Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: La crisi politica in Egitto
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 193
Data: 10/02/2011
Descrittori:
CRISI POLITICA   EGITTO
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari
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Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione e ricerche

La crisi politica in Egitto

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 193

 

 

 

10 febbraio 2011

 


Servizio responsabile:

Dipartimento Affari esteri

( 066760-4939 – * st_affari_esteri@camera.it

 

 

 

 

 

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File: es0657.doc

 


INDICE

La crisi politico-sociale in Egitto

La crisi politico-sociale in Egitto  1

§         La situazione post-elettorale  1

§         Le violenze ai danni delle comunità copte  4

§         Lo scoppio della contestazione e gli attuali sviluppi5

Documentazione

§         A. Meringolo, Italia-Egitto, una partenrship a metà, (http://www.affarinternazionali.it), 16 giugno 2010  15

§         Egitto: la difficile situazione dei diritti umani in vista delle elezioni presidenziali del 2011, (http://www.equilibri.net), 1 ottobre 2010  15

§         A. Meringolo, L’Egitto alle urne e la successione a Mubarak, (http://www.affarinternazionali.it), 10 ottobre 2010  15

§         Egitto: nelle elezioni la stretta governativa nei confronti dell’opposizione, (http://www.equilibri.net), 6 dicembre 2010  15

§         L. Sadiki ‘The ‘bin Laden’ of marginalisation’, in AlJazeera.net (http://english.aljazeera.net/indepth/opinion/2011/01 ), 14 gennaio 2011  15

§         North Africa After Tunisia, in: Stratfor (http://www.stratfor.com), 14 gennaio 2011  15

§         Egitto: le tensioni religiose minacciano la società civile, (http://www.equilibri.net), 17 gennaio 2011  15

§         ’Arab Leaders Fear Coup Contagion, (http://www.stratfor.com), 17 gennaio 2011  15

§         S. Torelli ‘Le sfide della regione dopo la crisi tunisina’, in: ISPI, Commentary, 17 gennaio 2001  15

§         Rubrica EuroMeDitazioni ‘Europa: la crisi da sud’, in: Limes – rivista italiana di geopolitica, (http://temi.repubblica.it/limes) 18 gennaio 2001  15

§         How will Tunisia’s Jasmine Revolution affect the Arab world? (http://www.brookings.edu), 24 gennaio 2011  15

§         After Tunisia: Obama’s impossible dilemma in Egypt (http://www.brookings.edu), 25 gennaio 2011  15

§         What Secretary Clinton does not recognize about Egypt’s anti-regime protests (http://www.brookings.edu), 27 gennaio 2011  15

§         Egypt today: historical context of the protests (http://www.usip.org) 27 gennaio 2011  15

§         Don’t fear Egypt’s Muslim Brotherhood (http://www.brookings.edu), 28 gennaio 2011  15

§         What the protesters want in Egypt (http://www.brookings.edu), 28 gennaio 2011  15

§         The end of the Mubarak era (http://www.brookings.edu), 29 gennaio 2011  15

§         M. C. Paciello, Egitto in fiamme, (http://www.affarinternazionali.it), 29 gennaio 2011  15

§         R. Aliboni, Le rivolte in Egitto e Tunisia e gli incubi dell’Occidente, (http://www.affarinternazionali.it), 30 gennaio 2011  15

§         D. Korski, These are the real birth pangs of a new Middle East. Time for Europe to don a midwife’s uniform  (http://www.ecfr.eu/) 31 gennaio 2011  16

§         Prospects for a democratic revolution in Egypt (http://www.usip.org) 31 gennaio 2011  16

§         The impact of social media in Egypt (http://www.usip.org) 31 gennaio 2011  16

§         A. Elshobaki, Les élections législatives ègyptiennes: une nouvelle forme d’autoritarisme?, Institute d’Etudes de Sécurité de l’Unione européenne, gennaio 2011  16

§         A. De Vasconcelos, Egypt’s democratic rising: five recommendations (http://www.iss.europa.eu/), gennaio 2011  16

§         G. Joffé, Depart, I say!,  European Union Institute for Security Studies, gennaio 2011  16

§         A. De Vasconcelos, The roar of the democratic wave, (http://www.timesofmalta.com), 2 febbraio 2011  16

§         E. Remondino, Mediterraneo infiamme: l’Europa  e l’esportazione della democrazia, in: Ispi Commentary, 2 febbraio 2011  16

§         A. Varvelli, Sponda sud: i colpevoli ritardi dell’Europa, in: Ispi Commentary, 2 febbraio 2011  16

§         J. N. Ferrié, Égypte: regard froid sur une crise brûlante, (http://www.telos-eu.com), 3 febbraio 2011  16

§         R. Aliboni, Israele di fronte alla scossa egiziana, (http://www.affarinternazionali.it), 3 febbraio 2011  16

§         After Mubarak, What's Next for Egypt? (http://www.brookings.edu), 4 febbraio 2011  16

§         A Way Forward in Egypt (http://www.brookings.edu), 7 febbraio 2011  16

§         Egitto: conseguenze economico-finanziarie delle rivolte, (http://www.equilibri.net), 7 febbraio 2011  16

§         CISIP – Intervista a Maged Burtros, Università di Helwan, (http://www.equilibri.net), 7 febbraio 2011  16

§         D. Pioppi, L’Egitto e l’incognita dei Fratelli musulmani, (http://www.affarinternazionali.it), 7 febbraio 2011  16

§         S. Khalifa Isaac, Much Ambiguity Overshadow Egypt’s Future Route After Mubarak, in: Ispi Commentary, 7 febbraio 2011  16

§         L. Bottazzi e R. Hamaui, I veri perchè della rivoluzione egiziana, (http://www.lavoce.info), 8 febbraio 2011  16

§         Is the Arab Authoritarian Bargain Collapsing?  (http://www.brookings.edu), 9 febbraio 2011  16

 

 


SIWEB

La crisi politico-sociale in Egitto

 


La crisi politico-sociale in Egitto

La situazione post-elettorale

Il 28 novembre ed il 5 dicembre scorso, l’Egitto ha votato per il rinnovo dell’Assemblea del Popolo (Majlis al-Sha’b), cheunitamente al Consiglio della Shura (Majlis al-Shura), costituisce il Parlamento egiziano.

 

Le elezioni parlamentari si collocano all’interno di un ciclo elettorale che culminerà, alla fine del 2011, con le elezioni presidenziali. In base alle riforme costituzionali approvate a partire dal 2005 potranno presentare candidati i partiti che abbiano almeno il 3 per cento dei seggi in ciascuna della due Camere del Parlamento egiziano (l’Assemblea del popolo e il consiglio della Shura); possono essere inoltre presentate candidature sottoscritte da 250 parlamentari o componenti degli organi elettivi locali; infine, in via transitoria per dieci anni potranno presentare candidati anche i movimenti che abbiano almeno un eletto in una delle due Camere. Possono essere candidati i membri della direzione del partito o chi lo sia stato in passato per almeno un anno.

 

La tabella che segue compendia il risultato elettorale:

 

Partito

Seggi assegnati

al primo turno

Totale Seggi Primo +

Secondo Turno

%

Partito democratico nazionale (NDP)

211

420

81

Indipendenti

62

69

13,4

Partito del Domani (al-Ghad’s Moussa)

0

1

0,2

Partito New Wafd

5

6

1,1

Partito Tagammu

4

5

0,9

Partito Democratic Peace

0

1

0,2

Partito Social Justice

0

1

0,2

Partito Democratic Generation

0

1

0,2

Ancora da assegnare

 

4

0,8

Membri di nomina presidenziale

 

10

2

 

 

Il Partito democratico nazionale (NDP), del presidente Mubarak si è confermato nelle elezioni per l’Assemblea del Popolo del 28 novembre e 5 dicembre scorsi partito egemone, con 420 seggi su 518. In tal senso si è confermato il netto vantaggio dell’NPD già manifestatosi dopo il primo turno, nel quale tale partito si era aggiudicato 211 dei 282 seggi già assegnati in tale tornata.

Dato fondamentale emerso dalle elezioni è il ridimensionamento dei Fratelli Musulmani. Pur non essendo riconosciuto come partito, il movimento islamista presenta suoi candidati alle elezioni come indipendenti. Se nel 2005 erano risultati eletti 88 candidati riconducibili ai Fratelli musulmani, nelle elezioni del 2010 nessuno dei deputati indipendenti eletti è riconducibile ai Fratelli musulmani. Il movimento politico ha denunciato violazioni da parte del partito del presidente Mubarak e delle forze dell’ordine, dopo che nei giorni precedenti alle elezioni del 28 novembre si sono verificati migliaia di arresti di sostenitori e candidati dei Fratelli Musulmani. Dopo il primo turno, i Fratelli Musulmani e il Partito New Wafd hanno deciso di non partecipare al secondo turno tenutosi il 5 dicembre.

Con riferimento agli altri partiti politici che hanno ottenuto seggi si ricorda che:

Il Partito New Wafd è stato costituito nel 1978, nel momento in cui il presidente Sadat decise l’introduzione di un limitato pluralismo politico; il partito recepiva l’eredità liberale e nazionalista del partito Wafd che aveva dominato la vita politica egiziana  ai tempi della monarchia precedentemente alla presa di potere di Nasser nel 1952. Dal maggio 2010 leader del partito è Sayyid-al-Badawi, proprietario della Hayat Network e della Sigma Pharmaceuticals. Il movimento è supportato dalle élite economiche e dalla comunità Coopta. Punti qualificanti del suo programma sono: introduzione di forme di decentramento a favore dei governi locali; introduzione di limiti ai mandati presidenziali; limitazioni dello stato di emergenza a situazioni di guerra o catastrofe naturale; abolizione delle limitazioni alla formazione dei partiti politici; riforma del sistema scolastico; rafforzamento del settore privato e della libera concorrenza.

Il Partito del Domani (al-Ghad’s Moussa) è stato fondato nel 2004 da Ayman Nour, un ex deputato del New Wafd, principale sfidante di Mubarak alle elezioni presidenziali del 2005 (arrestato dopo le elezioni per presunte irregolarità è stato liberato nel 2009; dall’agosto 2010 è di nuovo alla guida del partito); Punti qualificanti del programma del partito sono: limiti temporali per il mandato presidenziale, rimozione delle restrizioni sui media; promozione delle liberalizzazioni e la libera concorrenza.

Il Tagammu, come l’NDP di Mubarak, è nato dalla divisione dell’Unione socialista araba nel 1976, ereditandone la componente maggiormente di sinistra. Attualmente il partito è guidato da Mohammed Rifat al-Saeed. Il partito sostiene: una riforma costituzionale; l’indipendenza del potere giudiziario; l’abolizione dello stato di emergenza; mantenimento di un forte settore pubblico.

Il Democratic Peace Party è stato costituito il 4 luglio 2005. Il presidente è Ahmed al-Fadali. Il programma politico prevede: rispetto della Costituzione e dello Stato di diritto; lotta alla corruzione; sussidi e crediti per i disoccupati; riforma scolastica.

Il Social Justice Party è stato costituito nel 1993. Anche se il partito è stato sospeso dall’Alta Commissione per le elezioni, un suo membro ha corso per le presidenziali nel 2005, e membri del partito si sono candidati alle ultime elezioni parlamentari. Sul piano politico ciò che distingue il partito è la volontà di introdurre la shari’a come fonte normativa, favorire la classe contadina e il varo di programmi sociali.

Il Democratic Generation Party è nato nel febbraio del 2002. Nagi al-Shihaby, leader del movimento è noto per le sue posizioni antiamericane. Il partito si batte per una riforma del settore agricolo, per un programma di case popolari da destinare alle fasce sociali più deboli e per una riforma scolastica.

La Costituzione egiziana riconosce formalmente il multipartitismo, così come i diritti civili e politici. Tuttavia l’accesso alla competizione politica risulta limitato in particolare da restrizioni legislative alla formazione dei partiti politici (per la costituzione di nuovi partiti è necessaria un’autorizzazione; per dettagli cfr. infra), alla libertà di associazione (è proibita la costituzione di associazioni che minacciano l’unità nazionale o violano la morale pubblica; gli organi dirigenti delle associazioni devono essere approvati dal ministro degli affari sociali, che può sciogliere le associazioni, senza procedimento giurisdizionale), allo svolgimento di manifestazioni pubbliche (anch’esse devono essere autorizzate). Inoltre, dall’ascesa al potere di Mubarak, nel 1981, a seguito dell’omicidio del predecessore Sadat, è stata costantemente prorogata la legge sullo stato di emergenza (da ultimo nel giugno 2010), che, tra le altre cose, attribuisce tutti i processi attinenti alla “sicurezza nazionale” a corti speciali controllate dall’esecutivo e prevede l’arresto per comportamenti quali le offese al Presidente, il blocco del traffico, la distribuzione di volantini.

Il ruolo egemone nella vita politica egiziana è stato quindi fin qui esercitato dal partito nazionale democratico (NDP) del presidente Mubarak; tradizionalmente la forza di opposizione (che ha in realtà attraversato diverse fasi nei suoi rapporti con il potere egiziano) con maggior radicamento popolare è rappresentata dai Fratelli musulmani, movimento islamista fondato nel 1928 da Hasan Al Banna; pur non essendo formalmente riconosciuto come partito politico, il movimento presenta suoi candidati come indipendenti alle elezioni.

Le violenze ai danni delle comunità copte

Già precedentemente alle elezioni, il 25 novembre, si erano verificate violenze contro la comunità copta da parte della polizia egiziana nel quartiere di Omraneyya, Giza. I cristiani egiziani protestavano per il diniego da parte dell’autorità locale di costruire una chiesa. È da notare che il 23 novembre il capo della Chiesa copta egiziana, papa Shenuda III, aveva fatto un appello affinché i copti partecipassero alle elezioni. 

È stato tuttavia il 1° gennaio 2011 che i copti egiziani si sono trovati nel mirino del terrorismo, quando un’esplosione nella zona antistante la Chiesa dei Santi ad Alessandria ha provocato la morte di 23 persone ed il ferimento di circa 80. Il governo egiziano ha prontamente indicato elementi stranieri come autori della strage, individuando successivamente in al Qaida la probabile responsabile degli attentati. Va ricordato che già in dicembre lo stesso gruppo terroristico che due mesi prima aveva tenuto in ostaggio un gruppo di fedeli cristiani nella Chiesa di Nostra Signora della salvezza di Baghdad – la vicenda si era conclusa con la morte di circa 60 persone - aveva minacciato un attentato contro una chiesa cristiana in Egitto. Conseguentemente, le celebrazioni del Natale copto (7 gennaio) si sono svolte in un clima di grande tensione e sotto la protezione di un imponente apparato di sicurezza.

L’attentato ha portato in primo piano i problemi della comunità cristiana d’Egitto, che rappresenta circa il 10% per cento della popolazione, e già il 7 gennaio 1010 era stata oggetto di un attentato che aveva provocato la morte di otto persone[1]. Va comunque rilevato che oltre all’invito alla calma del capo della Chiesa copta egiziana, anche da parte musulmana vi sono state ripetute attestazioni di solidarietà verso i cristiani connazionali. L’attentato rischia però di rinfocolare tensioni che periodicamente sono riemerse in Egitto tra maggioranza musulmana e cristiani, anche se per lo più coinvolgono strati sociali di bassa istruzione e di maggiore indigenza.

Un’altra conseguenza, questa però reale, dell’attentato del 1° gennaio 2011 è stata la tensione tra Egitto e Santa Sede: alle proteste del Papa, accompagnate dalla richiesta di una protezione dei cristiani:. la tensione è culminata l’11 gennaio, quando, all’indomani del discorso del Papa al Corpo diplomatico, le autorità del Cairo – facendo seguito ad un duro pronunciamento di un alto esponente islamico, il grande imam di Al-Azhar - hanno richiamato per consultazioni la propria ambasciatrice presso la Santa Sede, definendo contestualmente le nuove richieste papali di difesa delle minoranze cristiane in Medio Oriente un’inaccettabile ingerenza negli affari interni egiziani.

L’11 gennaio si è registrato un nuovo attacco contro i cristiani in Egitto: a Salmut, nella provincia meridionale di El Minia (una zona dove risiedono molti copti), un poliziotto fuori servizio è salito su di un treno e ha aperto il fuoco, uccidendo un anziano copto, ferendo sua moglie ed altri quattro. L'agguato, a meno di due settimane dopo l'attentato suicida di Alessandria, ha scatenato nuove dimostrazioni da parte di delle comunità copte.

Lo scoppio della contestazione e gli attuali sviluppi

L'inizio del 2011 ha visto in tutta l'Africa settentrionale il verificarsi di una serie di eventi tali da far pensare a una maturazione di fattori nuovi in tutta la realtà araba, con importanti distinzioni tra paese e paese, dalle quali dipende senza dubbio l'evoluzione nei prossimi mesi. Nel Maghreb l'innesco è stato fornito dalla ribellione contro l’aumento dei prezzi di alcuni generi alimentari di base - questa fattispecie di rivolta vanta peraltro importanti precedenti nella regione -, a partire dall'Algeria, dove i moti di protesta sono iniziati già nella prima settimana del 2011, partendo dalla capitale ed estendendosi ad altre importanti città del paese, con scontri assai violenti tra dimostranti e forze dell'ordine. Mentre in Algeria, dopo aver raggiunto una notevole intensità con la morte di tre manifestanti e un centinaio di feriti, la rivolta sembrava rientrare, anche perché il sistema economico dirigista del paese - oltretutto ricchissimo di petrolio - consentiva al governo di adottare alcune misure immediate per attenuare l'emergenza alimentare; è stato in Tunisia che i moti hanno assunto un carattere insurrezionale, coinvolgendo immediatamente anche la capitale, e ciò nonostante il paese abbia registrato negli ultimi anni le migliori performance economiche della regione.

In ogni modo, nell'arco di pochissimi giorni la Tunisia si è trovata in una situazione di rivolta generalizzata, con numerose vittime degli scontri con le forze dell'ordine e azioni disordinate di attacco contro diversi centri e simboli del potere costituito: già il 14 gennaio si verificava la caduta di Ben Alì, riparato con la moglie in Arabia Saudita. Il primo ministro di Ben Alì, Mohammed Ghannouci, emergeva come figura-chiave di un processo di transizione istituzionale sotto la protezione dell’esercito – il vero stabilizzatore della situazione -, ma i cui contorni sono tuttora in corso di consolidamento.

Nonostante i distinguo degli osservatori internazionali, che non a torto hanno subito fatto rilevare le notevoli differenze tra le situazioni dei paesi arabi nordafricani, tendendo in generale a escludere un “effetto domino”, è stato l'Egitto lo scenario più sensibile alla lezione tunisina: dopo il suicidio di un uomo, datosi fuoco il 17 gennaio davanti al palazzo del Parlamento, le opposizioni hanno organizzato per il 25 gennaio una “giornata della collera, con obiettivi principali la lotta per il lavoro e per un allentamento della repressione, soprattutto mediante la fine dello stato d'emergenza, che in Egitto vige da quasi tre decenni. Da notare che, nonostante il tasso di istruzione dei giovani egiziani sia sensibilmente meno elevato di quello dei coetanei tunisini, anche la mobilitazione contro il regime di Mubarak è apparsa sin dall'inizio guidata proprio dai giovani: anche movimenti come quello dei Fratelli musulmani, che si ritiene generalmente sia  ben radicato nella società egiziana, ha mantenuto per ora un profilo basso, sostenendo di partecipare alla mobilitazione in quanto movimento popolare, senza immaginare di poterla guidare.

La giornata della collera ha visto manifestare migliaia di persone nella capitale e in altre città, con la morte di due manifestanti a Suez e di un poliziotto al Cairo. Il giorno seguente le manifestazioni – nonostante il divieto delle autorità – sono proseguite, mentre diversi gruppi dell’opposizione hanno iniziato a coinvolgersi nelle proteste. Tra questi spicca la figura di Mohammed el Baradei, prestigioso ex Direttore dell’AIEA, leader dell'Organizzazione patriottica per il cambiamento e possibile candidato alle elezioni presidenziali del 2011: dall'estero, el Baradei ha comunicato la propria partecipazione alla preghiera del venerdì del 28 gennaio, sostenendo di voler contribuire a un movimento le cui richieste il governo non può oramai più lasciar cadere. Anche i Fratelli musulmani hanno preannunciato la partecipazione di massa dei propri esponenti alle manifestazioni del venerdì.

Il 28 gennaio cortei e manifestazioni antigovernative hanno paralizzato le principali città egiziane: nella capitale, frammezzo agli scontri, vi sono stati  tentativi di bloccare el Baradei. Nella capitale, ad Alessandria ed a Suez è stato imposto il coprifuoco tra le 18 e le 7 del mattino. La sede del Partito nazionale democratico del presidente Mubarak è stata parzialmente data alle fiamme dai manifestanti. Un altro centro degli scontri è stato quello della moschea- università di Al Azhar, il maggior centro teologico dell'Islam sunnita. Gli osservatori hanno sottolineato il fatto senza precedenti del blocco contemporaneo di Internet e delle comunicazioni cellulari in tutto il paese, mentre diversi esponenti dei Fratelli musulmani sarebbero stati arrestati dalle forze di sicurezza. Nelle strade della capitale si sono visti i primi veicoli militari. Il bilancio degli scontri nella capitale ha visto più di 800 feriti.

La protesta è dilagata negli stessi giorni anche in altri paesi:  nello Yemen si è passati da una mobilitazione composta e orientata a richieste squisitamente politiche, quali una riforma elettorale e il rifiuto delle modifiche costituzionali che consentirebbero al presidente Alì Abdullah Saleh di rimanere al potere a vita; a un forte aumento della tensione dopo l'arresto di una conosciuta attivista dei diritti umani che si era posta alla testa delle manifestazioni, e che le autorità hanno prudentemente poi rilasciato. Al di là dell'effetto imitativo dei fatti tunisini, che hanno evidentemente contagiato gran parte dei paesi arabi, nelle proteste yemenite si riflette una situazione complessiva del paese sempre più precaria, con un grande aumento della povertà, spinte secessioniste e afflusso incontrollato di profughi, terroristi e pirati somali.

Anche in Giordania vi sono state il 28 gennaio manifestazioni in diverse città per protestare contro il carovita e le politiche del governo, con espliciti riferimenti alle rivolte tunisina ed egiziana: il 1° febbraio il re Abdallah ha ceduto alle pressioni, procedendo alla sostituzione del premier Refai – senza peraltro incontrare troppi consensi per una misura giudicata insufficiente.

Il 29 gennaio la pressione dei manifestanti ha ottenuto un primo risultato: il presidente Mubarak, che il giorno precedente aveva annunciato un rimpasto di governo, ha nominato il capo dei servizi segreti, generale Suleiman, quale vicepresidente, mentre il generale Shafik è divenuto primo ministro. Nel proseguire delle proteste nella piazza Tahrir del Cairo, scontri e atti di vandalismo sono dilagati anche in altre parti della città, coinvolgendo il Museo egizio, messo in pericolo dalle fiamme appiccate da alcuni manifestanti alla vicina sede del partito di governo. L’esercito è intervenuto, conseguentemente, per mettere al sicuro gli inestimabili tesori contenuti nel Museo. Mentre l’ambasciata americana in Egitto esortava i connazionali presenti a lasciare il paese appena possibile, le autorità britanniche hanno tentato di limitare al massimo le partenze dei propri cittadini per l’Egitto, e anche la Turchia ha previsto un’operazione aerea per evacuare i propri concittadini dal paese.

A favore della stabilità dell’Egitto si pronunciava intanto il Consiglio di cooperazione del Golfo. Il presidente statunitense, dopo una riunione con il Consiglio di sicurezza nazionale, ha ribadito l’appoggio ai dimostranti e la difesa dei loro diritti, invocando l’avvio immediato di un processo di riforma in Egitto.

Il 30 gennaio il bilancio della rivolta egiziana contava già 150 vittime, mentre l'esercito iniziava a chiudere l'accesso alla piazza Tahrir, e le autorità invitavano gli stranieri a lasciare provvisoriamente l’Egitto. Intanto, dopo i  rischi corsi per i saccheggi e l’incendio prospiciente dal Museo egizio del Cairo, è stata la volta del museo archeologico di Al Qantara, nei pressi di Suez, oggetto a sua volta di saccheggio.

Il 31 gennaio, mentre il presidente Mubarak continuava a rigettare l'ipotesi di dimissioni, migliaia di manifestanti rimanevano accampati nella piazza Tahrir, sfidando il coprifuoco imposto all'esercito. Dagli Stati Uniti giungevano nuove esortazioni al governo egiziano perché venisse incontro al popolo, per risolvere pacificamente i disordini in corso, soddisfacendo il bisogno di libertà espresso dai manifestanti. Le forze armate comunicavano frattanto di considerare legittime le manifestazioni e si impegnavano a non aprire il fuoco contro i dimostranti.

In questo scenario il presidente Mubarak ha esortato il nuovo primo ministro Shafik ad avviare colloqui con l'opposizione, nonché a mantenere i sussidi sui generi alimentari di base a prezzi politici; tuttavia un esponente dell'opposizione appartenente ai Fratelli musulmani dichiarava che il comitato di oppositori il cui  negoziatore è stato individuato nella persona di El Baradei non aveva alcuna intenzione di trattare con il governo in carica, ma solo direttamente con le forze armate, allo scopo di dar vita a un governo di transizione per giungere a nuove elezioni. Sul versante mediatico, mentre si registravano notevoli carenze per l'accesso a Internet dal territorio egiziano, la televisione al-Jazira denunciava fortissime interferenze al proprio segnale in tutta la regione araba. Sul piano internazionale si registrava anche il preoccupato intervento israeliano, con l'invito ad attenuare le critiche a Mubarak, individuato quale pilastro della stabilità geopolitica della regione.

Il 1º febbraio la mobilitazione popolare conosceva, con manifestazioni in diverse città, un nuovo acme: nella sola piazza Tahrir del Cairo si sarebbe superato il milione di partecipanti. Dopo un colloquio telefonico con il presidente USA Obama, Mubarak annunciava che non si sarebbe ricandidato per le prossime elezioni presidenziali di settembre, promettendo contestualmente riforme costituzionali tali da consentire la candidatura di figure indipendenti -subito dopo il presidente degli Stati Uniti tornava a chiedere l'immediato inizio del processo di transizione istituzionale. La manovra di Mubarak, che gli ha consentito di eludere provvisoriamente la principale richiesta dei manifestanti, ovvero le sue immediate dimissioni, è stata giudicata variamente, quale raggiro o misura insufficiente dai leader dell'opposizione.

A dare man forte al movimento popolare è giunta anche la presa di posizione del premier turco Erdogan, che ha caldamente esortato Mubarak a tenere conto della volontà democratica del popolo egiziano, al quale ha espresso tutta la solidarietà del partito di governo di Ankara. Mentre un portavoce dell'opposizione egiziana asseriva esser stata costituita una Nuova coalizione nazionale per il cambiamento, ad Alessandria si aveva notizia dei primi scontri tra manifestanti antigovernativi e gruppi di sostenitori del presidente Mubarak, proseguiti anche nella giornata successiva.

Il 2-3 febbraio i sostenitori di Mubarak hanno fatto irruzione sulla scena principale della protesta, la piazza Tahrir, ingaggiando violenti scontri con i manifestanti antigovernativi, con un bilancio di almeno tre morti e circa 1500 feriti, e l'aggressione di diversi giornalisti: secondo i dirigenti del movimento di protesta sarebbero stati i militari a consentire l'accesso alla piazza di diverse migliaia di elementi pro-Mubarak armati di bastoni e coltelli - risulta peraltro una salda gestione della piazza da parte dell'esercito, che sarebbe intervenuto massicciamente dopo le prime violenze perpetrate dai sostenitori del presidente Mubarak, con ampio spiegamento di mezzi. Intanto, il neo vicepresidente Suleiman dichiarava di ritenere necessaria la fine delle proteste contro il governo prima di poter iniziare un dialogo con i gruppi di opposizione - testimoniando in tal modo sufficientemente della posizione delle forze armate, che pur considerando Mubarak ormai “superato”, non possono tuttavia consentirne un'umiliazione eccessiva, che ricadrebbe anche sull'elemento militare dal quale egli stesso proviene, e che ha costituito per decenni il solido bastione del regime.

L'aggravarsi della situazione è testimoniato anche dall'arresto di alcuni rappresentanti di Amnesty International e di Human Rights Watch e dall'inizio dell'evacuazione del personale delle Nazioni Unite dall'Egitto.

Il 4 febbraio, nuovamente, centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in piazza Tahrir in una mobilitazione generale denominata il “Giorno della partenza”, che ha visto anche il segretario della Lega Araba, l'ex ministro degli esteri egiziano Amr Mussa - a suo tempo entrato in rotta di collisione con Mubarak - unirsi ai manifestanti. Da parte degli Stati Uniti è sembrata emergere progressivamente la scelta di puntare su Suleiman per la successione a Mubarak, soprattutto in quanto nominato dallo stesso Mubarak, e dunque capace di assicurare in teoria il massimo di continuità pur nell'inevitabile salto costituito dalle dimissioni del rais. Suleiman, inoltre, è considerato dagli Stati Uniti con fiducia, avendo gli USA collaborato per anni con lui quale capo dell'intelligence egiziana, e per di più con riferimento al difficile scenario della questione israelo-palestinese.

Per quanto concerne l'Unione europea, nel Consiglio europeo del 4 febbraio vi è stata l'approvazione di una dichiarazione con la quale è stato incaricato l’Alto rappresentante PESC Catherine Ashton di preparare un pacchetto di misure per poi recarsi in missione in Egitto in Tunisia quale latore del sostegno concreto dell’Unione europea. Sulla falsariga delle posizioni americane, le autorità egiziane vengono incalzate all’avvio di una immediata transizione, e a non di rispondere con la repressione alla richiesta di democrazia e di riforme da parte del popolo. La presa di posizione europea non è giunta chiedere le dimissioni immediate di Mubarak, e ciò ha sollevato diverse polemiche del seno stesso dell'unione.

Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nella stessa sede, ha auspicato per l'Egitto una transizione democratica e senza rotture rispetto alla linea di moderazione da sempre assicurata da Mubarak nella regione: il riconoscimento della funzione centrale e della statura politica di Mubarak non vuol dire però che non debba – come del resto già da lui stesso annunciato – farsi da parte, come ha ribadito la stessa circostanza il Ministro degli Affari esteri Frattini, sostenendo la necessità che la transizione inizi in tempi rapidi e con procedure efficaci.

Il 5 febbraio, mentre emergevano significative oscillazioni delle posizioni statunitensi, determinate anche dall’inevitabile tensione tra la necessità di assicurare un cambiamento ordinato in Egitto e l'urgenza di concrete riforme; e mentre i manifestanti continuavano a presidiare la piazza Tahrir, nel timore di un blitz dei militari per evacuarla; nella serata vi è stato un radicale mutamento dei vertici del partito filogovernativo di Mubarak, che ha coinvolto anche il figlio del rais Gamal.

La nuova direzione del Partito nazionale democratico è stata affidata a un membro dell'ala più liberale di quella formazione, esponenti del quale hanno lasciato trapelare che sarebbe in programma una modifica dello statuto per separare gli incarichi di governo da quelli di partito - richiesta qualificata delle opposizioni, che peraltro sono apparse divise tra l’esigenza di dimissioni immediate di Mubarak, avanzata dal Movimento per la riforma che fa capo a el Baradei, ma anche dai Fratelli musulmani, e la richiesta di un passaggio di poteri “morbido” da Mubarak a Suleiman, rappresentata dal Comitato dei saggi che include anche Amr Mussa. Intanto sono emerse significative differenze sulla stima delle vittime delle manifestazioni, che secondo le Nazioni Unite potrebbero aver raggiunto la cifra di 300 morti, mentre secondo le autorità egiziane sarebbero poco più di una decina. Si è inoltre verificato un attentato al gasdotto che dall’Egitto alimenta le reti di Israele e Giordania.

Il 6 febbraio, mentre veniva rafforzato progressivamente il dispositivo militare nel centro della capitale, ma senza riuscire a riaprire almeno parte della piazza Tahrir, per l'opposizione dei manifestanti ivi attestati; è iniziato il dialogo delle opposizioni con il vicepresidente Suleiman, con la partecipazione dei Fratelli musulmani, a proposito della quale il ministro degli Affari esteri Frattini - in accordo con gli Stati Uniti - si è detto favorevole, per prevenire l'influenza della Fraternità sul movimento di piazza, che peraltro non prende parte come tale al dialogo con le autorità. Lo stesso Frattini ha ribadito che una transizione rapida per l'Egitto va immaginata attraverso una riforma elettorale, seguita da una nuova Costituzione e da libere elezioni, piuttosto che illudersi su un’immediata uscita di scena del presidente Mubarak, che potrebbe aprire la strada a gravi disordini. Il dialogo ha raggiunto un parziale risultato, con l'intesa per la formazione, entro marzo, di un Comitato congiunto per le riforme costituzionali. Sia i Fratelli musulmani che el Baradei hanno tuttavia definito deludenti i primi risultati del negoziato.

Il 7 febbraio il nuovo governo egiziano ha adottato una serie di misure  evidentemente volte ad alleggerire le tensioni di piazza, tra le quali l'aumento del 15 per cento dei salari dei dipendenti pubblici e delle pensioni, nonché la creazione di un fondo per indennizzare i proprietari di attività commerciali danneggiate da vandalismi e saccheggi negli ultimi giorni. Sul piano giudiziario, l'ex ministro dell'interno è comparso davanti a un giudice militare, rischiando l'incriminazione per aver consentito gli scontri tra i sostenitori di Mubarak ed i manifestanti antigovernativi nei giorni precedenti, ritirando dalla piazza Tahrir le forze di polizia.

Per quanto concerne la corruzione, accuse in tal senso sono state formulate contro l'ex Ministro dell'edilizia popolare. Nonostante queste iniziative del nuovo governo, la piazza Tahrir ha continuato ad essere presidiata dal movimento di protesta, che anzi il giorno successivo, 8 febbraio, ha dichiarato per bocca del coordinatore del gruppo “6 aprile” di voler imprimere un'ulteriore accelerazione alle manifestazioni, ponendo l'assedio al palazzo del Parlamento e alla sede della televisione, fino a marciare verso il palazzo presidenziale. Intanto gli Stati Uniti, pur in linea di principio favorevoli a coinvolgere i Fratelli musulmani nel dialogo tra governo e opposizioni appena iniziato, hanno richiamato l'attenzione sulla necessità che le autorità egiziane assicurino il rispetto dei Trattati e degli impegni fatti propri degli anni precedenti dal paese -non è difficile intravedere un’allusione al Trattato di pace dell'Egitto con Israele del 1979, che infatti i Fratelli musulmani hanno costantemente rigettato. Del resto lo stesso premier israeliano Netanyahu nelle stesse ore avanzava analoga richiesta nei confronti dei futuri governi egiziani. L'8 febbraio è stato poi reso noto che il presidente Mubarak ha creato una Commissione per la modifica della costituzione.

Nell’abbozzare una valutazione sulla situazione dell'Egitto, va ricordato che si tratta del paese-chiave dell’area nordafricana, sia per la dimensione demografica che per il ruolo di cerniera tra Nordafrica e Medio Oriente, senza dimenticare il ruolo centrale che il Cairo riveste ormai da decenni nella stabilizzazione dell'annosa questione mediorientale. In Egitto, analogamente all’Algeria, il ruolo delle forze armate in politica è fondamentale: sin dai tempi di Nasser tutti i leader del paese sono venuti dai ranghi militari, e quindi è difficilmente ipotizzabile che le forze armate nel medio periodo mantengano una neutralità o addirittura fraternizzino in massa con i dimostranti. Qui però più che altrove vi è un elemento esterno, ovvero il livello di coinvolgimento che nella crisi egiziana vorranno esercitare gli Stati Uniti, la cui politica mediorientale appare a prima vista addirittura sconvolta nel caso di un venir meno del tradizionale ruolo moderatore e stabilizzatore del Cairo.

Per quanto concerne il fattore islamista, anche le possibilità di una sua affermazione nei diversi paesi coinvolti sinora dalle agitazioni appaiono assai diverse: se in Tunisia, anche in ragione della durissima repressione che Ben Alì attuò poco dopo essere giunto al potere nel 1987, le forze islamiche appaiono oggettivamente deboli, e comunque di segno moderato; e se in Algeria, stanti i ricordati precedenti non si dovrebbe in nessun caso assistere a un revival islamico, in Egitto appaiono difficili da analizzare il ruolo attuale e le potenzialità dei Fratelli musulmani, che vantano forti radici popolari, ma che ad esempio nelle ultime elezioni legislative non hanno ottenuto neanche un seggio.

È possibile che in uno scenario di crollo del regime di Mubarak - scenario ancora quasi tutto da verificare - il ruolo dei Fratelli musulmani possa crescere, rivolgendosi a una società assai meno istruita di quella, ad esempio, della Tunisia, e dove da tempo serpeggiano segnali di contrasto con la consistente minoranza cristiano-copta. Va tuttavia ricordato che i Fratelli musulmani male si inquadrano nel modello di un Islam jihadista, corrispondendo piuttosto ad istanze meno radicali, che potrebbero in un tempo certamente non breve far convergere l’assetto politico egiziano verso il modello dell'attuale Turchia - dove l'estremo laicismo impresso alla società da Kemal Ataturk appare oggi contemperato dal predominio politico di un partito a sfondo confessionale, ma di tendenze moderate.

A favore della possibilità dell'affermazione di un modello turco depongono le comuni radici dell'Islam sunnita, che, pur avendo il suo centro spirituale ed i luoghi santi nell'Arabia Saudita, pullula di una serie di centri teologici - in Egitto, ad esempio, la già citata Università al Azhar - che costituiscono una rete non strettamente gerarchizzata di interpretazione del Corano e della Sharia. Se non è certo possibile escludere del tutto una radicalizzazione che faccia prima o poi assomigliare l'Egitto all'Iran, si deve però ricordare che quest'ultimo è il paese-guida degli sciiti, i quali invece obbediscono più rigidamente ad una gerarchia prefissata di autorità religiose, per ciò stesso capaci di mobilitare ampiamente la loro base di massa.

Un altro fattore che dovrebbe propendere a favore di un'evoluzione moderata dell'Egitto è l’inevitabile considerazione dei rapporti con Israele, che potrebbero assumere profili allarmanti nel caso di una vittoria delle istanze più radicali e antioccidentali: non appare probabile che l’influente borghesia degli affari egiziana e il gran numero di giovani acculturati oramai presenti anche sulle sponde del Nilo possano essere trascinati in un'avventura di tale portata, che già in passato ha costituito un fattore di forte frustrazione della nazione egiziana. Va peraltro tenuto presente che anche l’attuale politica estera turca è entrata spesso in contrasto con il governo di Tel Aviv, il che fa ipotizzare comunque relazioni meno distese tra Egitto e Israele nel prossimo futuro.

 

 




[1]    Uno dei tre accusati della strage è stato condannato a morte il 16 gennaio 2011.