Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Titolo: Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova - A.C. 5473 - La giurisprudenza nazionale
Riferimenti:
AC N. 5473/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 695    Progressivo: 1
Data: 14/11/2012
Descrittori:
GIURISPRUDENZA   INTESE CON CULTI ACATTOLICI
TESTIMONI DI GEOVA     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni

 

14 novembre 2012

 

n. 695/1

 

Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova, in attuazione dell’art. 8, terzo comma della Costituzione

A.C. 5473

La giurisprudenza nazionale

 

 

 


La giurisprudenza costituzionale

Le questioni affrontate dalla Corte costituzionale relative alla Congregazione dei testimoni di Geova hanno riguardato la legittimità costituzionale della diversità di trattamento, operata da alcune norme di legge statale e regionale, tra le confessioni religiose firmatarie di un’intesa recepita da una legge statale, ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, Cost., e le altre confessioni religiose.

 

La Corte ha in proposito giudicato costituzionalmente illegittime, per violazione dei principi di uguaglianza e di uguale libertà delle confessioni religiose (articoli 3 e 8, primo comma, Cost.), le disposizioni di due leggi regionali, che prevedevano benefici in favore delle confessioni religiose per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, nella parte in cui subordinavano l’accesso ai benefici all’esistenza di un’intesa per la regolazione dei rapporti con lo Stato (sentenze n. 195 del 1993 e n. 346 del 2002).

Secondo la sentenza n. 346 del 2002, infatti,le intese previste dall’articolo 8, terzo comma, Cost. non sono e non possono essere una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8 né per usufruire di benefici a loro riservati l'erogazione di contributi; risultando altrimenti violati il divieto di discriminazione (art. 3 e art. 8, primo comma, Cost.), nonché l'eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l'eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario.

Nello stesso senso era già intervenuta la sentenza n. 195 del 1993, secondo cui ciascuna confessione religiosa - che tale risulti non in base a mera autoqualificazione, ma a precedenti riconoscimenti, allo statuto o almeno alla comune considerazione - è idonea a rappresentare gli interessi religiosi dei suoi appartenenti, indipendentemente dal suo 'status' e senza possibilità di discriminazione, in merito all'assegnazione di benefici finalizzati ad agevolare l'effettivo godimento del fondamentale e inviolabile diritto di libertà religiosa, di cui l'esercizio pubblico del culto é componente essenziale. Di conseguenza, l'attribuzione di aree riservate e di contributi finanziari per la realizzazione di edifici di culto non può essere legittimamente negata alle confessioni acattoliche che non abbiano ancora stipulato l'intesa con lo Stato o che siano prive dello statuto organizzativo di cui all’art. 8, secondo comma, Cost.

 

Oggetto di scrutinio da parte della Consulta è stata altresì la previsione della deducibilità dal reddito, ai fini dell'IRPEF, delle erogazioni liberali dei fedeli delle sole confessioni religiose firmatarie di un'intesa recepita con legge. La Corte, con la sentenza n. 178 del 1996, ha peraltro dichiarato inammissibile la relativa questione, in considerazione della vigenza di disposizioni specifiche, con un contenuto precettivo variamente modulato, per ciascuna delle confessioni religiose firmatarie di intese, ritenendo che la possibilità di prendere in esame la necessità di estendere alle confessioni senza intesa la attribuzione di un beneficio che si assume essere illegittimamente limitato alle sole confessioni con intesa, è in limine preclusa e resa inutile dalla mancanza di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l'esercizio del diritto di libertà religiosa.

 

Con l’ordinanza n. 379 del 2001, la Corte ha inoltre dichiarato manifestamente inammissibile, per irrilevanza nel giudizio a quo, la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 22, comma 1-bis, della legge sulla privacy (legge n. 675/1996), che prevede un regime di trattamento dei dati personali degli aderenti ad associazioni od organizzazioni religiose differenziato in base alla circostanza che le confessioni religiose abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese. Infatti la questione - sollevata allo scopo di rendere applicabile ad un aderente alla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, la disciplina dettata per gli aderenti a confessioni religiose regolate da intese - non investiva la norma concernente la fattispecie oggetto del giudizio a quo, bensì la norma riguardante la disciplina che si vorrebbe estendere, sicché l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, lungi dal produrre conseguenze nel giudizio a quo, avrebbe avuto l’effetto - indesiderato - di generalizzare la portata della disciplina applicabile nel giudizio davanti al giudice rimettente.

 

Il parere del Consiglio di Stato sul riconoscimento della personalità giuridica

Il Consiglio di Stato, sez. I, nel parere del 30 luglio 1986, n. 1390, si è pronunciato in senso favorevole al riconoscimento della personalità giuridica alla Congregazione Cristiana dei testimoni di Geova, ritenendo lo statuto della Congregazione non in contrasto con i princìpi dell’ordinamento italiano.

In tale parere il Consiglio di Stato, dopo aver ritenuto sussistenti i requisiti della consistenza associativa e patrimoniale,  si sofferma sul problema dell’ambito di estensione del sindacato dell’autorità amministrativa sulle finalità e sull’ideologia religiosa dell’associazione. Nel corso del procedimento, erano infatti stati evidenziati alcuni comportamenti dei testimoni di Geova ritenuti in contrasto con la normativa vigente: l'obiezione dell’emotrasfusione, al servizio militare (ivi compreso quello civile sostitutivo) ed al diritto-dovere di voto.

Il Consiglio di Stato rileva peraltro che, ai fini del riconoscimento della personalità giuridica di un’associazione religiosa, non può considerarsi necessario il sindacato volto ad accertare la compatibilità con l’ordinamento statale dell’ideologia religiosa professata. Infatti, l’unico limite previsto dall’art. 19 Cost. alla libertà religiosa riguarda la non contrarietà dei riti al buon costume, mancando invece ogni riferimento al riscontro di compatibilità dell’ideologia religiosa con i principi generali dell’ordinamento o, più specificamente, con l’ordine pubblico, con una rilevante innovazione rispetto a quanto previsto dalla legislazione del 1929 sui culti ammessi.

Riguardo al requisito della conformità dello statuto delle confessioni religiose ai princìpi dell’ordinamento giuridico, previsto dall’art. 8, secondo comma, Cost., il Consiglio di Stato ritiene che neanche da esso possa trarsi la conseguenza della necessità di un sindacato di compatibilità con l’ordinamento italiano dei princìpi religiosi professati, in quanto l’art. 8 concerne unicamente l’organizzazione e le finalità dell’ente, non l’ideologia religiosa.

La verifica deve dunque riguardare le attività che il nuovo ente si prefigge di esercitare, come individuate dallo Statuto (vale a dire la predicazione della Bibbia, il miglioramento delle persone mediante l’istruzione basata sui principi biblici, la pubblicazione di libri religiosi, l’organizzazione di trasmissioni televisive e di assemblee a carattere istruttivo, l’organizzazione della struttura confessionale). I comportamenti dei singoli contrastanti con l’ordinamento, quali il rifiuto di trasfusione di sangue per persone sottoposte alla patria potestà o tutela o l’obiezione di coscienza al servizio militare e al servizio sostitutivo, comportano l’eventuale responsabilità penale dei singoli, ma non implicano un giudizio di illiceità dei fini associativi, posto che dalle norme statutarie e dall’esperienza associativa non sono desumibili elementi per affermare che la confessione sia preordinata al fine di commettere reati militari o che i suoi associati, ai vari livelli, compiano atti di istigazione al compimento di tali reati.

 

La giurisprudenza ordinaria

La giurisprudenza si è più volte pronunciata in ordine al rifiuto, da parte di testimoni di Geova, di trasfusioni di sangue, rifiuto motivato dalle proprie convinzioni religiose.

Tale comportamento non è mai stato oggetto di censura: il diritto a rifiutare le cure, anche quando da esso possa derivare la morte, indipendentemente dalle motivazioni – religiose o non – sottese, è infatti riconosciuto come direttamente discendente dal diritto alla salute e all’autodeterminazione nella scelta terapeutica tutelato dall’art. 32 Cost.

Le decisioni si sono perlopiù incentrate sui requisiti che il dissenso deve avere per essere considerato valido.

Secondo Cassazione, III sez. civ., 15 settembre 2008, n. 23676, il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure (Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto che non ricorressero le condizioni per un valido dissenso in un caso in cui era risultato da un cartellino, rinvenuto addosso al paziente, testimone di Geova, al momento del ricovero, in condizioni di incoscienza, che recava l'indicazione "niente sangue", appunto perché la manifestazione di volontà non risultava essere stata raccolta, in modo inequivoco, dopo aver avuto conoscenza della gravità delle condizioni di salute al momento del ricovero e delle conseguenze prospettabili in caso di omesso trattamento). Pertanto il paziente che, per motivi religiosi (o di diversa natura), intendesse far constare il proprio dissenso alla sottoposizione a determinate cure mediche, per l’ipotesi in cui dovesse trovarsi in stato di incapacità naturale, ha l’onere di conferire ad un terzo una procura ad hoc nelle forme di legge, ovvero manifestare la propria volontà attraverso una dichiarazione scritta che sia puntuale ed inequivoca, nella quale affermi espressamente di volere rifiutare le cure quand’anche venisse a trovarsi in pericolo di vita.

Nello stesso senso, Cass., III sez. civ., 23 febbraio 2007, n. 4211, ha ritenuto che, pur in presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente. (Nella specie, un testimone di Geova traumatizzato aveva rifiutato all'atto del ricovero in ospedale, eventuali trasfusioni di sangue, ma i medici, stante l'aggravamento delle sue condizioni, rivelatosi nel corso dell'intervento chirurgico, essendo il paziente anestetizzato e mancando la possibilità di interpellare altri soggetti legittimati in sua vece, hanno ugualmente praticato una trasfusione indispensabile per salvargli la vita, ritenendo altamente probabile che l'originario rifiuto non fosse più valido).

La più recente giurisprudenza di merito appare orientata nel senso di riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di trasfusione effettuata nonostante il dissenso espresso dal testimone di Geova.

Il Tribunale di Firenze, II sez. civ., 2 dicembre 2008, ha riconosciuto in tale ipotesi come il comportamento dei sanitari abbia violato la deliberazione cosciente e volontaria assunta dalla testimone di Geova, vale a dire il diritto alla non futile sua autodeterminazione nel non consentire il trattamento salva-vita della trasfusione di sangue, fondato sul proprio convincimento religioso tutelato dalla Costituzione, costituente un limite invalicabile di rispetto della persona umana (in questo caso il dissenso alle terapie era stato espresso, anche per scritto, in una fase di perfetta coscienza delle conseguenze, a seguito di esaurienti, approfondite e complete informazioni fornite dai medici, fino ai momenti immediatamente precedenti il trasporto in sala operatoria). Nello stesso senso: Tribunale di Torino, sez. IV, sentenza 13 aprile 2011, n. 2533, Corte Appello di Milano, I Sez. Civ., 19 agosto 2011, n. 2359.

La Corte di Appello di Cagliari, sez. civ., 16 gennaio 2009, haaccolto il ricorso di un testimone di Geova contro il decreto del Giudice tutelare che, pur nominando un amministratore di sostegno, non lo aveva autorizzato a rifiutare la trasfusione di sangue per conto del beneficiario in caso di perdita di coscienza. Secondo la Corte di appello, “il consenso dato in condizioni di piena capacità non perde valore qualora sopraggiunga un successivo stato di incapacità del soggetto e solo per questo: l’obiezione sulla perdita eventuale della capacità naturale, ove accolta, finirebbe con l’incidere negativamente sulla libertà dell’individuo: il fatto che la persona non abbia più la possibilità di revocare l’atto non è un motivo per disconoscerle a posteriori la libertà che ha manifestato compiendo l’atto […] Per altro verso, in ordine al requisito dell’attualità del consenso, questa corte aderisce all’interpretazione della dottrina che ha sottolineato come la ragione del rifiuto della terapia trasfusionale collegato all’adesione ad una determinata religione (come in questo caso), è ragione che di per sé stessa comporta la permanenza nel tempo della volontà, che è espressione dell’osservanza incondizionata dei principi imposti dal credo di appartenenza”.

 

Molto diversa è la situazione quando il paziente interessato alla trasfusione è un minore ed i genitori, in virtù delle loro convinzioni religiose, rifiutano di prestare il proprio consenso. In tal caso prevale l’interesse del minore:  ne consegue che, nei casi di urgenza, i medici possono intervenire sulla base dello stato di necessità; negli altri casi, deve essere richiesta all’autorità giudiziaria l'autorizzazione a praticare le cure necessarie. Il rifiuto di sottoporre il minore a trasfusione può altresì portare alla pronuncia di decadenza o di sospensione della potestà parentale ai sensi degli artt. 330 e 333 cod. civ.

 

L’adesione di uno dei coniugi alla confessione dei testimoni di Geova viene spesso in questione nelle cause di separazione e divorzio, soprattutto con riferimento all’affidamento della prole minore.

La giurisprudenza è peraltro consolidata nel senso di escludere la rilevanza delle scelte religiose in sé considerate, in quanto espressione di un diritto costituzionalmente garantito; le scelte religiose, e in particolare quelle dei testimoni di Geova, sono peraltro oggetto di apprezzamento quando, nel caso concreto, possono arrecare pregiudizio al corretto sviluppo dei minori.

Può richiamarsi in proposito la recente sentenza della Cassazione, I sez. civ., 12 aprile 2012, n. 9546, che ha deciso sul ricorso presentato da una madre testimone di Geova avverso una sentenza della Corte di appello di Firenze, che, nel disporre l’affido condiviso del figlio minore, aveva imposto alla madre l’obbligo di astenersi da qualsiasi condotta di coinvolgimento del minore nella propria scelta religiosa. La Suprema Corte ha respinto il ricorso, in quanto l’obbligo imposto ha assunto a parametro di riferimento l’interesse preminente del minore, ritenuto pregiudicato non già per soggettivi pregiudizi religiosi o per i connotati propri del movimento dei Testimoni di Geova, ma per gli specifici effetti dannosi per l’equilibrio e la salute psichica del figlio, ancora in tenera età, indotti dai comportamenti materni conseguenti e correlati all’adesione a tale confessione religiosa ed inseritisi in un contesto di vita del minore già reso particolarmente delicato dalla separazione dei genitori.

Lo stesso ragionamento è sotteso a Cassazione, I sez. civ., 7 febbraio 1995, n. 1401, secondo cui Il comportamento di un coniuge consistente nel mutamento di fede religiosa (nella specie, da religione cattolica a testimone di Geova), rispetto a quella praticata al momento della celebrazione del matrimonio, si ricollega all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 cost. e non può avere rilevanza come motivo di addebito della separazione o come ragione incidente nell’affidamento dei figli, se ed in quanto non superi i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge o di genitore per le forme del comportamento adottate.

 

Numerose sono al riguardo le pronunce della giurisprudenza di merito.

Il Tribunale dei minorenni di Venezia, 5 ottobre 1992, che, pur disponendo l’affido al padre di un minore, ha riconosciuto a quest’ultimo il diritto di professare la religione materna e di frequentare con la madre le adunanze dei testimoni di Geova, poiché alla confessione materna il minore aveva aderito già da tempo, maturando un’esperienza divenuta per lui un valore integrato a livello di personalità. Il Tribunale dei minorenni di Venezia, 10 maggio 1990, ha ritenuto che l’educazione del figlio secondo i principi integralisti e intransigenti dei testimoni di Geova non costituisce condotta pregiudizievole al minore se effettuata in modo tale da non turbare una crescita equilibrata e il più possibile integrata con l’ambiente circostante, allo scopo di consentire al figlio di operare in futuro le proprie scelte anche religiose con libertà ed autonomia; conseguentemente, il tribunale ha mantenuto l’affidamento del figlio alla madre ma ha incaricato il consultorio familiare di relazione ogni sei mesi circa il processo evolutivo del minore.

Il Tribunale di Roma, 3 febbraio 1988, nell’ipotesi di contrasto tra genitori divorziati sull’educazione religiosa dei figli minori, ha ritenuto inammissibile l’intervento del giudice, a meno che il messaggio religioso che ciascuno genitore (il padre testimone di Geova, la madre cattolica) voglia far assimilare dai figli contrasti con i fondamentali principi etico-giuridici dello Stato e del suo ordinamento, non essendo possibile stabilire, fuori di un’ipotesi siffatta, una gerarchia di valore tra le diverse confessioni religiose, fermo restando, tuttavia, che se il minore sia già sufficientemente maturo, dovrà dai genitori attribuirsi prevalenza alla volontà del figlio.

 

In merito alla assistenza di un ministro di culto per i detenuti, la Cassazione, I sez. pen., 8 marzo 2011, n. 20979 ha ritenuto illegittimo il rigetto da parte del magistrato di sorveglianza della richiesta di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all'art. 41-bis ord.pen., intesa ad ottenere l'autorizzazione ad incontrare in via permanente un ministro del culto dei testimoni di Geova per lo studio e l'approfondimento dei testi biblici, ai sensi dell’art. 26, comma quarto, ord. pen., ferma restando l'esigenza di autorizzare il colloquio con modalità tali da assicurare l'ordine e la sicurezza dell'istituto penitenziario.

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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