentenze n.
282 del 2002, la n. 12 del 2004 e la n. 162 del 2004: in quest'ultima, la Corte
ha sostenuto che le norme statali che prescrivono la certificazione di idoneità
sanitaria per gli addetti alle industrie alimentari, benché non abrogate,
potevano essere superate da forme di controllo diverse, e più adeguate,
previste dalla legislazione regionale, potendo, il legislatore regionale,
effettuare un'analisi della legislazione statale al fine di enucleare i
principi fondamentali vigenti.
Una prima indicazione restrittiva in ordine
a tale potestà delle regioni è riscontrabile nella sentenza n. 359 del 2003,
sul mobbing (già richiamata sub ‘tutela e sicurezza del lavoro):
secondo la Corte, la Regione non può esercitare la propria potestà normativa,
in quanto l'assenza di principi fondamentali costituirebbe di per sé un fattore
idoneo ad impedirne l'esercizio. In tale ottica, la Corte opera l’ampliamento della nozione di "principi fondamentali della materia" proprio
con la finalità di garantire una disciplina uniforme, a livello nazionale, della tutela della salute. La salute della
persona - afferma la Corte - è un “bene che per sua natura non si presterebbe
ad essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate,
rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali” (sentenza n. 361 del
2003). Sulla base di tale principio, la Corte ha dichiarato
l'incostituzionalità della legge della Regione Piemonte che, in assenza di
determinazioni nazionali, incide direttamente sul merito di scelte terapeutiche
(sentenza n. 338 del 2003, in tema di lobotomia e terapia elettroconvulsivante,
sentenza n. 59 del 2006 in tema di divieto di fumo), fino ad affermare che la
competenza regionale nel campo della tutela
della salute non può consentire,
in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti di una
Regione medesima, interventi preclusivi
che pregiudichino il medesimo interesse della salute nei territori limitrofi
(sentenza n. 62 del 2005 sullo smaltimento di rifiuti radioattivi). In questa
ultima sentenza, la compressione della potestà legislativa regionale è stata
giustificata, considerando la disciplina statale come ‘punto di equilibrio’ tra
contrapposte esigenze: analogo principio è stato enunciato nelle sentenze n.
307 del 2003, n. 331 del 2003 e n. 336 del 2005 (limiti di esposizione della
popolazione ai campi elettromagnetici).
Dopo
la riforma del Titolo V, la concorrenza tra la competenza residuale regionale
in materia di “assistenza ed
organizzazione sanitaria” e la competenza concorrente in materia di tutela della salute diviene oggetto di
molte controversie, che la Consulta risolve utilizzando il “criterio della
prevalenza”, fatto operare in favore della competenza più ampia, ovvero della
materia riferibile alla tutela della salute. Sul tema, la giurisprudenza
costituzionale ha costantemente affermato che la materia tutela della salute è “assai più ampia
rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” (così, ex plurimis, sentenze
nn. 270/2005 e 181/2006), tanto che in essa rientra anche l’organizzazione
sanitaria, considerata parte integrante della tutela della salute (così
espressamente, sentenza 371/2008): pertanto le Regioni possono legiferare in
tema di organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei
principi fondamentali stabiliti dallo Stato (siano essi formulati in appositi
atti legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via
interpretativa: così già in sentenza n. 282/2002). Alla luce di ciò, si è
precisato che l’organizzazione del
servizio sanitario inerisce, invece, ai
metodi ed alle prassi di razionale ed efficiente utilizzazione delle risorse
umane, finanziarie e materiali destinate a rendere possibile l’erogazione del
servizio (sentenza n. 105 del 2007).
Tale
orientamento è stato confermato, peraltro, dalla sentenza n. 301 del 2013, in
cui si ribadisce che, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la
libera professione intramuraria, ascrivibile alla competenza legislativa
ripartita in materia di sanità ed assistenza sanitaria ed ospedaliera, si
radica nella più ampia materia della tutela della salute, di competenza
concorrente[17].
Anche
in materia di tutela della salute, la Corte Costituzionale, si è quindi
adoperata per distinguere le norme
espressione di principi fondamentali dalle norme di dettaglio, attribuendo le prime alla competenza statale e
le seconde alla competenza regionale. In tal senso, la sentenza n. 181 del
2006, sottolinea come la norma statale prescriva criteri ed obiettivi, mentre
la disposizione regionale individui gli strumenti concreti per raggiungere
quegli obiettivi. Pertanto, alla norma statale è lasciata la nomina del
direttore di struttura sanitaria in una rosa di candidati, mentre alla norma
regionale è dato il compito di giungere alla individuazione, operata da
apposita commissione, dei tre candidati. Successivamente con la sentenza 371
del 2008, la Corte ha anche chiarito che “nelle materie di competenza ripartita
è da ritenere vincolante anche ogni previsione che, sebbene a contenuto
specifico e dettagliato, è da considerare per la finalità perseguita, in
rapporto di coessenzialità e di necessaria
integrazione con le norme-principio che connotano il settore”.
Sotto
un diverso profilo, la Corte ha affrontato il tema della partecipazione delle
regioni alla determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni (in ambito sanitario LEA), affermando, con la
sentenza n. 88 del 2003, la necessaria partecipazione degli enti territoriali
all’individuazione di tali livelli. Successivamente, la sentenza n. 134 del
2006 ha ribadito che lo Stato non può disciplinare i livelli essenziali in
violazione del principio di leale
collaborazione, sostituendo all'Intesa un mero parere della Conferenza
Stato-Regioni. Con la stessa sentenza la Corte si è pronunciata anche sulla
determinazione degli standard
qualitativi, strutturali, tecnologici di processo e di esito, nonché
quantitativi, dei livelli essenziali di assistenza. La Corte definisce tali standard come integrazioni e
specificazioni dei livelli essenziali delle prestazioni, e giudica “non
definibile, almeno in astratto, un livello di specificazione delle prestazioni
che faccia venire meno il requisito della loro essenzialità, essendo questo
tipo di valutazioni costituzionalmente affidato proprio al legislatore statale”.
Nella
sentenza n. 187/2012, la Corte costituzionale rileva che “la disciplina del
settore sanitario, del resto, è interamente improntata al principio di leale
cooperazione. A partire dal 2000, lo Stato e le Regioni stipulano particolari
intese, denominate «Patti per la salute», volte a garantire l’equilibrio
finanziario e i livelli essenziali delle prestazioni per il successivo triennio”.
Per
quanto riguarda i LEA aggiuntivi rispetto a quelli fissati a livello nazionale,
la giurisprudenza costituzionale ne ha ammesso l’implementazione da parte
regionale, purché i LEA aggiuntivi non siano in contrasto con il principio di
contenimento della spesa pubblica sanitaria quale principio di coordinamento
della finanza pubblica. A questo proposito, la Corte ha rilevato un contrasto
tra l’erogazione di prestazioni aggiuntive nelle regioni in disavanzo
sottoposte ai Piani di rientro con gli obiettivi di risanamento economico
sottesi al Piano di rientro medesimo (sentenza n. 104 del 2013).
La
disciplina del meccanismo di contribuzione degli assistiti ai costi delle
prestazioni sanitarie (cd. ticket) è ascrivibile, secondo la giurisprudenza
costituzionale, sia alla determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, di
competenza esclusiva dello Stato, sia alla tutela
della salute ed al coordinamento
della finanza pubblica, oggetto di competenza concorrente; l'intreccio e la
sovrapposizione di materie non consentono di individuare una materia prevalente
(sentenze n. 187/2012, n. 330/2011 e n. 200/2009). Ne consegue che in tale
ambito lo Stato non può esercitare la potestà regolamentare la quale è ad esso
attribuita solo nelle materie nelle quali abbia competenza esclusiva (sentenza
n. 187/2012).
La
giurisprudenza costituzionale ha sottolineato come l’esigenza di coniugare una
necessaria opera di contenimento della spesa deve essere raccordata con la
garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il rispetto
del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli utenti (in
materia di ticket la sentenza n. 279
del 2006, successivamente le sentenze n. 271 del 2008 e n. 330 del 2011).
Secondo
la Corte costituzionale, inoltre, “la misura della compartecipazione deve
essere omogenea su tutto il territorio nazionale, giacché non sarebbe
ammissibile che l’offerta concreta di una prestazione sanitaria rientrante nei
LEA si presenti in modo diverso nelle varie Regioni, considerato che
dell’offerta concreta fanno parte non solo la qualità e quantità delle
prestazioni che devono essere assicurate sul territorio, ma anche le soglie di
accesso, dal punto di vista economico, dei cittadini alla loro fruizione” (sentenza n. 187/2012; nello stesso senso, sentenza
n. 203 del 2008). E ciò vale anche rispetto alle Regioni a statuto speciale che
sostengono il costo dell’assistenza sanitaria nei rispettivi territori, in
quanto «la natura stessa dei cosiddetti LEA, che riflettono tutele necessariamente
uniformi del bene della salute, impone di riferirne la disciplina normativa
anche ai soggetti ad autonomia speciale» (sentenze n.
187/2012 e n. 134 del 2006).
In un
caso la Corte ha peraltro ritenuto che l'omogeneità
delle forme di compartecipazione alla spesa non è contraddetta da norme che “si
limitano a consentire una contenuta variabilità dell'importo del ticket fra
Regione e Regione, pur sempre entro una soglia massima fissata dallo Stato”
(sentenza n. 341/2009).
Secondo
la giurisprudenza costituzionale, rientra nella materia della tutela della salute, di competenza concorrente
tra Stato e Regioni, l’organizzazione
dei servizi farmaceutici (ex multis, sentenze n. 132 del 2013, n. 231 del 2012, n.
150 del 2011, n. 295 del 2009 e n. 87 del 2006).
In
particolare, sono stati ritenuti “principi fondamentali” in materia di tutela
della salute i criteri di contingentamento delle sedi farmaceutiche e del
concorso per la loro assegnazione (sentenze n. 231 del 2012, n. 150 del 2011,
n. 295 del 2009, n. 87 del 2006, n. 352 del 1992, n. 177 del 1988), nonché le
norme in materia di illeciti amministrativi relativi alla tutela della salute
(sentenza n. 361 del 2003). La sentenza n. 132 del 2013 ha ribadito che devono
essere considerati “principi fondamentali” la determinazione del livello di
governo competente alla individuazione e localizzazione delle sedi
farmaceutiche, la individuazione dei requisiti di partecipazione ai concorsi
per l’assegnazione delle sedi, la definizione delle fattispecie illecite e delle
relative sanzioni nel commercio dei farmaci. Questi criteri sono finalizzati ad
assicurare un’adeguata distribuzione dell’assistenza farmaceutica sull’intero
territorio nazionale, garantendo, al contempo, che sia mantenuto elevato il
livello di qualità dei servizi e che non vi siano aree prive della relativa
copertura. Inoltre, l’uniformità di queste norme, soprattutto con riferimento
alla definizione delle fattispecie illecite e delle relative sanzioni, mira
alla protezione di un bene, quale la salute della persona, “che per sua natura
non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni
differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali”
(sentenze n. 132 del 2013 e n. 361 del 2003)”.
Alla
materia di competenza concorrente tutela della salute la Corte ha ascritto inoltre
il riconoscimento del diritto di scelta
dell'assistito tra le strutture sanitarie pubbliche e private, negando la
riconducibilità della materia alla “determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni”. L'esistenza del diritto di libera
scelta si deve accompagnare, a tutela dell'utente, ad una disciplina generale,
uniforme in tutto il territorio nazionale, destinata a rendere possibile la
verifica degli standard di qualificazione delle strutture, mediante la
fissazione di requisiti minimi affinché le stesse siano autorizzate e
accreditate (sentenza n. 387 del 2007; nello stesso senso, sentenza n.
132 del 2013).
La
giurisprudenza costituzionale ha, in particolare, chiarito come «subito dopo
l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra
strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera
scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella
legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di
realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del
sistema sanitario», sicché deve concludersi che «il principio di libera scelta
non è assoluto e va contemperato con gli altri interessi costituzionalmente
protetti, in considerazione dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore
ordinario incontra in relazione alle risorse finanziarie disponibili» (sentenze
n. 248 del 2011, n. 94 del 2009, n. 200 e n. 111 del 2005).
Più
in particolare, si ritiene che le disposizioni legislative statali che
prevedono i piani di rientro sanitari nelle regioni in disavanzo, finalizzati a
verificare la qualità delle prestazioni ed a raggiungere il riequilibrio dei
conti dei servizi sanitari regionali interessati, sono principi fondamentali
della materia di coordinamento finanziario. Da
ciò consegue che un principio fondamentale in materia
concorrente, quale il coordinamento finanziario, incide sull'intero spettro
della competenza legislativa regionale in altra materia concorrente, quale la
tutela della salute (n. 163 del 2011).
L’alimentazione rientra tra le materie
di competenza legislativa concorrente, nelle quali, in base all’art. 117, terzo
comma, Cost., lo Stato detta i principi generali, la
cui attuazione è assegnata alle Regioni. Tuttavia, per il rispetto dei vincoli
comunitari in materia, divenuti nel corso del tempo sempre più stringenti, le
funzioni amministrative sono ripartite, ex
art. 118 Cost., tra lo Stato, le regioni e gli enti
locali in base ai criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
In
questo senso, la disciplina europea ha demandato alle amministrazioni nazionali
l’esercizio dei compiti di controllo e sanzionatori previsti dalla normativa,
al fine di assicurare il rispetto di obblighi quali quelli di etichettatura,
pubblicità e rintracciabilità dell’origine dei prodotti.
|
La materia alimentazione è stata oggetto di
sentenze della Corte costituzionale solo in casi sporadici e perlopiù in
connessione con altre materie, tra le quali dominante risulta il richiamo
alla materia della “tutela della salute”. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale A fronte della soppressione della competenza concorrente nella
materia alimentazione il nuovo articolo
117, secondo comma, lett. m), ascrive alla competenza esclusiva statale le disposizioni generali
e comuni per la sicurezza alimentare. |
Con
la sentenza n. 162 del 2004 - in ordine alla legittimità dell’abolizione, in
alcune regioni, delle certificazioni di idoneità sanitaria - la Corte ricorda
che la legislazione in materia di tutela della disciplina igienica degli alimenti è stata profondamente
trasformata dalla adozione di una serie di direttive della Comunità europea,
recepite dal legislatore statale, che hanno introdotto modalità diverse di
tutela dell’igiene dei prodotti alimentari, affiancando al previgente sistema,
delineato dall’art. 14 della legge 283/1962, un diverso sistema, basato su
vasti poteri di controllo e di ispezione, che si riferiscono fra l’altro anche
al comportamento igienico del personale che entra in contatto con le sostanze
alimentari. Per questo, la legislazione regionale può scegliere fra le diverse
possibili modalità date a garanzia dell’igiene degli operatori del settore.
Resta invece vincolante a parere della Corte, “l’autentico principio ispiratore
della disciplina in esame, ossia il precetto secondo il quale la tutela
igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di
alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel
settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri”. La scelta delle
Regioni di sopprimere l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, pertanto,
non determina di per sé la violazione di tale principio fondamentale, dal
momento che le mutate condizioni igieniche e sanitarie dei processi di
produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari, discendenti
dall’adozione della normativa comunitaria, hanno riformato completamente il
settore della tutela dell'igiene dei prodotti alimentari. In conseguenza di
ciò, la Corte afferma che le precedenti prescrizioni non possono più
considerarsi principi fondamentali della materia “esse, infatti, devono essere
ritenute nulla più che semplici modalità nelle quali può essere concretizzato
l’autentico principio ispiratore della normativa in esame". La Corte
ricorda in sostanza che, “qualora nelle materie di legislazione concorrente i
principi fondamentali devono essere ricavati dalle disposizioni legislative
statali esistenti, tali principi non devono corrispondere senz’altro alla
lettera di queste ultime, dovendo viceversa esserne dedotta la loro sostanziale
consistenza e ciò tanto più in presenza
di una legislazione in accentuata evoluzione”[18].
Con
la sentenza n. 467 del 2005 la Consulta ha stabilito che, posta la propria
competenza legislativa in una determinata materia, la Regione disciplina la
stessa con norme cogenti per tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano
sul territorio regionale. Poiché le Regioni hanno competenza legislativa
concorrente sia in materia di tutela della salute che di alimentazione, ai
sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., le leggi
dalle stesse validamente emanate, nel rispetto dei princípi
fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, devono avere effetto nei
confronti di tutti i soggetti istituzionali che esercitano potestà
amministrative ad esse riconducibili, con possibili riflessi anche
sull'organizzazione di queste. È stata
conseguentemente dichiarata infondata una questione di costituzionalità
relativa ad una disposizione regionale che poneva a carico di tutte le
amministrazioni pubbliche l’obbligo di fornire pasti differenziati a soggetti
aventi problemi connessi con l’alimentazione.
Nella sentenza n. 104 del 2014, la Corte costituzionale ha
esaminato una disciplina regionale relativa all'accesso all'attività
commerciale nel settore merceologico alimentare, che prevedeva, diversamente
dalla normativa statale, la frequenza di un corso professionale ad hoc ovvero una pregressa specifica
esperienza nel settore alimentare ovvero ancora il possesso di un titolo per il
cui conseguimento sia previsto lo studio di materie attinenti al commercio,
alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti. Tale disciplina è
stata ricondotta alla materia tutela
della salute, attribuita alla competenza legislativa concorrente, ponendosi
quale misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori e la relativa
questione di costituzionalità è stata dichiarata infondata.
La
riforma del Titolo V ha inserito la materia ordinamento sportivo tra
gli ambiti di legislazione concorrente di cui all’art. 117, terzo comma.
|
Nel quadro delineato
dall’art. 117 della Costituzione, la Corte costituzionale ha chiarito che nell’ambito
della materia ordinamento sportivo rientra senza dubbio la disciplina degli impianti e
delle attrezzature sportive. Lo Stato deve, perciò, limitarsi alla
determinazione dei principi fondamentali, spettando invece alle regioni la
regolamentazione di dettaglio, salvo una diversa allocazione, a livello
nazionale, delle funzioni amministrative, per assicurarne l’esercizio
unitario, in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 118, primo
comma, della Costituzione (sentenza n. 424/2004). |
In
materia, è utile rammentare che, ai sensi dell’art. 1 del D.L. 220/2003 (L. 280/2003), la Repubblica riconosce
e favorisce l’autonomia dell’ordinamento
sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo
internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale.
In particolare, i rapporti tra l'ordinamento
sportivo e l'ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di
autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della
Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento
sportivo.
L’art.
2 dello stesso D.L. dispone che, in applicazione del principio di autonomia, è
riservata all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad
oggetto:
a)
l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e
statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al
fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;
b) i
comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione
delle relative sanzioni disciplinari sportive.
Per completezza, si ricorda che, prima della modifica del Titolo V della Parte
seconda della Costituzione, sancita dalla L. cost.
3/2001, il DPR 616/1977 aveva trasferito alle regioni le funzioni amministrative relative a “turismo ed industria
alberghiera”, materia nella quale risultavano esplicitamente incluse la
promozione di attività sportive e ricreative e la realizzazione dei relativi
impianti ed attrezzature. Tuttavia, aveva
tenuto ferme le attribuzioni del CONI riferite all’organizzazione delle
attività agonistiche e le relative attività promozionali disponendo, per quanto
riguarda gli impianti e le attrezzature, che la regione si doveva avvalere
della consulenza tecnica dello stesso CONI (artt.
50 e 56)[19]. Successivamente, l’art. 157 del D.Lgs.
112/1998 aveva trasferito alle regioni le competenze in merito all’approvazione
dei programmi relativi alla realizzazione, all’ampliamento e alla ristrutturazione
degli impianti sportivi e delle loro pertinenze destinati ad ospitare
manifestazioni agonistiche riferite a campionati organizzati secondo criteri di
ufficialità.
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia ordinamento sportivo passa dalla soppressa
competenza concorrente alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi del
nuovo articolo 117, secondo comma, lett. s). |
Con
sentenza n. 424/2004 la Corte costituzionale, evidenziando che non si può
dubitare che la disciplina degli
impianti e delle attrezzature sportive rientri nella materia dell’ordinamento
sportivo, ha chiarito che “lo Stato deve limitarsi alla determinazione, in
materia, dei principi fondamentali, spettando invece alle regioni la
regolamentazione di dettaglio, salvo una diversa allocazione, a livello
nazionale, delle funzioni amministrative, per assicurarne l’esercizio unitario,
in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza
con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 118, primo comma, della
Costituzione”.
Alla
luce di ciò, la Corte ha ritenuto che le disposizioni contenute all’art. 90,
commi 24, 25 e 26 della L. 289/2002, che erano state impugnate da parte di alcune
regioni, non invadevano le competenze regionali, in quanto recanti principi fondamentali.
In
particolare, la Corte ha qualificato principi
fondamentali della materia:
- il co. 24, che assicura
la possibilità di utilizzo degli
impianti sportivi da parte di tutti i cittadini;
- il co. 25, che è
diretto a garantire che la gestione
degli impianti sportivi comunali, quando i Comuni non vi provvedano
direttamente, avvenga di preferenza mediante l’attribuzione a determinati
organismi sportivi, in via surrogatoria
rispetto ai possibili atti di autonomia degli enti locali, e quindi nel
rispetto delle scelte appunto autonomistiche degli enti stessi, ai quali è
assicurata, in via principale, la possibilità di gestire direttamente gli
impianti in questione;
- il co. 26, teso a
favorire la massima fruibilità, da parte
delle associazioni sportive dilettantistiche, degli impianti sportivi
scolastici, compatibilmente con le esigenze dell'attività della scuola.
Sempre
con la sentenza n. 424/2004, invece, la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4, co. 204, della L. 350/2003, recante un
finanziamento finalizzato alla promozione dei programmi dello sport sociale e a
favorire lo svolgimento dei compiti istituzionali degli enti di promozione
sportiva, in quanto per l’adozione dei criteri di riparto non prevedeva il
necessario coinvolgimento delle regioni.
Da
ultimo, la Corte, con sentenza n. 254/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, co. 1 e 2,
del D.L. 83/2012 (L. 134/2012), che aveva previsto l’istituzione, presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Fondo per lo sviluppo e la capillare diffusione della pratica sportiva,
finalizzato alla realizzazione di nuovi impianti o alla ristrutturazione di
quelli già esistenti, disponendo che i criteri per l’erogazione delle risorse
fossero definiti con decreto di natura non regolamentare, adottato dal Ministro
per gli affari regionali, il turismo e lo sport, di concerto con quello
dell’economia e delle finanze, sentiti il CONI e la Conferenza unificata.
In
particolare, la Corte ha rilevato che la destinazione del fondo in questione
attiene all’ambito materiale di competenza concorrente dell’ordinamento sportivo e ha ribadito che
in base all’art. 119 Cost. il legislatore statale non
può prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o
concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di
soggetti privati. “Tali misure, infatti, possono divenire strumenti indiretti,
ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle
Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di
indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni
negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza n. 168 del 2008, nonché,
in termini sostanzialmente coincidenti, ex
plurimis, sentenze n. 50 del 2008, n. 201 del
2007 e n. 118 del 2006). Ciò, in particolare, quando la finalizzazione è, come
in questo caso, specifica e puntuale”.
Nel
vigente testo costituzionale la protezione civile rientra tra le materie
di legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della
Costituzione.
|
Sulla materia protezione
civile la giurisprudenza costituzionale ha, da una parte,
evidenziato le inestricabili connessioni con la competenza esclusiva statale
della tutela dell’ambiente
(ex plurimis,
sentenza n. 214 del 2005); dall’altra parte, ha ritenuto lo Stato legittimato
a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono
i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che
giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di
natura straordinaria anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate
a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme
primarie. La Corte ha infatti ritenuto che le previsioni in materia di stati
di emergenza e potere di ordinanza (recate, in particolare, dalla legge
225/1992) sono «espressive di un principio fondamentale della materia della
protezione civile, sicché deve ritenersi che esse delimitino il potere
normativo regionale» (sentenza n. 284 del 2006). Riguardo
alle questioni attinenti all’edilizia nelle zone sismiche, materia anch’essa
riconducibile all’alveo della protezione civile (sentenze n. 101 e n. 300 del 2013),
l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo ha chiarito –
dichiarando l’illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale – che
le norme sismiche dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità
pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza,
una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» (sentenze n.
201 del 2012 e n. 254 del 2010) che trascende anche l’ambito della disciplina
del territorio per attingere a valori che fanno capo alla materia della
protezione civile, in cui allo Stato compete la determinazione dei principi
fondamentali (sentenza n. 64 del 2013). |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia protezione civile è attribuita, nel
nuovo art. 117, secondo comma, lett. t), alla competenza esclusiva statale,
in cui è peraltro individuata come sistema nazionale e coordinamento della
protezione civile. |
In tale materia, merita rilevare quanto affermato nella sentenza
n. 32 del 2006 in cui la Corte ha ribadito l'orientamento interpretativo e
ricostruttivo sull'identificazione della materia tutela dell'ambiente, che si presenta
«sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e
competenze regionali concorrenti» (sentenza n. 214 del 2005), con la
conseguenza che essa si connette in modo
quasi naturale con la competenza regionale concorrente della «protezione
civile».
Riguardo
alla disciplina degli stati di emergenza e del potere di ordinanza, con la sentenza
n. 284 del 2006, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 14,
comma 5, e 33, comma 2, della legge della Regione Calabria 17 agosto 2005, n.
13, che prevedevano, rispettivamente, la sospensione della realizzazione del
raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, nonché la sospensione della
realizzazione e dell’esercizio dell’impianto di smaltimento e stoccaggio di
rifiuti solidi urbani sito in Reggio Calabria, frazione di Sambatello, località
«Cartiera», in attesa dell’approvazione del nuovo «piano regionale dei
rifiuti». La Corte ha ricordato quanto già rilevato in precedenti pronunce,
ossia che le previsioni contemplate nell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992
(che disciplina gli stati di emergenza e il potere di ordinanza) e 107 del D.Lgs. n. 112 del 1998 (che elenca le funzioni in materia
di protezione civile di competenza statale) sono «espressive di un principio fondamentale della materia della
protezione civile, sicché deve
ritenersi che esse delimitino il
potere normativo regionale, anche sotto il nuovo regime di competenze
legislative» delineato dopo il 2001. Nella pronuncia, si sottolinea che lo Stato è, dunque, legittimato a regolamentare – in
considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi
fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano
l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria anche mediante l’adozione di
specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati
presupposti, alle stesse norme primarie.
Sulla scorta di quanto sottolineato nella citata pronuncia n. 32 del 2006 (v.
anche sentenze n. 214 e n. 135 del 2005; n. 407 del 2002), lo Stato rinviene,
altresì, un ulteriore titolo a legiferare in ragione della propria competenza
legislativa in materia di “tutela dell’ambiente”, nel cui ambito si colloca il
settore relativo alla gestione dei rifiuti, competenza che si connette, tra
l’altro, «in modo quasi naturale con la competenza regionale concorrente della protezione civile».
La
Corte, inoltre, si è pronunciata più volte sulla materia della “protezione
civile” affrontando specifiche questioni riguardanti, tra l’altro, l’edilizia
nelle zone sismiche. In tale ambito, la Corte ha sottolineato - con riferimento
alla illegittimità di deroghe regionali alla normativa statale per l’edilizia
in zone sismiche – che le norme sismiche
dettano «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando
a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa
unica, valida per tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 201 del 2012 e n.
254 del 2010).
In
materia edilizia in zona sismica, nella sentenza n. 64 del 2013, con cui è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1 e 2,
della legge della Regione Veneto 24 febbraio 2012, n. 9, che escludeva, per
interventi edilizi in zone sismiche la necessità del rilascio delle
autorizzazioni dell'ufficio tecnico regionale per «progetti» e «opere di
modesta complessità strutturale», privi di rilevanza per la pubblica
incolumità, la Corte ha specificato che la disposizione contrasta con
l’articolo 94 del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia), il quale prevede che
nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità, non si
possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione. In proposito, la Corte ha ricordato che nella pronuncia
n. 182 del 2006 si è affermato che il principio della previa autorizzazione scritta
di cui all’art. 94 del D.P.R. n. 380 del 2001 trae «il proprio fondamento dall’intento unificatore del legislatore statale,
il quale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle
costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto,
che trascende anche l’ambito della
disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità
pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui
ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».
L’inquadramento
degli interventi edilizi nelle zone sismiche nell’ambito della materia della
protezione civile è stato, altresì, ribadito con le sentenze n. 101 e n. 300
del 2013. Con quest’ultima pronuncia la Corte ha sottolineato che “il vizio di
illegittimità costituzionale si palesa alla luce della risolutiva
considerazione che la disposizione impugnata (art. 171 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 26 del 2012, volto ad esentare da taluni adempimenti
disciplinati dal T.U. edilizia gli “interventi di limitata importanza statica”)
si pone in contrasto con il principio fondamentale che orienta tutta la
legislazione statale, che esige una vigilanza assidua sulle costruzioni
riguardo al rischio sismico”.
La
Corte si è infine pronunciata sull’intreccio delle competenze in materie di
competenza concorrente e sul coinvolgimento delle Regioni con la sentenza n.
62/2013: in essa, infatti, la Corte ha reputato, tra l’altro, non fondata la
questione di legittimità riguardante il comma 7 dell’articolo 53 del decreto
legge n. 5 del 2012, che demanda a un decreto interministeriale, da emanare
sentita la Conferenza unificata, l’adozione delle norme tecniche-quadro
contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia,
al fine di adeguare la normativa tecnica vigente agli standard europei e alle
più moderne concezioni di realizzazione e impiego degli edifici scolastici. In
tale pronuncia, la Corte - dopo aver riconosciuto che nelle norma impugnate «si
intersecano più materie, quali il governo
del territorio, l’energia e la protezione civile, tutte rientranti
nella competenza concorrente Stato-Regioni» – ha ribadito che, «nelle materie di competenza concorrente,
allorché vengono attribuite funzioni amministrative a livello centrale allo
scopo di individuare norme di natura tecnica che esigono scelte omogenee su
tutto il territorio nazionale improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi
all’espressione di un parere obbligatorio (sentenze n. 265 del 2011, n. 254
del 2010, n. 182 del 2006, nn. 336 e 285 del 2005).
In tali casi la disciplina statale costituisce principio generale della materia
(sentenze n. 254 del 2010 e n. 182 del 2006)».
Sotto
altro profilo, si ricorda che la Corte, con la sentenza n. 22 del 2012 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre
2010, n. 225, nella parte in cui introduceva i commi 5-quater e 5-quinquies,
primo periodo, nell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, che
delineavano un sistema di finanziamento
degli stati di emergenza attribuendo, tra l'altro, alla regione interessata
da calamità naturali per le quali fosse deliberato lo stato di emergenza,
qualora il bilancio della regione fosse insufficiente a coprire le relative
spese, il potere di deliberare aumenti, sino al limite massimo consentito dalla
vigente legislazione, delle imposizioni tributarie attribuite alla regione,
nonché di elevare la misura dell’imposta regionale sulla benzina per
autotrazione. La citata sentenza, oltre a costituire una pronuncia rilevante in
tema di decretazione d’urgenza, ha censurato le predette disposizioni in quanto lesive dell’autonomia di entrata delle regioni
e, pertanto, contrastanti con l’articolo 119 della Costituzione.
Nell’assetto costituzionale vigente, la materia
governo del territorio è attribuita alla competenza concorrente tra Stato e regioni, di cui all’articolo
117, terzo comma.
|
Il governo
del territorio rappresenta una
delle più significative materie di legislazione concorrente, su cui la Corte
è ripetutamente intervenuta. Chiarito che il nucleo duro della
disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili
tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia (cfr. ex plurimis, sentenze
n. 102 e n. 6 del 2013, n. 309 e n. 192 del 2011; n. 340 del 2009; nonché
sentenze n. 303 e n. 362 del 2003), lo sforzo della giurisprudenza è stato
quello di delimitare all’interno e all’esterno un materia molto ampia (cfr.
sentenze n. 307 del 2003 e n. 196 del 2004), anche alla luce del fatto che
alcune materie limitrofe, come porti e aeroporti civili, grandi reti di
trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia sono espressamente
previsti quali autonomi titoli di legittimazione legislativa. Per quanto concerne il contenuto
interno, la Corte ha avuto modo di desumere dalla normativa primaria, alla
luce del dettato costituzionale, alcuni principi fondamentali interni alla
materia (cfr. sentenze n. 309/2011, n. 341 del 2010, n. 340 del 2009, n. 196
del 2004). Al tempo stesso, dalla giurisprudenza
costituzionale è emerso chiaramente come il “governo del territorio” incontri
anche numerosi limiti provenienti “dall’esterno”, ossia da altre materie con
cui inevitabilmente finisce per intrecciarsi. Ciò, in quanto, l’ambito
materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano
una rilevanza in termini di impatto territoriale va ricercato, non secondo il
criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in
questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento
funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi
allo svolgimento di quelle attività (cfr. sentenza n. 383 del 2005). Di qui
una certa difficoltà a tracciare una delimitazione precisa della materia, che
spesso si intreccia ad altri ambiti materiali riconducibili a competenze
legislative diverse, quali, in particolare, la tutela
dell’ambiente, l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni, la tutela della salute, l’energia, la protezione civile. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Nel nuovo testo dell’art. 117 – che, come più volte
ricordato, elimina la competenza concorrente – sono ascritte alla competenza
esclusiva dello Stato le disposizioni generali e comuni sul governo del territorio (art. 117, secondo
comma, lett. u)). Alla competenza delle regioni è invece
ricondotta la materia pianificazione del territorio regionale. |
La
Corte costituzionale è intervenuta con importanti sentenze per risolvere i
problemi interpretativi che si sono posti fin dall’inizio in ordine alla
delimitazione della materia governo del territorio.
Il
nucleo duro della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai
profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica
e all’edilizia (cfr. sentenze n. 303
e n. 362 del 2003). Al tempo stesso, all’indomani della riforma, la Corte ha
messo in evidenza come la materia vada ben oltre questi aspetti, affermando che
il governo del territorio “comprende, in linea di principio, tutto ciò che
attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti e attività”
(cfr. sentenza n. 307 del 2003). L’ampiezza della materia del governo del
territorio è stata poi riconosciuta anche nella sentenza n. 196 del 2004,
laddove la Corte l’ha ricondotta all’“insieme delle norme che consentono di
identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati
gli usi ammissibili del territorio”.
Più
in dettaglio, nel merito della giurisprudenza costituzionale, la Corte ha
cercato di desumere dalla normativa primaria, alla luce del dettato
costituzionale, i principi fondamentali
interni al governo del territorio,
risolvendo caso per caso il problema della qualificazione normativa delle
singole disposizioni come norme di principio.
Secondo
la giurisprudenza, sono da considerarsi principi fondamentali le disposizioni
che definiscono le categorie di interventi edilizi perché è in conformità a
queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo
al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali (sentenza n. 309/2011)[20].
Sono
qualificabili come principi anche: l’onerosità del titolo abilitativo (sentenza
n. 303 del 2003) la tempestività delle procedure e la riduzione dei termini per
l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di comunicazione
elettronica (cfr. sentenze n. 129 e n. 265 del 2006); la qualificazione delle
infrastrutture di reti di comunicazioni elettroniche come opere di
urbanizzazione primaria (sentenza n. 336 del 2005); il principio della distanza
minima tra fabbricati fissata con legge statale, fatta salva la derogabilità in
presenza di determinate condizioni riferibili all’assetto del territorio
(sentenza n. 232 del 2005).
Oltre
a ritagliare la materia dall’interno per verificare il corretto riparto di
potestà legislativa tra Stato e Regione, la Corte ha evidenziato come la
materia «governo del territorio» venga in considerazione in numerosi casi,
anche incidentalmente, in quanto finisce con il connettersi con altre materie
di potestà legislativa esclusiva dello Stato o con altre materie di potestà
concorrente.
Pertanto,
la Corte ha respinto la pretesa, spesso avanzata dalle regioni, di utilizzare
come autonomo parametro la competenza in tema di «governo del territorio», in
relazione a tutte le attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza
in termini di impatto territoriale. Infatti, in tali casi, il parametro deve
essere identificato, non secondo il criterio dell’elemento materiale
consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì
attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della
individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle
attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al «governo del territorio»
e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo
armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi
differenziati (sentenza n. 383 del 2005). Tali intrecci di competenze sono stati di volta in volta sciolti dalla
Corte costituzionale, modellando ulteriormente i profili della materia in
esame.
In
alcuni casi, la Corte ha valutato l’intreccio tra competenza esclusiva dello
Stato in materia di ordinamento civile e competenza
concorrente in materia di governo del territorio, con riferimento alla
possibilità di derogare alle distanze tra edifici, alle altezze degli edifici
ed alle distanze dai confini previsti nel piano urbanistico comunale o nel
piano di attuazione, nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile
(sentenza n. 114 del 2012).
In
più pronunce, la Corte ha affermato che nella disciplina del condono edilizio
convergono la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale e la competenza
concorrente in tema di governo del territorio (sentenze n. 49 del 2006 e n. 70
del 2005). Ciò comporta che «alcuni limitati contenuti di principio di questa
legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori
regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio, certamente la previsione del titolo abilitativo
edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell’art. 32, il limite temporale
massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle
volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece
necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante […] di
articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore
statale in tema di condono sul versante amministrativo» (sentenza n. 196 del
2004).
Un
concorso di competenze tra governo del territorio e determinazione dei
livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali viene ravvisato nella
disciplina in tema di segnalazione certificata di inizio attività in materia
edilizia, che, secondo la Corte, rientra nel «governo del territorio».
Tuttavia, a prescindere dal rilievo che in tale materia spetta comunque allo
Stato dettare i principî fondamentali, è vero del pari che nel caso di specie
il titolo di legittimazione dell’intervento statale nella specifica disciplina
della SCIA si ravvisa nell’esigenza di determinare livelli essenziali di
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale, compreso quello delle Regioni a statuto
speciale. In altri termini, si è in presenza di un concorso di competenze che
vede prevalere la competenza esclusiva dello Stato, essendo essa l’unica in
grado di consentire la realizzazione dell’esigenza suddetta (sentenza n. 203
del 2012).
Analogo
intreccio di competenze viene ravvisato nella materia dell’edilizia
residenziale pubblica, rispetto alla quale la Corte chiarisce che gli spazi
normativi coperti dalla potestà legislativa dello Stato sono da una parte la
determinazione di quei livelli minimali di fabbisogno abitativo che siano
strettamente inerenti al nucleo irrinunciabile della dignità della persona
umana (ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m)) e dall’altra parte la
fissazione di principi generali, entro i quali le Regioni possono esercitare
validamente la loro competenza a programmare e realizzare in concreto
insediamenti di edilizia residenziale pubblica o mediante la costruzione di
nuovi alloggi o mediante il recupero e il risanamento di immobili esistenti.
L’una e l’altra competenza (la prima ricadente nella potestà legislativa
esclusiva dello Stato, la seconda in quella concorrente del governo del
territorio) si integrano e si completano a vicenda, giacché la determinazione
dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti
deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli
interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del
diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate (sentenze n. 166
del 2008, n. 94 del 2007 e n. 451 del 2006).
Un
ulteriore limite esterno al governo del territorio deriva dalla materia della sicurezza di competenza
esclusiva statale ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett.
h). Ciò in quanto, se nel governo del
territorio rientrano gli usi ammissibili del territorio e la localizzazione di
impianti o attività, ne restano esclusi i profili legati alla sicurezza degli
edifici. Per la Corte, la disciplina degli impianti relativi agli edifici,
quale che ne sia la destinazione d’uso, involge l’individuazione dei requisiti
essenziali di sicurezza sia in fase di installazione, sia nelle successive fasi
di manutenzione e gestione, in modo che sia assicurato l’obiettivo primario di
tutelare gli utilizzatori degli impianti medesimi, garantendo la loro
incolumità, nonché l’integrità delle cose. In quest’ambito è coinvolta, non
solo la determinazione dei principi fondamentali, ma anche la regolamentazione
tecnica di dettaglio (sentenza n. 21 del 2010).
Numerosi
risultano anche gli esempi di intreccio con la materia relativa alla tutela dell’ambiente, che attraversa, con
la sua vocazione finalistica, una pluralità di competenze regionali, tra cui il
governo del territorio assume un particolare rilievo. Ciò in quanto il
territorio, quale componente dell’ambiente, è oggetto di disciplina di entrambe
le attribuzioni di potestà legislativa.
Così,
in materia di attività a rischio di incidente rilevante, la Corte ha
riconosciuto la competenza della tutela ambientale, a cui si collega
l’interesse del governo del territorio, inteso come disciplina degli
adempimenti necessari per l’edificazione e la localizzazione degli stabilimenti
in cui si svolgono le attività ad alto rischio (sentenze n. 407 del 2002 e n.
248 del 2009).
In
materia di gestione dei rifiuti radioattivi, alla competenza esclusiva statale
in materia di tutela dell’ambiente, si affianca, su di un piano di concorrenza,
la competenza in materie di governo del territorio, per quanto concerne la
localizzazione degli impianti. Si tratta, infatti, di localizzare e costruire
strutture sul territorio regionale, sicché si rende costituzionalmente
necessario un coinvolgimento sia del sistema regionale complessivamente inteso,
quanto alla individuazione del sito, sia della Regione interessata, quanto alla
«specifica localizzazione e alla realizzazione» delle opere (sentenza n. 33 del
2011).
In
altre sentenze, la Corte ha posto in evidenza come talune discipline si pongano
al crocevia tra governo del territorio
e diversi titoli competenziali, tutti di tipo
concorrente.
Le
competenze più frequentemente evocate, nel loro operare congiunto, sono la tutela della salute ed il «governo del
territorio» (sentenza n. 336 del 2005). Rientrano in tali ipotesi, in
particolare gli investimenti nel campo dell’edilizia sanitaria (sentenze n. 99 del 2009, n. 45 del 2008, n. 105
del 2007)[21].
È
stata inoltre messa in evidenza la sussistenza di una connessione della materia
in esame con quella relativa alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia,
soprattutto sotto il profilo della localizzazione degli impianti energetici. In
questo filone di pronunce, il conflitto di competenze è stato risolto di volta
in volta mediante il criterio di prevalenza dell’interesse pubblico sotteso
alla disciplina di specie. In tale contesto, la Corte ha ricondotto alla materia
“energia” le norme che disciplinano la costruzione e l’esercizio di impianti
per la produzione di energia elettrica nucleare e quelle che individuano le
tipologie degli impianti di produzione (sentenza n. 278 del 2010), ovvero in
relazione alla disciplina dei procedimenti autorizzatori
in materia d i energia eolica (sentenza n. 119 del 2010).
Il
governo del territorio può interferire altresì con la materia agricoltura, ad esempio in
relazione all’attività agrituristica. Così, rientrano nella materia «governo
del territorio» i limiti alla utilizzabilità per fini agrituristici dei
fabbricati rurali posti dalla legge per regolare in modo razionale
l’inserimento nei territori agricoli di attività connesse, esercitate dal
medesimo imprenditore agricolo, destinate alla ricezione ed all’ospitalità
(sentenza n. 96 del 2012).
Nell’assetto costituzionale vigente, le materie
porti e aeroporti civili e grandi reti di trasporto e di navigazione sono attribuite alla
competenza concorrente tra Stato e regioni, di cui all’articolo
117, terzo comma. Non è invece
esplicitata la competenza in ordine alla materia infrastrutture.
|
Per le grandi
reti di trasporto e di navigazione e i porti e aeroporti civili la giurisprudenza della Corte costituzionale ha applicato
il principio della “chiamata in sussidiarietà”, ammettendo l'intervento
statale in materie pure attribuite alla competenza legislativa concorrente
delle regioni, a condizione che siano individuate adeguate procedure
concertative e di coordinamento orizzontale tra lo Stato e le regioni (le
intese; ex plurimis la sentenza n. 79/2011). La Corte ha
applicato il principio della “chiamata in sussidiarietà” anche per le infrastrutture
strategiche legittimando pertanto l’intervento statale al fine di
soddisfare esigenze unitarie (sentenza n. 303 del 2003) e sottolineando la
necessità di ricorrere ad adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni
nel rispetto del principio di leale collaborazione (sentenza n. 179 del
2012). In proposito, la predeterminazione di un termine irragionevolmente
breve per il raggiungimento dell’intesa, non accompagnato da adeguate
procedure per garantire il prosieguo delle trattative tra i soggetti
coinvolti nella realizzazione dell’opera, è stato reputato un insuperabile
motivo di illegittimità costituzionale (sentenza n. 274 del 2013). La
materia connessa del trasporto pubblico locale è invece riconosciuta dalla Corte costituzionale come di
competenza residuale delle regioni (sentenza n. 222/2005). In proposito, la
sentenza n. 273/2013 ha però riconosciuto la legittimità dell’intervento
statale per il finanziamento del settore, in considerazione della perdurante inattuazione dell’articolo 119 della Costituzione, a
causa della mancata individuazione dei costi standard; in questo quadro
l’intervento statale è giustificato dall’esigenza “di assicurare un livello
uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa”. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Nel nuovo testo dell’art. 117 – che, come più volte
ricordato, elimina la competenza concorrente – sono ascritte alla competenza
esclusiva dello Stato le materie infrastrutture strategiche e grandi reti di
trasporto e di navigazione di interesse
nazionale e relative norme di
sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale ed internazionale (art. 117, secondo
comma, lett.
z)). Alla competenza delle regioni sono invece
ricondotte le materie mobilità all’interno del territorio regionale e
dotazione
infrastrutturale. |
Per
quanto riguarda le infrastrutture strategiche, primaria importanza riveste la
già citata sentenza n. 303 del 2003, che ha respinto una serie di ricorsi
presentati dalle regioni concernenti sia la legge delega (legge n. 443 del
2001, cd. “legge obiettivo”), sia il decreto legislativo n. 190 del 2002. La
sentenza, oltre ad affermare i principi richiamati all’inizio della scheda
relativi alla “chiamata in sussidiarietà” e al principio di leale
collaborazione, rileva che “la
disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una
temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole,
finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni
amministrative che lo Stato ha attratto per
soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio
della ineffettività”. Relativamente alle censure che le regioni sollevano
avverso il comma 1 dell'art. 1 della legge n. 443 del 2001, la Corte, pertanto,
afferma: “non di lesione di competenza delle regioni si tratta, ma di
applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”. Di particolare
interesse è, inoltre, il giudizio che attiene alla collocazione della “materia”
dei lavori pubblici: “la mancata
inclusione dei “lavori pubblici” nella elencazione dell’art. 117 Cost., a seguito dell’assetto di competenze delineato
dopo il 2001, diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di
potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano
una vera e propria materia, ma si
qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono
essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato
ovvero a potestà legislative concorrenti”.
Sulla
materia dei lavori pubblici un’altra sentenza fondamentale è la sentenza
401/2007 con la quale la Corte
costituzionale ha dichiarato inammissibili o infondate, per la maggior parte,
le censure prospettate dalle Regioni, facendo sostanzialmente salvo il riparto
di competenze legislative fra Stato Regioni e Province autonome così come
delineato dal decreto legislativo n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici di
lavori, forniture e servizi) nel quale, tra l’altro, è confluita la disciplina
delle infrastrutture strategiche. In tale pronuncia la Corte ha ritenuto che l’attività contrattuale della pubblica
amministrazione, essendo funzionalizzata al perseguimento dell'interesse
pubblico, si caratterizza per la esistenza di una struttura bifasica: al
momento tipicamente procedimentale di evidenza pubblica, ascrivibile alla materia
tutela della concorrenza segue un momento negoziale riconducibile alla materia ordinamento civile. La Corte ha, inoltre,
affermato due principi di carattere generale suscettibili di essere estesi
all’intera attività contrattuale della pubblica amministrazione. Il primo
attiene all’esclusione della configurabilità di una materia relativa ai lavori
pubblici nazionali, già affermata nella sentenza n. 303 del 2003, e l’altro
riguarda l’irrilevanza del profilo soggettivo (ovvero della natura statale o
regionale del soggetto che indice la gara o al quale è riferibile un
determinato bene o servizio) al fine di definire le competenze statali o
regionali, dovendosi piuttosto “fare riferimento, invece, al contenuto delle
norme censurate al fine di inquadrarlo negli ambiti materiali indicati
dall'art. 117 Cost.”.
Con
la sentenza n. 16 del 2010 è stato precisato che la nozione di infrastrutture non si presta ad essere ricondotta in
quella di ‘materie’, prevista dall’art. 117 Cost.
Per infrastrutture, invece, devono intendersi le opere finalizzate alla
realizzazione di complessi costruttivi destinati ad uso pubblico, nei campi più
diversi, che incidono senza dubbio su materie di competenza legislativa
concorrente (governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di
trasporto e di navigazione, produzione trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia, coordinamento della finanza pubblica ai fini del reperimento e
dell’impiego delle risorse), ma coinvolgono anche materie di competenza
esclusiva dello Stato, come l’ambiente, la sicurezza e la perequazione delle
risorse finanziarie. In tale sentenza la Corte, nel giudicare circa le modalità di ripartizione del cd. Fondo
infrastrutture (di cui all’articolo 6-quinquies
del D.L. 112/2008) e dichiarando infondata la questione di illegittimità posta
da alcune regioni relativamente alla previsione del semplice parere della
Conferenza unificata in luogo dell’intesa. In tal caso la Corte sottolinea che
“l’esigenza di esercizio unitario,
idonea a giustificare l’affidamento al CIPE della ripartizione del Fondo […],
discende dalla normativa comunitaria che, con l’obiettivo di ridurre le
disparità economiche, sociali e territoriali emerse in particolare nei Paesi e
nelle Regioni in ritardo di sviluppo, e quindi di accelerare la convergenza
degli Stati membri e di dette Regioni migliorando le condizioni per la crescita
e l’occupazione (Regolamento CE n. 1083 del 2006, primo considerando, nonché
art. 3, commi 1 e 2, lett. a), impone l’intervento
statale per una valutazione del contesto generale delle diverse realtà”. La
Corte fa presente che ai sensi dell’art. 6-sexies, comma 5, del citato D.L. n.
112 del 2008, lo strumento di attuazione
di quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 6-quinquies
è costituito dalle intese istituzionali
di programma: si tratta, dunque, di un incisivo strumento di partecipazione
che, correlato al parere della
Conferenza unificata, attribuisce spazio e ruolo adeguati all’intervento
regionale.
Con
la già citata sentenza n. 79 del 2011 la Corte ha affermato che lo Stato può legittimamente revocare i
finanziamenti per la realizzazione di infrastrutture strategiche d’interesse
nazionale, senza previa consultazione della Regione interessata. Si
trattava, in proposito, del finanziamento statale concesso e deliberato dal
CIPE per la metropolitana di Parma. Con riferimento alle procedure di
localizzazione di infrastrutture strategiche d’interesse nazionale, “si deve
rilevare come la necessità di osservare
le procedure collaborative, che sfociano nell’intesa tra Stato e Regione,
riguardi soltanto la fase di decisione e di localizzazione dell’opera, la
quale astrattamente rientrerebbe nella competenza residuale delle Regioni, ma
che, in seguito all’attrazione in sussidiarietà determinata dal suo inserimento
tra le infrastrutture strategiche, si sposta nell’ambito della competenza
statale”. L’intesa nella fase di progettazione e di localizzazione è
indispensabile per dare validità ad uno spostamento di competenza legislativa
ed amministrativa; la stessa intesa, uguale e contraria, non è invece
necessaria se lo Stato decide di revocare il proprio finanziamento, senza
tuttavia impedire alla Regione di esercitare la sua competenza, legislativa e
amministrativa, sul medesimo oggetto. La decisione statale di escludere unilateralmente
l’opera dal novero di quelle ritenute strategiche sul piano nazionale – e di
revocare, di conseguenza, il relativo finanziamento – non incide sulle
competenze legislative e amministrative della Regione, che ha piena facoltà di
realizzarla con fondi propri. Con la revoca del finanziamento statale – a
seguito di valutazione di politica economica non censurabile in sede di
sindacato di legittimità costituzionale – vengono meno le ragioni che avevano
giustificato l’attrazione in sussidiarietà.
Da
ultimo, appare opportuno segnalare la recente sentenza n. 179 del 2012 nella
quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 49, comma 3, lettera b), del D.L. n. 78 del 2010, nella parte in cui
prevede che, in caso di dissenso espresso in sede di conferenza di servizi da
una Regione o da una Provincia autonoma, in una delle materie di propria
competenza, ove non sia stata raggiunta, entro il breve termine di trenta
giorni, l’intesa, «il Consiglio dei ministri delibera in esercizio del proprio
potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle
Province autonome interessate», senza che siano previste ulteriori procedure
per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze. La Corte ha
ricostruito la giurisprudenza per richiamare, da un lato, l’esistenza di
un’esigenza unitaria che legittima l’intervento del legislatore statale anche
in ordine alla disciplina di procedimenti complessi estranei alle sfere di
competenza esclusiva statale affidati alla conferenza di servizi, e per
escludere, dall’altro, che l’intera disciplina della conferenza di servizi, e
dunque anche la disciplina del superamento del dissenso all’interno di essa,
sia riconducibile ad una materia di competenza statale esclusiva, tenuto conto
della varietà dei settori coinvolti, molti dei quali sono innegabilmente
relativi anche a competenze regionali (es.: governo del territorio, tutela
della salute, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali). L’esigenza di esercizio unitario deve
comunque “obbedire alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza
costituzionale, fra le quali questa Corte ha sempre annoverato la presenza di
adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni”.
Con
la sentenza n. 122 del 2013 è stato giudicato il ricorso per conflitto di
attribuzioni sollevato dalla Provincia di Trento nei confronti del Governo in
relazione alla nota del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 27
giugno 2012 di inserimento dell’autostrada Valdastico Nord nella nuova rete transeuropea dei trasporti. La pronuncia, nel respingere il
ricorso provinciale siccome fondato su un «erroneo presupposto interpretativo»,
ha sostenuto la spettanza allo Stato del
potere di «proporre l’inserimento del tratto autostradale Valdastico Nord nella
rete transeuropea dei trasporti, in quanto tale
inserimento non pregiudica la necessaria acquisizione dell’intesa con la
Provincia autonoma».
La sentenza
n. 274 del 2013 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale - per violazione
del principio di leale collaborazione, come interpretato dalla giurisprudenza
costituzionale - dell’art. 16, comma 10-bis,
del D.L. n. 83 del 2012, il quale, al fine di garantire l’approvazione in tempi
certi del progetto definitivo del prolungamento a nord dell’autostrada A31, già
compresa nelle Reti transeuropee dei trasporti
(TEN-T), prevedeva che l’intesa generale quadro prevista dall’art. 161, comma
1, D.Lgs. n. 163 del 2006, dovesse essere raggiunta
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del decreto censurato. La Corte ha ricordato che “l’autostrada in
questione non può essere realizzata senza previa intesa, sia in quanto l’opera
è inserita nel Programma Infrastrutture Strategiche (per il quale l’intesa
stessa è prescritta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001), sia,
più in generale, per il rispetto dovuto allo Statuto speciale della Regione
Trentino-Alto Adige/Südtirol ed alle sue norme di attuazione”. A giudizio della
Corte, comunque, a prescindere da ogni considerazione, «costituisce un insuperabile motivo di illegittimità costituzionale la
predeterminazione di un termine irragionevolmente breve, non accompagnato da
adeguate procedure per garantire il prosieguo delle trattative tra i soggetti
coinvolti nella realizzazione dell’opera, in caso di mancato raggiungimento
di un accordo nel breve periodo di tempo concesso dal legislatore». Infatti, in
coerenza col proprio consolidato orientamento, il suddetto termine è «così
esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una
qualsivoglia trattativa” (sentenza n. 179 del 2012), cosicché la sua rapida
decorrenza contrasta irrimediabilmente con la logica collaborativa che informa
la previsione stessa dell’intesa».
Con
riferimento a tale materia devono ritenersi applicabili in via generale i
principi della giurisprudenza costituzionale in merito alla ‘chiamata in sussidiarietà’
sviluppatisi in particolare nell’ambito della materia “governo del territorio”.
In proposito, si ricorda che la Corte, in merito al principio di sussidiarietà
ritenuto titolo giustificativo dell’intervento statale in materie formalmente
attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni,
ha precisato in diverse occasioni che l’attrazione in sussidiarietà comporta la
necessità che lo Stato coinvolga le Regioni stesse «poiché l’esigenza di
esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione
amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di
legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto
le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese,
che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del
2003).
In
questo quadro, con riferimento ad aspetti specifici, si possono segnalare le
seguenti prese di posizione della Corte costituzionale:
· in materia di legislazione portuale, la sentenza n.
79/2011 ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla
regione Emilia Romagna in ordine all’istituzione, con l’articolo 4, comma 6,
del decreto-legge n. 40/2010 di un fondo per le infrastrutture portuali in
quanto per la ripartizione del fondo veniva previsto il parere del CIPE, ma non
l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o l’intesa con le singole Regioni
interessate. Al riguardo, la Corte ha ricordato che il Fondo concerneva
interventi che rientrano nella materia «porti e aeroporti civili», rimessa alla
competenza legislativa concorrente dal terzo comma dell’art. 117 Cost. Tuttavia, poiché si tratta di porti a rilevanza
nazionale, si deve ritenere che la competenza legislativa in materia sia
attratta in sussidiarietà allo Stato. In proposito la sentenza ricorda che la
Corte ha ritenuto ammissibile la previsione di un fondo a destinazione
vincolata anche in materie di competenza regionale, residuale o concorrente,
precisando che «il titolo di competenza statale che permette l’istituzione di
un Fondo con vincolo di destinazione non deve necessariamente identificarsi con
una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117 Cost. (cioè di competenza esclusiva dello Stato), ma può
consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di
“chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 118, primo
comma, Cost. (sentenza n. 16 del 2010 , in conformità
a sentenza n. 168 del 2008). Tuttavia dalla giurisprudenza costituzionale sopra
richiamata discende l’illegittimità di
disposizioni che non prevedano alcuna forma di leale collaborazione tra Stato e
Regione, che deve invece esistere per effetto della deroga alla competenza
regionale. Fermo restando pertanto il potere dello Stato di istituire un Fondo
per le infrastrutture portuali di rilevanza nazionale, si deve aggiungere che
la ripartizione di tale fondo è subordinata al raggiungimento di un’intesa con
la Conferenza Stato-Regioni, per i piani generali di riparto delle risorse allo
scopo destinate, e con le singole Regioni interessate, per gli interventi
specifici riguardanti singoli porti;
· sempre in materia di legislazione portuale, la sentenza n.
378/2005 ha dichiarato incostituzionale la disposizione del comma 1-bis dell’articolo 8 della legge n.
84/1994, introdotto dall’articolo 6 del decreto-legge n. 136/2004, la quale
prevedeva che qualora entro trenta giorni non si fosse raggiunta l'intesa con la
regione interessata, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti indicasse
il presidente dell'autorità nell'ambito di una terna formulata dal presidente
della giunta regionale, tenendo conto anche delle indicazioni degli enti locali
e delle camere di commercio interessati. Ove il presidente della giunta
regionale non avesse provveduto alla indicazione della terna entro trenta
giorni dalla richiesta allo scopo indirizzatagli dal Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, questi
avrebbe richiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre la
questione al Consiglio dei ministri, che avrebbe provveduto con deliberazione
motivata. In proposito, la Corte costituzionale ha evidenziato che “il meccanismo escogitato per superare la
situazione di paralisi determinata dal mancato raggiungimento dell'intesa è
tale da svilire il potere di codeterminazione riconosciuto alla Regione,
dal momento che la mera previsione della possibilità per il Ministro di far
prevalere il suo punto di vista, ottenendone l'avallo dal Consiglio dei
ministri, è tale da rendere quanto mai debole, fin dall'inizio del
procedimento, la posizione della Regione che non condivida l'opinione del
Ministro e da incidere sulla effettività del potere di codeterminazione che, ma
(a questo punto) solo apparentemente, l'art. 8, comma 1, continua a riconoscere
alla Regione”;
· in materia di trasporto marittimo, la sentenza n. 230/2013, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 19, del decreto-legge n.
95/2012 nella parte in cui non prevedeva
l’intesa, bensì la semplice
consultazione, per le modifiche e integrazioni delle convenzioni per la
gestione del servizi pubblico di trasporto marittimo con la Sardegna;
infatti, se da un lato la materia appare riconducibile alla tutela della
concorrenza, di esclusiva competenza statale (art. 117, secondo comma, lettera e) Cost.), dall’altro
lato, l’adozione di intese appare necessaria per garantire il rispetto
dell’articolo 53 dello statuto speciale della Regione Sardegna, il quale
prevede che la Regione sia “rappresentata nella elaborazione delle tariffe
ferroviarie e della regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e
trasporti terrestri, marittimi ed aerei che possano direttamente interessarla”.
Nel settore aeroportuale, infine, la sentenza
n. 299/2013 ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 1 e 2 della legge
della Regione Abruzzo n. 69/2012 che disponeva un sostegno economico all’aeroporto di Pescara senza prevedere la
previa notifica della misura alla Commissione europea ai sensi degli
articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in
materia di divieto degli aiuti di Stato.
In questo modo si configurava infatti una violazione dell’articolo 117, primo
comma, della Costituzione , il quale stabilisce che le Regioni, al pari dello
Stato, debbano esercitare la propria potestà legislativa anche nel rispetto dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
Con
riferimento alla disciplina delle aviosuperfici
e dei campi di volo, la sentenza n. 162/2013 ha stabilito l’incostituzionalità della disposizione della legge
della Regione Lazio n. 9/2012 che prevede ipotesi di responsabilità in materia
di sicurezza della pubblica incolumità, di uso del territorio e di tutela
dell’ambiente per i piloti dei velivoli e ulteriori ipotesi a carico del
gestore delle aviosuperfici, per quanto riguarda le strutture facenti parte
della stessa nella fase di decollo e di atterraggio dell’aeromobile. Questi
aspetti sono stati infatti ritenuti riconducibili alla materia di esclusiva
competenza statale “ordinamento civile e penale” (art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost.)
e non alla materia di legislazione concorrente porti e aeroporti civili (art.
117, terzo comma, Cost.).
In
materia di trasporti, merita poi ricordare che la materia del trasporto pubblico locale è invece
assegnata alla competenza legislativa residuale delle regioni, come affermato
dalla Corte costituzionale in particolare con la sentenza n. 222/2005. In
proposito, la Corte è successivamente intervenuta con le seguenti pronunce:
·
la
sentenza n. 273/2013 del 6 novembre 2013, si è espressa sulla costituzionalità
del Fondo per il finanziamento del trasporto
pubblico locale, anche ferroviario, nelle regioni a statuto ordinario,
alimentato da un'aliquota di compartecipazione su gasolio e benzina di
autotrazione, fondo istituito dalla legge di stabilità 2013 (legge n.
228/2012). Rispetto a numerosi aspetti della disposizione la regione Veneto
aveva infatti sollevato una questione di legittimità costituzionale per la
presunta violazione degli articoli 117 e 119 della Costituzione e, in
particolare, del divieto, conseguente al riparto di competenze tra Stato e
regioni, di istituzione di fondi a destinazione vincolata statali in materia di
competenza legislativa concorrente o residuale delle regioni, come è il
trasporto pubblico locale. La Corte ha però rigettato il ricorso, rilevando
come non si tratti di un fondo a destinazione vincolata in quanto la finalità
del fondo è quella di assicurare in via generale il concorso finanziario dello
Stato al trasporto pubblico locale senza vincolare il legislatore regionale a
uno specifico impiego delle risorse stanziate in tale settore materiale,
ascrivibile alla potestà legislativa regionale. La Corte ha inoltre rilevato la perdurante inattuazione
dell’articolo 119 della Costituzione, a causa della mancata individuazione
dei costi standard; pertanto, in questa
situazione “l’intervento dello Stato è ammissibile nei casi in cui, come quello
di specie, esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di
godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa”. Come già
affermato dalla Corte in precedenti sentenze (sentenza n. 121/2010) “siffatti
interventi si configurano […] come portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’articolo 119 e di imperiose necessità
sociali, indotte anche dalla grave crisi economica nazionale e internazionale”;
·
la
sentenza n. 264/2013 è intervenuta in materia di autotrasporto pubblico non di linea. In particolare, è stata
dichiarata l’incostituzionalità della disciplina della Regione Molise (L.R. n.
25/2012) in quanto, attraverso la costituzione di un ruolo dei conducenti di
autoservizi pubblici non di linea, l’iscrizione al quale era condizione
necessaria per l’esercizio dell’attività sul territorio regionale, si
determinava “un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale […] con
ciò violando anche il principio di parità di trattamento […] sotteso alla
previsione dell’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in
tema di libertà di stabilimento”. Anche in questo caso si configurava quindi
una violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
·
la
sentenza n. 41/2013 si è invece soffermata sul rapporto tra la competenza regionale in materia di trasporto pubblico
locale e i poteri dell’Autorità di regolazione dei trasporti, istituita
dall’articolo 37 del decreto-legge n. 201/2011. In proposito, la Corte ha
affermato che “le funzioni conferite all’Autorità di regolazione dei trasporti,
se intese correttamente alla luce della ratio che ne ha ispirato l’istituzione,
non assorbono le competenze spettanti alle amministrazioni regionali in materia
di trasporto pubblico locale, ma le presuppongono e le supportano. Valgono
anche in questo caso i principi affermati dalla Corte in una fattispecie
analoga [cioè con riferimento alle competenze dell’Autorità per la vigilanza
sui lavori pubblici, ora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ndr]: «le attribuzioni dell’Autorità non sostituiscono né
surrogano alcuna competenza di amministrazione attiva o di controllo; esse esprimono
una funzione di garanzia, in ragione della quale è configurata l’indipendenza
dell’organo» (sentenza n. 482 del 1995). Compito dell’Autorità dei trasporti è,
infatti, dettare una cornice di regolazione economica, all’interno della quale
Governo, Regioni e enti locali sviluppano le politiche pubbliche in materia di
trasporti, ciascuno nel rispettivo ambito”.
La
riforma costituzionale del Titolo V della parte seconda della Costituzione del
2001 ha collocato l’ordinamento della comunicazione tra le materie di
legislazione concorrente, laddove allo Stato è riservata la definizione di
principi fondamentali e alle Regioni la normativa di dettaglio (art. 117, terzo
comma, Cost.).
|
L’ordinamento
della comunicazione viene ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale tra
le materie per le quali è prevista “l’attrazione in sussidarietà”:
si registra infatti la tendenza a tutelare, sia pure in una materia di
legislazione concorrente, l'esercizio delle funzioni unitarie da parte dello
Stato, contemperata dall'individuazione di procedure concertative e di
coordinamento orizzontale con le regioni (le intese; si veda ad esempio la
sentenza n. 163/2012). La Corte ha inoltre rilevato (sentenza n. 336/2005)
come la materia “ordinamento della comunicazione” possa “intersecarsi” con le
materie di competenza esclusiva statale della “tutela della concorrenza”
(art. 117, secondo comma, lettera e)) e del coordinamento informativo
statistico e informatico (art. 117, secondo comma, lettera r)). Ciò in un
contesto in cui, già precedentemente alla riforma costituzionale del 2001,
era stato sottolineato il legame tra ordinamento della comunicazione e tutela
della libertà d’informazione, e quindi, del valore costituzionale della
libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.;
sentenza n. 348/1990). |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia ordinamento della comunicazione viene spostata nel
nuovo art. 117, secondo comma, lett. t), alla competenza esclusiva statale. |
Appare
nella giurisprudenza costituzionale la tendenza a tutelare, in tale ambito
materiale, l'esercizio delle funzioni unitarie da parte dello Stato,
contemperata dall'individuazione di procedure
concertative e di coordinamento orizzontale con le Regioni quando, in una
materia come l’ordinamento della
comunicazione, di legislazione concorrente, si ponga l’esigenza dell’attrazione in sussidiarietà
dell’esercizio della funzione da parte dello Stato (cfr. ex plurimis, la sentenza n. 303/2003)
così come l'esigenza di tutela del diritto costituzionalmente garantito di
manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) –
preservando, comunque, spazi di differenziazione alle autonomie territoriali. A
tale proposito si ricorda che la Corte costituzionale – pur sotto la vigenza
del vecchio Titolo V - ha riconosciuto all’informazione la natura di
“condizione preliminare […] per l’attuazione
ad ogni livello, centrale e locale, della forma propria dello Stato
democratico” nella quale “qualsivoglia soggetto o organo rappresentativo
investito di competenze di natura politica” (e quindi anche le Regioni) “non
può, pur nel rispetto dei limiti connessi alle proprie attribuzioni, risultare
estraneo all’impiego di comunicazione di massa” (sentenza n. 348 del 1990).
Ulteriori vincoli derivano inoltre dalle normative comunitarie di settore che
impongono un adeguamento alle stesse sia sulla fonte statale che su quelle
regionali. Si è andata progressivamente stratificando e una giurisprudenza
costituzionale (sentenze nn. 29 del 1996; 201, 303,
307, 308, 313, 324 del 2003) secondo la quale l’attribuzione di competenza
legislativa regionale diviene plausibile relativamente a taluni aspetti della
materia informativa e radiotelevisiva. Tale giurisprudenza enuclea l'esercizio
della competenza legislativa da parte della Regione nella misura in cui sia
rispettosa delle previsioni della legislazione (statale) «di sistema».
In
questo quadro, ai sensi della sentenza n. 163 del 2012, alla luce dell’istituto
della chiamata in sussidiarietà, lo Stato può esercitare funzioni sia
amministrative che legislative in materie di competenza concorrente e residuale
quando esigenze di esercizio unitario lo richiedano, purché l’intervento
statale sia proporzionato e pertinente rispetto allo scopo perseguito e non
leda il principio di leale collaborazione. Come più volte affermato dalla
Corte, tuttavia “nei casi di attrazione in sussidiarietà di funzioni relative a
materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e Regioni, è
necessario, per garantire il coinvolgimento delle Regioni interessate, il
raggiungimento di un’intesa, in modo da contemperare le ragioni dell’esercizio
unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente
attribuite alle Regioni” (ex plurimis, sentenze nn. 383 e
62 del 2005, n. 6 del 2004, n. 278 del 2010 e n. 165 del 2011).
La
Corte costituzionale era già intervenuta per garantire l’esercizio unitario delle competenze in materia di comunicazioni
anche con la sentenza n. 336 del 2005 relativa ad alcune disposizioni del
codice delle comunicazioni elettroniche in materia di installazione degli
impianti, impugnate in quanto ritenute disposizioni di dettaglio e, quindi,
lesive della competenza regionale. La Corte ha infatti precisato che nel caso
specifico non si può prescindere dalla considerazione che ciascun impianto di
telecomunicazione costituisce parte integrante di una complessa ed unitaria
rete nazionale, sicché non è neanche immaginabile una parcellizzazione di
interventi nella fase di realizzazione di una tale rete. Ciò comporta che i
relativi procedimenti autorizzatori dovrebbero essere
necessariamente disciplinati con carattere di unitarietà e uniformità per tutto
il territorio nazionale, dovendosi evitare ogni frammentazione degli
interventi. Ed è, dunque, alla luce di tali esigenze e finalità che dovrebbero
essere valutate ampiezza ed operatività dei principî fondamentali riservati
alla legislazione dello Stato.
Nella
medesima occasione la Corte ha inoltre rilevato come l’ambito materiale ordinamento della comunicazione possa
“intersecarsi” con le materie di competenza esclusiva statale della tutela della concorrenza (art. 117,
secondo comma, lettera e)) e del coordinamento informativo statistico e
informatico (art. 117, secondo comma, lettera r)).[22]
Alla
medesima logica appare rispondere anche la sentenza n. 307 del 2003, con la
quale la Corte costituzionale ha stabilito che è costituzionalmente
illegittimo, introdurre un valore limite di induzione magnetica in prossimità
di determinati edifici ed aree, il quale si sovrapponga ai limiti di
esposizione fissati dallo Stato. Infatti, la fissazione a livello nazionale dei
valori-soglia, non derogabili dalle Regioni nemmeno in senso più restrittivo,
rappresenta il punto di equilibrio fra le esigenze contrapposte di evitare al
massimo l'impatto delle emissioni elettromagnetiche, e di realizzare impianti
necessari al Paese, nella logica per cui la competenza delle Regioni in materia
di trasporto dell'energia e di ordinamento della comunicazione è di tipo
concorrente, vincolata ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato.
Nel riparto di competenze legislative derivante dal
titolo V attualmente vigente, la materia produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia è rimessa alla competenza concorrente tra Stato e Regioni.
|
La potestà legislativa concorrente dello Stato e delle
Regioni in materia di energia ha conosciuto una serie di interventi del giudice
costituzionale, che, divenuti sempre più numerosi dal 2004, hanno finito per
incidere profondamente sulle relazioni tra i livelli territoriali di governo,
nell’ottica di un approccio globale al settore energetico, inteso non tanto
come “materia”, quanto, invece, quale “politica energetica nazionale”. In linea generale il
giudice costituzionale giustifica e legittima, con riferimento al settore
energetico, la norma che attribuisce maggiori poteri amministrativi ad organi
statali, in quanto ritenuti gli unici a cui naturalmente non sfugge la
valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia e quindi idonei
ad operare in modo adeguato per ridurre eventuali situazioni di gravi carenze
a livello nazionale, seppure a determinate condizioni. Secondo costante
giurisprudenza, infatti, la disciplina statale può conferire allo Stato il
potere di emanare degli indirizzi ed anche di incidere indirettamente ed in
modo significativo sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali. La giurisprudenza
della Corte costituzionale riconosce in astratto sempre ammissibile
l’avocazione sussidiaria da parte dello Stato di funzioni amministrative e
legislative concernenti l’individuazione (e anche la realizzazione) degli
interventi in materia di produzione, trasmissione e distribuzione
dell’energia, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione. In concreto, però,
al fine di valutare la legittimità dell’attrazione in sussidiarietà, deve
essere effettuato un giudizio sulla proporzionalità degli interventi stessi.
La “natura strategica” degli interventi “urgenti ed indifferibili” può
soddisfare il principio di proporzionalità, se l’intervento statale è
finalizzato a garantire l’effettività dell’attuazione e realizzazione «in
modo unitario e coordinato » degli interventi individuati. Di fronte ad un
principio fondamentale di riforma economico-sociale, trattandosi di
iniziative di rilievo strategico, può dunque esservi uno spostamento di
competenze amministrative a seguito dell’attrazione in sussidiarietà. Al
riguardo, la Corte ha costantemente affermato il principio del doveroso
coinvolgimento delle regioni e degli enti locali nei processi decisionali di
elaborazione e realizzazione delle politiche energetiche. In particolare, la Corte ha affermato il principio in
base al quale la legislazione statale che preveda e disciplini il
conferimento delle funzioni amministrative a livello centrale nelle materie
affidate alla potestà legislativa regionale può aspirare a superare il vaglio
di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che
prefiguri un iter in cui
assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale,
ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di
lealtà. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il nuovo articolo 117, secondo comma, lett.
v), attribuisce la materia produzione, trasporto
e distribuzione nazionali dell’energia alla competenza
esclusiva statale (si noti che l’aggettivo è volto al plurale e risulta
dunque riferibile a tutti e tre i sostantivi precedenti). |
La
Corte costituzionale ha avuto modo di soffermarsi in molteplici occasioni sul
rapporto tra Stato e Regioni relativamente alle questioni concernenti l’energia. In
particolare, la Corte, con la sentenza n. 6 del 2004, relativa al contenzioso
costituzionale sorto tra Stato e Regioni relativamente alle disposizioni
contenute nel decreto legge n. 7 del 2002, convertito dalla legge n. 55 del
2002, recante "Misure urgenti per garantire la sicurezza del settore
elettrico nazionale", ha sciolto alcuni dubbi interpretativi relativi al rapporto
fra le competenze legislative e le funzioni amministrative dello Stato, delle
Regioni e degli Enti locali in materia di energia, con particolare riferimento
alle procedure di autorizzazione alla
costruzione e all’esercizio degli impianti.
Segnatamente,
la Corte, nel dichiarare infondati i ricorsi delle Regioni Umbria, Basilicata e
Toscana avverso il citato decreto legge n. 7 del 2002 - adottato dal Governo al
fine di consentire che i processi di costruzione di nuove centrali e di
ampliamento di quelle già esistenti potessero avviarsi nonostante gli
impedimenti frapposti dalle autorità locali competenti a rilasciare le
autorizzazioni - ha confermato il proprio indirizzo giurisprudenziale in base
al quale per giudicare della legittimità costituzionale della norma impugnata
bisogna non già considerare la conformità rispetto all'articolo 117 Cost., bensì valutarne la rispondenza da un lato ai criteri
indicati dall'articolo 118 Cost. per la allocazione e
la disciplina delle funzioni amministrative, dall'altro al principio della
leale collaborazione.
Nella
sentenza citata la Corte, riprendendo nella sostanza l’orientamento della
sentenza n. 303 del 2003, oltre a confermare, almeno in parte, la tendenza ad
una interpretazione restrittiva delle materie “trasversali” di competenza
esclusiva statale, ha chiarito come nelle materie di competenza statale
esclusiva o concorrente, in virtù dell'art. 118, primo comma, Cost., la legge possa attribuire allo Stato funzioni
amministrative, nonché organizzarle e regolarle, al fine di renderne
l'esercizio raffrontabile a un parametro legale. In tale prospettiva, precisa
la Corte, i principî di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale
riparto di competenze legislative contenuto nel nuovo Titolo V e possono giustificarne
una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante
all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata,
non risulti affetta da irragionevolezza e sia oggetto di un accordo stipulato
con la Regione interessata. Quindi per l’attribuzione delle competenze nel
settore energetico al livello statale, assumono una peculiare valenza gli
accordi, le intese e le altre forme di
concertazione e di coordinamento orizzontale delle rispettive competenze,
che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso
strumenti di leale collaborazione.
Con
la sentenza n. 383 del 2005, la Corte costituzionale si è pronunciata sui
ricorsi promossi dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento
avverso numerose disposizioni del decreto legge 29 agosto 2003, n. 239, recante
misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale (convertito con modificazioni, dalla
legge n. 290 del 2003), e della legge di riordino
del settore energetico (legge 23 agosto 2004, n. 239). La sentenza, molto
articolata, decide ben 22 punti di impugnazione delle disposizioni del D.L.,
accogliendo i motivi di ricorso, con conseguente dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle disposizioni del D.L., su 11 di tali punti.
In
due casi la dichiarazione di incostituzionalità consegue al riconoscimento
della natura di dettaglio delle disposizioni del D.L., non idonee come tali ad
integrare gli estremi di principi fondamentali in materia di legislazione concorrente.
Il
filo conduttore della sentenza è tuttavia la ricognizione, ai sensi dei
principi affermati nella precedente sentenza n. 6/2004, dei requisiti necessari
ad assicurare in concreto, in relazione alle fattispecie concrete oggetto di
impugnazione, la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso
strumenti di leale collaborazione.
In
questa ottica la Corte ha dichiarato incostituzionali numerose disposizioni del
D.L. n. 239/2003, per la parte nella quale non prevedono che i poteri attribuiti
agli organi statali debbano essere esercitati d’intesa, a seconda dei casi, con
la Conferenza Unificata Stato regioni e Stato-città di cui all’art. 8 del D.Lgs. 28 agosto 1997, n. 281, oppure direttamente con le
Regioni e le Province interessate.
Particolare
rilievo assume poi la definizione da parte della Corte delle caratteristiche
che le intese in questione debbono
assumere, con la sottolineatura del carattere
necessariamente paritario delle stesse.
Con
la sentenza n. 165 del 2011 la Consulta in riferimento ad interventi urgenti ed
indifferibili nella materia energetica con carattere strategico nazionale ha
ribadito, nel segno della continuità, una lettura della sostituzione statale di
cui all’art. 120, comma 2, Cost. ancorata al
carattere della straordinarietà, quale presupposto legittimante la deroga
temporanea all’ordine legale delle competenze costituzionali. La Corte ricorda
infatti di avere già precedentemente escluso che il potere sostitutivo statale
possa essere previsto nei casi in cui vi sia uno spostamento di competenze
amministrative, a seguito di attrazione in sussidiarietà, “dovendosi ritenere
che la leale collaborazione, necessaria in tale evenienza, non possa essere
sostituita, puramente e semplicemente, da un atto unilaterale dello Stato
(sentenza n. 383 del 2005)”. La Corte rammenta di aver affermato, con
giurisprudenza costante, che “nei casi di attrazione in sussidiarietà di
funzioni relative a materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e
Regioni, è necessario, per garantire il coinvolgimento delle Regioni
interessate, il raggiungimento di un’intesa, in modo da contemperare le ragioni
dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni
costituzionalmente attribuite alle Regioni (ex
plurimis, sentenze n. 383 del 2005 e n. 6 del
2004)”. La Corte considera dunque le intese tra Stato e Regioni su tali materie
come intese forti, che necessitano, in caso di dissenso, di “idonee procedure
per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze (ex plurimis,
sentenze n. 121 del 2010, n. 24 del 2007, n. 339 del 2005). Solo nell’ipotesi
di un ulteriore esito negativo di tali procedure mirate all’accordo, può essere
rimessa al Governo una decisione unilaterale (sentenza n. 33 del 2011)”.
Con
la sentenza n. 13 del 2014 la Corte ha ricordato la consolidata giurisprudenza
costituzionale secondo cui i principi fondamentali nazionali in materia di
individuazione di aree non idonee agli impianti
a fonti rinnovabili[23] impongono alle Regioni
di individuare le aree non idonee specificandole esattamente, essendo loro
vietato introdurre un divieto generalizzato che ribalta il principio generale
stabilito dal legislatore nazionale (si devono indicare le “aree non idonee”,
non le “aree idonee”, di fatto escludendo tutte le altre). Si ricorda anche che
la Corte ha già avuto modo di affermare che il principio di massima diffusione
delle fonti di energia rinnovabile, derivante dalla normativa europea e
recepito dal legislatore nazionale, «trova attuazione nella generale utilizzabilità
di tutti i terreni per l’inserimento di tali impianti, con le eccezioni,
stabilite dalle Regioni, ispirate alla tutela di altri interessi
costituzionalmente protetti nell’ambito delle materie di competenza delle
Regioni stesse. Non appartiene invece alla competenza legislativa della stessa
Regione la modifica, anzi il rovesciamento, del principio generale.» (sentenza
n. 224 del 2012).
In
precedenza, con la sentenza n. 344 del 2010, la Corte Costituzionale aveva
precisato che l’indicazione da parte delle Regioni dei luoghi ove non è
possibile costruire gli impianti eolici
può avvenire solo in conformità alle linee guida nazionali per il corretto
inserimento degli impianti eolici nel paesaggio. La Corte aveva poi ritenuto
che le norme che prevedessero limiti, condizioni e adempimenti al cui rispetto
fosse subordinato il rilascio dell’autorizzazione all’installazione di un
impianto eolico, contrastassero anche con l’art. 117, terzo comma della
Costituzione, e, nello specifico, con i principi fondamentali fissati dal
legislatore statale in materia di produzione, trasporto e distribuzione
nazionale dell’energia (art. 12, commi 3 e 4, D.Lgs.
n. 387 del 2003).
Con
la sentenza n. 182 del 2013 la Corte nell’individuare l’ambito competenziale di una norma regionale relativa alla
“gestione del territorio” e alla “produzione e trasporto nazionale
dell’energia” in base al presupposto della necessità di riconoscere un ruolo
fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni
amministrative, ha privilegiato le “esigenze di carattere unitario” invocate
dalla legislazione nazionale, ritenute “ancora più pressanti” in zone a rischio sismico. Lo strumento
attraverso il quale realizzare il coinvolgimento di entrambi gli Enti è
l’intesa e quindi una disposizione regionale che violasse il principio di leale
collaborazione sottraendo la scelta al confronto e prevedendo “a priori”
l’incompatibilità fra la localizzazione e la realizzazione di gasdotti e
oleodotti di maggiori dimensioni e le zone sismiche di prima categoria, sebbene
maggiormente garantista, dovrebbe essere dichiarata incostituzionale. Al
riguardo, la Corte, ha costantemente affermato che «la previsione dell’intesa,
imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima
una norma contenente una “drastica previsione” della decisività della volontà
di una sola parte, in caso di dissenso» (ex
plurimis, sentenza n. 165 del 2011), ma che siano
invece necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a
superare le divergenze» (ex plurimis, sentenze n. 278 e n. 121 del 2010), come
presupposto fondamentale di realizzazione del principio di leale collaborazione
(ex plurimis,
sentenze n. 117 del 2013, n. 39 del 2013, n. 24 del 2007 e n. 339 del 2005).
Nel
vigente testo costituzionale la materia del coordinamento della
finanza pubblica rientra tra le materie di legislazione
concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
|
Il coordinamento
della finanza pubblica costituisce una materia estremamente rilevante in
quanto ad essa una copiosa giurisprudenza costituzionale ha costantemente
ricondotto le disposizioni statali volte al contenimento della spesa delle
regioni e degli enti locali. Sulla materia si rileva peraltro una
evoluzione nella giurisprudenza della Corte costituzionale degli ultimi anni,
nel senso dell’ampliamento degli ambiti di intervento del legislatore statale. Secondo il primo orientamento della
Corte in materia, il legislatore statale può stabilire solo un limite
complessivo che lasci agli enti territoriali ampia libertà di allocazione
delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenze n. 36 del
2004 e n. 417 del 2005), mentre non può fissare limiti puntuali relativi a
singole voci di spesa, vincolando Regioni e Province autonome all’adozione di
misure analitiche e di dettaglio, perché verrebbe a comprimere
illegittimamente la loro autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di
formulare i soli principi fondamentali della materia (sentenze n. 36 del
2004; n. 417 del 2005; n. 169 del 2007; n. 120 e n. 159 del 2008; n. 237 del
2009). Più recentemente,
tuttavia, anche in considerazione della situazione di eccezionale gravità del
contesto finanziario, la Corte ha fornito una lettura estensiva delle norme
di principio nella materia del coordinamento della finanza pubblica. Pur
ribadendo, in via generale, che possono essere ritenuti principi fondamentali
di coordinamento della finanza pubblica le norme che «si limitino a porre
obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un
transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa
corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il
perseguimento dei suddetti obiettivi», la Corte ha, nei fatti, avallato le
scelte del legislatore statale di introdurre vincoli specifici per il
contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali, quali, ad
esempio, quelli relativi alle riduzioni di spesa per incarichi di studio e
consulenza (sentenza n. 262 del 2012), all'obbligo di soppressione o
accorpamento da parte degli enti locali di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e
funzioni loro conferite (sentenza n.
236 del 2013), alla determinazione del numero
massimo di consiglieri e assessori regionali e alla riduzione degli
emolumenti dei consiglieri (sentenze n. 198 del 2012 e n. 23 del
2014). |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia coordinamento della finanza pubblica passa dalla competenza concorrente alla competenza
esclusiva statale ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. e). È invece riconosciuta una specifica competenza
regionale per gli specifici profili inerenti la regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito
regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della
Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di
finanza pubblica. |
La
Corte costituzionale, sin dalle prime sentenze rese all’indomani dell’entrata
in vigore del Titolo V, ha costantemente ricondotto le disposizioni statali
volte al contenimento della spesa
corrente alle finalità di coordinamento
della finanza pubblica (sentenze n. 4 e 36 del 2004 e n. 417 del 2005),
riconoscendo che “il legislatore statale
può legittimamente imporre alle Regioni
vincoli di bilancio – anche se questi ultimi vengono indirettamente ad
incidere sull’autonomia regionale di spesa – per ragioni di coordinamento
finanziario volte a salvaguardare l’equilibrio unitario della finanza pubblica
complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali
condizionati anche da obblighi comunitari” (sentenze n. 139 e n. 237 del 2009;
n. 52 del 2010). Ciò in virtù dell’assunto in base al quale “non può dubitarsi
che la finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali sia
parte della finanza pubblica allargata” (sentenze n. 425 del 2004 e n. 267 del
2006), ancor più rilevante alla luce della configurazione dei vincoli posti dal
diritto dell’Unione europea (da ultimo, sentenza n. 60 del 2013).
La
giurisprudenza costituzionale ha però contestualmente precisato, sin dalle prime
sentenze in materia, che il legislatore statale può stabilire solo un limite complessivo che lasci agli enti stessi
ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di
spesa (sentenze n. 36 del 2004 e n. 417 del 2005), mentre non può fissare limiti puntuali relativi a singole voci di spesa,
vincolando Regioni e Province autonome all’adozione di misure analitiche e di
dettaglio, perché verrebbe a comprimere illegittimamente la loro autonomia
finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali
della materia (sentenze n. 36 del 2004; n. 417 del 2005; n. 169 del 2007; n.
120 e n. 159 del 2008; n. 237 del 2009).
In
particolare, tra il 2004 e il 2005, la Corte costituzionale ha ulteriormente delimitato l’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica,
affermando, anzitutto, che non sono riconducibili a tale categoria disposizioni
che fissino vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle
regioni e degli enti locali, in quanto, in tal caso, esse finirebbero per
ledere l’autonomia finanziaria di spesa delle autonomie territoriali garantita
dall’art. 119 Cost. (ex plurimis, sentenza n. 417 del 2005).
Tuttavia
il coordinamento finanziario può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine
amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di
controllo (sentenza n. 376 del 2003).
Nel
ribadire tale concetto la Consulta ha precisato che il carattere 'finalistico'
dell'azione di coordinamento postula che "a livello centrale si possano
collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la
materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari perché la
finalità di coordinamento, per sua natura eccedente le possibilità di
intervento dei livelli territoriali sub-statali, possa essere concretamente
realizzata". (sentenza n. 35 del 2005).
In
secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale ha precisato che il legislatore
statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di
bilancio ancorché si traducano - inevitabilmente - in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti, ma solo,
con “disciplina di principio”, “per ragioni di coordinamento finanziario
connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari”
(sentenza n. 376 del 2003; nn. 4, 36 e 390 del 2004).
In
terzo luogo, il Giudice delle leggi ha affermato che perché detti vincoli
possano considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali
debbono stabilire solo un “limite complessivo, che lascia agli enti stessi
ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di
spesa” (sentenza n. 36 del 2004 e n. 417 del 2005).
La
Corte costituzionale ha infine concluso che la previsione da parte della legge
statale di limiti all’entità di una
singola voce di spesa non può essere
considerata un principio fondamentale
in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica, perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa
e si risolve perciò “in una indebita invasione, da parte della legge statale,
dell’area [...] riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle
quali la legge statale può prescrivere criteri [...] ed obiettivi (ad esempio,
contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti
concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi” (sentenze n. 390 del
2004 e n. 417 del 2005).
Muovendo
da questi presupposti, la Corte ha successivamente precisato che possono
qualificarsi come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica
anche norme statali che fissano limiti
alla spesa delle Regioni e degli enti locali alla seguente duplice condizione: qualora si limitino a porre
obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi anche nel senso di un
transitorio contenimento complessivo, sebbene non generale, della spesa
corrente; qualora non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il
perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 88 del 2006; n. 169 e n. 412
del 2007; n. 120 e n. 289 del 2008; n. 139, n. 237 e n. 297 del 2009; n. 326
del 2010 e n. 232 del 2011).
La
Corte costituzionale ha affermato che sono consentite limitazioni all’ammontare complessivo delle spese di personale (sentenza n. 169 del 2007), qualificando
poi, ad esempio, principi di coordinamento le disposizioni che prescrivono
riduzioni dei componenti di consigli di amministrazione di enti dipendenti
(sentenza n. 139 del 2009), nonché ulteriori misure di contenimento della spesa
(v., ad esempio, sentenza n. 297 del 2009).
Nella
fase successiva all’avvio del processo di attuazione dell’art. 119 Cost. e alla legge n. 42 del 2009, la Corte costituzionale
ha anche avvalorato una nozione del principio di coordinamento della finanza pubblica decentrata, ribadendo
che esso è volto ad assicurare “l’equilibrio unitario della finanza pubblica
complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali,
condizionati anche da obblighi comunitari” (sentenze n. 237 del 2009; n. 52 del
2010), vieppiù alla luce del parametro dell’unità economica della Repubblica
(sentenze n. 78 del 2011; nn. 28, 51, 79 e 104 del
2013).
Tali indicazioni del giudice delle leggi sugli ambiti di intervento, requisiti e limiti
dell’applicazione nei confronti delle regioni, del principio di coordinamento
in oggetto, nonché delle concrete fattispecie di diritto positivo nelle quali
esso si sostanzia, evidenziatesi dopo l’ ingresso del nuovo Titolo V nella
Carta fondamentale, si sono via via consolidate e meglio precisate, in
relazione alle nuove fattispecie normative sottoposte a giudizio fino agli anni
più recenti.
Sulla individuazione delle norme statali in
concreto riconducibili al principio in esame, con riguardo alle spese di personale, interviene la sentenza
n. 108/2011, con la quale viene censurata una norma regionale con riferimento
alla lesione dei principi fondamentali della legislazione statale in materia di
coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Tale norma regionale, disponendo l’introduzione di
procedure finalizzate alla progressione di carriera mediante selezione interna,
si pone in particolare in contrasto con alcune disposizioni (art. 1, commi 557
e 557-bis) della legge n. 296/1996
(legge finanziaria 2007), che obbligano le Regioni alla riduzione delle spese
per il personale e al contenimento della dinamica retributiva, ivi inclusi i
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e tutti i rapporti precari
in organismi e strutture facenti capo alla Regione. Tali norme statali,
ispirate alla finalità del contenimento della spesa pubblica, costituiscono princìpi fondamentali nella materia del
coordinamento della finanza pubblica, in quanto pongono obiettivi di riequilibrio, senza, peraltro, prevedere strumenti e modalità vincolanti per il
perseguimento dei medesimi da parte degli enti interessati. Come ha infatti
chiarito nella pronuncia la Corte, «…la spesa per il personale, per la sua
importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interna
(data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di
dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente, con la
conseguenza che le disposizioni relative al suo contenimento assurgono a
principio fondamentale della legislazione statale» (sentenza n. 69 del 2011,
che richiama la sentenza n. 169 del 2007).
Al tema del coordinamento
della finanza pubblica dedica poi una specifica attenzione la sentenza n.
229 del 2011, che nel richiamare
preliminarmente la propria giurisprudenza, rammenta come questa abbia, per un
verso, elaborato una nozione ampia di principi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica e, per altro verso, ha precisato come la piena
attuazione del coordinamento medesimo possa far sì che la competenza statale non si esaurisca con l’esercizio del potere
legislativo, ma implichi anche
«l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di
rilevazione di dati e di controllo» (sentenza n. 376 del 2003; in senso
conforme, sentenze n. 112 del 2011, n. 57 del 2010, n. 190 e n. 159 del 2008).
Viene poi anche messo in rilievo il
carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento e, quindi, l’esigenza che
«a livello centrale» si possano collocare anche «i poteri puntuali
eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento» venga
«concretamente realizzata» (sentenza n. 376 del 2003). Viene infine ricordato
come la Corte abbia ritenuto, con giurisprudenza costante, che i principi fondamentali fissati dalla
legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica siano
applicabili anche alle Regioni a
statuto speciale ed alle Province autonome (ex plurimis, sentenze n. 120 del 2008, n.
169 del 2007).
Su
tali basi, precisa il giudice costituzionale in ordine all’oggetto del
decidere, la competenza statale a fissare una tempistica uniforme per tutte le Regioni, circa la trasmissione di dati attinenti alla
verifica del mantenimento dei saldi di finanza pubblica, può logicamente
dedursi dalle esigenze di coordinamento, specie in un ambito – come quello del
patto di stabilità interno – strettamente connesso alle esigenze di rispetto dei vincoli comunitari. Tempi
non coordinati delle attività di monitoraggio – strumentali, queste ultime,
allo scopo di definire, per ciascun anno, i termini aggiornati del patto di
stabilità – provocherebbero difficoltà operative e incompletezza della visione
d’insieme, indispensabile perché si consegua l’obiettivo del mantenimento dei
saldi di finanza pubblica.
In
seguito, significativa appare sul tema del coordinamento in questione una
pronuncia recante una enunciazione di natura sistematica, individuabile nella
la sentenza n. 311 del 2012, con la
quale la Corte ha ribadito che possono essere ritenuti principi fondamentali in
materia di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 117, terzo
comma, Costituzione, le norme che «si limitino a porre obiettivi di
riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo,
anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo
strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».
Di
rilievo appaiono pure le numerose affermazioni contenute in diverse pronunce
della Corte circa la rilevanza delle situazioni di eccezionale gravità del
contesto finanziario, che pur non consentendo deroghe all’ordine costituzionale
delle competenze legislative, legittimano- da
un lato - una lettura estensiva delle norme di principio nella materia del
coordinamento della finanza pubblica ma – nel contempo – confermano la presenza di limiti alla disciplina di fonte statuale.
Per
questo secondo profilo può
richiamarsi la sentenza n. 148 del 2012, nella quale, giudicando della
legittimità costituzionale di una serie di disposizioni nel D.L. n. 78 del
2010, è stato negato che una situazione
emergenziale possa legittimare lo Stato ad esercitare funzioni legislative
in modo da sospendere le garanzie costituzionali (art.117 Cost.)
di autonomia degli enti territoriali; analogamente, e in relazione al medesimo
D.L. n. 78 del 2010, con la sentenza
n. 151 del 2012 è stato negato che
lo Stato possa «intervenire in ogni
materia» per l’esigenza di far fronte con urgenza ad una gravissima crisi
finanziaria.
Più
ancora, con la sentenza n. 193 del
2012 la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 20, commi 4 e 5 del D.L. n. 98 del 2011, che hanno
esteso anche negli anni “successivi” al 2014 alcune misure di contenimento
della spesa. Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in materia, secondo
la quale possono essere ritenuti principi fondamentali in materia di
coordinamento della finanza pubblica, ai sensi del terzo comma dell’art. 117
Costituzione, le norme che «si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della
finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio
contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non
prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei
suddetti obiettivi», la Corte ha osservato che l’estensione a tempo indeterminato delle misure restrittive già
previste nella precedente normativa fa venir meno una delle due condizioni
indicate, ovvero quella della temporaneità delle restrizioni.
Si
iscrive invece sotto il primo profilo
la sentenza n. 262 del 2012, che ha
dichiarato, l’illegittimità costituzionale di una disposizioni della legge n. 1/2011
della Regione Puglia, rilevando che la disposizione, pur riproducendo il
contenuto dell’art. 6, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, quanto a percentuale
di riduzione della spesa per incarichi
di studio e consulenza, recava alcune significative differenziazioni
rispetto a questa, in tal modo violando
il principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica da esso
espresso, posto a salvaguardia del contenimento della spesa delle pubbliche
amministrazioni. Infatti, la predetta norma
statale, pur non imponendo alle
Regioni di adottare i puntuali tagli
alle singole voci di spesa da essa considerate, richiede che esse, anche
attraverso una diversa modulazione delle percentuali di riduzione, conseguano comunque, nel complesso, un risparmio pari a quello che
deriverebbe dall’applicazione di quelle percentuali. Tale sentenza, inoltre,
censurando una altra disposizione della medesima legge regionale, ha statuito
che anche la riduzione della spesa per i
contratti di lavoro flessibili e per quelli di collaborazione coordinata e
continuativa stabilita dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78 del 2010, detta un principio fondamentale in materia di
coordinamento della finanza pubblica.
Anche
una altra norma regionale, legge n. 17/2011 della Regione Basilicata, che
contiene disposizioni in varia misura incidenti su indennità, compensi, rimborsi di enti regionali è stata dalla Corte
(sentenza n. 211 del 2012) ritenuta in contrasto con gli obiettivi di
contenimento e riduzione della spesa pubblica perseguiti dal legislatore
statale con l’art. 6 del D.L. n. 78 del 2010, che, viene ribadito, costituisce
espressione di un principio fondamentale della finanza pubblica.
Anche
il meccanismo del turn-over è stato ritenuto dalla Corte avente natura di
principio di coordinamento della finanza pubblica, come affermato nella sentenza
n. 161 del 2012, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di
una disposizione della legge n. 17/2011 della Regione Abruzzo con la quale
venivano consentite deroghe parziali in relazione al turn-over, in contrasto, come detto, con la sua natura di principio
di coordinamento della finanza pubblica.
E’
stato invece escluso, con la sentenza n. 147 del 2012, che ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 19, comma 4, del D.L. n. 98
del 2011 (il quale per finalità di risparmi di spesa disponeva la immediata
costituzione di istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle
istituzioni scolastiche costituite separatamente) che una disciplina statale
che regoli la rete scolastica e il
dimensionamento degli istituti con carattere di dettaglio, possa essere
ricompresa tra i principi di coordinamento della finanza pubblica.
Tali
criteri interpretativi della materia del coordinamento della finanza pubblica,
relativamente alle spese di personale
sono stati ribaditi nelle sentenze n. 212 e 217 del 2012, con le quali:
·
è
stata dichiarata l’illegittimità di una disposizione della legge n. 16/2011
della Regione Sardegna, in quanto contrastante con il principio di
coordinamento della finanza pubblica espresso dall’art. 9, comma 28, del D.L.
n. 78 del 2010, con il quale sono stati posti specifici vincoli alle assunzioni
a tempo determinato. Con la stessa sentenza è stato ritenuto espressione del
medesimo principio (come già ritenuto dalla sentenza n. 108/2011 in precedenza
citata) l’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, il quale obbliga le
Regioni, alla riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva;
·
è
stato affermato, confermando precedenti pronunce (e sancendo l’illegittimità di
una disposizione della legge n. 11/2011 della Regione Friuli-Venezia Giulia),
che all’art. 76, comma 7, del D.L. n. 112 del 2008 – che pone limiti alle assunzioni e alla spesa
complessiva per il personale delle amministrazioni pubbliche – deve essere
riconosciuta la natura di principio
fondamentale della materia del coordinamento della finanza pubblica, attesa
(in via pertanto interposta) la sua importanza strategica ai fini
dell’attuazione del patto di stabilità
interno, il quale, come già affermato nella sopra citata sentenza n. 108
del 2011, costituisce non una minuta voce di dettaglio, ma un importante
aggregato della spesa di parte corrente.
Ulteriori pronunce più recentemente
intervenute hanno enucleato alcune
ulteriori fattispecie legislative mediante le quali si esplica
nell’ordinamento il principio di coordinamento, con riguardo, tra le altre,
alle misure premiali per la crescita economica. Nella sentenza n. 8 del
2013 si afferma in proposito che introdurre un regime finanziario più
favorevole per le Regioni che sviluppano adeguate politiche di crescita
economica costituisce una misura premiale non incoerente rispetto alle
politiche economiche che si intendono, in tal modo, incentivare. Non sussiste
pertanto, precisa la Corte, alcuna violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in materia di coordinamento della finanza pubblica.
Anche la presenza di un piano di rientro dal disavanzo sanitario appare
riconducibile alla norma costituzionale in esame, secondo quanto espresso dalla la sentenza n. 180 del
2013, poi ribadita dalla successiva sentenza n 79 dello stesso anno, la Corte
ha dichiarato la illegittimità costituzionale di una norma della regione
Campania (legge n. 27 del 2012) che incide negativamente sulla spesa sanitaria.
A tal fine la Corte ha richiamato il principio consolidato nella propria
giurisprudenza, per cui «l'autonomia
legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute
e, in particolare, nell'ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli
obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa », peraltro in
un «quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta
necessità di contenere i disavanzi del settore
sanitario» (sentenze n. 79 del 2013, n. 91 del 2012 e n. 193 del 2007).
Ancora,
in tema di dismissioni e vincolo di destinazione delle risorse, con la sentenza n. 63 del 2013 (che
ha respinto l’impugnativa di una norma del decreto legge n. 1 del 2012,
nella parte in cui prevede la destinazione delle risorse derivanti dalle
operazioni di dismissioni dei beni dell'ente territoriale all'obiettivo di
riduzione dei debiti dell'ente medesimo). Con essa la Corte ha ritenuto tale
disposizione «espressiva di un principio
fondamentale nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della finanza pubblica [...] come tale, non [...]
invasiva delle attribuzioni della Regione nella materia stessa, in quanto il
finalismo della previsione normativa esclude che possa invocarsi [...] la
logica della norma di dettaglio». Tale orientamento è stato ribadito con la sentenza
n. 205 del 2013, anche essa in reiezione di una impugnativa di una analoga
norma dettata in materia di dismissioni dal decreto legge n. 95 del 2012, nella
parte in cui stabilisce le risorse risultanti dalla valorizzazione ed
alienazione degli immobili di proprietà delle Regioni e degli enti locali trasferiti
ai fondi comuni di investimento immobiliare (di cui alla medesima
disposizione), debba essere destinata alla riduzione del debito dell'ente e,
solo in assenza di questo, o, comunque, per la parte eventualmente eccedente, a
spese di investimento. La Corte ha affermato che la correlazione funzionale tra operazioni di dismissione di beni demaniali,
sia dello Stato che delle Regioni ed altri enti territoriali, e riduzione del debito rispettivo
risponde ad una scelta di politica economica nazionale, e si pone quindi come
espressione del perseguimento di un obiettivo di interesse generale in un
quadro di necessario concorso, anche delle autonomie, al risanamento della
finanza pubblica. La Corte, nella medesima pronuncia, ha aggiunto che detta
disposizione, «per la sua finalità e per la proporzionalità al fine che intende
perseguire, risulta espressiva di un principio
fondamentale nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della finanza pubblica.
Nell’ambito
del principio di esame possono rientrare anche misure di contenimento della
spesa e riorganizzazione degli enti locali, secondo quanto affermato dalla sentenza n. 236 del 2013, nella quale
il giudice delle leggi ha ritenuto conforme a Costituzione una norma del
decreto legge n. 95 del 2012, portata a giudizio sotto il profilo
dell'illegittima imposizione agli enti locali, da parte del legislatore
statale, dell'obbligo di soppressione o accorpamento di agenzie ed enti
che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro conferite.
Questi
vincoli, ha precisato invece la Corte, possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e
degli enti locali quando stabiliscono un «limite complessivo, che lascia
agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi
ambiti e obiettivi di spesa» costituiscono effettivamente espressione di
principi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica
proprio per la chiara finalità di
riduzione della spesa e per la proporzionalità dell'intervento rispetto al
fine che il legislatore statale intende perseguire.
Per
quanto concerne il sistema di tesoreria unica per enti
ed organismi pubblici (di cui
all'art. 1 della legge n. 720/1984 ed art. 35, del decreto-legge n. 1 del 2012)
esso, secondo quanto statuito dalla sentenza 256 del 2013, confermativa della
sentenza 311 del 2012 è «uno strumento essenziale per assicurare il
contenimento del fabbisogno finanziario dello Stato ordinamento», che consente
di emettere una minore quantità di titoli di Stato: la relativa disciplina rientra
pertanto tra le scelte di politica
economica adottate per far fronte alla contingente emergenza finanziaria, e
come tale si colloca nell'ambito dei principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica la cui determinazione
spetta alla potestà legislativa statale.
In ordine alla questione della durata temporale dei vincoli e degli obiettivi finanziari posti
alle regioni ai fini del concorso delle stesse agli obiettivi di finanza
pubblica,
su cui è già intervenuta la sentenza n. 193/2012 prima richiamata, viene di
nuovo affrontata, più recentemente, dalla sentenza n. 79 del 2014,
confermandosi la non conformità a
Costituzione di norme che, seppur riconducibili al principio del coordinamento
della finanza pubblica, non operino entro prefissati
limiti temporali.
La
Corte infatti, con tale sentenza, ha dichiarato la illegittimità costituzionale
di alcune norme del D.L. 95/2012, ed in particolare dell’articolo 16, comma 2,
recante disposizioni in materia di concorso delle regioni agli obiettivi di
finanza pubblica e tagli alle spese, in relazione alla mancanza del limite temporale alle misure di limitazione delle
spese stesse. Il giudice costituzionale rileva in proposito come sia senz’altro
consentito al legislatore statale
imporre limiti alla spesa di enti pubblici regionali, che si configurano
quali principi di «coordinamento della finanza pubblica», anche nel caso in cui
gli obiettivi di riequilibrio della medesima tocchino singole voci di spesa a condizione che:
·
tali
obiettivi consistano in «un contenimento complessivo, anche se non generale,
della spesa corrente», in quanto dette voci corrispondano ad un «importante aggregato della spesa di
parte corrente», come nel caso delle spese per il personale (sentenze n. 287
del 2013 e n. 169 del 2007);
·
il
citato contenimento sia comunque «transitorio», in quanto necessario a
fronteggiare una situazione contingente, e non siano previsti «in modo
esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi»
(sentenze n. 23 e n. 22 del 2014; n. 236, n. 229 e n. 205 del 2013; n. 193 del
2012; n. 169 del 2007, citate nella sentenza in commento).
Quanto,
infine, alla applicabilità del
principio del coordinamento della finanza pubblica in esame alle autonomie speciali (in ordine al
quale si è prima segnalata la pronuncia n. 229/2011, e poi è intervenuta anche
un’altra sentenza del 2012, la n. 139), la sentenza n. 72 del 2014, ha rilevato
come la norma portata in giudizio nel caso concreto, costituita dall’articolo 6
del decreto legge n. 78 del 2010, stabilisca principi di coordinamento della
finanza pubblica, in base all'art. 117, terzo comma, Cost.
ed, in quanto tale, non leda l'autonomia finanziaria di Regioni e Province a
statuto speciale (art. 119 Cost. e Titolo VI dello
statuto del Trentino-Alto Adige). Anche gli enti ad autonomia differenziata,
infatti, sono soggetti ai vincoli
legislativi derivanti dal rispetto dei principi
di coordinamento della finanza pubblica.
Nel
progetto di riforma costituzionale all’esame della Camera, è affidata
alle regioni la potestà legislativa in materia di “regolazione, sulla base di apposite intese concluse in
ambito regionale, delle relazioni
finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli
obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica”.
La potestà in commento potrebbe far riferimento,
sotto un profilo generale, ad alcuni istituti già operanti nell’ordinamento,
sulla base di norme legislative
rinvenibili prevalentemente nelle più recenti leggi di stabilità annuali, finalizzate ad agevolare a livello
territoriale il rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno per gli
enti locali.
Tali istituti - individuabili nel patto regionale verticale e nel patto
regionale orizzontale, la cui applicazione risulta al momento estesa fino
al 2015 ad opera articolo 1, comma
505, lett. d), della legge n. 147/2013 (legge di
stabilità per il 2014) – prevedono, in sostanza, la possibilità di compensazioni
orizzontali e verticali a livello regionale, con le quali si consente alle regioni di intervenire a favore
degli enti locali del proprio territorio, attraverso una rimodulazione degli obiettivi finanziari assegnati ai singoli enti e
alla regione medesima – fermo restando il rispetto degli obiettivi
complessivi posti dal legislatore ai singoli comparti - al fine di consentire
agli enti locali di poter disporre di maggiori margini per l’effettuazione di
spese, soprattutto in conto capitale, senza incorrere nella violazione del
patto. Ciò anche in ragione delle difficoltà emerse per le spese di
investimento, che in applicazione del criterio di computo dei saldi obiettivo
in termini di competenza mista sono risultate fortemente compresse dai vincoli
del patto, rappresentando uno dei maggiori punti di criticità dello stesso.
In particolare:
· con il patto regionale verticale, disciplinato dall’articolo 1,
commi 138-140, della legge n. 220/2010 (legge di stabilità 2011), le regioni
possono autorizzare gli enti locali del proprio territorio a peggiorare
il loro saldo obiettivo, consentendo un aumento dei pagamenti in conto
capitale, e procedere contestualmente alla rideterminazione del
proprio obiettivo di risparmio, per un ammontare pari all'entità
complessiva dei pagamenti in conto capitale autorizzati, al fine di garantire –
considerando insieme regione ed enti locali - il rispetto degli obiettivi
finanziari. La legge di stabilità 2014, nell’estendere, come detto, tale misura
al 2015, ha precisato (comma 506 dell’art. 1) che per gli anni 2014 e 2015, le regioni e le province autonome
(escluse la regione Trentino-Alto Adige e le province autonome di Trento e
Bolzano) che attivano il patto regionale verticale provvedono a rideterminare
il loro obiettivo programmatico in termini di competenza eurocompatibile
(i cui contenuti in questa sede non si dettagliano), in linea con le modifiche
apportate alle modalità di calcolo dell'obiettivo di patto per regioni;
·
con il patto
regionale orizzontale, disciplinato dai commi 141 e 142 dell'articolo 1,
della legge n. 220 del 2010, la regione può intervenire per consentire una rimodulazione
“orizzontale” degli obiettivi finanziari tra gli enti locali del proprio
territorio, in relazione alla diversità delle situazioni finanziarie
esistenti sul territorio medesimo, purché venga garantito il rispetto
dell’obiettivo complessivamente determinato per gli enti locali della regione.
Il meccanismo si fonda sulla cessione di
“spazi finanziari” da parte dei comuni e delle province che prevedono di
conseguire un differenziale positivo rispetto all’obiettivo prefissato in favore
di quelli che rischiano, invece, di conseguire un differenziale negativo
rispetto all’obiettivo. Tali spazi finanziari non possono essere utilizzati
dagli enti che li acquisiscono per spesa corrente discrezionale, ma soltanto
per effettuare spese in conto capitale ovvero spese inderogabili ovvero spese
capaci di incidere positivamente sul sistema economico. Le amministrazioni che
cedono o acquisiscono spazi finanziari di patto ottengono nel biennio
successivo, rispettivamente, un alleggerimento o un aggravio del proprio
obiettivo. La procedura prevede che ogni regione
provveda, dunque, a ridefinire e
a comunicare in corso d’anno agli enti
locali il nuovo obiettivo annuale del
patto di stabilità interno, comunicando altresì al Ministero dell'economia
e delle finanze tutti gli elementi informativi per la verifica del mantenimento
dell'equilibrio dei saldi di finanza pubblica per ciascun ente locale che
partecipa al meccanismo di compensazione orizzontale;
· con il patto regionale integrato
- introdotto come evoluzione del patto regionalizzato con l’articolo 20, comma
1, del D.L. n. 98/2011 -,
superando il meccanismo delle compensazioni verticali ed orizzontali si prevede
la possibilità, per ciascuna regione, di concordare direttamente con lo Stato
le modalità di raggiungimento dei propri obiettivi, esclusa la componente
sanitaria, e quelli degli enti locali del proprio territorio, previo accordo
concluso in sede di Consiglio delle autonomie locali e, ove non istituito, con
i rappresentanti dell'ANCI e dell'UPI regionali. Tale patto, poi ulteriormente ridefinito dalla legge di stabilità
per il 2012 (articolo 32, comma 17, legge n. 183/2011), che ne ha rinviato ad
un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze le modalità di attuazione
e le condizioni della eventuale esclusione dal 'patto concordato' delle regioni
che nel triennio precedente non abbiano rispettato il patto o siano sottoposte
al piano di rientro dal deficit sanitario, non
ha al momento ancora trovato applicazione, atteso che da ultimo la legge di
stabilità per il 2014 ne ha posticipato l’operatività al 2015.
Nel
vigente testo costituzionale la materia del coordinamento del
sistema tributario rientra tra le materie di legislazione
concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
La
riforma operata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
titolo V della parte seconda della Costituzione), ha comportato l’assegnazione
di poteri in materia di entrata e di
spesa agli enti territoriali (regioni, province, comuni, città
metropolitane) e di correlate funzioni normative, da esercitarsi nel quadro
definito dalla legislazione statale. Tale assetto di rapporti, nel quale a ciascun
ente è riconosciuta autonomia finanziaria entro i limiti necessari a mantenere l’unitarietà dell’ordinamento e la
solidarietà tra le articolazioni territoriali della Repubblica, si riassume
nella formula del “federalismo fiscale”.
Nel
conferire autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai comuni, alle province,
alle città metropolitane e alle regioni, il nuovo assetto
costituzionale ha conferito ad essi risorse autonome, in aggiunta a
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio,
nonché il potere di stabilire e applicare tributi
ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
|
Per ciò che attiene al
coordinamento del sistema tributario, nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte
costituzionale ha cercato di enucleare il significato delle disposizioni
costituzionali introdotte dalla riforma del 2001 sull’autonomia di entrata
delle Regioni. Per quanto riguarda, in generale,
l’attuazione del nuovo articolo 119 della Costituzione e l’esplicazione della
potestà legislativa regionale relativamente all’istituzione di tributi
propri, la Corte costituzionale ha segnalato l’urgenza di realizzare il sistema
di finanza regionale ivi prefigurato, per realizzare le previsioni del nuovo
Titolo V e prevenire “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco
di interi ambiti settoriali” (sentenza n. 370 del 2003). Il necessario presupposto per
l'attuazione del disegno costituzionale è stato rintracciato nell'intervento
del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della
finanza pubblica, deve fissare i principi cui i legislatori regionali devono
attenersi e determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario,
definendo gli spazi e i limiti entro i quali può esplicarsi la potestà
impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali. Per quanto
riguarda in particolare i tributi locali, la riserva di legge stabilita dall’articolo
23 della Costituzione comporta la necessità di definire l'ambito in cui potrà
esplicarsi la potestà regolamentare degli enti sub-regionali, sforniti di
poteri legislativi, e il rapporto fra quest’ultima e la legislazione statale
e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado
primario. La Corte ha quindi concluso che “non è ammissibile, in materia
tributaria, una piena esplicazione di potestà regionali autonome in carenza
della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento
nazionale” (sentenza n. 37 del 2004). Questa conclusione è stata confermata
nella sentenze n. 241 del 2004 (sulla delega per la riforma del sistema
fiscale statale) e n. 261 del 2004 (sulla determinazione delle basi di
calcolo dei sovracanoni per la produzione di
energia idroelettrica). Per quanto riguarda la specificazione
della nozione di tributo proprio, la Corte ha affermato costantemente che
nell’attuale quadro normativo non si danno tributi che possano essere
definiti propri delle regioni, nel senso inteso dall’articolo 119 della
Costituzione. Infatti, attualmente esistono soltanto tributi istituiti e
disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla sola particolarità che il
loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina di questi “tributi
regionali” non è divenuta oggetto di legislazione concorrente, ai sensi
dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma appartiene alla
competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che disciplina i casi e
i limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa regionale. Spetta
quindi al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche
nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali esistenti. Con la sentenza n. 296 del 2003 la
Corte ha dichiarato, ad esempio, che l’IRAP non può qualificarsi tributo
proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale articolo 119 della
Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la disciplina soltanto
nei limiti consentiti dalla normativa statale, non rilevando in contrario la
devoluzione del relativo gettito alle regioni stesse. Nel
corso degli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha
proseguito nell’opera di enucleazione del significato delle nuove
disposizioni, al fine di precisarne la collocazione nel sistema giuridico e
di determinare l’ambito di azione della potestà legislativa regionale la
quale, ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, deve espletarsi in
armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia coordinamento del sistema tributario, passa dalla competenza concorrente alla
competenza esclusiva statale ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lett. e). |
Nel
corso degli anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale si è sforzata di
enucleare il significato delle nuove disposizioni e di precisarne la
collocazione nel sistema giuridico.
Per
quanto riguarda, in generale, l’attuazione del nuovo articolo 119 della
Costituzione e l’esplicazione della
potestà legislativa regionale relativamente all’istituzione di tributi
propri, la Corte costituzionale ha segnalato l’urgenza di realizzare il sistema
di finanza regionale ivi prefigurato, “al fine di concretizzare davvero quanto
previsto nel nuovo titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a
contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove
disposizioni” e per prevenire “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di
blocco di interi ambiti settoriali” (sentenza n. 370 del 2003).
La
sentenza n. 37 del 2004 ha indicato come necessario
presupposto per l'attuazione del disegno costituzionale “l’intervento del
legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza
pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali
dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell'intero sistema
tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la
potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali”. Per
quanto riguarda in particolare i tributi
locali, la riserva di legge stabilita dall’articolo 23 della Costituzione
comporta la necessità di definire l'ambito in cui potrà esplicarsi la potestà
regolamentare degli enti sub-regionali, sforniti di poteri legislativi, e il
rapporto fra quest’ultima e la legislazione statale e legislazione regionale
per quanto attiene alla disciplina di grado primario. La Corte ha quindi
concluso che “non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicazione
di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata
dal Parlamento nazionale”. Questa conclusione è stata confermata nella sentenze
n. 241 del 2004 (sulla delega per la riforma del sistema fiscale statale) e n.
261 del 2004 (sulla determinazione delle basi di calcolo dei sovracanoni per la produzione di energia idroelettrica).
Per
quanto riguarda la specificazione della nozione di tributo proprio, la Corte ha affermato costantemente che
nell’attuale quadro normativo non si
danno tributi che possano essere definiti propri delle regioni, nel senso
inteso dall’articolo 119 della Costituzione. Infatti, attualmente esistono
soltanto tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, connotati dalla
sola particolarità che il loro gettito è attribuito alle regioni. La disciplina
di questi “tributi regionali” non è divenuta oggetto di legislazione
concorrente, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, ma
appartiene alla competenza esclusiva della legislazione dello Stato, che
disciplina i casi e i limiti in cui può esplicarsi la potestà legislativa
regionale. Spetta quindi al legislatore statale la potestà di dettare norme
modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei tributi locali
esistenti. Tale potestà deve tuttavia esercitarsi in armonia con i nuovi
princìpi costituzionali: in particolare, non potrebbe sopprimere, senza
sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti alle regioni e agli enti
locali dal vigente ordinamento, né configurare un sistema finanziario
complessivo che contraddica tali princìpi (sentenza n. 37 del 2004).
La
prima pronunzia a questo proposito è contenuta nella sentenza n. 296 del 2003 che,
su ricorso del Governo avverso la legge della regione Piemonte 5 agosto 2002,
n. 20, ha dichiarato illegittime le disposizioni ivi contenute in materia di imposta regionale sulle attività produttive
(IRAP) e di tassa automobilistica.
La
Corte ha dichiarato che l’IRAP non
può qualificarsi tributo proprio delle regioni nel senso inteso dall’attuale
articolo 119 della Costituzione, e che pertanto queste possono variarne la
disciplina soltanto nei limiti consentiti dalla normativa statale in proposito,
non rilevando in contrario la devoluzione del relativo gettito alle regioni
stesse. Spetta quindi alle regioni soltanto una limitata facoltà di variare
l’aliquota e di disciplinare le procedure applicative secondo quanto previsto
dal D.Lgs. n. 446 del 1997. Quest’impostazione è
stata confermata dalle sentenze n. 241 e n. 381 del 2004, che hanno deciso
ricorsi delle regioni avverso leggi statali intervenute in materia di IRAP e di
addizionali regionali all’IRPEF.
Analogamente,
in materia di tassa automobilistica,
la Corte, nella citata sentenza n. 296 del 2003, ha affermato che alle regioni
è stato attribuito “il gettito della tassa, unitamente alla attività
amministrativa connessa alla sua riscossione, restando invece ferma la disciplina
statale per ogni altro aspetto sostanziale della tassa stessa”. La disciplina
sostanziale dell’imposta non è divenuta quindi oggetto di legislazione
concorrente ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione. Le
successive sentenze n. 297 e n. 311 del 2003 nonché n. 455 del 2005 hanno
confermato quest’impostazione.
Nei
medesimi termini sono state decise controversie riguardanti il tributo speciale per il deposito dei
rifiuti solidi in discarica (previsto dalla legge n. 549 del 1995). Le sentenze
n. 335 e n. 397 del 2005 hanno dichiarato costituzionalmente illegittime
disposizioni di legge regionale che, rispettivamente, rimettevano a
deliberazione della Giunta regionale il metodo di determinazione del tributo
(art. 44, comma 3, della legge della regione Emilia-Romagna 14 aprile 2004, n.
7) e ne disponevano l’aumento oltre il termine fissato dalla legge dello Stato
(art. 1 della legge della Regione Molise 31 agosto 2004, n. 18). Anche questo
tributo deve infatti considerarsi statale e non proprio della regione, che può
dunque legiferare solo nei casi e nei limiti previsti dalla legge dello Stato.
Verte
in materia di IRAP, ma afferma un principio di più generale applicazione, la sentenza
n. 431 del 2004, con cui la Corte costituzionale ha deciso il ricorso della
regione Veneto avverso l’articolo 19 della legge n. 289 del 2002 (legge
finanziaria per il 2003), che prorogava agevolazioni fiscali relative all’IRAP
nel settore agricolo. La Corte ha rigettato infatti la tesi, sostenuta dalla
regione, secondo cui ogni intervento sul tributo che, o per modificazione delle
aliquote o per variazioni delle agevolazioni previste, comporti un minor
gettito per le Regioni, dovrebbe essere accompagnato da misure compensative a ristoro della finanza regionale. Secondo il
giudice delle leggi, la manovra fiscale dev’essere considerata nel suo insieme
e non è quindi possibile, sotto questo profilo, valutare singole disposizioni.
La tesi è stata ribadita in occasione di un altro giudizio (sentenza n. 155 del
2006) relativo a disposizioni dell’articolo 1, commi 347 e seguenti, della
legge n. 311 del 2004 (legge finanziaria per il 2005) direttamente o
indirettamente incidenti sulla determinazione della base imponibile dell’IRAP.
Nel
corso degli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha
proseguito nell’opera di enucleazione del significato delle nuove disposizioni,
al fine di precisarne la collocazione nel sistema giuridico e di determinare
l’ambito di azione della potestà legislativa regionale la quale, ai sensi
dell’articolo 119 della Costituzione, deve espletarsi in armonia con la
Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario.
In
merito appare significativo segnalare quanto disposto con la sentenza n. 102
del 2008, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’imposta regionale sulle plusvalenze delle
seconde case ad uso turistico (prevista dall’articolo 2 della legge della
Regione Sardegna n. 4 del 2006 e successive modifiche) e dell’imposta regionale sulle seconde case ad uso
turistico (prevista dall’art. 3 della medesima legge regionale e successive
modifiche).
La
Corte ha rilevato “la contraddizione fra la ratio ispiratrice del tributo
regionale censurato e la scelta di politica fiscale del legislatore statale di
limitare la tassazione alle sole plusvalenze realizzate nel quinquennio”,
peraltro “accentuata dal rilievo che la norma denunciata, in entrambe le sue
formulazioni, realizza un'ingiustificata discriminazione tra i soggetti aventi
residenza anagrafica all'estero e i soggetti fiscalmente non domiciliati in
Sardegna aventi residenza anagrafica in Italia, violando così gli artt. 3 e 53 Cost.”.
.
L’art.
117, terzo comma, Cost. include la promozione e
organizzazione di attività culturali tra le materie di
legislazione concorrente.
Pertanto, nell’assetto attuale lo Stato può emanare i
“principi fondamentali” concernenti i due contenuti indicati (promozione e
organizzazione), spettando poi alle regioni la disciplina di dettaglio sugli
stessi aspetti.
|
Nel quadro delineato
dall’art. 117 della Costituzione, che ha affidato la promozione
e organizzazione di attività culturali alla competenza legislativa concorrente, la Corte
costituzionale, oltre ad evidenziare che lo sviluppo della cultura
corrisponde a finalità di interesse generale, “il cui perseguimento fa capo
alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.)”
(sentenza n. 307/2004), ha chiarito che le attività culturali riguardano
tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura
e, dunque, anche le attività di sostegno degli spettacoli (sentenza n.
255/2004) e quelle di sostegno delle attività cinematografiche (sentenza n.
285/2005). Con una
più recente sentenza (n. 153/2011) la Corte ha peraltro sancito la competenza
statale in materia di interventi di riorganizzazione del settore delle
fondazioni lirico-sinfoniche, che afferisce alla materia «ordinamento e
organizzazione amministrativa […] degli enti pubblici nazionali». |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Nel assetto delineato dal nuovo art. 117, a seguito della
soppressione della competenza concorrente, è attribuita allo Stato la
competenza legislativa esclusiva per la definizione delle disposizioni generali
e comuni sulle attività culturali (art. 117, secondo comma, lett.
s)) e alle regioni la competenza
legislativa per la disciplina, per quanto di interesse regionale, delle
attività culturali. |
Con
riferimento al riparto di competenze sopra delineato, si ricorda innanzitutto,
che nella sentenza n. 307/2004 la Corte costituzionale ha affermato che lo sviluppo della cultura corrisponde a finalità di interesse generale, “il cui
perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 Cost.), anche al di là del riparto di competenze per
materia fra Stato e regioni”.
Più
nello specifico, nella sentenza n. 255/2004, la Corte, evidenziato che le “attività culturali” di cui all’art.
117, terzo comma, Cost., “riguardano tutte le attività riconducibili alla
elaborazione e diffusione della cultura”, ha sottolineato che, anche se
nell’elenco delle materie di cui all’art. 117 della Costituzione non si fa
espressa menzione delle attività di
sostegno degli spettacoli, da ciò non può dedursi che tale settore sarebbe
affidato alla esclusiva responsabilità delle regioni, dal momento che la
materia concernente la “promozione e organizzazione di attività culturali”,
affidata alla legislazione concorrente di Stato e regioni, ricomprende senza
dubbio anche le azioni di sostegno degli spettacoli.
In
particolare, la Corte ha esaminato la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 del D.L. 24/2003 (L. 82/2003) che, in
attesa che la legge di definizione dei principi fondamentali di cui all’art.
117 della Costituzione definisse gli ambiti di competenza dello Stato, ha
stabilito che i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle
attività dello spettacolo, previsti dalla L. 163/2005, e le aliquote di
ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo, fossero indicati
annualmente con decreti del Ministro per i beni e le attività culturali non
aventi natura regolamentare: pur confermando la legittimità della norma, in
ragione del suo carattere transitorio, la Corte ha in quella circostanza
segnalato l’esigenza di prevedere opportuni strumenti di collaborazione con le
autonomie regionali[24].
La
posizione è stata ribadita nella sentenza n.
285/2005, in riferimento al sostegno
delle attività cinematografiche. Nel caso specifico, la Corte, evidenziando
“come il livello di governo regionale – e, a maggior ragione, quello infraregionale – appaiano strutturalmente inadeguati a
soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di
disciplina e sostegno del settore cinematografico”[25], ha ritenuto
legittimo, sulla base della cosiddetta “chiamata in sussidiarietà”, un
intervento dello Stato che abbia ad oggetto sia funzioni amministrative che non
possono essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia la potestà
normativa per l’organizzazione e la disciplina di tali funzioni. Al contempo,
ha ritenuto indispensabile ricondurre ai moduli della concertazione necessaria
e paritaria fra organi statali e Conferenza Stato-Regioni tutti i numerosi
poteri di tipo normativo o programmatorio caratterizzanti il nuovo sistema di
sostegno ed agevolazione delle attività cinematografiche. Sono state, pertanto,
dichiarate costituzionalmente illegittime diverse disposizioni della L.
28/2004, di riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche,
nella parte in cui non prevedevano l’intesa con la Conferenza Stato-regioni.
Con sentenza
n. 153/2011, la Corte costituzionale ha, invece, sancito la competenza statale
in materia di interventi per il settore
delle fondazioni lirico-sinfoniche, rigettando la tesi della regione
Toscana secondo la quale l’art. 1 del D.L. 64/2010 (L. 100/2010), recante
disposizioni per il riordino di tale settore, essendo riconducibile alla
materia “promozione e organizzazione di attività culturali”, di competenza
concorrente, era stato emanato in violazione del terzo comma dell’art. 117 Cost.
In
particolare, la Corte ha ritenuto che l’art. 1 del D.L.
afferisce alla materia ordinamento e
organizzazione amministrativa […] degli enti pubblici nazionali, di competenza
esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lett.
g), Cost.,
in virtù della qualificazione in senso
pubblicistico degli enti lirici, ancorché privatizzati[26]. Ha, inoltre, ritenuto che alla natura pubblica di tali enti
si accompagni il loro carattere
nazionale, in considerazione del
fatto che le finalità che essi perseguono, ossia la diffusione dell'arte
musicale, la formazione professionale dei quadri artistici e l'educazione
musicale della collettività, travalicano largamente i confini regionali e si
proiettano in una dimensione estesa a tutto il territorio nazionale.
Ha,
inoltre, rilevato che “l’assoggettamento - «per quanto non espressamente
previsto dal presente decreto» (art. 4 del D.Lgs. n.
367 del 1996) - alla disciplina del codice civile e delle disposizioni di attuazione
del medesimo, colloca per questo aspetto residuo le fondazioni in esame, munite
di personalità giuridica di diritto privato pur svolgendo funzioni di sicuro
rilevo pubblicistico, all'interno dell’ordinamento civile”, materia anch’essa rientrante nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.
Nel riparto di competenze legislative derivante dal
titolo V attualmente vigente, la materia casse di risparmio,
casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito
fondiario e agrario a carattere regionale
è rimessa alla competenza concorrente tra Stato e Regioni.
|
Sul punto non si
rinviene giurisprudenza costituzionale; si segnala peraltro che la Corte
costituzionale ha stabilito che la disciplina delle fondazioni di origine
bancaria è estranea alla materia concorrente “casse di risparmio, casse
rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per essere ricondotta
invece a quella, statale, dell’ordinamento civile (sentenze nn. 300 del 2003 e 438 del 2007; si ricorda, peraltro,
che una delle prime sentenze nel rapporto tra materia bancaria ed ordinamento
civile è la n. 72/1965). |
Si
ricorda, preliminarmente, che il Testo unico delle leggi sull'ordinamento delle
Casse rurali e artigiane è stato abrogato dall'art. 116, del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, (Testo unico bancario –
TUB). Ai sensi dell’articolo 14 TUB possono esercitare attività bancaria le
società per azioni o le società cooperativa per azioni a responsabilità
limitata. Queste ultime – che hanno di fatto assorbito le casse rurali e
artigiane - possono assumere la forma di banche popolari o banche di credito
cooperativo (articolo 28 TUB).
A
seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, il D.Lgs.
18 aprile 2006, n. 171 ha individuato i principi
fondamentali in materia di casse di risparmio, casse rurali, aziende di
credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere
regionale. In primo luogo, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, tali istituti
sono definiti banche a carattere
regionale.
Ai
sensi dell'articolo 2, la potestà legislativa regionale concorrente in materia
bancaria si esercita nei confronti delle banche a carattere regionale.
Sono
quindi definite le caratteristiche
di una banca a carattere regionale: l'ubicazione della sede e delle succursali
nel territorio di una stessa regione, la localizzazione regionale della sua
operatività, nonché, ove la banca appartenga a un gruppo bancario, la
circostanza che anche le altre componenti bancarie del gruppo e la capogruppo
presentino carattere regionale ai sensi del presente articolo. L'esercizio di
una marginale operatività al di fuori del territorio della regione non fa venir
meno il carattere regionale della banca. La localizzazione regionale
dell'operatività è determinata dalla Banca d'Italia, in conformità ai criteri
deliberati dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio
(CICR), che tengano conto delle caratteristiche dell'attività della banca e
dell'effettivo legame dell'operatività aziendale con il territorio regionale.
Le
regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia di banche a
carattere regionale nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario, nonché dalle norme e dagli obblighi
internazionali e nei limiti dei principi fondamentali individuati dal decreto
(articolo 3). Ai sensi dell'articolo 159 del TUB le valutazioni di vigilanza
sono riservate alla Banca d'Italia.
La legge regionale può, in particolare,
disciplinare l'istituzione di un albo delle banche a carattere regionale;
l'adozione, previo parere vincolante della Banca d'Italia a fini di vigilanza,
dei provvedimenti relativi all'autorizzazione all'attività bancaria, alle
modifiche statutarie, ivi comprese quelle dipendenti da trasformazioni, fusioni
e scissioni; le modalità di verifica dei requisiti di esperienza e onorabilità
degli esponenti aziendali.
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Nel nuovo articolo 117 la competenza concorrente in
materia di casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a
carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere
regionale non è più contemplata. |
La
Corte costituzionale ha stabilito, avuto riguardo alla evoluzione legislativa,
che la disciplina delle fondazioni di origine bancaria è ritenuta estranea alla
materia concorrente “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a
carattere regionale”, per essere ricondotta invece a quella, statale,
dell’ordinamento civile (sentenze n. 300 del 2003 e n. 438 del 2007; si
ricorda, peraltro, che una delle prime sentenze nel rapporto tra materia
bancaria ed ordinamento civile è la n. 72/1965).
In base all’art. 117 attualmente vigente, il turismo, materia non
menzionata nella competenza esclusiva statale e nella competenza concorrente,
rientra nell’ambito della competenza residuale delle regioni.
|
Il turismo rientra dunque tra le materie “residuali” (art. 117, quarto
comma), in riferimento alle quali le Regioni non sono più soggette ai limiti
dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali. Questo mutamento del
titolo competenziale delle Regioni è stato
confermato in più occasioni dalla Corte costituzionale. Nonostante ciò per
numerosi e rilevanti profili della disciplina del turismo, il riferimento
alla legislazione statale appare tuttora preponderante. In base alla giurisprudenza della Corte costituzionale,
non è esclusa la possibilità per la legge di attribuire funzioni legislative
al livello statale e di regolarne l’esercizio, vista l’importanza del settore
turistico per l’economia nazionale. Secondo la Corte la chiamata in
sussidiarietà a livello centrale è legittima soltanto se l’intervento statale
sia giustificato nel senso che, a causa della frammentazione dell’offerta
turistica italiana, sia doverosa un’attività promozionale unitaria; d’altra
parte, l’intervento deve essere anche proporzionato nel senso che lo Stato
può attrarre su di sé non la generale attività di coordinamento complessivo delle
politiche di indirizzo di tutto il settore turistico, bensì soltanto ciò che
è necessario per soddisfare l’esigenza di fornire al resto del mondo
un’immagine unitaria. Infine, lo Stato deve prevedere un adeguato
coinvolgimento delle Regioni, in quanto la materia turismo, appartenendo a
tali enti territoriali, deve essere trattata dallo Stato stesso con
atteggiamento lealmente collaborativo. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Nel nuovo assetto costituzionale invece, le disposizioni
generali e comuni sul turismo sono attribuite alla
competenza esclusiva statale, mentre spetta alle regioni la competenza in
materia di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo. |
In
base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonostante la materia del
turismo appartenga «alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai
sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenza n.
94 del 2008, n. 214 e n. 90 del 2006), non è esclusa la possibilità «per la
legge di attribuire funzioni legislative al livello statale e di regolarne
l’esercizio», vista l’importanza del settore turistico per l’economia
nazionale. Come ha rilevato la Corte «la chiamata in sussidiarietà a livello centrale
è legittima soltanto se l’intervento statale sia giustificato nel senso che, a
causa della frammentazione dell’offerta turistica italiana, sia doverosa un’attività promozionale unitaria;
d’altra parte, l’intervento deve essere anche proporzionato nel senso che lo Stato può attrarre su di sé non la
generale attività di coordinamento complessivo delle politiche di indirizzo di
tutto il settore turistico, bensì soltanto ciò che è necessario per soddisfare
l’esigenza di fornire al resto del mondo un’immagine unitaria. Infine, lo Stato
deve prevedere il coinvolgimento delle
Regioni, non fosse altro perché la materia turismo, appartenendo oramai a
tali enti territoriali, deve essere trattata dallo Stato stesso con
atteggiamento lealmente collaborativo (sentenza n. 214 del 2006, punti 8-9
diritto; sentenza n. 76 del 2009, punti 2-3)».
Il
riconoscimento al legislatore statale del titolo all'intervento, attraverso il
meccanismo dell'attrazione in sussidiarietà trova ulteriore manifesto nella
sentenza n. 80 del 2012: «Lo Stato, in taluni casi, è legittimato ad
intervenire nella materia del turismo; ciò avviene in relazione alle materie
cosiddette trasversali, quali la tutela della concorrenza, la determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, il coordinamento informativo statistico e informatico, ovvero quando
talune funzioni amministrative non possano essere efficacemente svolte a
livello regionale. In questo secondo caso, lo Stato avoca a sé l’esercizio di
dette funzioni amministrative, congiuntamente alle corrispondenti funzioni
legislative, secondo lo schema della cosiddetta chiamata in sussidiarietà.
Anche
nella materia del turismo è dunque possibile che si realizzi tale meccanismo,
come la giurisprudenza costituzionale ha affermato nelle sentenze n. 76 del
2009, n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006, ma ciò deve avvenire secondo lo
‘statuto’ elaborato dalla stessa Corte nelle note sentenze n. 303 del 2003 e n.
6 del 2004. Infine, lo Stato può disciplinare ambiti materiali che si pongono
in stretta correlazione con quello del turismo o che hanno una indubbia
influenza sulle attività che si riferiscono ad esso, come ad esempio nel caso
delle professioni o dell’ordinamento civile. In sostanza, il
riconoscimento della competenza legislativa residuale regionale nella materia
del turismo non esclude la possibilità, per lo Stato, di incidere con proprie
discipline legislative su tale settore o su settori contigui.».
Si
deve inoltre segnalare la ricorrente affermazione, nella giurisprudenza della
Corte, della necessità di un intervento
unitario del legislatore statale in materia di turismo in considerazione
delle esigenze di valorizzare tale settore (fondamentale risorsa economica del
Paese) a livello interno e internazionale e di ricondurre ad unità la grande
varietà dell’offerta turistica italiana (sentenze n. 76/2009, n. 88/2007, n.
214/2006).
In
questo quadro, sono stati ritenuti assistiti da un’effettiva esigenza di
esercizio unitario a livello statale di funzioni amministrative, gli interventi
legislativi dello Stato che prevedevano:
· l’attribuzione al
Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo il compito di
assicurare il supporto tecnico-specialistico in favore di soggetti nazionali ed
internazionali che intendono promuovere progetti di investimenti diretti a
riqualificare il prodotto turistico nazionale (sentenza n. 76/2009);
· la previsione di
stanziamenti diretto a rafforzare le capacità competitive delle strutture
turistiche nazionali (sentenza n. 94/2008, che ha ritenuto tuttavia necessaria
la decreto attuativo);
· l’adozione, da parte
dello Stato, di un programma per lo sviluppo dell’agriturismo (sentenza n.
339/2007: la norma statale dichiarata legittima prevede l’intesa in sede di
Conferenza Stato-Regioni);
· la disciplina relativa
alla realizzazione di insediamenti turistici di qualità di interesse nazionale
(sentenza n. 88/2007, che ha richiesto la necessità dell’intesa con le Regioni
con riferimento alla fissazione dei requisiti che debbono essere posseduti dai
soggetti promotori);
· riforma di un ente
nazionale (ENIT-Agenzia nazionale del turismo) avente compiti promozionali
dell’offerta turistica italiana sulla base di un’immagine unitaria della
stessa. Con la sentenza 214/2006, la Corte chiamata a pronunciarsi sulle
disposizioni legislative concernenti la riorganizzazione dell’ENIT non censura
il legislatore statale sia perché la nomina dei componenti di tutti gli organi
dell’ente è effettuata previa intesa (condizione della leale collaborazione)
con la Conferenza Stato-Regioni (e il consiglio di amministrazione ha una
rappresentanza regionale superiore a quella statale), sia per il compito
affidato all’ente, che consiste (come osserva la Corte, p. 9 cons. dir.) esclusivamente nella promozione dell’immagine
turistica italiana in senso unitario (condizione della proporzionalità).
Sono
state ritenute invece illegittime (in quanto invasive della competenza
regionale), norme statali che regolavano:
· l’istituzione di
organismi centrali senza alcun coinvolgimento delle Regioni (sentenza n.
339/2007, in riferimento all’istituzione dell’Osservatorio nazionale per
l’agriturismo) ovvero con un coinvolgimento insufficiente in termini di
componenti di provenienza regionale (sentenza n. 214/2006, in riferimento
all’istituzione del Comitato nazionale per il turismo);
· attività amministrative
affidate agli uffici regionali secondo modalità proprie dell’avvalimento
d’ufficio (sentenza n. 88/2007);
· in materia di
agriturismo (sentenza n. 339/2007): i criteri di prevalenza dell’attività
agricola rispetto a quella turistica, i criteri che l’azienda agrituristica
deve rispettare nella somministrazione di pasti e bevande, il procedimento
amministrativo che consente l’avvio dell’esercizio di un agriturismo, le
comunicazioni circa la sospensione dell’attività.
Inoltre,
con la sopra citata sentenza n. 80/2012 la Corte ha dichiarato l’illegittimità
di numerose disposizioni del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79 (c.d. Codice del turismo), in quanto volte
all’accentramento di funzioni rientranti nella competenza legislativa residuale
delle Regioni.
In
particolare sono state dichiarate illegittime:
• la classificazione delle strutture ricettive;
• classificazione degli standard qualitativi
delle imprese turistiche ricettive;
• la classificazione e disciplina delle
strutture ricettive alberghiere ed extralberghiere;
• la classificazione e disciplina delle
strutture ricettive all'aperto;
• la definizione delle strutture ricettive di
mero supporto;
• la disciplina degli standard qualitativi dei
servizi e delle dotazioni per la classificazione delle strutture ricettive;
• norme sulla semplificazione degli adempimenti
amministrativi delle strutture turistico-ricettive;
• le «definizioni» in materia di agenzie di
viaggio e turismo;
• la disciplina dei procedimenti amministrativi
in materia di turismo;
• la definizione e disciplina dei «sistemi
turistici locali», riferendosi a «contesti turistici omogenei o integrati,
comprendenti ambiti territoriali appartenenti anche a regioni diverse, caratterizzati
dall'offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni
turistiche, compresi i prodotti tipici dell'agricoltura e dell'artigianato
locale, o dalla presenza diffusa di imprese singole o associate;
• la disciplina delle agevolazioni in favore
dei turisti con animali domestici al seguito;
• la disciplina delle attività di assistenza al
turista;
• la norma che disponendo che l'apertura di
filiali, succursali e altri punti vendita di agenzie, già legittimate ad
operare, non richiede la nomina di un direttore tecnico per ciascun punto di
erogazione del servizio, disciplina un aspetto di dettaglio nella materia
"turismo", attribuita alla competenza legislativa residuale delle
Regioni.
Nell’attuale
sistema di riparto delle competenze, la materia servizi sociali (talora definita anche
come politiche sociali), in quanto
non nominata né tra gli ambiti di competenza esclusiva statale né tra quelli di
competenza concorrente, è pacificamente attribuita dalla giurisprudenza
costituzionale alla competenza residuale regionale (cfr., ex plurimis, sentenze n. 296 del 2012, n.
61 del 2011, n. 121 del 2010, n. 10 del 2010, n. 168 del 2008, n. 166 del 2008,
n. 50 del 2008 e n. 300 del 2005).
|
La competenza residuale regionale in materia di servizi
sociali è destinata ad
intrecciarsi con la competenza esclusiva statale in materia di
“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale”. I
rapporti tra i due ambiti materiali sono messi a fuoco nella sentenza della
Corte costituzionale n. 297 del 2012. Secondo la Corte, l’art. 117, secondo
comma, lettera m), Cost., che sancisce la
competenza statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni, pone, in tema di livelli essenziali di assistenza
socio-assistenziale (LIVEAS), una riserva di legge che deve ritenersi
rinforzata (in quanto vincola il legislatore ad apprestare una garanzia
uniforme sul territorio nazionale) e relativa (in quanto, considerata la
complessità tecnica della determinazione dei livelli delle prestazioni, essi
possono essere stabiliti anche in via amministrativa, purché in base alla
legge). La determinazione dei LIVEAS non esclude peraltro che le Regioni e
gli enti locali possano garantire, nell’àmbito delle proprie competenze,
livelli ulteriori di tutela (sentenze n. 207 e n. 10 del 2010; n. 322 e n.
200 del 2009; n. 387 del 2007; n. 248 del 2006). La
forte incidenza della competenza in materia di determinazione dei livelli
essenziali sull’esercizio delle competenze legislative ed amministrative
delle regioni (sentenza n. 8 del 2011; n. 88 del 2003) è stata talora ritenuta
tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale
collaborazione tra Stato e Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e
n. 121 del 2010; n. 322 e n. 124 del 2009; n. 162 del 2007; n. 134 del 2006;
n. 88 del 2003), salvo che ricorrano ipotesi eccezionali in cui la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni «non permetta, da
sola, di realizzare utilmente la finalità […] di protezione delle situazioni
di estrema debolezza della persona umana», tanto da legittimare lo Stato a
disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di
leale collaborazione con le Regioni (sentenza n. 10 del 2010, a proposito
della social card, ricondotta ai LEP e messa in connessione con gli artt. 2 e
3, secondo comma, Cost.). Proprio in ragione di
tale impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel
determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza
sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni
(nella forma dell’«intesa») a salvaguardia delle competenze di queste. La specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS
introdotta dal legislatore statale dopo la riforma del titolo V del 2001
(art. 46, comma 3, legge n. 289/2002) non ha peraltro mai trovato
applicazione. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Tra le materie di competenza regionale, il nuovo terzo
comma dell’art. 117 individua espressamente la materia programmazione ed
organizzazione dei servizi sociali. |
All'indomani
dell'intervento costituzionale del 2001, sono state assegnate alle Regioni le
competenze residuali e concorrenti, rispettivamente, per le materie dei servizi
sociali e della tutela della salute mentre allo Stato è stata assegnata la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, (articolo 117, secondo
comma, lettera m) della
Costituzione), quale competenza esclusiva e trasversale idonea ad investire una
pluralità di materie che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e
sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli
aventi diritto (sentenza n. 50/2008, sentenza
n. 322/2009).
Rispetto
alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 282/2002, ha chiarito che “non si
tratta di una materia in senso stretto, ma di una competenza del legislatore
statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il
legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti,
sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come
contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa
limitarle o condizionarle”. Successivamente, con la sentenza n. 134/2006, la Corte costituzionale
ha chiarito che i livelli essenziali si impongono anche alle Regioni speciali.
Da
ciò consegue che lo Stato, quando alla Regione spetta la competenza legislativa
residuale, come avviene per i servizi sociali, non ha alcuna competenza
legislativa, ad esclusione della determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni, che tuttavia devono essere stabiliti in accordo con le autonomia
territoriali. Questa peculiare competenza comporta infatti “una forte incidenza
sull'esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni” (sentenza n. 8/2011 sull’aggiornamento
del Prontuario terapeutico regionale), tale da esigere che il suo esercizio si
svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione, salvo che
ricorrano ipotesi eccezionali, in cui la determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni “non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità [...]
di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana”, tanto
da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali,
senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza n. 10/2010). In particolare,
con la sentenza 10/2010 sulla social card,
la Consulta ribadisce che la restrizione dell’autonomia legislativa delle
Regioni è giustificata solo per assicurare un livello uniforme di godimento dei
diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione (sentenza n. 387/2007). Allo stesso tempo, la
Corte sottolinea che la ratio di tale
titolo di competenza è riscontrabile anche nella previsione e nella diretta
erogazione di una determinata provvidenza/prestazione, nel caso in cui questa
assicuri il soddisfacimento di un interesse ritenuto meritevole di tutela, come
nel caso della social card. La Corte
ricorda che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema
debolezza della persona umana, benché incida sulla materia dei servizi sociali
e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita
anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art.
117, secondo comma, lett. m), Cost. Per la Consulta, il complesso
di queste norme costituzionali permette di ricondurre tra i “diritti sociali”
di cui deve farsi carico il legislatore nazionale il diritto a conseguire le
prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in
particolare, alimentare – e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le
caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una
tale previsione possa pregiudicarlo.
Proprio
in ragione dell’impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore
statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di
assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle
Regioni (nella forma dell’Intesa) a salvaguardia delle competenze degli enti
territoriali (sentenza n. 297/2012
relativa alle modalità di determinazione e campi di applicazione dell’ISEE[27]).
Come
per altri settori di intervento delle politiche legislative di natura
concorrente e residuale, anche per i servizi sociali, il finanziamento previsto
dalla legge incontra un preciso limite che il legislatore statale deve
rispettare sulla modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema
delle autonomie territoriali. Non sono, infatti, consentiti finanziamenti a
destinazione vincolata in materie di competenza regionale concorrente ovvero
residuale, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma
pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni
e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi
governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli
ambiti materiali di propria competenza (sentenza
n. 423/2004).
Le
sentenze citate sottolineano, con evidenza, all’indomani della riforma del
Titolo V della Costituzione, una difficoltà dello Stato e delle Regioni a
legiferare sulla materia dei servizi sociali, soprattutto, per la perdurante
assenza della previsione dei livelli essenziali di assistenza (LEP/LIVEAS), la cui definizione è rimasta
ferma a quella generica contenuta nella legge quadro 328/2000.
L’esigenza di una chiara definizione dei livelli essenziali per le prestazioni
sociali appare tanto più opportuna dopo la riforma in senso federalista della
legge delega 42/2009 che delinea un sistema basato sulla distinzione fra spese
essenziali, destinate a finanziare i livelli essenziali delle prestazioni, e
per le quali è previsto il finanziamento integrale sulla base del fabbisogno
standard, e spese libere, svincolate da un sistema di riferimento vincolante.
D’altra
parte il procedimento di adozione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria
è stato oggetto della sentenza n.
88/2003 in materia di servizi per le tossicodipendenze, dove viene giudicato
incostituzionale il tentativo di imporre nuovi vincoli alle regioni con un
semplice decreto del Ministro della salute. La Corte costituzionale ricorda che
dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della seconda parte della
Costituzione, la competenza affidata allo Stato di definizione dei livelli
essenziali rischiando di incidere sulle competenze regionali richiede, da parte
dello Stato stesso, l’uso dello strumento legislativo, e la previsione del
coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome attraverso la previa
intesa con il Governo, da conseguire in sede di Conferenza Stato-regioni.
Si
ricorda infine che, nella giurisprudenza costituzionale, la tutela
dell’uguaglianza si estende anche al riconoscimento delle prestazioni di
assistenza sociale agli stranieri presenti sul territorio nazionale (sentenze nn. 306/2008, 187/2010 sull’assegno mensile di invalidità,
269/2010, 40/2011[28] e 61/2011).
In
questa sezione sono analizzate le materie, finora innominate nell’ambito del
Titolo V della Costituzione, che il progetto di riforma attribuisce alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato o a quella delle regioni.
Attualmente
la materia mercati assicurativi, non espressamente
prevista dall’articolo 117 Cost., sembrerebbe
riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato, che comprende le materie tutela del risparmio e
mercati finanziari
e tutela
della concorrenza, nonché la materia ordinamento civile (art. 117, secondo
comma, lettere e) ed l), Cost.).
|
Nella sua
giurisprudenza, la Corte costituzionale non ha mai affrontato specificamente
la materia mercati assicurativi. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Viene esplicitata la competenza esclusiva statale in
materia di mercati assicurativi. |
Nella
sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha affrontato solo il profilo della
disciplina dell'assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore,
riconducendola alla materia di competenza statale esclusiva ordinamento civile (sentenza n. 428 del
2004).
Anche
il Consiglio di Stato - nel parere reso nell’adunanza del 14 febbraio 2005
dalla sezione consultiva degli atti normativi in merito al codice delle
assicurazioni - ha rilevato come la materia oggetto del codice sia ricompresa
in competenze legislative esclusive statali ed in particolar modo in quella
dell’ordinamento civile di cui all’art. 117 lett. l), Cost.;
alle norme generali del contratto di assicurazione e di riassicurazione,
infatti, è dedicato il Capo XX del titolo III del IV libro del vigente Codice
civile (artt. 1882-1932).
Attualmente
la materia procedimento amministrativo non è prevista nel
testo dell’articolo 117.
|
Nella giurisprudenza
costituzionale sulla materia è stato posto in evidenza come il procedimento
amministrativo non
possa considerarsi una vera e propria materia, atteso che lo stesso, in
relazione agli aspetti di volta in volta disciplinati, può essere ricondotto
a più ambiti materiali di competenza statale o regionale entro i quali la
disciplina statale regola in modo uniforme i diritti dei cittadini nei
confronti delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 401/2007). In una prima fase, la giurisprudenza
costituzionale ha riguardato in modo particolare l’applicazione del principio
di leale collaborazione con riguardo ai singoli procedimenti amministrativi
incidenti su materie competenza dello Stato e/o delle Regioni. Sotto altro
profilo, riguardo alle norme istitutive delle Autorità nazionali di
regolazione, la Corte costituzionale ha ritenuto che con le stesse non
vengono incise le competenze di amministrazione attiva o di controllo e non
si altera la ripartizione dell'esercizio di queste ultime tra Stato, Regioni
ed enti locali, alla luce della funzione di garanzia svolta da tali soggetti. La
giurisprudenza costituzionale più recente ha, in diverse occasioni,
ricondotto alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di
“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” concernenti i
diritti civili e sociali anche norme di semplificazione amministrativa, quali
quelle sull'introduzione della segnalazione certificata di inizio attività,
ritenendo che anche l’attività amministrativa possa assurgere alla qualifica
di ‘prestazione’ - quindi, anche i procedimenti amministrativi in genere -
della quale lo Stato è competente a fissare un ‘livello essenziale’ a fronte
di una specifica pretesa dei singoli. Ne deriva, secondo l’impostazione
seguita dalla Corte, che quando il legislatore statale intende dettare regole
del procedimento amministrativo, valide in ogni contesto geografico della
Repubblica, queste, adeguandosi a canoni di proporzionalità e adeguatezza, si
sovrappongono al normale riparto di competenze contenuto nel Titolo V della
Parte II della Costituzione. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La materia del procedimento
amministrativo è attribuita alla
competenza esclusiva statale limitatamente alle norme
tese ad assicurarne l'uniformità sul territorio nazionale. |
In via generale, la Corte costituzionale (sentenza n. 401
del 2007) si è espressa nel senso che il procedimento
amministrativo non sia "una vera e propria materia, atteso che lo
stesso, in relazione agli aspetti di volta in volta disciplinati, può essere
ricondotto a più ambiti materiali di competenza statale o regionale (sentenza n.
465 del 1991), entro i quali la disciplina statale regola in modo uniforme i
diritti dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
La
Corte ha poi esaminato numerosi casi di singoli procedimenti amministrativi in
relazione ai quali lo Stato o le Regioni hanno lamentato lesioni delle
rispettive prerogative, ivi compresi alcuni in cui sono state attivate
procedure d’intesa ritenute però inadeguate dai ricorrenti.
La
sentenza n. 39/2013 ha dichiarato illegittimo
che lo Stato, pur in considerazione di gravi esigenze di tutela della
sicurezza, della salute, dell’ambiente o dei beni culturali o per evitare un
grave danno all’Erario, adotti unilateralmente un atto amministrativo incidente in materie di competenza regionale
non avendo raggiunto la necessaria
intesa con la Regione interessata.
La
Corte ha osservato che “il rilievo nazionale degli interessi menzionati [...]
non è da solo sufficiente a rendere legittimo il superamento dei limiti alla
potestà legislativa dello Stato e delle Regioni fissati dal riparto
costituzionale delle competenze”. Prima ancora, la sentenza n. 303 del 2003
aveva affermato che l’accentramento dell’esercizio di funzioni amministrative
da parte dello Stato può superare il vaglio di legittimità costituzionale “solo
in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e
di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte
in base al principio di lealtà”. Devono quindi essere previste procedure di
reiterazione delle trattative, con l’impiego di specifici strumenti di
mediazione, ai quali possono aggiungersi ulteriori garanzie di bilateralità.
Tuttavia,
quando i dissensi tra le parti sono talmente radicali da non lasciare
intravedere “un possibile punto di incontro, pur a seguito di ulteriori
trattative”, allora “obbligo di cooperare non significa affatto obbligo di
astenersi dal provvedere”, puntualizza la sentenza n. 219/2013. La sentenza n. 239/2013
aggiunge che “una condotta meramente passiva che si traduca nell’assenza di
ogni forma di collaborazione, si risolve in una inerzia idonea a creare un vero
e proprio blocco procedimentale con indubbio pregiudizio per il principio di
leale collaborazione e per il buon andamento dell’azione amministrativa”.
Il
principio di leale collaborazione
non si applica però “allorché lo Stato eserciti la propria competenza
legislativa esclusiva” (sentenza n. 8/2013 e similmente, ex plurimis, n. 8/2005). Se invece, in
relazione ad un medesimo oggetto, un titolo di competenza esclusiva dello Stato
si intreccia con materie di competenza regionale, le istanze della leale
collaborazione devono essere soddisfatte e, a tal fine, la sentenza n. 62/2013
reputa sufficiente la previsione del parere della Conferenza unificata
Stato-Regioni “come momento partecipativo”.
Nei
casi di spostamento di competenze amministrative a seguito di attrazione in
sussidiarietà, la Corte ha escluso che possa essere previsto un potere
sostitutivo, ritenendo che un atto unilaterale dello Stato non rappresenti
leale collaborazione, necessaria in tale evenienza (ex multis, sentenze n. 165 del 2011 e n.
383 del 2005).
Al
contempo, riguardo alle Autorità nazionali di regolazione, la Corte
costituzionale ha rilevato come esse abbiano una funzione di garanzia (sentenza
n. 88/2009) e perciò l'istituzione di una di esse non incide sulle competenze di amministrazione attiva o di
controllo e non altera la ripartizione dell'esercizio di queste ultime tra
Stato, Regioni ed enti locali (sentenza n. 41/2013).
Più
di recente, con le sentenze n. 203 e n. 207 del 2012, n. 62 del 2013 e n. 121
del 2014, la Corte costituzionale ha ricondotto alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato in materia di “determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni” concernenti i diritti civili e
sociali anche norme di semplificazione amministrativa, in quanto “anche
l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di ‘prestazione’ - quindi,
anche i procedimenti amministrativi
in genere - della quale lo Stato è competente a fissare un ‘livello essenziale’
a fronte di una specifica pretesa di individui, imprese, operatori economici
ed, in generale, di soggetti privati”.
Sviluppando
tale impostazione la Corte ha ribadito come la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non
costituisca una «materia» in senso stretto, quanto una competenza del
legislatore statale «idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali
il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a
tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite,
come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale
possa limitarle o condizionarle» (sentenze n. 322 del 2009 e n. 282 del 2002).
Ad
avviso della Corte, deve dunque riconoscersi che anche con la disciplina di
semplificazione riguardante la segnalazione di inizio attività il legislatore
statale ha voluto dettare regole del procedimento
amministrativo, valide in ogni
contesto geografico della Repubblica, le quali, adeguandosi a canoni di
proporzionalità e adeguatezza, si
sovrappongono al normale riparto di competenze contenuto nel Titolo V della
Parte II della Costituzione (sentenza n. 207 del 2012). Tale disciplina è
infatti diretta ad impedire che le funzioni amministrative risultino
inutilmente gravose per i soggetti amministrati ed è volta a semplificare le
procedure in un’ottica di bilanciamento tra l’interesse generale e l’interesse
particolare.
Nel
caso di specie, la normativa esaminata dalla Corte prevedeva che gli
interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale,
potessero svolgere temporaneamente
l’attività di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre,
fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali
straordinari, mediante una mera segnalazione di inizio attività priva di
dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n.
241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi), e anche in assenza del possesso dei
requisiti previsti dall’art. 71, comma 6, del D.Lgs.
n. 59 del 2010.
La
Corte ha dunque ritenuto che si fosse in presenza di un atto da collocare
all’inizio della fase procedimentale, la quale è strutturata secondo un modello
ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di
semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare
l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.),
tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della
pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che
autorizzano l’iniziativa medesima (sentenza n. 203 del 2012).
Nella
citata sentenza n. 62/2013 la Corte rileva inoltre che “la situazione
eccezionale di crisi economico-sociale ha ampliato i confini entro i quali lo
Stato deve esercitare la [sua] competenza legislativa esclusiva”. Nella stessa
logica, le “imperiose necessità sociali, indotte anche dall'attuale grave crisi
economica nazionale e internazionale”, sono state ritenute “giustificazioni
sufficienti per legittimare l'intervento del legislatore statale limitativo
della competenza residuale delle Regioni” dalla sentenza n. 121/2010,
orientamento che è stato confermato dalla sentenza n. 273/2013.
La
disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche
è materia non espressamente prevista dal testo costituzionale vigente.
|
Nel vigente assetto
costituzionale, pacifica è sempre stata l’attribuzione alla competenza
esclusiva dello Stato della disciplina del pubblico
impiego dei dipendenti
statali e degli enti pubblici nazionali, in quanto ascrivibile alla materia “ordinamento
civile” o alla materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello
Stato e degli enti pubblici nazionali”. Più articolata è la questione in
merito alla competenza sui rapporti di lavoro del personale delle regioni e
degli enti pubblici locali, potendosi richiamare la materia “ordinamento e
organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti locali”, spettante
alla competenza residuale delle regioni. E’ rimasta in proposito isolata
un’affermazione contenuta in una sentenza della Corte costituzionale del 2003
che riconduceva l’intera materia dello stato giuridico ed economico del
personale regionale alla potestà legislativa residuale regionale (sentenza n.
274/2003, punto 3.2). La giurisprudenza costituzionale
successiva riconduce l’impiego pubblico regionale: - all’ordinamento civile e, dunque, alla competenza esclusiva dello Stato, relativamente ai
profili privatizzati del rapporto, dato che “la intervenuta privatizzazione e
contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico vincola anche le
Regioni” (sentenza n. 2/2004); - all’ordinamento e organizzazione amministrativa
delle regioni, e, quindi, alla competenza
residuale regionale, relativamente ai profili “pubblicistico-organizzativi”,
nei quali rientra la disciplina dei
concorsi per l’accesso al pubblico impiego regionale (sentenza n. 233/2006). Con riferimento ai rapporti di lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni sanitarie, la Corte costituzionale ha
in invece ritenuto che la relativa disciplina, in quanto strumentale alla
prestazione del servizio, può essere ricondotta alla materia di competenza
concorrente “tutela della salute” (sentenze n. 150/2010, n. 295/2009, n. 422/2006, n. 233/2006). La disciplina dei rapporti di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni si interseca inoltre con la
competenza concorrente in tema di coordinamento della finanza pubblica, cui
sono riferibili le disposizioni nazionali volte al contenimento delle spese
di personale degli enti territoriali. Con
riferimento all'accesso ai pubblici uffici la Corte (tra le altre, sentenze
n. 28 del 2013, n. 72/2013, n. 73/2013 e 137/2013) ha ribadito che il
principio del pubblico concorso è da considerarsi derogabile (anche da parte
delle regioni e degli enti locali) soltanto qualora ciò sia funzionale al
buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie
esigenze di interesse pubblico. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale La riforma aggiunge le norme sulla
disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul
territorio nazionale tra le materie di competenza esclusivamente
statale di cui all’articolo 117, secondo comma, lett.
g). |
Passando
ad un’analisi della casistica della giurisprudenza costituzionale, con riguardo
alla materia ordinamento civile, la
sentenza n. 95/2007 ha affermato che il rapporto di impiego alle dipendenze di
regioni ed enti locali, essendo stato “privatizzato” (ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. n. 165 del 2001), è retto dalla disciplina generale
dei rapporti di lavoro tra privati ed è, perciò, soggetto alle regole che garantiscono l’uniformità di tale tipo di
rapporti (nello stesso senso, sentenza n. 19/2013). Con la conseguenza che
la legge statale, in tutti i casi in cui interviene a conformare gli istituti
del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata
con il carattere dell’inderogabilità, costituisce un limite alla competenza
residuale regionale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni
(sentenze n. 233/2006, n. 380/2004 e n. 274/2003). La Corte ha conseguentemente
ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative alla
soppressione delle indennità di trasferta per tutte le amministrazioni
pubbliche, inclusi gli enti territoriali.
Nella
sentenza n. 189/2007, la Corte ha ribadito che i princípi
fissati dalla legge statale in materia di rapporto di impiego alle dipendenze
di Regioni ed enti locali “privatizzato” costituiscono tipici limiti di diritto
privato, fondati sull’esigenza, connessa al precetto costituzionale di eguaglianza,
di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di
diritto che disciplinano i rapporti fra privati e ha precisato che detti
principi si impongono anche alle Regioni a statuto speciale (nello stesso senso
sentenze n. 234 e n. 106/2005; n. 282/2004).
In
base alla riconducibilità alla materia ordinamento civile, sono state
dichiarate costituzionalmente
illegittime disposizioni regionali che:
-
stabilivano
l’applicabilità della qualifica e del trattamento contrattuale di capo servizio
anche ai componenti degli uffici stampa degli enti locali (sentenza n.
189/2007);
-
incidevano
sul periodo in cui può essere esercitata la facoltà di chiedere l’esonero dal
servizio (sentenza n. 151/2010);
-
intervenivano
in materia riservata alla contrattazione collettiva o in materia di orario di
lavoro e di trattamenti economici (sentenza n. 7/2011) nonché in materia di
buoni pasto (sentenza n. 77/2011) o che incidevano sulla disciplina del riposo
festivo (sentenza n. 150/2011);
-
autorizzavano
gli enti del servizio sanitario regionale a trasformare contratti di lavoro
precario o flessibile, in corso o comunque già stipulati, in veri e propri
contratti di lavoro a tempo indeterminato (sentenza n. 69/2011) o consentivano
ai dirigenti di prorogare i contratti di collaborazione (sentenza n. 170/2011);
-
introducevano
incentivi economici alla risoluzione anticipata del rapporto (sentenza n.
69/2011);
-
prorogavano
la validità di incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni
all’amministrazione (sentenza n. 310/2011);
- destinavano le economie
derivanti dalla riduzione dell’organico della dirigenza alla valorizzazione
delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate
ai sensi del CCNL (sentenza n. 339/2011);
- prevedevano che i
dipendenti regionali potessero essere autorizzati all’utilizzo del mezzo
proprio consentendo, a determinate condizioni, il relativo rimborso spese
(sentenza n. 19/2013).
Per
quanto attiene alla competenza regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione
amministrazione delle regioni, la Corte
costituzionale ha sempre ricondotto in questo ambito la disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego
regionale, in ragione dei suoi contenuti marcatamente pubblicistici e la
sua intima correlazione con l’attuazione dei principi sanciti dagli artt. 51 e
97 Cost. (sentenze n. 100/2010, n. 95/2008, n.
380/2004, n. 4/2004).
È
stata pertanto ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata con riferimento ad una norma regionale che sottoponeva a limiti la
possibilità della regione e degli enti pubblici regionali di ricorrere, per far
fronte alle proprie esigenze, a contratti a tempo determinato (sentenza n.
235/2010).
Ha inoltre superato il
vaglio di costituzionalità, in quanto riconducibile alla competenza regionale
residuale, una disposizione regionale che autorizza la Giunta e il suo
presidente a dotarsi di personale assunto con forme di collaborazione
flessibile, anche in deroga dei principi dettati dalle legislazione statale, in
ragione del rapporto fiduciario che caratterizza questi rapporti (sentenza n.
7/2011).
Con
riferimento ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
sanitarie, la Corte costituzionale ha
ritenuto che la relativa disciplina, ove relativa alla delimitazione temporale
dei rapporti di lavoro, può essere ricondotta alla materia di competenza
concorrente tutela della salute. In tale ambito la
Corte ha sempre riconosciuto la natura di principio fondamentale alla
disciplina statale, dichiarando conseguentemente l’illegittimità costituzionale
delle disposizioni regionali in materia (sentenze n. 150/2010, n. 295/2009, n.
422/2006, n. 233/2006).
Per
quanto riguarda infine le norme volte al contenimento della spesa di personale
degli enti territoriali, ascrivibili alla materia concorrente coordinamento della
finanza pubblica, secondo la
giurisprudenza costituzionale, la legge
statale può prescrivere criteri ed obiettivi, ma non può imporre nel dettaglio
gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi, che
si risolverebbero in una invasione nell’ambito materia dell’organizzazione
amministrativa, riservata alle
autonomie regionali e degli enti locali.
In
base a questi principi la Corte ha sempre ritenuto che non è illegittima
l’imposizione, da parte dello Stato, di un limite alla spesa complessiva del
personale degli enti territoriali, poiché trattasi di un principio fondamentale
in materia di coordinamento della finanza pubblica, che può dar luogo,
nell’organizzazione degli uffici, ad inconvenienti di mero fatto, come tali non
incidenti sul piano della legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 169/2007, n.
412/2007).
La
Corte ha inoltre considerato principio generale di coordinamento della finanza
pubblica, al quale devono adeguarsi gli enti territoriali, l’imposizione di
limiti alla possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere alle
assunzioni a tempo determinato e alla stipula di convenzioni e contratti di
collaborazione coordinata e continuativa e di limiti alla spesa sostenibile
dalle stesse amministrazioni per i contratti di formazione-lavoro, gli altri
rapporti formativi, la somministrazione di lavoro e il lavoro accessorio
(sentenza n. 173/2012).
La
Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni
regionali che introducevano deroghe al divieto, posto dal legislatore statale,
di assumere personale oltre il limite del 20% della spesa corrispondente alle
cessazioni dell’anno precedente (sentenza n. 130/2013).
In
altra occasione la Corte, ricollegandosi pure alle sue precedenti sentenze n.
3/2013 e n. 60/2013, ha affermato che la disposizione regionale contrastante
con la normativa statale espressiva di un principio fondamentale di
coordinamento della finanza pubblica trasmoda dai limiti competenziali
fissati in detta materia alla potestà legislativa concorrente delle Regioni.
Tali limiti sono opponibili, per costante giurisprudenza della Corte stessa,
anche alle Regioni ad autonomia differenziata quale il Friuli-Venezia Giulia
(sentenza n. 218 del 2013).
Tra
le disposizioni nazionali dichiarate incostituzionali in quanto recanti
precetti specifici e puntuali – sulla base peraltro di una giurisprudenza non
recente - si ricorda l’imposizione di un limite percentuale alla copertura delle
vacanze di personale verificatesi in un determinato anno (sentenza n.
390/2004).
Con
una serie di sentenze (tra le altre: n. 28 del 2013, n. 72/2013, n. 73/2013 e
137/2013) la Corte ha ribadito i principi di uguaglianza, imparzialità e buon
andamento della Pubblica amministrazione, nonché il principio del pubblico concorso, che è da considerarsi derogabile
(anche da parte delle regioni e degli enti locali) soltanto qualora ciò sia
funzionale al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e
straordinarie esigenze di interesse pubblico, invero non sono ravvisabili nel
caso concreto preso in esame.
Secondo
la Corte, ai sensi dell’articolo 97,
terzo comma, Cost. (il quale prevede che, salvo i
casi stabiliti dalla legge, «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si
accede mediante concorso») la «forma generale e ordinaria di reclutamento per
le pubbliche amministrazioni» (sentenza n. 363 del 2006) è rappresentata da una
selezione trasparente, comparativa, basata esclusivamente sul merito e aperta a
tutti i cittadini in possesso di requisiti previamente e obiettivamente
definiti. Il concorso pubblico è, innanzitutto, condizione per la piena
realizzazione del diritto di partecipazione all’esercizio delle funzioni
pubbliche da parte di tutti i cittadini, Il concorso, inoltre, è «meccanismo
strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione» (sentenza n. 205 del
2004), cioè al principio di buon andamento (sancito dall’art. 97, primo comma, Cost.). Il reclutamento dei dipendenti in base al merito si
riflette, migliorandolo, sul rendimento delle pubbliche amministrazioni e sulle
prestazioni da queste rese ai cittadini. Infine, il concorso pubblico
garantisce il rispetto del principio di imparzialità, enunciato dall’art. 97 e
sviluppato dall’art. 98 Cost. Infatti, il concorso
impedisce che il reclutamento dei pubblici impiegati avvenga in base a criteri
di appartenenza politica e garantisce, in tal modo, un certo grado di
distinzione fra l’azione del governo, «normalmente legata agli interessi di una
parte politica», e quella dell’amministrazione, «vincolata invece ad agire
senza distinzioni di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità
pubbliche obiettivate nell’ordinamento». Sotto tale profilo il concorso
rappresenta, pertanto, «il metodo migliore per la provvista di organi chiamati
ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità e al servizio
esclusivo della Nazione» (sentenza n. 453 del 1990).
Le
deroghe legislative al principio del
pubblico concorso sono sottoposte ad uno stringente sindacato di
costituzionalità. Innanzitutto, la Corte ha affermato che anche le «modalità
organizzative e procedurali» del concorso devono «ispirarsi al rispetto
rigoroso del principio di imparzialità» (sentenza n. 453 del 1990). Di
conseguenza, non qualsiasi procedura selettiva, diretta all’accertamento della
professionalità dei candidati, può dirsi di per sé compatibile con il principio
del concorso pubblico. Quest’ultimo non è rispettato, in particolare, quando
«le selezioni siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei
soggetti legittimati a parteciparvi» (sentenza n. 194 del 2002). La natura
comparativa e aperta della procedura è, pertanto, elemento essenziale del
concorso pubblico; procedure selettive riservate, che escludano o riducano
irragionevolmente la possibilità di accesso dall’esterno, violano il «carattere
pubblico» del concorso (sentenza n. 34 del 2004). La Corte ha poi chiarito che
al concorso pubblico deve riconoscersi un ambito di applicazione ampio, tale da
non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente
estranei alle pubbliche amministrazioni. Il concorso è necessario anche nei
casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio (ciò che comunque
costituisce una «forma di reclutamento» - sentenza n. 1 del 1999) e di
trasformazione di rapporti non di ruolo (non instaurati ab origine mediante concorso) in rapporti di ruolo (sentenza n. 205
del 2004). Sotto quest’ultimo profilo, infine, la Corte ha precisato i limiti
entro i quali può consentirsi al legislatore di disporre procedure di
stabilizzazione di personale precario che derogano al principio del concorso.
Secondo l’orientamento progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza
costituzionale, infatti, «l’area delle eccezioni» al concorso deve essere
«delimitata in modo rigoroso» (sentenza n. 363 del 2006). Le deroghe sono
pertanto legittime solo in presenza di «peculiari e straordinarie esigenze di
interesse pubblico» idonee a giustificarle (sentenza n. 81 del 2006). Non è in
particolare sufficiente, a tal fine, la semplice circostanza che determinate
categorie di dipendenti abbiano prestato attività a tempo determinato presso
l’amministrazione (sentenza n. 205 del 2006), né basta la «personale
aspettativa degli aspiranti» ad una misura di stabilizzazione (sentenza n. 81
del 2006). Occorrono invece particolari ragioni giustificatrici, ricollegabili
alla peculiarità delle funzioni che il personale da reclutare è chiamato a
svolgere, in particolare relativamente all’esigenza di consolidare specifiche
esperienze professionali maturate all’interno dell’amministrazione e non
acquisibili all’esterno, le quali facciano ritenere che la deroga al principio
del concorso pubblico sia essa stessa funzionale alle esigenze di buon
andamento dell’amministrazione.
La materia università non è espressamente citata nel vigente art. 117 Cost.
|
L’art. 117 della
Costituzione non cita espressamente la materia università. Soccorre, tuttavia,
l’art. 33, sesto comma, della Costituzione, che stabilisce che le istituzioni
di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi
ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Già
prima del 2001, la Corte costituzionale ha chiarito che al sesto comma
dell'art. 33 della Costituzione è conferita una funzione di cerniera,
attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione
di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione
in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria
(sentenza n. 383/1998). |
In materia di autonomia
delle università ha disposto, tra l’altro, l’art. 6 della L. 168/1989 che
ha stabilito che le università sono dotate di autonomia didattica, scientifica,
organizzativa, finanziaria e contabile e che le stesse si danno ordinamenti
autonomi con propri statuti e regolamenti. Più in particolare, il co. 2 del medesimo articolo ha disposto che
”Nel rispetto dei principi di autonomia
stabiliti dall'articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che
dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che
vi operino espresso riferimento. È
esclusa l'applicabilità di disposizioni emanate con circolare”[29].
Neanche
il diritto allo studio è esplicitamente citato nel vigente art. 117 Cost., ma trova fondamento nell’art. 34, i cui commi terzo
e quarto dispongono che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno
il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, e che la Repubblica
rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e
altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Appare
utile ricordare, peraltro, che, in base a quanto disposto (da ultimo[30]) dall’art. 3, co. 2,
del D.Lgs. 68/2012, la potestà legislativa in materia
di diritto allo studio universitario
spetta esclusivamente alle regioni, ferma restando la competenza esclusiva dello Stato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni,
di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., al
fine di garantirne l’uniformità su tutto il territorio nazionale.
Le
procedure di reclutamento dei docenti
universitari, invece, possono essere ricondotte alla materia “ordinamento e organizzazione amministrativa
dello Stato e degli enti pubblici nazionali” (art. 117, secondo comma, lett. g), Cost., non modificato – per l’ambito che qui interessa
- dal provvedimento in esame), di competenza legislativa esclusiva statale.
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il nuovo art. 117 attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia istruzione
universitaria (secondo comma, lett. n)), mentre assegna alla competenza
legislativa delle regioni la promozione del diritto allo studio, anche universitario (terzo comma). |
Con
la sentenza n. 383/1998, la Corte costituzionale - nel dichiarare non fondata la
questione di legittimità dell’art. 9, co. 4, della L. 341/1990, come modificato
dall’art. 17, co. 116, della L. 127/1997, che demanda al Ministro
dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica la definizione dei
criteri generali per la regolamentazione dell'accesso alle scuole di
specializzazione ed ai corsi universitari - ha chiarito che al sesto comma dell'art. 33 della Costituzione è conferita
una funzione di cerniera,
attribuendosi alla responsabilità del
legislatore statale la predisposizione
di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto
al diritto di accedere all'istruzione
universitaria.
Da
ciò la Corte ne ha fatto discendere che “i criteri di accesso all'università, e
dunque anche la previsione del numerus clausus non possono legittimamente risalire ad altre
fonti, diverse da quella legislativa”, chiarendo, altresì, che “la riserva di
legge in questione è tale da comportare, da un lato, la necessità di non
comprimere l'autonomia delle università, per quanto riguarda gli aspetti della
disciplina che ineriscono a tale autonomia; dall'altro, la possibilità che la
legge, ove non disponga essa stessa direttamente ed esaustivamente, preveda
l'intervento normativo dell'esecutivo, per la specificazione concreta della
disciplina legislativa, quando la sua attuazione, richiedendo valutazioni
d'insieme, non è attribuibile all'autonomia delle università”.
Con
la sentenza n. 102/2006 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 2, co. 2, lett. b), della legge della regione Campania
13/2004, nella parte in cui prevedeva l’istituzione da parte della regione di
nuovi corsi di studio universitario (scuole
di eccellenza e master) e relativi titoli,
intervenendo in un settore nel quale alle università è affidata, ai sensi
dell’art. 33, sesto comma, della Costituzione, la competenza a definire, nei
limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, i propri ordinamenti, che ovviamente
ricomprendono le scelte relative all’istituzione dei singoli corsi.
La
Corte ha rilevato che, coerentemente con tale quadro costituzionale, l’art. 17,
co. 95, della L. 127/1997 prevede che l’ordinamento degli studi dei corsi
universitari è disciplinato dagli atenei “in conformità a criteri generali
definiti [...] con uno o più decreti del Ministro dell’università e della
ricerca scientifica e tecnologica“, ai quali è tra l’altro demandata “la
previsione di nuove tipologie di corsi e di titoli universitari“. A tale
previsione ha fatto seguito, dopo il D.M. 509/1999, il D.M. 270/2004 che,
all’art. 3, ha individuato i titoli e i corsi di studio universitari,
disponendo che “le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti
didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione
permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della
laurea magistrale, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master
universitari di primo e di secondo livello”.
La
materia rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche non
è contemplata nell’attuale assetto delle competenze.
|
Secondo il riparto di
competenze definite dal testo costituzionale vigente, la “materia elettorale”
è attribuita alla competenza esclusiva statale e, in base alla giurisprudenza
costituzionale, al legislatore statale è riconosciuto un ruolo fondamentale
in tema “tutela delle minoranze linguistiche”. |
|
Le novità previste dal progetto di riforma
costituzionale Il nuovo art. 117 assegna la materia rappresentanza in
Parlamento delle minoranze linguistiche alla competenza
legislativa regionale. |
Si
ricorda in proposito che, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 159 del
2009), “l'attuazione in via di legislazione ordinaria dell'art. 6 Cost. in tema di
tutela delle minoranze linguistiche genera un modello di riparto delle
competenze fra Stato e Regioni che non corrisponde alle ben note categorie
previste per tutte le altre materie nel Titolo V della seconda parte della
Costituzione, sia prima che dopo la riforma costituzionale del 2001. Infatti,
il legislatore statale appare titolare di un proprio potere di individuazione
delle lingue minoritarie protette, delle modalità di determinazione degli
elementi identificativi di una minoranza linguistica da tutelare, nonché degli
istituti che caratterizzano questa tutela, frutto di un indefettibile
bilanciamento con gli altri legittimi interessi coinvolti ed almeno
potenzialmente confliggenti […].
A
tale proposito, la Corte ha avuto occasione di affermare che il legislatore
statale «dispone in realtà di un proprio potere di doveroso apprezzamento in
materia, dovendosi necessariamente tener conto delle conseguenze che, per i
diritti degli altri soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica
protetta e sul piano organizzativo dei pubblici poteri – sul piano quindi della
stessa operatività concreta della protezione – derivano dalla disciplina
speciale dettata in attuazione dell'art. 6 della Costituzione» (sentenza n. 406
del 1999). Si tratta, inoltre, di un potere legislativo che può applicarsi alle
più diverse materie legislative, in tutto od in parte spettanti alle Regioni.
Peraltro, malgrado tutte queste caratteristiche, ci si trova dinanzi ad una
potestà legislativa non solo limitata dal suo specifico oggetto, ma non
esclusiva (nel senso di cui al secondo comma dell'art. 117 Cost.),
dal momento che alle leggi regionali spetta l'ulteriore attuazione della legge
statale che si renda necessaria”.
[1] Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2003.
[2] Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2009.
[3] Rispetto al trend di crescita, è da segnalare la relativa contrazione del
giudizio in via principale nel 2011, che è sceso nuovamente sotto la soglia
delle 100 decisioni e che, in termini percentuali, ha visto una diminuzione
rilevante del suo peso. Tuttavia, secondo i dati messi a disposizione dalla
Corte, a trarre beneficio da questa diminuzione sono stati i conflitti
(soprattutto quello tra poteri dello Stato), oltre ovviamente ai giudizi
sull’ammissibilità del referendum ed
alle ordinanze di correzione di errori materiali. Il giudizio in via
incidentale è rimasto, invece, quasi costante in termini percentuali, pur
essendo diminuite le decisioni totali, che sono scese, per la prima volta dal
1981, sotto la soglia delle 200 unità. Si v. Corte costituzionale, Relazione sulla giurisprudenza
costituzionale del 2011.
[4] Il numero delle decisioni e quello delle
dichiarazioni di illegittimità costituzionale non coincidono in quanto ciascuna
sentenza può dichiarare la illegittimità costituzionale di più disposizioni.
[5] Si v. Corte costituzionale, Servizio Studi, Analisi del contenzioso Stato/Regioni. Anni
2011-2013, febbraio 2014.
[6] Non sono reperibili dalle fonti ufficiali i
dati relativi agli anni precedenti al 2011.
[7] Come ha ricapitolato la Corte costituzionale
nella sentenza 309/2010 (v. infra), i
due sistemi che compongono il secondo ciclo di istruzione sono distinti, ma
funzionalmente integrati, dal momento che: a) entrambi concorrono
all’adempimento dell’obbligo di istruzione; b) è possibile transitare dall’uno
all’altro; c) da ambedue, con diverse modalità (fissate con legge statale), è
consentito l’accesso all’esame di Stato.
[8] I livelli essenziali delle prestazioni per i
percorsi di istruzione e formazione professionale sono stati definiti con il
già citato D.Lgs. 226/2005. In particolare, ai sensi
dello stesso, le regioni assicurano l’articolazione di percorsi di durata
triennale (che si concludono con il conseguimento di un titolo di qualifica
professionale, che consente l’accesso al quarto anno del sistema
dell’istruzione e formazione professionale) e di percorsi di durata almeno
quadriennale (che si concludono con il conseguimento di un titolo di diploma
professionale, che consente l’accesso all’istruzione e formazione tecnica superiore).
[9] Ulteriori funzioni amministrative sono state
attribuite dall’art. 139 del medesimo D.Lgs. alle
province, in relazione all’istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in
relazione ai gradi inferiori di scuola. Da ultimo, l’art. 14, co. 27, lett. h), del
D.L. 78/2010 (L. 122/2010) – come modificato dall’art. 19, co. 1, lett. a), del
D.L. 95/2012 (L. 135/2012) – ha annoverato tra le funzioni fondamentali dei
comuni, ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle
regioni, quella relativa all’organizzazione e gestione dei
servizi scolastici.
[10] Si ricorda, peraltro, che la Corte
costituzionale, con sentenza n. 76/2013, ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 8 della legge della regione Lombardia n. 7/2012 che disponeva in
merito all’assunzione – seppure a tempo determinato – di personale, quale è
quello docente, alle dipendenze dello Stato e non delle singole regioni. Da ciò
la Corte ne conseguiva che “ogni intervento normativo finalizzato a dettare
regole per il reclutamento dei docenti non può che provenire dallo Stato, nel
rispetto della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera g), Cost., trattandosi di norme che attengono alla materia
dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato”.
[11] Con sentenza n. 33/2005, invece, la Corte
costituzionale, pronunciandosi (fra l’altro) sulla legittimità costituzionale
dell’art. 1, co. 9 e 10, della L. 62/2000 (anteriore, dunque, alla riforma del
Titolo V operata con L. costituzionale
3/2001) – in base ai quali, al fine di rendere effettivo il diritto allo studio
e all’istruzione per tutti gli alunni delle scuole statali e paritarie, lo
Stato adotta un piano straordinario di finanziamento alle regioni e alle
province autonome di Trento e di Bolzano da utilizzare a sostegno della spesa
sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione mediante l’assegnazione
di borse di studio di pari importo, eventualmente differenziate per ordine e
grado di istruzione – aveva ritenuto non
fondata la censura riferita alla presunta invadenza dello Stato in un ambito,
quello dell’assistenza scolastica, all’epoca esplicitamente attribuito alla
competenza regionale. In particolare, la Corte aveva evidenziato che la
disposizione censurata – in quanto volta a rendere effettivo il diritto allo
studio anche per gli alunni delle scuole paritarie, dalla stessa legge
disciplinate - costituiva un principio fondamentale della materia “assistenza
scolastica” e quindi era idonea a porre un vincolo all'esercizio delle competenze
regionali.
[12] Sulla base dello stesso ragionamento, nella
sentenza n. 50/2008, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
co. 635 dell’art. 1 della L. 296/2006 (salvi gli eventuali procedimenti di
spesa in corso) che aveva disposto un incremento degli stanziamenti iscritti
nelle unità previsionali di base «Scuole non statali» del Ministero della
pubblica istruzione, da destinare prioritariamente alle scuole dell’infanzia.
In particolare, la Corte richiamando anche la sentenza n. 423/2004, ha
evidenziato che il settore dei contributi alle scuole paritarie “incide sulla materia dell’‘istruzione’
attribuita alla competenza legislativa concorrente”. Ha ricordato, infatti, a
tal fine, che già l’art. 138 del D.Lgs. 112/1998
aveva conferito alle Regioni le funzioni amministrative relative ai «contributi
alle scuole non statali», nel cui ambito devono essere ricomprese anche le
scuole paritarie. Pertanto, la Corte ha ritenuto che la norma, nella parte in
cui prevede un finanziamento vincolato in un ambito materiale di spettanza
regionale, si pone in contrasto con gli artt. 117, quarto comma, e 119 della
Costituzione.
[13] L’art. 101 del Codice dispone che
sono istituti e luoghi della cultura i musei, le biblioteche e gli archivi, le
aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali.
[14] Sull’argomento, si ricorda che la Corte costituzionale, con
sentenza n. 26/2004, nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 33
della L. 448/2001 (L. finanziaria 2002) - che aveva inserito la lett. b-bis) nel
co. 1 dell’art. 10 del D.Lgs. 368/1998, poi abrogato
dall'art. 6 del D.Lgs. 156/2006, in relazione alla
nuova disciplina delle forme di gestione delle attività di valorizzazione dei
beni culturali di appartenenza pubblica recata dall’art. 115 del D.Lgs. 42/2004 - aveva
rigettato le censure proposte da varie regioni,
che eccepivano, fra l’altro, la competenza legislativa concorrente in
materia di valorizzazione dei beni culturali. In particolare, la Corte aveva
evidenziato che “La norma censurata, rinviando all’art. 152 del D.Lgs. 112 del 1998 il quale stabilisce, sia pure ai fini
della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni
culturali, che Stato, regioni ed enti locali esercitano le relative attività
‘ciascuno nel proprio ambito’, presuppone un criterio di ripartizione di
competenze, che viene comunemente interpretato nel senso che ciascuno dei
predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo
ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità. Tale criterio,
pur essendo inserito nel decreto legislativo n. 112 del 1998, anteriore alla
modifica del Titolo V della Costituzione, conserva tuttora la sua efficacia
interpretativa non solo perché è individuabile una linea di continuità fra la legislazione
degli anni 1997-98, sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la
legge costituzionale n. 3 del 2001, ma soprattutto perché è riferibile a
materie-attività, come, nel caso di specie, la tutela, la gestione o anche la
valorizzazione dei beni culturali, il cui attuale significato è sostanzialmente
corrispondente con quello assunto al momento della loro originaria definizione
legislativa”. Per completezza si evidenzia che l’art. 152 del D.Lgs. 112/1998 è stato abrogato dall’art. 184 del D.Lgs. 42/2004.
[15] Riprendendo un ragionamento già presente nella
sentenza n. 94/2003.
[16] Al riguardo, si ricorda che nel comunicato relativo al Consiglio dei ministri del
31 gennaio 2014, in cui è stato presentato il Piano Nazionale per la Ricerca
2014-2020, è evidenziato che vi è l’intenzione di trasformare il PNR da
triennale a settennale (2014-20), per allinearsi con il Programma Quadro
europeo Horizon 2020.
[17] La sentenza n. 301 del 2013, a seguito di un
ricorso della Provincia autonoma di Trento, interviene censurando una norma
statale che disponeva una disciplina autoapplicativa
in materia di libera professione intramuraria, in quanto “non ha preso in
considerazione in alcun modo la specificità della provincia sotto il profilo
delle procedure di adeguamento ai sopravvenuti principi statali”. La previsione
di una clausola di salvaguardia dello speciale regime di autonomia che avesse
permesso di applicare la legislazione statale nei limiti e con le modalità
previste dallo statuto speciale, a detta della Corte, avrebbe rimosso ogni
ostacolo all’applicazione della speciale procedura di adeguamento prevista
dalle norme di attuazione.
[18] Ribadita nella sentenza n. 95/2005, dove la
Corte precisa come l’autentico principio ispiratore che resta vincolante è quello
secondo cui la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche
tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle
persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai
pubblici poteri, e come tale principio sia comunque fatto salvo
dall’applicazione delle altre prescrizioni in materia di igiene dei prodotti
alimentari.
[19] Nella sentenza n. 517/1987 la Corte
costituzionale aveva spiegato che le
attività sportive devono essere distinte secondo il loro carattere agonistico o
non agonistico: le prime ricadono nella materia "ordinamento
sportivo", di competenza statale e degli organi dello sport, le seconde
sono attribuite alle regioni in base all’art. 56 del DPR 616/1977. In
particolare, la Corte aveva rilevato che: "La vera e unica linea di
divisione fra le predette competenze è quella fra l'organizzazione delle
attività sportive agonistiche, che sono riservate al C.O.N.I., e quella delle
attività sportive di base o non agonistiche, che invece spettano alle regioni.
La ripartizione delle competenze sugli impianti e sulle attrezzature è del
tutto consequenziale alla precedente distinzione, nel senso che, mentre lo
Stato è pienamente legittimato a programmare e a decidere gli interventi sugli
impianti e sulle attrezzature necessari per l'organizzazione delle attività
sportive agonistiche, le regioni vantano invece la corrispondente competenza in
relazione all'organizzazione delle attività sportive non agonistiche".
[20] L’intero corpus
normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli
interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione
edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione
edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento
conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro.
Pertanto, secondo la Corte, la definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.
[21] Sotto altro aspetto, principio fondamentale in
materia di tutela della salute e di governo del territorio è stata considerata,
nella sentenza n. 339 del 2007, la definizione dei criteri ai quali deve
attenersi l’autorità sanitaria ai fini della valutazione di idoneità dei locali
al trattamento ad alla somministrazione di alimenti all’interno delle aziende
agrituristiche.
[22] Con riferimento al
coordinamento informativo statistico e informatico si rileva che la Corte
costituzionale ne ha precisato con una serie di interventi il contenuto: esso
riguarda anche i profili della qualità dei servizi e della razionalizzazione
della spesa in materia informatica, dovendosi procedere ad apposite intese
quando si vada a coinvolgere l’organizzazione amministrativa delle regioni
(sentenza n. 31/2005); non è solo un coordinamento tecnico di trasmissione dei
dati ma riguarda anche le modalità con le quali questi sono raccolti (sentenza
n. 240/2007); cfr. anche le sentenze n. 133/2008, n. 145/2008, 232/2009, n.
15/2010 (con la quale al coordinamento è stata ricondotta l’attività dello
sportello unico delle attività produttive), n. 293/2012 (con la quale al
coordinamento è stata ricondotta l’anagrafe delle opere pubbliche incompiute) e
n. 46/2013.
[23] Art. 12, comma 10 del D.Lgs. 387/2003 e DM 10 settembre 2010.
[24] Dopo l’intervento del D.L. 314/2004 (L.
26/2005), che confermava per il 2005 la disciplina transitoria, è intervenuta
la L. 239/2005, che, in linea con quanto richiesto dalla Corte, ha introdotto
l’intesa con la Conferenza unificata nella procedura di adozione dei decreti
ministeriali previsti dal D.L. 24/2003.
[25] Ciò in quanto tali attività “risulterebbero
esposte al rischio di eccessivi condizionamenti localistici nella loro
gestione, a fronte, invece, della necessità di sostenere anche iniziative di
grande rilevanza culturale prescindendo da questi ultimi”.
[26] Secondo quanto ricordato dalla Corte, gli
indici della connotazione pubblica degli enti lirici sono stati ravvisabili
nella preminente rilevanza dello Stato nei finanziamenti, nel conseguente
assoggettamento al controllo della Corte dei conti, nel patrocinio
dell'Avvocatura dello Stato, confermato dall'art. 1, co. 3, del D.L. 345/2000,
nell'inclusione nel novero degli organismi di diritto pubblico soggetti al
Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs.
163/2006.
[27] La sentenza 297/2012 risponde al ricorso promosso dalla Regione
Veneto che lamenta la violazione del principio di leale collaborazione per la
mancata partecipazione della Regione alla modifica dell’ISEE. La Corte con la
sentenza richiama la competenza statale alla quale va ricondotta la normativa
impugnata, concernente la determinazione di livelli essenziali delle
prestazioni, tuttavia, i giudici costituzionali ribadiscono che “detta
peculiare competenza comporta una forte incidenza sull’esercizio delle
competenze legislative ed amministrative delle regioni”, tale da esigere che il
suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e
Regione (sentenze n. 330 e n. 8 del 2011; n. 309 e n. 121 del 2010; n. 322 e n.
124 del 2009; n. 162 del 2007; n. 134 del 2006; n. 88 del 2003), salvo che
ricorrano ipotesi eccezionali in cui la determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità di
protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana (vedi al
proposito la richiamata sentenza 10/2012 sulla carta acquisti).
[28] La sentenza 40/2011 dichiara incostituzionale
una legge del Friuli Venezia Giulia che rende accessibile il sistema integrato
di interventi e servizi sociali della Regione soltanto ai cittadini comunitari
ivi residenti da almeno trentasei mesi. La Consulta giudica l’esclusione di
intere categorie di persone non rispettosa del principio di uguaglianza, in
quanto introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari, che
costituiscono il presupposto di fruibilità di provvidenze che, per la loro
stessa natura, non tollerano distinzioni basate né sulla cittadinanza, né su
particolari tipologie di residenza.
[29] Inoltre, l’art. 1, co.
4, lett. d),
della L. 59/1997 aveva escluso l’istruzione universitaria dagli ambiti per i
quali occorreva procedere al trasferimento di funzioni e compiti amministrativi
alle regioni.
[30] Precedentemente, la L. 390/1991 –
abrogata dall’art. 24 del
medesimo D.Lgs. 68/2012 – aveva introdotto, per la
prima volta, indicazioni tese ad uniformare, a livello nazionale,
l’applicazione dei criteri di individuazione dei destinatari degli interventi
per il diritto allo studio, superando la precedente frammentarietà registrata a
livello regionale. In particolare, l’art. 3 della legge attribuiva allo Stato
funzioni di indirizzo, coordinamento e programmazione in materia, mentre alle
regioni era attribuito il compito di attivare gli interventi.