Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Missione a Washington (8-10 maggio 2012)
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 345
Data: 07/05/2012
Descrittori:
RELAZIONI INTERNAZIONALI   USA
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari
Nota: Questo dossier contiene materiale protetto dalla legge sul diritto d'autore, pertanto la versione html è parziale. La versione integrale in formato pdf può essere consultata solo dalle postazioni della rete Intranet della Camera dei deputati (ad es. presso la Biblioteca)

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

Missione a Washington

(8-10 maggio 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 345

 

 

 

 

7 maggio 2012

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Affari Esteri

( 066760-4939 – * st_affari_esteri@camera.it

 

Hanno partecipato alla redazione del dossier i seguenti Servizi e Uffici:

 

Servizio Rapporti internazionali

( 066760-3948 / 066760-9515 – * cdrin1i@camera.it

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

File: es1116.doc

 


INDICE

 

Documentazione a carattere generale

§      Scheda-paese (a cura del Ministero degli Affari esteri)7

Rapporti tra l’Unione europea e Stati Uniti (a cura del Ufficio Rapporti con l’Unione europea)39

Rapporti parlamentari Italia- Stati Uniti (a cura del Servizio Rapporti Internazionali)45

Focus di approfondimento

La campagna per le elezioni presidenziali americane  61

Sviluppi della politica statunitense in Afghanistan  65

Il Vertice dell’Alleanza atlantica di Chicago del 20 e 21 maggio prossimi71

La politica estera americana in Medio Oriente  75

Il Vertice dell’Alleanza atlantica di Chicago del 20 e 21 maggio 2012  85

L’assetto della Banca mondiale  89

Il Fondo monetario internazionale (a cura del Ministero degli Affari esteri)95

Lo stato delle ratifiche del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance economica dell’Unione economica e monetaria (a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)97

Pubblicistica

§      L. Martino ‘Relazioni transatlantiche’, in: Osservatorio strategico, n. 12/2011  101

§      C. E. Cook ‘Have President Obama’s Re-Election Prospects Brightened?’, in: The Washington Quarterly, Primavera 2012  101

§      A. Pregulman e E. Burke ‘Homegrown terrorism’, in: CSIS (Center for Strategic & International Studies), aprile 2012  101

§      A. H. Cordesman ‘The Worst Threat to America: A Partisan and Self-Paralysed Congress’, in: Global Forecast 2012  101

§      M. Wallace e S. Williams ‘Nuclear Energy in America: Preventing its Early Demise’, in: Global Forecast 2012  101

 

 

 


SIWEB

Rapporti tra l’Unione europea e Stati Uniti
(a cura del Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Unione europea e Stati Uniti hanno stabilito relazioni diplomatiche già nel 1953, ma è soltanto nel novembre 1990 che tali relazioni sono state formalizzate con la Dichiarazione transatlantica che ha inaugurato regolari Vertici bilaterali. Cinque anni più tardi, le parti hanno firmato la Nuova agenda transatlantica (NAT)[1] che definisce il quadro di una più efficace collaborazione nei quattro ambiti prioritari:

-   promuovere pace, sviluppo, stabilità e democrazia nel mondo;

-   rispondere alle sfide globali;

-   contribuire all’espansione del commercio mondiale e allo sviluppo di relazioni economiche più strette;

-   costruire ponti attraverso l’Atlantico.

Nel corso del tempo la cooperazione tra UE e USA si è evoluta ed estesa ad aree quali lotta al terrorismo, gestione delle crisi, energia e sicurezza energetica, ambiente, ricerca e sviluppo, istruzione e formazione.

 

 

Il dialogo politico

La sede privilegiata in cui si concordano gli sviluppi della cooperazione transatlantica è rappresentata dai Vertici UE-USA che si tengono con cadenza annuale.

L’ultimo Vertice in ordine di tempo si è tenuto a Washington il 28 novembre 2011.

I temi nell’agenda del Vertice hanno incluso le maggiori sfide globali, quali ripresa economica sostenibile, cambiamento climatico ed energia, cooperazione allo sviluppo, nonché un’ampia serie di questioni di politica estera, quali la primavera araba, il processo di pace in Medio Oriente, la situazione in Siria, Iran e Afghanistan, e il vicinato orientale dell’UE.

I leader hanno convenuto di dare nuovo impulso al lavoro del Consiglio economico transatlantico e di continuare ad intensificare i lavori su sicurezza energetica e ricerca nel Consiglio energia UE-USA.

In materia di economia, le parti hanno discusso dei risultati del Vertice G20 di Cannes e del contributo che UE e USA possono fornire per rinvigorire la crescita economica, creare nuova occupazione e assicurare la stabilità finanziaria. In particolare, UE e USA assumeranno azioni che affrontino le vulnerabilità fiscali e finanziarie e che rafforzino le basi di una crescita stabile e equilibrata. Gli USA hanno salutano le azioni assunte dall’UE per assicurare la stabilità finanziaria dell’area euro e risolvere la crisi. D’altra parte l’UE guarda all’azione USA sul consolidamento fiscale di medio termine.

E’ stato  riaffermato l’impegno a sostenere il sistema commerciale multi laterale e a resistere al protezionismo. UE e USA hanno ribadito il loro forte impegno a favorire progressi significativi nei negoziati di Doha nel corso del 2012.

UE e USA hanno riconosciuto i successi del Consiglio economico transatlantico (TEC) (vedi infra) in un’ampia serie di settori e lo hanno sollecitato a rafforzare la cooperazione in settori chiave quali nanotecnologie e materie prime per sviluppare approcci compatibili alle tecnologie emergenti. Il TEC è stato inoltre sollecitato a proseguire i lavori sulle questioni economiche strategiche, quali investimenti, innovazione e protezione dei diritti intellettuali, con l’obiettivo uniformare le condizioni per le imprese UE e USA nei paesi terzi, in particolare nelle economie emergenti.

Per quanto riguarda il cambiamento climatico, UE e USA hanno ribadito l’impegno a lavorare insieme per assicurare un risultato positivo e equilibrato a Durban, inclusi i temi della mitigazione, della trasparenza e dei finanziamenti.

Il Vertice ha salutato il rafforzamento del partenariato sui temi della sicurezza trans-nazionale che riguardano tanto i cittadini dell’UE quanto quelli statunitensi, ribadendo che tale partenariato è fondato sulla convinzione che il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e le iniziative di cooperazione in materia di sicurezza si rafforzano a vicenda. Nel riconoscere la crescente sfida rappresentata dalla cyber sicurezza, il Vertice ha salutato con favore i progressi compiuti dal gruppo di lavoro su cyber crimine e cyber sicurezza istituito dal precedente vertice e ne ha condiviso gli obiettivi ambiziosi per il 2012, tra cui la lotta agli abusi sessuali sui minori.

I leader hanno inoltre discusso sui modi per collaborare più strettamente a sostenere i processi di transizione e riforme in corso nei paesi arabi, confermando il loro interesse ad incrementare scambi e investimenti con questi paesi, e per promuovere sicurezza e modernizzazione nel vicinato orientale dell’UE.

 

 

Le relazioni economiche

I rapporti UE-USA rappresentano la più importante relazione economica bilaterale al mondo: il commercio transatlantico e gli investimenti sono cresciuti rapidamente negli ultimi anni e al momento UE e USA insieme sono responsabili di oltre il 49% del prodotto interno lordo mondiale, del 33% del commercio mondiale in beni e del 42% in servizi. UE e USA rappresentano reciprocamente il principale partner commerciale: le esportazioni di beni dell’UE in USA ammontavano, nel 2010, ad oltre 242 miliardi di euro e a 129 miliardi per quanto riguarda i servizi. Le importazioni dell’UE dagli USA nello stesso anno erano pari a 170 miliardi di euro in beni e 133 miliardi in servizi. L’UE ha effettuato investimenti negli USA per un valore pari a 64 miliardi di euro a fronte di investimenti USA nell’UE per 38 miliardi di euro.

Le relazioni economiche e commerciali tra UE e USA sono attualmente inquadrate nel Partenariato economico Transatlantico (Transatlantic Economic Partnership – TEP), inaugurato nel 1998 con il duplice obiettivo di creare un sistema commerciale globale aperto e più accessibile e di sviluppare e migliorare le relazioni economiche bilaterali.

In tale contesto, nel corso del vertice bilaterale del 2007, UE e USA hanno adottato un programma volto a promuovere una maggiore integrazione economica transatlantica, puntando su: riduzione delle barriere regolamentari, rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale; riduzione degli ostacoli agli investimenti; promozione di uno scambio sicuro, basato su standard comuni e mutui riconoscimenti. Nella stessa occasione è stato istituito il Consiglio economico transatlantico (TEC), con il compito di realizzare le priorità indicate nel citato programma.

Non mancano le controversie su aspetti commerciali, generalmente discusse nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’ordine di grandezza delle controversie è quantificabile nel 2% del valore degli scambi commerciali tra UE e USA.

 

 

La collaborazione nella gestione delle crisi

La collaborazione politica tra UE e USA passa anche per la gestione delle crisi e la prevenzione dei conflitti. Nel marzo 2008 UE e USA hanno adottato un piano di lavoro in materia, definendo passi concreti per rendere maggiormente operativa la cooperazione, attraverso: il miglioramento delle modalità di consultazione, di contatto e di condivisione delle analisi e dei dati su rischi e instabilità; il miglioramento del coordinamento della risposta in casi di conflitto e post-conflitto; l’incremento delle capacità del personale attraverso corsi, scambi e revisioni periodiche; la costruzione di una capacità internazionale. Una stretta collaborazione prosegue nel quadro degli sforzi di stabilizzazione dei Balcani, con particolare riguardo alla partecipazione degli USA alla missione civile EULEX in Kosovo. Inoltre le operazioni dell’UE in corso in Iraq e in Afghanistan sono complementari agli sforzi degli USA per stabilire governance e stato di diritto, essenziali per la stabilità della regione.

In tale contesto, obiettivo dell’UE è quello di rafforzare il partenariato strategico tra l'UE e la NATO per far fronte alle esigenze attuali, in uno spirito di rafforzamento reciproco e di rispetto dell'autonomia decisionale rispettiva.

 


Altre aree di cooperazione

La cooperazione UE-USA nel settore della giustizia e degli affari interni è ai primi posti nel’agenda comune. Al Vertice bilaterale del 2009 le parti hanno ribadito l’impegno a rafforzare la cooperazione operativa e politica nel settore. In tale ambito si svolgono riunioni regolari dedicate a questioni di protezione doganale, viaggi transatlantici senza visto, condivisione delle informazioni per il rafforzamento della normativa in materia di lotta al terrorismo internazionale, al crimine organizzato e al traffico di droga. Un certo numero di accordi sono stati conclusi nel settore, tra i quali accordi di estradizione e mutua assistenza legale l’accordo sul trasferimento dei dati dei passeggeri nonché l’accordo sul trattamento e trasferimento dei dati di messaggistica finanziaria dall’UE agli USA ai fini del programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi (cosiddetto SWIFT).

Inoltre, il 3 dicembre 2010 i ministri della Giustizia dell'UE hanno dato il via libera all'avvio di trattative fra l'Unione europea e gli Stati Uniti per un accordo sulla protezione dei dati personali nel quadro della cooperazione nella lotta al terrorismo e alla criminalità.

L'obiettivo è assicurare un alto livello di protezione delle informazioni personali, come i dati sui passeggeri e le informazioni finanziarie, trasferite nell'ambito della cooperazione transatlantica in materia penale. Una volta in vigore, l'accordo rafforzerà il diritto dei cittadini di accesso, rettifica o cancellazione dei dati trattati allo scopo di prevenire, individuare, indagare e reprimere i reati, compreso il terrorismo.

Il 19 aprile 2012 il Parlamento europeo ha dato la sua approvazione alla conclusione del nuovo accordo sul trasferimento dei dati dei passeggeri aerei dei voli dall'UE agli USA, firmato il 14 dicembre 2011. Una volta che sarà entrato in vigore, l’accordo sostituirà quello attualmente in vigore dal 2007, migliorando la protezione dei dati e fornendo un efficace strumento di lotta ai reati gravi di natura transnazionale e al terrorismo.

La sicurezza energetica è diventata una componente determinante dell’agenda di politica estera dell’UE. La dipendenza dell’UE dalle importazioni di petrolio e gas è infatti rispettivamente dell’80 e del 50 percento e pertanto l’obiettivo dell’UE è quello di ridurre il loro consumo in favore di fonti di energia alternative e rinnovabili e di promuovere un uso più efficiente dell’energia. In tale contesto nel corso degli anni l’UE ha intensificato la cooperazione con gli USA nelle aree della sicurezza energetica, della politica regolamentare in campo energetico e delle nuove tecnologie.

Già al vertice del 2005, UE e USA hanno definito obiettivi ambiziosi per migliorare l’efficienza energetica, condividere energie alternative, aumentare la sicurezza energetica riducendo la vulnerabilità delle forniture. Il vertice del 2007 ha rilasciato una dichiarazione congiunta su efficienza energetica, sicurezza e cambiamento climatico che ha stabilito un collegamento diretto tra politica energetica e obiettivi di lotta al cambiamento climatico. Il successivo vertice del 2009 ha istituito il Consiglio energia UE-USA, un meccanismo a livello ministeriale con tre gruppi di lavoro permanenti nelle aree sicurezza energetica globale e mercati; politiche energetiche e distribuzione; cooperazione nel campo delle tecnologie energetiche.

L’accordo di collaborazione scientifica e tecnologica - entrato in vigore nel 1998, rinnovato nel 2004 ed esteso da ultimo per il periodo 2008-2013 - è uno strumento chiave per favorire l’espansione della cooperazione scientifica transatlantica. Offre un’ampia cornice per la collaborazione in tutte le aree del Settimo programma quadro, incluse scienze ambientali, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, fonti di energia pulite, biotecnologie e nanoscienze. I principi di base dell’accordo includono: mutui benefici, reciproche opportunità di partecipazione, equo trattamento e scambi di informazione.

Per quanto riguarda il settore del trasporto aereo, la prima fase dell’accordo in materia di aviazione civile “Cielo aperto” tra UE e USA è entrata in vigore nel marzo 2009. L'accordo ha costituito probabilmente il più importante accordo in materia di servizi aerei concluso a livello mondiale, in quanto ha consentito il libero accesso al mercato aperto dei servizi aerei a tutti i 27 Stati membri e agli Stati Uniti, che insieme rappresentano quasi il 60 per cento del mercato mondiale dell'aviazione civile. È stata istituita, inoltre, una piattaforma normativa senza precedenti, per affrontare tutti i problemi comuni connessi ai servizi aerei tra UE e USA. A seguito del lancio dei negoziati a maggio 2009, sette successivi round negoziali hanno consentito nel marzo 2010 di concludere la seconda fase dell’accordo, che apre nuove opportunità commerciali nel mercato del trasporto aereo e promuove ulteriormente la cooperazione regolamentare tra i partner; i potenziali benefici della rimozione degli ostacoli al mercato aereo transatlantico includono fino a 12 miliardi di euro in benefici economici e la creazione di un massimo di 80.000 nuovi posti di lavoro.

 

 

 


Rapporti parlamentari Italia- Stati Uniti
(a cura del Servizio Rapporti Internazionali)

 

Presidente della Camera dei Rappresentanti

John Boehner (Repubblicano),
dal 5 gennaio 2011

Presidente del Senato

Joe Biden, dal 20 gennaio 2009

Presidente del Senato pro tempore

Daniel K. Inouye, dal 28 giugno 2010

 

 

RAPPRESENTANZE DIPLOMATICHE

Ambasciatore italiano negli Stati Uniti:

Claudio BISOGNIERO,
dal 18 gennaio 2012

Ambasciatore americano in Italia:

David THORNE
dal 4 settembre 2009

 

XVI LEGISLATURA

 

Deputati eletti all’estero

Nell’ambito della Ripartizione America settentrionale e centrale, è stato eletto l’on. Amato BERARDI (PdL), residente negli Stati Uniti.

 

Incontri bilaterali

 

Giova segnalare che i rapporti parlamentari nel corso della XVI legislatura hanno ricevuto un notevole impulso sia sotto il profilo quantitativo che sotto quello qualitativo soprattutto in ragione dei frequenti incontri che si sono avuti a livello presidenziale. Lo stesso Presidente Fini, infatti, si è recato per ben due volte negli Stati Uniti ed ha ricevuto per tre volte la visita della onorevole Nancy Pelosi, due in qualità di Speaker della Camera dei Rappresentanti, una come minority leader.


Visite del Presidente Fini negli Stati Uniti

Washington, 4-5 marzo 2012

Il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, si è recato in visita ufficiale negli Stati Uniti il 4 e il 5 marzo 2012. Nel corso della visita, il Presidente Fini ha preso parte all'annuale Conferenza dell'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), gruppo di pressione statunitense per il supporto allo Stato d'Israele. Durante i lavori della Conferenza, il Presidente della Camera ha rivolto ai partecipanti un indirizzo di saluto. Nella giornata di domenica 4 marzo, il Presidente Fini ha incontrato il Presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama. Lunedì 5 marzo hanno avuto luogo incontri con il Segretario di Stato alla sicurezza interna, Janet Napolitano, con il Direttore esecutivo per l'Italia del Fondo Monetario Internazionale, dottor Arrigo Sadun, con il Presidente della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, con la leader della minoranza alla Camera dei Rappresentanti e già Presidente della Camera stessa, Nancy Pelosi, con una delegazione del caucus italo-americano del Congresso statunitense, guidata dai co-presidenti Bill Pascrell e Patrick Tiberi

 

Washington e New York, 3-4 febbraio 2010

Il Presidente Fini si è recato in visita negli Stati Uniti dal 3 al 4 febbraio 2010. La visita era volta a ricambiare quella effettuata dalla Speaker Nancy Pelosi il 16 febbraio 2009. Nella giornata del 3 febbraio il Presidente Fini ha incontrato il Vice Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. È quindi stato ricevuto al Congresso dove, si è svolta la cerimonia di consegna alla Biblioteca del Congresso di un volume donato dal Presidente della Camera alla Speaker Nancy Pelosi; in serata si è tenuto un pranzo a Villa Firenze in onore del Presidente della Camera cui hanno partecipato esponenti del Congresso, dell’Amministrazione ed altre personalità. Il 4 febbraio il Presidente Fini ha incontrato dapprima il Presidente della Commissione Esteri del Senato, John Kerry, quindi la Presidente Pelosi e successivamente ha avuto un incontro allargato con altri parlamentari di maggioranza ed opposizione e di origine italiana. Quindi, il Presidente Fini si è recato a New York, dove ha incontrato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon e ha pranzato con la comunità italo-americana. Inoltre, ha visitato una manifestazione di promozione di vini italiani promossa dall’ICE.

 

In particolare, il Presidente della Camera dei Deputati, on. Gianfranco Fini, ha incontrato l’onorevole Nancy Pelosi ben sette volte dall’inizio della legislatura: cinque quando questa era Speaker della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, e due come capogruppo di minoranza.

Il Presidente Fini ha infatti incontrato la Presidente Pelosi nelle seguenti occasioni:

1.      la prima volta il 2 settembre 2008 a Hiroshima, a margine della annuale Riunione dei Presidenti delle Camere dei Paesi del G8;

2.      la seconda volta il 16 febbraio 2009, in occasione della visita ufficiale della Presidente Pelosi in Italia dal 15 al 18 febbraio. La Speaker era accompagnata da una delegazione della sua Assemblea, composta dagli onorevoli John Larson, George Miller, Rosa DeLauro, William Pascrell, Anna Eshoo, Edward Markey e Michael Capuano. Si trattò del primo incontro bilaterale di alto livello successivo all’insediamento della nuova Amministrazione. Dopo l’incontro, la Presidente Pelosi ha tenuto, presso la Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio, una conferenza sul tema “Alleati forti per un futuro sicuro".

3.      la Presidente Pelosi[2] ha partecipato alla VIII riunione del G8, che si è svolta a Roma, presso la Camera dei deputati, il 12 e 13 settembre 2009, nel corso della quale ha svolto la relazione nella sessione dedicata al tema: “Il ruolo dei Parlamenti nella promozione del dialogo interculturale e dell’integrazione sociale”.

4.      nel corso del viaggio del Presidente Fini negli Stati Uniti dal 3 al 4 febbraio 2010 (vedi sopra).

5.      successivamente, l’ha nuovamente incontrata il 10 settembre 2010, in Canada, a margine della IX Riunione dei Presidenti delle Camere dei Paesi del G8.

6.      il 21 marzo 2011, il Presidente Fini ha ricevuto Nancy Pelosi, in qualità di Leader della minoranza nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d'America, invitata a Roma per partecipare al concerto tenuto nell’Aula della Camera dei deputati per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia.

7.      da ultimo, il Presidente Fini ha incontrato l’onorevole  Pelosi, sempre in qualità di leader della minoranza alla Camera dei Rappresentanti, nel corso della visita ufficiale negli Stati Uniti effettuata il 4 e il 5 marzo 2012.

Nel corso della legislatura il Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, ha avuto i seguenti ulteriori incontri.

 

Il 7 maggio 2012 il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha incontrato una delegazione dell'Italy – America Chamber of Commerce (IACC), guidata dalPresidente dell’Associazione, Claudio Bozzo. L’organizzazionefesteggia nel 2012 i 125 anni dalla sua fondazione.  Per tale ragione il Presidente ha inviato, il 30 marzo 2012, un messaggio di felicitazioni al Presidente Bozzo.

Il 16 novembre 2011 il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha incontrato una delegazione dell'American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), lobby statunitense filoisraeliana.

L’8 novembre 2011, il Presidente Fini ha incontrato una delegazione dell’American Society of the Italian Legions of Merit (ASILM - associazione che ha lo scopo di rafforzare i legami di amicizia tra l’Italia e gli Stati Uniti), guidata dal nuovo presidente Lucio Caputo. Il 24 settembre 2009, il Presidente Fini aveva già incontrato una delegazione dell’ASILM, allora guidata dal presidente Dominic Massaro.

Il 12 luglio 2011, Il Presidente Fini ha incontrato David Harris, Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee, organizzazione ebraica in difesa dei diritti umani operante negli Stati Uniti. Il Presidente Fini aveva già incontrato Harris il 1° luglio 2010, in occasione di una visita di una delegazione dell’American Jewish Committee guidata dal Presidente, Robert Elman.

Il 2 giugno 2011, in occasione delle celebrazioni per il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha avuto un incontro informale con  il Vice Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.

Il 12 maggio 2011, il Presidente della Camera dei deputati, on. Gianfranco Fini, ha incontrato una delegazione del B'nai B'rith - organizzazione ebraica di volontari che opera nel campo delle attività sociali - guidata dal presidente del Comitato esecutivo, Allan Jacobs.

Il 3 novembre 2010, il Presidente Fini ha incontrato una delegazione dell’Anti Defamation League (ADL), organizzazione statunitense che opera nel campo della difesa dei diritti civili, battendosi contro l’antisemitismo e ogni forma di pregiudizio e intolleranza, guidata dal suo Direttore Abraham Foxman. Un precedente incontro aveva avuto luogo l'11 novembre 2009.

L’11 febbraio 2009, ha incontrato una delegazione della Conferenza dei Presidenti delle principali Organizzazioni Ebraiche americane, guidata da Alan Solow, Presidente, e da Malcolm Hoenlein, Vice Presidente Esecutivo, nell’ambito di una vista in Italia per incontri ad alto livello con esponenti del Governo e delle Istituzioni, funzionari civili e militari, personalità del mondo economico e dell’impresa nonché con i rappresentanti della Comunità ebraica locale.

Il 19 giugno 2008, ha incontrato una delegazione del Consiglio direttivo della Fondazione nazionale italo americana (NIAF), composta da Kenneth Ciongoli, Chairman, Sal Zizza, Presidente, Francesco Nicotra, Vice Presidente e Rappresentante in Italia.

Il Presidente Fini ha inoltre ricevutoil nuovo Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, S.E. David Thorne, l'11 settembre 2009; il Presidente aveva ricevuto il precedente Ambasciatore degli Stati Uniti, Ronald Spogli, in due occasioni: il 5 gennaio 2009 e il 19 maggio 2008. Inoltre, il Presidente ha ricevuto il precedente Ambasciatore d'Italia a Washington, Giovanni Castellaneta, il 2 febbraio 2009.

 

Protocollo parlamentare

Tra la Camera dei Deputati italiana e la Camera dei Rappresentanti statunitense vige un Protocollo di cooperazione parlamentare, siglato a Roma il 9 dicembre 2002, dal Presidente Pier Ferdinando Casini e dal Presidente Dennis Hastert in occasione della visita ufficiale di quest’ultimo presso la Camera dei deputati.

Il Protocollo prevede la creazione di uno specifico Gruppo parlamentare di collaborazione, che si riunisca alternativamente in Italia e negli Stati Uniti per approfondire ed incentivare l'analisi e il confronto su temi di comune interesse come il ruolo dei Parlamenti nella lotta contro il terrorismo e il narcotraffico, lo sviluppo delle relazioni tra gli Stati Uniti d'America e l'Unione europea, il ruolo della NATO, la qualità della legislazione, il commercio internazionale e la ricerca scientifica e tecnologica. Il Protocollo, inoltre, prevede lo studio di iniziative congiunte che valorizzino la comunità italiana residente negli Stati Uniti d'America.

       Nella XVI legislatura il Gruppo è presieduto dall’on. Alessandro Ruben (Futuro e Libertà. Per l’Italia) e ne fanno parte gli onn. Annagrazia Calabria (PdL), Massimo Donadi (IdV), Anna Teresa Formisano, (UdC), Giovanna Melandri (PD), Giacomo Stucchi (LNP) e Valentino Valentini (PdL).

 

Il Gruppo di collaborazione italo-americano era stato costituito sia nella XIV che nella XV legislatura, ma non si è mai riunito[3].

 

 

Commissioni

Dal 23 al 27 gennaio 2012 si è svolta a Washington la visita di una delegazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, guidata dall'on. Giovanni Fava, Presidente della Commissione, e composta dall'on. Giustina Mistrello Destro (PdL) e dall'on. Giovanni Sanga (PD).

Il 21 giugno 2011, la Commissione Trasporti, sotto la presidenza del presidente Mario Valducci, ha incontrato una delegazione dell’Amministrazione statunitense, guidata dalVice Segretario di Stato americano per i Trasporti, John Porcari.

Il 15 dicembre 2009, il Presidente della Commissione Affari Esteri, on. Stefano Stefani, ha incontrato il Ministro dell'Ambasciata degli Stati Uniti d'America, Barbara Leaf che aveva già incontrato il 16 settembre 2009.

L'11 novembre 2009, la Commissione Cultura della Camera ha effettuato l'audizione del Presidente della Commissione Scienza e tecnologia della Camera dei rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, Bart Gordon.

Il 17 giugno 2009, il Presidente della Commissione Finanze, on. Gianfranco Conte, ha incontrato Lyndon LaRouche, economista ed esponente politico statunitense.

 

Cooperazione multilaterale

Gli Stati Uniti sono membri delle Assemblee parlamentari della NATO e dell'OSCE, nel cui ambito hanno ricoperto posizioni di vertice. Si ricorda, infatti, che l'Assemblea parlamentare della NATO è stata presieduta, dal novembre 2008 al novembre 2010, dal democratico John Tanner e, dal novembre 2002 al novembre 2004, dal repubblicano Douglas Bereuter. Parimenti l'Assemblea parlamentare dell'OSCE è stata presieduta, dal luglio 2004 al luglio 2006, dal democratico afroamericano Alcee Hastings.

Gli Stati Uniti hanno ospitato a Washington la XIV Sessione annuale dell’Assemblea OSCE dal 1° al 5 luglio 2005.

In vista della missione di osservazione delle elezioni presidenziali e parlamentari americane del 4 novembre 2008, organizzata dall’Assemblea parlamentare dell’OSCE, il 22 e 23 settembre 2008 si è svolto a Washington DC, presso il Congresso degli Stati Uniti, un Seminario, organizzato dall'Assemblea OSCE e dalla Commissione Helsinki del Congresso, cui hanno partecipato politici democratici e repubblicani, esperti e studiosi del settore, giornalisti, nonché i responsabili della campagna elettorale del sen. Obama e del sen. McCain.

Obiettivo dell’incontro era fornire ai parlamentari presenti il quadro politico americano, con riferimenti anche di carattere istituzionale, nonché informazioni sul ruolo dei mezzi di informazione nella campagna l’elettorale, sulle principali problematiche poste dalle procedure elettorali, sulle strategie dei due principali candidati alla presidenza. Erano presenti per la delegazione italiana, il Presidente della stessa, on. Riccardo Migliori (PdL), gli onorevoli Emerenzio Barbieri (PdL), Claudio D’Amico (LNP), Pierluigi Mantini (PD), Matteo Mecacci (PD), Guglielmo Picchi (PdL), e i senatori, Laura Allegrini (PdL), Andrea Marcucci (PD), Nino Randazzo (PD). A margine dei lavori, la delegazione italiana ha incontrato l’Ambasciatore d’Italia a Washington ed alti funzionari dell’Ambasciata per un briefing sulla situazione politica ed economica americana e sull’andamento della campagna elettorale (per la partecipazione alla missione di osservazione vedi infra).

La delegazione italiana presso l’Assemblea OSCE, in vista della missione di osservazione delle elezioni americane, aveva incontrato il 16 ottobre 2008, l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia dell’epoca, Ronald Spogli.

Nell’ambito delle attività dell’Assemblea NATO, a partire dal 2000, gli Stati Uniti ospitano, sempre a Washington, presso la sede della National Defence University, il Forum parlamentare transatlantico. Si tratta di uno dei maggiori impegni dell’Assemblea e rappresenta la principale occasione di dialogo transatlantico su tematiche di interesse comune in materia di difesa e sicurezza nonché occasione di incontro con i parlamentari americani. L'ultimo Forum si è svolto il 5 e 6 dicembre 2011 e vi hanno partecipato gli onorevoli Paolo Guzzanti, Arturo Parisi, Lanfranco Tenaglia, Gianni Vernetti e i senatori Lamberto Dini, Elio Lannutti, Lucio Malan. Le precedenti riunioni del Forum si sono svolte rispettivamente: il 6 e 7 dicembre 2010 vi ha partecipato l’on. Gianni Vernetti (Misto). Le due precedenti riunioni del Forum si sono svolte rispettivamente il 7 e 8 dicembre 2009 e vi hanno partecipato gli onorevoli Giorgio La Malfa (Misto) e Arturo Parisi (PD); e il 15 e 16 dicembre 2008 e vi avevano partecipato gli onorevoli Italo Bocchino (PdL), Giancarlo Giorgetti (LNP), Paolo Guzzanti (PdL); in tale occasione i deputati hanno incontrato il Presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi.[4]

Sempre nell’ambito dell’attività dell’Assemblea parlamentare della NATO, ogni anno viene organizzata una visita negli Stati Uniti della Commissione Difesa e sicurezza. La missione si articola in incontri istituzionali a Washington, presso il Congresso con le competenti Commissioni del Senato e della Camera dei Rappresentati, con gli alti funzionari del Dipartimento di Stato, della Difesa e del Consiglio di sicurezza nazionale, nonché in una visita ad una base militare. Nel 2012 la missione si è svolta dal 1° al 5 febbraio con la partecipazione degli onorevoli Giorgio La Malfa (Misto) e Francesco Bosi (UDCpTP) e il senatore Antonello Cabras (PD). La visita si è articolata in due parti: la prima, a Washington con incontri al Pentagono, al Dipartimento di Stato e al Congresso, compresa una visita all'Accademia navale di Annapolis (Maryland); la seconda, a Dayton, alla base aerea di Wright Patterson. Nel 2011 la visita ha avuto luogo dal 31 gennaio al 4 febbraio, con incontri istituzionali al Dipartimento della Difesa, all’Agenzia per la difesa missilistica, al Dipartimento di Stato, al Council for Foreign Relations e al Congresso. La visita è proseguita a San Diego, al Quartier generale del Comando della Terza Flotta americana, quindi alla Base Navale San Diego con visite alle navi da guerra USS Freedom e USS DDG-53 per la difesa missilistica e infine al Comando per i sistemi da guerra navale e spaziale. Alla missione ha partecipato l’on. Giorgio La Malfa (Misto-Liberal democratici repubblicani). Nel 2010 la visita si è svolta dal 25 al 29 gennaio, con incontri al Congresso e al Dipartimento di Stato dove i parlamentari hanno incontrato Richard Holbrooke, Rappresentante speciale per l’Afghanistan e il Pakistan. I delegati hanno quindi proseguito la missione recandosi in Florida dove hanno effettuato una visita alla Base aerea di Hurlburt, quartier generale delle Operazioni speciali delle Forze aeree; quindi hanno proseguito per Tampa con incontri al Comando Operazioni speciali degli Stati Uniti (SOCOM) e al Comando centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) dove hanno incontrato il gen. David Petreus.

Alla missione ha partecipato l’on. Giorgio La Malfa (Misto-Liberal democratici repubblicani). Nel 2009 la visita si è svolta dal 26 al 30 gennaio ed ha avuto come tema la difesa missilistica. Sono stati svolti pertanto incontri anche all’Agenzia per difesa missilistica. Alla missione hanno preso parte l’on Francesco Bosi (UDC) e l’on. Giorgio La Malfa (Misto-Liberal democratici repubblicani), che hanno visitato la base aerea di Peterson a Colorado Springs e la Base aerea Vandenberg in California[5].

 

Dimensione parlamentare del G8

Gli Stati Uniti fanno parte della dimensione parlamentare del G8.

La Presidente Pelosi ha partecipato alla IX riunione parlamentare del G8 svoltasi ad Ottawa dal 9 al 12 settembre 2010. Si segnala che la Presidente Pelosi ha partecipato anche all’VIII Riunione dei Presidenti delle Camere Basse dei Paesi del G8, che si è svolta a Roma, presso la Camera dei deputati, il 12 e il 13 settembre 2009, ed ha svolto la relazione introduttiva nella seconda sessione sul “Ruolo dei Parlamenti nella promozione del dialogo interculturale e dell’integrazione sociale”.

Gli Stati Uniti non hanno partecipato alla X riunione, tenutasi a Parigi dal 9 al 10 settembre 2011[6].

La prossima riunione si dovrà tenere nel 2012 negli Stati Uniti.

 

Il Dialogo dei Legislatori sui Cambiamenti climatici dei Paesi G8+5

Nell’ambito della dimensione parlamentare del G8, gli Stati Uniti fanno altresì parte del Dialogo dei Legislatori sui Cambiamenti climatici dei Paesi G8+5, che vede coinvolti i rappresentati legislativi dei paesi del G8 insieme a 5 paesi in fase di avanzato sviluppo (Cina, India, Messico, Brasile e Sud Africa) e che si pone l’obiettivo di discutere un accordo sui cambiamenti climatici “post-2012”, ovvero successivo alla prima scadenza del Protocollo di Kyoto, sulla riduzione delle emissioni dei gas serra, al fine di stabilire la più ampia convergenza sugli obiettivi ambientali a livello mondiale. In occasione del Vertice G8 di Gleaneagles venne affidato all’organizzazione Globe[7] il compito di curare l’organizzazione del dialogo a livello parlamentare sui cambiamenti climatici tra i Paesi del G8+5 e di tenere a tal fine i rapporti anche con i relativi Governi e con la Banca Mondiale.

Gli Stati Uniti hanno ospitato a Washington, dal 14 al 15 febbraio 2007,iI II Forum del Dialogo dei Legislatori sui Cambiamenti climatici dei Paesi G8+5.

La Camera dei deputati italiana ha ospitato il VI Forum, il 12 e 13 giugno 2009, in connessione con il turno di Presidenza italiano del G8. Al Forum non ha partecipato alcun parlamentare americano.

Il Presidente della Commissione per l’Energia e i riscaldamento globale statunitense, on. Ed Markey, ha invece condotto i lavori del Forum di Copenaghen, tenutosi il 24 e il 25 ottobre 2009, presso il Parlamento della Danimarca, nel corso del quale è stato predisposto un documento che è stato  sottoposto alla Conferenza delle Parti sul Clima di Copenaghen (Cop15). Per il Parlamento italiano hanno preso parte al Forum, in rappresentanza della Camera dei Deputati, gli onorevoli Anna Teresa Formisano, del Gruppo dell'UDC, componente della Commissione Attività produttive, e Renato Walter Togni, del Gruppo della Lega Nord Padania, della Commissione Ambiente. Il Senato non era rappresentato.

La Speaker della House of Representatives statunitense, on. Nancy Pelosi, ha inviato un saluto via video e ha ricordato i cambiamenti intervenuti con il cambio di Amministrazione avvenuto negli Stati Uniti, che vuole marcare la differenza rispetto al passato.

 

 

 

III World e-Parliament Conference

 

Una delegazione della Camera dei deputati, guidata dal Vice Presidente, on. Maurizio Lupi, ha partecipato ai lavori della III World e-Parliament Conference, ospitata nelle giornate del 3-5 novembre 2009 dalla House of Representatives e aperta dalla Speaker, Nancy Pelosi.

Il Vice Presidente Lupi ha preso la parola nella prima sessione Connecting Parliaments and citizens: new technologies to foster openness, transparency and accountability, riportando l’esperienza e le più recenti iniziative della Camera dei deputati nella promozione della comunicazione istituzionale e del dialogo fra cittadini ed istituzione parlamentare attraverso le tecnologie WEB.

La Conferenza internazionale di Washington rientra fra le numerose iniziative del Centro Globale per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei parlamenti, nato nel 2005 su iniziativa delle Nazioni Unite, dell'Unione interparlamentare e di alcuni Parlamenti tra cui la Camera dei deputati italiana, che nel novembre 2006 ha stabilito la sua sede a Roma con il sostegno del Ministero degli esteri  italiano, divenendo rapidamente la principale sede di iniziativa e confronto interparlamentare nel campo delle applicazioni delle tecnologie informatiche e di coordinamento delle iniziative di assistenza tecnica a parlamenti di nuove ed emergenti democrazie e di paesi in via di sviluppo.

Quella di Washington è stata la terza Conferenza organizzata dal Global Centre: La prima edizione (novembre 2007) si era tenuta nella sede delle Nazioni Unite a Ginevra, la seconda si è tenuta nel 2008 ed è stata ospitata a Bruxelles dal Parlamento Europeo.

I lavori della Conferenza di Washington sono stati aperti dalla Presidente della House of Representatives, Nancy Pelosi, dal Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite, Sha Zukang, dal Segretario Generale dell'Unione Interparlamentare, Anders B. Johnsson, dal Presidenti dell’Assemblea del popolo egiziana, Ahmed Fathy Sorour e dalla Vice Presidente dell'Assemblea nazionale ungherese Ildiko Gall Pelcz,questi ultimi in quanto Co-chair in carica del Centro Globale.

 

 

Missioni di monitoraggio elettorale

Una componente della delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare OSCE ha partecipato alle missioni di osservazione delle elezioni presidenziali e parlamentari americane, rispettivamente del 4 novembre 2008 e del 2 novembre 2010.

Nel 2008, i parlamentari italiani presenti, dopo una giornata di lavori a Washington, sono stati dislocati in alcuni degli stati federali per seguire l'ultimo fine settimana di campagna elettorale e quindi il giorno delle elezioni. La sen. Laura Allegrini (PdL) è stata nominata capo del Team di osservatori in Florida, l'on. Emerenzio Barbieri (PdL) e il sen. Nino Randazzo (PD) sono stati dislocati in Missouri, gli onorevoli Claudio D'Amico (LNP), Pierluigi Mantini (PD) e il sen. Andrea Marcucci (PD) sono andati nel New Hampshire.

Nel 2010, i parlamentari italiani hanno partecipato ad un Seminario a Washington, in seguito  hanno preso parte ai briefing con esponenti delle forze politiche, dei mezzi di informazioni e della società civile, quindi sono stati dislocati in alcuni stati federali. Il Presidente della delegazione, on. Riccadro Migliori (PdL) e il sen. Andrea Marcucci (PD) hanno partecipato al monitoraggio elettorale a Philadelphia; la sen. Laura Allegrini e l'on. Matteo Mecacci a Washington; gli onorevoli Claudio D'Amico (LNP) e Guglielmo Picchi (PdL) e il sen. Nino Randazzo (PD) sono invece andati nel Colorado, a Denver.

 

 

Cooperazione amministrativa

Dal 21 giugno al 16 luglio 2010 un consigliere parlamentare della Camera dei Deputati si è recato presso la Sotto Commissione per l’Europa della Commissione esteri della Camera dei Rappresentanti, su invito del Congresso statunitense, ed è stato associato all’attività dell’organo.

Il 4 giugno 2008 si è svolta presso la Camera la visita di studio di un gruppo di studenti del Dipartimento di Scienze politiche della Virginia Tech University, accompagnati dal prof. Charles L. Taylor, in missione in Europa per approfondire la conoscenza dei sistemi politici di Francia, Germania, Italia e Regno Unito. Gli studenti hanno incontrato un funzionario del Servizio Prerogative ed immunità, che ha tenuto un seminario sui principi dell’ordinamento costituzionale italiano, ed il Capo del Servizio Rapporti internazionali, che ha illustrato loro le principali linee dell’attività internazionale della Camera dei deputati.

 

UIP

Nella XVI legislatura la sezione di amicizia Italia-Stati Uniti è presieduta dall’on. Marina SERENI (PD), che già nella XV legislatura aveva ricoperto la carica, ed è composta dagli onorevoli Elena Centemero (PdL) e Marco Giovanni Reguzzoni (LNP).

Si rammenta che gli Stati Uniti hanno sospeso la loro partecipazione all’Unione Interparlamentare, in seguito alle critiche spesso subite dai propri rappresentanti presso tale organizzazione.

 

Attività legislativa

A.C. 826, diiniziativa dell’on. Angela Napoli (Futuro e Libertà. Per l’Italia). Riconoscimento del valore legale delle lauree ad honorem conferite a cittadini italiani dalle università degli Stati Uniti d'America. Presentato alla Camera il 7 maggio 2008. Il 4 agosto 2008 assegnato alla  VII Commissione permanente (Cultura, scienza e istruzione)in sede referente.Non ancora iniziato l'esame.

A.S. 2913 / A.C. 4878, Ratifica ed esecuzione del Protocollo di modifica dell'Accordo sui trasporti aerei tra gli Stati Uniti d'America, l'Unione Europea e i suoi Stati membri, firmato il 25 e 30 aprile 2007, con Allegati, fatto a Lussemburgo il 24 giugno 2010. Definitivamente approvato il 16 febbraio 2012. Non ancora pubblicato .

Legge n. 164/09del 23 ottobre 2009, GU n. 267 del 16 novembre 2009: Ratifica ed esecuzione dell'Accordo sui trasporti aerei tra l’Unione europea e gli Stati membri, da una parte, e gli Stati Uniti d'America, dall'altra, con allegati, fatto a Bruxelles il 25 aprile 2007 e a Washington il 30 aprile 2007.

Legge n. 216/08  del 30 dicembre 2008, GU n. 21 del 27 gennaio 2009: Ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo degli Stati Uniti d'America in merito alla conduzione di "ispezioni su sfida" da parte dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ai sensi della Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinamento ed uso di armi chimiche e sulla loro distruzione, fatto a Roma il 27 ottobre 2004.

Legge n. 20/09 del 3 marzo 2009, GU n. 64 del 18 marzo 2009: Ratifica ed esecuzione della Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d'America per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi o le evasioni fiscali, con Protocollo e Verbale d'intesa, fatta a Washington il 25 agosto 1999, con Scambio di Note effettuato a Roma il 10 aprile 2006 e il 27 febbraio 2007.

Legge n. 25/09 del 16 marzo 2009, GU n. 72 del 27 marzo 2009: Ratifica ed esecuzione dei seguenti atti internazionali: a) Strumento così come contemplato dall'articolo 3(2) dell'Accordo di estradizione tra gli Stati Uniti d'America e l'Unione europea firmato il 25 giugno 2003, in relazione all'applicazione del Trattato di estradizione tra il Governo degli Stati Uniti d'America e il Governo della Repubblica italiana firmato il 13 ottobre 1983, fatto a Roma il 3 maggio 2006; b) Strumento così come contemplato dall'articolo 3(2) dell'Accordo sulla mutua assistenza giudiziaria tra gli Stati Uniti d'America e l'Unione europea firmato il 25 giugno 2003, in relazione all'applicazione del Trattato tra gli Stati Uniti d'America e la Repubblica italiana sulla mutua assistenza in materia penale firmato il 9 novembre 1982, fatto a Roma il 3 maggio 2006.

 

 


Focus di approfondimento

 


La campagna per le elezioni presidenziali americane

Il 6 novembre 2012 si svolgeranno negli USA le elezioni presidenziali. I due principali candidati saranno Barack Obama, presidente uscente, e, a seguito dell’esito delle elezioni primarie, Mitt Romney, ex-governatore del Massachussets.

In base alla Costituzione, le elezioni per il presidente USA, responsabile del potere esecutivo federale, avvengono, ogni quattro anni, il martedì dopo il primo lunedì di novembre. Si tratta, formalmente, di elezioni di secondo livello, vale a dire che in ciascuno Stato degli USA viene eletto un numero di grandi elettori corrispondente alla somma dei rappresentanti e dei senatori di quello Stato (in tutti gli USA i grandi elettori sono 538). I grandi elettori si riuniscono Stato per Stato, il primo lunedì dopo il secondo mercoledì del dicembre successivo alle elezioni per eleggere il presidente.

I risultati di ciascuno Stato sono inviati a Washington e scrutinati davanti ai membri del Congresso il sesto giorno di gennaio successivo. Per risultare eletti presidente sono necessari 270 voti dei grandi elettori. Nei fatti, i cittadini USA scelgono direttamente il candidato alla presidenza: in alcuni Stati la legge impone ai grandi elettori di votare per il candidato per il quale si sono impegnati a votare prima delle elezioni; nella maggior parte degli Stati ciò avviene in via di consuetudine.

Il processo di selezione dei candidati alle elezioni presidenziali da parte dei due principali partiti USA, il partito democratico e il partito repubblicano, è affidato prevalentemente (anche se, come vedremo, non in via esclusiva) alle elezioni primarie. Poiché il presidente uscente Obama, democratico, ha annunciato l’intenzione di ricandidarsi, solo il partito repubblicano ha proceduto allo svolgimento delle elezioni primarie. 

Con le elezioni primarie, all’interno di ciascun partito viene individuato il candidato alla Presidenza: questo avviene attraverso l’elezione di delegati esplicitamente collegati a quel candidato che poi formalmente designeranno il candidato in una Convenzione nazionale. Diffusesi a partire da alcuni grandi città USA alla fine dell’Ottocento, è possibile distinguere negli USA diverse tipologie di elezioni primarie::

-            le “primarie chiuse”, riservate ai sostenitori del partito, vale a dire coloro che si sono registrati come elettori del partito (per votare negli USA è necessario registrarsi nelle liste elettorali; al momento dell’iscrizione si può dichiarare la propria appartenenza ad un partito oppure registrarsi come indipendenti);

-            le primarie “semi-chiuse”, riservate ai sostenitori del partito e agli elettori indipendenti;

-            le primarie aperte con dichiarazione pubblica che prevedono la possibilità per l’elettore di dichiarare il giorno stesso dell’elezione il partito prescelto e di partecipare alle relative primarie;

-            le “primarie coperte” con la partecipazione di tutti gli elettori, che ricevono due schede, una per ciascun partito, potendo però poi scegliere sono uno dei due

-            le “primarie non partitiche”  che si caratterizzano per la presenza di una sola scheda con i candidati di tutti i partiti ; gli elettori possono votare un solo candidato, vince colui che ottiene la maggioranza assoluta dei voti, altrimenti si ricorre ad un secondo turno

I sistemi elettorali utilizzati nelle elezioni primarie variano da Stato a Stato: si può avere un sistema di tipo proporzionale, più o meno corretto, per la designazione dei delegati, ovvero un sistema maggioritario in base al quale al candidato vincente spettano tutti i delegati dello Stato.

In alcuni Stati si ricorre ad un metodo diverso per la selezione dei candidati, quello dei caucus: il caucus è un’assemblea di sostenitori di un partito che si riunisce per designare i candidati. Per sua natura, il caucus può coinvolgere solo una determinata quantità di persone, per cui in genere è necessario all’interno di un distretto elettorale (o di uno Stato) prevedere anche più livelli di caucus.

La disciplina delle elezioni primarie è regolata dalla legislazione dei singoli Stati, integrata dai regolamenti interni dei partiti e da alcuni principi rinvenibili nella giurisprudenza della Corte suprema.

 

Per il finanziamento delle campagne elettorali per le elezioni primarie, come per le elezioni presidenziali, la disciplina è contenuta nel Federal Election Campaign Act del 1971, modificato da ultimo con il Bipartisan Campaign Reform Act del 2002.

Le risorse a disposizione dei candidati sono di tipo privato o pubblico. Le risorse private sono quelle ottenute tramite donazioni individuali o mediante dei comitati di azione politica (Political Action Committee), promossi da organizzazioni o associazioni. I fondi pubblici spettano ai candidati che riescono a raccogliere almeno 5000 dollari in venti Stati, in misura uguale al finanziamento privato ricevuto. L’accettazione dei fondi pubblici comporta il rispetto di numerosi vincoli, che spesso induce i candidati con consistenti donazioni private a rinunciare al finanziamento pubblico. La Federal Election Commission è incaricata di far rispettare la legge sul finanziamento delle campagne elettorali federali.

La materia del finanziamento delle campagne elettorali è stata significativamente mutata dalla sentenza della Corte suprema USA Citizens United vs. Federal Election Commissiondel gennaio 2010: la sentenza ha infatti dichiarato incostituzionali perché incompatibili con la libertà di manifestazione del pensiero le previsioni della legislazione federale che proibivano alle imprese e ai sindacati l’utilizzo di proprie risorse per “spese indipendenti” e “comunicazioni elettorali”. Con queste tipologie si indicano quelle forme di finanziamento o di sostegno politico che non affluiscono direttamente al candidato ma, ad esempio attraverso i Political Action Committee, si trasformano in campagne su singoli temi o in forme di messaggi pubblicitari contro i candidati avversari. A seguito della sentenza imprese e sindacati possono intervenire senza limiti in queste forme di partecipazione alle campagne elettorali.

 

Per approfondimenti sulla disciplina delle elezioni primarie si rinvia a Servizio Biblioteca – Ufficio legislazione straniera Le elezioni primarie: la disciplina negli Stati Uniti d'America e altre esperienze in ambito europeo ed extraeuropeo (giugno 2011)

 

Le primarie 2012 del partito repubblicano

Con la vittoria nelle primarie negli Stati del Connecticut, Delaware, Pennsylvania, Rhode Island e New York, lo scorso 24 aprile, Mitt Romney ha raggiunto la quota di 684 delegati alla Convenzione nazionale del Partito repubblicano che si svolgerà a Tampa, Florida, a fine agosto. Il quorum di delegati necessario per ottenere la candidatura è di 1144 delegati, ma il ritiro del principale avversario di Romney, Rick Santorum, e la grande distanza con i delegati ottenuti dagli altri due candidati ancora formalmente in corsa, l’ex-speaker della Camera dei rappresentanti Newt Gingrich (141; Gingrich ha comunque annunciato l’intenzione di ritirarsi) e Ron Paul (84), rendono scontata la sua designazione.

Mormone, Mitt Romney (n. 1947), finanziere, è stato governatore del Massachusetts dal 2003 al 2007.

In politica interna le sue posizioni appaiono moderate: da governatore repubblicano in uno Stato tradizionalmente democratico, ha approvato per il Massachussets una riforma sanitaria simile a quella approvata a livello federale dall’amministrazione USA.

 

In politica estera, invece, la composizione del suo Foreign Policy and National Security Advisory Team, che lo assiste nella campagna elettorale, lascia int5ravedere un’agenda maggiormente ispirata alle posizioni neoconservatrici. A tale ambito politico-culturale sono riconducibili lo studioso Robert Kagan e Eliot Cohen, già consigliere del segretario di Stato Condoleezza Rice tra il 2007 e il 2009.

Il manifesto di politica estera fin qui presentato da Romney durante la campagna elettorale, An American Century. A Strategy to Secure America’s Enduring Interests and Ideals si basa su quattro principi: chiarezza degli interessi da perseguire; aspirazione ad un sistema internazionale congeniale alle istituzioni liberali, al libero mercato, alla democrazia e al rispetto dei diritti umani; la volontà di agire preventivamente per evitare che situazioni di crisi sfocino in aperti conflitti e la leadership nelle alleanze e nelle organizzazioni internazionali.

 

 


Sviluppi della politica statunitense in Afghanistan

Ad un anno dall’uccisione di Osama Bin Laden nel compound pakistano di Abbottabad (1° maggio 2011) il presidente statunitense Barak Obama ha compiuto in Afghanistan un viaggio a sorpresa (che i media avevano peraltro preannunciato e la Casa Bianca smentito) carico di simboli storici e politici, definito dalla stampa Usa l’“Obama's Osama surprise".

Il Presidente ha tenuto un discorso alla Nazione, trasmesso in diretta tv in prime time negli Stati Uniti (era notte in Afghanistan) davanti a circa 3.200 soldati riuniti in un hangar della base Usa di Bagram.

La scenografia, costituita da carri militari blindati e da una grande bandiera americana, è apparsa differente – hanno rilevato i media - da quella predisposta il primo maggio 2003 in occasione dello speech del predecessore George W. Bush, che si era svolto sulla portaerei Abraham Lincoln dove era visibile un grande striscione con la scritta “missione compiuta” riferita all’intervento in Iraq, (destinato a concludersi a fine 2011).

Obama non ha dichiarato conclusa la guerra in Afghanistan ma ha ribadito la necessità, nonostante la stanchezza dell’opinione pubblica per la più lunga guerra condotta dagli americani all’estero, di completare il lavoro iniziato da oltre un decennio, confermando che l’obiettivo della distruzione di al Qaeda è ormai alla portata delle forze Usa.

Il Presidente nel sottolineare che esiste un percorso chiaramente tracciato verso il completamento della missione, ha ribadito che essa non consiste nella costruzione di un Afghanistan ad immagine dell'America o nello sradicamento totale dei talebani, obiettivi che richiederebbero tempi assai lunghi, dispiego di enormi risorse e perdite di vite umane.

Obama ha anche affermato con estrema chiarezza che l’amministrazione USA ha avuto contatti con i talebanied ha ribadito che quelli di loro che lasceranno la lotta armata potranno essere coinvolti nella costruzione del futuro dell'Afghanistan.

I colloqui tra gli Usa e i rappresentanti del movimento talebano, che peraltro sono stati sospesi il 15 marzo per iniziativa dei secondi, si svolgono sotto gli auspici del Qatar, dove i talebani hanno aperto un ufficio di rappresentanza nella capitale Doha.

Finalizzati al raggiungimento di una soluzione politica al conflitto, ritenuta imprescindibile dall’Amministrazione americana, i colloqui presentano talune difficoltà correlate, in particolare, alla prospettiva che un loro eventuale successo venga poi riconosciuto dai vari gruppi della guerriglia, soprattutto con riferimento alla rete Haqqani: come è noto essa è ritenuta dai comandi militari americani strettamente connessa con le autorità pakistane, di cui sarebbe la longa manus in numerosi attacchi.

Altro elemento di criticità correlato ai colloqui Usa-talebani viene indicato nella contrarietà di questi al mantenimento di basi militari americane in Afganistan dopo il ritiro delle truppe, calendarizzato per il 2014. Forme di presenza dopo tale data sono infatti allo studio al fine di evitare che il ritiro delle truppe metta a repentaglio la stabilità del paese o i progressi compiuti nella guerra contro gli insorti.

In un recente articolo a firma di due senior fellows di Brookings Institution apparso sul Wall Street Journal (A Stable Afghanistan Is Still Possible, 11 aprile 2012) incentrato sulle prospettive di stabilizzazione del paese asiatico, viene evidenziata la mancanza di corrispondenza tra il generale atteggiamento spavaldo dei talebani e la loro effettiva forza, che appare assai affievolita nonostante la protezione dispiegata dall’ISI (Inter-Services Intelligence) pakistana sui leader talebani sopravvissuti, che sono per lo più di giovane età e non vasta esperienza; lo stesso interesse per i colloqui di pace, per quanto interrotti per iniziativa talebana, sarebbe una dimostrazione di tale debolezza.

Secondo gli autori, stante la persistente problematicità dello scenario complessivo afgano e l’ancora sussistente insurrezione, destinata a persistere anche dopo il 2014, va perseguito con convinzione, coerentemente con la exit strategy delineata dall’amministrazione Usa, l’obiettivo di mettere le forze afgane in grado di combattere da sole, pur col sostegno, dopo il ritiro delle forze internazionali, di 10-20mila unità di forze straniere e con supporto aereo, di intelligence, di addestramento e per le operazioni speciali. Tale analisi scoraggia ogni accelerazione temporale (che secondo alcuni osservatori sarebbe nelle intenzioni del Presidente americano) riguardo alle fasi del ritiro delle truppe in quanto essa non consentirebbe il completamento della formazione delle truppe afgane, che può aversi solo in ambito di formazioni di combattimento NATO e non col mero ausilio di consulenti.

Come è noto Barack Obama ha fissato al 2014 la data entro la quale terminare il ritiro delle truppe combattenti dall'Afganistan, prevedendo una riduzione del contingente in varie fasi: dopo il rimpatrio di 10mila soldati nel 2011, circa 23mila dovrebbero lasciare il paese asiatico nel corso del 2012; successivamente resteranno in Afganistan circa 70mila militari americani. Secondo il generale John Allen, comandante delle truppe americane e del contingente della Nato in Afganistan, le fasi successive del piano di ritiro non sono ancora state concordate, come non è stato stabilito il numero di soldati americani da rimpatriare nel corso del 2013.

Il segretario americano alla difesa, Leon Panetta, ha precisato che il piano per il ritiro prevede che, dalla metà del 2013, i militari americani ridurranno gradualmente la loro partecipazione alle operazioni di combattimento per concentrarsi sui compiti di addestramento delle forze di sicurezza afgane.

In occasione dell’Obama's Osama surprise del 1° maggio 2012, Obama e il Presidente afgano Hamid Karzai hanno siglato l’importante accordo bilaterale di partnership strategica a lungo termine, che ha a lungo impegnato i negoziatori delle due parti. A norma dell’accordo gli Usa saranno presenti nel paese asiatico ancora per almeno un decennio dopo il ritiro delle truppe. Il documento, che prevede la continuazione del sostegno americano all’Afghanistan nei tre settori dell’addestramento delle truppe, della ricostruzione e dello sviluppo di istituzioni democratiche, non quantifica l’impegno finanziario che gli Usa intendono assumersi ed è destinato ad essere ogni anno rivisto ed approvato dal Congresso.

L’accordo, che gli analisti americani ritengono assai importante in vista del vertice della Nato in programma a Chicago per il prossimo 20-21 maggio incentrato proprio sul futuro dell'impegno internazionale in Afghanistan, è stato approvato dopo trattative da ultimo complicate dalla crescente insofferenza afgana per i recenti episodi negativi di cui si sono resi protagonisti taluni militari americani. Anche per la controparte afgana impersonata dal Presidente Hamid Karzai, viene rilevato, l’accordo è importante in quanto dimostrativo - come immediatamente sottolineato dagli ambienti vicini al Presidente – dell’apertura di una nuova fase delle relazioni bilaterali basate ora sul “rispetto reciproco”.

Gli assalti coordinati condotti dai talebani il 16 aprile nel cuore politico-diplomatico della capitale Kabul ed in altre province nel paese, conclusi, dopo 17 ore di battaglia, con un bilancio di 36 talebani, 8 soldati nazionali e 3 civili afgani uccisi, oltre a numerosi feriti sono stati esplicitamente definiti dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, una vendetta per la sequenza di gravi episodi ai danni della parte afgana commessi da militari americani.

Il riferimento è alle copie del Corano bruciate, il 21 febbraio 2012, nella base Usa di Bagram (i responsabili non risultano al momento ancora individuati) episodio che, nonostante le scuse formulate dal generale John Allen, capo della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (ISAF) “al nobile popolo afgano” aveva dato origine ad una violenta ondata di proteste. La vendetta dei talebani si è rivolta anche al video, sul quale è in corso un’inchiesta per ora senza risultati pubblici, che mostrerebbe alcuni marines urinare su un talebano morto nonché alla strage di civili compiuta a Kandahar (12 marzo) da un sergente americano che per questo - come affermato dal Segretario di Stato alla difesa Usa, Leon Panetta nel corso della sua visita di poco successiva all’evento in Afghanistan - rischia la pena di morte. Tale ultimo episodio, per il quale si è scusato lo stesso presidente Obama, con disappunto dei repubblicani Usa, ha generato la chiusura di un giorno, per protesta, del parlamento afgano. 

La fase negoziale che ha condotto all’accordo strategico tra Usa e Afghanistan, durata circa un anno, ha incontrato difficoltà anche a seguito di talune richieste del presidente Karzai a difesa della sovranità nazionale incentrate sulla cessione alle forze di sicurezza afgane del controllo sui luoghi di detenzione e sulla cessazione di raid aerei notturni, suscettibili di provocare vittime nella popolazione civile. Su tale ultima delicata questione l’8 aprile è stato concluso un accordo tra governo afgano e Nato in base al quale la decisione finale circa la loro effettuazione, nonché la guida dei medesimi, è stata assegnata a Kabul, mentre le forze non afgane sono chiamate ad operare in ruolo di sostegno: gli osservatori USA hanno sottolineato che tale accordo sui raid, indubitabilmente accelerato dall’insistenza afgana, è tuttavia sintomatico dei progressi compiuti nella trasmissione di responsabilità alle forze nazionali.

Il consenso dei negoziatori statunitensi su entrambe le questioni ritenute cruciali dalla parte afgana (controllo sui luoghi di detenzione e sui raid aerei notturni) confluito nel testo dell’accordo, dopo la firma del Presidente passa ora al vaglio del Congresso Usa.

Quanto all’Afghanistan, il 23 aprile l’esecutivo aveva esaminato l'accordo di partenariato strategico in una riunione presieduta dal presidente Karzai. Come riportato da fonti ufficiali, dopo aver definito l’intesa “un documento fondamentale”, i ministri di Kabul hanno sottolineato il ruolo chiave che in esso hanno il rispetto della Costituzione afgana, l'unità nazionale e, soprattutto, la qualità paritetica della relazione fra Afghanistan e Usa, considerati due Stati indipendenti e di pari dignità. Il governo, inoltre, ha definito della massima importanza le indicazioni dell’accordo che vanno nel senso di un rafforzamento delle forze di sicurezza afgane, finalizzato a metterle in condizione di difendere il proprio paese in modo indipendente.

La più recente valutazione della pericolosità dello schieramento talebano e dei rischi per i militari presenti in teatro è stata fornita dall’ultimo rapporto semestrale presentato dal Pentagono al Congresso e diffuso nello stesso torno di tempo della visita del Presidente Obama in Afghanistan.

Nel rapporto i talebani vengono definiti un “nemico resistente e determinato che cercherà, in primavera e in estate, di riguadagnare terreno e influenza perduti'', continuando ad operare impunemente  dai santuari in Pakistan''. Ciò premesso, il quadro che emerge dal documento evidenzia anche lati positivi quali, innanzitutto, il fatto che gli insorti non siano riusciti a riconquistare le aree sottratte al loro controllo nelle province meridionali di Kandahar ed Helmand e che nel 2011, per la prima volta da cinque anni a questa parte, gli attacchi contro le forze americane ed afgane hanno evidenziato una tendenza alla diminuzione secondo un andamento che sembra essere confermato dai dati relativi ai primi mesi del 2012 (che, tuttavia, potrebbero essere condizionati anche dal particolare rigore dell’inverno appena trascorso).

Anche il rapporto evidenzia, come già riferito in relazione all’assenso statunitense sul controllo afgano dei raid aerei notturni, i notevoli progressi compiuti dalle forze afgane in vista del completo trasferimento in capo alle medesime delle responsabilità sulla sicurezza.

Tra gli elementi di criticità del quadro afgano il documento segnala arretramenti nella governance e nello sviluppo del Paese, responsabili di ostacolare il processo di consolidamento dei risultati ottenuti sul fronte della sicurezza.

Il segretario Usa alla difesa, Leon Panetta, ha di recente (28 aprile) dichiarato che dopo l’uccisione di Bin Laden l’America è diventata più sicura e che è improbabile si verifichi un attacco simile a quello dell’11 settembre. Tuttavia l’ex capo della Cia ha avvertito che al Qaeda, per quanto indebolita, è tutt'altro che sconfitta e “continua a rappresentare una minaccia per gli Usa e per i suoi alleati”.

Non si ritiene probabile, da qui a un anno, che l’organizzazione fondata daBin Laden possa portare un attacco paragonabile a quello delle Twin Towers come risultato dell’azione antiterrorismo di questi anni, che ha di fatto smantellato il nucleo più pericoloso di al Qaeda, quello basato in Pakistan ed Afghanistan. Inoltre, il successore di Bin Laden - Ayman al Zawahiri - non pare essere stato in grado di ricompattare le fila dell’organizzazione dopo la morte di Osama, il cui carisma è sempre stato un potente collante tra le varie cellule ed anime del gruppo terroristico.

Secondo i vertici dell'intelligence americana attualmente al Qaeda non ha né gli uomini, né i mezzi, ne' le risorse finanziare per sferrare un attacco su larga scala contro gli Stati Uniti e anche il rischio di attentati con armi chimiche o batteriologiche nel prossimo anno appare improbabile; i pericoli attualmente vengono dai cosiddetti 'lupi solitari', o da piccole cellule di jihadisti in contatto con le regioni dove al momento al Qaeda è più forte, in particolare lo Yemen.

Come accennato, le modalità del ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan saranno uno dei temi al centro del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri della NATO in calendario il 20-21 maggio 2012 Chicago. In preparazione a tale evento si è svolto a Bruxelles il 18 aprile un summit dei ministri degli Affari esteri dell’Alleanza atlantica incentrato sulla strategia e sui costi per un riuscito e corretto ritiro delle truppe occidentali dal paese asiatico, vale a dire sulle condizioni in cui sarà organizzata la cosiddetta transizione che porterà al ritiro dei 130mila soldati stranieri ancora presenti sul territorio afgano.

Taluni analisti ritengono che proprio al summit di Chicago potrebbe essere presentata la posizione ufficiale Usa su un’accelerazione del ritiro, ipotesialla quale, come sottolineato da alcuni osservatori, sarebbe favorevole il Presidente Usa. Secondo tale lettura, il presidente statunitense si presenterà al vertice nella sua città, Chicago, in una posizione più forte sia grazie ai dati di una exit strategy che, come accennato, inizia a dare i suoi frutti in termini di depotenziamento delle capacità offensive e di controllo del territorio dello schieramento talebano, sia grazie alla scelta di procedere a un ritiro più rapido dei militari dal teatro; gli stessi osservatori, tuttavia, non omettono di rammentare che, in pubblico, Obama si dichiara favorevole ad un’uscita senza troppa fretta.

Quanto ai rapporti Washington-Islamabad, mai normalizzatisi dopo la crisi susseguente all’uccisione di Bin Laden in territorio pakistano senza preavviso alle autorità nazionali, se ne discute la partecipazione al vertice di Chicago. Va in proposito rammentato che il Pakistan non aveva partecipato alla Conferenza di Bonn del dicembre 2011 dove è stata fissata la scadenza del 2014 per il ritiro quasi totale delle truppe dal territorio afgano, per protesta contro il raid NATO a Salala (26 novembre 2011) che aveva provocato la morte di 24 soldati pakistani.

Nonostante il recente (27 aprile) riavvio del dialogo trilaterale Usa- Afghanistan-Pakistan, che si era interrotto dopo il raid di novembre, e che è finalizzato ad esaminare la possibilità di un safe passage, ossia una sorta di lasciapassare per i talebani afgani che intendano partecipare a futuri negoziati di pace, Usa e Pakistan non paiono aver ancora trovato soluzione alla profonda crisi dei rapporti bilaterali e l’inviato americano per il dossier Af-Pak, Marc Grossman, non è riuscito a tutt’oggi a sbloccare lo stallo.

Secondo la stampa pakistana, in un recentissimo (28 aprile) incontro bilaterale Islamabad ha subordinato a scuse ufficiali di Washington per il raid di novembre la ripresa delle relazioni bilaterali, mentre gli Usa hanno insistito per la riapertura del flusso di rifornimenti per le truppe Nato in Afghanistan, bloccati come misura di ritorsione, subordinando alla riapertura delle frontiere ai convogli dell'Alleanza la partecipazione del Pakistan al summit Nato sull'Afghanistan.

 


Il Vertice dell’Alleanza atlantica di Chicago del 20 e 21 maggio prossimi

Il 20 e 21 maggio 2012 si terrà a Chicago XXV Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri della NATO.

Il vertice sarà principalmente incentrato su tre temi principali: 1) l'impegno dell'Alleanza in Afghanistan, 2) la capacità della NATO di difendere gli Stati membri di fronte alle sfide del XXI secolo; 3) il rafforzamento delle relazioni dell’Alleanza con i Paesi partner.

 Il vertice dovrà quindi consolidare le decisioni e gli indirizzi già assunti durante il vertice di Lisbona nel novembre 2010.

Il 18 e 19 aprile si sono perciò riuniti a Bruxelles i ministri degli esteri e della difesa della Nato per concordare le condizioni di uscita dall'Afghanistan e per preparare il vertice di Chicago.

Durante la riunione, i ministri hanno annunciato che il vertice di Chicago darà l’avvio alla prima struttura provvisoria del nuovo scudo anti-missilistico in Europa: nonostante le proteste di Mosca, che lo considera un atto ostile.

Dando conto delle decisioni assunte dai ministri, il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen ha sostenuto che “a soli 16 mesi dalla decisione storica presa a Lisbona di sviluppare una struttura in grado di proteggere le popolazioni, i territori e le forze Nato dalla minaccia missilistica, a Chicago la nostra ambizione è di dichiarare una capacità preliminare di difesa antimissilistica''.

''Oggi, abbiamo chiarito che siamo tutti determinati affinché ciò avvenga” ha aggiunto, precisando che “sarà un primo passo, ma molto concreto” e che la NATO “calcola che siano almeno una trentina i paesi da cui potrebbero partire missili ostili”, ma l'Alleanza non vuole fare nomi e chiarisce che lo scudo non è diretto contro un Paese in particolare, ma contro una reale minaccia missilistica.

Commentando l’annuncio dell’India di nuovi test per missili balistici intercontinentali, Rasmussen ha precisato che l'India non è considerata una minaccia per gli alleati NATO o per i territori dei suoi paesi.

La struttura di comando dello scudo antimissile (un “ombrello” grande quanto basta per difendere non solo le truppe, ma anche le popolazioni e il territorio dei 28 Stati alleati, sarà ospitato dal centro di controllo aereo Nato di Ramstein (Germania).

Polonia, Romania, Spagna, Olanda, Francia e Turchia hanno già dichiarato che parteciperanno con mezzi e strutture.

Il progetto prevede di estendere all'Europa l'Aegis Ballistic Missile Defense System (Aegis Bmd), il sistema difensivo antimissile già sviluppato negli Stati Uniti nell'ambito dello ''scudo stellare'' pianificato dall'amministrazione Reagan negli anni Ottanta. I costi per la messa in rete dei sistemi esistenti sono stimati relativamente ridotti: 200 milioni di euro in dieci anni, divisi tra i 28 Stati alleati.

L'ambizione della Nato è quella di fare dialogare questo sistema con quello sviluppato dalla Russia. Un'ambizione finora frustrata: dopo l'accordo storico di Lisbona, le relazioni con Mosca si sono infatti via via raffreddate, anche a causa dell’irrigidimento russo durante la campagna elettorale per le ultime presidenziali.

Contrariamente a quanto auspicato, è altamente improbabile che il presidente russo Vladimir Putin si rechi a Chicago, a sole due settimane dal suo insediamento al Cremlino, previsto il 7 maggio.

A questo proposito Rasmussen ha precisato che il fatto che non si tenga il summit NATO-Russia a Chicago non pregiudica affatto le relazioni tra l’Allenza atlantica e Mosca -  “che non dipendono da un incontro” - garantendo che comunque avrà presto un incontro bilaterale con il presidente russo Putin.

Il 3 maggio, a tre giorni dal ritorno di Vladimir Putin al Cremlino, durante la conferenza internazionale sulla difesa missilistica che si è svolta a Mosca con rappresentanti di 50 paesi (compresi Nato ed ex URSS), i russi hanno alzato il livello della polemica, col ministro della Difesa Anatoli Serdiukov, che ha minacciato ritorsioni e persino un possibile "attacco preventivo" alle installazioni missilistiche Ue, se gli Alleati non terranno conto delle preoccupazioni russe.

A irritare Mosca è soprattutto l'insistenza di Washington nel voler completare le quattro fasi del sistema entro il 2021; l'annuncio del raggiungimento della prima fase e' previsto proprio al vertice Nato di Chicago il prossimo 20 maggio.

Il Segretario generale della NATO ha rassicurato i russi, invitandoli a cooperare con la NATO sul sistema di difesa missilistico e dichiarandosi convinto della coincidenza di interessi e di preoccupazioni comuni per eventuali attacchi missilistici. Il sistema di difesa missilistico è – secondo Rasmussen - tecnicamente impossibilitato a costituire una minaccia per la Russia. Queste informazioni sono state messe a disposizione. La NATO non ha alcuna intenzione di aggredire la Russia - ha aggiunto – ricordando che già 15 anni fa Nato e Russia hanno sottoscritto il primo documento di cooperazione in cui è espresso e riconosciuto da entrambe le parti che non si ricorrerà reciprocamente alla violenza, compreso l’uso dei missili.

Gli argomenti russi sono poco convincenti anche secondo il vice segretario Nato Alexander Vershbow, che ha ribadito che il sistema è mirato unicamente a difendere gli alleati europei da minacce provenienti da Iran e Nord Corea, e che sarebbe troppo debole per intercettare i missili russi.

 

Il vertice di Chicago dovrà affrontare i problemi relativi al ritiro dall’Afghanistan previsto nel 2014 e della preparazione della transizione che gradualmente restituirà la responsabilità del Paese alle forze nazionali. La NATO è impegnata a sostenere l'Afghanistan oltre il 2014, quando la transizione graduale della responsabilità per la sicurezza del paese dalle truppe ISAF alle forze afghane saranno pienamente attuate.

Nel corso dell’incontro di Bruxelles, i ministri degli esteri e della difesa hanno convenuto che dopo il 2014 la NATO non svolgerà un “ruolo combattente” in Afghanistan, ma resterà per addestrare soldati afghani. Le modalità della missione Nato post-2014 e le dimensioni delle forze afghane da reclutare e addestrare sono ancora da decidere: le due questioni saranno al centro del Vertice Nato di Chicago

Reclutare e formare un esercito e un corpo di polizia afghani in grado di garantire da soli la sicurezza dell'Afghanistan dopo il 2014 potrebbe costare, secondo il segretario generale della Nato, circa 4 miliardi di dollari Usa l'anno, anche se la cifra potrà essere confermata ufficialmente soltanto al summit di Chicago, quando l’Alleanza valuterà il quadro complessivo delle dimensioni delle forze afghane e quindi dei costi necessari.

Rasmussen ha precisato che la cifra di 4 miliardi di dollari è però una “una buona base per la pianificazione” e che “gli alleati NATO e i partner ISAF si impegneranno per far fronte ad una giusta parte di questa fattura, anche se è prematuro presentare cifre concrete”.

La Nato ha comunque confermato la disponibilità dei suoi membri a finanziare l'esercito e la polizia afghani, perchè l’esistenza di forze afghane in grado di fare fronte da sole alla sfida della sicurezza del proprio paese è nell'interesse di tutta la comunità internazionale e, anche dal punto di vista economico è molto meno costoso che dispiegare truppe internazionali in Afghanistan.

Sempre secondo Rasmussen, la reazione “competente e professionale” dell'esercito e della polizia afghani all'offensiva di primavera dei talebani contro luoghi simbolo a Kabul e in quattro province, fa dire all'Alleanza che le forze afghane possono ormai fare fronte alle sfide della sicurezza”.

Secondo calcoli dell'Alleanza, nel corso del 2011 gli attacchi dei talebani sono calati del 10% rispetto al 2010. In alcune province, come Helmand, la diminuzione e' stata ancora più marcata.

Durante una visita lampo a Kabul, il 2 maggio, nel primo anniversario dell’uccisione di Osama Bin Laden, il Presidente USA Barak Obama ha sottoscritto con il Presidente afghano Karzai un accordo di partnership strategica a lungo termine con l'Afghanistan. Il documento prevede la continuazione del sostegno americano all'Afghanistan nell'addestramento delle truppe, nella ricostruzione e nello sviluppo di istituzioni democratiche, ma non contiene però in concreto l'impegno finanziario che gli Usa intendono assumersi, che dovrà essere indicato ogni anno ed approvato dal Congresso.

Nell’ambito degli incontri europei di Rasmussen, è da segnalare l’annuncio della cancelliera tedesca Angela Merkel - il 4 maggio dopo l’incontro con il segretario generale della NATO – di un prossimo vertice afghano-tedesco, con il presidente afghano Hamid Karzai, a Berlino, prima del Vertice di Chicago, per discutere delle prospettive dell’Afghanistan dopo il ritiro della NATO. La cancelliera ha sottolineato che “siamo andati in Afghanistan insieme e vogliamo anche lasciare l'Afghanistan insieme”, ribadendo che quel Paese può continuare a contare sugli aiuti internazionali anche dopo il ritiro militare del 2014.

A proposito dell’Afghanistan il ministro degli esteri ha Giulio Terzi assicurato che il contributo dell'Italia in Afghanistan dopo il 2014 non è ancora stato definito, ma che sarà indicato comunque entro la scadenza di Chicago.

Durante l’incontro del 27 aprile con il segretario generale della NATO Rasmussen, il Presidente del Consiglio Monti ha sostenuto che l’Italia resterà in Afghanistan anche dopo il 2014 per proseguire la sua azione a sostegno del popolo afghano e garantirà il suo impegno non solo finanziario ma anche in termini di uomini sul campo, per continuare, addestrando le forze afghane, ad assicurare la stabilità e la sicurezza del Paese. Monti ha ricordato che le garanzie italiane fanno fanno parte dell'accordo di partenariato siglato il 26 gennaio scorso proprio a Palazzo Chigi con il presidente afghano Hamid Karzai.

Circa il programma di scudo missilistico infine, il ministro della difesa italiano Di Paola, al termine del suo faccia a faccia con il capo del Pentagono Leon Panetta, il 30 aprile, ha ribadito che il programma di difesa Nato non deve essere un argomento di divisione con la Russia, ma una opportunità di cooperazione.

 


La politica estera americana in Medio Oriente

Gli Stati Uniti di fronte alla Primavera araba

Un'evidente attenzione americana agli eventi in corso di svolgimento nell'Africa settentrionale all'inizio del 2011 si è avuta solo quando la crisi in Egitto del regime di Mubarak ha posto in crisi quello che storicamente era stato il pilastro statunitense nella regione, corrispettivamente al ruolo centrale per gli Stati Uniti esercitato da Israele -la firma del Trattato di pace di Camp David del 1979 tra Il Cairo e Tel Aviv aveva coronato appunto gli sforzi statunitensi per una stabilizzazione del conflitto arabo-israeliano e dell'intera regione mediorientale.

Nello specifico caso della crisi egiziana occorre notare come la diplomazia statunitense, pur con oscillazioni comprensibili nell'assoluta novità dello scenario, abbia saputo gestire in modo accorto e duttile il proprio rilevante ruolo. Già dalle notizie dei primi atti repressivi del regime contro i dimostranti, a Washington si faceva notare come la risposta avrebbe invece dovuto essere guidata da uno spirito democratico e disponibile all'attuazione di riforme immediate e concrete, per le quali il regime di Mubarak evidentemente non si era fino a quel momento abbastanza adoperato.

Pur con una certa cautela, avveniva poi lo sganciamento degli USA da Mubarak - nonostante le preoccupate osservazioni israeliane sulla necessità di continuare a far riferimento al rais egiziano -, che non significava tuttavia far proprie le istanze dell'opposizione tout court, quanto piuttosto prevedere uno scenario di transizione che poteva essere assicurato soltanto dal permanere al vertice di essenziali elementi del passato regime, come il vice presidente e capo dei servizi segreti Suleiman, e dai vertici delle forze armate.

Le prese di posizione statunitensi apparivano costantemente ispirate al principio dell'affermazione di maggiori livelli di democrazia e di tutela dei diritti umani, in questo del tutto coerenti con il discorso che il Presidente Obama aveva tenuto al Cairo due anni prima, indicando nuove vie per la gioventù dei paesi arabi e più in generale islamici.

La gravità della situazione e la consapevolezza USA di essa veniva testimoniata proprio alla fine di gennaio 2011 dalla riunione a Washington di ben 260 diplomatici americani provenienti da tutto il mondo, per una consultazione sulla difficile situazione mediorientale. Nel frattempo si facevano più esplicite le pressioni del Presidente Obama su Mubarak affinché non si ricandidasse alla guida dell'Egitto, e a questo scopo veniva inviato al Cairo un emissario diretto del Presidente - che peraltro veniva più tardi sconfessato per una posizione ancora troppo vicina all'entourage politico di Mubarak.

Nel mese di febbraio, che avrebbe visto il giorno 11 la fine ufficiale del regime di Mubarak, le pressioni americane acceleravano, con una richiesta esplicita di avvio della transizione ed il rifiuto di ogni violenza organizzata dal governo contro i manifestanti, quand'anche nella forma di contromanifestazioni lealiste. L'elemento che consentiva all'Amministrazione statunitense di uscire dalle parziali ambiguità dei giorni precedenti era il ruolo progressivamente assunto dalle forze armate egiziane, nel loro rifiuto di abbandonarsi a massicce repressioni delle manifestazioni, proprio quali garanti di quella transizione che nella prima fase della crisi gli americani avrebbero volentieri affidato a elementi comunque collegati a Mubarak.

L'uscita di scena del rais poteva dunque alla fine essere presentata dagli Stati Uniti come una vittoria di quella non violenza auspicata sin dall'inizio dal Presidente Obama, e resa possibile dal ruolo delle forze armate, che beninteso erano state anch’esse un pilastro del regime di Mubarak, ma si mostravano ora capaci di recepire le istanze popolari assai più della ristretta élite che aveva retto l'Egitto per trent'anni assieme al rais.

Il legame degli Stati Uniti con l’establishment che provvisoriamente guida la transizione egiziana è stato confermato anche in occasione della vicenda dei cittadini americani operanti in alcune organizzazioni non governative USA in Egitto, che erano stati accusati di aver violato alcune disposizioni di legge: dopo alcune settimane di apprensioni, essi hanno potuto lasciare l'Egitto, chiudendo un momento di tensione nelle relazioni bilaterali, ma scatenando all'interno dell'Egitto stesso veementi polemiche sul peso dell'ingerenza che tuttora gli Stati Uniti eserciterebbero sul paese.

La vera incognita che sta di fronte agli Stati Uniti, ma più in generale all'Occidente, è tuttavia quella della direzione politica che l'Egitto prenderà a partire dal prossimo mese di giugno, quando si saranno concluse in ogni caso le elezioni presidenziali e i militari dovrebbero definitivamente passare ai civili la gestione del potere, in un contesto politico che vede la prevalenza in parlamento, e in misura nettissima, delle correnti politiche di ispirazione islamica, alcune delle quali ispirate al fondamentalismo.

Gli Stati Uniti e l'intera Comunità internazionale si sono poi trovati ben presto a fronteggiare un'altra crisi nordafricana, per molti versi inattesa, quella del regime libico di Gheddafi. La valenza di questo conflitto, certamente caratterizzato da una maggiore incidenza di rivendicazioni regionalistiche rispetto alle rivoluzioni egiziana e tunisina, è stata ben presto stravolta nella considerazione internazionale dall'atteggiamento di minaccia del regime verso gli oppositori, che fatalmente ha ricondotto anche la vicenda libica nella schema tunisino ed egiziano, segnando un gravissimo errore di Gheddafi, che ha costretto in primis proprio gli Stati Uniti ad adottare un atteggiamento analogo a quello riservato all'Egitto.

Pertanto sin dal dispiegarsi delle prime violenze, l'Amministrazione americana ne ha richiesto con urgenza la cessazione e le ha duramente condannate, esprimendosi anche per la Libia a favore di una prospettiva democratica difficilmente compatibile con la permanenza del regime di Gheddafi. L'accelerazione della situazione ha indotto poi gli Stati Uniti a esaminare con urgenza possibili sanzioni contro la Libia, mentre organizzavano una prima evacuazione dei propri connazionali dal paese. Inoltre gli USA tentavano di influire sulla situazione non escludendo alcuna opzione nei confronti di Gheddafi, verso il quale già verso la fine di febbraio 2011 l'orientamento del presidente Obama era quello di esortarlo a lasciare il potere per il bene della Libia.

A seguire, gli Stati Uniti moltiplicavano in modo esponenziale le pressioni sul regime libico, ventilando l'opportunità di istituire sui cieli libici una no fly zone, prospettando l'ipotesi di un esilio per rendere più agevole al rais libico l'abbandono del potere, stabilendo i primi contatti con i ribelli di Bengasi, operando una prima ridislocazione delle proprie forze aeronavali nel teatro del Mediterraneo centrale e procedendo al congelamento negli Stati Uniti di circa 30 miliardi di dollari di attività finanziarie riconducibili in qualche modo a Gheddafi o al suo entourage.

L'atteggiamento americano verso la Libia si rivelava ulteriormente quando il segretario di Stato Hillary Clinton ventilava addirittura l'ipotesi di riaprire l'inchiesta sul caso Lockerbie per inchiodare Gheddafi alle sue responsabilità negli anni in cui attivamente sosteneva il terrorismo internazionale e probabilmente ne organizzava alcuni rami. Soltanto su una particolare questione gli Stati Uniti si sono mostrati costantemente assai prudenti, ovvero l'ipotesi di armare i ribelli, nella consapevolezza che nel composito fronte di Gheddafi potevano esserci o avrebbero potuto in breve trovare posto anche frange islamiche radicali potenzialmente in contatto con Al-Qaeda.

Non va infatti dimenticato che pure in forme parzialmente diverse l’Amministrazione Obama si è trovata a dover proseguire nella guerra globale contro il terrorismo - nel maggio 2011 si sarebbe raggiunto il risultato invero eclatante dell'uccisione di Osama Bin Laden - e la preoccupazione per ogni possibile rafforzamento della rete terroristica internazionale ha caratterizzato in modo specifico l'azione diplomatica statunitense nei confronti delle Primavera araba.

Alla metà di marzo 2011 gli USA sospendevano le relazioni diplomatiche con l'ambasciata libica a Washington e recavano i primi soccorsi umanitari ai ribelli della regione orientale del paese, nei confronti dei quali intanto si stava profilando la possibilità di un massacro su vasta scala, poiché le forze libiche lealiste avevano riguadagnato quasi completamente il terreno perso nelle prime settimane della ribellione. Di fronte alla iattura di una possibile nuova Srebrenica il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvava una risoluzione che consentiva un intervento a protezione dei civili sul territorio libico, senza l'impiego di truppe di terra, e il 19 marzo scattava l'operazione militare, nella prima fase nella quale gli USA partecipavano con lanci di missili e bombardamenti.

Tuttavia emergeva un tratto effettivamente nuovo nella leadership americana, poiché Washington non rivendicava esplicitamente la guida della coalizione internazionale incaricata di eseguire quanto disposto dalla risoluzione delle Nazioni Unite, dando l'impressione di limitarsi a fornire il proprio elevato contributo militare in una posizione defilata. In realtà, anche per l'emergere sollecito all'interno degli Stati Uniti di pesanti obiezioni alla conduzione della vicenda dell'intervento in Libia, il Presidente Obama cercava di sganciarsi rapidamente da un coinvolgimento troppo evidente, e riusciva nel suo intento - nel mentre con forza rivendicava comunque la necessità dell'intervento per evitare una catastrofe umanitaria - quando otteneva dai propri alleati l'impegno a trasferire al comando della NATO la direzione delle operazioni aeronavali contro il regime di Gheddafi.

Ciò consentiva al Presidente di rivendicare con interventi televisivi tanto la limitatezza dell'impegno in Libia in paragone all’enorme dispendio che aveva rappresentato ad esempio l’intervento in Iraq, quanto la prosecuzione dell'efficacia dell'intervento sotto il comando dell'Alleanza atlantica.

Il Presidente statunitense avrebbe autorizzato alcune operazioni segrete della CIA in territorio libico che tuttavia si affiancavano ad un disimpegno strategico, segnato dal ritiro dei bombardieri e degli apparati lanciamissili USA dallo scenario libico, sul quale venivano fatti affluire alcuni droni (ricognitori e piccoli bombardieri senza pilota). Va però ricordato che la vicenda militare libica conosceva dopo di ciò un lungo periodo di sostanziale stallo, con l'intervento internazionale che non riusciva a determinare una decisiva rotta delle forze lealiste, le quali, anche per l'evidente disorganizzazione ed impreparazione degli insorti, riusciva anzi in alcuni casi a riguadagnare del terreno.

Nel mese di giugno, poi, l'amministrazione USA doveva fronteggiare una veemente opposizione parlamentare, incentrata sulla presunta violazione da parte del Presidente Obama di una normativa del 1973, peraltro piuttosto controversa, che prevede un forte coinvolgimento del Congresso nel caso dell'apertura di un fronte di guerra. A tali accuse l’Amministrazione replicava facendo notare la limitatezza dell'impegno in Libia, e comunque il fatto che il Congresso, in una serie di audizioni che avevano preceduto l'intervento, era stato ampiamente informato sulle intenzioni del governo americano. La vicenda si concludeva nel nulla, con la Camera dei rappresentanti che respingeva due progetti di risoluzione contrastanti, esprimendosi al tempo stesso pro e contro l'Amministrazione.

In luglio gli Stati Uniti e gli altri paesi del Gruppo di contatto sulla Libia procedevano all'esplicito riconoscimento della legittimità del Consiglio nazionale di transizione quale governo legittimo della Libia, in agosto finalmente lo stallo militare sul terreno si rompeva e le forze del regime, logorate dagli incessanti bombardamenti aerei della coalizione internazionale, cedevano allo slancio degli insorti, che riuscivano ad entrare a Tripoli, senza peraltro nell'immediato di catturare Gheddafi.

Si apriva comunque il capitolo del futuro scenario politico della Libia, anche se gravido di incognite, e suscettibile di destare le preoccupazioni americane non solo per le frange collaterali al terrorismo islamico ravvisabili in alcune frange dello schieramento anti-Gheddafi, ma anche per il destino delle armi chimiche sicuramente presenti in passato in grande quantità in Libia, e che dopo la svolta del 2004 il regime di Gheddafi aveva cominciato a distruggere, venendone paradossalmente interrotto proprio dalla sollevazione appoggiata dagli Stati Uniti.

Necessariamente più prudente è stato l'approccio della diplomazia USA, come di tutta la Comunità internazionale, nei confronti della tragica situazione siriana, le cui caratteristiche geopolitiche rendono tuttora problematica l'individuazione di una via d'uscita. Le prime sanzioni statunitensi, consistenti nel congelamento dei beni del presidente Assad e di sei suoi collaboratori di alto livello sono state infatti adottate solo dopo la metà di maggio del 2011, mentre l’esortazione ad Assad per l'abbandono del potere è intervenuta da parte americana alla metà di luglio, dopo l'assalto di forze lealiste siriane alle ambasciate di USA e Francia.

Gli Stati Uniti hanno in seguito definito l'azione repressiva del regime siriano alla stregua di una guerra aperta contro il popolo - in analogia a quanto già dichiarato a suo tempo nei confronti della crisi libica -, tale da far perdere ogni legittimità al presidente e all’élite politica alawita che gli fa da contorno. Solo a metà settembre 2011, tuttavia, vi sono stati i primi allarmi ai cittadini statunitensi a lasciare il territorio siriano, allarmi che peraltro Washington ha dovuto a più riprese reiterare, segno evidente che non erano stati sufficientemente seguiti.

Lo scenario di una vera propria guerra civile in Siria, pur nell'assoluta preferenza americana per una soluzione non violenta della crisi, è stato evocato in novembre dal segretario di Stato Hillary Clinton, ma solo con l'inizio del 2012 si sono palesate pressioni statunitensi per un'azione delle Nazioni Unite nei confronti della crisi siriana. Proprio nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, tuttavia, gli Stati Uniti hanno toccato con mano la difficoltà di ogni azione efficace, quando il 4 febbraio il veto della Russia e della Cina ha bloccato un progetto di risoluzione che prevedeva tra l'altro l'abbandono del potere da parte di Assad, destando una forte riprovazione in ampia parte della Comunità internazionale. Cionondimeno, pur procedendo alla chiusura dell'ambasciata USA a Damasco, gli Stati Uniti hanno continuato a escludere qualsiasi ipotesi di intervento in Siria, nel mentre esprimevano scetticismo sulle prospettive russe di mediazione politica nei confronti di Assad.

L'intervento di Kofi Annan quale inviato speciale dell'ONU e della Lega araba e il piano da questi formulato hanno inizialmente riscosso alla fine di marzo anche l'approvazione dell’Amministrazione USA, che ben presto però ha dovuto constatare come il regime siriano abbia proseguito sporadicamente ma senza soluzione di continuità nella repressione, tanto che all'annuncio siriano del cessate il fuoco (11 aprile) gli Stati Uniti hanno palesato scetticismo, chiedendo al regime di Damasco di passare dalle parole ai fatti. Tra le mosse più recenti dell'Amministrazione americana figura una serie di sanzioni per colpire i fornitori alla Siria di tecnologie informatiche suscettibili di individuare gli oppositori con il controllo dei telefoni cellulari e della rete Internet; nonché la prospettiva di istituire anche con truppe americane zone di sicurezza al confine turco-siriano, ormai da molto tempo interessato dal passaggio di migliaia e migliaia di profughi, e in presenza di crescenti tensioni tra Ankara e Damasco.

Nei confronti di altri focolari di tensione nel Medio Oriente, come quelli dello Yemen e del Bahrein, l'azione americana si è mantenuta sullo sfondo, esortando alla moderazione e al dialogo tra le autorità rispettive e gli elementi dell'opposizione: in questi casi, l'iniziativa è stata assunta dalle monarchie del Golfo alleate degli Stati Uniti, in primis l'Arabia Saudita, ma mentre nello Yemen la loro mediazione sembra aver raggiunto il risultato dell'avvicendamento al potere del presidente Saleh, nel Bahrein - come dimostrano le recenti manifestazioni in concomitanza del Gran Premio di Formula Uno, l'intervento delle truppe saudite e degli emirati del 2011 non sembra aver sopito le istanze di cambiamento avanzate dalla maggioranza sciita sostanzialmente esclusa dal potere.

Tornando poi alla situazione dello Yemen, non va dimenticato che questo è uno dei paesi individuati come cruciali dagli americani per la lotta contro al-Qaeda, e infatti anche recenti episodi hanno visto il pesante intervento di aerei USA senza pilota, con la morte di decine di appartenenti all'organizzazione terroristica, particolarmente radicata nel sud del paese.

Quanto all’atteggiamento statunitense nei confronti dell’intera regione mediorientale e nordafricana va ricordato l’importante discorso del 19 maggio 2011 al Dipartimento di Stato, nel quale il futuro è stato affidato ai popoli, sottolineando che gli Stati Uniti sosterranno le riforme nella regione e le transizioni verso la democrazia senza cercare cambi di regime dall'esterno. Obama ha sottolineato come in troppi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa il potere sia concentrato nelle mani di pochi, ma anche che gli eventi dimostrano come le strategie di repressione non bastino piu' a trattenere le spinte al cambiamento, veicolate potentemente anche dai nuovi social media e ispirate dalla non violenza. Obama ha altresì annunciato una serie di aiuti economici per i paesi della regione avviati verso la democrazia, compreso un pacchetto di due miliardi di dollari a beneficio dell'Egitto.

 

Gli Stati Uniti e la questione iraniana

La posizione USA sulla questione della proliferazione nucleare iraniana chiama in causa in stretto parallelismo le mosse di Israele in riferimento alla medesima questione, che da Tel Aviv è però vista come minaccia immediata e potenzialmente letale. Nello stallo dei negoziati multilaterali con Teheran ripresi più volte senza risultati di rilievo dal Gruppo dei 5+1 (nel quale figurano Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia Cina e Germania), già dall’inizio di novembre 2011 il quotidiano israeliano Haaretz pubblicava alcuni articoli secondo i quali il primo ministro Netanyahu stava cercando di convincere i principali esponenti del suo governo dell’inevitabilità di un attacco contro l’Iran: tale mossa sarebbe stata tuttavia prevalentemente destinata a costringere gli Stati Uniti a prendere una posizione contro l’Iran (specialmente dopo la scoperta, il mese precedente, della preparazione di attentati contro gli ambasciatori saudita e israeliano negli USA) e a favore di Israele, sottraendo quest’ultimo all’isolamento nel quale è stato costretto – anche dalla Primavera Araba, che il presidente statunitense Obama ha sostenuto – negli ultimi mesi.

L’8 novembre l’Agenzia internazionale per l’energia nucleare (AIEA) rendeva noto un rapporto dal quale per la prima volta emergeva con grande chiarezza il carattere militare di alcune attività nucleari della Repubblica islamica, che sembrano finalizzate alla costruzione di ordigni nucleari. Il rapporto ha innescato un’accelerazione nel dibattito internazionale sulle strategie nei confronti di Teheran, con voci insistenti di un probabile imminente attacco israeliano contro i siti nucleari iraniani, alimentate e poi smentite come di consueto dallo stesso governo di Tel Aviv.

Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno manifestato cautela, nell’attesa di rendere effettive ulteriori forme di pressione sull’Iran, che dal canto suo ha reagito con la consueta fermezza ad ogni ipotesi di attacco militare, minacciando gravi ed estreme ritorsioni. Alla fine di novembre, comunque, gli USA hanno annunciato un nuovo livello di sanzioni economiche contro il programma iraniano di proliferazione atomica, con le quali si è inteso investire con forza tanto il mercato finanziarioe bancario, quanto quello del gas e del petrolio. Dopo pochi giorni l’iniziativa americana di stabilire un ponte telematico nei riguardi della popolazione iraniana con il lancio di una piattaforma web denominata ambasciata virtuale è stato immediatamente frustrato dalla censura informatica del regime di Teheran, che ha bloccato l’accesso al sito Internet appositamente predisposto.

L’inizio del 2012 ha visto la conclusione di dieci giorni di manovre della marina iraniana nel Golfo Persico: sullo sfondo rimaneva la minaccia iraniana della chiusura dello Stretto di Hormuz, che tuttavia rappresenterebbe un’accelerazione probabilmente fatale delle tensioni, e perciò va considerata un’altra arma nella panoplia propagandistica messa in campo dalle parti in conflitto. Così, nonostante il lancio di due missili a medio e corto raggio, le manovre hanno rappresentato soprattutto una dimostrazione di forza, in questo non dissimili dalle nuove sanzioni differite firmate il 31 dicembre dal Presidente USA Obama nei confronti di istituzioni finanziarie non americane che intrattengano rapporti con la Banca centrale di Teheran in relazione al petrolio iraniano.

Le tensioni con gli USA si sono mantenute alte non solo intorno alle manovre navali nel Golfo Persico, ma anche, dal 9 gennaio 2012, con la condanna a morte di un cittadino statunitense di origine iraniana, arrestato in dicembre con accuse di spionaggio per conto della CIA. L'11 gennaio vi è stata l'ennesima uccisione di uno scienziato iraniano legato alle attività nucleari, la quarta in due anni, per la quale Teheran ha lanciato nuovamente esplicite accuse ai servizi segreti israeliani, ma anche e soprattutto alla CIA, nonostante la secca condanna dell’attentato da parte del portavoce del Consiglio USA per la sicurezza nazionale.

L'11 gennaio le differenze di impostazione strategica tra Israele e Stati Uniti sulla questione del nucleare iraniano sono emerse chiaramente, quando il vicepremier di Tel Aviv Yaalo, pur in attesa della visita del capo di stato maggiore statunitense Dempsey, ha esplicitato la delusione di Israele verso l’atteggiamento dell'Amministrazione USA nei confronti delle sanzioni contro l'Iran, giungendo persino a far rilevare la netta differenza di atteggiamento tra il Senato di Washington e l'Amministrazione Obama, assai più prudente nei confronti dell'Iran per timore di un aumento generalizzato dei prezzi internazionali del petrolio e per considerazioni tipiche di un anno elettorale. Nelle stesse ore la radio militare israeliana annunciava non a caso lo slittamento delle grandi manovre militari congiunte tra Israele e Stati Uniti, precedentemente fissate per la prima metà del 2012.

La strategia americana si arricchiva alla fine di gennaio di un altro strumento di pressione, quando l’Amministrazione USA annunciava di progettare il potenziamento delle super bombe capaci di colpire in profondità bunker sotterranei quali quelli ove l’Iran nasconderebbe parte delle installazioni militari a fini nucleari.

Il 6 febbraio vi è stato da parte americana l’annuncio di un nuovo giro di vite sanzionatorio contro Teheran, con un ordine esecutivo del Presidente Obama in base al quale verrà d’ora in poi consentito alle banche americane anche di congelare beni riconducibili al governo iraniano, e non solo di respingere le transazioni con le banche iraniane. Le nuove misure sono volte a superare alcune pratiche messe in atto dal sistema bancario iraniano per occultare transazioni con entità coinvolte dalle sanzioni.

Le divergenze di opinione tra Israele e USA nei confronti dell’Iran sono state pienamente confermate nell’incontro tra Obama e Netanyahu alla Casa Bianca all’inizio di marzo , nel quale il premier israeliano ha rivendicato la propria libertà d’azione nella cruciale questione, laddove il Presidente USA ha continuato a privilegiare gli strumenti diplomatici e quelli sanzionatori.

Alla fine dello stesso mese, poi, il presidente Obama ha dato un sostanziale via libera all'applicazione delle misure autorizzate il 31 dicembre scorso, considerando che l'assetto attuale dei mercati petroliferi consente un'ulteriore riduzione delle importazioni di greggio dall'Iran senza particolari ripercussioni sui prezzi degli idrocarburi, che negli Stati Uniti sono comunque da qualche tempo oggetto di polemica per i forti rialzi degli ultimi tempi, polemica che potrebbe influire sulla campagna elettorale per le presidenziali iniziata già da qualche settimana.

 

Washington ed i negoziati israelo-palestinesi

Proprio nel pieno sviluppo della prima ondata della Primavera Araba il Presidente USA Obama si vedeva costretto il 18 febbraio 2011 a porre il primo veto della sua Amministrazione in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU, per bloccare un progetto di risoluzione approvato dai restanti 14 membri del Consiglio e contenente una forte condanna nei confronti di Israele per la prosecuzione della politica degli insediamenti a Gerusalemme est ein Cisgiordania.

Si è trattato di un momento particolarmente difficile per gli Stati Uniti, che già da tempo dissentono dall'atteggiamento del governo israeliano verso gli insediamenti, ma che si sono visti costretti, rifiutando le controparti lo strumento della semplice Dichiarazione presidenziale del Consiglio di sicurezza - che gli USA avrebbero senz'altro appoggiato - a bloccare lo strumento ben più impegnativo della risoluzione.

In un certo senso la vicenda costituisce un paradigma del difficile impegno USA nello stallo dei negoziati israelo-palestinesi: infatti solo due settimane dopo il presidente Obama tornava a ripetere all'alleato israeliano che una delle premesse della pace è costituita dall'accettazione di una divisione di Gerusalemme, che invece il governo israeliano considera improponibile: nello stesso tempo gli Stati Uniti non facevano mancare i finanzimanti per un aumento del numero delle batterie antimissile Iron Dome, particolarmente efficaci nel difendere il territorio israeliano dai continui lanci di razzi dalla Striscia di Gaza. Gli Usa esprimevano inoltre scetticismo, alla fine di aprile 2011, riguardo alle notizie di un riavvicinamento tra le fazioni palestinesi di Hamas e Fatah.

Nel discorso del 19 maggio 2011 al Dipartimento di Stato il Presidente USA, per quanto riguarda i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi, ha ammesso le grandi difficoltà, criticando nel contempo l’illusione palestinese di isolare Israele in sede ONU e l’apparente sordità israeliana alla necessità di andare oltre la situazione presente. 
Ribadendo totalmente l’impegno americano per la sicurezza di Israele, Obama ha sostenuto che i confini di Israele e Palestina dovrebbero essere basati sulle linee di demarcazione del 1967 – prima cioè della Guerra dei Sei Giorni -, con scambi di territori reciprocamente concordati. Peraltro, le proposte americane hanno destato al massimo perplessità nei palestinesi, mentre Netanyahu non ha nascosto il proprio grave disappunto, in particolare per il fatto che secondo Israele i confini del 1967 sarebbero ormai indifendibili. 
Nonostante successive precisazioni tecniche della Casa Bianca, la questione è rimasta sostanzialmente bloccata, anche perché l’attenzione degli Stati Uniti si è progressivamente spostata verso il tentativo palestinese di ottenere in settembre nella sede delle Nazioni Unite il riconoscimento di uno Stato unilateralmente proclamato nei confini precedenti la guerra dei Sei Giorni – dovendo tuttavia scontare anticipatamente l’eventuale veto USA nel Consiglio di sicurezza. Peraltro, l'offensiva diplomatica dell’ANP non si è limitata a presentare la richiesta di riconoscimento in seno alle Nazioni Unite, ma dopo rapidi negoziati ha ottenuto il 31 ottobre, da parte della Conferenza generale dell'UNESCO, l’ammissione della Palestina a far parte a pieno titolo dell'Organizzazione. A fronte di questi sviluppi favorevoli all'ANP, gli Stati Uniti hanno bloccato la loro contribuzione di 60 milioni di dollari, pari a oltre 1/5 del bilancio totale dell'UNESCO, mettendo in seria difficoltà l'Organizzazione.

In questo difficile contesto, una timida ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi a partire dal 4 gennaio 2012 ha presto segnato il passo, senza registrare alcun progresso nonostante l'attiva presenza dei rappresentanti del Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) e la mediazione della Giordania, divenuta assai più presente negli ultimi tempi nella questione palestinese.

 


Il Vertice dell’Alleanza atlantica di Chicago del 20 e 21 maggio 2012

Il 20 e 21 maggio 2012 si terrà a Chicago XXV Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri della NATO.

Il vertice sarà principalmente incentrato su tre temi principali: 1) l'impegno dell'Alleanza in Afghanistan, 2) la capacità della NATO di difendere gli Stati membri di fronte alle sfide del XXI secolo; 3) il rafforzamento delle relazioni dell’Alleanza con i Paesi partner.

 Il vertice dovrà quindi consolidare le decisioni e gli indirizzi già assunti durante il vertice di Lisbona nel novembre 2010.

Il 18 e 19 aprile si sono perciò riuniti a Bruxelles i ministri degli esteri e della difesa della Nato per concordare le condizioni di uscita dall'Afghanistan e per preparare il vertice di Chicago.

Durante la riunione, i ministri hanno annunciato che il vertice di Chicago darà l’avvio alla prima struttura provvisoria del nuovo scudo anti-missilistico in Europa: nonostante le proteste di Mosca, che lo considera un atto ostile.

Dando conto delle decisioni assunte dai ministri, il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen ha sostenuto che “a soli 16 mesi dalla decisione storica presa a Lisbona di sviluppare una struttura in grado di proteggere le popolazioni, i territori e le forze Nato dalla minaccia missilistica, a Chicago la nostra ambizione è di dichiarare una capacità preliminare di difesa antimissilistica''.

''Oggi, abbiamo chiarito che siamo tutti determinati affinché ciò avvenga” ha aggiunto, precisando che “sarà un primo passo, ma molto concreto” e che la NATO “calcola che siano almeno una trentina i paesi da cui potrebbero partire missili ostili”, ma l'Alleanza non vuole fare nomi e chiarisce che lo scudo non è diretto contro un Paese in particolare, ma contro una reale minaccia missilistica.

Commentando l’annuncio dell’India di nuovi test per missili balistici intercontinentali, Rasmussen ha precisato che l'India non è considerata una minaccia per gli alleati NATO o per i territori dei suoi paesi.

La struttura di comando dello scudo antimissile (un “ombrello” grande quanto basta per difendere non solo le truppe, ma anche le popolazioni e il territorio dei 28 Stati alleati, sarà ospitato dal centro di controllo aereo Nato di Ramstein (Germania).

Polonia, Romania, Spagna, Olanda, Francia e Turchia hanno già dichiarato che parteciperanno con mezzi e strutture.

Il progetto prevede di estendere all'Europa l'Aegis Ballistic Missile Defense System (Aegis Bmd), il sistema difensivo antimissile già sviluppato negli Stati Uniti nell'ambito dello ''scudo stellare'' pianificato dall'amministrazione Reagan negli anni Ottanta. I costi per la messa in rete dei sistemi esistenti sono stimati relativamente ridotti: 200 milioni di euro in dieci anni, divisi tra i 28 Stati alleati.

L'ambizione della Nato è quella di fare dialogare questo sistema con quello sviluppato dalla Russia. Un'ambizione finora frustrata: dopo l'accordo storico di Lisbona, le relazioni con Mosca si sono infatti via via raffreddate, anche a causa dell’irrigidimento russo durante la campagna elettorale per le ultime presidenziali.

Contrariamente a quanto auspicato, è altamente improbabile che il presidente russo Vladimir Putin si rechi a Chicago, a sole due settimane dal suo insediamento al Cremlino, previsto il 7 maggio.

A questo proposito Rasmussen ha precisato che il fatto che non si tenga il summit NATO-Russia a Chicago non pregiudica affatto le relazioni tra l’Allenza atlantica e Mosca -  “che non dipendono da un incontro” - garantendo che comunque avrà presto un incontro bilaterale con il presidente russo Putin.

Il 3 maggio, a tre giorni dal ritorno di Vladimir Putin al Cremlino, durante la conferenza internazionale sulla difesa missilistica che si è svolta a Mosca con rappresentanti di 50 paesi (compresi Nato ed ex Urss), i russi hanno alzato il livello della polemica, col ministro della Difesa Anatoli Serdiukov, che ha minacciato ritorsioni e persino un possibile "attacco preventivo" alle installazioni missilistiche Ue, se gli Alleati non terranno conto delle preoccupazioni russe.

A irritare Mosca è soprattutto l'insistenza di Washington nel voler completare le quattro fasi del sistema entro il 2021; l'annuncio del raggiungimento della prima fase e' previsto proprio al vertice Nato di Chicago il prossimo 20 maggio.

Il segretario generale della NATO ha rassicurato i russi, invitandoli a cooperare con la NATO sul sistema di difesa missilistico e dichiarandosi convinto della coincidenza di interessi e di preoccupazioni comuni per eventuali attacchi missilistici. Il sistema di difesa missilistico è – secondo Rasmussen - tecnicamente impossibilitato a costituire una minaccia per la Russia. Queste informazioni sono state messe a disposizione. La NATO non ha alcuna intenzione di aggredire la Russia - ha aggiunto – ricordando che già 15 anni fa Nato e Russia hanno sottoscritto il primo documento di cooperazione in cui è espresso e riconosciuto da entrambe le parti che non si ricorrerà reciprocamente alla violenza, compreso l’uso dei missili.

Gli argomenti russi sono poco convincenti anche secondo il vice segretario Nato Alexander Vershbow, che ha ribadito che il sistema è mirato unicamente a difendere gli alleati europei da minacce provenienti da Iran e Nord Corea, e che sarebbe troppo debole per intercettare i missili russi.

 

Il vertice di Chicago dovrà affrontare i problemi relativi al ritiro dall’Afghanistan previsto nel 2014 e della preparazione della transizione che gradualmente restituirà la responsabilità del Paese alle forze nazionali. La NATO è impegnata a sostenere l'Afghanistan oltre il 2014, quando la transizione graduale della responsabilità per la sicurezza del paese dalle truppe ISAF alle forze afghane saranno pienamente attuate.

Nel corso dell’incontro di Bruxelles, i ministri degli esteri e della difesa hanno convenuto che dopo il 2014 la NATO non svolgerà un “ruolo combattente” in Afghanistan, ma resterà per addestrare soldati afghani. Le modalità della missione Nato post-2014 e le dimensioni delle forze afghane da reclutare e addestrare sono ancora da decidere: le due questioni saranno al centro del Vertice Nato di Chicago

Reclutare e formare un esercito e un corpo di polizia afghani in grado di garantire da soli la sicurezza dell'Afghanistan dopo il 2014 potrebbe costare, secondo il segretario generale della Nato, circa 4 miliardi di dollari Usa l'anno, anche se la cifra potrà essere confermata ufficialmente soltanto al summit di Chicago, quando l’Alleanza valuterà il quadro complessivo delle dimensioni delle forze afghane e quindi dei costi necessari.

Rasmussen ha precisato che la cifra di 4 miliardi di dollari è però una “una buona base per la pianificazione” e che “gli alleati NATO e i partner ISAF si impegneranno per far fronte ad una giusta parte di questa fattura, anche se è prematuro presentare cifre concrete”.

La Nato ha comunque confermato la disponibilità dei suoi membri a finanziare l'esercito e la polizia afghani, perchè l’esistenza di forze afghane in grado di fare fronte da sole alla sfida della sicurezza del proprio paese è nell'interesse di tutta la comunità internazionale e, anche dal punto di vista economico è molto meno costoso che dispiegare truppe internazionali in Afghanistan.

Sempre secondo Rasmussen, la reazione “competente e professionale” dell'esercito e della polizia afghani all'offensiva di primavera dei talebani contro luoghi simbolo a Kabul e in quattro province, fa dire all'Alleanza che le forze afghane possono ormai fare fronte alle sfide della sicurezza”.

Secondo calcoli dell'Alleanza, nel corso del 2011 gli attacchi dei talebani sono calati del 10% rispetto al 2010. In alcune province, come Helmand, la diminuzione e' stata ancora più marcata.

Durante una visita lampo a Kabul, il 2 maggio, nel primo anniversario dell’uccisione di Osama Bin Laden, il Presidente USA Barak Obama ha sottoscritto con il Presidente afghano Karzai un accordo di partnership strategica a lungo termine con l'Afghanistan. Il documento prevede la continuazione del sostegno americano all'Afghanistan nell'addestramento delle truppe, nella ricostruzione e nello sviluppo di istituzioni democratiche, ma non contiene però in concreto l'impegno finanziario che gli Usa intendono assumersi, che dovrà essere indicato ogni anno ed approvato dal Congresso.

Nell’ambito degli incontri europei di Rasmussen, è da segnalare l’annuncio della cancelliera tedesca Angela Merkel - il 4 maggio dopo l’incontro con il segretario generale della NATO – di un prossimo vertice afghano-tedesco, con il presidente afghano Hamid Karzai, a Berlino, prima del Vertice di Chicago, per discutere delle prospettive dell’Afghanistan dopo il ritiro della NATO. La cancelliera ha sottolineato che “siamo andati in Afghanistan insieme e vogliamo anche lasciare l'Afghanistan insieme”, ribadendo che quel Paese può continuare a contare sugli aiuti internazionali anche dopo il ritiro militare del 2014.

A proposito di Afghanistan il ministro degli esteri ha Giulio Terzi assicurato che il contributo dell'Italia in Afghanistan dopo il 2014 non è ancora stato definito, ma che sarà indicato comunque entro la scadenza di Chicago.

Durante l’incontro del 27 aprile con il segretario generale della NATO Rasmussen, il Presidente del Consiglio Monti ha sotenuto che l’Italia resterà in Afghanistan anche dopo il 2014 per proseguire la sua azione a sostegno del popolo afghano e garantirà il suo impegno non solo finanziario ma anche in termini di uomini sul campo, per continuare, addestrando le forze afghane, ad assicurare la stabilità e la sicurezza del Paese. Monti ha ricordato che le garanzie italiane fanno fanno parte dell'accordo di partenariato siglato il 26 gennaio scorso proprio a Palazzo Chigi con il presidente afghano Hamid Karzai.

Circa il programma di scudo missilistico infine, il ministro della difesa italiano Di Paola, al termine del suo faccia a faccia con il capo del Pentagono Leon Panetta, il 30 aprile, ha ribadito che il programma di difesa Nato non deve essere un argomento di divisione con la Russia, ma una opportunità di cooperazione.


 

L’assetto della Banca mondiale

Il Gruppo della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo – meglio noto come Banca mondiale - rappresenta uno dei maggiori organismi internazionali preposti all’assistenza allo sviluppo e ha sede a Washington. La Banca mondiale conta attualmente 188 Paesi membri[8], rappresentati nel Consiglio dei Governatori e nel Consiglio dei Direttori. Opera nei settori dell’istruzione, della sanità, della nutrizione, della popolazione e della protezione sociale, per migliorare le vite delle persone che abitano nei Paesi in via di sviluppo.

La Banca mondiale concede prestiti per finanziare investimenti e promuovere la crescita economica mediante progetti infrastrutturali quali strade, scuole, ospedali e reti di irrigazione; e tramite attività quali l’addestramento degli insegnanti e i programmi per il miglioramento dell’alimentazione dei bambini e delle gestanti. I suoi prestiti possono anche finanziare dei cambiamenti nella struttura delle economie di queste nazioni per renderle più stabili, efficienti e orientate al mercato.

Con la sua azione la Banca mondiale mette a disposizione dei Paesi membri gli strumenti per la ricerca di una crescita economica e sociale stabile e sostenibile. Il suo programma verso i Paesi più poveri prevede:

-        investimenti sulle risorse umane, con particolare riguardo verso programmi di tutela sanitaria e incentivazione dell'istruzione;

-        protezione dell’ambiente;

-        stimolo e sostegno per lo sviluppo del settore privato;

-        rafforzamento delle strutture istituzionali per migliorare la qualità, la trasparenza e l'efficienza dei servizi;

-        programmi di riforma economica diretti ad una stabilizzazione del sistema in grado di attirare investimenti esterni e permettere piani di azione a lungo termine.

Negli ultimi anni la Banca mondiale ha continuato a rafforzare il focus sui Millennium Development Goals, ponendo il loro raggiungimento al centro del suo mandato.

Il Gruppo è composto di un nucleo centrale (IBDR e IDA) e di tre Agenzie affiliate (IFC, MIGA e ICSID).

 

La Banca Internazionale per la ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD) fu creata nel 1944 insieme al Fondo Monetario internazionale. Il suo principale mandato è quello della riduzione della povertà in paesi a reddito medio o in quei paesi poveri che hanno accesso ai mercati di capitali, attraverso prestiti, garanzie e servizi di consulenza.

La Relazione sull’attività di Banche e Fondi di sviluppo a carattere multilaterale e sulla partecipazione finanziaria italiana alle risorse di detti organismi per l’anno 2010[9]informa che in quell’anno, la IBRD ha finanziato 164 nuove operazioni in 42 paesi, concedendo prestiti per un totale di 44,2 miliardi di dollari – superando dunque il precedente record di 32,9 miliardi erogati nel 2009. Oltre a questi finanziamenti, la IBRD fornisce aiuti attraverso i Trust Fund (tra i quali il Fondo Globale per l’ambiente e il Fondo Globale per la lotta contro AIDS, TBC e Malaria).

Il capitale IBRD sottoscritto dall’Italia, su un totale di 189,94 miliardi di dollari, è di 5,4 miliardi di dollari, pari al 2,85% dell’ammontare delle sottoscrizioni e al 2,78% del potere di voto. In seguito al processo di riforma volto ad accrescere la partecipazione (“Voice”) dei PVS nel Gruppo della Banca Mondiale, conclusosi nell’aprile 2010 con un aumento selettivo di capitale a loro favore che ne ha portato il peso in IBRD al 47,19 per cento, l’Italia vedrà una modesta diminuzione della propria quota, dal 2,85 al 2,64 per cento.

L’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA), istituita nel 1960,eroga crediti a tasso agevolato e rappresenta la maggior fonte di finanziamento per i paesi più poveri, quelli che non hanno una credibilità finanziaria sufficiente per accedere ai prestiti IBRD ed il cui reddito nazionale lordo pro-capite non supera i 1175 USD (anno fiscale 2012); L’IDA è una delle fonti più importanti di assistenza per gli 81 paesi più poveri (con una popolazione di 2,5 miliardi di persone), 39 dei quali sono in Africa, a cui presta denaro (credits) ad interessi bassissimi con un tempo di restituzione che va dai 25 ai 40 anni.

 Oltre che con prestiti e doni, l’IDA interviene nei paesi più poveri attraverso due iniziative: l’HIPC (Heavily Indebted Poor Countries) che prevede la riduzione del debito nei paesi più poveri e indebitati fino ad un livello sostenibile e la MDRI (Multilateral Debt Relief Initiative) che cancella totalmente il debito contratto con l’IDA e altri Fondi al raggiungimento del c.d. “completion point”.

 

La Società Finanziaria Internazionale (IFC) fu costituita nel 1956 con il mandato di promuovere lo sviluppo del settore privato nei PVS ed ha un capitale sottoscritto (al 30 giugno 2010) di 2,37 miliardi di dollari. Concede prestiti direttamente alle imprese private, agisce come investitore diretto nel capitale di rischio e catalizzatore di risorse, ed offre una vasta serie di servizi di consulenza alle imprese private e ai governi. Come riporta la summenzionata Relazione (v. nota 2) la quota sottoscritta dall’Italia rappresenta, con 81,34 milioni, il 3,43% del totale e il potere di voto del nostro paese è pari al 3,38%. L’IFC ha finanziato nel 2010 528 progetti in 103 paesi, per un ammontare complessivo di circa 12,7 miliardi di dollari impegnati e 5,3 mobilizzati.

 L’Agenzia multilaterale per la garanzia degli investimenti (MIGA), istituita nell'aprile del 1988, come l'IFC si occupa esclusivamente di promuovere lo sviluppo del settore privato e di incoraggiare l'investimento privato estero verso i PVS, assistendo sia gli investitori stranieri sia i governi interessati. L’Italia ha sottoscritto una quota di 53,78 milioni di dollari pari al 2,81% del capitale totale (1,912 miliardi di dollari nel 2010).

 Il Centro Internazionale per la Risoluzione delle controversie in materia di investimenti (ICSID) è il più importante foro internazionale per la risoluzione dei contenziosi tra investitori stranieri e stati ospiti.

 

I principali organi amministrativi della Banca mondiale sono il Consiglio dei Governatori, il Consiglio dei Direttori esecutivi e il Presidente della Banca Mondiale.

Il Consiglio dei Governatori è formato da un Governatore e da un Governatore supplente per ciascuno dei membri della Banca; dirige la politica della Banca, può apportare modifiche allo stock di capitale, sospendere o ammettere membri e approvare emendamenti allo Statuto.

Il Consiglio dei Direttori è formato dal Presidente del Gruppo e da 25 Direttori esecutivi. Il Presidente non ha diritto di voto salvo quando sia decisivo per risolvere il caso di un risultato di parità.  Cinque Direttori esecutivi rappresentano permanentemente i Paesi che dispongono del maggior numero di azioni della Banca: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Giappone e Germania. La Cina, la Russia e l’Arabia Saudita eleggono direttamente il proprio Direttore esecutivo. I restanti sono eletti dagli altri membri. La distribuzione del potere di voto subisce delle differenze nelle varie agenzie del Gruppo.

Il Presidente del Gruppo presiede il Consiglio dei Direttori ed è responsabile della gestione complessiva della Banca. Viene indicato dal Consiglio dei direttori e resta in carica per un mandato, rinnovabile, di cinque anni.

Il mandato dell'attuale Presidente, lo statunitense Robert B. Zoellick, in carica dal 1° luglio 2007, scadrà il 1° luglio 2012, a partire dal quale il mandato sarà assunto dal dott. Jim Yong Kim, cittadino statunitense di origini coreane.

Kim è dottore in medicina, con un curriculum di grande rilievo essendo giunto alla presidenza del Dartmouth College di Hanover (nel New Hampshire, una delle otto università appartenente alla c.d. Ivy League), dopo aver ricoperto importanti ruoli in prestigiose istituzioni quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Università di Harvard. Il dodicesimo presidente proviene dunque, per la prima volta nella storia della Banca Mondiale, non dal mondo politico o da quello della finanza, ma da una vasta esperienza scientifica, nella quale ha trovato posto anche un aspetto filantropico essendo uno dei creatori della Ong Partners in Health.

Con la scelta di Jim Yong Kim, di origine sudcoreana ma cittadino americano, la cui candidatura è stata fortemente voluta dal presidente Barack Obama, si è riconfermata la regola non scritta, secondo la quale la presidenza della Banca Mondiale spetta agli Stati Uniti, mentre quella del Fondo monetario ad un esponente europeo. Ma la decisione ha deluso le aspettative di molti paesi africani, le cui richieste di riforma dell’Istituzione divengono sempre più pressanti, e che sostenevano (insieme ai Brics, esclusa la Russia) la candidatura della nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala. Anche 35 tra economisti e manager membri della Banca Mondiale in una lettera aperta hanno sostenuto la candidatura di Okonjo-Iweala e l'importanza di un processo di selezione "trasparente e basato sul merito”.

Dopo il ritiro della candidatura dell'economista colombiano Josè Antonio Ocampo (13 aprile), il ministro delle finanze della Nigeria, Ngozi Okonjo-Iweala, a lungo dirigente della Banca (il Presidente Zoellick l’aveva nominata nel 2007 direttore gestionale), è stata la sola antagonista del candidato statunitense, alimentando, con il forte sostegno di Angola, Nigeria e Sudafrica (assegnataria di uno dei 25 Direttori Esecutivi) la speranza che il prossimo presidente potesse provenire da uno dei paesi del mondo in via di sviluppo. Ocampo, che aveva annunciato il suo sostegno a Okonjo-Iweal, aveva motivato il suo ritiro con il fatto che il processo di selezione era a suo giudizio “troppo politico” e poco basato sulla competenza dei candidati, una situazione inaffrontabile in assenza del sostegno del suo paese.

Le economie emergenti hanno posto con forza in questa occasione l’accento sul merito dei candidati, affinché facesse premio sulla consuetudine citata, e sulla necessità di un processo più trasparente, così come era stato promesso dalla Commissione Sviluppo della Banca Mondiale in occasione del G20 del 2010. Commentando la propria sconfitta, Ngozi Okonjo-Iweala ha affermato che continuerà a lavorare nel solco ormai tracciato, nella direzione della riforma di un sistema di selezione del presidente che lasci più spazio al merito e, più in generale, per colmare i deficit di democrazia nella governance globale. La contrapposizione tra le diverse posizioni emerse a proposito della scelta del nuovo presidente, in combinazione con la crescente influenza dei paesi emergenti, sembra quindi destinata a protrarre il dibattito sulla sempre più sentita necessità di nuove riforme interne che l’assegnazione di un terzo seggio due anni fa nel Consiglio dei direttori a un paese sub sahariano non aveva certo colmato.

I paesi in via di sviluppo hanno mostrato la propria insoddisfazione riguardo al fatto che i cambiamenti finora effettuati sono decisamente insufficienti e troppo lenti, e per la mancanza di influenza delle loro posizioni all’interno della Banca Mondiale e del Fondo Monetario. Tra di essi anche potenze economiche del calibro di Brasile, Russia, India e Cina, che chiedono tra l’altro un cambiamento del sistema di voto basato sul volume dei contributi: con questo sistema, ad esempio, nella IBRD gli Stati Uniti hanno un potere di voto pari al 16,16%, mentre l’India del 2,92%, pur avendo una popolazione di tre volte più numerosa. Per le modifiche costituzionali, inoltre, è necessario l’85% dei voti, con la conseguenza che gli Stati Uniti detengono un potere di veto.

Jim Yong Kim avrebbe vinto (la Banca Mondiale non fornisce dettagli sul voto finale) grazie al consenso degli Stati europei, del Giappone e della Russia. Ciononostante potrebbe non essere del tutto inviso ai paesi emergenti se, come molti suppongono, la sua figura sia stata scelta da Obama con la precisa intenzione di indicare un punto di svolta nella Banca mondiale, che dovrà occuparsi maggiormente di quello che, nei paesi più poveri, al di là del PIL, migliora la qualità della vita.

Kim ha dichiarato che è necessario che la Banca Mondiale sia più inclusiva se si vuole che possa compiere la sua missione, cioè la riduzione della povertà. Ha inoltre sottolineato la necessità che "la crescita dell'economia di mercato sia una priorità per ogni Paese" e che utilizzerà la sua esperienza di medico per esercitare meglio il suo nuovo ruolo.

 


SIWEB

Lo stato delle ratifiche del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance economica dell’Unione economica e monetaria
(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

 

Il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance economica dell’Unione economia e monetaria (cd. fiscal compact), in base all’art. 14 del medesimo Trattato, entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo al deposito del dodicesimo strumento di ratifica di una Parte contraente la cui moneta è l’euro.

Alla data del 4 maggio, gli Stati membri che hanno completato il processo di ratifica sono tre (Grecia, Portogallo e Slovenia).

Ulteriori informazioni in merito al processo di ratifica in altri Paesi membri sono raccolte nella seguente tabella:

 

Austria

 

Belgio

 

Bulgaria

 

Cipro

 

Danimarca

Il Trattato dovrebbe essere ratificato prima della pausa estiva

Estonia

Il disegno di legge di ratifica dovrebbe essere presentato entro il mese di maggio e approvato durante la sessione autunnale

Finlandia

 

Francia

 

Germania

In base a un documento presentato dal Bundestag in occasione della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE (svoltasi a Varsavia il 19-21 aprile), il processo di ratifica dovrebbe concludersi il 15 giugno 2012

Grecia

Il 28 marzo il Parlamento ha ratificato il Trattato (194 voti a favore, 59 contrari e 47 astensioni)

Irlanda

Il governo irlandese ha indetto un referendum popolare, che si svolgerà il 31 maggio

Italia

Il disegno di legge di ratifica è attualmente all’esame della commissione affari esteri del Senato (A.S. 3239).  Nel corso di un intervento presso la Commissione politiche dell’UE della Camera, il Ministro per gli affari europei, Enzo Moavero, anche espresso l’auspicio che l'iter della ratifica possa procedere di pari passo con il Bundestag e il Bundesrat tedeschi, con l'obiettivo politico di pervenire ad un momento di ratifica ravvicinato o addirittura coincidente, al fine di dare un forte segnale di unità e di prospettiva comune.

Lettonia

 

Lituania

Il processo di ratifica dovrebbe concludersi prima della pausa estiva

Lussemburgo

 

Malta

 

Paesi Bassi

 

Polonia

 

Portogallo

Il 13 aprile il Parlamento ha ratificato il Trattato (204 voti a favore, 24 contrari e 2 astensioni)

Romania

 

Slovacchia

 

Slovenia

Il 19 aprile il Parlamento ha ratificato il Trattato (74 voti a favore, nessun contrario e 2 astensioni)

Spagna

 

Svezia

 

Ungheria

 

 

 




[1]    La Nuova agenda transatlantica è stata rilanciata e rafforzata in varie occasioni, tra l’altro con l’adozione dell’Agenda economica positiva da parte del Vertice UE-USA del 2 maggio 2002.

[2]    In tale occasione, il 14 settembre 2009, il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha visitato insieme alla Speaker della Camera dei Rappresentanti Usa, Nancy Pelosi, le zone colpite dal sisma abruzzese dello scorso 6 aprile. La Speaker della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi - italo americana la cui famiglia era originaria di un piccolo centro della provincia di Chieti - si è recata insieme al presidente a visitare il centro storico de L’Aquila e i centri dell’hinterland maggiormente colpiti dal sisma. Nancy Pelosi ha poi partecipato all’inaugurazione di un asilo nido a Villa Sant’Angelo e si è detta convinta ”che saranno i bambini ad insegnarci la strada per la ripresa. Perché la ripresa passa per le infrastrutture ma anche attraverso i cuori”.

[3]    Nella XV legislatura il Gruppo di collaborazione era presieduto dall'on. Giancarlo Giorgetti (LNP), Vice Presidente della Commissione Affari esteri, e composto dagli onorevoli Giulia Bongiorno (AN), Salvatore Cannavò (RC-SE), Lorenzo Cesa (UDC), Aurelio Salvatore Misiti (IdV), Valdo Spini (SocRad-RnP), Valentino Valentini (FI), Roberto Villetti (RnP) e Roberto Zaccaria (PD-U).

Nella XIV legislatura il Gruppo era ugualmente presieduto dall'on. Giancarlo Giorgetti (LNP), Presidente della Commissione Bilancio. Il Vice Presidente della Commissione Ambiente, On. Francesco Stradella, componente del Gruppo nella XIV legislatura, aveva incontrato, il 9 agosto 2004, l'on. Vito Fossella, deputato al Congresso degli USA e Presidente della parte americana del Gruppo di collaborazione.

[4]    Nella XV Legislatura i deputati avevano preso parte a due edizioni del Forum transatlantico: il 10 e 11 dicembre 2007, con la partecipazione degli onorevoli Giancarlo Giorgetti (LNP), Adriano Paroli (FI) e Valdo Spini (Misto, Sin. per la Costituente); l’11 e 12 dicembre 2006 erano presenti ai lavori gli onorevoli Enrico La Loggia (FI) e Adriano Paroli (FI).

[5]    Nella XV legislatura l’on. Francesco Bosi (UDC) aveva effettuato – dal 23 al 27 gennaio 2007 - una visita a Washington e Tampa in qualità di Vice Presidente della Commissione Difesa e sicurezza di tale Assemblea. Sono stati svolti incontri al Congresso, al Dipartimento di Stato e visitata, a Tampa (Florida), la base aerea MacDill, sede del Comando Operazioni Speciali e del Comando Centrale degli Stati Uniti.

[6]    La riunione si è articolata in due sessioni: la prima sul tema: “Procedure legislative e sfide contemporanee: scambio di esperienze”, relatore John BERCOW, Speaker della Camera dei Comuni del Regno Unito; la seconda sul tema: “Energie del futuro: il ruolo dei Parlamenti, relatore  Marco MAIA, Presidente della Camera dei deputati del Brasile.

[7]    La Global Legislators Organization for a Balanced Environment (GLOBE) è un gruppo interparlamentare consultivo fondato nel 1989 tra il Congresso americano e il Parlamento europeo per rafforzare la cooperazione internazionale tra parlamentari su questioni ambientali globali

[8]    Con il suo ingresso il 18 aprile 2012, il Sud Sudan è divenuto il 188° membro del Gruppo.

[9]    (Doc. LV n. 5-bis).