Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento giustizia
Titolo: Disposizioni concernenti il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione ' A.C. 825 (Schede di lettura e riferimenti normativi)
Riferimenti:
AC N. 825/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 179
Data: 10/06/2009
Descrittori:
DIVIETI   MISURE DI PREVENZIONE E SICUREZZA
PROPAGANDA ELETTORALE     
Organi della Camera: II-Giustizia

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

 

 

Disposizioni concernenti il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione

A.C. 825

Schede di lettura e riferimenti normativi

 

 

 

 

n. 179

 

 

 

10 giugno 2009

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Giustizia

( 066760-9148 / 066760-9559 – * st_giustizia@camera.it

 

 

 

 

 

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File: GI0209.doc

 


INDICE

Schede di lettura

Quadro normativo  3

§      Le misure di prevenzione personali3

§      Gli effetti dell’applicazione della misura di prevenzione personale sull’elettorato attivo e passivo  5

Contenuto della proposta di legge  8

Normativa di riferimento

§      Codice penale (art. 36)17

§      L. 27 dicembre 1956, n. 1423. Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità  18

§      L. 31 maggio 1965, n. 575. Disposizioni contro la mafia.26

Giurisprudenza costituzionale

§      Sentenza n. 141 del 1996  53

Documentazione

§      XV Legislatura: Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare: Relazione sulla designazione dei candidati alle elezioni amministrative  (DOC XXIII, n. 1), approvata nella seduta del 3 aprile 2007  63

 

 


Schede di lettura

 


 

Quadro normativo

La proposta di legge AC 825 (On. Angela Napoli) intende limitare la possibilità di coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione personale di svolgere propaganda elettorale; contestualmente, la proposta configura come delitto la condotta del candidato che solleciti tale propaganda.

Le misure di prevenzione personali

Il nostro ordinamento, accanto alle misure cautelari e alle misure di sicurezza (previste, rispettivamente, dagli articoli 13 e 25 della Costituzione), prevede anche le misure di prevenzione; esse si differenziano dalle prime in quanto trovano applicazione indipendentemente dalla commissione di un reato e costituiscono applicazione del principio di «prevenzione e sicurezza sociale, per il quale l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell’avvenire» (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 27 del 1959).

 

Il quadro normativo relativo alle misure di prevenzione parte dalla fondamentale legge 27 dicembre 1956, n. 1423[1], ampiamente modificata negli anni successivi, cui si affianca la legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia) che ha esteso le tradizionali misure preventive di natura personale (sorveglianza speciale, divieto ed obbligo di soggiorno) agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose. Successivamente la legge 13 settembre 1982, n. 646 (c.d. Rognoni La Torre)[2], ha operato tale estensione per gli indiziati di appartenere ad associazioni camorristiche ed assimilabili. Le ulteriori leggi 3 agosto 1988, n. 327[3], 19 marzo 1990, n. 55[4]e, soprattutto, 7 marzo 1996, n. 109[5], hanno introdotto rilevanti modifiche alla normativa concernente le tradizionali misure di prevenzione, con l’obiettivo di eliminare gli inconvenienti più vistosi della precedente disciplina. La citata legge n. 109/1996 ha, in particolare, introdotto nella legge quadro 575/1965 una serie di disposizioni (artt. da 2-nonies a 2-duodecies) che hanno profondamente riformato la disciplina della gestione e destinazione dei beni oggetto di sequestro e confisca.

 

Le misure di prevenzione sono personali e patrimoniali[6].

Le misure personali possono essere disposte nei confronti di:

§         coloro che siano indiziati di appartenere ad associazioni mafiose[7];

§         coloro che, in base a elementi concreti, si ritenga siano abitualmente dediti a traffici delittuosi;

§         coloro che, in base a elementi concreti, si ritenga che vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose;

§         coloro che, in base a elementi concreti, si ritenga siano dediti alla commissione di reati che mettano in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

 

Le misure di prevenzione personali (previste dall’articolo 3 della legge n. 1423 del 1956) sono:

a) la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, che comporta una serie di obblighi simili a quelli della libertà vigilata;

b) il divieto o l’obbligo di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più Province.

Tali misure possono essere disposte se nonostante l’avviso orale (ovvero l’invito a cambiare comportamento rivolto dal questore all'interessato) il soggetto non ha mutato condotta, ovvero risulta comunque pericoloso per la sicurezza pubblica.

Ciascuna di tali misure si accompagna a una serie di prescrizioni, indicate dall’articolo 5 della legge n. 1423/1956.

In base all’articolo 4, la proposta di applicazione della misura di prevenzione deve essere motivata e indirizzata dal questore al presidente del tribunale avente sede nel capoluogo di provincia.

Il tribunale provvede, in camera di consiglio, con decreto motivato, entro trenta giorni, con l'intervento del pubblico ministero e dell'interessato, che può presentare memorie e farsi assistere da un avvocato.

Il provvedimento del tribunale stabilisce la durata della misura di prevenzione, che non può essere inferiore ad un anno né superiore a cinque. Il provvedimento è comunicato al PM, al procuratore generale presso la Corte di appello ed all'interessato, i quali hanno facoltà di proporre ricorso alla Corte d'appello, anche per il merito. Avverso il decreto della Corte d'appello, è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge.

Il successivo articolo 7 della legge n. 1423 dispone che il provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali sia comunicato al Questore per l'esecuzione. Il provvedimento stesso, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato. Il provvedimento può essere altresì modificato, anche per l'applicazione del divieto o dell'obbligo di soggiorno, su richiesta dell'autorità proponente, quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica o quando la persona sottoposta alla sorveglianza speciale abbia ripetutamente violato gli obblighi inerenti alla misura.

Il ricorso contro il provvedimento di revoca o di modifica non ha effetto sospensivo. Nel caso di modificazione del provvedimento o di taluna delle prescrizioni per gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica, ovvero per violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, il presidente del tribunale può, nella pendenza del procedimento, disporre con decreto l'applicazione provvisoria della misura, delle prescrizioni o degli obblighi richiesti con la proposta.

L’articolo 9 della legge n. 1453 prevede le sanzioni per la violazione degli obblighi e delle prescrizioni contenute nel provvedimento di applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale. 

 

Gli effetti dell’applicazione della misura di prevenzione personale sull’elettorato attivo e passivo

L’applicazione di una misura di prevenzione personale comporta limitazioni all’esercizio dei diritti politici da parte del destinatario della misura stessa.

In base all’articolo 48, quarto comma, della Costituzione, il diritto di elettorato attivo può essere limitato soltanto per incapacità civile o per effetto di una sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.

Per quanto riguarda le elezioni politiche, la legge (D.P.R. 223/1967, art. 2) elenca tassativamente le cause di perdita dell’elettorato attivo. Sono esclusi definitivamente o temporaneamente dal diritto di elettorato attivo:

§         coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione personali, finché durano gli effetti dei provvedimenti stessi;

§         coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, a misure di sicurezza personali detentive oppure alla libertà vigilata oppure al divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, a norma dell'art. 215 del codice penale, finché durano gli effetti dei provvedimenti stessi;

§         i condannati a pena che importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici;

§         coloro che sono sottoposti all'interdizione temporanea dai pubblici uffici, per tutto il tempo della sua durata.

Le sentenze penali producono la perdita del diritto elettorale solo quando sono passate in giudicato. La sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini della privazione del diritto di elettorato attivo.

Il destinatario di una misura di prevenzione personale non può dunque – se il provvedimento di applicazione della misura ha carattere definitivo e finché durano gli effetti della misura – esercitare il proprio diritto di voto e conseguentemente non può neanche essere candidato (gli artt. 56, terzo comma e 58, secondo comma, stabiliscono che possono essere eletti alla carica di deputato e senatore i cittadini italiani che siano titolari del diritto di elettorato attivo e abbiano compiuto rispettivamente il 25° e il 40° anno di età).

La perdita della capacità elettorale attiva produce dunque come diretta conseguenza l’estinzione del diritto di elettorato passivo.

 

Per quanto riguarda le elezioni regionali ed amministrative, l’art. 15 della legge 55/1990[8] e l’art. 58 del D.Lgs. 267/2000[9] prevedono invece l’incandidabilità[10] per coloro nei confronti dei quali sia stata applicata, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione, in quanto indiziati di appartenere ad una associazione di tipo mafioso.

 

In merito si ricorda che originariamente l’art. 15 della legge n. 55 del 1990 prevedeva la non candidabilità di coloro nei cui confronti il tribunale avesse applicato una misura di prevenzione quando il relativo provvedimento non avesse carattere definitivo. Tale norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 141 del 1996. In tale occasione la Corte ha infatti affermato che «Solo una sentenza irrevocabile […] può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive […]. Le ragioni che inducono questa Corte a ritenere incostituzionale la norma […] valgono allo stesso titolo con riguardo alle altre fattispecie che la legge collega a sentenze di condanna non ancora passate in giudicato o a provvedimenti giurisdizionali non definitivi che comportano l'applicazione di misure di prevenzione».

 

L'eventuale elezione di coloro che si trovano nelle condizioni descritte è nulla e l'organo che ha convalidato l'elezione è tenuto a revocarla non appena viene a conoscenza della loro esistenza.

Per le elezioni amministrative, peraltro, l’art. 59 del TU enti locali assegna rilevanza anche all’applicazione di una misura di prevenzione con provvedimento non definitivo, ricollegando a tale ipotesi la sospensione di diritto dalle cariche elettive. Il sistema di cautele, in altri termini, si muove su una doppia linea: non candidabilità (limite preventivo) per i soggetti condannati in via definitiva; sospensione dalla carica (intervento correttivo) per i soggetti raggiunti da provvedimenti giudiziari non definitivi.

 

Si ricorda peraltro che nel corso della scorsa legislatura, la Commissione d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa ha approvato (3 aprile 2007) una relazione sulla designazione dei candidati alle elezioni amministrative (Doc. XXIII, n. 1), nella quale propone che le formazioni politiche e sociali che partecipano alla vita politica e amministrativa degli Enti locali aderiscano ad un codice di autoregolamentazione delle candidature. I partiti, le formazioni politiche e le liste civiche che aderiscono alle previsioni del codice dovrebbero impegnarsi, tra l’altro, a non presentare come candidati alle elezioni coloro nei cui confronti, alla data di pubblicazione della convocazione dei comizi elettorali:

-         sia stata disposta l'applicazione di misure di prevenzione personali o patrimoniali, ancorché non definitive, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575;

-         siano stati imposti divieti, sospensioni e decadenze ai sensi della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ovvero della legge 31 maggio 1965, n. 575, così come successivamente modificate e integrate.

 

Attualmente dunque il destinatario di una misura di prevenzione, applicata con provvedimento definitivo:

-          non vota alle elezioni politiche;

-          non può essere candidato alle elezioni politiche;

-          non può essere candidato alle elezioni regionali e amministrative (se la misura di prevenzione riguarda l’indiziato di appartenere ad un’associazione mafiosa).

La legislazione pone limiti all’elettorato attivo e passivo solo in presenza di un provvedimento definitivo e non limita in alcun modo il diritto del singolo, destinatario di una misura di prevenzione personale, di svolgere comunque un’attività politica.


 

Contenuto della proposta di legge

L’articolo 1 della proposta di legge novella l’art. 5 della legge n. 1423 del 1956 (v. quadro normativo) per prevedere che con il provvedimento che applica la misura di prevenzione della sorveglianza speciale il tribunale debba imporre anche il divieto di svolgere propaganda elettorale «in favore o in pregiudizio di candidati o di simboli, con qualsiasi mezzo, direttamente o indirettamente».

 

Secondo un consolidato orientamento, la propaganda elettorale è definita dalla giurisprudenza quale «specifica attività che si svolge nell'ambito del procedimento preparatorio della scelta e che è volta ad influire sulla volontà degli elettori nel periodo che precede le elezioni. Essa si connota [...] per la sua inerenza, diretta o indiretta alla competizione elettorale, sia quando ha, come scopo immediato o mediato, quello di acquistare voti o sottrarne agli avversari, sia quando ha come scopo, anche mediato, di convincere l'elettore a non votare, oppure a presentare scheda bianca, a rendere il voto nullo o ad esprimerlo in modo inefficace» (Corte di cassazione, sentenze n. 477/1998, e n. 11835/1989).

La legge non fornisce una nozione di propaganda elettorale; tuttavia dalle disposizioni che regolano la campagna elettorale si possono ricavare gli elementi necessari per individuarne i limiti temporali, le attività in cui si esplica e i soggetti coinvolti.

Per quanto riguarda i limiti temporali, la campagna elettorale ha inizio generalmente con la convocazione dei comizi elettorali e termina il giorno precedente le elezioni, dedicato alla cosiddetta pausa di riflessione.

A partire dalla data di convocazione dei comizi elettorali inizia la regolamentazione della comunicazione politica radio-televisiva e dei messaggi politici elettorali su quotidiani e periodici che si deve svolgere nelle forme prefissate dalla legge (L. 28/2000, art. 4 e L. 515/1993, art. 1 e 7).

Altre forme di propaganda elettorale prevedono tempi differenti: l’affissione dei manifesti deve essere effettuata esclusivamente negli spazi messi a disposizione dei comuni tra il 33° e il 30° giorno precedente le elezioni (L. 212/1956, art. 2).

Le riunioni elettorali possono aver luogo non prima del 30° giorno antecedente le elezioni (L. 130/1975, art. 9).

La propaganda elettorale si svolge attraverso molteplici attività disciplinate dalla legge.

In tale ambito, un ruolo prevalente ha la propaganda radio-televisiva che si può esplicare nelle forme di comunicazione politica (tribune politiche, dibattiti, tavole rotonde, interviste, dibattiti ecc.) e di messaggi politici autogestiti per la presentazione non in contraddittorio di liste e programmi (L. 28/2000).

Accanto a quella radio-televisiva, si ricordano altre forme tipiche di propaganda elettorale:

§         la propaganda a mezzo stampa (disciplinata dalla stessa L. 28/2000) consistente nella pubblicazione di messaggi politici elettorali, annunci di dibattiti, tavole rotonde ecc., pubblicazioni destinate alla presentazione di programmi politici di confronto tra programmi;

§         le riunioni elettorali che possono avvenire in luoghi privati o aperti al pubblico e in luoghi pubblici, quali comizi, cortei, sit-in (L. 139/1975);

§         le affissioni di materiale elettorale in luoghi pubblici, in forma di stampati, giornali murali, manifesti (L. 212/1956).

Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha portato alla diffusione di nuove modalità di comunicazione per la propaganda elettorale, quali fax, messaggi Sms o Mms, e-mail, chiamate telefoniche preregistrate (una regolamentazione di queste forme di propaganda è contenuta in un provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 7 settembre 2005).

I soggetti attivi della propaganda elettorale si identificano principalmente con i candidati e gli attivisti dei partiti e dei movimenti politici. Tuttavia, chiunque può intervenire in qualche misura nelle attività volte a influenzare gli elettori. Tra questi, la legge individua una categoria particolare: i cosiddetti fiancheggiatori, ossia coloro che pur non partecipando direttamente alle elezioni, intendano fare propaganda elettorale; anche a costoro i comuni devono assicurare appositi spazi per l’affissione di materiale propagandistico (L. 212/1956, art. 1, 2° comma).

Inoltre, si possono individuare altre figure che intervengono in appoggio ai candidati e ai partiti nella campagna elettorale, tra cui il mandatario elettorale[11] e il committente responsabile[12].

 

La disposizione in commento limita dunque la possibilità per il destinatario di una misura di prevenzione personale di svolgere attività volte ad influire – nell’ambito del periodo che precede le elezioni - sulla volontà degli elettori, con lo scopo immediato o mediato di acquistare voti, di sottrarne agli avversari, di convincere l'elettore a non votare oppure a presentare scheda bianca, a rendere il voto nullo o ad esprimerlo in modo inefficace.

Sulla base del tenore letterale della disposizione, sembrano escluse le consultazioni referendarie.

 

Attualmente, l’ordinamento prevede ipotesi analoghe, di limitazione all’attività politica, per ristrette categorie di pubblici funzionari, in attuazione dell’articolo 98, comma terzo, della Costituzione.

 

L’articolo 98, terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di stabilire con legge limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per alcune determinate categorie di pubblici funzionari: magistrati, militari, funzionari ed agenti di polizia, diplomatici.

La facoltà di limitare il diritto di iscrizione dei diritti politici prevista dall’articolo 98 Cost. è stata esercitata solamente nei confronti delle forze di polizia: la legge di riforma della polizia ha, infatti, posto il divieto di iscrizione ai partiti politici per gli appartenenti alla polizia di Stato, Arma dei carabinieri, Corpo della guardia di finanza, Corpo degli agenti di custodia e Corpo forestale dello Stato (L. 121/1981, artt. 114 e 16).

Altre disposizioni di legge prevedono limitazioni all’esercizio dei diritti politici, diverse dal divieto di iscrizione ai partiti, nei confronti delle seguenti categorie.

I giudici della Corte costituzionale “non possono svolgere attività inerente ad una associazione o partito politico” (L. 87/1953, art. 8).

I componenti del Consiglio superiore della magistratura “non possono svolgere attività proprie degli iscritti ad un partito politico” (L. 195/1958, come integrata dalla L. 74/1990).

Ai militari è vietato “partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative” (L. 382/1978, art. 6, secondo comma). Tuttavia, è consentito loro di candidarsi alle elezioni politiche o amministrative e in questi casi possono svolgere liberamente attività politica e di propaganda, benché al di fuori dell'ambiente militare e in abito civile (L. 382/1978, art. 6, terzo comma).

Infine, non possono essere nominati i magistrati onorari aggregati “coloro che ricoprano o abbiano ricoperto nel triennio precedente alla nomina incarichi direttivi o esecutivi nei partiti politici” (L. 276/1997, art. 2).

 

Peraltro, posto che la finalità della proposta di legge è di evitare che il “delinquente [possa] procedere alla raccolta dei voti, perdendo così il suo potere contrattuale nei confronti del politico” (cfr. relazione di accompagnamento) pare utile ricordare che già attualmente l’ordinamento configura come reato elettorale (art. 97 del D.P.R. n. 361/1957[13]), sanzionato con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa da 309 a 2.065 euro, la condotta di chiunque usi violenza o minaccia o, con notizie da lui conosciute false, con raggiri od artifizi, ovvero con qualunque mezzo illecito atto a diminuire la libertà degli elettori, eserciti pressione per costringerli a votare in favore di determinate liste o di determinati candidati.

In merito, la Corte di cassazione ha sostenuto che ai fini della configurabilità di questo delitto «costituisce mezzo illecito atto a diminuire la libertà degli elettori, e quindi mezzo di pressione per costringere costoro a votare in favore di un determinato candidato, il procurato sostegno alla candidatura da parte di un'associazione mafiosa operante nella zona interessata alle elezioni, comunque esso si manifesti pubblicamente ovvero con modalità tali da darne sicura contezza, (nella specie attraverso la propaganda elettorale, mediante la presenza del capo dell'associazione o degli associati nell'organizzazione e nei luoghi della campagna elettorale, ovvero dinanzi alle sezioni elettori nei giorni delle votazioni) in forza della capacità di intimidazione dell'associazione, non essendo invece necessario l'adozione di mezzi violenti o di specifiche minacce nei confronti dei singoli elettori» (cfr. Sez. VI, sentenza n. 3128 del 3 settembre 1992).

 

 

L’articolo 2 della proposta di legge novella l’articolo 9 della legge n. 1453/1956, in tema di sanzioni per l’inosservanza delle prescrizioni connesse alla misura della sorveglianza speciale.

Attualmente, l’art. 9 prevede:

§         l’arresto da 3 mesi a un anno per la violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale (comma 1);

§         la reclusione da 1 a 5 anni se l’inosservanza riguarda gli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno. In questo caso è consentito l'arresto anche fuori dei casi di flagranza (comma 2).

Intervenendo sul comma 2 della disposizione, la proposta di legge è volta a sanzionare con la reclusione da 1 a 5 anni anche la violazione del divieto di propaganda elettorale.

 

Così come formulata, la novella sembrerebbe presupporre la possibilità che la misura della sorveglianza speciale possa essere con o senza divieto di propaganda elettorale, allorché invece, in base al testo novellato dell’articolo 5, tale divieto consegue automaticamente alla misura di prevenzione. Sarebbe quindi più opportuno una diversa formulazione della novella volta ad inserire nel comma 2 le parole “o il divieto di propaganda elettorale” (piuttosto che le parole “o con il divieto di propaganda elettorale”). In alternativa, si potrebbe prevedere un autonomo periodo, nell’ambito del comma 2, per la violazione di tale disposizione.

 

Nonostante il legislatore non abbia fino ad oggi espressamente definito il concetto di propaganda elettorale, occorre tuttavia ricordare che già attualmente nell’ordinamento esistono fattispecie penali che fondano sulla definizione di tali attività – fornita dalla giurisprudenza (v. sopra) – condotte penalmente rilevanti. Si pensi, ad esempio, all’art. 99 del D.P.R. n. 361 del 1957 che sanziona con la reclusione da 1 a 3 anni e con la multa da 309 a 1.549 euro chiunque, con qualsiasi mezzo, impedisce o turba una riunione di propaganda elettorale, sia pubblica che privata.

 

L’articolo 3 della proposta configura come delitto la condotta del candidato – a qualunque tipo di elezione - che richieda o solleciti la propaganda in suo favore da parte di una persona sottoposta a misura di prevenzione. La sanzione è la reclusione da 2 a 5 anni (comma 1).

 

Ai sensi del comma 2, alla condanna consegue:

-         l’ineleggibilità per un periodo compreso tra i 5 ed i 10 anni;

-         la decadenza dalla carica già conseguita «previa delibera dell’organo di appartenenza»;

 

In generale, si ricorda che le cosiddette cause di ineleggibilità comportano un impedimento giuridico a divenire soggetto passivo del rapporto elettorale e costituiscono quindi fattispecie limitative del diritto di elettorato passivo.

Mentre le cause di incandidabilità incidono sulla capacità elettorale passiva, condizionando la stessa possibilità del cittadino di candidarsi, le cause di ineleggibilità non escludono (anzi presuppongono) la capacità elettorale del cittadino impedendogli tuttavia di divenire soggetto passivo del rapporto elettorale.

La ratio prevalente delle norme sulle ineleggibilità è quella di impedire che alcuni candidati, in virtù della carica ricoperta o dell’attività esercitata al momento dell’elezione, possano godere nella pratica di una posizione privilegiata nel corso della campagna elettorale ed esercitare pressioni in grado di condizionare la libera scelta degli elettori.

Le cause di incandidabilità, previste dalla sola disciplina delle elezioni regionali ed amministrative, hanno l’obiettivo di vietare l’accesso alle cariche pubbliche di soggetti condannati in via definitiva per gravi reati – compresi, in particolare, quelli contro la pubblica amministrazione – o sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive.

Da ciò discende una importante differenza tra i due istituti: mentre generalmente le cause di ineleggibilità possono essere rimosse entro un termine predefinito, le cause di incandidabilità precludono definitivamente la possibilità di esercitare il diritto di elettorato passivo.

 

Si ricorda inoltre che, attualmente, per le elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, il sopra richiamato art. 15 della L. 55/1990 prevede l’incandidabilità (e contestualmente l’impossibilità di rivestire la carica di assessore regionale, assessore provinciale, assessore comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni strumentali degli enti locali, presidente e componente degli organi delle comunità montane), per coloro che hanno riportato una condanna definitiva per uno dei seguenti delitti:

-         associazione di tipo mafioso o associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti; delitti concernenti l’importazione, l’esportazione, la produzione, la vendita di armi; delitti di favoreggiamento personale o reale commesso in relazione a tali reati;

-         peculato, malversazione a danno dello Stato, concussione, corruzione per un atto d’ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio;

-         delitti, diversi da quelli di cui al punto precedente, commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio per i quali sia stata comminata definitivamente la pena della reclusione superiore a sei mesi;

-         delitti non colposi per i quali sia stata inflitta la pena della reclusione non inferiore a due anni.

Come già detto (v. quadro normativo), le medesime condizioni di non candidabilità sussistono anche per coloro nei confronti dei quali sia stata applicata, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione, in quanto indiziati di appartenere ad una associazione di tipo mafioso.

L'eventuale elezione di coloro che si trovano nelle condizioni descritte è nulla. L'organo che ha convalidato l'elezione è tenuto a revocarla non appena viene a conoscenza della loro esistenza.

 

La fattispecie prevista dal comma 2 sembra avvicinarsi ad un’ipotesi di non candidabilità, caratterizzata dal fatto che l’interessato non è in condizione di  rimuovere l'impedimento all'elezione (come invece è ammesso per le cause di ineleggibilità derivanti da uffici ricoperti attraverso la presentazione delle dimissioni o il collocamento in aspettativa).

Si segnala che, rispetto alle disposizioni sopra richiamate sulle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali,l’incandidabilità non viene direttamente contemplata dalla legge ma dichiarata dal giudice.

 

Con riferimento a tale ultimo aspetto, si osserva che il medesimo comma 2 sembra ricollegare ad una sentenza di condanna di primo grado l’ineleggibilità del candidato condannato per avere sollecitato o richiesto la propaganda elettorale da parte di soggetto sottoposto a misura di prevenzione, allorché invece il comma 3 fa riferimento alla trasmissione della sentenza passata in giudicato ai fini dell’esecuzione del provvedimento dichiarativo di ineleggibilità o di decadenza.

 

In proposito si ricorda che la sopra richiamata normativa vigente in tema di incandidabilità assume come riferimento una condanna penale passata in giudicato.

Si richiama in merito la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 141 del 1996, ha dichiarato l’illegittimità di norme contenute nella legge n. 55 del 1990 (art. 15) nella parte in cui consentivano a sentenze penali non definitive o a provvedimenti giurisdizionali di applicazione di una misura di prevenzione privi del requisito della definitività di comprimere l’elettorato passivo.

 

In quella sede, in particolare, la Consulta ha:

§         sottolineato che il diritto di elettorato passivo, che l'art. 51 della Costituzione assicura in via generale è da ricondurre alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art. 2 della Costituzione (cfr. anche, sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988);

§         affermato che colui che è sottoposto a procedimento penale deve godere della presunzione di non colpevolezza ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, è non può dunque essere escluso dalla tornata elettorale, «un effetto irreversibile che in questo caso può essere giustificato soltanto da una sentenza di condanna irrevocabile»; ogni ipotesi diversa «assume i caratteri di una sanzione anticipata»;

§         concluso ribadendo che «Solo una sentenza irrevocabile, nella specie, può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive; né vale obiettare che si tratta di elezioni amministrative, e non di quelle politiche generali, perché pure in questo caso è in gioco il principio democratico, assistito dal riconoscimento costituzionale delle autonomie locali».

Il comma 3, infine, prevede la pubblicazione della sentenza e la trasmissione della medesima, passata in giudicato, al prefetto della provincia del luogo di residenza del candidato, per l'esecuzione del provvedimento dichiarativo di ineleggibilità o di decadenza.

 

Relativamente a tale ultimo aspetto, con riferimento ai vari tipi di elezione, sarebbe opportuno un chiarimento circa le competenze del prefetto in merito all’esecuzione del provvedimento dichiarativo di ineleggibilità o decadenza..

 

 


SIWEB

Giurisprudenza costituzionale

 


SENTENZA N.141

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Avv. Mauro FERRI Presidente

- Prof. Luigi MENGONI giudice

- Prof. Enzo CHELI "

- Dott. Renato GRANATA "

- Prof. Giuliano VASSALLI "

- Prof. Francesco GUIZZI "

- Prof. Cesare MIRABELLI "

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "

- Avv. Massimo VARI "

- Dott. Cesare RUPERTO "

- Dott. Riccardo CHIEPPA "

- Prof. Valerio ONIDA "

- Prof. Carlo MEZZANOTTE "

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso con ordinanza emessa il 26 giugno 1995 dalla Corte costituzionale, iscritta al n. 507 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1995.

 

Visti gli atti di intervento di Mancini Giacomo, Cito Giancarlo e del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1. -- Con ordinanza del 10 ottobre 1994, il Tribunale di Patti - giudicando sul ricorso proposto da Luciano Milio per l'annullamento dell'elezione di Vincenzo Roberto Sindoni a Sindaco del Comune di Capo d'Orlando - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui riconduce la non candidabilità anche alla condotta di detenzione di sostanza stupefacente come regolamentata dal d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171.

 

Ora, osserva il giudice a quo, l'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, stabilisce al comma 1, lettera e), la non candidabilità, con conseguente nullità dell'eventuale elezione (comma 4), di coloro nei cui confronti pende procedimento penale per un delitto di cui all'art. 74 (recte: 73) del testo unico approvato con d.P.R. n. 309 del 1990, "concernente la produzione o il traffico di dette sostanze". Pur essendo il riferimento all'art. 73 di stretta interpretazione, il senso dell'incidentale testé riportata ("concernente la produzione o il traffico") non può tuttavia essere quello di circoscrivere soltanto ad alcune ipotesi la previsione. Esso va inteso come rinvio alla rubrica dell'art. 73 ("produzione e traffico") che coinvolge tutte le condotte descritte, ed è dunque causa di non candidabilità l'essere sottoposti a giudizio per una qualsiasi delle condotte descritte dal citato art. 73.

 

Rileva il Tribunale che a seguito del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 - emesso in forza del risultato positivo del referendum abrogativo del 18 e 19 aprile 1993 - la fattispecie di reato contestata al Sindoni ha rilevanza penale quando la sostanza sia destinata a terzi, dal momento che è stata depenalizzata la detenzione per uso personale. Per altro verso, però, inibendosi al giudice dell'azione elettorale l'accertamento, anche in via incidentale, dell'ipotesi di cui alla contestazione (il discrimine tra illecito penale e amministrativo essendo riservato al giudice penale), si dovrebbe statuire l'ineleggibilità per fatti la cui rilevanza penale è ormai dubbia. Di qui, il sospetto di illegittimità dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge citata, nella parte in cui sancisce la non candidabilità di coloro che siano stati rinviati a giudizio per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, potendosi configurare una situazione di detenzione per uso personale - perciò depenalizzata - non accertabile dal giudice dell'azione elettorale. Sì che ad avviso del Collegio rimettente la norma è in contrasto:

 

- con l'art. 3 della Costituzione, perché si vengono a equiparare, in difetto di un potere di valutazione, posizioni diverse come quelle dello spacciatore e del detentore per uso personale, nei confronti del quale sia esercitata l'azione penale sulla scorta della normativa previgente;

 

- con l'art. 51 della Costituzione, perché l'applicazione della norma porterebbe a statuire l'ineleggibilità anche in assenza di una preclusione legislativa.

 

1.2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che si dichiari non fondata la questione.

 

2.1. -- Nel corso di detto giudizio, con l'ordinanza n. 297 emessa il 26 giugno 1995 (e iscritta al n. 507 del registro ordinanze dello stesso anno) questa Corte ha sollevato dinanzi a sé, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio.

 

Nell'anzidetta ordinanza, la Corte sottolinea come - rispetto alla questione particolare sollevata dal Tribunale di Patti - sia pregiudiziale il vaglio di legittimità costituzionale della norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche elettive quando sia stato disposto, per determinati reati, il rinvio a giudizio. Il dubbio di legittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettera e), della legge n. 55 del 1990 va posto in riferimento alla presunzione di non colpevolezza dell'imputato sino alla condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, nonché agli artt. 2, 3 e 51, primo comma, della Costituzione.

 

2.2. -- Nel giudizio introdotto dall'ordinanza di questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ricordando come la non candidabilità abbia carattere cautelare; e sostenendo che non rileva il principio costituzionale di non colpevolezza, per cui la questione sarebbe infondata anche sulla base della considerazione che nell'ordinamento sussistono cause di ineleggibilità non ancorate ad alcuna presunzione, né ad alcun indizio o sospetto d'illecito, ma a semplici ragioni di opportunità o di convenienza (si richiama in proposito l'art. 10 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361).

 

2.3. -- E' stato depositato, il 22 settembre 1995, atto di intervento di Giacomo Mancini, sospeso dalla carica di Sindaco di Cosenza, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge in esame, il quale afferma di avere interesse all'esito del presente giudizio di costituzionalità, perché la decisione relativa alla non candidabilità non potrà non riflettersi sulla sospensione dei candidati eletti.

 

Nell'imminenza della camera di consiglio (il 12 gennaio 1996) è stato infine depositato, tardivamente, atto di intervento di Giancarlo Cito, anch'egli sospeso dalla carica di Sindaco di Taranto.

 

Considerato in diritto

 

1. -- Questa Corte è stata investita dal Tribunale di Patti della questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui sancisce la non candidabilità, con conseguente nullità dell'elezione, di coloro i quali sono stati rinviati a giudizio per un delitto di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, pur potendosi configurare in concreto una condotta di detenzione di sostanze stupefacenti, per uso personale, depenalizzata ai sensi del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 (emesso a seguito di referendum abrogativo). I parametri invocati sono l'art. 3, per l'irragionevole equiparazione di situazioni diverse, e l'art. 51 della Costituzione, perché potrebbe sussistere l'ineleggibilità anche nell'ipotesi, accertabile dal giudice penale, di avvenuta depenalizzazione del fatto.

 

Viene ora all'esame la questione di legittimità costituzionale sollevata da questa Corte, in via pregiudiziale, nel corso del giudizio incidentale promosso dal Tribunale di Patti. La questione investe, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, secondo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, lo stesso art. 15, comma 1, lettera e), della citata legge n. 55 del 1990, novellata dalla legge n. 16 del 1992, nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, comunali, provinciali e circoscrizionali di coloro per i quali - in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a) - è stato disposto il giudizio, ovvero di coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio.

 

2. -- Preliminarmente va dichiarato inammissibile sia l'atto di intervento di Giancarlo Cito, perché tardivo, sia quello di Giacomo Mancini, dal momento che, analogamente al Cito, il Mancini non era parte nel giudizio promosso con l'ordinanza emessa dal Tribunale di Patti.

 

3. -- Occorre dunque valutare la legittimità costituzionale della norma che stabilisce, in via generale, la non candidabilità a cariche elettive di coloro per i quali sia stato disposto il giudizio, con riguardo ai reati indicati.

 

La questione è fondata in base ai principi contenuti negli articoli 2, 3 e 51 della Costituzione.

 

Individuando la ratio della legge n. 16 del 1992, la quale ha profondamente modificato l'impianto della legge n. 55 del 1990, questa Corte ha riconosciuto che, nelle sue varie disposizioni, essa tutela beni di primaria importanza, minacciati dall'infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso negli enti locali: le misure eccezionali adottate tendono a salvaguardare il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l'ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi (sentenze nn. 118 del 1994, 197 del 1993 e 407 del 1992). Proprio al fine di garantire questi valori, la legge n. 16 del 1992 integra le misure interdittive, provvisorie, già previste dalla legge n. 55 del 1990 nei confronti dei titolari di organi di amministrazione attiva, e per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità che incidono sulla costituzione delle assemblee elettive; fattispecie che, interferendo sulla formazione della rappresentanza, devono essere sottoposte a un controllo particolarmente stringente. In tale ipotesi, infatti, la norma incide direttamente sul diritto di partecipazione alla vita pubblica, quindi sui meccanismi che danno concretezza al principio della rappresentatività democratica nel governo degli enti locali, in quanto enti esponenziali delle collettività sottostanti (cfr. sentenza n. 97 del 1991).

 

La normativa in esame prevede la non candidabilità alle elezioni comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché regionali, di coloro i quali sono stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per alcuni delitti (ad es. associazione di tipo mafioso, di cui all'art. 416-bis del codice penale, o peculato, art. 314, concussione, art. 317, etc.), e di coloro per i quali è disposto il giudizio limitatamente ad alcuni dei delitti previsti, nella specie quelli, di notevole gravità, indicati alla lettera a) dell'art. 15 citato. La legge n. 16 interviene, dunque, anche sulla posizione dei componenti le assemblee rappresentative e di coloro che intendono concorrere alle cariche elettive, nell'esercizio del diritto di elettorato passivo.

 

Ora, tale non candidabilità va considerata come particolarissima causa di ineleggibilità (sentenza n. 407 del 1992) che il legislatore ha configurato in relazione a vicende processuali (condanna o rinvio a giudizio), e anche nel caso in cui siano adottate misure di prevenzione per indiziati di appartenenza a una delle associazioni di cui all'art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646. L'elezione di coloro che versano nelle condizioni di non candidabilità è nulla (art. 15, comma 4), senza che sia in alcun modo possibile per l'interessato rimuovere l'impedimento all'elezione, come invece è ammesso per le cause di ineleggibilità derivanti da uffici ricoperti attraverso la presentazione delle dimissioni o il collocamento in aspettativa (cfr. ancora la sentenza n. 97 del 1991).

 

La verifica di legittimità costituzionale deve effettuarsi innanzitutto alla luce del diritto di elettorato passivo, che l'art. 51 della Costituzione assicura in via generale, e che questa Corte ha ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art. 2 della Costituzione (sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988). Né tale controllo può arrestarsi dinanzi all'osservazione che esiste un nesso di strumentalità tra la non candidabilità e i valori di rilievo costituzionale testé ricordati: le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione (sentenza n. 467 del 1991, cons. dir., n. 5; sui limiti posti a diritti inviolabili da esigenze di conservazione dell'ordine pubblico, v., fra le varie, le sentenze nn. 138 del 1985 e 102 del 1975). Qui si deve accertare se la non candidabilità sia dunque indispensabile per assicurare la salvaguardia di detti valori, se sia misura proporzionata al fine perseguito o non finisca piuttosto per alterare i meccanismi di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delineati dal titolo IV, parte I, della Carta costituzionale, comprimendo un diritto inviolabile senza adeguata giustificazione di rilievo costituzionale.

 

Nel compiere tale verifica, non bisogna dimenticare che "l'eleggibilità è la regola, e l'ineleggibilità l'eccezione": le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (v. già la sentenza n. 46 del 1969, indi la sentenza n. 166 del 1972, fino alle sentenze nn. 571 del 1989 e 344 del 1993). Considerazioni che questa Corte ha già svolto con riguardo alle cause di ineleggibilità, peraltro sempre rimovibili dall'interessato: e, perciò, si richiede che il limite sia effettivamente indispensabile.

 

4. -- Ora, la previsione della ineleggibilità, e della conseguente nullità dell'elezione, è misura che comprime, in un aspetto essenziale, le possibilità che l'ordinamento costituzionale offre al cittadino di concorrere al processo democratico. Chi è sottoposto a procedimento penale, pur godendo della presunzione di non colpevolezza ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, è intanto escluso dalla tornata elettorale: un effetto irreversibile che in questo caso può essere giustificato soltanto da una sentenza di condanna irrevocabile. Questa, d'altronde, è richiesta per la limitazione del diritto di voto, ai sensi dell'art. 48 della Costituzione; sotto questo specifico profilo l'art. 51, primo comma, e l'art. 48, terzo comma, fanno sistema nel senso di precisare e circoscrivere, per quanto concerne gli effetti di vicende penali, il rinvio alla legge che l'art. 51 opera per i requisiti di accesso alle cariche elettive.

 

La sancita ineleggibilità assume i caratteri di una sanzione anticipata, mancando una sentenza di condanna irrevocabile e, nel caso di semplice rinvio a giudizio, addirittura prima che il contenuto dell'accusa sia sottoposto alla verifica dibattimentale; e inoltre, ove si guardi al rapporto tra rappresentanti e rappresentati, viene alterata - senza che ciò sia imposto dalla tutela dei beni pubblici cui è preordinata la legge in esame - quella "corretta e libera concorrenza elettorale" che questa Corte ha considerato valore costituzionale essenziale, tanto da sindacare in suo nome disposizioni con cui si statuiscono cause di ineleggibilità irragionevoli e dagli effetti sproporzionati, come nel caso dell'art. 7, primo comma, lettera a), del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, che approva il testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione alla Camera dei deputati (cfr. in tal senso, da ultimo, la sentenza n. 344 del 1993).

 

Finalità di ordine cautelare - le uniche che possono farsi valere in presenza di un procedimento penale non ancora conclusosi con una sentenza definitiva di condanna - valgono a giustificare misure interdittive provvisorie, che incidono sull'esercizio di funzioni pubbliche da parte dei titolari di uffici, e anche dei titolari di cariche elettive, ma non possono giustificare il divieto di partecipare alle elezioni.

 

L'art. 15 della legge in esame è d'altronde inficiato da interna contraddizione. Quelle stesse situazioni che - se presenti al momento dell'elezione - determinano, ai sensi del comma 1, l'ineleggibilità di coloro che vi si trovano, qualora invece sopravvengano dopo l'elezione comportano la mera sospensione dell'eletto, e non la decadenza (comma 4-bis), mentre questa consegue solo alla condanna definitiva (comma 4-quinquies). Sono dunque evidenti l'incongruenza e la sproporzione di una misura irreversibile come la non candidabilità, in forza di quei presupposti ai quali la legge attribuisce fisiologicamente - ove sopravvenuti - l'effetto meramente sospensivo. La previsione della sospensione appare adeguata a tutelare le pubbliche funzioni, mentre la non candidabilità risulta sproporzionata rispetto ai valori salvaguardati dalla legge n. 16, con particolare riguardo al buon andamento e alla libera autodeterminazione degli organi elettivi locali (sentenze nn. 118 del 1994 e 407 del 1992), sì che è illegittima anche alla luce del principio di ragionevolezza.

 

Solo una sentenza irrevocabile, nella specie, può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive; né vale obiettare che si tratta di elezioni amministrative, e non di quelle politiche generali, perché pure in questo caso è in gioco il principio democratico, assistito dal riconoscimento costituzionale delle autonomie locali.

 

E' assorbita la questione sollevata in riferimento all'art. 27, secondo comma, della Costituzione.

 

5. -- Le ragioni che inducono questa Corte a ritenere incostituzionale la norma sulla non candidabilità prevista dall'art. 15, comma 1, lettera e), nell'ipotesi di rinvio a giudizio, valgono allo stesso titolo con riguardo alle altre fattispecie che la legge collega a sentenze di condanna non ancora passate in giudicato o a provvedimenti giurisdizionali non definitivi che comportano l'applicazione di misure di prevenzione. Ciò sulla base del fondamento costituzionale del diritto di elettorato passivo, quale aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica, vulnerato in egual misura dalle varie ipotesi di non candidabilità, di cui all'art. 15: di modo che la declaratoria di illegittimità costituzionale della lettera e) deve essere estesa, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, alle altre fattispecie di non candidabilità, di cui all'art. 15, comma 1, lettere a), b), c), d), f), che hanno come presupposto una sentenza non ancora passata in giudicato ovvero un provvedimento applicativo di una misura di prevenzione non definitiva. Così assicurandosi, per il profilo considerato, razionalità e, insieme, coerenza interna e certezza alla disciplina elettorale.

 

Va precisato altresì che i principi sin qui affermati da questa Corte valgono anche per la disposizione di cui alla citata lettera f), che fa discendere la non candidabilità dall'applicazione di una misura di prevenzione pure quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo. E' sintomatico che l'art. 2, comma 1, lettera b), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, modificato da ultimo dalla legge 16 gennaio 1992, n. 15 - significativamente coeva alla n. 16, oggetto del presente giudizio - fa venir meno il diritto di elettorato attivo per coloro che sono sottoposti, in forza di provvedimenti definitivi, alle misure di prevenzione di cui all'art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 4 della legge 3 agosto 1988, n. 327. Il citato art. 15, comma 1, lett. f), estende invece la non candidabilità a coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato, "anche se con provvedimento non definitivo", una misura di prevenzione.

 

La declaratoria di illegittimità costituzionale non tocca la disposizione dell'art. 15, comma 4-bis, che sancisce la sospensione di diritto degli eletti per i quali sopraggiunga una delle situazioni di cui al medesimo art. 15, comma 1. Disposizione, questa, che - letta nel sistema - dovrà considerarsi applicabile anche al caso in cui tali situazioni sussistano già al momento dell'elezione, sì che una contraria interpretazione risulterebbe gravemente irragionevole e fonte di ingiustificata disparità di trattamento.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera e), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificato dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro per i quali, in relazione ai delitti indicati nella precedente lettera a), è stato disposto il giudizio, ovvero per coloro che sono stati presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio;

 

b) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettere a), b), c), d), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, di coloro i quali siano stati condannati, per i delitti indicati, con sentenza non ancora passata in giudicato;

 

c) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, l'illegittimità costituzionale del citato art. 15, comma 1, lettera f), nella parte in cui prevede la non candidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di prevenzione quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1996


 

Documentazione

 


CAMERA DEI DEPUTATI

SENATO DELLA REPUBBLICA

 

XV LEGISLATURA

 

Doc. XXIII
N. 1    


COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA
SUL FENOMENO DELLA CRIMINALITÀ
ORGANIZZATA MAFIOSA O SIMILARE


(istituita con legge 27 ottobre 2006, n. 277)

 

(composta dai deputati: Forgione, Presidente; Bono, Bordo, Burtone, Cirino Pomicino, D'Ippolito Vitale, Incostante, Laganà Fortugno, Licandro, Lo Monte, Lumia, Vice Presidente, Mancini, Marchi, Misuraca, Angela Napoli, Pellegrino, Segretario, Picano, Rotondo, Santelli, Tagliatatela, Tassone, Vice Presidente, Villari, Vitali, Alfredo Vito; e dai senatori: Adragna, Baccini, Massimo Brutti, Buccico, Calvi, Castelli, Curto, Di Lello Finuoli, Garraffa, Gentile, Segretario, Giambrone, Iovene, Malvano, Montalbano, Mugnai, Nardini, Novi, Palma, Palumbo, Pellegatta, Pistorio, Procacci, Ruggeri, Villecco Calipari, Vizzini)

RELAZIONE SULLA DESIGNAZIONE DEI CANDIDATI ALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE

(Relatore: On. Francesco FORGIONE)

Approvata dalla Commissione nella seduta del 3 aprile 2007


Trasmessa alle Presidenze delle Camere il 3 aprile 2007 ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera
n), della legge 27 ottobre 2006, n. 277


 

RELAZIONE DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA MAFIOSA O SIMILARE SULLA DESIGNAZIONE DEI CANDIDATI ALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE

Il Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni), nel disciplinare la materia riguardante l'elettorato passivo (Parte Prima, Titolo II, Capo II), individua, quali cause ostative alla candidatura (articolo 58), la condanna definitiva per alcuni reati, ritenuti gravemente incompatibili con l'esercizio di funzioni pubbliche (tra gli altri, delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso; associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti; delitti concernenti armi, munizioni e materiali esplodenti; peculato, malversazione, concussione, corruzione ovvero il favoreggiamento reale e personale per uno dei predetti delitti).
Viene, inoltre, individuata quale causa ostativa alla candidatura l'applicazione con provvedimento definitivo di una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575.
Lo stesso Testo Unico assegna, peraltro, rilevanza anche alla condanna non definitiva per taluno dei predetti reati, nonché alla applicazione - con provvedimento non definitivo - di una misura di prevenzione, ovvero alla adozione di una delle misure coercitive di cui agli articoli 284, 285 e 286 del codice di procedura penale; a tale ipotesi, infatti, viene ricollegata la sospensione di diritto dalle cariche elettive espressamente elencate al menzionato articolo 58.
Il sistema di cautele, in altri termini, si muove su una doppia linea: non candidabilità (limite preventivo) per i soggetti condannati in via definitiva; sospensione dalla carica (intervento correttivo) per i soggetti raggiunti da provvedimenti giudiziari non definitivi.
L'assetto normativo così delineato trova la sua ragion d'essere nella necessità di una vigile attenzione nei confronti della gestione degli enti locali, costituente il livello di amministrazione che, in ragione della prossimità, risulta deputata a soddisfare in prima istanza le esigenze delle comunità locali.
Proprio l'immediata prossimità al territorio, peraltro, espone maggiormente gli enti locali (comuni e province) all'aggressiva azione della criminalità di tipo mafioso, che mira a soddisfare i propri appetiti e ad accrescere la propria potenzialità attraverso il condizionamento sia dei processi di erogazione della spesa pubblica locale, sia dei processi concernenti l'iter per il rilascio di concessioni, autorizzazioni, licenze, etc.
Se, da un lato, si avverte l'esigenza di edificare limiti normativi più severi che possano fungere da efficace e generalizzato filtro preventivo alla immissione negli organi amministrativi (e - prima ancora - nelle liste elettorali) di soggetti le cui vicende giudiziarie sottendano il pericolo anche solo potenziale di perturbamenti delle regole legalitarie e democratiche, dall'altro deve registrarsi l'oggettiva difficoltà di correlare previsioni di legge di tale contenuto a situazioni (custodia cautelare, rinvio a giudizio, condanna non passata in giudicato, misure di prevenzione non definitive) caratterizzate da accertamenti non definitivi.
Una previsione normativa, infatti, che inibisse l'accesso all'elettorato passivo sulla base di imputazioni e addebiti non consacrati in un provvedimento giudiziario definitivo risulterebbe verosimilmente confliggente con diritti costituzionalmente garantiti, sostanzialmente riconducibili alle libertà connesse alla partecipazione alla vita democratica delle comunità locali.
La più ovvia alternativa, rappresentata dal riconoscere rilevanza - perché insorga il divieto di elettorato passivo - alle sole decisioni giudiziarie definitive, benché tranquillizzante sul piano dei valori costituzionali, non consente il perseguimento degli obiettivi posti: continua a sussistere il rischio che nelle liste elettorali siano inclusi soggetti gravati da qualificate situazioni giudiziarie, la cui definizione richiede, purtroppo, tempi certamente eccedenti uno o forse due mandati elettorali.
Per converso, la soluzione qui illustrata, consistente nell'adesione volontaria ad una proposta di autoregolamentazione delle candidature, ad opera dei partiti, delle liste civiche e delle formazioni politiche che intendano presentare o sostenere propri candidati, costituisce uno strumento idoneo a raggiungere il risultato prefissato, senza incorrere nelle evocate censure. A maggior ragione, proprio i livelli degli enti locali cui fa riferimento il presente codice sono passibili di scioglimento, secondo la legge, per inquinamento e infiltrazioni mafiose.
Viene rimessa alla dialettica tra le formazioni politiche e sociali che partecipano alla vita politica e amministrativa degli Enti locali l'individuazione della soglia di rilevanza di una situazione giudiziaria o che sia un prodotto del sistema sanzionatorio e interdittivo amministrativo, in relazione al pericolo che questa rappresenta per l'ordinato svolgimento delle funzioni della pubblica amministrazione.
Su base volontaristica, i partiti, le liste civiche e le formazioni politiche decidono di rendere più rigorosa la scelta dei soggetti da inserire nelle liste elettorali, nel quadro di un processo volto alla formazione e alla selezione di nuove classi dirigenti a livello locale: una convenzione pattizia è la fonte di una regolamentazione che impegna i sottoscrittori a escludere dalle proprie liste varie categorie di persone, in ragione del pericolo sociale - che esse fondatamente rappresentano - di veicolare all'interno della competizione elettorale prima, e dell'area dell'amministrazione pubblica poi, interessi, metodi e comportamenti mafiosi.
D'altra parte, il crescente condizionamento di organizzazioni criminali sui pubblici poteri in ambito locale ha già determinato la necessità di apprestare un articolato sistema di interventi, in ragione del carattere autenticamente eversivo dell'azione della criminalità organizzata di stampo mafioso.
Invero, l'esigenza di assicurare alle comunità locali sistemi di amministrazione trasparenti e impermeabili ai condizionamenti mafiosi è già oggetto di specifiche previsioni legislative, inserite nel citato Testo Unico. Si fa qui riferimento alla azione di tipo amministrativo tesa allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali in caso di infiltrazioni e condizionamento di tipo mafioso.
Nondimeno, le esigenze di ampliamento della difesa degli organismi dell'autonomia locale dall'aggressione di contro-poteri criminali sono oggetto dell'attenzione e dell'impegno parlamentare: i risultati del dibattito che ha, sul punto, animato i lavori della Commissione parlamentare antimafia hanno già dato luogo a proposte di adeguamento legislativo e rafforzamento dei predetti strumenti, volti a ripristinare condizioni di legalità compromesse dalle infiltrazioni.
Viene avvertita, parimenti, l'esigenza di completare in chiave preventiva la difesa della legalità amministrativa, individuando strumenti idonei ad impedire che occasioni di contaminazione del buon andamento dell'azione amministrativa derivino dalla scelta di candidati che si trovino in condizioni tali da non evitare ripercussioni sull'ordinato svolgimento della vita pubblica locale.
La presente proposta di autoregolamentazione diviene, quindi, il mezzo anticipato per contribuire alla trasparenza, alla tutela e alla libera determinazione degli organi elettivi locali, troppo spesso eterodiretti e condizionati dagli inquinamenti mafiosi: l'obiettivo è quello di impedire che il procedimento di selezione democratica dei rappresentanti delle comunità territoriali e di individuazione degli amministratori locali subisca alterazioni ad opera di fattori -esterni al quadro degli interessi locali e riconducibili alla criminalità organizzata- che in seguito si traducano in ripercussioni sullo svolgimento della vita delle comunità locali.
Essa si pone, in altri termini, quale misura avanzata a garanzia del corretto funzionamento degli organi rappresentativi delle comunità locali, che si intende sottrarre all'influenza della criminalità organizzata, incidendo - su base autodeterminativa e volontaristica - sulle procedure pre-elettive, sinora affidate - con risultati non sempre soddisfacenti - alla responsabilità di ciascun partito, lista civica o formazione politica.
Elemento fondante della proposta di autoregolamentazione è l'individuazione, quale soglia ritenuta idonea a far insorgere il divieto di inclusione nelle liste elettorali, di situazioni e circostanze che presentano un alto grado di significatività sotto il profilo della mafiosità.
Situazioni giuridicamente rilevanti, dunque, caratterizzate - da un lato - dall'attendibilità della ricostruzione fattuale che esse attestano e - dall'altro - dalla diretta pertinenza al sistema criminale organizzato di tipo mafioso.
L'intervento giudiziario, inteso quale attività propria del giudice terzo (sentenza anche non definitiva, decreto di rinvio a giudizio, ordinanza applicativa di misura cautelare personale, provvedimento applicativo di misura di prevenzione personale, anche non definitivo), costituisce il presupposto necessario e sufficiente: le garanzie proprie della giurisdizione conferiscono una particolare attendibilità al vaglio delle situazioni di fatto contestate; il provvedimento del giudice -ancorché non definitivo- è illustrativo di una qualificata pericolosità sociale, che, comunque, in aree a rischio, appanna l'esigenza di indiscutibile trasparenza della politica e degli eletti nelle istituzioni.

Tale pericolosità, per assumere rilevanza ai fini qui richiamati, deve essere specifica in relazione alle ipotesi di collusioni e collegamenti con la criminalità organizzata, tanto da rendere pregiudizievole, per i legittimi interessi delle comunità locali, il consentire che soggetti così gravati partecipino alla competizione elettorale, alterandone lo svolgimento e candidandosi alla guida degli enti esponenziali di esse.
Inoltre, ai fini del presente codice, a tali interventi sono equiparati i divieti, le sospensioni e le decadenze previsti dalle norme in materia di misure di prevenzione a carico dei soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso; sono, altresì, equiparati ad essi i provvedimenti di rimozione, sospensione e decadenza previsti dal Testo Unico degli enti locali approvato con decreto legislativo n. 267 del 2000, dei quali si è detto in precedenza.
Il catalogo dei reati di cui al comma 1 dell'articolo 1 contiene le condotte ritenute univocamente sintomatiche dell'influenza della criminalità organizzata di tipo mafioso.
In esso, infatti, si è deciso di inserire, in primo luogo, i delitti propri delle associazioni per delinquere di tipo mafioso, attraverso il rimando all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale che individua la competenza delle Direzioni distrettuali antimafia (non solo, quindi, quello previsto dall'articolo 416-bis del codice penale, ma tutti i delitti commessi avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano, oppure quelli commessi per favorire un'associazione di tipo mafioso).
Giova sottolineare, peraltro, come siano intervenute sul punto ragioni di coerenza sistematica tese a ribadire la rilevanza, ai fini del presente codice, esclusivamente del pregiudizio giudiziario qualificato dall'intervento del giudice, risultando - viceversa - non sufficiente ogni provvedimento adottato dal pubblico ministero: la delimitazione della applicabilità delle previsioni della proposta di autoregolamentazione dei partiti per la designazione dei candidati alle elezioni amministrative ai delitti di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, rientranti nella competenza del Tribunale in composizione collegiale ovvero della Corte di Assise, risponde specificamente anche all'esigenza di evitare che attività di una parte processuale, quali la citazione diretta a giudizio (articolo 550 c.p.p.), la presentazione dell'imputato in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento (articolo 449 c.p.p.), l'adozione di provvedimento di fermo (articolo 384 c.p.p.) e simili, possano costituire una ragione di esclusione dalle liste elettorali.
Accanto a questa previsione, estesa all'intera area dei delitti a rilevanza mafiosa, sono stati inseriti altri gravi delitti normalmente collegati alla presenza e all'attività criminale delle associazioni mafiose e, comunque, correlati a forme di delinquenza organizzata.
Ci si riferisce, qui, ai delitti di estorsione ed usura, tipica espressione del racket, ossia di modalità strutturate e associate di criminalità, sovente anticamera di vere e proprie organizzazioni mafiose o di articolazioni specializzate di queste: le peculiarità intrinseche delle ipotesi delittuose in esame trasformano tali delitti, da meri comportamenti delinquenziali diretti a procurarsi illeciti profitti, in veri e propri strumenti di pressione e di controllo del territorio.

Ci si riferisce, ancora, ai delitti di riciclaggio e di impiego di denaro di provenienza illecita, oltre che al delitto di trasferimento fraudolento di valori, tutti considerati come passaggio quasi obbligato che le organizzazioni criminali devono percorrere per giungere al reinvestimento dei proventi illeciti dopo averne offuscata la provenienza illecita.
È stata, infine, assegnata rilevanza ad un altro reato, il traffico illecito di rifiuti in forma organizzata, di recente introdotto nel nostro ordinamento, in ragione dei profili di interconnessione, anche solo potenziale, che tale settore presenta, alla luce delle risultanze giudiziarie degli ultimi anni, con la criminalità mafiosa.
Non appare superfluo sottolineare, conclusivamente, la base volontaristica e di autodeterminazione su cui è strutturata la proposta di autoregolamentazione.
Essa rappresenta l'espressione della volontà dei partiti, delle liste civiche e delle formazioni politiche ad impegnarsi in un cammino che, erigendo un filtro preventivo alla candidatura di soggetti caratterizzati da significativi rapporti con fattispecie criminali tipiche dell'area mafiosa, preservi la pubblica amministrazione da rischiose contaminazioni e ponga le comunità locali quanto più possibile al riparo dai successivi drastici interventi che - come gli scioglimenti e i conseguenti commissariamenti degli enti locali interessati - sebbene necessitati dalla constatazione di infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso nell'azione amministrativa, privino i territori del diritto ad avere con continuità un'azione politica ed amministrativa.
Poiché i reati previsti come motivo ostativo per la candidatura nel caso delle ispezioni e nell'ambito delle relazioni di accesso agli enti locali rappresentano elementi di valutazione per proporre lo scioglimento e il relativo commissariamento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazione mafiosa, si ritiene di esaltare con la coerenza e la trasparenza delle scelte dei partiti, delle liste civiche e delle formazioni politiche l'irrinunciabile principio della responsabilità politica nella selezione delle classi dirigenti e degli eletti, al livello più immediato del rapporto sul territorio tra rappresentanti e rappresentati.
Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare avanza la seguente proposta di autoregolamentazione:

 

Articolo 1.

1. I partiti, le formazioni politiche e le liste civiche che aderiscono alle previsioni del presente codice si impegnano a non presentare come candidati alle elezioni dei consigli provinciali, comunali e circoscrizionali coloro nei cui confronti, alla data di pubblicazione della convocazione dei comizi elettorali, sia stato emesso decreto che dispone il giudizio, ovvero sia stata emessa misura cautelare personale non annullata in sede di impugnazione, ovvero che si trovino in stato di latitanza o di esecuzione di pene detentive, ovvero che siano stati condannati con sentenza anche non definitiva, allorquando le predette condizioni siano relative a uno dei seguenti delitti:
a) delitti di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale;
b) estorsione (articolo 629 del codice penale), usura (articolo 644 del codice penale);
c) riciclaggio e impiego di danaro di provenienza illecita (articolo 648-bis e articolo 648-ter c.p.);
d) trasferimento fraudolento di valori (articolo 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356);
e) omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali da parte delle persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, nonché da parte dei condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall'articolo 416-bis del codice penale (articolo 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646);
f) attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152).

2. I partiti, le formazioni politiche e le liste civiche che aderiscono alle previsioni del presente codice si impegnano, altresì, a non presentare come candidati alle elezioni di cui al comma 1 coloro nei cui confronti, alla data di pubblicazione della convocazione dei comizi elettorali, ricorra una delle seguenti condizioni:
a) sia stata disposta l'applicazione di misure di prevenzione personali o patrimoniali, ancorché non definitive, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575;
b) siano stati imposti divieti, sospensioni e decadenze ai sensi della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ovvero della legge 31 maggio 1965, n. 575, così come successivamente modificate e integrate;
c) siano stati rimossi, sospesi o dichiarati decaduti ai sensi dell'articolo 142 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

Articolo 2.

1. Il presente codice di autoregolamentazione si applica anche alle nomine di competenza del Sindaco e del Presidente della Provincia.

Articolo 3.

1. I partiti, le formazioni politiche e le liste civiche che intendono presentare, come candidati alle elezioni di cui al comma 1 dell'articolo 1, cittadini che si trovino nelle condizioni previste dal medesimo articolo 1 si impegnano a rendere pubbliche le motivazioni della scelta di discostarsi dalle indicazioni del presente codice di autoregolamentazione.

 

 

 



[1]    La legge reca: Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità.

[2]    La legge reca: Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia.

[3]    La legge reca: Norme in materia di misure di prevenzione personali.

[4]    La legge reca: Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale.

[5]    La legge reca: Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati. Modifiche alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e all'art. 3 della legge 23 luglio 1991, n. 223. Abrogazione dell'art. 4 del decreto-legge 14 giugno 1989, n. 230, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1989, n. 282.

[6]    La legge n. 575/1965 contiene attualmente le principali disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali antimafia. Tali misure sono state introdotte dalla legge Rognoni-La Torre (legge n. 646/1982) che ha inteso così affiancare alle misure di prevenzione di natura personale strumenti che, colpendo i patrimoni degli appartenenti ad associazioni mafiose, potessero assolvere sia ad una funzione preventiva e deterrente, sia, rimuovendo dal mercato capitali illegali, di ripristino della libera concorrenza e delle regole dell’economia legale.

Il nucleo fondamentale della legge n. 646/1982 è costituito, pertanto, dall’arricchimento del quadro delle misure di prevenzione, con l’introduzione di misure di natura patrimoniale, il sequestro e la confisca, volte a sottrarre, prima provvisoriamente e poi in via definitiva, agli appartenenti alle organizzazioni criminali la disponibilità giuridica e materiale di beni di illecita provenienza.

[7]    La Corte di cassazione ha affermato che, pur se limitatamente alle misure di prevenzione personali, per effetto della legge 3 agosto 1988 n. 327 – che ha previsto che le disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965 n. 575 (disposizioni contro la mafia) si applichino anche alle persone indicate nell'art. 1, nn. 1 e 2, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità) - sussiste una completa equiparazione, in materia di misure di prevenzione personali, tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad esse corrispondenti (pericolosità cosiddetta "qualificata") e soggetti pericolosi in quanto ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi ovvero ad attività delittuose da cui, almeno in parte, traggono i mezzi di vita (pericolosità cosiddetta "generica"), risultando estesa ai secondi la disciplina comunque introdotta per i primi (cfr. Sez. V, sent. n. 2290 del 4 agosto 1993).

[8]     L. 19 marzo 1990, n. 55, Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale.

[9]    D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali.

[10]   Le due disposizioni stabiliscono che i destinatari della misura di prevenzione, applicata con provvedimento definitivo, non possono presentare la propria candidatura per le elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, né rivestire la carica di presidente della giunta regionale, assessore e consigliere regionale, presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni strumentali degli enti locali, presidente e componente degli organi delle comunità montane.

[11]   Secondo quanto stabilisce la L. 515/1993 (art. 7, commi 3 e 4), coloro che intendono candidarsi alle elezioni di una delle due Camere possono raccogliere fondi per il finanziamento della propria campagna elettorale a partire dal giorno successivo all'indizione dei comizi elettorali esclusivamente per il tramite di un mandatario elettorale.

[12]   La figura del committente responsabile è prevista dalla legge 515/1993 (art. 3): questa prevede che tutte le pubblicazioni di propaganda elettorale, su qualsiasi forma di mezzo di diffusione (stampa, radio, televisione ecc.), devono indicare obbligatoriamente l’indicazione del committente responsabile. Il committente ha la responsabilità di tutte le pubblicazioni di propaganda elettorale, di cui risponde in relazione al contenuto.

[13]   D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati.