Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Il conflitto intersudanese
Serie: Note di politica internazionale    Numero: 100
Data: 17/05/2012
Descrittori:
GUERRA   SUDAN

Casella di testo: Note di politica internazionalen. 100  17 maggio 2012

Il conflitto intersudanese


 


L’indipendenza del Sudan meridionale, proclamata a seguito del referendum che aveva decretato la divisione dei due Stati alla fine di oltre due decenni di guerra civile, non è bastata a pacificare i rapporti tra il nord e il sud di quello che fino al 9 luglio 2011 era stato un unico paese.

mapContinuano infatti le ostilità al confine tra il Sudan e il Sudan meridionale, riesplose a gennaio sull’onda della questione del trasporto del greggio, e prosegue anche lo scambio reciproco di accuse per una situazione che si va sempre più configurando come una vera e propria guerra.

La guerra sarebbe stata dichiarata dal Sudan, secondo il Presidente sud-sudanese Salva Kiir Mayardit, con il bombardamento di Bentiu, la capitale dello Stato petrolifero di Unity, avvenuto lo scorso 23 aprile, nel corso del quale erano stati uccisi anche dei civili.

Qualche settimana prima, intorno al 26 marzo, le truppe dell’SPLA (Sudan People’s Liberation Army, l’esercito del Sud Sudan) avevano occupato la zona di Heglig, un’area petrolifera disputata tra le due parti, il cui status è strettamente legato a quello di Abyei: Heglig è generalmente considerata come parte del Sud Kordofan (in territorio sudanese), ma è rivendicata dal Sud Sudan come facente parte dello stato di Unity. L’occupazione di Heglig si è risolta, anche a seguito di una forte pressione internazionale, con il ritiro dell’SPLA il 20 aprile, ma non prima che oltre mille dei suoi soldati venissero uccisi.

Soltanto l’11 febbraio – e grazie all’intervento di Thabo Mbeki, ex presidente del Sudafrica e mediatore per conto dell’Unione africana - Sudan e Sud Sudan avevano siglato un patto di non aggressione, con il quale i due stati si impegnavano a rispettare la sovranità dell’altro e l’integrità territoriale.

Ma gli scontri sono presto ripresi e a poco sono serviti gli appelli rivolti ad entrambe le parti dalla comunità internazionale, così come la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu[1] giunta dopo settimane di minacce di sanzioni, approvata all’unanimità il 2 maggio. La risoluzione, che imponeva la fine dei combattimenti entro due giorni e il ritiro incondizionato delle forze armate dei due Paesi all'interno dei rispettivi confini, è stata già violata in più di un’occasione dall’una e dall’altra parte.

La risoluzione dell’Onu stabilisce inoltre la ripresa dei colloqui negoziali entro due settimane dalla data della risoluzione stessa, al fine di raggiungere un accordo entro tre mesi e minaccia sanzioni in caso di non ottemperanza.

Il contenzioso tra i due Stati verte sulla spartizione dei proventi del petrolio, sull’esatta definizione dei confini, sull’entità del pedaggio per il transito del petrolio nel territorio sudanese e anche sull’appartenenza del territorio di Abyei.

Le questioni furono lasciate in sospeso dal Trattato di pace del 2005[2] e, tuttora irrisolte, sono alla base del conflitto odierno. Il referendum del 2011 ha dato luogo alla formazione di due stati: il nuovo – il Sud Sudan – al quale sono andate il 75% delle risorse petrolifere ma che non ha sbocco al mare, e il Sudan, attraverso il quale il petrolio transita per essere esportato (dal Mar Rosso) a costi sui quali le parti, come detto, non sono ancora convenute.

A questo si aggiunge la confusione circa la sorte e i diritti dei cittadini che dopo la separazione si trovano a vivere in uno stato straniero: si tratta di circa 500 mila  sud sudanesi che vivono in Sudan e di 80 mila sudanesi che vivono nel Sudan meridionale. I primi rimpatri sono cominciati solo da poco e riguardano ancora poche persone: il 13 maggio, 164 sudanesi del Sud hanno fatto ritorno a Juba  provenienti da Kosti, nello stato del Nilo bianco.

La contrapposizione intersudanese è inoltre acuita dal fatto che nel nord la popolazione è per la maggior parte araba e di religione musulmana, mentre il sud  è caratterizzato da una prevalenza cristiana e animista.

Come sottolineano alcuni analisti, sembra che, dopo la chiusura dei pozzi (v. infra), sia stata reciprocamente dichiarata una ''guerra di logoramento''  per vincere la quale il sud  conta sulle difficoltà del governo di Kartoum, impegnato militarmente su diversi fronti (compreso quello del Darfur), mentre quest’ultimo fa affidamento sulla debolezza economica di Juba.

 

Il petrolio e il ruolo di mediatore della Cina

La Cina è attualmente il secondo consumatore di petrolio al mondo, dopo gli Stati Uniti, e importa oltre la metà del suo fabbisogno (per un terzo dall’Africa). Secondo il World Energy Outlook 2011, la Cina diventerà il primo importatore intorno al 2020.

Il Sudan è al secondo posto (dopo l’Angola) tra i fornitori di petrolio alla Cina, che acquista oltre il 60% di tutto il greggio prodotto nel Sudan. Per questa ragione la Cina, da anni partner commerciale del Sudan, si sta molto adoperando affinché il conflitto tra i due paesi abbia fine: più degli Stati Uniti e di tutto il mondo occidentale, la Cina ha infatti interesse a che la situazione si normalizzi.

Il ruolo di mediatore della Cina si è intensificato a partire dallo scorso gennaio quando Juba ha deciso di bloccare la produzione di petrolio, con l’accusa al governo di Khartum di aver indebitamente sottratto idrocarburi che transitano nell’oleodotto che conduce a Port Said e nelle altre infrastrutture sudanesi per un valore di 815 milioni di dollari. Tale appropriazione costituiva invece, secondo il governo sudanese, il pagamento di quanto dovuto per il transito del greggio sul proprio territorio.

La decisione sud-sudanese di chiudere i pozzi ha allarmato la Cina (come anche il Giappone), che temeva di dover far ricorso ad altre fonti di approvvigionamento; prima della chiusura dei pozzi, la Cina importava circa 260mila barili di greggio al giorno, su una produzione totale di 350mila.

Pesanti conseguenze economiche hanno subito le compagnie, in primo luogo cinesi, che estraggono direttamente il greggio dai pozzi sud sudanesi (come la China National Petroleum Corporation) o che partecipano ai consorzi che gestiscono l’oleodotto e le raffinerie sudanesi: è cinese infatti la direzione del consorzio Greater Nile Petroleum Operating Co(GNOP), al quale partecipano anche imprese malesi e indiane, oltre che sudanesi, che gestisce l'estrazione e la distribuzione del petrolio nei due Sudan.

La decisione di chiudere i pozzi, inizialmente accolta con il grande favore della popolazione, ha cominciato a creare problemi anche al Sud Sudan che, come detto, fonda la sua economia – per ben il 98% – sui proventi del petrolio: uno stallo può determinare il blocco di progetti per la costruzione di infrastrutture, come quello relativo ad un oleodotto lungo mille chilometri che, attraverso il Kenya – e in collaborazione con il governo di quel paese –  dovrebbe far giungere il petrolio nel porto di Lamu.

Non sembra per il momento invece avere un seguito l’offerta di collaborazione per la costruzione di un oleodotto alternativo a quello di Port Sudan avanzata qualche settimana addietro dalla Cina: il prestito di 8 miliardi di dollari accordato dal governo cinese a quello sud sudanese a seguito del viaggio a Pechino del presidente Salva Kiir Mayardit (28 aprile 2012), sarà finalizzato alla costruzione di strade, ponti, reti di telecomunicazioni e allo sviluppo del settore agricolo e idroelettrico.

I rapporti fra la Cina e i due Sudan non si limitano dunque in senso stretto al petrolio, avendo la Cina effettuato cospicui investimenti sul territorio dei due paesi anche in altri campi. I 29 operai cinesi rapiti lo scorso 28 gennaio (insieme a 9 soldati sudanesi) dall’SPLM/A stavano infatti lavorando in un cantiere per la costruzione di strade. La loro liberazione è poi avvenuta il 7 febbraio, grazie all’intervento di una squadra di funzionari appositamente inviati in Sud Sudan dal governo cinese per condurre le trattative.

I 29 lavoratori cinesi erano stati rapiti nel Sud Kordofan, una delle tre aree (insieme ad Abyei e allo stato del Nilo Blu) dove il conflitto tra nord e sud è più aspro.

Il 13 maggio, l’inviato del governo cinese per l’Africa, Zhong Jianhua, ha ribadito che la Cina, grazie alle sue buone relazioni con entrambi i Sudan, si trova in una posizione unica per poter giocare un ruolo costruttivo nella ricerca di un accordo ed ha ribadito la disponibilità del suo paese a fornire aiuti ad entrambi per la crescita e lo sviluppo.

 

La questione di Abiey e le altre regioni contese

Un secondo referendum, il cui svolgimento era previsto in parallelo a quello per l’indipendenza del Sud, avrebbe dovuto decidere lo status di Abyei. Attraverso di esso, gli abitanti di Abyei si sarebbero dovuti esprimere sulla possibilità di rimanere a far parte del Sud Kordofan (altra zona contestata, ma assegnata al Sudan) o se divenire parte della regione di Bahr el Ghazal (appartenente al Sud Sudan).

In mancanza di un accordo sulle popolazioni che hanno diritto a votare, il referendum è stato rinviato a data da destinarsi. Abyei è infatti abitata stabilmente dalla tribù nilotica dei Ngok Dinka, ma è attraversata annualmente da 110 mila Missiryia, una popolazione di nomadi, e dalle loro mandrie.

Tra le due popolazioni vi è un contrasto che riguarda la proprietà e l’uso della terra, che sembra essersi acuito con la situazione di instabilità nello stato di Unity che ha costretto a deviare le rotte di migrazione verso sud, in aree abitate da Ngok Dinka sfollati e, perciò stesso, ancora più ostili ai Missiryia. I Missiryia, filo-sudanesi, sono rappresentati nel National Congress Party, il partito di governo a Khartoum, mentre i Ngok Dinka supportano l’SPLM.

Il problema di Abyei si è ulteriormente complicato dopo il pronunciamento, nel 2009, della sentenza della Corte permanente d’arbitrato dell’Aia che, in contrasto con le decisioni della Commissione per i confini di Abyei (istituita dagli accordi di pace), ha assegnato la regione al Sud ma ne ha ridimensionato i confini. Un’area di circa 10mila chilometri quadrati, disseminata di giacimenti, comprendente Heglig, è stata invece riconosciuta come facente parte del territorio sudanese.   

La soluzione della contesa su Abyei sembra allontanarsi sempre di più, mano a mano che si approfondisce la crisi tra i due paesi. In una dichiarazione del 23 aprile, il presidente sudanese Bashir ha escluso negoziati con il Sud ed ha affermato di voler continuare con le azioni militari fino a quando tutte le truppe sudanesi saranno state espulse dal territorio del suo paese.

Le incursioni sudanesi in Sud Sudan sono quindi continuate, accompagnate dalla pressante richiesta di risarcimento per i danni causati dall’SPLA ad impianti estrattivi durante l’occupazione di Heglig.

I negoziati su Abyei, condotti dalla  Abyei Joint Oversight Committee sono fermi dal 20 febbraio. Khartoum sta nel frattempo facendo leva sui sentimenti patriottici e ha chiesto ai cittadini di Abyei di procurarsi un certificato di cittadinanza presso gli uffici governativi, implicitamente rivendicando la propria sovranità sulla regione.

Dal mese di giugno del 2011 è dispiegata sul territorio di Abyei una missione delle Nazioni Unite con il compito di monitorare i confini tra Nord e Sud, autorizzata all’uso della forza per la protezione dei civili e degli operatori umanitari. UNISFA (United Nations Interim Security Force for Abyei) [3] fu istituita dopo il raggiungimento di un accordo tra il governo sudanese e l’SPLM  sulla demilitarizzazione di Abyei e impiega 3.800 peacekeepers etiopi.

Oltre ad Abyei, anche lo stato del Nilo Blu e del Sud Kordofan anch’essi posti sul confine che separa i due Sudan sono teatro di conflitto: nella spartizione dei territori connessa all’indipendenza del Sud, infatti, i due stati sono stati assegnati al Sudan pur essendo popolati da comunità tradizionalmente legate al sud. Non è previsto dagli accordi di pace un referendum per i due stati, ma il Protocollo sulla risoluzione del conflitto negli Stati del Kordofan del Sud/Montagne Nuba e del Nilo Blu prevede per non meglio specificate “consultazioni popolari” per identificare le lacune del CPA e tentare di negoziare eventuali emendamenti con Kartoum.

La situazione è in questo momento particolarmente grave nel Nilo Blu, dove il Sudan sta bloccando l’arrivo di aiuti in un’area controllata dai ribelli dell’SPLM-N nella quale, secondo questi, la vita di oltre 200 mila persone sarebbe a rischio. Si teme che la stagione delle piogge in arrivo possa ulteriormente aggravare la situazione.

Alcune organizzazioni umanitarie che hanno visitato l’area hanno fatto sapere che molte case sono inagibili per via dei bombardamenti, l’agricoltura è distrutta e molte famiglie sono costrette a vivere in grotte e a cibarsi di radici. Gli scontri sul terreno e i bombardamenti delle forze armate sudanesi, particolarmente violenti a partire dal 1° settembre 2011, hanno causato centinaia di vittime fra i civili e lo sfollamento di decine di migliaia di persone.

Il 2 settembre il presidente Bashir ha decretato lo stato di emergenza nello stato del Nilo Blu, cacciato il governatore Malik Agar (dell’SPLM-N) e fatto chiudere il quartier generale dell’SPLM-N a Khartoum.

Quanto al Sud Kordofan, i combattimenti tra le forze armate sudanesi e quelle dello SPLA-N non si sono placati dal mese di giugno dello scorso anno, dopo le contestate elezioni per la carica di governatore vinte da Ahmed Haroun (del National Congress Party).

Il conflitto, concentrato nell’area delle Montagne Nuba, dove l’SPLM gode del supporto della maggior parte della popolazione, ha provocato migliaia di morti e la fuga di decine di migliaia di persone verso il Sud Sudan, il Kenia e l’Uganda.

L’SPLM-N (Sudan People’s Liberation Movement-North Sector) afferma che la battaglia negli stati del Sud Kordofan e del Nilo Blu non ha il fine di ottenere la formazione di un terzo stato, ma si pone in continuità con gli obiettivi del movimento dal quale discende, l’SPLM di John Garang[4], ora al governo del Sud Sudan. L’SPLM-N è guidato da Malik Agar, ex governatore dello Stato del Nilo Blu, rimosso da Bashir.

L’SPLM-N non è l’unico gruppo di ribelli che opera nel Sudan: il Sudan Revolutionary Front (SRF)riunisce, oltre all’SPLM-N – che risulta maggioritario nella coalizione – anche ilJustice and Equality Movement (JEM) e due fazioni del Sudan Liberation Movement guidate, rispettivamente, da Abdel Wahid al-Nur (SPM-AW) e da  Minni Minnawi (SLM-MM). L’SRF combatte per rovesciare il governo Sudanese sia attraverso la politica che utilizzando mezzi militari.

 


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[1] S/RES/2046(2012).

[2] L’Accordo di Pace (Comprehensive Peace Agreement – CPA) fu siglato tra il Governo della Repubblica del Sudan e l’SPLM/A (Sudan People’s Liberation Movement/Sudan People’s Liberation Army) il 9 gennaio 2005.

[3] Istituita con la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu n. 1990 del 27 giugno 2011.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[4]  John Garang, leader dell’SPLM, morì nel luglio 2005 a pochi mesi dalla firma del CPA, in un incidente elicotteri stico.