Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||||
Titolo: | L'opposizione al regime libico | ||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 211 | ||||
Data: | 23/03/2011 | ||||
Descrittori: |
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23 marzo 2011 |
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n. 211/0 |
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L’opposizione al regime libico |
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Precedentemente allo scoppio delle proteste e del conflitto armato interno libico, la condizione dei movimenti di opposizione al regime libico risultava di estrema debolezza e le principali articolazioni di tali movimenti operavano in esilio, mentre presenti sul territorio libico risultavano i movimenti islamisti dei fratelli musulmani, che operava in condizioni di semi-clandestinità, e del gruppo di combattimento islamico libico. La rivolta ha invece visto, in un contesto in cui un peso determinante lo ha assunto l’atteggiamento delle tribù, l’affermazione di nuove forme di organizzazione dell’opposizione al regime, la cui articolazione più evoluta appare rappresentata dal consiglio nazionale transitorio libico, con sede a Bengasi e presieduto dall’ex-ministro della giustizia libico Jalil. La presente nota si sofferma dapprima sulla condizione delle forze di opposizione al regime libico precedentemente allo scoppio della rivolta e quindi sull’attuale organizzazione delle forze di opposizione.
Le forze di opposizione al regime libico precedentemente allo scoppio della rivolta libica
Dal punto di vista idelogico, le tradizionali forze di opposizione al regime libico appaiono riconducibili a tre diverse aree: quella monarchica; quella democratica e quella islamista.
Gran parte dei movimenti di opposizione, inoltre, opera in esilio (dove sono stati in passato raggiunti dagli attacchi e dagli omicidi mirati dei servizi segreti libici; a loro volta esponenti dell’opposizione si sono resi responsabili dell’omicidio di esponenti governativi libici all’estero). Centro dell’emigrazione politica libica risulta in particolare Londra: nella capitale britannica hanno sede l’Alleanza nazionale; il Movimento nazionale libico; il Movimento libico per il cambiamento e la riforma; il Raggruppamento islamista; il Fronte nazionale di salvezza libico e il Raggruppamento repubblicano per la democrazia e la giustizia. Sempre a Londra ha sede il movimento monarchico che sostiene Mohammed Al Sanusi, nipote dell’ultimo re di Libia Idris, deposto da Gheddafi nel 1969. Questi movimenti hanno costituito nel 2005 l’Accordo nazionale, chiedendo le dimissioni di Gheddafi e la costituzione di un governo transitorio. Il ritorno in Libia, tra il 2005 e il 2006, di circa 787 dissidenti in esilio aveva lasciato intravedere la possibilità dell’avvio di un processo di dialogo, successivamente sfumato.
Sul territorio libico opera in condizioni di semiclandestinità la Fratellanza musulmana libica. Centinaia di componenti della Fratellanza sono stati sottoposti ad ondate di arresti, processi e condanne, lungo tutta la durata del regime di Gheddafi, in particolare nel 1973 e nel 1998. Anche nel 2001-2002 due leader eminenti della Fratellanza sono stati condannati a morte e oltre settanta all’ergastolo. Leader attuale della Fratellanza libica è Suleiman Abdel Qadir, che, nel 2005 ad Al Jazeera, ha descritto gli obiettivi della fratellanza come pacifici ed ha richiesto l’abrogazione delle leggi che sopprimono i diritti politici. Nel 2008, sempre ad Al Jazeera, Qadir ha espresso apprezzamento per gli intenti riformatori di Saif Al Islam Gheddafi, che, a sua volta, era apparso rivolgere alcune aperture nei confronti della Fratellanza.
Presente sul territorio libico è anche il Gruppo di combattimento islamico libico, organizzazione islamista armata. Saif Al Islam Gheddafi ha avviato negli scorsi anni un dialogo con i leader in prigione del gruppo, ottenendo nel 2009 alcuni impegni sulla rinuncia alla violenza da parte del movimento. Allo stesso tempo, nel 2007, il leader di Al Qa’ida Ayman Al-Zawahiri ha annunciato la fusione tra il gruppo ed Al Qa’ida, fusione smentita da esponenti del gruppo a Londra[1].
L’organizzazione della rivolta libica
L’effettivo collegamento tra i movimenti di opposizione al regime libico e la rivolta scoppiata a metà di febbraio 2011 appare dubbio. Da fonti di stampa, la ricostruzione più attendibile individua la causa scatenante della rivolta nell’arresto, il 15 febbraio, di Fatih Tarbel, avvocato di Bengasi che aveva assunto la difesa dei parenti dei circa 1.200 deceduti nella repressione della rivolta del carcere di Abu Salim nel 1996 (nel marzo 2010 i parenti delle vittime avevano rifiutato gli indennizzi offerti in cambio della rinuncia all’azione legale; la protesta dei parenti, la maggior parte dei quali di Bengasi, andava avanti dal 2007; al riguardo cfr. box sotto). La protesta per l’arresto aveva coinvolto, a Bengasi, circa 2000 persone già lo stesso 15 febbraio[2]. Inoltre, un gruppo su Facebook, animato da un esule trentenne in Svizzera, Hassan Al Djahmi e chiamato “17 febbraio – il giorno della rabbia”, ha convocato, appunto per il 17 febbraio, una manifestazione di protesta (“giornata della rabbia”) contro il regime libico, raggiungendo oltre 30.000 iscritti in 48 ore[3]. Le manifestazioni del 17 febbraio 2011 avrebbero visto la partecipazione di oltre 100.000 persone e si sono successivamente estese ad altre città della Cirenaica, come Bengasi, Al Bayda, Tobruk, Derna[4]; dalla repressione, che avrebbe causato decine di vittime e visto l’intervento di mercenari africani al soldo del regime libico, si sarebbero rapidamente dissociate, per unirsi ai ribelli, le forze di polizia locali (fornendo in questo modo la ribellione anche di armi). Questo ha condotto alla costituzione, in diverse città della Cirenaica, già tra il 15 e il 21 febbraio, di diversi comitati locali, consigli civici e militari, che avrebbero assunto il controllo delle città cadute in mano alle forze ribelli e organizzato milizie locali di difesa, coordinandosi con le forze dell’ordine e militari passate dalla parte della rivolta. Dopo un’iniziale ambiguità, il 22 febbraio, si è unito alla rivolta, insieme alle sue truppe, Abdel Fattah Younes, comandante per la regione di Bengasi delle forze speciali “Saiqa” e già ministro dell’interno[5]. Younes, divenuto leader del comitato militare di Bengasi, è comunque giudicato da altri esponenti della rivolta come eccessivamente compromesso con il regime di Gheddafi. Intorno al 6 marzo 2011 le forze militari libiche passate dalla parte della rivolta ammonterebbero a circa 12.000 unità[6].
Elemento fondamentale nella propagazione della rivolta, in particolare al di fuori della Cirenaica, è stato poi il contributo di molte delle tribù nelle quali è articolata la struttura sociale libica (per dettagli cfr. box sotto): tra queste merita ricordare quella dei Farfalla, Orfella, Rojahan e Zintan: a contribuire alla disaffezione delle tribù nei confronti di Gheddafi sarebbero stati anche i contrasti sulla ripartizione della rendita dei proventi petroliferi, che, peraltro, negli anni 2008-2009 hanno subito una restrizione a causa della crisi economica internazionale[7].
In questo contesto, è sorto, a coordinare la rivolta e l’attività dei diversi comitati locali (ai quali è rimasta affidata l’amministrazione delle diverse città), a partire da sabato 26 febbraio 2011, il Consiglio transitorio nazionale libico, guidato dall’ex-ministro della giustizia di Gheddafi, passato con i rivoltosi, Mustafa Abdel Jalil[8]. La formazione del consiglio, e in particolare la designazione alla leadership di Jalil è apparsa tormentata[9]. In particolare, già domenica 27 febbraio, la leadership di Jalil, annunciata il giorno prima, è stata messa in discussione da un avvocato dissidente di Bengasi, esponente del comitato locale, Abdel-Hadifiqh Ghoga, autodesignatosi portavoce del consiglio, che avrebbe accusato Jalil di avere un’influenza limitata alla sua città natale di Al Bayda. Il 6 marzo si è giunti ad un accordo sulla composizione del consiglio che ha designato alla presidenza Jalil, e ha confermato Ghoga come portavoce. Il consiglio è poi composto da, oltre al presidente, altri trenta esponenti (cinque dei quali donne. Solo i nome di nove (o, secondo altre fonti, quattordici) componenti sono stati però resi noti, per tutelare gli altri che si troverebbero in zone sotto il controllo delle forze fedeli a Gheddafi. Tra gli esponenti i cui nomi sono stati resi noti si segnalano personalità legate al regime di Gheddafi come, oltre a Jalil, l’ex-ministro dell’interno Al Obedi. Risultano però presenti anche esponenti della, peraltro assai debole, borghesia delle professioni libica, emersi alla guida del comitato locale di Bengasi, come il professore di scienze politiche Fathi Mohammed Baja, e Ahmed Al-Abaar, dirigente di una banca agricola, e dissidenti del regime, come l’avvocato Fethi Terbil, dal cui arresto le proteste di Bengasi hanno avuto inizio, e l’ex prigioniero politico al-Sharif. Ad un altro ex-prigioniero politico, Omar Al Hariri, per oltre 20 anni rinchiuso nelle carceri del regime libico, e in precedenza comandante dell’esercito a Tobruk, è stata affidata la responsabilità degli affari militari[10]. La designazione di Al Hariri avrebbe peraltro determinato uno strisciante contrasto con il già ricordato generale Younes, che comunque eserciterebbe di fatto il comando delle forze ribelli[11].
Responsabile invece degli affari esteri nel consiglio è Ali al-Assawi, già ambasciatore libico in India. Insieme ad al-Assawi altri esponenti del corpo diplomatico libico sono passati a sostenere la rivolta, a partire dall’ambasciatore in carica all’ONU (già ambasciatore in Italia) Abdurrahim Shalgam.
Il consiglio transitorio nazionale ha dichiarato il proprio impegno per il mantenimento dell’unità nazionale libica: risulterebbe inoltre allo studio la costituzione di un “parlamento transitorio”, in attesa di poter convocare libere elezioni su tutto il territorio libico; tale parlamento risulterebbe composto da cinque rappresentanti per ciascuna delle principali tribù della Libia; la rappresentanza paritaria è stata però rifiutata dai rappresentanti delle tribù più grandi, mentre la determinazione di un criterio di rappresentanza proporzionale tra le tribù in questa fase appare non facilmente perseguibile. Peraltro, nel corso della rivolta, è stato anche costituito un comitato per il dialogo, composto da rappresentanti delle tribù, che ha proposto, il 14 marzo 2011, una mediazione tra le parti in conflitto[12].
Ali Al-Assawi, nella sua funzione di responsabile degli affari esteri del consiglio nazionale transitorio libico, ha incontrato il 9 marzo 2011 l’alto rappresentante della politica estera e di sicurezza Catherine Ashton. Il 10 marzo il governo francese ha riconosciuto il consiglio come legittimo rappresentante del popolo libico. Il consiglio nazionale transitorio libico si è dotato anche di un proprio sito Internet: www.ntclibya.org.
Box 1: Le proteste per la repressione della rivolta del carcere di Abu Salim[13]
Nel 1996 circa 1200 detenuti risultarono uccisi nella repressione, da parte delle forze di sicurezza libiche, della rivolta scoppiata nel carcere di Abu Salim, a Tripoli, rivolta motivata dalle difficili condizioni di vita nel carcere, che risulterebbe notorio, secondo fonti internazionali, per l’ampio ricorso al suo interno a torture e maltrattamenti dei prigionieri. In particolare, il massacro da parte delle forze di sicurezza libiche sarebbe avvenuto a rivolta già domata, aprendo deliberatamente il fuoco su centinaia di prigionieri condotti nel cortile interno della prigione. Il governo libico ha dapprima, e per un lungo periodo, negato il massacro. Molti dei morti della rivolta provenivano da Bengasi. Nel 2007 30 di queste famiglie, assistite dal giovane avvocato Fathi Terbil, hanno avviato un’azione legale al tribunale di Bengasi, al fine di chiedere informazioni sulla sorte dei propri congiunti. Il tribunale ha appoggiato la loro richiesta, che tuttavia non ha trovato risposta dalle autorità governative libiche. Sono quindi iniziate, nello stesso anno, ogni sabato, manifestazioni di protesta dei familiari. Il governo libico, pur procedendo in varie occasioni ad arresti ed interrogatori dei partecipanti, ha tollerato le manifestazioni, in una fase nella quale era interessato al miglioramento della propria immagine internazionale. Consapevoli di tale interesse del governo libico, i manifestanti peraltro hanno cercato di coinvolgere organismi internazionali come l’ONU e l’opinione pubblica internazionale sulla questione; le pressioni hanno condotto nel 2010 il governo libico a riconoscere il massacro, a consegnare ad oltre 900 famiglie i certificati di morte dei propri congiunti e ad offrire un indennizzo di circa 100 dollari per ogni detenuto ucciso, indennizzo, come già si è accennato, rifiutato da molti familiari, che insistevano invece per conoscere le esatte circostanze della morte dei loro congiunti e l’individuazione dei responsabili.
Box 2: L’assetto tribale della società libica
La società libica
appare ancora oggi fortemente influenzata dai legami di clan e tribali. In
questo contesto, per tribù, termine peraltro soggetto a diverse definizioni ed
anche contestazioni in campo antropologico, si intendono “raggruppamenti
genealogici”, vale a dire fondati sulla presunzione di una consanguineità[14].
Nel contesto libico, lo storico libico, Faraj Najm ha individuato centoquaranta tribù, delle quali però
solo trenta avrebbero un peso
demografico considerevole.
Tra queste si segnalano, nella parte occidentale del paese, i magariha, i warfalla,
i firqan, i misrata e i gaddafa (tribù di Gheddafi), mentre nella regione
orientale sono presenti i mugarba, gli awaqir, i zuwaya, i fawahir, i mugabra e
gli ubaydat.
Il 15 per cento della popolazione libica non appartiene però a nessuna tribù (gli abitanti autoctoni di Tripoli, ovvero coloro che vi abitano da molte generazioni, i berberi, vale a dire i discendenti delle popolazioni autoctone nordafricane, preesistenti alla penetrazione islamica, i libici discendenti di schiavi di origine africana)[15].
In Cirenaica, la zona orientale del paese, con capoluogo Bengasi, appare invece ancora esercitare una forte influenza la tradizione senussa: i senussi sono una confraternita di revival islamico di orientamento sufi sorta alla fine del ‘700 che assunse rapidamente il controllo de facto della Cirenaica. Animatori dell’insurrezione antitaliana nel periodo coloniale, con il loro leader Omar Al Muktar, si schierarono successivamente, durante la seconda guerra mondiale, in funzione antitaliana a fianco dei britannici. Senusso era il re Idris, insediatosi al potere dopo la seconda guerra mondiale.
[1] Fonte: Congressional Research
[2] M. Palumbo, La Libia a rischio secessione, intervista con Mansour El Kikhia, “Europa” 17 febbraio 2011
[3] A. Guerrera, Hassan e i ragazzi del “17 febbraio”, “La Repubblica” 19 febbraio 2011
[4] Id., La Cirenaica da sempre contro Gheddafi, “La Stampa” 19 febbraio 2011
[5] L. Cremonesi,
[6] R. Scolari, Obama ancora cerca il suo uomo a Bengasi per rovesciare Gheddafi, “Il Foglio” 5 marzo 2011
[7]J. Moisseron, Libye, la rupture du pacte tribale, Liberation 24 febbraio 2011
[8] L. Cremonesi, cit.
[9] Libya’s Opposition Leadership Comes into Focus, in www.stratfor.com (20 marzo 2011)
[10] G. Ruotolo, Ex-ministri e ambasciatori il volto dell’opposizione, “La Stampa” 8 marzo 2011
[11] Libya’s Opposition Leadership Comes into Focus, in www.stratfor.com (20 marzo 2011)
[12] la notizia in www.corriere.it (14 marzo 2011)
[13] J. Becker, Events of Two Years Ago sparked current uprising in
[14] U. Fabietti, Tribù, in Istituto dell’Enciclopedia italiana – Treccani, Enciclopedia delle scienze sociali, (ora disponibile in www.treccani.it)
[15] C. Gazzini, Non solo tribù, in “Limes” 1/2011