Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento istituzioni | ||
Titolo: | L'attività delle Commissioni nella XV legislatura - Commissione Affari costituzionali - Parte terza | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 1 Progressivo: 1 | ||
Data: | 15/05/2008 | ||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | I-Affari Costituzionali della Presidenza del Consiglio e interni |
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Camera dei deputati |
XVI LEGISLATURA |
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SERVIZIO STUDI |
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Documentazione e ricerche |
L’attività delle Commissioni |
Commissione Affari costituzionali |
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n. 1/1 |
parte terza |
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Maggio 2008 |
La documentazione di inizio legislatura predisposta dal Servizio Studi e, quanto ad alcune parti, dall’Ufficio per i Rapporti con l’Unione europea, dal Servizio Biblioteca, dal Servizio Bilancio dello Stato, dal Servizio Commissioni e dal Servizio per il Controllo parlamentare, si compone di:
§ un dossier ipertestuale su CD-ROM (Documentazione e ricerche, n. 1), che illustra analiticamente le principali politiche legislative e attività istituzionali svolte dalla Camera dei deputati nel corso della XV legislatura;
§ 14 fascicoli di accompagnamento (Documentazione e ricerche, nn. da 1/1 a 1/14 – prima parte) recanti, per ciascuna Commissione, una nota di sintesi sulle aree tematiche di interesse, sull’attività svolta e sugli adempimenti governativi nelle materie di competenza;
§ 14 volumi (Documentazione e ricerche, nn. da 1/1 a 1/14 – seconda parte) recanti, per ciascuna Commissione, un estratto del dossier ipertestuale concernente le politiche legislative e l’attività istituzionale nelle materie di competenza (il volume relativo alla I Commissione si articola a sua volta in due parti).
DIPARTIMENTO istituzioni
SIWEB
I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l’attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
File: ac0001b2.doc
INDICE
Politiche legislative e attività istituzionale
Affari costituzionali e ordinamento della Repubblica
Bicameralismo e forma di governo
§ L’iter del progetto di legge di riforma
§ La revisione del sistema bicamerale
§ La funzione legislativa dello Stato
§ Il Governo in Parlamento; l’esercizio del potere legislativo da parte del Governo
§ Il Presidente della Repubblica
I progetti di legge elettorale esaminati dal Senato
§ Le proposte esaminate dal Senato della Repubblica
§ Le sentenze della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti
§ L’indizione del referendum e la sua sospensione
La disciplina dell’elettorato passivo
§ I lavori parlamentari nelle precedenti legislature
Trattamento economico dei parlamentari
L’ipotesi di riforma dell’art. 132 Cost.
§ Il quadro normativo e la giurisprudenza costituzionale
§ Il disegno di legge di revisione dell’art. 132 Cost.
Il quadro normativo dei servizi pubblici locali
§ La proprietà e la gestione delle reti
§ Altre disposizioni in materia di servizi pubblici locali
§ La gestione dei servizi privi di rilevanza industriale
Enti locali: iniziative di riforma
§ Il dibattito parlamentare sulla proposta di riforma
§ Il disegno di legge del Governo
Interventi sui “costi della politica” negli enti locali
§ Premessa
§ I lavori parlamentari nelle precedenti legislature
§ Le principali questioni interpretative poste dalla normativa vigente
§ La vicenda dei sindaci eletti nel 2006 per il terzo mandato consecutivo
Diritti e libertà fondamentali
Le politiche di programmazione dei flussi migratori
§ La programmazione dei flussi migratori
Permesso di soggiorno e lavoro
§ L’ingresso nel territorio dello Stato
§ Il soggiorno dello straniero
§ Il permesso di soggiorno CE di lungo periodo
Contrasto dell’immigrazione clandestina
§ Il respingimento e il controllo delle frontiere
§ L’espulsione: profili generali
§ L’espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo
§ L’espulsione disposta dal giudice
§ L’attuazione della normativa comunitaria in materia di espulsione
§ Gli accordi di riammissione e la “politica estera” dell’immigrazione
Le politiche di integrazione degli stranieri
§ Il diritto all’unità familiare
§ Il diritto all’abitazione e all’assistenza sociale
§ L’integrazione sociale degli stranieri
§ Lotta alla discriminazione razziale
Il progetto di riforma del testo unico sull’immigrazione
§ Le principali innovazioni del disegno di legge del Governo
§ Il contenuto del disegno di legge
§ Le proposte di legge di iniziativa parlamentare
Documento programmatico e decreti flussi
Permesso di soggiorno CE di lungo periodo
La nuova disciplina sui rifugiati
§ Le Convenzioni di Ginevra e di Dublino
§ Il decreto legislativo n. 251/2007: attribuzione e contenuto dello status di rifugiato
§ Il decreto legislativo n. 25/2008: le procedure per l’attribuzione dello status di rifugiato
§ Le misure di protezione temporanea
§ La normativa comunitaria: quadro generale
Proposte di legge sul diritto di asilo
Il decreto legislativo 30/2007
§ Diritto di circolazione e soggiorno fino a tre mesi
§ Diritto di soggiorno per una durata superiore a tre mesi
§ Diritto di soggiorno permanente
§ Disposizioni comuni al diritto di soggiorno e al diritto di soggiorno permanente
§ Restrizioni al diritto di ingresso e soggiorno
§ Allontanamento per cessazione delle condizioni che determinano il diritto di soggiorno
§ Ricorsi contro i provvedimenti di allontanamento
Cittadinanza: il testo elaborato dalla Camera
§ Acquisto della cittadinanza per nascita
§ Acquisto della cittadinanza da parte del minore
§ Attribuzione della cittadinanza
§ Motivi preclusivi dell’attribuzione della cittadinanza
§ Concessione della cittadinanza
Il ministro e il Dipartimento per le pari opportunità
§ Il Ministro per i diritti e le pari opportunità
§ Organismi collegiali operanti presso il Dipartimento
Interventi in materia di pari opportunità
Progetti in materia di libertà religiosa
§ Il contenuto del progetto di riforma
§ Libertà di religione (Capo I)
§ Riconoscimento della personalità giuridica (Capo II)
§ Diritti delle confessioni religiose iscritte nel registro delle confessioni (Capo III)
§ Matrimonio religioso con effetti civili (Capo IV)
§ Stipulazione di intese (capo V)
§ Disposizioni finali e transitorie (Capo VI)
Le intese con le confessioni religiose
§ I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica
§ I rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche
L’Autorità sui diritti umani e per i detenuti
§ L’iter delle proposte di legge
§ Il testo approvato dalla Camera dei deputati
Il processo di riorganizzazione interna
La composizione dei successivi Governi
§ Numero dei ministeri (dal D.Lgs. 300/1999 alla legge finanziaria 2008)
§ Numero massimo dei componenti del Governo
§ Denominazione e competenze dei ministeri
Disciplina dell’attività amministrativa
§ Il regolamento sull’accesso ai documenti amministrativi
§ L’indennizzo in caso di revoca del provvedimento amministrativo
Il dibattito sui “costi della politica”
§ L’indagine conoscitiva sui “costi della politica”
§ La responsabilità amministrativa nella XV legislatura
§ L’organizzazione e i controlli della Corte dei conti
Organismi governativi per la semplificazione
§ Il Comitato interministeriale
§ L’Unità per la semplificazione
L’accordo Stato-Regioni sulla semplificazione
§ Esame degli effetti di una normativa (articoli 2-7)
§ Strutture e procedure per l’esame degli effetti di una normativa (articoli 10 e 11)
§ Semplificazione normativa (articolo 8) e comunicazione legislativa (articolo 13)
§ Riduzione degli oneri amministrativi (articolo 9)
§ Drafting normativo e qualità della regolamentazione (articoli 14-15)
§ Attuazione dell’accordo (articoli 16 e 17)
L’intesa tra le Assemblee legislative sulla semplificazione
Il piano d’azione per la semplificazione
§ Il miglioramento della qualità della regolazione
§ La riduzione degli oneri amministrativi
§ Riduzione e certezza dei tempi
§ Reingegnerizzazione dei processi
§ Semplificazione normativa e amministrativa delle attività delle Regioni e degli enti locali
§ Interventi di supporto all’attuazione del piano
AIR: relazione sullo stato di attuazione
§ L’AIR nel Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione
§ L’AIR nel contesto delle politiche per la qualità della regolazione
§ La relazione del Governo al Parlamento
§ L’informatizzazione della normativa vigente nella legge finanziaria per il 2008
§ Il disegno di legge in materia di sicurezza urbana
§ La legge finanziaria per il 2007
§ I patti attualmente sottoscritti
§ Le iniziative recenti delle Regioni
La vittima del reato nel processo
Il quadro normativo sulle vittime dei reati
Nuovi provvedimenti e iniziative per le vittime dei reati
§ Le modifiche alla disciplina dei benefici per le vittime del terrorismo
§ L’ampliamento delle categorie beneficiarie delle provvidenze per le vittime del terrorismo
Indennizzo per le vittime dei reati
Il sistema di informazione per la sicurezza
§ Il Presidente del Consiglio dei ministri
§ Il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR)
§ Il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS)
§ I servizi di informazione per la sicurezza: AISE ed AISI
§ Forme di collaborazione con altre amministrazioni e con l’autorità giudiziaria
Garanzie funzionali; norme sul personale
§ Stato giuridico e norme sull’attività del personale
§ Norme di contabilità e disposizioni finanziarie
§ Le proposte di legge di revisione della disciplina
§ I contenuti del testo elaborato dalla I Commissione della Camera
La Commissione d’inchiesta sulla mafia
§ I contenuti della L. 277/2006
Polizia locale e sicurezza sussidiaria
§ Iniziative parlamentari per la definizione delle funzioni della polizia amministrativa locale
§ Misure intervenute in materia di servizi di sicurezza privata
Politiche legislative e attività istituzionale
Schede di approfondimento
Iniziative di riforma istituzionale
Nella seduta dell’8 maggio 2007, la Commissione affari costituzionali della Camera iniziava l’esame di due proposte di legge costituzionale (A.C. 2335, on. Boato e A.C. 2479, on. Zaccaria) entrambe recanti modifiche agli articoli 92 e 94 della Costituzione in materia di forma di Governo. Nel corso dell’esame risultavano abbinate altre 13 proposte, tutte di iniziativa parlamentare, intese a modificare anche altri articoli della Parte seconda della Costituzione.
Nel corso dell’esame parlamentare, dopo ampio dibattito, la Commissione si orientò verso un approfondimento dei temi del bicameralismo, della forma di governo e del procedimento di formazione della legge statale, tendenzialmente rinviando ad un successivo momento l’esame di proposte di revisione costituzionale aventi ad oggetto il riparto delle competenze tra Stato e Regioni.
Nella seduta del 12 giugno 2007 i due relatori (on. Amici ed on. Bocchino, rispettivamente appartenenti a gruppi di maggioranza e di opposizione) presentavano una proposta di testo unificato che, riformulata nel corso delle sedute successive, veniva adottata quale testo base dalla Commissione nella seduta del 21 giugno.
L’esame proseguiva nel corso di numerose sedute sin quando, il 17 ottobre 2007, la Commissione dava mandato ai relatori di riferire favorevolmente all’Assemblea sul testo unificato, come risultante dalle modifiche approvate in sede referente, con il voto favorevole dei gruppi di maggioranza e l’astensione dei gruppi di opposizione.
La discussione in Aula cominciava il 22 ottobre 2007 e proseguiva per ulteriori sei sedute, sino al 13 novembre; l’Assemblea giungeva ad esaminare gli articoli 2 e 3 del testo unificato, approvando alcuni emendamenti; la fine anticipata della legislatura non consentiva la prosecuzione dell’esame.
Il testo licenziato dalla Commissione (A.C. 553 ed abb.-A) si compone di 22 articoli, che recano modifiche, più o meno ampie, a 28 articoli della Costituzione. A parte le novelle formali e di coordinamento, l’opera di revisione incide essenzialmente:
§ sul sistema bicamerale e sui limiti di età per l’elettorato attivo e passivo;
§ sulle modalità di esercizio della funzione legislativa dello Stato;
§ sulla forma di governo e sui rapporti tra Governo e Parlamento;
§ sui requisiti di età per l’elezione a Presidente della Repubblica.
Si rinvia al testo a frontepresente nel dossier ipertestuale su CD-ROM per un puntuale raffronto tra il testo vigente della Costituzione e le modifiche apportate dal testo unificato.
Il progetto di riforma costituzionale sostituisce il Senato della Repubblica previsto dalla Costituzione vigente con un “Senato federale della Repubblica”.
Due caratteristiche fondamentali connotano il nuovo organo parlamentare (cfr. artt. 1 e 3 del testo):
§ l’abbandono della legittimazione universale e diretta (ora, art. 58 Cost.) in favore delle elezione di secondo grado ad opera dei “poteri locali”, delle cui istanze il Senato, denominato per l’appunto federale, diviene “rappresentante”, principalmente nel procedimento di formazione delle leggi;
§ l’abbandono del bicameralismo paritario, in favore della distinzione delle funzioni delle due Camere e della riconduzione unitaria alla Camera dei deputati della responsabilità politica generale (rapporto di fiducia).
Congiuntamente, i nuovi artt. 57 e 70 della Costituzione (rispettivamente, artt. 3 e 7 della proposta di legge) disegnano un Senato che ha natura e funzioni di Camera federale, alla quale i senatori sono eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle autonomie locali e nella quale i senatori partecipano alla formazione delle leggi istituzionali e di quelle che incidono sulle potestà e sulle risorse finanziarie delle autonomie regionali e locali, ma non conferiscono la fiducia al Governo e, pertanto, non ne condizionano durata e poteri.
Da questo nucleo di trasformazioni si dipartono numerose altre modifiche recate da vari articoli del testo, che incidono su altrettante disposizioni della Costituzione vigente, per adattare al “Senato federale” gli istituti che esse disciplinano. Così è, in particolare, con riguardo al nome (art. 55, co. 1°, Cost.), al rapporto di fiducia (art. 94), alla sottrazione del Senato al potere di scioglimento del Capo dello Stato (art. 88, co. 1°): rispettivamente, artt. 1, 15 e 13, co. 6, della proposta di legge.
Il Senato federale della Repubblica, come definito dal nuovo testo dell’art. 57 Cost., risulta composto da 186 senatori:
§ 180 eletti nel territorio nazionale, secondo la nuova legittimazione elettorale passiva,
§ 6 eletti nella Circoscrizione estero, secondo la disciplina per essi oggi vigente (L. 459/2001: ma sul punto, vedi infra).
Dei 180 eletti nel territorio nazionale, 144 sono consiglieri regionali eletti dai rispettivi consigli e 36 sono componenti di consigli comunali, provinciali o di città metropolitane, eletti dai Consigli delle autonomie locali della regione o provincia autonoma.
Possono essere eletti senatori, dunque, soltanto i componenti dei consigli di regioni, province autonome ed enti locali territoriali. Con l’abrogazione dell’art. 58 Cost., inoltre, scompare il requisito dell’età minima, oggi prevista in 40 anni. L’elettorato attivo è conferito – “su base regionale”, così continua ad esprimersi anche il nuovo testo dell’art. 57 – ai consiglieri regionali in carica in ciascuna regione e provincia autonoma ed ai componenti il consiglio delle autonomie locali di quella stessa regione, per il numero di seggi ad esso spettante a ciascun organo. Per questa elezione la regione Trentino-Alto Adige è ripartita in due circoscrizioni, corrispondenti alle province autonome di Trento e di Bolzano.
Il numero dei senatori da eleggere in ciascuna regione e provincia autonoma è stabilito in base a classi di popolazione secondo l’ultimo censimento generale della popolazione. Schematicamente:
In base al censimento svoltosi nel 2001, la composizione del Senato federale risulterebbe, per il territorio nazionale, la seguente:
Due emendamenti approvati nel corso dell’esame in Assemblea[1] hanno apportato alcune modifiche a questa articolazione, prevedendo un’ulteriore fascia di popolazione (superiore a nove milioni) alla quale sono assegnati 14 senatori, e attribuendo due senatori (anziché uno) al Molise.
Due ulteriori emendamenti hanno disposto, rispettivamente, che il Presidente e gli altri componenti della Giunta regionale non sono eleggibili a senatore[2] e che il meccanismo elettorale deve tener conto delle esigenze di una equilibrata rappresentanza di genere[3].
Sia i consigli regionali, sia i consigli delle autonomie locali procedono alla elezione “con voto limitato”, così da consentire che siano rappresentate anche le minoranze.
Alla elezione dei senatori si procede entro trenta giorni dalla prima riunione (successiva alla sua elezione) del Consiglio regionale o delle Province autonome di Trento e Bolzano. Questa scelta fa del Senato federale un organo permanente, soggetto a rinnovi parziali dei suoi membri in concomitanza con il rinnovo dei Consigli delle rispettive regioni o province autonome.
Nessuna modifica è apportata agli artt. 66-69 Cost., che disciplinano aspetti importanti dello status di parlamentare: il giudizio sui titoli di ammissione e sulle cause di ineleggibilità e incompatibilità, il divieto del vincolo di mandato, le guarentigie penali, le indennità.
In connessione con quanto stabilito dal nuovo testo dell’art. 57 Cost., co. 2°, 4° e 5°, sulla elezione dei senatori ad opera dei consigli delle autonomie locali, l’art. 18 del testo in esame introduce un nuovo comma nell’art. 123 della Costituzione, nel quale attribuisce alla legge dello Stato la disciplina dei “principi fondamentali per la formazione e la composizione dei consigli delle autonomie locali”. La nuova disposizione integra quanto disposto dal comma precedente, ove si stabilisce che “lo statuto [regionale] disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”.
L’art. 2 del progetto di legge modifica l’art. 56 della Costituzione intervenendo sulla composizione della Camera dei deputati e sull’età per l’eleggibilità a deputato: il numero dei deputati viene ridotto da 630 a 512 e l’età minima per poter essere candidati è portata da 25 anni a 18 anni.
L’art. 2, co. 1, sostituendo il secondo comma dell’art. 56 Cost., riduce a 512 il numero di deputati, compresi i 12 deputati eletti nella circoscrizione Estero (ma sul punto, vedi infra).
Si tratta di una riduzione consistente, 128 membri, pari al 20,3 per cento dell’attuale numero. Una conseguenza della diminuzione è il proporzionale aumento del peso percentuale dei deputati eletti all’estero, il cui numero viene lasciato immutato (ma si veda oltre il paragrafo dedicato a “I deputati e i senatori eletti all’estero”).
Sull’opportunità di una riduzione del numero dei deputati si è registrato un ampio consenso in sede referente, principalmente sulla base di tre esigenze:
§ snellimento delle procedure;
§ riduzione delle spese per le istituzioni;
§ allineamento agli standard internazionali.
Ancor prima dell’inizio del dibattito in sede referente, il ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, audito dalla I Commissione sulle questioni relative alla riforma delle Costituzione, aveva indicato come opportuna una riduzione dei deputati, esprimendo una preferenza per 450 deputati e 225 senatori, ma ritenendo soddisfacente anche la soluzione prospettata nel testo della riforma approvata nella XIV legislatura (518 deputati e 252 senatori)[4]. Il Governo ha ribadito questa posizione nella Dichiarazione del Governo sulle riforme istituzionali, deliberata dal Consiglio dei ministri il 28 settembre 2007, riducendo ulteriormente il numero di parlamentari (450 deputati e 200 senatori).
Il co. 2 dell’art. 2 contiene una norma di coordinamento, conseguente alla diminuzione del numero dei deputati, che stabilisce che la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni si debba effettuare dividendo il numero degli abitanti per 500 e non più per 618. L’assegnazione dei seggi conseguente alla diminuzione del numero dei deputati (ferme restando le attuali circoscrizioni elettorali) è riportata nella tabella che segue.
Il co. 3 dell’art. 2 modifica il terzo comma dell’art. 56 Cost., portando da 25 a 18 anni l’età minima per essere eletto deputato.
L’abbassamento dell’età per l’eleggibilità ha, in primo luogo, l’obiettivo di favorire la partecipazione dei giovani alla politica consentendo una maggiore rappresentanza delle giovani generazioni alla Camera[5]. Inoltre, la disposizione consente di superare l’incoerenza dell’attuale sistema che permette ad es. l’elezione di un cittadino di 18 anni alla carica di Presidente di regione e non anche a quella di deputato[6]. A queste motivazioni, per così dire preesistenti al progetto di riforma, deve essere aggiunta la necessità di equilibrare l’età della rappresentanza tra la Camera e il nuovo Senato federale come risultante dall’art. 3 del progetto di riforma. Infatti, l’elezione indiretta del Senato da parte dei Consigli regionali e dei Consigli delle autonomie locali che eleggono i senatori al proprio interno (i primi) e tra i consiglieri degli enti locali (i secondi), apre di fatto l’elettorato passivo ai diciottenni per questo ramo del Parlamento.
Relativamente ai deputati e ai senatori eletti nella circoscrizione Estero (prevista dall’art. 48 Cost.), il testo licenziato dalla Commissione non modifica l’attuale situazione, con riguardo alla loro presenza in entrambe le Camere, così come al numero (sei al Senato, dodici alla Camera).
Nel corso dell’esame in sede referente si è peraltro discusso dell’opportunità di un adeguamento che tenesse conto sia dell’avvenuta diversificazione tra i due rami del Parlamento, sia della consistente riduzione del numero dei parlamentari eletti sul territorio nazionale (come si è detto, i deputati si riducono a 500 mentre, in base all’attuale distribuzione della popolazione tra le Regioni, il numero dei senatori risulta di 180).
La questione dei parlamentari eletti all’estero è stata a lungo dibattuta in Commissione senza giungere ad una soluzione condivisa. Ferma restando la convinzione di mantenere un sistema di rappresentanza degli italiani all’estero, in conformità al disposto dell’art. 48 Cost., si è deciso, pertanto, di mantenere inalterata la situazione attuale avendo presente che la questione non deve ritenersi definitiva, e rimettendo la decisione all’Assemblea[7].
Nel corso dell’esame in Assemblea, l’approvazione di due emendamenti[8] determinava l’attribuzione al Senato federale ed alla Camera, rispettivamente, di 12 e di 6 componenti eletti nella Circoscrizione estero.
L’art. 7 sostituisce integralmente l’art. 70 della Costituzione, che disciplina l’esercizio della funzione legislativa da parte delle Camere.
Nella vigente formulazione, l’art. 70 si limita a disporre che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Il nuovo testo, necessariamente più articolato, mira al superamento del “bicameralismo perfetto”, in virtù del quale ciascun progetto di legge deve essere approvato, in eguale testo, da entrambi i rami del Parlamento.
La nuova configurazione del procedimento di formazione delle leggi dello Stato appare strettamente correlata con le disposizioni recate dalla restante parte dell’articolato, che da un lato mutano la denominazione e la composizione del Senato, facendone la Camera rappresentativa delle realtà territoriali, dall’altro attribuiscono alla sola Camera dei deputati la titolarità del rapporto fiduciario.
Essa risponde anche al dichiarato intendimento di semplificare e velocizzare il procedimento legislativo definendo, nei limiti del possibile, i tempi di esame e limitando le ipotesi di navette tra le due Camere che spesso determinano il prolungamento dei tempi della decisione parlamentare.
Il nuovo art. 70 Cost., novellato dall’art. 7 del testo unificato, configura tre diversi procedimenti per l’esercizio della funzione legislativa dello Stato; essi trovano applicazione con riguardo a distinte categorie di leggi, in ragione delle quali comportano gradi e modalità diverse di partecipazione delle due Camere:
§ un procedimento bicamerale a carattere paritario, nel quale, non diversamente da oggi, Camera e Senato federale esercitano collettivamente la funzione legislativa;
§ un procedimento bicamerale in cui il ruolo della Camera dei deputati appare prevalente, ad essa spettando sia l’esame del testo in prima lettura, sia la deliberazione definitiva sulle modifiche eventualmente apportate dal Senato federale;
§ un terzo procedimento, anch’esso bicamerale, nel quale è invece riservato al Senato l’esame del progetto di legge in prima lettura, spettando tuttavia alla Camera l’approvazione definitiva.
Nel secondo e nel terzo procedimento la Camera è chiamata a deliberare, in determinate ipotesi, a maggioranza assoluta dei componenti.
In linea di massima, e salvo alcune eccezioni, la ratio che sembra ricavabile da tale tripartizione vede l’apporto del Senato federale alla decisione legislativa pieno e del tutto parificato a quello della Camera nei casi in cui la materia trattata attiene alle scelte “di sistema”, che direttamente incidono sull’assetto costituzionale della Repubblica o che definiscono il quadro delle regole generali che presiedono ai rapporti tra lo Stato e gli altri enti che, ai sensi dell’art. 114 Cost., “costituiscono” la Repubblica (le Regioni, le Province, i Comuni, le Città metropolitane).
Si tratta di scelte la cui definizione si ritiene debba essere sottratta alla piena disponibilità della sola maggioranza di Governo, richiedendo auspicabilmente un consenso più ampio, che includa la rappresentanza politica delle realtà territoriali. È infatti appena il caso di ricordare che, nel sistema delineato dal testo in esame, il Governo gode solo alla Camera dei deputati del sostegno della “sua” maggioranza politica e non ha la possibilità di indirizzare il voto del Senato federale utilizzando lo strumento della questione di fiducia.
Con riguardo alla restante attività legislativa, nella quale ordinariamente si attua l’indirizzo politico del Governo e della sua maggioranza, l’apporto del Senato federale resta presente, ma le sue deliberazioni non sono mai in grado di trasformarsi in un veto non superabile dalla Camera dei deputati, onde evitare che ciò paralizzi l’iter legislativo e impedisca l’attuazione del programma sul quale il Presidente del Consiglio ha ottenuto la fiducia della Camera. Il peso istituzionale delle deliberazioni del Senato federale risulta peraltro rafforzato quando l’iter legislativo abbia ad oggetto materie che più da vicino incidono sul rapporto Stato-autonomie territoriali.
Il procedimento “bicamerale paritario”, disciplinato dal primo comma del nuovo art. 70 Cost., non presenta differenze rispetto a quello oggi in vigore; esso esige pertanto che i due rami del Parlamento esaminino, in successive letture, il progetto di legge e lo approvino nel medesimo testo. Tale procedimento trova peraltro applicazione solo per un limitato insieme di provvedimenti.
Si tratta in particolare:
§ delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali: per esse resta ferma la procedura di cui all’art. 138 Cost., che richiede la doppia lettura da parte delle due Camere e consente il ricorso al referendum (lett. a));
§ delle leggi in materia elettorale (il testo sembra far riferimento sia alla disciplina delle elezioni europee, sia a quelle politiche, sia a quelle amministrative) (lett. b));
§ delle leggi che disciplinano gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (lett. c));: il testo riprende qui testualmente la formulazione dell’art. 117, secondo co., lettera p), Cost.);
§ delle leggi dello Stato che disciplinano (lett. d)):
- l’ordinamento di Roma, capitale della Repubblica, ai sensi dell’art. 114, co. 3°, Cost.;
- l’attribuzione a Regioni a statuto ordinario di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo la procedura di cui all’art. 116, co. 3°, Cost.;
- le modalità procedurali e l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato con riguardo alla partecipazione delle Regioni alla “fase ascendente” e alla “fase discendente” del diritto comunitario e all’esecuzione degli accordi internazionali (art. 117, co. 5°, Cost.), nonché il “potere estero” delle Regioni (art. 117, co. 9°, Cost.);
- le procedure per l’esercizio (nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione) dei poteri sostitutivi del Governo nei confronti di Regioni ed enti locali (art. 120, co. 2°);
- i princìpi fondamentali concernenti il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali (art. 122, co. 1°, Cost.; nel rispetto di tali princìpi, la disciplina delle materie indicate è rimessa alla legge regionale);
- i princìpi fondamentali per la formazione e la composizione dei Consigli delle autonomie locali (art. 123, co. 5°, Cost.: si tratta, come già ricordato, di un comma introdotto dall’art. 18 del testo unificato);
- il passaggio di Province o Comuni da una Regione ad un’altra (art. 132, co. 2°, Cost.), il mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province (art. 133, co. 1°, Cost.);
§ delle leggi istitutive e regolative delle Autorità di garanzia e di vigilanza (lett. e));
§ delle leggi in materia di tutela delle minoranze linguistiche (lett. f)).
Quanto alla lett. e), va segnalato che tramite il richiamo alle leggi regolatrici, le Autorità indipendenti trovano per la prima volta un’esplicita menzione (e un riconoscimento) nella Carta costituzionale[9].
Il procedimento “normale” di esame e di approvazione delle leggi è definito dal terzo comma dell’art. 70 Cost. riformulato.
Esso prevede che la generalità dei progetti di legge ordinaria sia esaminata e approvata in prima lettura dalla Camera dei deputati. Il testo è quindi trasmesso al Senato federale della Repubblica.
Quest’ultimo ha facoltà di esaminare il testo approvato dalla Camera, ma solo se ne faccia richiesta almeno un quinto dei suoi componenti. L’esame deve ultimarsi entro trenta giorni dalla trasmissione: tale termine è ridotto alla metà per i disegni di legge di conversione di decreti-legge, ed è finalizzato all’eventuale approvazione di modifiche.
Qualora il Senato federale non avvii l’esame o, comunque, non giunga ad ultimarlo entro il termine costituzionale, il procedimento di approvazione della legge si intende concluso ed il testo approvato dalla Camera in prima (e unica) lettura è promulgato dal Capo dello Stato (salva la facoltà di rinvio ex art. 74 Cost.) e pubblicato.
Quando invece il Senato federale abbia approvato modifiche, il testo è nuovamente sottoposto all’esame della Camera dei deputati, alla quale spetta pronunciarsi in via definitiva.
Una variante del procedimento, volta a valorizzare il ruolo del Senato federale, è prevista dal secondo periodo del comma: se le deliberazioni modificative riguardano determinate materie di precipuo interesse regionale, ad esse è attribuita un’efficacia per dir così “rinforzata”: la Camera può in tali casi discostarsi da quanto il Senato federale ha deliberato solo votando a maggioranza assoluta dei propri componenti.
Le materie su cui tale maggioranza qualificata è richiesta sono le seguenti:
§ il conferimento di funzioni amministrative ai diversi livelli di governo previsto dall’art. 118, co. 2°, Cost. e il coordinamento dell’attività amministrativa tra Stato e Regioni in materia di immigrazione, ordine pubblico e sicurezza e tutela dei beni culturali di cui all’art. 118, co. 3°, Cost.;
§ l’istituzione di un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, previsto dall’art. 119, co. 3°, Cost. quale strumento volto a realizzare l’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali;
§ la destinazione da parte dello Stato di risorse aggiuntive e l’effettuazione di interventi speciali in favore di determinati enti territoriali (art. 119, co. 5°, Cost.) al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economici e sociali, favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni;
§ la definizione dei princìpi generali relativi all’attribuzione del patrimonio delle Regioni e degli enti locali (art. 119, co. 6°, Cost.).
Il secondo comma del nuovo art. 70 Cost. individua una terza modalità di approvazione delle leggi, il cui il ruolo del Senato è ancor più valorizzato.
Essa è riservata unicamente alle leggi statali “che hanno lo scopo di determinare i princìpi fondamentali” nelle materie rientranti nella competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, ai sensi dell’art. 117, co. 3°, Cost..
I relativi progetti di legge sono individuati dai Presidenti delle due Camere, d’intesa tra loro, per essere assegnati al Senato federale della Repubblica che, dunque, li esamina sempre in prima lettura.
Il testo esaminato ed eventualmente emendato dal Senato federale è trasmesso, dopo l’approvazione, alla Camera dei deputati, alla quale spetta l’esame in seconda lettura e l’approvazione in via definitiva (è dunque esclusa ogni ipotesi di “navette”). Nel corso di tale esame la Camera può certamente modificare il testo approvato dal Senato federale: ma qualsiasi emendamento dovrà essere approvato a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea.
La prevista intesa tra i due Presidenti sembra volta a prevenire l’insorgere di conflitti di competenza, non improbabile in considerazione della non sempre univoca individuabilità della materia (o delle materie) oggetto dei disegni di legge. È in effetti un dato di comune esperienza la compresenza, all’interno della gran parte dei provvedimenti legislativi statali, sia di norme afferenti a materie rientranti nella competenza esclusiva dello Stato, sia di princìpi fondamentali concernenti materie di competenza concorrente Stato-Regioni[10].
Gli artt. 14 e 15 del testo unificato intervengono rispettivamente sugli artt. 92 e 94 della Costituzione, che disciplinano la formazione del Governo e il rapporto di fiducia tra questo e il Parlamento. La finalità perseguita è duplice: valorizzare la posizione del Presidente del Consiglio – sia nell’ambito dell’Esecutivo, sia nei rapporti con il Parlamento – e superare il bicameralismo perfetto che caratterizza la forma di governo parlamentare italiana, differenziando le due Camere sotto il profilo del rapporto fiduciario.
Tali obiettivi – come si è visto – rappresentano un elemento comune all’intero progetto di riforma costituzionale, ponendosi pertanto in relazione con altre disposizioni del progetto stesso, e in particolare con quelle concernenti la nuova composizione del Senato e le nuove modalità di esercizio della funzione legislativa.
La prima innovazione recata al secondo comma dell’art. 92 della Costituzione dall’art. 14 del progetto in esame prevede che il Capo dello Stato nell’affidare l’incarico per la formazione di un nuovo Governo sia tenuto a valutare i risultati delle elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati, con ciò introducendo nel testo costituzionale una disciplina della fase che precede la nomina formale dell’esecutivo da parte del Presidente della Repubblica, attualmente regolamentata esclusivamente da consuetudini, convenzioni e prassi.
La prevista valutazione dei risultati elettorali pare meglio attagliarsi ad una disciplina elettorale che preveda o consenta la formazione sin dalla fase pre-elettorale di coalizioni alternative che si candidino al Governo. In mancanza di una disciplina così caratterizzata – peraltro conforme alla vigente disciplina per l’elezione delle due Camere – il vincolo derivante dalla formulazione introdotta di fatto si allenterebbe, finendo in sostanza per indicare la necessità per il Presidente della Repubblica di valutare l’esistenza di una maggioranza parlamentare che sostenga il Presidente del Consiglio da lui scelto.
L’art. 14 del testo conferisce al Presidente del Consiglio il potere di proporre al Capo dello Stato la revoca (oltre che la nomina) dei ministri.
Secondo il vigente co. 2° dell’art. 92 Cost., “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. La novella apportata prevede dunque che la proposta del Presidente del Consiglio possa avere ad oggetto sia la nomina, sia la revoca dei ministri.
La disposizione, come già evidenziato, mia a valorizzare il ruolo di direzione della politica generale del Governo attribuito dall’art. 95 della Costituzione al Presidente del Consiglio, rafforzandone i poteri nei confronti dei singoli ministri, in linea con quanto previsto dalle disposizioni costituzionali di alcuni dei principali Paesi europei.
Il testo non pone limiti espliciti al nuovo potere di (proporre la) revoca di un ministro. Ne consegue il riconoscimento al Presidente del Consiglio dei ministri della facoltà di sostituire uno o più ministri in ogni caso in cui valuti necessario od opportuno un avvicendamento. Resta comunque ferma in capo al Presidente della Repubblica la competenza ad assumere la relativa decisione, accogliendo (ovvero, in casi presumibilmente eccezionali, respingendo) la proposta di revoca: non si è infatti voluto modificare o indebolire quella funzione di controllo (in senso lato) e di mediazione istituzionale che il Capo dello Stato ha occasione di esercitare (con modalità informali e di norma riservate) in un passaggio particolarmente delicato quale quello che conduce a una modifica nella composizione del Governo.
L’art. 15 del progetto in esameintroduce modifiche alla disciplina del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento recata dall’art. 94 della Costituzione, intervenendo tanto sul momento costitutivo del rapporto di fiducia che sulla disciplina della mozione di sfiducia.
Con riferimento alla costituzione del rapporto di fiducia la riscrittura dell’art. 94 introduce due rilevanti elementi di novità:
§ la fiducia iniziale è accordata non più al Governo (come prevede la Costituzione vigente), bensì al Presidente del Consiglio dei ministri, che a tal fine presenta il Governo alla Camera entro dieci giorni dalla sua formazione;
§ la fiducia è accordata o revocata non più da entrambe le Camere, bensì dalla sola Camera dei deputati.
In sintesi, il rapporto fiduciario non intercorre più tra l’Esecutivo e ciascuna delle due Camere, bensì tra il Presidente del Consiglio e la Camera dei deputati. Si potrebbe altresì affermare che il Governo che formerebbe oggetto del voto di fiducia sarebbe identificato non più (o non tanto) dalla sua composizione, bensì dall’identità del Presidente del Consiglio: pur se deve osservarsi che, in base alla stessa formulazione della novella, il dibattito parlamentare e il voto sulla fiducia interverrebbero, non diversamente da oggi, solo successivamente alla formazione del Governo, che il Presidente del Consiglio “presenterebbe” alla Camera per ottenere la fiducia.
In virtù del secondo elemento di novità introdotto nell’art. 94 Cost., il Senato federale risulta escluso dal rapporto di fiducia. Tale significativa innovazione si inserisce, come si è più volte rilevato, nel quadro del più complessivo disegno volto al superamento del bicameralismo “paritario”, che costituisce uno dei tratti unificanti del progetto in esame.
In stretta correlazione con tale scelta si pone la modifica apportata al primo comma dell’art. 88 Cost. dall’art. 13 del progetto in esame, con la quale si è limitato alla sola Camera dei deputati il potere di scioglimento attribuito al Presidente della Repubblica (sul punto v. infra).
Quanto alle innovazioni previste in materia di mozione di sfiducia, la disposizione in esame modifica il co. 5° dell’art. 94 Cost., introducendo due rilevanti novità. La mozione di sfiducia dovrà essere:
§ firmata da almeno un terzo dei componenti della Camera dei deputati, anziché da un decimo, come previsto nel testo vigente;
§ approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera (il testo vigente non richiede un particolare quorum per l’approvazione).
Per un quadro sinottico delle modifiche apportate dal testo in commento alla forma di Governo ed ai rapporti tra organi costituzionali, si rinvia alle tavole riportate in calce alla presente sheda.
L’art. 8, aggiungendo un comma all’art. 72 della Costituzione, attribuisce al Governo il potere di incidere sui tempi parlamentari di esame e di approvazione delle leggi.
In particolare, viene data facoltà al Governo di chiedere che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno di ciascuna Camera e che, soprattutto, sia votato entro una data determinata.
Ai regolamenti parlamentari spetta l’individuazione dei limiti e dei modi per l’esercizio di tale facoltà. Una modalità (o piuttosto un limite) è indicata dalla medesima disposizione, laddove stabilisce che il termine temporale fissato per il voto deve essere in ogni caso sufficiente per consentire un “adeguato” esame del disegno di legge da parte del Parlamento.
La disposizione, si è affermato nel corso del dibattito, tende ad assicurare la certezza della decisione[11] e risponde alla finalità di snellire e razionalizzare le procedure[12]. Essa, inoltre, potrebbe fornire al Governo un mezzo alternativo al ricorso al voto di fiducia, spesso utilizzato per assicurare l’approvazione in tempi determinati di provvedimenti quali i disegni di legge di conversione di decreti-legge soggetti a decadenza se non approvati celermente.
Gli artt. 10 e 11 introducono ulteriori strumenti di garanzia a favore dell’istituzione parlamentare, limitando o sottoponendo a controllo l’esercizio del potere legislativo da parte del Governo nelle due ipotesi in cui la Costituzione lo consente: la delegazione legislativa e la decretazione d’urgenza.
In particolare, l’art. 10, aggiungendo un comma all’art. 76 Cost., stabilisce che tutti gli schemi di decreti legislativi predisposti dal Governo siano sottoposti al parere delle Commissioni parlamentari competenti. È così generalizzato e costituzionalizzato un obbligo, quello del parere parlamentare, oggi previsto unicamente a livello di legislazione ordinaria e solo in determinati casi, dalle rispettive leggi di delega[13].
L’art. 11 sostituisce interamente l’art. 77 Cost., che disciplina la decretazione d’urgenza, pur conservando alcuni degli elementi che ne caratterizzano la vigente stesura.
Benché riformulato, il primo comma dell’art. 77 resta immutato quanto al significato sostanziale: viene mantenuto l’espresso divieto al Governo di emanare (senza delega del Parlamento) decreti che abbiano valore di legge ordinaria, divieto che attribuisce natura derogatoria alla disciplina recata dai commi successivi.
Per quanto riguarda l’ambito di intervento dei decreti-legge (secondo comma), il Governo può ricorrere alla loro adozione soltanto in casi straordinari di necessità ed urgenza. Tale requisito costituzionale è identico a quello richiesto dall'attuale art. 77, così come l’obbligo per il Governo di presentare immediatamente i provvedimenti d’urgenza per la loro conversione in legge alle Camere, che devono riunirsi entro cinque giorni.
Le innovazioni più rilevanti sono contenute nel quarto comma del nuovo art. 77. La disposizione in questione delimita l’esercizio del potere del Governo di adottare provvedimenti d’urgenza, recependo tra l’altro a livello costituzionale alcuni dei vincoli attualmente posti dall’art. 15 della L. 400/1988, ai quali si è di fatto talvolta derogato, in quanto posti con legge ordinaria.
In particolare, con il decreto-legge non è possibile:
§ rinnovare disposizioni di decreti non convertiti in legge;
§ ripristinare l'efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale;
§ conferire deleghe legislative;
§ attribuire poteri regolamentari in materie già disciplinate con legge[14].
Il quinto comma dell’art. 77, infine, precisa che la conversione in legge deve essere effettuata secondo i procedimenti legislativi di volta in volta previsti dall’art. 70 per la materia oggetto del decreto-legge.
A parte quanto detto innanzi con riguardo al potere di nomina del Presidente del Consiglio (che il Capo dello Stato esercita “valutati i risultati delle elezioni per la Camera dei deputati”), il testo in esame incide sulla figura del Presidente della Repubblica con l’art. 13, che apporta varie modifiche agli artt. da 83 a 88 della Costituzione.
La modifica che appare più rilevante e innovativa è quella recata dal co. 2 dell’art. all’art. 84 Cost.. In virtù di essa l’età minima che (insieme alla cittadinanza e al godimento dei diritti civili e politici) costituisce il solo requisito per l’elezione alla carica di Presidente della Repubblica è abbassata dagli attuali cinquanta a quaranta anni.
Le altre modifiche, pur rilevanti, hanno finalità di coordinamento. Tra queste si ricordano:
§ l’abrogazione del co. 2°dell’art. 83 Cost., ove si prevede che il Parlamento in seduta comune, in occasione dell’elezione del Capo dello Stato, sia integrato con la presenza di tre delegati per ogni Regione (uno per la Valle d’Aosta), eletti dal Consiglio regionale, previsione che appare non più necessaria alla luce della composizione del Senato federale;
§ la riformulazione dell’art. 86 Cost., che attribuisce al Presidente della Camera – anziché a quello del Senato – le funzioni di supplenza in caso di temporaneo impedimento del Capo dello Stato;
§ la novella al co. 1° dell’art. 88, che limita l’esercizio del potere di scioglimento presidenziale alla sola Camera dei deputati.
L’art. 19 del progetto di legge modifica il primo comma dell’art. 126 della Costituzione, relativo allo scioglimento dei Consigli regionali e alla rimozione dei Presidenti delle Giunte regionali, prevedendo che il parere sul decreto di scioglimento, oggi espresso dalla Commissione per le questioni regionali, dovrà essere richiesto ai Presidenti delle Camere.
L’art. 21 del progetto di legge reca la disciplina relativa alle modalità e ai tempi di attuazione della riforma.
Il co. 1 dispone che quanto previsto dal provvedimento in esame trovi applicazione dall’avvio della legislatura successiva a quella di entrata in vigore del provvedimento.
Come specificato al co. 3, le leggi statali di cui agli artt. 57 e 123 Cost. (modalità di elezione del Senato federale e princìpi fondamentali per la composizione dei Consigli delle autonomie locali) dovranno essere approvate entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale.
Quando, in assenza della norma disciplinatrice o per ritardo nei successivi adempimenti, i Consigli risultino non ancora costituiti alla data delle elezioni – e nelle sole Regioni in cui ciò avvenga – i senatori in rappresentanza delle autonomie locali saranno eletti dal Consiglio regionale (o della Provincia autonoma).
L’art. 22 del testo in esame riproduce la cosiddetta clausola di migliore trattamento delle regioni a statuto speciale, già posta dall’art. 10 della L.Cost. 3/2001 (di riforma del Titolo V[15]), secondo cui, sino all'adeguamento degli statuti, le disposizioni della riforma “si applicano anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
La forma di governo e il
rapporto tra organi costituzionali
secondo la Costituzione vigente
La forma di governo e il rapporto tra
organi costituzionali
secondo l’A.C. 553 e abb.-A
Iniziative di riforma elettorale
Il sistema elettorale vigente, introdotto sul finire della XIV legislatura dalla L. 270/2005[16] è orientato in senso interamente proporzionale, con premio di maggioranza e articolate soglie di sbarramento per liste e coalizioni.
Ai fini dell’elezione della Camera la legge prevede, in estrema sintesi, che:
§ i partiti politici che intendono presentare liste di candidati possono collegarsi tra loro in coalizioni; i partiti che si candidano a governare presentano il loro programma e indicano il nome del loro leader. I partiti collegati in coalizione depositano lo stesso programma e indicano il nome del capo della coalizione;
§ l’elettore esprime un solo voto per la lista di candidati prescelta; non è prevista l’espressione di preferenze;
§ i seggi sono ripartiti proporzionalmente, in ambito nazionale[17], tra le coalizioni di liste e le liste che abbiano superato le soglie di sbarramento previste dalla legge. Sono previste soglie di sbarramento per le coalizioni nel loro complesso (10% del totale dei voti validi[18]), per le liste che non facciano parte di una coalizione ammessa alla ripartizione (4%), e per le liste che ne facciano parte, ai fini della ripartizione dei seggi già assegnati alla coalizione (2%[19]).
§ alla coalizione di liste (o alla lista non coalizzata) più votata, qualora non abbia già conseguito almeno 340 seggi, è attribuito un premio di maggioranza tale da farle raggiungere tale numero di seggi;
§ l’assegnazione dei seggi spettanti in ogni circoscrizione alle coalizioni e alle liste ha luogo secondo un complesso meccanismo ispirato anch’esso a criteri di proporzionalità e accompagnato da procedure di correzione.
La disciplina per l’elezione del Senato è analoga a quella già descritta con riguardo alla Camera, ma presenta alcune differenze legate alla natura dell’organo, che è eletto “su base regionale” (art. 57, co. 1°, Cost.).In particolare:
§ i seggi sono ripartiti e assegnati in ambito regionale, e le soglie di sbarramento (più elevate[20]) sono anch’esse riferite al totale dei voti conseguiti nella Regione;
§ anche il premio alla coalizione o lista singola più votata è assegnato Regione per Regione, con l’attribuzione del 55% dei seggi spettanti alla Regione, qualora essa non abbia già conseguito tale risultato.
Il tema della revisione del sistema elettorale vigente per le elezioni di Camera e Senato ha assunto particolare rilievo nel dibattito pubblico e in quello politico sin dall’avvio della XV legislatura, anche in ragione dei risultati della consultazione elettorale svoltasi il 9 e 10 aprile 2006, che avevano mostrato una tendenza ad una elevata frammentazione del quadro politico e, specialmente al Senato, sembravano determinare problemi di governabilità.
In questo quadro, già nell’esposizione degli indirizzi programmatici del Governo in materia di riforme istituzionali il Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali evidenziava infatti come la maggioranza di Governo ritenesse necessaria una modifica alla legge elettorale vigente sia per ragioni attinenti al metodo della sua approvazione (in quanto la L. 270 è frutto di una modifica realizzata senza il concorso dell’opposizione) sia per motivi legati al contenuto delle disposizioni della legge elettorale, che determinerebbe in particolare effetti di “disfunzione e di contraddizione nel rapporto tra eletti e territorio”[21].
In quella fase, tuttavia, non ritenendosi opportuno avviare immediatamente la riforma del sistema elettorale[22], le indicazioni fornite dal Ministro si riferivano in via principale al metodo da seguire per l’elaborazione di una nuova legge, evidenziandosi come anche sulla legge elettorale – analogamente a quanto indicato per le riforme costituzionali – si dovesse procedere con ampie convergenze tra maggioranza ed opposizione.
Quanto ai contenuti della possibile riforma, il Ministro rilevava che dagli incontri avuti con i rappresentanti dei Gruppi parlamentari aveva tratto indicazioni in ordine alla prevalenza di un orientamento favorevole all’introduzione nel nostro sistema elettorale di elementi mutuati da quello attualmente vigente in Germania, mentre il ritorno a leggi organicamente maggioritarie non sembrava raccogliere la maggioranza dei consensi.
I tempi del dibattito, che sembravano essere non particolarmente stringenti al momento dell’avvio della legislatura, subirono tuttavia una prima accelerazione a seguito dell’avvio dell’iter della consultazione referendaria sui quesiti in materia elettorale promossa da un Comitato presieduto dal costituzionalista Giovanni Guzzetta (v. scheda I referendum elettorali, pag. 39).
La necessità di intervenire sulla legge elettorale vigente in tempi più rapidi e con il concorso di una ampia maggioranza parlamentare emerse con particolare evidenza anche nel corso della crisi del governo Prodi II[23] tra la fine del mese di febbraio e l’inizio del mese di marzo 2007. In quella circostanza, infatti, il Presidente della Repubblica - nell’esplicitare con una dichiarazione letta in pubblico i motivi per i quali aveva deciso di rinviare il Governo alle Camere al fine di verificare la sussistenza del rapporto fiduciario – sottolineava in particolare di non aver proceduto all’immediato scioglimento delle Camere, “sia alla luce di una costante prassi istituzionale, sia in considerazione di un giudizio largamente convergente, benché non unanime, sulla necessità prioritaria di una modificazione del sistema elettorale vigente”.
Il tema della necessità di un intervento di revisione della L. 270/2005 è stato successivamente ripreso anche dal Presidente del Consiglio nelle sue comunicazioni al Senato della Repubblica, svolte nella seduta del 27 febbraio 2007. In quella sede, il Presidente del Consiglio, rispondendo all’invito del Presidente della Repubblica, ribadiva l’impegno del Governo ad operare per una pronta riforma del sistema elettorale. Più in particolare, nell’affermare il carattere assolutamente prioritario della riforma, il Presidente del Consiglio precisava anche i ruoli che Governo e Parlamento avrebbero dovuto assumere nel processo di individuazione del nuovo sistema elettorale. Il Governo avrebbe cercato di favorire il raggiungimento di una intesa al riguardo, assumendo un ruolo di supporto e di accompagnamento delle riflessioni, che tuttavia avrebbero dovuto essere svolte in ambito parlamentare con la ricerca del più ampio consenso possibile.
Un quadro piuttosto approfondito in ordine alle direttrici per una possibile riforma del sistema elettorale vigente emerse nel dibattito politico, nonché alle diverse formule proposte dai diversi partiti, è stato quindi offerto dal Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali nell’aprile 2007 nel corso di due audizioni svolte presso le Commissioni Affari costituzionali dei due rami del Parlamento[24].
In quella sede, il Ministro sottolineava come, a seguito delle consultazioni con le diverse forze politiche, condotte in una prima fase sul finire del 2006 e successivamente nel marzo del 2007, in un ciclo di incontri ai quali aveva preso direttamente parte anche il Presidente del Consiglio dei ministri, si fossero andati delineando taluni obiettivi di carattere generale che il nuovo sistema elettorale avrebbe dovuto realizzare. In particolare, si evidenziava la necessità di:
§ preservare un assetto tendenzialmente bipolare del sistema politico, pur rispettandone gli aspetti pluralistici, sia nel momento della competizione elettorale sia nel corso della legislatura;
§ incentivare la stabilità e la coesione delle coalizioni;
§ prevedere meccanismi per avvicinare gli eletti agli elettori e per consentire a questi ultimi di incidere in modo più efficace sulla selezione dei candidati e degli stessi eletti;
§ valorizzare la democrazia dell'alternanza, senza tuttavia costringere i partiti politici ad un bipolarismo “coatto”, che rischia di portare alla creazione di schieramenti elettorali particolarmente ampi ed eterogenei al solo fine di conquistare il premio di maggioranza;
§ dare piena attuazione all'articolo 51 Cost., assicurando pari opportunità per entrambi i sessi per quanto riguarda non soltanto la presenza nelle liste elettorali, ma anche nelle assemblee elettive.
Quanto alle concrete soluzioni per realizzare tali obiettivi, il Ministro Chiti proponeva[25] una ipotesi di riforma basata sulla divisione dei seggi da assegnare in due grandi quote:
§ una quota attorno al 90 per cento da assegnare secondo il sistema proporzionale alle liste che abbiano superato una soglia di sbarramento[26] uguale per le liste coalizzate e per quelle non coalizzate, senza misure di favore per la miglior lista perdente;
§ la seconda quota (pari a circa il 10 per cento) rappresenterebbe il premio di maggioranza per la coalizione o la lista vincente che abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti[27].
Per rafforzare il rapporto tra i cittadini e gli eletti, l’ipotesi prospettata dal Ministro faceva invece leva esclusivamente sull’aumento del numero delle circoscrizioni, che avrebbe determinato una riduzione del numero dei candidati presenti nelle liste, che comunque sarebbero rimaste “bloccate”, in modo da consentire ai partiti politici interessati l’effettuazione di elezioni “primarie”.
Nella seduta del 29 novembre 2006, la 1a Commissione del Senato aveva avviato l’esame di tre proposte di legge[28] e di due petizioni popolari in materia di riforma del sistema elettorale vigente per le elezioni della Camera e del Senato Come peraltro rilevato dal presidente della Commissione, sen. Bianco, relatore sul provvedimento, la materia sarebbe tuttavia stata affrontata attraverso un ampio confronto, che si sarebbe sviluppato solo successivamente alla presentazione di ulteriori iniziative in materia.
In quella fase, pertanto, si richiamavano anche i contenuti delle iniziative referendarie in materia, il cui iter aveva di recente preso avvio, nonché i tratti fondamentali di alcune delle proposte di riforma che all’epoca erano oggetto di attenzione nell’ambito del dibattito pubblico sul tema della riforma del sistema elettorale.
Venivano in particolare, richiamati i contenuti della c.d. “proposta D’Alimonte”, che prende il nome dal costituzionalista Roberto D’Alimonte ed era stata da questi più volte esposta in una serie di scritti pubblicati tra il finire del 2006 ed i primi mesi dei 2007[29] come una soluzione “di ripiego” rispetto alla reintroduzione del sistema maggioritario, che però – diversamente da questa -avrebbe avuto possibilità di essere realizzata nel corso della legislatura.
La proposta si basava su alcune puntuali modifiche alla legge elettorale vigente, le quali – senza modificare l’impianto fondamentale della L. 270 - miravano a migliorarne l’applicazione rafforzando gli elementi volti ad assicurare minore frammentazione politica, maggiore governabilità e maggiore partecipazione dei cittadini alla scelta dei candidati eletti.
In particolare, accanto a modifiche di minore portata, si proponeva di:
§ attribuire anche al Senato il premio di maggioranza a livello nazionale e non più a livello regionale;
§ riconoscere anche per le elezioni del Senato l’elettorato attivo a tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età;
§ abolire sia alla Camera che al Senato la possibilità di candidature “plurime”;
§ conteggiare, ai fini dell’assegnazione del premio di maggioranza, solo i voti delle liste che abbiano raggiunto le soglie di sbarramento previste per l’assegnazione dei seggi;
§ introdurre meccanismi che consentano agli elettori di scegliere i candidati da eleggere, in particolare valutando la possibilità di prevedere - come avviene nel sistema elettorale tedesco – che la metà dei parlamentari sia eletto in collegi uninominali e la metà in base a liste “bloccate;
§ includere i voti espressi nella Valle d’Aosta nel calcolo per l’attribuzione del premio di maggioranza alla Camera.
Durante la fase di approfondimenti istruttori condotti dal Governo tra le diverse forze politiche (v. supra) tra la fine del 2006 ed i primi mesi del 2007, l’esame è quindi proseguito in modo piuttosto discontinuo[30]. Nella seduta del 16 maggio 2007, quando risultavano abbinate 10 proposte di legge di iniziativa parlamentare e 5 petizioni, di contenuto assai eterogeneo, il relatore preannunciava[31] peraltro la presentazione, successivamente alla conclusione del turno elettorale amministrativo[32], di una proposta di testo unificato in materia.
Una accelerazione dei tempi di esame fu quindi perseguita attraverso la dichiarazione d’urgenza dell’affare inerente alla revisione delle leggi elettorali, la quale fu approvata dall’Assemblea del Senato[33] nella seduta del 7 giugno 2007.
Nell’illustrare la richiesta della dichiarazione di urgenza, il presentatore, sen Calderoli, indicava come potesse essere fissato intorno al 28 giugno il termine complessivo per individuare una forma di mediazione rispetto alle scadenze di tutti i provvedimenti. Detto termine, in particolare, avrebbe dovuto consentire al Parlamento di procedere all’individuazione di una nuova legge elettorale, o – eventualmente – di decidere di ritornare al sistema vigente anteriormente alla riforma del 2005, senza rimettere le decisioni in materia all’esito della consultazione referendaria, il cui iter stava in quel periodo proseguendo con la raccolta delle firme.
Sulla dichiarazione di urgenza si realizzò un’ampia convergenza ed anche il Governo espresse il proprio sostegno all’iniziativa[34]: la richiesta venne quindi approvata – secondo quanto precisato dal richiedente - con l’indicazione che, trattandosi di provvedimenti presentati in tempi diversi, il termine di scadenza per l’esame in Commissione era fissato al 28 giugno 2007.
Un primo schema di testo viene illustrato dal presidente Bianco, in qualità di relatore, nella seduta del 4 luglio 2007. Si tratta, in sostanza di un documento di lavoro elaborato dal relatore, che si è riservato di formalizzare in un secondo momento – alla luce delle eventuali osservazioni emergenti dal dibattito in Commissione – una vera e propria proposta di testo unificato delle proposte di legge in materia elettorale, da assumere successivamente quale possibile testo base per il seguito dell’esame parlamentare.
Su un piano generale, il relatore ha sottolineato come le disposizioni contenute nello schema proposto, che tengono conto delle indicazioni emerse dalle consultazioni con le forze politiche ed i Gruppi parlamentari svolte dal Ministro Chiti e fanno propri gli elementi di alcune delle proposte esaminate dalla 1a Commissione del Senato sui quali si è registrata una più ampia convergenza, intendono perseguire principalmente due ordini di obiettivi:
§ assicurare la governabilità e di ridurre la frammentazione del sistema politico;
§ recuperare il rapporto tra elettori ed eletti.
Quanto ai contenuti dello schema illustrato[35], che riprendeva in parte le soluzioni proposte dal Ministro Chiti nell’audizione del 23 aprile 2007, il testo si concentrava esclusivamente sulla disciplina del sistema elettorale della Camera dei deputati, articolandosi in due varianti alternative, mentre per altre rilevanti questioni (sistema elettorale del Senato, disposizioni volte al riequilibrio della rappresentanza di genere e norme relative ai territori di insediamento delle minoranze linguistiche) il relatore faceva presente la necessità di un supplemento di istruttoria e rinviava a successive elaborazioni.
Per quanto riguarda, dunque, la Camera dei deputati, l’ipotesi individuata come principale prevede che il 90 per cento dei seggi riferiti alle circoscrizioni del territorio nazionale sia attribuito nell’ambito di collegi uninominali con un riparto proporzionale tra gruppi di candidati collegati su base circoscrizionale. Il restante 10 per cento dei seggi è attribuito a seguito dell’eventuale individuazione di una coalizione o di una lista a cui spetti il premio di maggioranza. In questo quadro, l’elettore disporrebbe di un solo voto.
Per accedere al riparto dei seggi avviene in primo luogo a livello circoscrizionale le liste devono aver superato una soglia di sbarramento, rappresentata dal conseguimento di almeno il 4 per cento dei voti validi a livello nazionale o dall’aver ottenuto almeno 3 seggi in altrettante circoscrizioni.
E’ inoltre previsto un premio di maggioranza per la coalizione o la lista singola non appartenente a una coalizione cui spetti la maggioranza dei seggi nei collegi uninominali, purché essa abbia ottenuto almeno 248 seggi (corrispondenti circa al 40 per cento dei seggi da assegnare) e non più di 340 seggi. In tal caso alla coalizione o alla lista è attribuito un numero aggiuntivo di seggi fino al raggiungimento della soglia di 340 seggi. In caso contrario non si applica il premio di maggioranza e la parte residua di seggi è ripartita a livello circoscrizionale tra le liste ammesse.
Per quanto attiene alle candidature “plurime”, si prevede che nessun candidato può essere incluso nelle liste con il medesimo contrassegno in più di tre collegi.
In base all’ipotesi alternativa dello schema, individuata dal relatore come subordinata, ferma restando la suddivisione tra una quota del 90 per cento e una del 10 per cento, ogni lista è invece composta da due elenchi distinti, uno recante le candidature nei collegi della circoscrizione e l’altro riferito alle candidature per i seggi da assegnare nell’ambito della quota residua del 10 per cento.
Diverso è quindi anche il regime delle candidature “plurime”: nella seconda ipotesi, infatti, nessun candidato può essere incluso in più di uno degli elenchi previsti per l’attribuzione dei seggi della quota residua e il candidato iscritto negli elenchi per l’attribuzione della quota residua non potrà candidarsi nei collegi uninominali della medesima circoscrizione.
Dopo l’illustrazione dello schema di testo unificato, si è quindi aperta una ampia fase di discussione che ha riguardato in un primo momento, a cavallo della sospensione estiva dei lavori parlamentari, lo schema proposto dal relatore e le ulteriori proposte di legge che venivano mano a mano presentate[36] ed illustrate, e – successivamente[37] – una serie di questioni poste da relatore con riferimento ai possibili contenuti del testo unificato.
A questo ultimo proposito, il relatore evidenziava[38] come la proposta di testo unificato da presentare avrebbe dovuto tenere conto delle indicazioni che avessero incontrato il maggiore consenso in Commissione e nel dibattito tra le forze politiche, ma anche degli effetti che la nuova legge elettorale avrebbe determinato con riferimento allo svolgimento della consultazione referendaria.
Con specifico riferimento ai contenuti del nuovo modello elettorale, il relatore rilevava come fosse emerso un accordo pressoché generale su una formula elettorale proporzionale, nonché sull’esigenza di predisporre gli accorgimenti necessari per ridurre la frammentazione e favorire il bipolarismo.
In questa fase, nel dibattito politico svoltosi anche al di fuori delle sedi parlamentari si sono andate sviluppando ulteriori proposte di riforma del sistema elettorale, tra le quali si segnala - per il rilievo assunto nel dibattito politico nelle fasi successive dell’esame parlamentare delle proposte di legge presentate al Senato - la c.d. proposta Vassallo.
La proposta venne formulata all’inizio del mese di novembre 2007[39] e intendeva costituire – nelle intenzioni dichiarate dal suo autore – uno strumento che consentisse la realizzazione di un nuovo sistema elettorale che garantisse il raggiungimento di alcuni obiettivi di fondo condivisi dalle diverse forze politiche (rafforzamento della possibilità per gli elettori di giudicare la qualità dei candidati; riduzione della frammentazione del sistema, che garantisca il mantenimento di un moderato pluralismo partitico, mantenimento della dinamica bipolare, che non si traduca nella formazione di coalizioni pre-elettorali artificiose ed eterogenee).
Il sistema individuato dalla proposta per la realizzazione di tali obiettivi è costituito da un sistema elettorale che presenta analogie con il sistema elettorale tedesco e con quello spagnolo. In particolare, si prevede un sistema misto, nel quale la metà dei seggi viene assegnata in collegi uninominali e l’altra metà con sistema proporzionale. L’elettore ha a sua disposizione un solo voto che vale sia per il collegio che per la quota proporzionale.
Per la quota proporzionale l’attribuzione dei seggi è effettuata a livello circoscrizionale e si realizza con il metodo d’Hondt. Per l’accesso al riparto dei seggi non sarebbe prevista alcuna soglia di sbarramento, ma – al fine di limitare la frammentazione politica - si richiederebbe un aumento delle circoscrizioni che dovrebbero assegnare 12, 14 o al massimo 16 seggi (compresi quelli da assegnare con il metodo uninominale).
Nella seduta dell’11 dicembre 2007 il presidente Bianco ha quindi presentato una proposta di testo unificato delle varie proposte di legge in materia elettorale all'esame della 1a Commissione[40], che ha inteso recepire i contenuti della lunga e articolata discussione svoltasi nell'ambito della Commissione e del dibattito che ha coinvolto le diverse formazioni politiche.
Il sistema elettorale delineato dalla proposta di testo unificato elaborato dal relatore ha un impianto a carattere sostanzialmente proporzionale e si ispira nei suoi tratti essenziali al modello attualmente adottato in Germania, pur con alcuni adattamenti, derivanti in primo luogo da vincoli costituzionali presenti in Italia (in particolare, dalle previsioni degli articoli 56 e 57 della Costituzione, che determinano in modo fisso il numero dei parlamentari).
In via generale, con riferimento al sistema per le elezioni della Camera dei deputati, si prevede che i seggi siano attribuiti per metà in collegi uninominali e per l’altra metà con sistema proporzionale, a liste concorrenti di candidati, senza voto di preferenza. Le liste di candidati e i candidati nei collegi, presentati da ciascun partito o movimento politico organizzato, formano un unico "gruppo di candidati" nell’ambito della circoscrizione, fatta salva la possibilità di candidature indipendenti nei collegi uninominali.
Anche in questo caso, tuttavia, come già avvenne per il testo illustrato il 4 luglio 2007, la proposta presenta ancora dei margini “aperti”, che vengono sottoposti alla valutazione della Commissione.
In particolare, con riferimento alle modalità di espressione del voto da parte dell’elettore si prevedono due ipotesi alternative:
§ nella prima ipotesi, che nella proposta di testo base è denominata “ipotesi A”, l’elettore dispone di un solo voto, valido sia per il candidato nel collegio uninominale, sia per la lista circoscrizionale ad esso collegata[41];
§ nella seconda ipotesi, che nella proposta di testo base è denominata “ipotesi B”, l'elettore dispone di due voti, riferiti rispettivamente collegio uninominale e alla lista circoscrizionale, che potranno essere esercitati anche in modo “disgiunto”[42].
Anche il numero e, conseguentemente, l’ampiezza delle circoscrizioni non sono individuati dalla proposta di testo base. Al riguardo, tuttavia, il presidente Bianco nell’illustrare la proposta in esame osservava come dovesse ipotizzarsi un numero di circoscrizioni superiore a quello previsto dalla legge elettorale vigente (27), indicando – a titolo esemplificativo – come possibile parametro il numero di circoscrizioni previsto prima della riforma elettorale del 1993 (33)
Sono, inoltre, previste soglie di sbarramento per l’accesso al riparto dei seggi, fissate ad un livello superore a quello previsto dal testo del 4 luglio 2007: al riparto sono infatti ammesse le liste circoscrizionali che a livello nazionale conseguono una percentuale pari almeno al 5 per cento del totale nazionale dei voti validi ovvero le liste che, non conseguendo quella percentuale nazionale, abbiano ottenuto almeno il 7 per cento dei voti validi in cinque circoscrizioni.
Con una significativa innovazione rispetto al sistema elettorale vigente e rispetto allo schema di testo base precedentemente elaborato, non è invece previsto alcun premio di maggioranza.
Una volta individuate le liste ammesse, l’attribuzione dei seggi è effettuata a livello circoscrizionale e si realizza con il metodo d’Hondt. Gli eletti nei collegi sono compresi nel numero complessivo di seggi attribuito con metodo proporzionale alle liste circoscrizionali. Quando una lista di candidati sia insufficiente a coprire i seggi ottenuti nella circoscrizione, si ricorre ai candidati nei collegi appartenenti allo stesso gruppo che hanno conseguito le maggiori cifre individuali. I candidati che in ciascun collegio uninominale hanno ottenuto il maggior numero di voti validi risultano comunque eletti, anche se fanno parte di gruppi di candidati le cui liste circoscrizionali, nel complesso, non abbiano raggiunto la soglia di sbarramento. Quando un partito abbia ottenuto nei collegi uninominali un numero di seggi superiore a quello che gli spetterebbe in base al riparto proporzionale, mantiene tali seggi in eccedenza e si procede ad una nuova ripartizione dei seggi rimanenti tra le altre liste.
Per quanto riguarda, invece, il sistema di elezione del Senato, esso si fonda su un computo regionale dei voti sia per il calcolo della soglia di sbarramento (che anche qui è fissata al 5 per cento dei voti validi), sia per la ripartizione dei seggi in ragione proporzionale.
Per il resto, si applicano, con gli opportuni adattamenti, le regole già illustrate per l’elezione della Camera dei deputati.
Il testo reca inoltre specifiche disposizioni in materia di pari opportunità nell’accesso al mandato parlamentare, in attuazione dell’articolo 51 della Costituzione, così come da ultimo modificato dalla L.Cost. 1/2003[43].
Al riguardo, si prevede che il numero massimo di candidati dello stesso sesso, per ciascun gruppo di candidati (presentati nelle liste e nei collegi e tra loro collegati), non possa eccedere i due terzi dei seggi assegnati alla circoscrizione, e che le liste siano formate in modo che non vi siano più di due candidati dello stesso sesso in successione immediata.
Infine, con una norma analoga a quella attualmente prevista dall’articolo 14-bis del T.U. delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati, si prevede che ogni partito, nel depositare il contrassegno, debba presentare un programma di Governo, a titolo proprio o in coalizione con altri partiti con vincolo di reciprocità, In luogo dell’indicazione del “capo della forza politica” o dell’ “unico capo della coalizione”, si prevede inoltre l’indicazione del “nome e cognome della persona da sottoporre, dopo l’esito delle votazioni, al Presidente della Repubblica quale candidato alla carica di Presidente del Consiglio dei ministri”.
Al riguardo, il relatore nel presentare i contenuti della proposta ha evidenziato come questa ultima opzione – unitamente alla scomparsa delle coalizioni dal sistema elettorale - affidi agli elettori una possibilità di scelta in ordine agli equilibri di Governo conseguenti alle elezioni senza tuttavia prevedere forme rigide di bipolarismo, attraverso la costituzione di blocchi contrapposti prima delle consultazioni elettorali.
Il testo lascia, infine, aperte una serie di ulteriori questioni relative, in particolare, alla delimitazione dei collegi uninominali, alle disposizioni volte a salvaguardare le minoranze linguistiche e al sistema di elezione previsto per la circoscrizione Estero. Quanto alle possibili modifiche da introdurre, il relatore, nel dichiararsi disposto a valutare eventuali proposte compatibili con le linee fondamentali del sistema delineato, ha evidenziato in particolare come modifiche potrebbero essere apportate al sistema di attribuzione dei seggi, che potrebbe avvenire a livello nazionale, anziché in sede circoscrizionale.
A seguito del dibattito apertosi sulla proposta di testo unificato presentata dal nella seduta dell'11 dicembre 2007, il presidente Bianco nella seduta del 15 gennaio 2008 ha presentato alla Commissione una nuova proposta di testo base, pubblicata in allegato al resoconto della seduta[44], nella quale – ferme restando le caratteristiche essenziali del sistema elettorale prefigurato – sono recepite alcune delle sollecitazioni emerse nel corso del dibattito stesso e sono sciolti i nodi che la precedente proposta lasciava volutamente da risolvere.
In primo luogo, con riferimento alla disciplina per l’elezione della Camera dei deputati, il sistema resta fondato sull’assegnazione della metà dei seggi disponibili in collegi uninominali, con formula maggioritaria, e dell’altra metà a liste circoscrizionali, senza voto di preferenza. Resta ferma anche la soglia di sbarramento (pari al 5 per cento dei voti validi a livello nazionale, o al 7 per cento in cinque circoscrizioni).
L’alternativa tra voto unico e doppio voto è risolta con la scelta del voto unico, per il candidato nel collegio uninominale e per la lista circoscrizionale che ha lo stesso contrassegno.
Al riguardo, il relatore ha sottolineato come – sotto il profilo politico-istituzionale - l’opzione prescelta “corrisponde all’intento di assicurare al sistema un fattore di tenuta della competizione bipolare, una volta intrapresa la via della formula proporzionale senza premio di maggioranza: infatti, gli elettori sono portati, in questa forma, a votare in modo univoco, perché sia il candidato nel collegio sia la lista circoscrizionale sono l'oggetto comune della scelta”.
Viene anche modificata la disciplina del riparto dei seggi: questo è ora compiuto in sede nazionale, in base alle cifre elettorali risultanti dalla somma dei risultati circoscrizionali e secondo la formula dei quozienti naturali e dei resti più alti.
La modifica introdotta è stata motivata dal relatore con l'esigenza di raccogliere le molteplici sollecitazioni emerse nel corso del dibattito volte a richiedere che - una volta superata la soglia di sbarramento - i voti espressi dagli elettori si trasformino in seggi secondo un criterio che assicuri la massima realizzazione dell'effetto proporzionale, fatto salvo il criterio di prevalenza del voto per i candidati nei collegi quando questo non corrisponda alla ripartizione proporzionale.
Il testo è inoltre modificato nella parte che riguarda il limite alle candidature plurime,confermando che è possibile candidarsi in un solo collegio uninominale nel quale, elevando (da una a) due le liste circoscrizionali nelle quali è possibile presentare la medesima candidatura.
Quanto, infine, alle disposizioni in materia di indicazione del nome del candidato da sottoporre al Presidente della Repubblica per la nomina a Presidente del Consiglio dei ministri e del programma di governo, innovando rispetto al testo del 15 dicembre, si prevede che sussista l'obbligo, non la semplice facoltà, di dichiarare preventivamente l'alleanza di riferimento, il candidato premier e il programma comune tra più forze politiche.
Per quanto riguarda, invece, il sistema di elezione del Senato, esso rimane caratterizzato – come nel testo del 15 dicembre 2007 – da un impianto a base regionale, in ossequio a quanto disposto dall'articolo 57 della Costituzione. Con una rilevante innovazione, si prevede peraltro che tutti i seggi siano attribuiti con il metodo proporzionale, sulla base dei voti espressi per candidati in collegi uninominali.
Rimangono invece ferme le previsioni – che erano già presenti nella precedente proposta di testo unificato – secondo le quali il riparto dei seggi viene effettuato a livello regionalee vi accedono i gruppi di candidati che abbiano superato una soglia di sbarramento prevista a livello regionale (pari al 5 per cento dei voti validamente espressi in tale ambito). Anche in questo caso, come per la Camera, i seggi sono attribuiti seguendo la formula dei quozienti naturali e dei resti più alti.
Per quanto attiene, infine, alle questioni non direttamente affrontate dal testo, può infine rilevarsi come nella proposta del relatore non fossero contenute indicazioni in ordine ad una serie di tematiche che erano state oggetto di segnalazione nel corso del dibattito sulla riforma del sistema elettorale, con specifico riferimento al numero delle circoscrizioni in cui suddividere il territorio nazionale, alla delimitazione dei collegi uninominali e al sistema di elezione previsto per la circoscrizione Estero.
A seguito della crisi di Governo e del successivo scioglimento delle Camere, l’esame del provvedimento, sui contenuti del quale peraltro non sembrava registrarsi una ampia convergenza, non è ulteriormente proseguito.
Iniziative di riforma elettorale
Nella Gazzetta ufficiale n. 250 del 26 ottobre 2006 è stato pubblicato il comunicato della Corte suprema di cassazione recante l’annuncio di tre richieste di referendum popolari ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione, abrogativi di disposizioni in materia elettorale[45].
I tre quesiti intervengono su diverse parti della disciplina per l’elezione delle Camere, come risultante dalla riforma approvata con L. 270/2005[46], operando un’abrogazione “mirata” di parole o frasi; il testo risultante da tali soppressioni configurerebbe un sistema elettorale in parte diverso da quello in vigore.
In estrema sintesi, il primo e il secondo quesito incidono su varie disposizioni, rispettivamente, del testo unico per l’elezione della Camera dei deputati (D.P.R. 361/1957[47]) e del testo unico per l’elezione del Senato della Repubblica (D.Lgs. 533/1993[48]), al fine di sopprimere la disciplina che permette il collegamento di più liste in coalizioni. In caso di esito positivo dei referendum, si avrebbe quale principale conseguenza l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista singola – e non più alla coalizione di liste – che ottenesse il maggior numero di seggi.
Il terzo quesito reca l’abrogazione di alcune disposizioni del testo unico per l’elezione della Camera, avente quale effetto l’eliminazione della possibilità per un candidato di presentarsi in più circoscrizioni.
Ai sensi della disciplina vigente (L. 352/1970[49], art. 32), le richieste di referendum, corredate dalle firme di almeno 500.000 elettori, devono essere depositate presso l’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione entro il 30 settembre.
La raccolta delle firme ha avuto inizio il 24 aprile 2007 e, conformemente a quanto richiesto dalla legge (L. 352/1970, art. 28), è terminata il 24 luglio 2007 (entro tre mesi dalla data apposta sui fogli per la raccolta delle firme, che devono essere datati e vidimati), con il deposito delle firme presso la cancelleria della Corte di cassazione. In quella sede, le firme che appoggiavano la richiesta furono quantificate dai promotori del referendum nel numero di 821.916.
Con ordinanza emessa in data 28 novembre 2007, l'Ufficio centrale per il referendum,costituito presso la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352, ha dichiarato legittime le richieste di referendum.
Il primo quesito referendario abroga i commi 1 e 2 dell’art. 14-bis del D.P.R. 361/1957 (introdotto dalla riforma elettorale del 2005), che consentono ai partiti e gruppi politici che si presentano alle elezioni per il rinnovo della Camera di effettuare il collegamento in coalizione delle liste da essi presentate. Conseguentemente, il quesito prevede anche l’abrogazione delle numerose altre disposizioni del testo unico che fanno riferimento alle coalizioni.
Il referendum non ha ad oggetto le disposizioni relative al deposito del programma elettorale ed alla contestuale indicazione del “capo della forza politica”, che dunque resterebbero in vigore (salva, ovviamente, l’impossibilità di indicare un “capo della coalizione”).
Risulterebbero, in particolare, soppresse ampie parti degli artt. 83 e 84, che disciplinano il meccanismo di assegnazione dei seggi. Ne conseguirebbe un sistema di riparto sostanzialmente diverso da quello vigente.
Per l’elezione dei 618 deputati nel territorio nazionale, il testo unico per l’elezione della Camera prevede oggi un sistema elettorale di tipo proporzionale con eventuale premio di maggioranza[50], secondo il quale il riparto dei seggi è effettuato in ambito nazionale tra le coalizioni di liste e le liste che abbiano superato le soglie di sbarramento previste dalla legge. Il premio di maggioranza – consistente nell’attribuzione complessiva di 340 seggi, pari al 55 per cento del totale dei seggi della Camera assegnati nelle circoscrizioni del territorio nazionale – è attribuito alla coalizione di liste o alla lista più votata, qualora tale coalizione o lista non abbia già conseguito almeno 340 seggi.
L’esito favorevole all’approvazione del referendum avrebbe le seguenti conseguenze:
§ la partecipazione al riparto proporzionale dei seggi non più delle coalizioni, ma delle sole singole liste che abbiano conseguito sul piano nazionale almeno il 4 per cento dei voti validi espressi. La scomparsa delle coalizioni comporterebbe, in altri termini, anche il venir meno dell’articolata serie di soglie di sbarramento oggi prevista per le coalizioni medesime e per le liste ad esse collegate: resterebbe in vigore la sola soglia del 4 per cento prevista oggi per le liste “non collegate”[51];
§ l’attribuzione del premio di maggioranza[52] alla sola lista singola (e non alla coalizione) che abbia ottenuto la più alta cifra elettorale nazionale. Analogamente a quanto consentito dalla disciplina in vigore, che non prevede una soglia minima per l’operatività del premio di maggioranza, quest’ultimo sarebbe attribuito alla lista che abbia ottenuto la maggioranza relativa dei voti, indipendentemente dall’ampiezza del suo risultato elettorale in termini assoluti.
Secondo il comitato promotore del referendum, il sistema elettorale risultante dall’accoglimento del primo e del secondo quesito referendario “spingerà gli attuali soggetti politici a perseguire, sin dalla fase pre-elettorale, la costruzione di un unico raggruppamento, rendendo impraticabili soluzioni equivoche e incentivando la riaggregazione nel sistema partitico”, riducendo la frammentazione e aprendo una prospettiva tendenzialmente bipartitica[53].
Il secondo quesito referendario persegue effetti del tutto analoghi al primo, ma ha ad oggetto il sistema per l’elezione del Senato.
Per l’elezione dei 309 senatori nel territorio nazionale, la legge elettorale per il Senato prevede un sistema di tipo proporzionale con eventuale attribuzione di un premio in ambito regionale. In ogni regione, i seggi sono attribuiti alle coalizioni di liste e alle liste che abbiano superato, in ambito regionale, le soglie di sbarramento previste dalla legge; sempre nell’ambito di ciascuna regione, è assegnato un “premio di coalizione regionale” alla coalizione di liste o alla lista più votata, qualora tale coalizione o lista non abbia già conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla Regione[54].
Anche in questo caso, il quesito prevede l’abrogazione delle diverse disposizioni che, nel D.Lgs. 533/1993, fanno riferimento alle coalizioni; le abrogazioni parziali riferite agli 16, 17 e 19, in particolare, determinerebbero un sistema di attribuzione dei seggi in virtù del quale:
§ i seggi sarebbero ripartiti (non più tra le coalizioni ma) tra le sole liste che abbiano conseguito sul piano regionale almeno l’8 per cento dei voti validi espressi;
§ il “premio regionale” sarebbe attribuito (non più alla coalizione di liste, ma) alla lista singola che abbia ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’ambito della circoscrizione regionale[55].
La vigente disciplina elettorale non reca limiti alla possibilità per un candidato di essere incluso in liste, aventi lo stesso contrassegno, presentate in più circoscrizioni. I candidati che siano stati eletti in più circoscrizioni sono tenuti ad optare per una di esse[56], così da consentire la proclamazione dei subentranti nelle altre circoscrizioni.
L’art. 19 del D.P.R. 361/1957, peraltro (oltre a vietare la candidatura contestuale alla Camera e al Senato), dispone che “nessun candidato può essere incluso in liste con diversi contrassegni nella stessa o in altra circoscrizione, pena la nullità dell’elezione”.
Il terzo quesito referendario prevede la soppressione, all’interno di quest’ultimo articolo, delle parole: “nella stessa”. Il testo risultante (“nessun candidato può essere incluso in liste con diversi contrassegni o in altra circoscrizione, pena la nullità dell’elezione”) determina il venir meno della possibilità per un candidato di presentarsi in più di una circoscrizione.
Il divieto avrebbe effetto sia per le candidature alla Camera sia per quelle al Senato: l’art. 19 del testo unico per l’elezione della Camera trova infatti applicazione anche ai fini dell’elezione del Senato, in virtù del rinvio operato dall’art. 9, co. 5, del relativo testo unico.
Il quesito prevede altresì la consequenziale abrogazione dell’art. 85 del D.P.R. 361/1957, che disciplina l’opzione del deputato eletto in più circoscrizioni.
Il comitato promotore del referendum pone alla base di tale quesito l’asserita esigenza di sopprimere una disciplina che attribuisce “un enorme potere al […] ‘plurieletto’ [il quale], optando per uno dei vari seggi ottenuti, […] di fatto dispone del destino degli altri candidati la cui elezione dipende dalla propria scelta”[57].
Concluse le verifiche dell’Ufficio centrale per il referendum sulla legittimità delle richieste referendarie, si è quindi attivata la fase della valutazione dei quesiti da parte della Corte Costituzionale, che si è pronunciata in favore dell’ammissibilità con tre sentenze depositate il 30 gennaio 2008.
Con le sentenza n. 15 e n. 16 del 2008 la Corte Costituzionale, con motivazioni sostanzialmente coincidenti, ha dichiarato ammissibili i primi due quesiti referendari, concernenti l’abrogazione della possibilità di collegamento tra liste e di attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste nelle elezioni riferite al rinnovo rispettivamente della Camera e del Senato
Per quanto attiene all’inquadramento generale della questione dell’ammissibilità, la Corte ribadisce preliminarmente che le leggi elettorali possono essere oggetto di referendum abrogativi, poiché le stesse non sono comprese tra gli atti legislativi per i quali l'art. 75, secondo co., Cost. esclude l'ammissibilità dell'abrogazione popolare (sentenza n. 47 del 1991, confermata da tutta la successiva giurisprudenza costituzionale sul tema).
Le leggi elettorali rientrano tuttavia nella categoria – elaborata dalla medesima Corte - delle leggi costituzionalmente necessarie, trattandosi di disposizioni la cui esistenza e vigenza è indispensabile per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali della Repubblica[58]. Per la Corte, quindi, “l’ammissibilità di un referendum su norme contenute in una legge elettorale relativa ad organi costituzionali o a rilevanza costituzionale è pertanto assoggettata «alla duplice condizione che i quesiti siano omogenei e riconducibili a una matrice razionalmente unitaria, e ne risulti una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell’eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell’organo» (sentenza n. 32 del 1993)”.
In sostanza, quindi, i quesiti referendari riferiti alla materia elettorale, oltre a possedere le caratteristiche fissate in via generale sin dalla sentenza n. 16 del 1978 (chiarezza, univocità ed omogeneità), sono sottoposti ad ulteriori vincoli, in quanto non possono avere ad oggetto una legge elettorale nella sua interezza, ma devono necessariamente riguardare parti di essa, la cui ablazione lasci in vigore una normativa complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell'organo costituzionale elettivo. In questo senso la Corte sottolinea come i referendum elettorali, per essere ammissibili, devono essere “intrinsecamente e inevitabilmente «manipolativi», nel senso che, sottraendo ad una disciplina complessa e interrelata singole disposizioni o gruppi di esse, si determina, come effetto naturale e spontaneo, la ricomposizione del tessuto normativo rimanente, in modo da rendere la regolamentazione elettorale successiva all'abrogazione referendaria diversa da quella prima esistente”.
Con specifico riferimento ai quesiti in esame, la Corte rileva che essi possono considerarsi chiari, univoci ed omogenei, evidenziando chegli effetti manipolativi proposti dai quesiti non superano i limiti propri di ogni proposta referendaria in materia legge elettorale Non si realizza, infatti, l’effetto di sostituire la disciplina vigente con un'altra assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo vigente, trasformando così l'abrogazione in legislazione positiva, ma si utilizzano i criteri di assegnazione dei seggi già esistenti, restringendo l'arco delle possibilità offerte ai partiti ed ai gruppi politici. In questo modo si realizza quindi una espansione delle potenzialità intrinseche nella normativa vigente, la cui intensità la Corte ritiene estranea alle proprie competenze sottolineando come in base alla propria giurisprudenza la valutazione delle conseguenze politiche della dilatazione di una regola già presente nel sistema normativo deve essere lasciata al corpo elettorale.
Quanto al secondo profilo rilevante ai fini dell’ammissibilità, vale a dire la c.d. “autoapplicatività” della disciplina di risulta, la Corte evidenzia che l'eliminazione della possibilità di collegamento tra liste non incide sulla operatività del sistema elettorale vigente, che resta uguale a se stesso nei suoi meccanismi di funzionamento e pienamente applicabile alle liste singole. Anche gli eventuali inconvenienti che possono essere individuati, dal punto di vista tecnico, per il sistema che scaturirebbe dall'eventuale abrogazione referendaria sono già insiti nella legge vigente e, comunque, costituiscono eventualità remote nell’una e nell’altra situazione normativa.
Da ultimo, la Corte evidenzia come in sede di controllo di ammissibilità dei referendum non possono venire in rilievo profili di incostituzionalità sia della legge oggetto di referendum sia della normativa di risulta (al proposito richiama “una costante giurisprudenza” e in particolare le recenti sentenze numeri 45, 46, 47 e 48 del 2005). Richiamando proprio la sentenza n. 45 del 2005 la Corte sottolinea come nel giudizio di ammissibilità possa effettuarsi solo “una valutazione liminare e inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se, nei singoli casi di specie, il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all'applicazione di un precetto costituzionale, consistente in una diretta e immediata vulnerazione delle situazioni soggettive o dell'assetto organizzativo risultanti a livello costituzionale”
In particolare, la Corte evidenzia come non potrebbe essere anticipato alla fase del giudizio di ammissibilità un giudizio di ragionevolezza sulla normativa di risulta, in quanto esso è sempre emesso in esito ad una considerazione dei principi costituzionali in gioco, con riferimento ad una norma attuale che sia già stata sottoposta all’interpretazione, in prima battuta, dei giudici comuni.
In ogni caso, con riferimento a talune delle obiezioni mosse, la Corte sottolinea che l'assenza di una soglia minima per l'assegnazione del premio di maggioranza rappresenta una carenza riscontrabile già nella normativa vigente che non impone le coalizioni, ma le rende solo possibili.
Anche con riferimento a detta normativa, la Corte ritiene tuttavia doveroso “segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”.
Analogamente, si esclude che i quesiti siano in contrasto con il principio costituzionale dell'eguaglianza del voto, in quanto un referendum abrogativo che tenda ad influire sulla tecnica di attribuzione dei seggi, in modo da favorire la formazione di maggioranze coese e di diminuire, allo stesso tempo, la frammentazione del sistema politico non è, in sé e per sé, in contrasto né con l'art. 48 né con l'art. 49 Cost..
Con la sentenza n. 17 del 2008 la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il terzo quesito, concernente l’abrogazione della possibilità per uno stesso candidato di presentare la propria candidatura in più di una circoscrizione.
Nella breve motivazione in diritto la Corte evidenzia che il quesito non riguarda le leggi per le quali l'art. 75, secondo comma, Cost. esclude espressamente il referendum abrogativo e rispetta gli ulteriori limiti di ammissibilità individuati nel tempo dalla Corte Costituzionale. In particolare:
§ le disposizioni della legge elettorale oggetto della richiesta non possono essere ritenute a contenuto costituzionalmente vincolato, così da sottrarsi alla possibilità di abrogazione referendaria;
§ il quesito presenta il necessario carattere di omogeneità, chiarezza ed univocità;
§ la normativa di risulta è autoapplicativa, in quanto non presenta elementi di indeterminatezza che non siano risolvibili alla stregua dei normali canoni interpretativi.
Il 5 febbraio 2008 il Consiglio dei ministri ha, con apposita deliberazione, “doverosamente[59] provveduto all’ultimo adempimento procedurale relativo all’iter referendario per l’abrogazione di talune norme della vigente legislazione elettorale per le consultazioni politiche”. In pari data sono quindi stati emanati i tre decreti del Presidente della Repubblica di indizione dei referendum[60].
In base a quanto previsto dai decreti lo svolgimento dei referendum popolari è stato fissato nella giornata di domenica 18 maggio 2008 e nella successiva mattina di lunedì.
Al riguardo si ricorda che l’art. 34 della L. 352/1970 prevede che, una volta che sia intervenuta la comunicazione della sentenza della Corte costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti, la data di convocazione degli elettori sia fissata in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno dal Presidente della Repubblica, che adotta un decreto, sulla base di una deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Il giorno successivo all’indizione del referendum, il 6 febbraio 2008, con due distinti decreti, il Presidente della Repubblica ha disposto lo scioglimento delle Camere[61] e la convocazione dei comizi per le elezioni politiche nei giorni di domenica 13 aprile e di lunedì 14 aprile 2008[62].
Nel caso di specie trova quindi applicazione il secondo comma dell’art. 34 della L. 352/1970, in base al quale: “Nel caso di anticipato scioglimento delle Camere o di una di esse, il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso all'atto della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Presidente della Repubblica di indizione dei comizi elettorali per la elezione delle nuove Camere o di una di esse”.
Con una disposizione che pare riferirsi tanto ai referendum già indetti che a quelli che ancora non lo siano stati, il terzo comma del medesimo articolo 34 prevede inoltre che “i termini del procedimento per il referendum riprendono a decorrere a datare dal 365° giorno successivo alla data della elezione”.
Un caso sostanzialmente analogo ebbe a verificarsi già nel 1972 con riferimento al quesito sul divorzio, quando la consultazione referendaria venne sospesa in quanto era stata indetta un giorno prima dello scioglimento anticipato delle Camere. Il referendum fu infatti indetto il 27 febbraio di quell’anno, mentre lo scioglimento fu disposto il successivo 28 febbraio.
In quella circostanza, anche alla luce di un parere del Consiglio di Stato[63], si ritenne che anche nell’ipotesi di sospensione del referendum trovassero applicazione i termini previsti dagli art. 15 e 18 della L. 352/1970[64] e che, pertanto, la consultazione dovesse tenersi in una data compresa tra il 50° ed il 70° giorno dalla sua indizione e dovesse assicurarsi un periodo di 40 giorni per la compilazione e la consegna dei certificati elettorali (tale ultima disposizione è stata ora abrogata). Essendosi tenute le elezioni per il rinnovo delle Camere nelle giornate del 7-8 maggio 1973, non risultava possibile fissare la data del referendum in una data anteriore al 15 giugno 1973 che consentisse il rispetto di tali termini. La celebrazione del referendum slittò quindi al 13 e 14 maggio 1974.
Nel 1994, invece, lo scioglimento anticipato delle Camere portò alla celebrazione delle elezioni il 27 e 28 marzo dello stesso anno, consentendo la celebrazione dei referendum già indetti per il 12 giugno 1994[65] nell’anno successivo (e, precisamente, l’11 giugno 1995).
Per far fronte agli effetti dello scioglimento anticipato delle Camere sul procedimento referendario, una diversa soluzione fu invece adottata con riferimento alle consultazioni in materia di centrali elettriche nucleari, di responsabilità civile dei magistrati e di procedimenti di accusa, indette nel 1987. In quella circostanza, infatti, a fronte dello scioglimento anticipato delle Camere, fu approvato uno specifico provvedimento normativo (la L. 332/1987[66]), di deroga alla disciplina posta dall’articolo 34 della L. 352/1970. Detta disciplina speciale stabilì, limitatamente alle consultazioni referendarie di quell’anno, che i termini del procedimento referendario, già sospesi a far tempo dalla data di scioglimento, riprendessero a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore della legge, piuttosto che dal 365° giorno dall’elezione. In ragione di detta deroga si dispose altresì che per la consultazione referendaria in questione il Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con i Ministri dell'interno e di grazia e giustizia, potesse indire con decreto i referendum fissando la nuova data di convocazione degli elettori in una delle domeniche comprese tra il 15 ottobre e il 30 novembre 1987. Il referendum si svolse, quindi, l’8 novembre 1997.
A seguito della deliberazione del Consiglio dei ministri che ha fissato al 18 maggio 2008 la data di svolgimento dei referendum, e della automatica sospensione dei medesimi referendum, i promotori delle tre richieste referendarie hanno sollevato dinnanzi alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo in sostanza che venga riconosciuto il diritto a votare per il referendum in data 18 maggio 2008 (e comunque entro il 15 giugno del 2008
Nel merito, i ricorrenti hanno richiesto alla Corte Costituzionale di
§ dichiarare “che non spettava al Governo deliberare la data di svolgimento dei referendum prima dello scioglimento anticipato delle Camere con l’effetto di determinarne la sospensione”, e “che sussiste il diritto allo svolgimento delle operazioni di voto referendario, una volta compiuta la procedura di verifica della legittimità e dell’ammissibilità delle relative domande, entro termini ragionevoli, mantenendo ferma la data del 18 maggio 2008 ovvero entro il 15 giugno 2008”;
§ “annullare in conseguenza, in parte qua, la deliberazione del Consiglio dei ministri 5 febbraio 2008 con la quale è stata decisa la data di svolgimento del referendum ovvero l’art. 34, secondo comma, della legge n. 352 del 1970, nella parte in cui prevede, in caso di scioglimento delle Camere, l’automatica sospensione dei referendum e la ripresa del decorso dei termini solo a partire dal 365° giorno dallo svolgimento delle elezioni”.
Decidendo sul ricorso, la Corte – con l’ordinanza n. 38/2008 - ha rilevato in via preliminare come il Consiglio dei ministri disponga di un ampio potere di valutazione nell’effettuare la proposta al Presidente della Repubblica – cui spetta l’adozione del relativo provvedimento formale – sia in ordine al momento di indizione del referendum, sia per quanto attiene alla fissazione della data della consultazione referendaria, ponendo quale unico limite indeclinabile che le relative operazioni di voto si svolgano tra il 15 aprile e il 15 giugno.
In questo quadro, secondo la Corte, né il decreto presidenziale di indizione del referendum, né l’art. 34, secondo comma, della L. 352/1970 sono idonei ad incidere sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite al comitato promotore, in quanto Il comitato promotore “pur essendo indubbiamente titolare di un potere, di natura costituzionale, teso a garantire che sia concretamente effettuata la competizione referendaria, non può vedere esteso siffatto potere anche per quanto attiene alle specifiche modalità organizzative di essa, rispetto alle quali operano pienamente le facoltà del Governo”. Il comitato promotore potrebbe quindi sindacare con lo strumento del conflitto di attribuzioni solo iniziative di altri poteri, eventualmente dirette a paralizzare la consultazione referendaria, ma non contestare scelte procedurali relative al suo svolgimento che siano rimesse alla valutazione di detti poteri.
L’ordinanza conclude quindi dichiarando il ricorso inammissibile per mancanza del requisito oggettivo del conflitto di attribuzione.
Altri interventi in materia elettorale
Il 20 giugno 2007 la Commissione Affari costituzionali della Camera ha avviato l’esame di una proposta di legge di iniziativa parlamentare[67] volta ad estendere la portata della causa di ineleggibilità prevista dal numero 1) del primo comma dell’articolo 10 del testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei deputati (D.P.R. 361/1957).
Quest’ultima disposizione stabilisce che non sono eleggibili alla carica di deputato (e di senatore, ai sensi del rinvio operato dall’art. 5 del testo unico per l’elezione del Senato[68]), tra gli altri, coloro che, in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private, risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica, che importino l'obbligo di adempimenti specifici, l'osservanza di norme generali o particolari protettive del pubblico interesse, alle quali la concessione o la autorizzazione è sottoposta.
La proposta di legge C. 2516 intende ampliare l'ambito di applicazione della causa di ineleggibilità di cui alla disposizione richiamata, che fa riferimento soltanto ai titolari o ai legali rappresentanti di tali imprese, escludendo l’eleggibilità anche di coloro che detengano una partecipazione di controllo o esercitino un’influenza dominante su una società vincolata con lo Stato in ragione di concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica.
A tale proposta, di portata limitata, sono stati in seguito abbinati altri progetti di legge[69] vertenti più in generale sulla materia delle ineleggibilità e incompatibilità e tendenti a introdurre per i candidati alle elezioni politiche le ipotesi di incandidabilità previste per le elezioni regionali e amministrative dalla legge 55/1990[70] e dal testo unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000[71]).
Il relatore ha presentato il 18 luglio 2007 un testo unificato che rappresenta una sintesi delle diverse proposte di legge all’esame. Adottato dalla Commissione nella medesima seduta come testo base, esso si articola in tre capi: il primo contenente disposizioni in materia di ineleggibilità al mandato parlamentare e una specifica disciplina in tema di incandidabilità; il secondo relativo alle incompatibilità parlamentari, il terzo volto a ampliare le ipotesi di incandidabilità negli enti locali.
Preliminarmente occorre ricordare che la Commissione affari costituzionali del Senato ha iniziato il 1° agosto 2007 l’esame di un progetto di legge[72] diretto ad estendere alle elezioni politiche le cause di impedimento alla candidatura previste per le elezioni dei consigli comunali e provinciali. L’esame del provvedimento è stato rinviato per attendere che giungesse all'attenzione del Senato l'iniziativa legislativa di più ampia portata in fase avanzata di trattazione presso la Camera.
Il testo unificato, assumendo come riferimento la disciplina prevista per le cariche elettive locali dall'articolo 58 del testo unico degli enti locali, introduce la fattispeciedell’incandidabilità alla carica di deputato (e di senatore[73]) nei confronti di coloro che abbiano riportato una condanna definitiva per una serie di delitti puntualmente indicati:
§ associazione di tipo mafioso o associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti; delitto concernente l’importazione, l’esportazione, la produzione, la vendita di armi; delitto di favoreggiamento personale o reale commesso in relazione a tali reati;
§ peculato, malversazione a danno dello Stato, concussione, corruzione per un atto d’ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio;
§ delitti non colposi per i quali sia stata inflitta una pena della reclusione non inferiore a due anni.
Sulla formulazione di questa norma si è svolto in Commissione un ampio dibattito. Il relatore ha osservato che la previsione nel testo base di un elenco di fattispecie delittuose volte a dare luogo alla incandidabilità implicava il rischio di escludere reati in ordine ai quali non era maturata una riflessione. Ha quindi proposto di stabilire l'incandidabilità alle cariche di senatore e di deputato per coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva per un delitto non colposo la cui pena minima è stabilita in una misura non inferiore a due anni, con l'esclusione dei cosiddetti reati di opinione[74].
Tale criterio, che fa riferimento alla pena minima e non alla condanna effettivamente inflitta, tuttavia, ha suscitato rilievi per due ordini di motivi:
§ per la presenza, nel codice penale, di delitti non colposi per i quali il legislatore non ha previsto una pena edittale minima, stabilendo unicamente la pena massima che il giudice può irrogare, ovvero una pena fissa, come nel caso dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo;
§ poiché il riferimento a delitti non colposi puniti con una pena detentiva non inferiore nel minimo a due anni prende in considerazione unicamente la pena base astrattamente prevista dal legislatore, e non quella concretamente comminata dal giudice, che può considerare eventuali circostanze aggravanti o attenuanti.
Con un successivo emendamento[75] il relatore ha modificato questa impostazione: prendendo come riferimento la disciplina della sospensione condizionale della pena, che è ammessa soltanto per i reati puniti con pena inferiore a due anni, l’incandidabilità dei membri del Parlamento è stata collegata non più alla condanna per reati specifici ma alla condanna ad una pena superiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo[76].
Le medesime condizioni di non candidabilità sussistono anche per coloro nei confronti dei quali sia stata applicata, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione, in quanto indiziati di appartenere ad una associazione di stampo mafioso.
La presentazione della candidatura all’Ufficio centrale circoscrizionale deve essere accompagnata da una dichiarazione sostitutiva del candidato che comprovi l'insussistenza delle cause di incandidabilità.
La competenza a pronunciarsi sulla decadenza dei deputati nei confronti dei quali siano emessi, in corso di mandato, sentenze e provvedimenti definitivi per reati che determinino causa sopravvenuta di incandidabilità è riservata alla Camera, la quale dichiara anche la nullità delle elezioni dei propri componenti la cui condizione di incandidabilità, esistente al momento dell’elezione, sia accertata successivamente.
La disciplina dell'incandidabilità non si applica nei confronti di coloro che sono stati condannati con sentenza passata in giudicato o che sono stati sottoposti a misura di prevenzione con provvedimento definitivo, nel caso in cui sia stata loro concessa la riabilitazione.
Il testo stabilisce in via generale che la perdita delle condizioni di eleggibilità comporta la decadenza dalla carica di deputato, che viene dichiarata dalla Camera.
A seguito di talune perplessità sorte durante l’esame del provvedimento in merito all’estensione ai parlamentari dell’incandidabilità e dell’espressa richiesta avanzata sia da un gruppo dell’opposizione sia da uno della maggioranza, la Commissione ha svolto l’8 gennaio 2008, nell’ambito di un’apposita indagine conoscitiva, una serie di audizioni di esperti in diritto costituzionale[77] per approfondire la compatibilità della fattispecie della incandidabilità, come prevista dal testo base, con la Costituzione (e, in particolare, con gli articoli 51, che sancisce il diritto di accesso alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza; 65, in quanto non prevede l’istituto dell’incandidabilità; e 66, che attribuisce a ciascuna Camera la verifica dei titoli di ammissione dei suoi componenti).
Il testo prevede una nuova ipotesi di ineleggibilità nei confronti dei soggetti che risultino avere la titolarità o il controllo, ovvero l'esercizio di un'influenza dominante, anche per interposta persona, di un'impresa che svolga prevalentemente o esclusivamente la propria attività in regime di autorizzazione o di concessione rilasciata dallo Stato, ovvero che risultino poterne disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, o possano determinarne in qualche modo gli indirizzi, ivi comprese le partecipazioni azionarie indirette. L’ineleggibilità sussiste anche nel caso in cui ad avere la titolarità e il controllo risultano essere il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado.
Le cause di ineleggibilità illustrate cessano nel caso in cui gli amministratori delle imprese interessate si dimettano almeno 180 giorni prima della fine della legislatura precedente o nei 7 giorni successivi alla pubblicazione del decreto di scioglimento delle Camere che ne anticipi la scadenza di almeno 120 giorni, ovvero i proprietari, gli azionisti di maggioranza o i detentori di un pacchetto azionario di controllo, sia direttamente sia per interposta persona, provvedano nei medesimi termini alla cessione della proprietà o del pacchetto azionario di controllo.
Si ricorda in proposito che la Commissione affari costituzionali della Camera ha concluso l’esame in sede referente di una proposta di legge (A.C. 1318-A) in materia di conflitti di interessi, volta a sostituire integralmente la normativa introdotta dalla L. 215/2004[78] (vedi il capitolo Disciplina dei conflitti di interessi, nel dossier 1/1, parte seconda). Il provvedimento riguarda i soli titolari di cariche di governo e contiene una delega al Governo finalizzata a disciplinare in modo analogo la materia per i titolari di cariche di governo regionali e locali.
Novellando la legge 60/1953[79], il testo individua alcune ulteriori cause di incompatibilità.
È innanzitutto stabilita, con una norma di carattere generale, peraltro già prevista da alcune leggi istitutive di authorities, l’incompatibilità dell’ufficio di parlamentare e di membro del Governo con la carica di componente di autorità amministrative indipendenti.
Le cariche di sindaco di comune con popolazione superiore a 20.000 abitanti e di presidente di giunta provinciale, ove assunte durante il mandato parlamentare, sono incompatibili con l'ufficio di deputato o di senatore.
Quest’ultima disposizione intende superare l’orientamento giurisprudenziale affermato a partire dal 2002 dagli organi di verifica dei poteri della Camera dei deputati e del Senato in materia di incompatibilità tra la carica di parlamentare e i mandati elettivi locali.
L'articolo 7, comma 1, lett. c) del testo unico delle elezioni della Camera (D.P.R. 361/1957) stabilisce l'ineleggibilità alla carica di deputato per i “sindaci dei Comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti”.
Nella prassi parlamentare le cause di ineleggibilità sopravvenute alla elezione a deputato o senatore sono state trattate, per quanto concerne la determinazione delle conseguenze da esse derivanti, alla stregua di cause di incompatibilità, riconoscendosi all'interessato la facoltà di optare tra la carica di parlamentare e quella ritenuta dalla legge con essa incompatibile. Dall'articolo 7, comma 1, lett. c), del D.P.R. 361/1957, la prassi parlamentare ha costantemente fatto derivare il principio della incompatibilità tra la carica di sindaco nei comuni con popolazione superiore a 20.000 abitanti e il mandato parlamentare.
Innovando la prassi, la Giunta delle elezioni della Camera, nella seduta del 2 ottobre 2002, ha dichiarato compatibile con il mandato parlamentare la carica di sindaco di comune con popolazione superiore a 20.000 abitanti ricoperta dai deputati Cammarata, Zaccheo e Di Giandomenico.
La Giunta delle elezioni della Camera, nella seduta del 23 settembre 2004, richiamando la propria decisione del 2 ottobre 2002, ha deliberato, a maggioranza, di dichiarare compatibile con il mandato parlamentare la carica di presidente di provincia, ricoperta dai deputati Boiardi, Costa, Alberta De Simone e Oliverio.
La Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, nella seduta del 28 settembre 2004, tenendo conto del nuovo indirizzo giurisprudenziale della Camera dei deputati in materia di incompatibilità della carica di deputato con i mandati elettivi locali, ha deliberato il superamento della regola della trasformazione delle cause di ineleggibilità sopravvenute in cause di incompatibilità e ha dichiarato compatibili le cariche rivestite dal sen. Coletti, presidente della provincia di Chieti e sen. Provera, presidente della provincia di Sondrio.
Oltre ad essere incompatibile con le cariche di amministratore o consulente permanente di società ed enti vincolati con lo Stato in ragione di contratti o di concessioni o di autorizzazioni amministrative di notevole entità economica, il mandato parlamentare non è inoltre cumulabile con le cariche di presidente, direttore generale, membro del consiglio di amministrazione, liquidatore, sindaco, revisore o consulente di:
§ enti, agenzie o società a prevalente partecipazione azionaria dello Stato o sottoposte alla sua vigilanza che abbiano come finalità la promozione delle attività produttive e delle politiche del lavoro e dell'occupazione;
§ società o enti ai quali sia affidata la gestione di servizi pubblici locali in territori appartenenti a più regioni.
Novellando la legge 165/2004[80] il testo stabilisce alcuni princìpi in materia di incompatibilità dei presidenti di regione e dei membri delle giunte regionali in caso di conflitto tra gli interessi pubblici da perseguire nell'esercizio delle loro funzioni e gli interessi economici di cui i medesimi siano portatori.
Una disposizione analoga è contenuta nella citata proposta di legge (A.C. 1318-A) in materia di conflitti di interessi (art. 22).
Il testo unificato presentato il 18 luglio 2007 si limita a disporre un ampliamento delle ipotesi di incandidabilità ai mandati elettivi locali, inserendo tra quelle già contemplate dall’articolo 58 del testo unico degli enti locali, le condanne per reati commessi con finalità terroristiche o di eversione.
Il relatore ha in seguito proposto di modificare[81] il testo, nel senso di uniformare il regime dell’incandidabilità a livello regionale e locale a quello stabilito per i parlamentari, prevedendone quindi l’applicazione ai soggetti condannati con sentenza definitiva ad una pena superiore a due anni di reclusione per delitto non colposo. Tale parametro si applica anche per quanto riguarda la disciplina della sospensione dalla carica degli amministratori regionali e locali. La sospensione del parlamentare dalle funzioni, prevista dalla proposta di legge C. 2564 (Mazzoni), non è stata inserita dal relatore nel testo base, ritenendosi opportuno un approfondimento in merito all’impatto di tale fattispecie sulle garanzie costituzionali.
Altri interventi in materia elettorale
La Commissione Affari costituzionali della Camera ha iniziato il 1 agosto 2007 l’esame di tre proposte di legge di iniziativa parlamentare[82] volte a modificare in alcune parti la L. 18/1979[83], che disciplina l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, con il principale intento di assicurare l’elezione di un parlamentare europeo anche in quelle parti del territorio in cui, per effetto del sistema di distribuzione dei seggi attualmente vigente, basato su cinque macro-circoscrizioni, non viene eletto alcun rappresentante.
Il 20 dicembre 2007 il relatore ha presentato una proposta di testo unificato; l’iter non è ulteriormente proseguito sino allo scioglimento delle Camere.
Per meglio comprendere le ragioni ispiratrici del testo presentato, sembra opportuno ricordare sinteticamente l’ambito normativo in cui esso va ad incidere.
La normativa attuale prevede la suddivisione del territorio nazionale in cinque circoscrizioni elettorali, la cui popolazione, secondo il censimento 2001, oscilla da un massimo di 13.914.865 (IV Circoscrizione – Italia meridionale, che comprende le regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria) ad un minino di 6.600.871 abitanti (V Circoscrizione – Italia insulare, costituita dalle regioni Sicilia e Sardegna).
Nella distribuzione dei seggi, e in particolare nell’utilizzo dei resti, si verifica un fenomeno di spostamento dei seggi (splitting) dalle circoscrizioni minori dal punto di vista demografico verso quelle maggiori.
All’interno di una medesima circoscrizione, inoltre, il sistema delle preferenze tende ad avvantaggiare i candidati provenienti dalle regioni più popolose a svantaggio degli altri. Il caso più emblematico è rappresentato dalla Sardegna, che, pur avendo una popolazione di 1.631.880 abitanti (pari al 24,7% degli abitanti della V circoscrizione) non ha eletto, nelle ultime consultazioni elettorali, alcun parlamentare europeo.
Come disciplinata dalla L. 18/1979, la formula per la ripartizione dei seggi osserva in effetti un doppio criterio di proporzionalità riferito all’intero territorio nazionale:
§ tra le liste concorrenti, in ragione dei voti validi conseguiti da ciascuna,
§ all’interno dei seggi che spettano a ciascuna di esse, in proporzione ai voti con-seguiti da quella lista in ciascuna circoscrizione.
Data la compresenza di due differenti criteri proporzionali, risulta impossibile che siano entrambi perfettamente rispettati in termini numerici. La legge vigente tende a privilegiare il rispetto del risultato elettorale determinatosi nel collegio unico nazionale e, all’interno dei seggi ottenuti da ciascuna lista, il rispetto della peso proporzionale dei voti ottenuti da quella lista in ciascuna circoscrizione; non contiene correttivi intesi al rispetto della assegnazione dei seggi alle circoscrizioni in base alla popolazione residente.
Quanto detto fa si che, il più delle volte, alcune circoscrizioni possono ottenere dalla assegnazione dei seggi un numero minore o, corrispondentemente, maggiore di seggi rispetto a quelli che spettano alla circoscrizione in base alla popolazione residente. Infatti, il numero degli aventi diritto al voto in ciascuna circoscrizione non è un valore percentuale costante rispetto alla popolazione residente e, ancor più, il numero dei voti validi finali è fortemente differenziato in ciascuna circoscrizione sia per la diversa incidenza dell’astensionismo, sia perché sul risultato finale incide anche il numero delle schede bianche o nulle.
Le modifiche proposte dai progetti di legge presentati nella XV legislatura, attribuendo un maggior peso al vincolo relativo all’assegnazione dei seggi su base territoriale, necessariamente incidono – in misura più o meno rilevante in ragione della disomogeneità delle circoscrizioni da essi configurate[84] – sulla proporzionalità nel rapporto tra voti conseguiti e seggi attribuiti; più precisamente, esse – senza modificare la ripartizione proporzionale dei seggi tra le liste in sede nazionale – alterano in misura diversa il rapporto voti/seggi fra le liste in talune circoscrizioni, o tra le circoscrizioni all’interno dei seggi spettanti ad una medesima lista.
Queste sono in sintesi le modifiche alla legge elettorale per il Parlamento europeo previste dal testo unificato predisposto dal relatore[85]:
§ una diversa delimitazione delle attuali circoscrizioni elettorali, che verrebbero a coincidere con le regioni – le regioni Trentino-Alto Adige, Lombardia e Campania vengono divise ciascuna in due circoscrizioni – e il conseguente aumento del loro numero da 5 a 23;
Le due circoscrizioni della regione Trentino-Alto Adige corrispondono alle province autonome di Trento e di Bolzano. Le due circoscrizioni della regione Campania sono formate rispettivamente dalla provincia di Napoli e dalle province di Caserta, Benevento, Avellino e Salerno. Le due circoscrizioni della regione Lombardia sono formate rispettivamente dalla provincia di Milano e dalle province di Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi, Mantova e, Sondrio, Lecco, Como, Varese, Lodi e Pavia.
§ il meccanismo per l’assegnazione dei seggi alle singole circoscrizioni; il testo unificato, al fine di evitare che vengano penalizzate le circoscrizioni o le regioni meno popolose e per garantire che venga comunque assegnato almeno un seggio a ciascuna regione e alle province autonome di Trento e Bolzano, stabilisce che la ripartizione dei seggi venga effettuata:
a) determinando il quoziente per l’assegnazione dei seggi alle circoscrizioni (che si ottiene dalla divisione del numero degli abitanti della Repubblica per il numero dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia);
b) attribuendo preliminarmente un seggio ad ogni circoscrizione il cui numero di abitanti sia inferiore al quoziente per l’assegnazione dei seggi;
c) procedendo successivamente alla distribuzione dei rimanenti seggi nelle altre circoscrizioni con il criterio della proporzionalità, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti; a tale scopo viene determinato un nuovo quoziente per l’attribuzione dei seggi residui, che risulta dalla divisione del numero degli abitanti delle circoscrizioni (escluse quelle sub b)) per il numero dei parlamentari europei spettanti all’Italia, dal quale siano stati detratti i seggi già assegnati alle circoscrizioni con popolazione inferiore al quoziente di cui al punto a).
§ le modalità per la presentazione delle candidature; il testo unificato prevede che le liste di candidati debbano essere sottoscritte da almeno 1.500 e non più di 2.000 elettori nelle circoscrizioni con popolazione sino a 500.000 abitanti, da almeno 2.500 e non più di 3.000 elettori nelle circoscrizioni con popolazione compresa tra 500.000 e un milione di abitanti e da almeno 4.000 e non più di 4.500 elettori nelle circoscrizioni con più di un milione di abitanti; i sottoscrittori devono essere tutti iscritti nelle liste elettorali di comuni compresi nelle circoscrizioni. Il testo unificato stabilisce inoltre che ciascuna lista debba comprendere un numero di candidati pari al numero dei rappresentanti da eleggere nella circoscrizione (la L. 18/1979 indica anche un numero minimo, pari a tre, di candidati che devono essere presenti nella lista);
§ l’abrogazione espressa delle disposizioni volte a garantire la rappresentanza dei gruppi di minoranza linguistica attraverso il collegamento delle liste (art. 12, commi nono e decimo, della L. 18/1979);
§ la soppressione della possibilità di esprimere preferenze (la L. 18/1979 consente di esprimerne fino a tre);
La possibilità di esprimere preferenze perde significato nelle circoscrizioni alle quali è assegnato un solo seggio, in presenza della richiamata disposizione secondo cui ciascuna lista comprende un numero di candidati pari al numero dei rappresentanti da eleggere nella circoscrizione (nella fattispecie, pari ad uno).
§ il sistema di riparto dei seggi.
Riguardo a quest’ultimo punto, il testo unificato mantiene immutato l’attuale procedimento per l’assegnazione dei seggi alle liste nel collegio unico nazionale, secondo il metodo proporzionale dei quozienti interi e dei più alti resti; è invece interamente riscritto il procedimento per la distribuzione tra le circoscrizioni dei seggi che ciascuna lista ha conseguito in sede nazionale, allo scopo di garantire ad ogni circoscrizione l’elezione del numero di rappresentanti ad essa assegnato.
Tale diversa ripartizione è effettuata adottando due innovazioni:
§ l’attribuzione dei seggi a quoziente intero è effettuata con riferimento al quoziente circoscrizionale, in luogo del quoziente nazionale di lista utilizzato dalla formula vigente; il quoziente circoscrizionale è determinato, a sua volta, dividendo il totale dei voti validi ottenuti nella circoscrizione dalle liste cui spettano seggi per il numero dei seggi spettanti alla circoscrizione stessa. Il testo prevede un meccanismo di correzione per il caso in cui l’assegnazione dei seggi a quoziente intero attribuisca nelle circoscrizioni ad una lista più seggi di quanti gliene spettino in base alla ripartizione in sede nazionale;
§ i seggi residui sono attribuiti alle liste in base alla graduatoria decrescente delle parti decimali dei quozienti di ciascuna lista. Tale operazione è effettuata in ciascuna circoscrizione seguendo l’ordine crescente della popolazione residente, a partire cioè dalla circoscrizione meno popolata. Tale successione fa si che nelle circoscrizioni più piccole – dove i seggi vengono assegnati quasi sicuramente soltanto con le parti decimali – siano assegnati i seggi spettanti alle liste che hanno le più grandi parti decimali.
Poiché infatti i quozienti circoscrizionali sono elevati rispetto ai voti ottenuti dalle liste minori, nelle circoscrizioni più piccole i seggi sono assegnati per lo più alle liste maggiori che, sicuramente, hanno le parti decimali maggiori. Pur se il metodo non garantisce che in ogni circoscrizione siano assegnati tutti i seggi che ad essa spettano, l’eventuale slittamento di seggi ha luogo in danno delle circoscrizioni che hanno il maggior numero di seggi e, pertanto, risulta proporzionalmente meno influente.
Quale criterio suppletivo, i seggi che eventualmente rimanessero ancora da assegnare ad una lista sono attribuiti alla stessa nelle circoscrizioni dove essa abbia ottenuto i maggiori resti, utilizzando per primi quelli che non hanno già dato luogo alla attribuzione di un seggio. Qualora i seggi da assegnare in una circoscrizione eccedano il numero dei componenti la lista, i seggi eccedenti sono assegnati alla medesima lista nelle altre circoscrizioni, secondo la già detta graduatoria delle parti decimali.
Gli Uffici elettorali circoscrizionali verificano che sia stato assegnato almeno un seggio alla lista che ha ottenuto il maggior numero di voti in sede circoscrizionale. Qualora, al termine delle operazioni illustrate, la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti in sede circoscrizionale non abbia conseguito alcun seggio in sede nazionale, l'Ufficio elettorale nazionale assegna a tale lista un seggio, sottraendolo alla lista che ottiene in sede nazionale l'assegnazione del seggio con il minore resto utile.
Il sistema elettorale delineato dal testo unificato, pur rimanendo proporzionale in ambito nazionale, assume sostanzialmente i caratteri di un sistema maggioritario nelle circoscrizioni alle quali è assegnato un solo seggio; in tali circoscrizioni risulterà infatti eletto il candidato della lista (tra quelle alle quali saranno stati assegnati seggi in ambito nazionale) che avrà ottenuto la maggioranza relativa nella circoscrizione.
Già nella XIII legislatura la Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati aveva esaminato alcune proposte di legge volte a modificare la L. 18/1979[86].
Uno degli elementi comuni alla maggior parte delle proposte allora presentate era la modifica del sistema elettorale con l’intento di garantire un’adeguata rappresentanza territoriale. A tal fine alcune proposte prevedevano l’aumento delle circoscrizioni da 5 a 20 o a 21.
Il testo unificato, presentato in Commissione il 1° dicembre 1998, modificava la L. 18/1979 in vari punti (i medesimi sui quali incidono le proposte di legge esaminate nella XV legislatura).
In particolare, le circoscrizioni elettorali erano aumentate da 5 a 9, e non a 20 o 21 come ipotizzato da alcune delle proposte allora in esame con lo scopo di farne coincidere i confini con quelli delle regioni. In tal modo si accolse il suggerimento, espresso nel corso dell’audizione[87] dei parlamentari europei eletti in Italia, volto a limitare l’aumento delle circoscrizioni al fine di contemperare la necessità di garantire una piena rappresentanza delle regioni con il rispetto del principio della proporzionalità, alla base del sistema elettorale europeo.
Per quanto riguarda l’elettorato passivo, veniva proposto l’abbassamento del limite di età da 25 a 21 anni, unitamente all’introduzione di un rigido regime di ineleggibilità e all’aumento del numero delle cause di incompatibilità.
Il numero di sottoscrittori necessario per la presentazione delle liste dei candidati era ridotto, nel numero minimo da 30.000 a 15.000, in quello massimo da 35.000 a 20.000 elettori.
Erano espressamente abrogate le disposizioni volte a garantire la rappresentanza dei gruppi di minoranza linguistica attraverso il collegamento delle liste (art. 12, commi 9 e 10, della L. 18/1979). Tale rappresentanza era però garantita da specifiche disposizioni. Veniva mantenuto il sistema elettorale proporzionale, ma era proposto un correttivo con l’introduzione di una soglia di sbarramento del 2%. In deroga a tale principio, era previsto che i candidati espressione dei gruppi linguistici minoritari fossero eletti comunque, purché ottenessero almeno 30.000 voti.
Infine, veniva disposta l’applicazione alle elezioni europee della L. 515/1993 per quanto riguarda i limiti massimi della spesa per la campagna elettorale di ciascun candidato e delle liste.
Alla fine del 1998 si è ritenuto opportuno, da parte della Commissione, interrompere la discussione per l’imminenza delle elezioni europee, svoltesi nella primavera del 1999. Il dibattito è ripreso circa un anno dopo, il 7 ottobre 1999; la legislatura si è conclusa senza che la Commissione pervenisse alla votazione del testo unificato.
Nella XIV legislatura, il 4 dicembre 2002, è iniziato presso la Commissione affari costituzionali del Senato l’esame in sede referente di alcuni progetti di legge di iniziativa parlamentare tendenti a modificare la L. 18/1979 (A.S. 340 ed abb.[88]) e diretti principalmente ad una revisione delle circoscrizioni elettorali e all’individuazione di nuovi criteri per l’assegnazione dei seggi alle stesse, al fine di determinare una maggiore rappresentatività di alcune regioni presso il Parlamento europeo. Alcuni di questi (A.S. 1913, 1929 e 2494) disponevano anche l’incompatibilità tra il mandato elettivo europeo e quello nazionale.
L’11 febbraio 2004 il relatore presentava un testo unificato, in cui venivano recepite unicamente le modifiche alla disciplina per l’elezione dei membri del Parlamento europeo necessarie per adeguarla alle nuove regole stabilite in sede europea in conseguenza dell’approvazione della decisione 2002/772/CE, Euratom del Consiglio, del 25 giugno 2002 e del 23 settembre 2002.
In particolare, il testo unificato disciplinava la materia delle incompatibilità, recependo le norme di cui al citato Atto europeo.
In tale testo, secondo quanto osservato dal relatore nel corso dell’illustrazione dei suoi contenuti[89], venivano intenzionalmente tralasciate eventuali ulteriori cause di incompatibilità proposte in alcune delle iniziative allora in corso di esame e non venivano affrontate questioni, oggetto delle medesime iniziative, quali la revisione delle circoscrizioni elettorali, in attesa di verificare, nel corso dell’esame, se vi fossero i tempi necessari per introdurre nella legislazione più ampie modifiche, nell’imminenza della consultazione per l’elezione del Parlamento europeo.
Quanto alle soluzioni proposte (sia mediante le iniziative legislative, sia attraverso gli emendamenti) per introdurre meccanismi atti a favorire il successo dei candidati provenienti dalle isole, dalle regioni minori e dai territori in cui sono presenti minoranze linguistiche, il relatore riteneva che esse apparissero tutte deboli.
Dovendosi escludere l’ipotesi di dar luogo a circoscrizioni più piccole, che avrebbero comportato il surrettizio passaggio a un meccanismo sostanzialmente maggioritario, a parere del relatore si sarebbe potuto correggere il meccanismo di distribuzione dei seggi in base al computo dei resti, stabilendo che questi confluissero in un’unica graduatoria nazionale nell’ambito della quale i seggi fossero assegnati in proporzione ai resti e comunque fino alla concorrenza del numero di seggi previsto per ognuna delle circoscrizioni. Tale ipotesi veniva formalizzata dal relatore medesimo con la presentazione, nel corso dell’esame del d.d.l. S. 2791-bis, del proprio emendamento 5.0.102, successivamente ritirato il 6 aprile 2004 (vedi infra).
Il relatore ribadiva peraltro l’inopportunità di intervenire con una modifica delle circoscrizioni elettorali in prossimità delle elezioni.
Il successivo 26 febbraio il Governo presentava, in attuazione della citata decisione del Consiglio 2002/772, CE, Euratom, un disegno di legge (A.S. 2791) che la Commissione adottava come testo base nella seduta del 3 marzo 2004.
Il 16 marzo la Commissione conveniva poi, al fine di giungere all’approvazione definitiva, seppure parziale, del disegno di legge entro il 31 marzo 2004, di proporre lo stralcio di quegli articoli del testo del Governo che costituivano applicazione immediata delle norme precettive della decisione 2002/772/CE, in modo da renderle applicabili alle imminenti elezioni europee fissate per il 12 e 13 giugno 2004[90].
Il 17 marzo 2004[91], il relatore, esprimendo parere contrario sugli emendamenti concernenti la revisione delle circoscrizioni elettorali, annunciava in Assemblea che le norme per risolvere il problema della sottorappresentazione della Sardegna al Parlamento europeo erano trattate nell'ambito di un altro provvedimento (A.S. 2791-bis), con un emendamento che garantiva alla circoscrizione delle isole l'elezione del numero di parlamentari europei ad essa spettante.
A seguito dello stralcio, le disposizioni originariamente contenute nel disegno di legge del Governo A.S. 2791 hanno pertanto dato origine a due distinte leggi.
La L. 78/2004[92], in attuazione alla decisione 2002/772/CE, Euratom, ha recepito la principale novità da essa introdotta, sancendo l’incompatibilità tra la carica di parlamentare europeo e quella di deputato o di senatore.
La L. 90/2004[93] ha individuato ulteriori incompatibilità tra il mandato europeo e alcune cariche elettive territoriali (presidente di provincia e sindaco di comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti), ha esplicitato anche nella legge ordinaria l’incompatibilità in capo al consigliere regionale prevista dall’art. 122 Cost. e ha modificato le norme per la sottoscrizione delle liste di candidati e per l'espressione delle preferenze.
Durante la discussione in Assemblea dell’A.S. 2791-bis (dal quale è originata la L. 90/2004), la questione del riequilibrio della rappresentanza al Parlamento europeo nelle singole circoscrizioni veniva nuovamente affrontata senza giungere ad una soluzione, rilevandosi[94] che una soluzione pienamente soddisfacente avrebbe richiesto una rivisitazione più ampia della legge, da affrontare in una successiva occasione.
Parlamento e sistema dei partiti
Relativamente alle misure intervenute in materia di trattamento economico dei parlamentari, si segnalano in primo luogo quelle contenute nelle leggi finanziarie, volte al contenimento delle spese per le indennità parlamentari.
L’indennità è prevista dalla Costituzione (art. 69) ed è disciplinata dalla L. 1261/1965[95], che ne fissa la misura massima: essa non può superare il trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzioni di Presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed equiparate.
L’art. 1, co. 52, della L. 266/2005[96] (legge finanziaria per il 2006) ha ridotto del 10 per cento l’ammontare massimo delle indennità mensili spettanti ai componenti della Camera e del Senato. Spetta agli Uffici di Presidenza dei due rami del Parlamento determinare in concreto, entro il citato limite massimo, l’ammontare delle dodici quote mensili da corrispondere a titolo di indennità. In attuazione della disposizione della legge finanziarie per il 2006, l’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati ed il Consiglio di Presidenza del Senato della Repubblica hanno disposto una riduzione pari al 10 per cento dell’importo lordo allora vigente della quota mensile dell’indennità parlamentare spettante rispettivamente a deputati e senatori.
Si ricorda inoltre che il trattamento
economico dei parlamentari comprende anche una diaria corrisposta a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a
Roma (art.
Vanno distinte dalle due voci indicate quelle relative ai rimborsi corrisposti a vario titolo:per le spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori; per le spese di trasporto e le spese di viaggio; per le spese telefoniche; per l’assistenza sanitaria.
Sia alla Camera che al Senato è inoltre previsto che ogni parlamentare versi mensilmente, in un Fondo, una quota pari al 6,7% della propria indennità lorda. Al termine del mandato, il parlamentare riceve l’assegno di fine mandato pari all’80% dell’importo mensile lordo dell’indennità, per ogni anno di mandato effettivo (o frazione non inferiore a sei mesi). Con una deliberazione dell’Ufficio di presidenza della Camera del 23 luglio 2007 sono state infine previste misure volte a ridurre la dinamica della spesa per gli assegni vitalizi e la soppressione dei rimborsi per i viaggi di studio all’estero dei deputati. Per quanto riguarda i vitalizi, sono stati modificati l’importo e le condizioni di accesso: dalla XVI legislatura infatti saranno legate all’acquisizione di una esperienza parlamentare praticata almeno per un’intera legislatura, mentre l’importo dell’assegno vitalizio varierà da un minimo del 20% ad un massimo del 60% e non sarà corrisposto a coloro che, successivamente al 1° gennaio 2008, assumano cariche pubbliche[97] che prevedano una indennità il cui importo sia pari o superiore al 40% dell’indennità parlamentare (alla sospensione non si procederà qualora l’interessato opti per l’assegno vitalizio in luogo dell’indennità).
Analoghe misure sono state adottate dal Consiglio di presidenza del Senato.
La legge
finanziaria 2007[98], all’art. 1, co.
Il successivo co. 576, riduce del 30%, per gli anni 2007 e 2008, la misura dell’adeguamento retributivo previsto per le categorie che ancora usufruiscono di progressioni stipendiali automatiche tra quelle, cosiddette in regime pubblico, indicate dal D.Lgs. 165/2001[100]. Le categorie oggetto della riduzione sono magistrati, docenti e ricercatori universitari, dirigenti dei corpi di polizia e delle forze armate, per i quali i rispettivi ordinamenti prevedono l’adeguamento annuale delle retribuzioni in base agli aumenti percepiti dalle altre categorie di personale delle pubbliche amministrazioni. La decurtazione è limitata al personale che, rientrando in taluna delle categorie innanzi indicate, percepisca retribuzioni complessivamente superiori a 53.000 euro annui. La portata di tale previsione, è stata peraltro limitata al solo anno 2007 dal comma 66 dell’art. 3 della legge finanziaria 2008.
La legge finanziaria 2008[101] reca anch’essa, all’art. 1 co. 375, una disposizione che stabilisce che, nella determinazione delle quote mensili dell’indennità parlamentare – per cinque anni dall’entrata in vigore della legge finanziaria 2008 – non venga applicato l’adeguamento automatico annuale delle retribuzioni del personale pubblico “non contrattualizzato” agli incrementi medi calcolati dall’ISTAT conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti in regime contrattuale sulle voci della rispettiva retribuzione, previsto dalla L. 448/1998[102].
Sempre
con riferimento alla portata della disposizione sotto il profilo finanziario,
si segnala che nella relazione tecnica allegata al testo iniziale del disegno
di legge finanziaria, il Governo illustra come essa produca una riduzione di
spesa “a cascata”, posto che all’indennità dei parlamentari nazionali sono
legati gli emolumenti di una serie di titolari di pubblici uffici (parlamentari
europei, ministri e sottosegretari non parlamentari[103] e
consiglieri regionali). Al proposito si rileva che l’importo dell’indennità
spettante ai parlamentari europei corrisponde attualmente a quello
dell’indennità di funzione del parlamentare nazionale. In particolare,
Deve peraltro ricordarsi che nel 2009 entrerà in vigore lo Statuto dei deputati del Parlamento europeo, il quale provvede, tra l’altro (artt. 9 e seguenti), a rendere omogeneo il trattamento dei singoli eurodeputati e a porlo a carico del bilancio dell’Unione europea anziché – come ora – di quello dei singoli Stati membri. Gli Stati membri (art. 29) potranno definire per i propri deputati del Parlamento europeo una regolamentazione in deroga alle disposizioni dello statuto in materia di indennità, indennità transitorie, pensioni di anzianità e pensioni di reversibilità per un periodo di transizione che non potrà superare la durata di due legislature del Parlamento europeo (quindi fino al 2019). I pagamenti relativi saranno in questo caso interamente a carico del bilancio dei rispettivi Stati membri.
Distacco/aggregazione di enti locali
Ai sensi dell’articolo 132, secondo comma, della Costituzione “si può, con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione e aggregati ad un’altra”.
Il testo vigente del comma è quello risultante dalla riformulazione operata dall’art. 9, co. 1, della L.Cost. 3/2001[105]. La novella ha precisato che, per procedere alla modifica territoriale, è necessaria l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della provincia (o delle province) e del comune (o dei comuni) interessati al distacco. È stato in tal modo circoscritto l’ambito territoriale al cui interno deve aver luogo la consultazione referendaria.
L’originaria formulazione prevedeva che “con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali”, si potesse consentire per le province o i comuni che ne facessero richiesta il distacco da una Regione e l’aggregazione ad un’altra. La norma costituzionale nulla diceva sia sui soggetti da coinvolgere nel processo di richiesta di referendum per il distacco, sia sull’ambito territoriale interessato alla consultazione referendaria.
Le norme per l’attuazione del disposto costituzionale sono recate dal Titolo III (artt. 41 ss.) della L. 352/1970[106], che regola lo svolgimento dei vari referendum previsti dalla Costituzione. Tali norme non sono state modificate in conseguenza della revisione costituzionale[107].
È tuttavia sopravvenuta la sentenza 334/2004 della Corte costituzionale, che ha inciso sull’art. 42, co. 2°, della L. 352/1970 che regola per l’appunto la richiesta del referendum. Secondo la disciplina che ne risulta, tale richiesta deve essere corredata delle deliberazioni, identiche nell'oggetto, dei consigli provinciali o comunali delle (sole) province o comuni di cui si propone il distacco.
Il testo originario del comma prescriveva invece che la richiesta dovesse essere corredata anche delle deliberazioni di un numero di consigli provinciali o di consigli comunali tale da rappresentare
§ almeno un terzo della restante popolazione della Regione dalla quale è proposto il distacco, ed
§ almeno un terzo della popolazione della Regione alla quale si propone che le province o i comuni siano aggregati.
La Corte costituzionale ha ritenuto illegittima questa parte della norma, osservando che essa pone a carico dei richiedenti un adempimento la cui onerosità appare “eccessiva (in quanto non necessitata) rispetto alla determinazione ricavabile dalla nuova previsione costituzionale, e si risolve nella frustrazione del diritto di autodeterminazione dell'autonomia locale, la cui affermazione e garanzia risulta invece tendenzialmente accentuata dalla riforma del 2001.
Poiché il referendum […] mira a verificare se la maggioranza delle popolazioni dell'ente o degli enti interessati approvi l'istanza di distacco-aggregazione, deve coerentemente discenderne che la legittimazione a promuovere la consultazione referendaria spetta soltanto ad essi e non anche ad altri enti esponenziali di popolazioni diverse. Infatti, la riforma del parametro evocato ha inteso evitare che maggioranze non direttamente o immediatamente coinvolte nel cambiamento possano contrastare ed annullare finanche le determinazioni iniziali (neppure giunte al di là dello stadio di semplici richieste) di collettività che intendano rendersi autonome o modificare la propria appartenenza regionale.
Ad ogni modo, le valutazioni di tali altre popolazioni – anche di segno contrario alla variazione territoriale – trovano congrua tutela nelle fasi successive a quella della mera presentazione della richiesta di referendum”, e cioè nel corso dell’esame parlamentare del disegno di legge – poiché il legislatore statale non è in alcun modo vincolato dall’esito positivo del referendum – e in occasione dell’acquisizione e dell'esame dei pareri dei Consigli regionali.
Il successivo art. 44, co. 3° (la cui formulazione è antecedente alla modifica costituzionale intervenuta nel 2001) prevede tuttora che il referendum sia indetto sia nel territorio della Regione dalla quale le province o i comuni intendono staccarsi, sia nel territorio della Regione alla quale le province o i comuni intendono aggregarsi; nella già menzionata sent. 334/2004, tuttavia, la Corte costituzionale ha affermato il principio secondo cui “l’espressione ‘popolazioni della provincia o delle province interessate e del comune o dei comuni interessati’, utilizzata dal nuovo art. 132, secondo comma, [della Costituzione,] inequivocamente si riferisce soltanto ai cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco-aggregazione”: essi soli costituiscono quindi il corpo elettorale chiamato ad esprimersi con referendum sulla proposta di variazione territoriale.
Quanto agli aspetti procedurali (artt. 43-45, L. 352/1970), spetta all’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, accertare la legittimità della richiesta di referendum (che è indetto con D.P.R., su deliberazione del Consiglio dei ministri), e in seguito proclamare i risultati. La proposta è dichiarata approvata se il numero dei voti attribuiti alla risposta affermativa non sia inferiore alla maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei comuni nei quali è stato indetto il referendum; altrimenti è dichiarata respinta.
In caso di approvazione, il ministro dell’interno presenta al Parlamento il disegno di legge di cui all’articolo 132, co. 2°, Cost. entro 60 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del risultato del referendum. La proposta respinta, invece, non può essere rinnovata prima che siano trascorsi cinque anni.
Nell’ambito del dibattito politico sul tema in esame, sia nella XIV sia nella XV legislatura, sono emerse opinioni diverse in ordine alle modalità di applicazione della disciplina qualora il distacco o l’aggregazione di province o comuni incida sul territorio di Regioni ad autonomia differenziata, i cui statuti speciali sono, com’è noto, adottati con legge costituzionale.
La questione dell’applicabilità tout-court dell’art. 132, co. 2°, Cost. alle Regioni a statuto speciale è stata risolta in senso positivo dalla Corte costituzionale nella recente sentenza 66/2007, con la quale è stato definito un conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Valle d’Aosta a seguito dell’indizione del referendum relativo al distacco del comune di Noasca dalla Regione Piemonte e alla sua aggregazione alla Regione Valle d'Aosta[108].
Tra le argomentazioni addotte dalla Regione ricorrente vi era quella secondo cui il proprio territorio sarebbe stato sostanzialmente costituzionalizzato dall'art. 1, secondo comma, dello statuto di autonomia[109], con riferimento alle circoscrizioni comunali che ne facevano parte alla data della sua entrata in vigore (11 marzo 1948), e che modificazioni al territorio regionale potrebbero essere introdotte solo mediante il procedimento di revisione dello statuto previsto dall'art. 50 dello stesso.
La Corte non ha accolto le argomentazioni della ricorrente, affermando invece che “l'art. 132, primo e secondo comma, Cost. si riferisce pacificamente a tutte le Regioni […] mediante l'individuazione di procedure che coinvolgono tutti i diversi organi e soggetti indicati dalle norme costituzionali come attori necessari nei differenziati procedimenti ivi configurati” e che “nessuna procedura normativa interna ad un singolo ordinamento regionale potrebbe produrre effetti su due diversi enti regionali, come è palese nello stesso caso che ha originato il presente giudizio, nel quale il procedimento di distacco-aggregazione investe ovviamente due Regioni”.
Si è dibattuto, per altro verso, se – ferma restando la procedura di cui all’art. 132, co. 2°, Cost. – sia o meno necessario il ricorso a una legge costituzionale, anziché ordinaria, quando il distacco/aggregazione incida sul territorio di una Regione a statuto speciale.
Il Governo, in occasione della presentazione del disegno di legge conseguente al referendum avente ad oggetto il distacco del comune di Lamon dalla Regione Veneto e l’aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, ha ritenuto necessaria la presentazione di un disegno di legge costituzionale.
Come precisa la relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge di iniziativa governativa (A.C. 1427), al Governo “è apparso imprescindibile procedere mediante lo strumento della legge costituzionale, quale fonte di diritto pariordinata a quella che definisce l’autonomia speciale del Trentino-Alto Adige”, in quanto la variazione territoriale (distacco-aggregazione) che interessa il comune di Lamon “andrebbe ad incidere anche sul territorio di una Regione ad autonomia differenziata”.
La posizione è stata ribadita dall’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, nel già ricordato giudizio per conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Valle d’Aosta. Nelle motivazioni della sentenza, peraltro, la Corte non affronta espressamente questo profilo.
Con il disegno di legge A.C. 2523 (presentato il 17 aprile 2007 e discusso dalla I Commissione della Camera, che non ne ha concluso l’esame) il Governo ha ritenuto di intervenire sulla disciplina costituzionale in materia riformulando l’intero secondo comma dell’art. 132 Cost..
Le novità introdotte dalla riformulazione proposta sono essenzialmente tre:
§ si prevede che la richiesta della provincia o del comune di passare da una regione ad un’altra sia sostenuta dal previo espresso consenso della rispettiva popolazione. La manifestazione di tale consenso avrebbe luogo secondo forme rimesse all’autonomia statutaria di ciascun ente locale;
§ risulta ampliato l’ambito territoriale di svolgimento del referendum, e quindi la popolazione coinvolta nella consultazione: non più soltanto i cittadini degli enti locali direttamente coinvolti nel distacco/aggregazione, bensì quella:
- delle due Regioni interessate, se il referendum ha ad oggetto il passaggio una provincia da una ad altra Regione;
- delle due province interessate, se il referendum ha ad oggetto il passaggio di uno o più comuni da una provincia ad un'altra appartenente a diversa Regione;
§ ai fini della prosecuzione dell’iter, si esige che la consultazione referendaria abbia esito positivo (distintamente e contestualmente) presso ciascuna delle due Regioni (o province) in cui essa si svolge.
La relazione del Governo motivava l’iniziativa sostenendo che “il distacco e la conseguente aggregazione di un comune o di una provincia da una Regione ad un'altra costituisce […] una forma di ‘annessione’ parziale e consensuale, il che presuppone, di conseguenza, un accordo tra due entità distinte, ossia l'incontro di due volontà tra loro anche contrapposte. Questo momento di ‘convergenza di volontà’ – consacrato nella tornata referendaria – non può che essere riservato tanto ai soggetti che richiedono per se stessi di essere distaccati e successivamente aggregati, quanto a quelli che, in ordine alla propria sfera di interessi (sociali, economici eccetera), subiscono in ogni caso un profondo e significativo impatto dal suddetto processo”.
Servizi pubblici locali
La disciplina generale dei servizi pubblici locali si rinviene principalmente nel testo unico delle disposizioni in materia di enti locali, adottato con il decreto legislativo 267/2000[110], come modificato dall’art. 35 della L. 448/2001[111], legge finanziaria per il 2002 e dall’art. 14 del D.L. 269/2003[112].
La normativa prevede un diverso regime tra la gestione dei servizi di rilevanza economica (art. 113) e di quelli privi di rilevanza economica (art. 113-bis).
Tuttavia, occorre precisare fin d’ora che le disposizioni dell’art. 113-bis del testo unico (introdotto dalla citata L. 448/2001) sono state giudicate illegittime dalla Corte costituzionale (sent. 272/2004; vedi oltre). Pertanto, solamente i servizi pubblici di rilevanza economica risultano disciplinati a livello statale.
L’articolo 113 disciplina la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Quanto alla definizione di servizi di rilevanza economica essa si può desumere indirettamente dall’art. 2082 del codice civile che definisce l’imprenditore come colui che esercita “un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
L’introduzione di tale definizione si deve all’art. 14 del D.L. 269/2003, che ha sostituito la precedente distinzione tra servizi di rilevanza industriale e servizi privi di rilevanza industriale.
La novella accoglie uno dei rilievi alla base della procedura d’infrazione attivata da parte della Commissione europea.
La Commissione aveva infatti eccepito che la qualificazione di alcune categorie di servizi pubblici come “servizi privi di rilevanza industriale” non avrebbe potuto comunque avere l’effetto di sottrarre l’affidamento di tali servizi alle regole comunitarie in materia di appalti e di concessioni. In tal senso, la separazione fra una disciplina dei servizi pubblici di rilevanza economica (art. 113 del TU) e una disciplina dei servizi pubblici “privi di rilevanza economica” (art. 113-bis del TU) appare più coerente con i principi del diritto comunitario, che comprende nell’ambito delle proprie norme tutte le attività economiche di prestazione di beni e servizi (art. 50 del Trattato), sottoponendole – in quanto tali – al rispetto delle norme e dei principi del Trattato.
Il comma 1 dell’art. 113 definisce l’ambito di applicazione delle disposizioni successive, specificando che esse:
§ si applicano ai servizi pubblici locali di rilevanza industriale;
§ concernono la tutela della concorrenza;
§ sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore afferenti ai servizi pubblici locali;
§ lasciano ferme le disposizioni prevista per i singoli settori;
§ lasciano ferme le disposizioni necessarie all’attuazione di specifiche normative comunitarie in materia;
§ non si applicano ai settori dell’energia elettrica e del gas (disciplinati, rispettivamente, dal D.Lgs. 79/1999[113] e dal D.Lgs. 164/2000[114]).
Successivamente, anche il settore del trasporto pubblico locale è stato escluso espressamente dal regime generale dei servizi pubblici locali (art. 1, comma 48, della L. 308/2004[115], che aggiunge un comma 1-bis all’art. 113 del testo unico; lo stesso art. 1, co. 48, ha sottratto al regime generale anche gli impianti di trasporti a fune nelle località turistiche montane).
Pertanto, le maggiori attività di erogazione di servizi pubblici locali (elettricità, gas e trasporto pubblico locale) sono esclusi dall’ambito di applicazione delle norme del testo unico.
In proposito, si pone anche il problema del rapporto tra norme statali e legislazione regionale. Infatti, nel nuovo art. 117 della Costituzione la disciplina dei servizi pubblici locali non è compresa né tra le competenze esclusive dello Stato, né fra quelle concorrenti, e pertanto parrebbe da considerarsi di competenza piena (residuale) delle regioni.
La Corte costituzionale, con la sentenza 272/2004, ha contribuito a chiarire in modo significativo sia il rapporto tra normativa generale e normativa di settore, sia quello tra competenza legislativa statale e competenza legislativa regionale.
Secondo la Corte la disciplina dei servizi pubblici locali “può essere agevolmente ricondotta nell’ambito della materia tutela della concorrenza, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato”. La stessa Corte, secondo un indirizzo giurisprudenziale costante, dà, inoltre, una interpretazione ampia del principio della tutela della concorrenza, concernente oltre alla tutela vera e propria anche l’adozione di misure di promozione della concorrenza stessa. Tutela e promozione sono dunque gli ambiti di manovra legittimi per il legislatore statale, che non possono essere derogati né dalle regioni, né dalle norme settoriali.
Centrale, sotto questo profilo, è la dichiarazione, contenuta nell’art. 14 di modifica del comma 1 dell’art. 113 del testo unico, secondo cui le disposizioni sulle modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica “concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore”. Tale disposizione per la Corte: “si può dunque sostanzialmente considerare una norma-principio della materia, alla cui luce è possibile interpretare il complesso delle disposizioni in esame nonché il rapporto con le altre normative di settore, nel senso cioè che il titolo di legittimazione dell’intervento statale in oggetto è fondato sulla tutela della concorrenza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e che la disciplina stessa contiene un quadro di principi nei confronti di regolazioni settoriali di fonte regionale”.
La proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni, destinati all’esercizio dei servizi pubblici di rilevanza economica deve comunque rimanere pubblica (art. 113, co. 2).
Agli enti locali è rimessa la scelta tra il possesso diretto delle reti ovvero il loro conferimento a società di capitali delle quali, in ogni caso, debbono detenere la maggioranza.
Infatti, in alternativa al controllo diretto, il comma 13 dell’articolo 113 prevede che gli enti locali possono conferire la proprietà delle reti degli impianti e delle altre dotazioni a società a capitale interamente pubblico, che è incedibile. Queste società a loro volta pongono le reti a disposizione di gestori del servizio a fronte del pagamento di un canone. La quantificazione del canone è demandata alla Autorità nazionale di settore, ove costituita, come per esempio nel settore dell’elettricità e del gas, ovvero, in assenza all’ente locale.
Per l’individuazione dei casi in cui l’attività di gestione delle reti e degli impianti può essere separata dall’attività di erogazione dei servizi l’art. 113 fa rinvio alle discipline di settore (comma 3). Si afferma, inoltre, il principio per cui deve comunque essere garantito l’accesso alla rete a tutti gli operatori legittimati all’erogazione dei relativi servizi. In sostanza, il testo non stabilisce alcuna preferenza in ordine al contestuale svolgimento, da parte di un medesimo soggetto, dell’attività di gestione delle reti e dello svolgimento del servizio.
Nel caso di separazione fra attività di gestione delle infrastrutture e attività di erogazione dei servizi (comma 4), l’ente locale può affidare la gestione delle reti e delle infrastrutture secondo due modalità:
§ affidamento diretto a società di capitali interamente pubbliche secondo la procedura in house (vedi oltre);
§ gara pubblica.
Va peraltro segnalata un’ulteriore disposizione in materia di gestione delle reti; si tratta, in particolare, della previsione di cui all’ultimo periodo del comma 13 dell’art. 113,in base al quale gli enti locali possono decidere di assegnare la gestione stessa alle società cui i medesimi enti hanno la facoltà di conferire le reti e gli impianti. Si ricorda che la maggioranza del capitale di tale facoltà deve in ogni caso essere detenuta dagli stessi enti locali.
La legge finanziaria 2004 (art. 4, co. 234, lett. a) ha integrato la disciplina sopra esposta.
Il testo del nuovo comma 5-ter dispone sull’esecuzione dei lavori connessi alla gestione della rete secondo tre diverse modalità a seconda che la gestione della rete (separata o integrata con la gestione dei servizi) sia stata o meno affidata con gara ad evidenza pubblica, o che la gara abbia avuto ad oggetto esclusivamente la gestione del servizio relativo alla rete.
§ Qualora la gestione della rete sia stata affidata senza gara, i gestori provvedono all’esecuzione dei relativi lavori:
- con appalti o concessioni con procedure di evidenza pubblica,
- ovvero in economia nei limiti di cui all’art. 24 della legge 11 febbraio 1994 n. 109[116] e all’art. 143 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554[117].
§ Qualora la gestione della rete sia stata affidata con gara, il gestore può realizzare direttamente i relativi lavori a due condizioni:
- che sia qualificato ai sensi della normativa vigente e
- che la gara abbia compreso – oltre al servizio relativo alla rete – anche l’esecuzione dei lavori connessi.
§ Qualora, invece, la gara abbia compreso solo il servizio relativo alla rete, il gestore deve appaltare i lavori a terzi con le procedure ad evidenza pubblica.
Il comma 5 dell’articolo 113 reca le disposizioni volte a liberalizzare il mercato dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale.
In particolare, viene definito il tipo di concorrenza che si può applicare al settore. In particolare, piuttosto che imporre l’introduzione di forme di concorrenza nel mercato (ossia la contemporanea presenza nel mercato di una molteplicità di soggetti fornitori dei medesimi servizi, con la possibilità da parte degli utenti di scegliere indifferentemente a quale di essi ricorrere), viene prospettata la necessità di assicurare la concorrenza per il mercato, attraverso il conferimento della titolarità del servizio, che viene esercitato in regime di monopolio, ma attraverso l’espletamento di gare di evidenza pubblica, alle quali tutti gli operatori (pubblici e privati) partecipano su un piano di parità.
L’art. 35 della legge 448 individuava una sola modalità di esercizio dell’attività di erogazione dei servizi pubblici locali: affidamento a società di capitali mediante procedure di evidenzia pubblica.
L’art. 14 del decreto legge 269 ha ampliato le forme di affidamento prevedendo due ulteriori possibilità:
§ affidamento a società a capitale misto pubblico-privato;
§ affidamento in house a società a capitale interamente pubblico alle condizioni viste sopra per la gestione delle infrastrutture
Per quanto riguarda la scelta della società di capitali, la norma si inserisce in un processo normativo che ha progressivamente individuato strumenti operativi per favorire, nella gestione dei servizi pubblici locali, la forma societaria. Con la L. 142/1990 (art. 22) per la prima volta si individua la società per azioni, sia pure a prevalente proprietà pubblica (le cosiddette società miste), tra le forme di gestione dei servizi pubblici locali accanto a forme tipiche del diritto pubblico (concessione, azienda speciale, istituzione ecc.). Nel decennio successivo l’ordinamento si muove in due direzioni. Da un lato si amplia e si fa più articolato il ricorso a istituti di diritto privato: introduzione tra le forme di gestione della società per azioni non a maggioranza pubblica (art 12, L. 498/92) e della società a responsabilità limitata (art. 17, comma 58, L. 127/97); dall’altro, si moltiplicano gli incentivi ad utilizzare tali istituti: tra questi si ricordano l’esenzione tributarie per i trasferimenti di beni effettuati dagli enti locali a favore delle società miste (D.L. 6/1991, conv. L. 80/1991), la definizione di una disciplina dettagliata per la costituzione delle società miste a prevalente capitale privato (D.P.R. 533/1996), la semplificazione delle procedure di trasformazione delle aziende speciali in società per azioni (art. 17, co. 48 e 51-58, L. 127/1997).
L’art. 35 della legge 448 porta a compimento tale percorso con l’individuazione della società di capitali come unica forma di gestione dei servizi pubblici locali e con il conseguente obbligo delle aziende speciali di trasformarsi in società di capitali[118] (vedi oltre: comma 8).
Il riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, ai fini dell’individuazione del soggetto idoneo, rende applicabili alla ipotesi in esame le norme di cui alla direttiva CEE n. 50 del 1992, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di servizi, recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 157/1995, ora confluito nel D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
Di particolare rilievo, l’innovazione introdotta dall’art. 14 del D.L. 269, che prevede la possibilità di affidare l’erogazione dei servizi a società a capitale pubblico sul quale l’ente pubblico proprietario vi eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente pubblico che la controllo (c.d. affidamento in house). Tale tipologia di affidamento è espressamente esclusa dall’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006, art. 15).
Per quanto riguarda questa particolare modalità di esercizio dei servizi pubblici locale è opportuno richiamare la circolare del Dipartimento politiche comunitarie 1° marzo 2002, n. 3944 Procedure di affidamento delle concessioni di servizi e di lavori (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 102 del 3 maggio 2002) dove viene chiarito che “la normativa europea in tema di appalti pubblici, in particolare di servizi, non trova applicazione (e pertanto l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito anche senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica prescritte dalle norme comunitarie) solo quando manchi un vero e proprio rapporto giuridico tra l’ente pubblico e il soggetto gestore, come nel caso, secondo la terminologia della Corte di giustizia, di delegazione interorganica o di servizio affidato, in via eccezionale, in house (cfr. Corte di giustizia, sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal). In altri termini, quando un contratto sia stipulato tra un ente locale ed una persona giuridica distinta, l’applicazione delle direttive comunitarie può essere esclusa nel caso in cui l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona (giuridica) realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano. Segnatamente, ad avviso delle istituzioni comunitarie per controllo analogo s’intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario. In detta evenienza, pertanto, l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito senza ricorrere alla procedure di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie innanzi citate. Al contrario, ove non ricorra un siffatto controllo gestionale ed economico dell’ente pubblico sul soggetto gestore ma l’affidamento riguardi un servizio in cambio della gestione dello stesso come corrispettivo (e dunque configuri, secondo l’interpretazione della commissione, una concessione di servizi) l’aggiudicazione del servizio deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi comunitari di trasparenza e di parità di trattamento che impongono la necessità di seguire procedure di evidenza pubblica”.
Le normative di settore possono introdurre regole che assicurino la concorrenzialità nella gestione dei servizi, al fine di superare assetti monopolistici, prevedendo criteri di gradualità nella scelta della modalità di conferimento del servizio. (comma 5-bis dell’art. 113 TU, introdotto dalla legge 350/2003, legge finanziaria 2004, art. 4, comma 234, lett. a)).
Viene fatto salvo il rispetto delle disposizioni di cui al comma 5 che rinvia alle discipline di settore e prevede una triplice possibilità di conferimento della titolarità del servizio (società di capitali individuate con evidenza pubblica; società a capitale misto pubblico privato alle condizioni previste; affidamento c.d. “in house”).
Il comma 6 dell’art. 113 individua alcuni casi di esclusione dalla partecipazione alle gare.
Si tratta, in particolare:
§ delle società che gestiscono, anche all’estero e a qualunque titolo servizi pubblici locali in affidamento diretto o a seguito di una procedura non a evidenza pubblica o a seguito dei relativi rinnovi;
§ delle società di gestione delle reti, qualora le discipline di settore stabiliscano la separazione tra l’attività di gestione delle reti e quella di erogazione del servizio (si veda sopra: commi 3 e 4).
Tali divieti sono estesi anche alle società controllate e collegate.
Per quanto concerne la nozione di controllo delle imprese, Il codice civile reca una definizione riferita alle società per azioni (art. 2359 c.c.). Sono società controllate:
§ le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (si tratta del c.d. controllo di diritto);
§ le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;
§ le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Nei primi due casi si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; ma non i voti spettanti per conto di terzi.
Si definiscono collegate, invece, le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. Si presume l’influenza quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.
Tale disciplina è stata integrata dalla legge istitutiva dell’Autorità anti-trust che ha ampliato ed approfondito il concetto di controllo ai fini dei compiti istituzionali dell’Autorità, volti a tutelare il diritto di iniziativa economica (L. 287/1990, art. 7). Per questi fini si ha controllo, oltre che nei casi contemplati dall’articolo 2359 c.c., in presenza di diritti o contratti che conferiscono la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle attività di un’impresa, anche attraverso: diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio di un’impresa, diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi di un’impresa. Il controllo si estende anche alle persone o imprese che, pur non essendo titolari di tali diritti o contratti, abbiano il potere di esercitare i diritti che ne derivano.
La legge individua alcuni criteri e modalità per lo svolgimento delle gare di affidamento (art. 113, comma 7). In particolare:
§ le gare devono essere indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza, definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali;
§ le gare sono aggiudicate sulla base del migliore livello di qualità e sicurezza e delle condizioni economiche e di prestazione del servizio, dei piani di investimento per lo sviluppo e il potenziamento delle reti e degli impianti, per il loro rinnovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale.
Il secondo criterio individuato dall’art. 113 è stato giudicato illegittimo dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 272/2004: “L’estremo dettaglio nell’indicazione di questi criteri, […] va al di là della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara […]. È evidente quindi che la norma in esame, prescrivendo che deve considerarsi integrativa delle discipline settoriali di fonte regionale la disposizione estremamente dettagliata ed autoapplicativa di cui al citato art. 113, comma 7, pone in essere una illegittima compressione dell’autonomia regionale, poiché risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza l’intervento legislativo statale”.
La possibilità di gestire più servizi pubblici integrati da parte di una sola impresa (c.d. multiutility) è contemplata dal comma 8 dell’art. 113, che ammette esplicitamente la possibilità di affidare più servizi con unica gara se ciò risulti economicamente più vantaggioso. Sono esclusi i servizi di trasporto. La durata dell’affidamento è unica per tutti i servizi e non può essere superiore alla media calcolata sulla base della durata degli affidamenti indicata dalle discipline di settore.
Il comma 9 dell’art. 113disciplina gli effetti della scadenza del periodo di affidamento e gli esiti delle gare di affidamento. In tali casi le reti, gli impianti e le altre dotazioni, di proprietà degli enti locali sono affidate al nuovo gestore. Si prevede, inoltre, che al nuovo gestore vengano trasferite le infrastrutture realizzate dal gestore uscente in attuazione dei piani di investimento e che venga riconosciuto un indennizzo pari al valore dei beni non ancora ammortizzati, il cui ammontare è indicato nel bando di gara.
Il comma 10 dell’art. 113 afferma il principio della parità di trattamento, in primo luogo sotto il profilo tributario, dei gestori di pubblici servizi. Si stabilisce, infatti, il divieto di introdurre regimi differenziati, anche con riferimento all’eventuale concessione di contributi o agevolazioni per lo svolgimento del servizio. La disposizione ha carattere generale, riferendosi a concessioni “da chiunque dovute”. Si può peraltro osservare che proprio il richiamo ad un obbligo di corrispondere contribuzioni o agevolazioni sembra riferirsi a rapporti ovvero a disposizioni preesistenti. In forza di tali disposizioni, non sarebbero ammissibili discriminazioni derivanti dalla diversa forma giuridica adottata dal soggetto erogatore del servizio.
Il comma 11 dell’art. 113 stabilisce che i rapporti tra società di erogazione del servizio e di gestione delle reti e degli impianti, da un lato, e gli enti locali, dall’altro, sono regolati da contratti di servizio allegati ai capitolati di gara. Detti contratti devono prevedere sia i livelli dei servizi da garantire, sia adeguati strumenti di controllo del rispetto di tali livelli.
Il contratto di servizio costituisce uno strumento innovativo per la regolazione dell’esercizio dei servizi di interesse pubblico che segna, in sostanza, il passaggio dal regime concessorio a quello negoziale.
Esso è stato inizialmente introdotto nel settore del trasporto pubblico locale con il Regolamento 1191/69/CEE così come modificato dal 1893/91/CEE.
In seguito, l’utilizzo di tale strumento è stato esteso anche agli altri settori dei servizi pubblici locali con il D.L. n. 26 del 1995 (L. n. 95 del 1995) che all’articolo 5 (ora articolo 114, comma 8, del testo unico degli enti locali) prevede la stipulazione di un contratto di servizio per disciplinare i rapporti tra ente locale ed azienda speciale.
Caratteristiche essenziali del contratto di servizio sono le seguenti:
previsione di una disciplina degli obblighi propri dei soggetti erogatori del servizio;
previsione di un corrispettivo per gli obblighi di servizio.
Il D.Lgs. 422/97 di disciplina del trasporto pubblico locale ha dato una compiuta definizione dei contenuti dei contratti di servizio che devono prevedere:
il periodo di validità;
le caratteristiche dei servizi offerti;
gli standard qualitativi minimi del servizio;
la struttura tariffaria;
gli oneri di servizio e le modalità di adeguamento della struttura tariffaria;
le modalità di revisione ed adeguamento del contratto stesso.
Il comma 12 dell’art. 113 disciplina la cessione da parte dell’ente locale delle partecipazioni nella società di capitali alla quale sia stata affidata l’erogazione dei servizi pubblici, disponendo che tale cessione non ha effetti in merito alla durata delle concessioni e degli affidamenti. La cessione non comporterebbe, quindi, alcuna soluzione di continuità relativamente ai rapporti in essere.
Si segnala inoltre che il comma 10 dell’articolo 35 della L. 448/2001, subordina la facoltà di cedere le partecipazioni nelle società erogatrici di servizi allo scorporo (disciplinato dal comma 9 dello stesso art. 35) delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni per l’esercizio dei servizi pubblici locali.
Le disposizioni in esame, che intervengono in ordine alle conseguenze della dismissione della partecipazione di controllo da parte dell’ente locale, sono dettate dall’esigenza di favorire la privatizzazione delle imprese pubbliche, senza che questo comporti un immediato obbligo di procedere ad un nuovo affidamento.
Come si è visto sopra (comma 3) l’articolo 113 affida alle discipline di settore il compito di stabilire la separazione o meno tra gestione delle reti ed erogazione del servizio che utilizza le medesime reti. Il comma 14 dell’art. 113 stabilisce che qualora le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali per la gestione di servizi di rilevanza industriale siano di proprietà di soggetti diversi rispetto agli enti locali, questi soggetti possono gestire i servizi solo a condizione che vengano rispettati gli standard qualitativi, quantitativi ambientali e di sicurezza stabiliti, ai sensi del comma 7 dell’art. 113, da parte dell’Autorità di settore o dagli enti locali e che siano praticate tariffe non superiori alla media regionale.
L’art. 35 della legge 448 contiene altre disposizioni in materia di servizi pubblici locali non inserite nel testo unico.
Il comma 6stabilisce che nel caso in cui le specifiche discipline di settore prevedono la gestione sovracomunale del servizio, i soggetti affidatari del servizio stipulano apposite convenzioni con i comuni di dimensione demografica inferiore a 5.000 abitanti anche al fine di assicurare il rispetto di standard adeguati di erogazione del servizio. In caso di inosservanza di tali standard da parte degli gestori operanti nel territorio del comuni di minore dimensione, i soggetti competenti all’affidamento del servizio nell’ambito sovracomunale provvedono alla revoca dell’affidamento in corso sull’intero ambito.
Il comma 7 prevede che al termine dell’affidamento, le imprese concessionarie reintegrano gli enti locali del possesso delle reti, degli impianti e delle infrastrutture utilizzate per la gestione dei servizi.
Il comma 8 prevede la trasformazione, entro il 30 giugno 2003, delle aziende speciali e dei consorzi che gestiscono servizi di rilevanza industriale in società di capitali. Si ricorda infatti che l’art. 113, comma 5, prevede che l’erogazione di tali servizi avvenga con conferimento a società di capitali.
Per quanto riguarda le modalità di trasformazione, si rinvia alle disposizioni contenute nell’articolo 115 del testo unico. Si tratta di norme di semplificazione delle procedure di trasformazione, introdotte dalla legge 15 maggio 1997, n. 127 (art. 17, commi 48 e 51-58), poi confluite nel testo unico.
Ai sensi dell’articolo 115 del testo unico (come modificato dal medesimo art. 35 della legge 448) le province e i comuni possono trasformare le aziende speciali e i consorzi in società di capitali con “atto unilaterale”, con l’unico obbligo da parte degli enti locali medesimi di non rimanere azionisti unici per più di due anni dalla trasformazione, e di aprire le società alla partecipazione di altri soggetti, anche privati. Tali società possono essere costituite anche ai fini della loro privatizzazione ai sensi del D.L. 332/94. Inoltre, viene lasciata aperta anche la possibilità della trasformazione parziale dell’azienda speciale mediante la sua scissione e il conferimento di un ramo aziendale ad una nuova società.
In attuazione del principio di separazione tra proprietà delle reti (pubblica) e gestione del servizio (in concorrenza), il comma 9, prevede che gli enti locali debbano provvedere a scorporare dalle società di cui detengano la maggioranza del capitale che, alla stessa data, gestiscano servizi pubblici locali e siano titolari delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, le medesime infrastrutture e dotazioni e il loro contestuale conferimento ad una nuova società di capitali, di cui gli enti locali detengano la maggioranza, a cui è affidata esclusivamente la proprietà delle reti e impianti.
La norma appare orientata alla creazione dei presupposti della privatizzazione del settore, anche in considerazione che il successivo comma 10 subordina, come già ricordato, la facoltà da parte degli enti locali di cedere le partecipazioni nelle società erogatrici di servizi solo successivamente alle operazioni di scorporo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni per l’esercizio dei servizi pubblici locali.
Ai sensi del comma 11, in deroga alle disposizioni recate all’articolo 113, comma 2, del testo unico sugli enti locali, come sostituito dal comma 1, è consentita la cessione, totale o parziale, della partecipazione detenuta dagli enti locali nelle società erogatrici di servizi che siano proprietarie anche delle reti e degli impianti, senza l’obbligo del preventivo scorporo, nel caso in cui le medesime società siano già quotate in borsa ovvero quando si tratti di società la cui quotazione sia stata già deliberata dagli enti locali alla data del 1° gennaio 2002, fermo restando che il relativo procedimento deve concludersi entro il 31 dicembre 2003.
In tal caso si prevede la costituzione di un diritto di uso perpetuo e inalienabile a favore degli enti locali, ai sensi dell’articolo 1021 del codice civile, sulle reti, sugli impianti e sulle altre dotazioni patrimoniali ai fini della loro assegnazione al nuovo gestore delle reti a seguito della gara di affidamento successiva alla scadenza dell’affidamento.
In altre parole, le società di cui sopra mantengono la proprietà delle reti, l’affidamento per l’erogazione del servizio e, se la normativa di settore lo consente anche la gestione delle reti (vedi comma 3 del nuovo articolo 113). Una volta che l’affidamento della gestione delle reti o – nel caso di non separazione tra gestione delle reti e erogazione del servizio – dell’erogazione del servizio è scaduto, l’ente locale provvede all’affidamento della gestione delle reti, unitamente o meno alla gestione del servizio, attraverso gara pubblica. L’esito della gara può portare all’individuazione di un soggetto diverso dalle società di cui sopra, le quali sono tenute a cedere la gestione delle reti in virtù del diritto di uso sopra richiamato.
Il proprietario, nel caso si verifichi l’ipotesi di cui sopra di affidamento della gestione delle reti ad un soggetto diverso, rimane titolare del diritto della percezione di un canone.
Per i servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, non sussistendo particolari esigenze di tutela della concorrenza, la legge non ha previsto stringenti disposizioni volte all’apertura al mercato.
L’art. 113-bis del testo unico, aggiunto dall’art. 35 della legge 448, si limitava a stabilire due possibili forme di gestione dei servizi non rilevanti:
§ l’affidamento diretto (tramite istituzioni, aziende speciali, o società di gestione in house) e
§ la gestione in economia.
Come anticipato all’inizio, le disposizioni dell’art. 113-bis sono state giudicate illegittime dalla Corte costituzionale nella più volte citata sentenza n. 272/2004 proprio in considerazione della non rilevanza ai fini economici dei servizi pubblici oggetto della norma. Essendo prive di rilevanza economica, a tali attività non sono applicabili criteri concorrenziali. Dal momento che la Corte giustifica l’intervento del legislatore statale nel settore dei servizi pubblici locali esclusivamente per gli aspetti di tutela della concorrenza, mentre la disciplina dei servizi di rilevanza industriale sono di competenza statale, quelli che sono privi di tale rilevanza rientrano nelle competenze delle autonomie territoriali.
Ordinamento degli enti locali
Il 9 maggio 2007 la Commissione Affari costituzionali del Senato ha iniziato l’esame in sede referente del disegno di legge di iniziativa governativa S. 1464[119] (cosiddetto Codice delle autonomie), recante una serie di deleghe al Governo finalizzate dare attuazione all’articolo 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione[120] e dare una disciplina organica alla materia degli enti locali, al loro ordinamento e ai loro rapporti con lo Stato e le Regioni, adeguandoli alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione.
Il tema era stato in precedenza oggetto della legge 131 del 2003[121] (cosiddetta legge La Loggia), il cui art. 2, comma 1, recava una delega al Governo ad adottare, entro il 31 dicembre 2005, i decreti per l’individuazione delle funzioni fondamentali essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento; la delega non fu però esercitata prima della fine della legislatura, anche perché era in corso l’adozione di una profonda modifica della Costituzione, non promulgata a seguito dell’esito del referendum confermativo svoltosi il 25 giugno 2006.
Come ricordato dal relatore di maggioranza, la questione del codice delle autonomie era stata ampiamente trattata nell’ambito dell’indagine conoscitiva svolta congiuntamente dalle Commissioni affari costituzionali della Camera dei deputati e del Senato sul Titolo V della Parte II della Costituzione (vedi il capitolo Titolo V: le questioni aperte, nel dossier 1/1, parte seconda): in quella sede egli aveva svolto una relazione, nella seduta del 20 ottobre 2006, punto di partenza del percorso che aveva portato il Governo, d’intesa con le Regioni e gli enti locali, a sottoporre al Parlamento il disegno di legge in questione.
Durante l’esame del provvedimento, per il quale è stato nominato anche un relatore dell’opposizione, venivano svolte alcune audizioni informali sui principali aspetti dello stesso; il 12 luglio veniva adottato come testo base il disegno di legge del Governo; il 18 luglio, al termine della discussione generale, veniva costituito un comitato ristretto per l’esame degli emendamenti; in quella seduta il relatore riteneva condivisibile la proposta di stralciare le deleghe in materia di sistema elettorale degli enti locali e di bilancio e contabilità: così facendo, la struttura del provvedimento avrebbe seguito in sostanza la traccia della delega approvata nella precedente legislatura con la legge n. 131 del 2003; il 3 ottobre 2007 il relatore informava la Commissione che le previste riunioni del comitato ristretto non si erano tenute per la mancata partecipazione dei senatori designati dai Gruppi di opposizione, motivata dal relatore dell’opposizione con la contrarietà all’introduzione, nel disegno di legge finanziaria per il 2008, di una parte delle disposizioni contenute nel disegno di legge S. 1464, relative alla riduzione dei costi per la rappresentanza negli enti territoriali, una scelta non condivisa dai Gruppi di opposizione (vedi la scheda Interventi sui “costi della politica” negli enti locali, pag. 91). Il 5 dicembre 2007, la Commissione aderiva alla proposta del Presidente di ricondurre alla sede plenaria l’esame degli emendamenti; l’iter del provvedimento non aveva ulteriore corso.
Il disegno di legge, composto di 9 articoli, conferisce le seguenti deleghe al Governo, aventi ad oggetto:
§ l’individuazione e l’allocazione delle funzioni fondamentali degli enti locali;
§ l’individuazione e l’allocazione delle funzioni proprie degli enti locali;
§ la disciplina degli organi di governo, del sistema elettorale e degli altri settori relativi all’organizzazione degli enti locali, di competenza esclusiva dello Stato;
§ l’individuazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente che interessano le funzioni, le organizzazioni ed i servizi degli enti locali;
§ l’istituzione delle città metropolitane;
§ l’individuazione di funzioni amministrative statali ulteriori, rispetto a quelle fondamentali e proprie, da allocare a livello territoriale;
§ l’ordinamento di Roma, capitale della Repubblica;
§ il potere sostitutivo dello Stato da esercitarsi nei confronti delle Regioni in caso di inerzia delle stesse nell’adeguare le proprie disposizioni al nuovo ordinamento degli enti locali;
§ la revisione delle circoscrizioni delle province;
§ l’adozione di una "Carta delle autonomie locali" conseguente al nuovo ordinamento degli enti locali.
Il provvedimento contiene, infine, una clausola di invarianza di spesa: dall’attuazione della legge non devono derivare oneri a carico della spesa pubblica.
Trattandosi di un disegno di legge di delega, le disposizioni in esso contenute dettano i principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega e non sono pertanto immediatamente attuative.
La legge si propone di attuare gli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione, quanto alla individuazione, allocazione e conferimento delle funzioni amministrative spettanti a comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato; adeguare l’ordinamento degli enti locali alla riforma del Titolo V; disciplinare l’ordinamento di Roma capitale e il procedimento di istituzione delle città metropolitane.
Tra i principi che lo Stato e le regioni, nell’esercizio delle proprie competenze legislative, devono osservare nell’adeguare i rispettivi ordinamenti alle disposizioni contenute nella legge, rileva quello dell’obbligatorietà dell’esercizio associato di determinate funzioni amministrative da parte degli enti di minori dimensioni demografiche.
È demandata al Governo l’istituzione di una sede di coordinamento (una sorta di cabina di regia) cui partecipano i rappresentanti dei ministeri interessati e quelli di regioni ed enti locali, con il compito di predisporre gli atti istruttori relativi ai provvedimenti attuativi dei decreti delegati, di verificare i processi di individuazione, allocazione e conferimento delle funzioni amministrative e delle relative risorse, da parte dello Stato e delle regioni, e di coordinare le iniziative relative all’attuazione del federalismo fiscale.
Il disegno di legge delega il Governo ad individuare e allocare le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, nonché le funzioni proprie di tali enti.
Secondo quanto previsto dal disegno di legge, le funzioni fondamentali degli enti locali sono non solo quelle ordinamentali inerenti l’esistenza e l’organizzazione dell’ente, ma anche quelle gestionali attinenti all’esercizio di compiti che sono essenziali per la collettività territoriale amministrata. In quanto “fondamentali” esse sono essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità di riferimento.
La delega detta ulteriori parametri generali per l’individuazione delle funzioni fondamentali:
§ considerare le funzioni storicamente svolte, nonché quelle preordinate a garantire i servizi essenziali su tutto il territorio nazionale;
§ considerare tra le funzioni fondamentali dei comuni tutte quelle che li connotano come ente di governo di prossimità e tra le funzioni fondamentali delle province quelle che le connotano come enti per il governo di area vasta;
§ considerare come funzione fondamentale di comuni, province e città metropolitane, secondo il criterio di sussidiarietà, l’individuazione, per quanto non già stabilito dalla legge, delle attività relative ai servizi pubblici locali di rilevanza economica, il cui svolgimento è necessario al fine di assicurare la soddisfazione dei bisogni primari della comunità locale.
Il disegno di legge mira a incentivare l’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali.
L’individuazione delle condizioni e modalità di esercizio delle funzioni fondamentali deve avvenire nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà di adeguatezza, di semplificazione, di concentrazione e di differenziazione, in modo da assicurarne l’esercizio unitario da parte del livello di ente locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale gestione.
Il disegno di legge consente l’assunzione di funzioni proprie ai comuni che rispettino parametri di sana gestione economica.
Le funzioni proprie vanno identificate con i compiti ulteriori rispetto alle funzioni fondamentali, non doverosi secondo le leggi statali, che gli enti locali possono assumere per soddisfare bisogni generali e durevoli della collettività amministrata, valorizzando la sussidiarietà orizzontale.
I parametri di “virtuosità” il cui raggiungimento consente l’assunzione di funzioni proprie sono: la capacità di conseguire avanzi di bilancio su soglie predeterminate; di conseguire specifici obiettivi di qualità; di raggiungere la dimensione organizzativa ottimale anche mediante forme di cooperazione, associazione, fusione, unione con altri enti locali.
Il provvedimento pone innanzitutto il principio ispiratore della futura disciplina concernente gli organi di governo ossia la semplificazione della rappresentanza territoriale locale.
Esso reca inoltre i princìpi e criteri direttivi per la disciplina dei tre organi di governo comuni a tutti gli enti locali e i princìpi dei sistemi per l’elezione degli organi, riflettendo l’intenzione di non modificare i sistemi vigenti (maggioritario a turno unico per i comuni più piccoli e proporzionale con premio di maggioranza e sbarramento del 3% per quelli con più di 15.000 abitanti).
Il sistema vigente è invece innovato, sempre a livello di princìpi, soltanto per la parte riguardante l’elezione degli organi della città metropolitana, in considerazione della necessità di individuare un sistema di elezione che tenga conto delle caratteristiche del nuovo ente.
Il sistema di elezione del consiglio e del sindaco metropolitano può essere in tutto simile a quello vigente per l’elezione degli organi della provincia, con la possibilità, mediante la legge istitutiva della città metropolitana, di introdurre nel sistema elettorale dei correttivi per garantire la rappresentanza delle comunità locali insistenti sulla parte del territorio metropolitano esterna a quello del preesistente comune capoluogo.
È riconosciuta all’autonomia statutaria dei comuni la possibilità di attribuire ai cittadini stranieri non comunitari che siano in possesso della carta di soggiorno l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni degli organi delle circoscrizioni comunali.
Infine, rileva, tra gli altri, un ulteriore principio di delega che limita il ricorso alla costituzione da parte degli enti locali di società di capitali per il perseguimento di scopi che abbiano scarsa attinenza con i bisogni dei cittadini e conferisce al legislatore delegato la possibilità di intervenire sulla composizione degli organi di amministrazione delle società ai fini di una loro semplificazione e razionalizzazione che produca una maggiore efficienza e una riduzione degli oneri per il loro funzionamento.
Il disegno di legge reca disposizioni per l’attuazione dell’articolo 118, primo e secondo comma, della Costituzione, quanto alle funzioni conferite agli enti locali e alle regioni con leggi statali, prevedendo una delega al Governo per la loro individuazione.
Si tratta delle funzioni amministrative ulteriori rispetto a quelle fondamentali che, pur essendo attualmente esercitate dallo Stato (sulla base di leggi statali), non richiedono tuttavia tale unitario esercizio. Esse, pertanto, devono, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza essere attribuite a comuni, province, città metropolitane e regioni.
Nell’esercizio della delega il Governo deve osservare tre principi e criteri direttivi:
§ conferire al livello diverso da quello comunale soltanto le funzioni di cui occorra assicurare l’unitarietà di esercizio, sulla base dei principi di sussidiarietà, (c.d. verticale) differenziazione e adeguatezza;
§ favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, ai sensi dell’articolo 118, quarto comma della Costituzione (si tratta del principio c.d. di sussidiarietà orizzontale);
§ provvedere al riordino e alla semplificazione delle strutture organizzative dell’amministrazione statale, limitandole a quelle strettamente necessarie all’esercizio delle funzioni che continuano ad essere esercitate dallo Stato, anche al fine di eliminare le sovrapposizioni.
Il Governo è delegato ad istituire le nove città metropolitane già individuate dalla legge n. 142 del 1990[122] e dal testo unico degli enti locali, disciplinando il relativo procedimento e gli aspetti organizzativi. Esse sono istituite nelle aree metropolitane in cui sono compresi i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e sostituiranno una o più province.
Il criterio-guida è quello dell’eliminazione della compresenza sul medesimo territorio di due enti di governo con le medesime funzioni: le città metropolitane si delineano come nuovi soggetti di governo e acquisiscono tutte le funzioni delle preesistenti province.
L’iniziativa per la creazione delle città metropolitane spetta ai territori interessati: alternativamente, al comune capoluogo, ovvero al 30% dei comuni della provincia o delle province interessate, che rappresentino il 60% della relativa popolazione, ovvero ad una o più province congiuntamente ad un numero di comuni che rappresentino il 60% della popolazione della provincia o delle province proponenti. La proposta di istituzione, su cui esprime il proprio parere la Regione, contiene la perimetrazione dell’area metropolitana e una proposta di statuto.
Sulla proposta di istituzione della città metropolitana è indetto un referendum tra tutti i cittadini dell’area compresa nella città metropolitana; se il parere della Regione è favorevole, per la validità del referendum non è richiesta la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto; in caso contrario, il quorum richiesto è del 30%. Espletato il referendum, l’istituzione delle città metropolitane avviene, come già ricordato, con decreti legislativi (di regola, un decreto per ciascuna città).
Nelle nove aree metropolitane citate, come alternativa alla istituzione della città metropolitana, possono essere individuate forme associate di gestione delle funzioni comunali.
Il disegno di legge, in attuazione dell’articolo 114 della Costituzione, delega il Governo a disciplinare i poteri e l’organizzazione di Roma capitale, cui viene conferito un potere regolamentare negli ambiti di cui all’articolo 117, sesto comma, della Costituzione, anche in deroga a specifiche disposizioni legislative, nel rispetto degli obblighi internazionali, del diritto comunitario, della Costituzione e dei princìpi generali dell’ordinamento giuridico, nell’ambito di specifiche materie (governo del territorio, edilizia pubblica e privata, trasporti, mobilità, servizi sociali).
Le regioni disciplinano le modalità di esercizio delle funzioni fondamentali degli enti locali, nelle materie di propria competenza, e conferiscono ulteriori funzioni agli enti locali.
In dettaglio, con proprie leggi, sulla base di accordi stipulati nei Consigli delle autonomie locali o in altra sede di concertazione prevista dai propri ordinamenti, le regioni provvedono a:
§ adeguare la propria legislazione alla disciplina statale di individuazione delle funzioni fondamentali, nelle materie di propria competenza legislativa ai sensi dell’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, regolandone le modalità di esercizio e allocando le funzioni amministrative e le relative risorse in modo organico a comuni, province e città metropolitane al fine di evitare duplicazioni e sovrapposizioni di competenze;
§ conferire, nelle materie di propria competenza legislativa ai sensi dell’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, agli enti locali le funzioni ad esse conferite dallo Stato che non richiedano di essere esercitate unitariamente a livello regionale in attuazione dell’articolo 118 della Costituzione;
§ conferire agli enti locali le funzioni amministrative esercitate dalla regione, che non richiedano l’unitario esercizio a livello regionale;
§ semplificare i livelli locali, prevedendo, nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 97 e 118 della Costituzione, che su un medesimo territorio possa configurarsi, di regola, un solo livello, plurifunzionale, per l’esercizio associato delle funzioni che i singoli comuni non sono in grado di svolgere singolarmente.
Qualora le regioni non provvedano entro i termini, il Governo è delegato ad intervenire in via sostitutiva, per la prima e la quarta categoria citate, con decreti legislativi che si applicano in via suppletiva, potendo sempre essere approvate leggi regionali che – nel momento della loro data di entrata in vigore – sostituiranno i decreti legislativi.
Per razionalizzare e armonizzare gli assetti territoriali in conseguenza delle nuove funzioni di programmazione di area vasta conferite alle province, si prevede la revisione (e conseguente riduzione) delle circoscrizioni provinciali, necessaria anche a seguito dell’istituzione delle città metropolitane.
L’iniziativa del procedimento è affidata ai comuni.
La finalità è quella di ottimizzare il rapporto tra estensione territoriale e popolazione residente, rivedendo anche gli ambiti degli uffici decentrati dello Stato, che possono essere modificati in relazione all’entità dei conferimenti attuati e delle funzioni statali residue nei singoli territori.
Il procedimento di revisione, in conformità all’articolo 133 della Costituzione, prevede l’adesione della maggioranza dei comuni dell’area interessata, che devono rappresentare comunque la maggioranza della popolazione complessiva dell’area stessa, nonché il parere della provincia o delle province interessate e della regione.
Il Governo è delegato a riunire e coordinare in un unico testo normativo – denominato: “Carta delle autonomie locali” – tutti i decreti legislativi attuativi del provvedimento.
Ordinamento degli enti locali
La legge finanziaria per il 2008 (L. 244/2007[123]) ha introdotto una serie di misure (art. 2, commi 16-32) che, con l’obiettivo di contenere i costi della rappresentanza degli enti locali, sono intervenute sia sulla disciplina di alcuni organi (comunità montane, giunte comunali e provinciali, forme associative comunali, circoscrizioni di decentramento comunale), sia su quella dello status degli amministratori (aspettativa, indennità, rimborsi spese).
Una parte del contenuto normativo delle disposizioni di seguito illustrate corrisponde sostanzialmente allo schema di disegno di legge, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 13 luglio 2007, recante Misure per la riduzione dei costi politico-amministrativi e per la promozione della trasparenza, predisposto in attuazione degli impegni contenuti nel Patto per il contenimento dei costi delle istituzioni[124], sottoscritto da rappresentanti del Governo e delle autonomie territoriali il 12 luglio 2007. Il provvedimento in questione non è stato in seguito presentato alle Camere in quanto non ha avuto il parere della Conferenza unificata. Il 1° agosto 2007 i rappresentanti dei Comuni e Province non hanno partecipato alla riunione della Conferenza in segno di protesta; nella riunione successiva, svoltasi il 20 settembre, lo schema di disegno di legge non è stato posto all’ordine del giorno.
Tra i disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica per il 2008, il Governo ha presentato alla Camera, il 15 novembre 2007, l’A.C. 3254, Misure per la promozione della trasparenza[125], in cui si prevedono, tra l’altro, disposizioni che pongono limiti al il cumulo tra diverse cariche pubbliche, anche a vari livelli territoriali, e che sono volte ad evitare situazioni di conflitti di interessi per gli amministratori locali, vietando loro di operare contestualmente nel privato nei settori connessi alla specifica carica di governo locale ricoperta. L’incompatibilità si estende anche all’anno successivo alla cessazione dalla carica pubblica, limitatamente al territorio regionale nell’ambito del quale l’incarico è stato ricoperto.
Sul tema degli interventi sui “costi della politica” si vedano anche i capitoli Parlamento e sistema dei partiti, e (limitatamente ad alcuni profili) Contenimento della spesa pubblica (nell dossier 1/1, parte seconda), nonché la scheda Il dibattito sui “costi della politica”, pag. 91.
I commi
da
L’obiettivo di risparmio deve essere conseguito attraverso il riordino delle comunità montane operato da ciascuna regione con leggi regionali da emanarsi, con il parere dei consigli delle autonomie locali, entro sei mesi dall’entrata in vigore della medesima legge finanziaria.
A regime, il riordino deve comportare, in ciascuna regione, la riduzione della spesa corrente per il finanziamento delle comunità montane per un importo pari ad un terzo della quota loro destinata del Fondo ordinario per il finanziamento degli enti locali.
Il risparmio di spesa deve essere ottenuto mediante la riduzione del numero complessivo delle comunità e del numero dei componenti e delle indennità loro spettanti.
Contestualmente la dotazione del Fondo medesimo viene ridotta di 33,4 milioni di euro per il 2008 e di 66,8 milioni a decorrere dal 2009.
Il comma 18 individua i seguenti criteri generali di cui il legislatore regionale deve tener conto nell’adempiere alle disposizioni sopra indicate:
§ la riduzione del numero delle comunità montane sulla base di alcuni indicatori fisico-geografici (dimensione territoriale, acclività dei terreni, altezza altimetrica, distanza dal capoluogo di provincia), demografici (dimensione demografica, indice di vecchiaia) e socio-economici (reddito medio pro capite, livello dei servizi, presenza di attività produttive extra-agricole);
§ la riduzione del numero dei componenti degli organi rappresentativi delle comunità montane;
§ la riduzione delle indennità spettanti ai componenti degli organi delle comunità montane, in deroga a quanto previsto dall’art. 82 del testo unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000).
Il comma 20 reca una disposizione sostitutiva che scatta in caso di inerzia delle regioni: essa prevede, qualora le regioni non abbiano provveduto entro i sei mesi di tempo prescritti al loro riordino, la soppressione automatica delle comunità montane che non corrispondono a precisi criteri altimetrici e quelle costituite da meno di cinque comuni; la cessazione dell’appartenenza alle comunità montane dei comuni capoluogo, di quelli costieri e di quelli con più di 20.000 abitanti; la riduzione del numero dei consiglieri e dei membri dell’esecutivo delle comunità.
La scansione temporale che le disposizioni illustrate prefigurano si può così riassumere:
§ entro il 30 giugno 2008 le regioni devono adottare le leggi di riordino delle comunità montane;
§ nel mese di luglio 2008 il Governo deve procedere all’accertamento delle riduzioni di spesa effettivamente conseguite;
§ entro il 31 luglio 2008 deve essere emanato il D.P.C.M. relativo a tale accertamento;
§ al momento della pubblicazione del D.P.C.M. (che può in ipotesi aver luogo anche successivamente al 31 luglio), scattano le riduzioni automatiche del numero delle comunità montane e del numero dei loro amministratori.
In caso di eventuale soppressione di comunità montane, le regioni disciplineranno gli effetti giuridici conseguenti. Le regioni dovranno, in particolare, provvedere alla ripartizione delle risorse umane, finanziarie e strumentali.
Una norma di chiusura prevede che, nelle more del provvedimento regionale o in caso di mancata adozione, i comuni subentrino alla comunità montana soppressa in tutti i rapporti giuridici di cui questa è titolare.
Già a partire dal mese di gennaio 2008, varie regioni hanno avviato l’iter per l’adozione delle misure di contenimento dei costi delle comunità montane in attuazione delle disposizioni illustrate.
Il comma 23 riduce il previsto tetto
massimo di assessori (comunali e provinciali) da
Considerando che la composizione delle giunte comunali e provinciali è direttamente correlata (ai sensi dell’art. 47, co. 1, del testo unico degli enti locali) a quella dei rispettivi consigli, la modifica introdotta ha l’effetto di ridurre il numero massimo dei componenti delle giunte:
§ nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti;
§ nei comuni che, pur avendo popolazione inferiore, siano capoluogo di provincia;
§ nelle province con popolazione residente superiore a 1.400.000 abitanti.
Gli enti locali (comuni e province) che hanno una popolazione inferiore a quella dei parametri suindicati (o che, pur avendo popolazione inferiore, sono capoluogo di provincia) non sono interessati dalla disposizione illustrata, in quanto hanno già un tetto massimo di assessori pari o minore di 12 membri.
Come espressamente previsto, la disposizione entra in vigore a partire dalle prime elezioni amministrative.
Il comma 28 stabilisce che ogni comune possa aderire ad una unica forma associativa per ciascuna di quelle previste dagli articoli 31, 32 e 33 del TUEL (si tratta, sostanzialmente, dei consorzi e delle unioni di comuni).
Finalità della norma è la semplificazione della varietà e della diversità delle forme associative comunali e del processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi, delle funzioni e delle strutture.
Essa incide in particolar modo sui comuni di piccole dimensioni, che generalmente aderiscono a più di un consorzio per garantire l’erogazione dei servizi minimi.
La disposizione non si applica all’adesione a consorzi obbligatori.
È sanzionata
la permanenza di un comune in più di una forma associativa dello stesso
tipo (“adesione multipla”) oltre il
termine del 30 settembre
L’articolo 35-bisdel D.L. 248/2007[127], convertito con modificazioni in L. 31/2008, recante proroghe di termini legislativi, ha così modificato il termine del 1° aprile 2008, originariamente previsto dalla L. 244/2007 per l’applicazione della norma che sanziona la permanenza dell’adesione da parte dei comuni a più di una forma associativa tra quelle previste dal TUEL.
Il comma 29 modifica i parametri demografici per l’istituzione delle circoscrizioni di decentramento comunale, riducendone conseguentemente il numero; esse sono pertanto obbligatoriamente istituite soltanto nei comuni con più di 250.000 abitanti (rispetto ai 100.000 precedenti) e possono essere previste nei comuni con popolazione compresa tra 100.000 e 250.000 abitanti (tale facoltà era prevista per comuni nella fascia tra 30.000 e 100.000 abitanti); in questo secondo caso la popolazione media delle circoscrizioni non può essere inferiore a 30.000 abitanti.
La presenza obbligatoria delle circoscrizioni rimane quindi una prerogativa dei comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti: ossia Torino, Milano, Genova, Venezia, Verona, Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Bari.
Le circoscrizioni possono essere mantenute (ove istituite), o create, e comunque nel rispetto del limite demografico cui si è in precedenza accennato, nei comuni con popolazione compresa tra 100.000 e 250.000 abitanti.
Non è più prevista la possibilità di istituire le circoscrizioni nei comuni che hanno una popolazione compresa fra 30.000 e 100.000 abitanti.
L’articolo 42-bis del citato D.L. 248/2007, recante proroga di termini legislativi, ha rinviato alle elezioni successive all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge stesso[128] l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 2, co. 29, della L. 244/2007 testé illustrate, che dispongono la riduzione del numero delle circoscrizioni di decentramento comunale attraverso la modifica dei parametri demografici per la loro istituzione.
Il comma
Inoltre, sono interamente posti a carico di alcune categorie di amministratori locali (consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province, presidenti dei consigli comunali, metropolitani e provinciali, consiglieri delle comunità montane, componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, componenti degli organi di decentramento, che non siano presidenti dei consigli circoscrizionali dei comuni capoluogo di aree metropolitane) gli oneri previdenziali e assistenziali qualora questi siano stati collocati – a domanda – in aspettativa non retribuita per il periodo di espletamento del mandato.
Il comma 25, novellando l’art. 82 del testo unico degli enti locali, è intervenuto su molteplici aspetti del regime delle indennità edei gettoni di presenza spettanti agli amministratori locali e in particolare:
§ ha ridotto da un terzo a un quarto dell’indennità del sindaco o del presidente dell’organo rappresentativo dell’ente locale, il limite massimo di valore del gettone di presenza che consiglieri comunali, provinciali, circoscrizionali delle comunità montane hanno diritto a percepire per la partecipazione a consigli e commissioni;
§ ha limitato la corresponsione del gettone di presenza ai consiglieri circoscrizionali dei soli comuni capoluogo di provincia;
§ ha escluso dal diritto all’indennità tutti i consiglieri circoscrizionali;
§ ha eliminato la possibilità di trasformare il gettone di presenza in indennità di funzione e di cumulare entrambi gli emolumenti;
§ ha ridotto il tetto massimo delle indennità del presidente e degli assessori di unioni di comuni, consorzi e comunità montane, stabilendo che l’indennità corrisposta a tali soggetti non può superare il 50% della misura prevista per un singolo comune di eguale popolazione o di popolazione pari alla popolazione montana della comunità montana;
§ ha eliminato la facoltà per gli organi degli enti locali di adeguare gli importi dei gettoni di presenza;
§ ha limitato la possibilità di disporre l’aumento delle indennità di carica unicamenteai sindaci, presidenti di provincia e assessori (con delibera della giunta) e ai presidenti delle assemblee (con delibera del consiglio): l’incremento non è dunque più possibile per i presidenti di comunità montane e dei consigli circoscrizionali dei comuni capoluogo di provincia e i componenti degli organi esecutivi di comunità montane, unioni di comuni e consorzi fra enti locali;
§ ha precluso la possibilità di incremento delle indennità, non soltanto agli enti locali che si trovino in condizioni di dissesto finanziario ma anche agli enti locali che non rispettano il patto di stabilità interno, fino all’accertamento del rientro dei parametri;
§ ha subordinato la corresponsione dei gettoni di presenza alla effettiva partecipazione del consigliere alle riunioni di consigli e commissioni.
Il comma 26, sostituendo l’art. 83 del testo unico degli enti locali, relativo al divieto di cumulo degli emolumenti degli amministratori locali:
§ ha soppresso la possibilità per i parlamentari nazionali o europei e i consiglieri regionali (che siano anche amministratori locali) di percepire i gettoni di presenza;
§ ha stabilito che gli amministratori locali non percepiscono alcun compenso per la partecipazione ad organi o commissioni, se tale partecipazione è connessa all’esercizio delle proprie funzioni pubbliche;
§ ha disposto infine che, in presenza di cariche incompatibili, gli amministratori locali non possono cumulare le indennità di funzione.
L’indennità di missione percepita dagli amministratori locali in caso di viaggio è stata sostituita con un rimborso forfetario onnicomprensivo per le spese diverse da quelle di viaggio, mantenendo comunque, unitamente a quello forfetario, il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute (comma 27).
Il comma 31 contiene le disposizioni di rilievo finanziario relative alle
risorse derivanti dalle riduzioni di spesa di cui ai commi da
A decorrere dal 2008 il Fondo ordinario per
il finanziamento dei bilanci degli enti locali è ridotto di 313 milioni di euro, vale a dire di un
ammontare pari a quello per il quale vengono valutati i risparmi derivanti dai
commi da
La stessa cifra di 313 milioni di euro derivante, in sostanza, dai predetti risparmi, è destinata alle seguenti finalità nell’anno 2008:
§
per 100
milioni di euro all’incremento del
contributo ordinario disposto dalla legge finanziaria
- popolazione residente oltre i 65 anni superiore al 30% del totale;
- popolazione residente sotto i 5 anni superiore al 5% del totale;
§ per 213 milioni di euro, a copertura di quota parte degli oneri derivanti dall’abolizione, per l’anno 2008, della quota di partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale per gli assistiti non esentati.
Il Ministero dell’economia, d’intesa con
Il Ministro dispone quindi l’adeguamento della dotazione del Fondo ordinario e l’eventuale integrazione dei
trasferimenti ai soli enti che abbiano dato piena attuazione alle
disposizioni di contenimento dei costi previste dai commi da
L’articolo 40, comma 4-bis, del citato D.L. 248/2007, recante proroga di termini, ha
aggiunto all’articolo 2 della L. 244/2007 il comma 32-bis, con il quale si estende
agli enti locali delle Regioni a statuto speciale l’efficacia delle
disposizioni relative al contenimento dei costi della politica e, nella
specie, le misure indicate come necessarie a consentire la riduzione di 313
milioni di euro del Fondo ordinario per i comuni, riduzione disposta dal comma
31 quale ammontare dei risparmi attesi dalla realizzazione delle misure di
indicate ai commi da
Il comma 32-bis pone a carico delle Regioni a statuto speciale l’obbligo di emanare disposizioni idonee a che quelle misure siano assunte, nei medesimi termini e tempi, anche dagli enti locali del proprio territorio per modo che anche essi concorrano alla realizzazione del risparmio atteso.
La disposizione si rende necessaria perché nelle regioni a statuto speciale la disciplina dell’ordinamento e della finanza degli enti locali è materia che rientra nella competenza primaria (o esclusiva) delle Regioni. L’intervento della legislazione statale si legittima tuttavia sotto il profilo del coordinamento della finanza pubblica, coordinamento al quale soggiace anche la competenza legislativa delle Regioni a statuto speciale.
In caso di inadempimento – della Regione – o di mancato adempimento da parte degli organi locali, i trasferimenti derivanti dal fondo comune sono ridotti – anche per gli enti locali delle Regioni a statuto speciale – della medesima misura comminata per gli inadempimenti degli enti locali delle regioni a statuto ordinario.
Ordinamento degli enti locali
Nel corso della XV legislatura
La legge 25 marzo 1993, n. 81[130], confluita nel Testo unico degli enti locali, ha introdotto nell’ordinamento previsioni relative all’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia. In particolare, la legge ha stabilito che tali soggetti non siano immediatamente rieleggibili alla medesima carica dopo due mandati consecutivi. Un terzo mandato consecutivo è consentito soltanto nel caso in cui uno dei due mandati precedenti abbia avuto una durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno, per causa diversa dalle dimissioni volontarie.
La ratio della disciplina illustrata è di solitamente rinvenuta nell’esigenza di bilanciare i nuovi e maggiori poteri riconosciuti al sindaco e al presidente di provincia dalla legge elettorale del 1993 rispetto a quelli delle giunte e dei consigli, attraverso un limite alla permanenza al potere.
Da
parte della giurisprudenza, in particolare, la ratio legis è stata individuata nell’esigenza di favorire il
ricambio ai vertici dell’amministrazione locale ed evitare la
soggettivizzazione dell’uso del potere dell’amministrazione locale, in modo da
spezzare il vincolo personale tra elettore ed eletto per sostituire alla
personalità del comando l’impersonalità di esso ed evitare clientelismo (in
questo senso
La questione del “terzo mandato” dei sindaci e presidenti di provincia è stata affrontata dalle Camere anche nelle legislature precedenti.
Nella XIII legislatura sono state discusse alla Camera alcune proposte di legge[131] volte a rimuovere i vigenti limiti relativi allo svolgimento di più di due mandati consecutivi.
Le proposte sono state esaminate dalla Commissione Affari costituzionali della Camera tra la fine del 2000 e i primi mesi del 2001 senza pervenire all’adozione di un testo base. Nonostante ciò i provvedimenti sono stati calendarizzati in Assemblea, dove si è svolta nel febbraio 2001 la discussione sulle linee generali, al termine della quale l’esame dei provvedimenti si è arrestato.
Nel corso della XIV legislatura il tema del divieto di terzo mandato per i sindaci e i presidenti di provincia è stato oggetto di discussione in entrambi i rami del Parlamento.
In particolare, il Senato ha approvato il 31 marzo 2004 una proposta di legge che intendeva consentire la possibilità di un terzo mandato consecutivo per i sindaci di comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti. Tale provvedimento (divenuto poi A.C. 4870) non è però stato approvato dalla Camera dei deputati prima della fine della legislatura.
Le proposte di legge presentano sostanzialmente tre opzioni:
§ portare da due a tre il numero massimo di mandati consecutivi dei sindaci e dei presidenti di provincia
§ consentire un terzo mandato consecutivo ai sindaci dei piccoli comuni (quelli con popolazione inferiore a 15 mila abitanti) e ai sindaci di comuni che appartengono ad una comunità montana o isolana o ad una unione di comuni;
§ rimuovere completamente il limite dei mandati per la rielezione a sindaco e presidente di provincia.
Dalle relazioni illustrative dei disegni di legge emerge che l’intervento legislativo proposto trae origine dalla necessità di superare l’attuale disciplina limitativa in quanto essa comporta:
§ una disparità di trattamento rispetto alla carica di Presidente di Regione[132] e alle altre cariche elettive (per le quali la limitazione dei mandati non è prevista);
§ una limitazione del principio democratico, per il fatto che i cittadini sono privati della possibilità di continuare ad eleggere soggetti che hanno dato buona prova delle loro capacità politiche e istituzionali;
§ una penalizzazione dei comuni di minori dimensioni, nel cui ambito è difficile il ricambio dei vertici con soggetti dotati delle necessarie competenze e capacità;
§ la lesione del buon andamento dell’amministrazione, data dalla impossibilità di portare a termine il lavoro istituzionale e amministrativo iniziato;
§ l’incertezza da un punto di vista interpretativo e applicativo, come testimoniato - secondo i proponenti - dalla giurisprudenza formatasi in materia.
L’esame delle proposte iniziava il 15 novembre 2006; in quella sede veniva prospettata da alcuni l’opportunità di affrontare, unitamente alla questione della rimozione del limite al numeri dei mandati, anche altri aspetti connessi all’assetto istituzionale degli enti locali, in particolare quello del generale riequilibrio dei poteri dei sindaci e dei presidenti rispetto a quelli delle assemblee elettive e delle giunte, in modo da attenuare la concentrazione del potere in capo all’organo monocratico.
Il 31 gennaio 2007 il relatore riferiva gli esiti della consultazione da lui effettuata presso i Gruppi parlamentari per ricercare un ampio consenso sul tema in discussione, dalla quale erano emerse opinioni articolate non soltanto fra le diverse forze politiche ma anche al loro interno.
Coloro che si erano espressi in favore della soppressione del limite, avevano sottolineato la necessità di assicurare un trattamento omogeneo per cariche elettive consimili, quali sono quelle di sindaco e presidente di provincia e quella di presidente di una regione. Era stata rilevata, inoltre, l’utilità di un mandato più lungo soprattutto nelle grandi città, in modo da favorire la realizzazione dei progetti di trasformazione locale a cui sono finalizzate le politiche degli amministratori.
In senso contrario, cioè per il mantenimento del divieto di terzo mandato consecutivo, erano state ribadite le ragioni che portarono all’introduzione di quella clausola, cioè l’esigenza di bilanciare i nuovi e maggiori poteri riconosciuti al sindaco e al presidente di provincia dalla legge elettorale del 1993 rispetto a quelli delle giunte e dei consigli, attraverso un limite alla permanenza al potere. Era stato proposto, anzi, di estendere la limitazione anche ai mandati dei presidenti di regione, in modo generalizzato.
Era stata infine sostenuta da alcuni anche l’opzione di mantenere la preclusione per gli amministratori delle grandi città, rimuovendola invece nei comuni più piccoli.
Il relatore osservava conclusivamente che le posizioni assunte dai partiti erano inevitabilmente condizionate da motivazioni politiche, anche in relazione alla dislocazione del potere nelle diverse realtà territoriali.
Nella stessa seduta il rappresentante del Governo[133] rilevava che la questione del limite dei mandati dei sindaci e dei presidenti di provincia non era compresa tra le priorità del programma di Governo e della maggioranza né fra le linee di indirizzo del Governo, il quale si sarebbe pertanto rimesso alla decisione del Parlamento. Esprimeva, peraltro, un avviso contrario a disposizioni suscettibili di determinare una sanatoria per coloro ai quali in passato fosse stato precluso un ulteriore mandato di amministratore; manifestava infine la riserva del Governo verso scelte che introducessero trattamenti distinti per i comuni, a seconda del maggiore o minore numero di abitanti.
Il Ministro dell’interno Amato, intervenendo il 6 luglio 2006 alla Camera dei deputati nel question time[134], ricordava che, nelle consultazioni amministrative del 2006, presso 20 comuni si era verificata l’elezione di sindaci che avevano già espletato due mandati consecutivi in violazione del disposto normativo di cui all’art. 51 del decreto legislativo n. 267/2000 (per ulteriori dettagli, si veda oltre); escludeva che una nuova normativa che prevedesse il terzo mandato potesse anche consentire una sanatoria della situazione esistente; evidenziava gli aspetti negativi che comporterebbe la rimozione dell’ineleggibilità soltanto nei piccoli comuni, nei quali è più facile di quanto non lo sia nelle grandi città determinare la continuità di medesime persone e di medesimi gruppi, con la conseguenza di una “sclerosi democratica”.
Il 6 febbraio 2007 il presidente della Commissione riassumeva i termini della discussione svolta, rammentando che un certo numero di senatori si era pronunciato contro il divieto di terzo mandato, mentre un numero meno consistente aveva manifestato la preferenza per il mantenimento del vincolo. Il relatore si dichiarava quindi disponibile a elaborare un testo unificato, ma in un termine sufficientemente congruo, tale da agevolare un’ulteriore verifica del possibile consenso.
La disciplina di cui all’articolo 51 del TUEL ha fatto sorgere alcuni dubbi di legittimità costituzionale.
In particolare, sono state portate all’attenzione del giudice amministrativo diverse censure, relative alla violazione, da parte dell’art. 51 del TUEL, dei seguenti articoli della Costituzione:
a)
b) 2, 48 e
c)
d)
e)
Il giudice amministrativo ha ritenuto manifestamente infondate le suddette questioni di legittimità costituzionale (Tar Piemonte, sent. 296 del 2005).
In
quanto: “in merito all’art. 1 Cost., il quale, al 2° comma, prevede che ‘La
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione’, tale norma non ha nulla a che vedere con quanto statuito
dall’art. 51, comma 2, del decreto legislativo n. 267, il quale, pertanto, non
costituisce un’illegittima limitazione della detta "sovranità"; in
merito agli artt. 2, 48 e 51 Cost., in base ai quali, rispettivamente, ‘
In seguito anche
Altra questione che è stata posta, in sede applicativa, è quella della natura della situazione soggettiva in cui si trova il sindaco/presidente che abbia già svolto due mandati consecutivi.
Al riguardo la giurisprudenza, in linea con la dottrina prevalente, ha ritenuto che si configuri una causa di ineleggibilità e non già di incandidabilità (cfr. Tar Campania, sez. I, sent. 1485 del 2003).
Ciò determina delle conseguenze procedurali rilevanti, in quanto “non spetta alla commissione elettorale circondariale rilevare la causa di ineleggibilità (ma solo quella di incandidabilità), avendo il legislatore affidato tale compito al successivo intervento del Consiglio comunale” (Tar Toscana, Firenze, sez. II, 26 gennaio 2005, n. 316). In altri termini, “la mera sussistenza di una condizione di ineleggibilità non inficia né la candidatura dell’interessato né, correlativamente l’ammissione della lista. Il rimedio apprestato dall’ordinamento, nell’ipotesi di elezione di un candidato che non abbia tempestivamente rimosso la causa di ineleggibilità consiste piuttosto nella configurazione di una causa di decadenza” (Tar Lazio, Roma, sez. II-ter, 7 settembre 2005, n. 6608).
La giurisprudenza ha anche affrontato il problema degli effetti della candidatura del soggetto ineleggibile alla carica di sindaco sulle operazioni di voto. Al riguardo, è stato rilevato che, da una parte, “l’ineleggibilità ordinaria che colpisca il candidato sindaco (…) ha un effetto che può definirsi “unilaterale”: provoca la decadenza dell’ineleggibile, senza estendere la sua portata agli altri esiti del voto” (Cons. Stato, sez. V, 15 giugno 2000, n. 3338); dall’altra, tuttavia, è stato sottolineato che occorre tenere distinte due evenienze: “se il candidato ineleggibile viene eletto sindaco, la decadenza che lo riguarda rende necessaria la celebrazione di nuove elezioni; se, invece, rimane soccombente, le elezioni resteranno valide e si verifica solo la decadenza del candidato sindaco dalla carica di consigliere comunale” (Cons. Stato, sentenza n. 3338/00, citata).
Quanto alla questione della competenza del Consiglio comunale a deliberare sull’ineleggibilità del sindaco eletto in violazione del divieto di terzo mandato consecutivo, il giudice amministrativo, chiamato a pronunciarsi sul punto, ha affermato che il consiglio comunale è chiamato a pronunciarsi esclusivamente sulle cause generali e oggettive di ineleggibilità di cui al Capo II del Titolo III del TUEL e non già anche sulla causa di ineleggibilità “soggettiva” di cui all’art. 51, comma 2, del TUEL (ricadente nel Capo I del Titolo III).
“La causa di ineleggibilità, soggettiva, di cui all’art. 51, c. 2, d.lgs. 267/00 è (..) verificabile esclusivamente attraverso la procedura di cui all’art. 70 TUEL, vale a dire attraverso l’azione popolare esercitabile da qualsiasi cittadino elettore del Comune o da chiunque vi abbia interesse (…), ovvero “anche”, come si esprime il legislatore, dal prefetto (…). Con una scelta propria della discrezionalità riconosciutagli, quindi, il legislatore ha ritenuto che fosse lo stesso elettorato attivo che ha provveduto all’elezione, o meglio, che fossero gli stessi cittadini interessati, a tutela dell’interesse alla governabilità locale, a richiedere di constatare l’ineleggibilità del sindaco per il terzo mandato consecutivo o, in alternativa, il prefetto, a tutela dell’interesse pubblico al rispetto della legge. Tale compito non poteva, logicamente, essere chiesto al Consiglio Comunale, composto per la maggioranza di elementi vicino al sindaco eletto per modo di sentire politico e amministrativo” (Tar Piemonte, Torino, sez. II, 22 ottobre 2005, n. 3278).
Diverso l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione, che, privilegiando un approccio interpretativo volto a valorizzare la ratio del “divieto di terzo mandato” e la complessiva armonia del sistema, sembra ritenere che tra le cause di ineleggibilità che devono essere vagliate dal Consiglio comunale vi è anche quella delineata dall’art. 51 del TUEL, che può essere oggetto anche (non solo) di azione popolare (Cass. Civ., sez. I, n.11895/2006, citata).
Tale contrasto interpretativo origina dal fatto che l’articolo 41 del TUEL stabilisce che nella prima seduta il Consiglio comunale e provinciale, prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto – ancorché non sia stato prodotto alcun reclamo – deve esaminare la condizione degli eletti a norma del capo II Titolo III e dichiarare la ineleggibilità di essi quando sussista alcuna delle cause ivi previste. Poiché l’art. 51 è al di fuori del capo secondo del titolo terzo, una interpretazione meramente letterale, come quella seguita dal giudice amministrativo, può indurre a ritenere che al Consiglio comunale sia precluso il controllo sul rispetto del divieto di terzo mandato.
Dell’esistenza di tale problema interpretativo ed applicativo ha dato atto anche il Ministro dell’interno, che in una risposta ad una interrogazione presentata alla Camera[136] ha affermato quanto segue:
“Dal punto di vista più strettamente giuridico, la disposizione in questione [art. 51 del TUEL] ha introdotto una causa non già di incandidabilità, bensì di ineleggibilità, che come tale andrebbe fatta valere in sede di convalida degli eletti.
In sede applicativa, tuttavia, è stata eccepita una carenza di coordinamento formale tra la norma che dispone il divieto e l’articolo 41 del citato testo unico, che indica gli adempimenti della prima seduta dei consigli comunali e provinciali.
Quest’ultima disposizione, infatti, prevede che si proceda alla dichiarazione d’ineleggibilità soltanto con riferimento ad una delle cause previste dal titolo III capo II della stessa legge, e non anche per altre cause come il divieto di terzo mandato che è previsto al capo I; motivo per cui la magistratura amministrativa ha escluso la competenza del consiglio a pronunciarsi in merito in sede di convalida degli eletti (cfr. sentenza TAR Piemonte - Sezione II - n. 3278 del 22 ottobre 2005).
Per attivare il relativo procedimento di decadenza, si può quindi ricorrere allo specifico istituto dell’azione popolare giurisdizionale, che può essere proposta da qualsiasi elettore del comune ed anche dal prefetto ai sensi dell’articolo 70 dello stesso testo unico, con la conseguenza che l’amministratore può rimanere nella titolarità della carica fino alla sentenza di secondo grado.
L’ammissibilità di tale rimedio è stata ribadita anche dalla recente sentenza della Cassazione n. 11895 del 12 aprile 2006, che (pur dissentendo dall’orientamento della magistratura amministrativa in merito all’incompetenza dell’organo consiliare) ha confermato come, nel caso in cui il consiglio convalidi l’elezione, il prefetto sia legittimato a promuovere la relativa azione in sede giurisdizionale ordinaria”.
Per quanto riguarda la vicenda dei sindaci eletti nelle consultazioni del 2006 nonostante il divieto di elezione per il terzo mandato[137], il Ministro dell’interno, con circolare n. 3/2007-UCO del 19 febbraio 2007[138], al fine di ripristinare il sostanziale rispetto della regola del divieto di terzo mandato consecutivo e per dare esecuzione alle pronunce del giudice di appello dichiarative della decadenza del sindaco, ha prescritto ai prefetti competenti di procedere, nei confronti dei sindaci in questione, facendo ricorso al disposto dell’art. 19 del R.D. n. 383/1934[139], mediante la nomina da parte del prefetto di un commissario per la provvisoria amministrazione dell’ente fino alle successive elezioni.
Nella circolare si afferma che “la percorribilità di tale rimedio trova supporto nella considerazione che l’ineleggibilità originaria riveste natura dichiarativa, sussistendo sin dall’origine del suo verificarsi e producendo perciò effetti ex tunc. La giurisprudenza ha evidenziato che detta ineleggibilità rappresenta causa ostativa all’espletamento del terzo mandato consecutivo.
Dalla accertata assenza del presupposto legittimante la carica di Sindaco deriva, in linea di stretta consequenzialità, l’illegittimità della composizione del consiglio, in virtù del vigente sistema elettorale di attribuzione dei seggi. Viene, inoltre, meno la legittimazione alla permanenza in carica della giunta e del vicesindaco in quanto le relative nomine, espressione del rapporto fiduciario con il sindaco, sono travolte dalla caducazione del presupposto unico e determinante. Caducazione acclarata con sentenza esecutiva del giudice d’appello.
Ne consegue l’impossibilita di funzionamento dell’ente, cui occorre porre rimedio assicurando la provvisoria gestione fino all’imminente rinnovo elettorale mediante la nomina di un commissario che espleti le funzioni del sindaco, della giunta e del consiglio”.
L’applicazione della procedura di commissariamento prevista dall’art. 19 del R.D. 383/1934 e sostenuta dal Ministero dell’interno è stata ritenuta corretta dal Consiglio di Stato (sentenza n. 5309 del 10 luglio-9 ottobre 2007).
Il Consiglio di Stato, dopo aver osservato che il divieto di elezione alla carica di sindaco al terzo mandato consecutivo è sfornito di sanzione specifica, ha ritenuto che “è proprio questa norma di chiusura [l’art. 19 del R.D. 383/1934] che garantisce un efficace controllo di legalità, che la procedura ex art. 70 TUEL (letto unitamente agli artt. 53 e 141 TUEL) non assicura pienamente.”, pertanto: “L’art. 19, comma 4, R.D. n. 383/1934 (non abrogato dall’art. 273 TUEL), in assenza di una specifica sanzione per l’ipotesi in esame, ben può, quindi, essere applicato nella fattispecie, una volta che sia divenuta esecutiva la sentenza del giudice ordinario che ha accertato la violazione dell’art. 51, comma 2, TUEL, rappresentando tale violazione una ‘ragione’ sufficiente che giustifica la nomina di un commissario prefettizio”.
Non risultano casi di elezione di sindaci al terzo mandato consecutivo nelle consultazioni amministrative del 2007.
Nell’ambito dei rimedi previsti dall’ordinamento rispetto alla terza elezione consecutiva del sindaco e del presidente di provincia, accanto alle possibilità di deliberazione da parte del Consiglio comunale ex art. 41 del TUEL (ammessa, come detto, dalla Cassazione) e di esperimento dell’azione popolare prevista dall’art. 70 del TUEL, vi è poi quella del ricorso giurisdizionale: ove esso, pur essendo formalmente volto all’annullamento delle operazioni elettorali per il rinnovo di un consiglio comunale, dell’elezione diretta del sindaco e della proclamazione degli eletti, risulti in realtà proposto per contestare l’eleggibilità del candidato sindaco, il quale è stato eletto pur avendo già espletato due mandati consecutivi, e, dunque, in violazione dell’art. 51, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, la competenza a decidere sulla sussistenza della causa di ineleggibilità è del giudice ordinario (da ultimo Tar Veneto, sez. III - sentenza n. 3533/2006).
Le linee generali delle politiche pubbliche in materia di immigrazione extracomunitaria in Italia, fissate dalla legge n. 40 del 1998[140] (cosiddetta “legge Turco – Napolitano”), sono state successivamente consolidate nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero del 1998[141].
Il testo unico costituisce il primo tentativo di definire un quadro giuridico completo e sistematico in una materia caratterizzata nel decennio precedente dal sovrapporsi di numerosi interventi normativi, talvolta non coordinati tra loro, di natura prevalentemente emergenziale. L’origine di tali interventi è da individuare da un lato nel vincolo esterno costituito dalla normativa europea in materia di libera circolazione delle persone e dall’adesione dell’Italia all’accordo di Schengen, dall’altro nelle situazioni di emergenza venutesi a creare in conseguenza di massicci afflussi di immigrati o di rifugiati.
Il testo unico interviene su entrambi gli ambiti principali del diritto dell’immigrazione: il diritto dell’immigrazionein senso stretto, concernente la gestione nel suo complesso del fenomeno migratorio: la definizione di regole di ingresso, di soggiorno, di controllo, di stabilizzazione dei migranti ed anche la repressione delle violazioni a tali regole; e il diritto dell’integrazione, che riguarda l’estensione, in misura più o meno ampia, ai migranti dei diritti propri dei cittadini (diritti civili, sociali, politici).
I princìpi fondamentali che sono alla base del testo unico sono essenzialmente tre: la programmazione dei flussi migratori e il contrasto all’immigrazione clandestina (per quanto riguarda il diritto dell’immigrazione); la concessione di una ampia serie di diritti volti all’integrazione degli stranieri regolari (diritto dell’integrazione).
Nel corso dei dieci anni intercorsi dalla sua approvazione il testo unico ha subito numerose modifiche. Di particolare rilievo la riforma operata nella XIV legislatura dalla legge 189/2002[142] (la cosiddetta “legge Bossi-Fini”) che, mantenendone sostanzialmente inalterata la struttura generale, ne ha modificato la parte relativa alla gestione dell’immigrazione, non toccando, se non in minima parte, quella riguardante i diritti dei lavoratori immigrati.
Nella XV legislatura il Governo ha proposto una nuova ampia riforma, esaminata dalla Camera ma non approvata; sono invece entrate in vigore alcune disposizioni che hanno modificato specifici punti del testo unico.
In Italia l’immigrazione dei cittadini stranieri non appartenenti all’Unione europea è regolata secondo il principio delle quote programmatiche. Ogni anno il Governo, sulla base della necessità di manodopera interna, stabilisce il numero di stranieri che possono entrare nel nostro Paese per motivi di lavoro.
Più in generale, la gestione dei flussi di immigrazione è realizzata attraverso una serie di strumenti:
§ il documento programmatico triennale relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri (articolo 3, commi 1-3 e 8, del citato testo unico);
§ il decreto sui flussi (art. 3, comma 4) che stabilisce ogni anno, in base alle indicazioni contenute sul documento programmatico, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per motivi di lavoro;
§ il decreto sugli ingressi degli studenti universitari (art. 39, comma 4) che fissa il numero massimo dei permessi di soggiorno per l’accesso all’istruzione universitaria degli studenti stranieri.
Il documento programmatico costituisce la base di riferimento della politica dell’immigrazione. È elaborato dal Governo ogni tre anni (a meno che non si renda necessario un termine più breve) e viene presentato al Parlamento per il parere delle competenti Commissioni parlamentari.
Il documento è predisposto dal Presidente del Consiglio previa consultazione, oltre che dei ministri interessati, di una serie di organismi:
§ il CNEL;
§ la Conferenza Stato-Regioni;
§ la Conferenza Stato-Città;
§ gli enti e le associazioni nazionali maggiormente attivi nell’assistenza e nell’integrazione degli immigrati;
§ le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Una volta acquisiti i pareri, il documento viene approvato dal Consiglio dei Ministri. Il documento è quindi trasmesso al Parlamento per l’espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari che devono pronunciarsi entro trenta giorni dal ricevimento dell’atto. In caso di mancanza del parere il documento è comunque emanato decorso tale termine.
Il documento programmatico – che deve tener conto dei pareri ricevuti – è, infine, emanato con decreto del Presidente della Repubblica e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Il documento programmatico, ai sensi dell’art. 3, co. 2 e 3, del testo unico, deve contenere:
§ gli interventi che lo Stato italiano intende svolgere in materia di immigrazione, anche attraverso accordi internazionali;
§ le linee generali per la definizione dei flussi d’ingresso nel territorio dello Stato di stranieri extracomunitari;
§ le misure di carattere economico e sociale nei confronti degli stranieri soggiornanti nelle materie che non devono essere disciplinate con legge;
§ gli interventi pubblici per favorire sia l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri regolari nel nostro Paese, sia il reinserimento dei Paesi di origine.
Solitamente, inoltre, il documento è corredato dall’analisi quantitativa e qualitativa del fenomeno migratorio e dallo studio degli scenari futuri.
Il documento programmatico è materialmente redatto dagli uffici della Presidenza del Consiglio, ed in particolare dal Dipartimento per il coordinamento amministrativo (DICA), struttura di supporto delle attività di competenza del Presidente del Consiglio.
L’organizzazione e il coordinamento amministrativi in materia di immigrazione sono stati ridefiniti dall’art. 2-bis del testo unico, introdotto dalla L. 189/2002, che prevede l’istituzione di tre organismi:
- il Comitato per il coordinamento e il monitoraggio delle disposizioni del testo unico, organo interministeriale istituito per la prima volta nel 2000 in via amministrativa (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 2 agosto 2000) e, successivamente, elevato a rango legislativo ad opera come si è detto della legge 189. Esso è presieduto dal Presidente o dal Vice Presidente del Consiglio o da un Ministro delegato, ed è composto dai Ministri interessati ai temi trattati in ciascuna riunione e da un presidente di regione designato dalla Conferenza dei presidenti delle regioni;
- il Comitato è coadiuvato da un Gruppo tecnico di lavoro istituito presso il Ministero dell’interno e composto dai rappresentanti di diverse amministrazioni. Il Gruppo di lavoro, anch’esso previsto dal DPCM del 2000, è stato poi disciplinato dalla legge 189 che ne ha fissato la composizione e ha demandato ad un successivo regolamento la definizione delle modalità di coordinamento fra il Gruppo e la struttura di supporto della Presidenza del Consiglio competente in materia di immigrazione. Tale regolamento è stato adottato con il DPR 100/2004[143] che ha stabilito che le funzioni di segreteria del Gruppo tecnico sono svolte dal dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno. Il Gruppo si è costituito con il DM 29 novembre 2004 e si è riunito per la prima volta il 28 gennaio 2005;
- lo stesso DPR 100/2004 ha demandato alla Presidenza del Consiglio la predisposizione del documento programmatico e dei decreti flussi, oltre ai compiti di coordinamento con il Gruppo di lavoro. Con un ulteriore provvedimento, il decreto del Presidente del Consiglio del 19 maggio 2004[144], la struttura interna della Presidenza, competente in materia, è stata individuata con il Dipartimento per il coordinamento amministrativo (DICA). Il Dipartimento è la struttura di supporto che opera nel settore dell’attuazione, in via amministrativa, delle politiche del Governo.
Nella XV legislatura il Governo ha sottoposto al parere delle Camere il quarto documento programmatico, relativo al triennio 2007-2009, il cui contenuto è oggetto della scheda Documento programmatico e decreti flussi (vedi pag. 175).
In precedenza il Governo aveva predisposto tre documenti programmatici, nel 1998, nel 2001 e nel 2005[145].
Come si è detto, il documento programmatico triennale indica una serie di obiettivi e di misure concrete di intervento in materia di immigrazione. Secondo quanto stabilito dall’art. 3, comma 1 del testo unico, il Governo riferisce al Parlamento con una relazione annuale, predisposta dal Ministro dell’interno, sui risultati ottenuti attraverso i provvedimenti attuativi del documento programmatico.
La prima relazione sull’attuazione del documento di programmazione risale al 2000[146], e riguarda il periodo dal 27 marzo 1998 (data di pubblicazione della legge 40/98) al 31 ottobre 1999, ossia la prima fase di attuazione della legge. Essa è articolata in due parti: una dedicata all’analisi della presenza straniera in Italia, alla programmazione di flussi, alle misure di contrasto dell’immigrazione clandestina, alle misure relative ai rifugiati e alle attività svolte in ambito internazionale. La seconda parte riguarda le misure di integrazione degli immigrati.
A partire dalla relazione successiva, riferita al 2003 e presentata nel 2005, le relazioni sono presentate in allegato alla relazione annuale al Parlamento sull’attività delle Forze di Polizia trasmessa dal Ministro dell’interno ai sensi dell’articolo 113 della legge n. 121/1981. Tali relazioni sono dedicate esclusivamente alle attività di contrasto all’immigrazione clandestina e di cooperazione transfrontaliera e di sicurezza.
L’ultima relazione si riferisce all’anno 2006 ed è stata presentata nell’agosto 2007[147].
Nell’aprile 2008, il ministro dell’interno ha presentato il Primo Rapporto sugli immigrati in Italia recante una dettagliata analisi del fenomeno migratorio, corredata da una esposizione delle politiche pubbliche in materia.
Un rapporto annuale specificatamente dedicato allo stato di attuazione delle politiche di integrazione degli immigrati è previsto dall’articolo 46 del testo unico. Il compito di predisporre il rapporto è affidato alla Commissione per le politiche di integrazione, organismo della Presidenza del Consiglio istituito dallo stesso articolo 46. La Commissione ha curato due rapporti, nel 1999 e nel 2000.
Infine, si ricorda che la Corte dei conti, Sezione centrale di controllo sulla gestione, ha deliberato nel 2001 una indagine sulla Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina. Nell’ambito di tale iniziativa sono state approvate tre relazioni (nel 2003, 2004 e nel 2005) che analizzano le politiche dell’immigrazione dal punto di vista dei risultati gestionali raggiunti, dell’efficienza e l’efficacia delle misure adottate, della regolarità delle procedure, della coerenza del disegno organizzativo con gli obiettivi indicati dalla normativa.
Nel febbraio 2008 la Corte dei conti ha concluso una relazione su L’attività di gestione integrata dei flussi di immigrazione. Oggetto dell’indagine i caratteri dell’azione amministrativa svolta nel segmento di attività relativo alla gestione dei flussi d’ingresso regolamentati attraverso il sistema delle quote oggetto di programmazione annuale e di specifica disciplina affidata ad appositi decreti ministeriali.
Sulla base delle indicazioni contenute nel documento programmatico, ogni anno il Governo stabilisce le quote massime di cittadini stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per motivi di lavoro, attraverso l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il cosiddetto decreto flussi (per i decreti flussi adottati nella XV legislatura e per un elenco di quelli emanati a partire dal 1997, si veda la scheda Documento programmatico e decreti flussi, pag. 175).
Le quote sono suddivise per lavoro subordinato, lavoro stagionale e lavoro autonomo.
Il decreto è adottato dal Governo con il parere delle Commissioni parlamentari, del Comitato interministeriale per il coordinamento e il monitoraggio delle politiche in materia di immigrazione e della Conferenza unificata Stato-regioni-enti locali. Ciascuna regione può trasmettere alla Presidenza del Consiglio, in vista della predisposizione del decreto flussi, un rapporto sulla presenza e sulla condizione degli immigrati nel territorio regionale, indicando anche la capacità di assorbimento di nuova manodopera.
l decreto flussi, come si è detto, ha cadenza annuale e deve essere emanato entro il 30 novembre dell’anno precedente a quello di riferimento.
Una norma di salvaguardia prevede che qualora non sia possibile emanare il decreto secondo la procedura sopra descritta (per esempio in assenza del documento programmatico) il Presidente del Consiglio può adottare un decreto transitorio che però non deve superare le quote dell’anno precedente. Per quanto riguarda il lavoro stagionale è possibile stabilire, sempre con decreto del Presidente del Consiglio, quote massime di lavoratori stagionali stranieri non comunitari autorizzati – nei soli settori dell’agricoltura e del turismo – a fare ingresso in Italia, anche in misura superiore a quelle dell’anno precedente.
Ulteriori criteri per la definizione delle quote sono indicate dall’art. 21 del testo unico. Si prevede, da un lato, la possibilità di restrizioni numeriche all’ingresso di lavoratori provenienti da Paesi che non collaborino adeguatamente al contrasto dell’immigrazione clandestina e, dall’altro, l’assegnazione in via preferenziale di quote riservate ai cittadini di quegli Stati che abbiano invece concluso con l’Italia accordi di cooperazione in materia di immigrazione.
Ulteriori quote riservate sono assegnate ai lavoratori non comunitari di origine italiana.
Infine, ai sensi del regolamento di attuazione (art. 34 del D.P.R. 394/1999, come modificato dall’art. 29 del D.P.R. 334/2004) una quota è riservata ai lavoratori che abbiano partecipato alle attività formative nei Paesi di provenienza previste dall’art. 23 del testo unico.
In alcuni anni è stata accordata una preferenza ad alcune categorie di lavoratori specializzati (informatici, infermieri professionali).
Lo schema di decreto è predisposto dalla Presidenza del Consiglio, Dipartimento per il coordinamento amministrativo (la stessa struttura che cura il documento programmatico triennale) sulla base sia degli indirizzi contenuti nel documento medesimo, sia delle indicazioni del Comitato per il coordinamento ed il monitoraggio delle disposizioni del testo unico.
L’ingresso nel territorio italiano – che deve avvenire esclusivamente attraverso i valichi di frontiera, salvi i casi di forza maggiore – è consentito ai cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione europea in possesso di:
§ passaporto valido (o documento equipollente);
§ visto d’ingresso (salvi i casi di esclusione).
Il Ministero degli affari esteri definisce le diverse tipologie dei visti d’ingresso e le modalità di concessione[148].
Non sempre è necessario il visto d’ingresso: spetta al Ministero degli affari esteri redigere l’elenco dei Paesi i cui cittadini sono soggetti ad obbligo di visto, anche in attuazione di specifici accordi internazionali (art. 4, comma 6, T.U.)[149].
Nella competenza del Ministero degli esteri rientra anche la procedura di concessione dei visti: le rappresentanze diplomatiche o consolari italiane localizzate nello Stato di origine o di residenza sono competenti alla ricezione delle richieste, al rilascio o al diniego del visto d’ingresso.
Il rilascio del visto di ingresso è subordinato alla presenza di una serie di condizioni: lo straniero deve avere prove idonee a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata di soggiorno. L’entità di tali mezzi sono determinati dal Ministro dell’interno (art. 4, comma 3, T.U.)[150].
La documentazione attestante il possesso di tali requisiti può essere richiesta nuovamente al momento dell’ingresso in Italia, anche se in possesso del visto.
Per quanto riguarda l’immigrazione per lavoro, l’ingresso degli stranieri è limitato e determinato secondo quote annuali (si veda la scheda Le politiche di programmazione dei flussi migratori, pag. 111); pertanto, le autorità diplomatiche rilasciano i visti di ingresso entro tali quote (art. 3, comma 4, T.U.) e secondo le modalità definite dal testo unico (artt. 21 e seguenti).
Inoltre, il testo unico individua alcune condizioni ostative al rilascio del visto: oltre coloro che non sono in possesso dei requisiti di cui sopra (mezzi di sussistenza e documenti che confermano lo scopo del soggiorno), non sono ammessi (art. 4, comma 3, T.U.):
§ gli stranieri considerati una minaccia per l’ordine pubblico sia da parte dell’Italia, sia di uno degli Paesi dell’area Schengen;
§ gli stranieri condannati – anche a seguito di patteggiamento – ad una serie di gravi reati per i quali la legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza (ai sensi dell’art. 380, commi 1 e 2 del codice di procedura penale), ovvero per quelli riconducibili direttamente o indirettamente al fenomeno migratorio (si tratta dei reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento delle migrazioni clandestine, lo sfruttamento della prostituzione e lo sfruttamento dei minori).
Non possono altresì fare ingresso in Italia (art. 4, comma 6, T.U.):
§ gli stranieri espulsi (a meno che non abbiano ottenuto la speciale autorizzazione o che sia trascorso il perizio di divieto di ingresso, di norma di dieci anni);
§ gli stranieri da espellere;
§ gli stranieri segnalati da altri Paesi, ai fini della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico.
La non concessione del visto di ingresso è adottata con un provvedimento di diniego che deve essere comunicato all’interessato limitatamente alle cause più frequenti di richiesta di visto di ingresso: lavoro, studio e ricongiungimento familiare.
Il testo unico non dà indicazioni sul procedimento di tutela giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego. La questione è stata risolta dalla giurisprudenza in base al rapporto tra il regime del permesso di soggiorno e quello del visto di ingresso: è impugnabile davanti al giudice amministrativo il diniego di concessione del visto d’ingresso, in quanto, essendo il visto d’ingresso subordinato, al pari del permesso di soggiorno, alla valutazione della sussistenza di requisiti soggettivi o di condizioni internazionali, la pubblica amministrazione dispiega, nella sua emanazione, una specifica ed ampia discrezionalità, il che esclude la configurabilità, in capo allo straniero, di una posizione di diritto soggettivo al relativo ottenimento[151].
I documenti che legittimano la permanenza dello straniero nel territorio italiano sono il permesso di soggiorno rilasciato per un periodo variabile a seconda dei motivi del soggiorno (art. 5, T.U.) e il permesso di soggiorno CE di lungo periodo, a tempo indeterminato, per gli stranieri stabilizzati (art. 9, T.U.).
Una volta fatto ingresso nel territorio nazionale, ogni straniero deve fare richiesta del permesso di soggiorno entro otto giorni al questore della provincia in cui si trova, ed esso è rilasciato per le attività previste dal visto di ingresso (art. 5, comma 2).
Da rilevare che la richiesta del permesso di soggiorno è obbligatoria per tutti gli stranieri per i quali è necessario il visto di ingresso (anche se sono previste modalità semplificate per brevi soggiorni e per motivi particolari, quali turismo, cura ecc.).
Una rilevante modifica a tale disciplina è intervenuta nella XV legislatura ad opera della legge 68/2007[152] che ha eliminato l’obbligo di richiesta del permesso di soggiorno per i soggiorni di breve durata. La legge sostituisce il permesso di soggiorno con una semplice dichiarazione di presenza per gli stranieri non comunitari che intendono soggiornare in Italia per periodi non superiori a tre mesi per motivi di visita, affari, turismo e studio[153].
L’inosservanza della disposizione comporta l’espulsione dello straniero, sia in caso di ritardo nella presentazione della dichiarazione, sia in caso di trattenimento nel territorio dello Stato oltre il periodo consentito.
Tutti gli immigrati – e non solamente quelli per motivi di lavoro – la cui permanenza è subordinata al possesso del permesso di soggiorno, al momento della richiesta (o del rinnovo) sono sottoposti alla rilevazione dei dati fotodattiloscopici (art. 5, comma 2-bis e 4-bis)[154].
La durata del permesso di soggiorno è variabile a seconda del motivo del soggiorno (art. 5, comma 3-bis e seguenti T.U.). In particolare, viene distinta la durata massima del permesso per lavoro a tempo determinato, fissata in un anno, da quello per lavoro a tempo indeterminato, autonomo e ricongiungimento, due anni.
I tempi massimi per far richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno: sono di 60 giorni per lavoro a tempo determinato, 90 giorni per lavoro a tempo indeterminato e 30 per le altre fattispecie.
Il rinnovo del permesso di soggiorno è di competenza del questore, che deve verificare la sussistenza delle condizioni previste per il rilascio[155].
Il rilascio del permesso di soggiorno per lavoro subordinato è condizionato alla sottoscrizione del contratto di soggiorno. Il “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”fra un datore di lavoro (italiano o straniero regolarmente soggiornante in Italia) e un cittadino extracomunitario viene stipulato presso lo sportello unico per l’immigrazionee deve contenere la garanzia – da parte del datore di lavoro – della disponibilità di un’adeguata sistemazione alloggiativa per il dipendente e l’impegno al pagamento delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel Paese di provenienza.
La sottoscrizione del contratto di soggiorno costituisce requisito essenziale per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Il D.L. 144/2005[156] ha introdotto (art. 2) un particolare tipo di permesso di soggiorno a fini investigativi, in favore degli stranieri che prestino la loro collaborazione all’autorità giudiziaria o agli organi di polizia in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.
Inoltre l’art. 11 ha sostituito l’art. 5, comma 8, del testo unico, che disciplina i modelli – aventi caratteristiche anticontraffazione – del permesso di soggiorno e della carta di soggiorno, al fine di assicurare valenza identificativa al permesso e alla carta di soggiorno elettronici.
Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è stato introdotto dal D.Lgs. 3/2007[157], che ha sostituito l’analoga carta di soggiorno, prevista dall’art. 9, T.U. (sul D.Lgs. 3/2007 si veda anche la scheda Permesso di soggiorno CE di lungo periodo, vedi pag. 200).
Tale istituto risponde all’esigenza di dare la possibilità agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia da lungo tempo, di passare da una condizione di temporaneità ad una di maggiore stabilità. Infatti, diversamente dal permesso di soggiorno ordinario, che ha durata temporanea, esso è rilasciato a tempo indeterminato, riconoscendo allo straniero una sorta di diritto permanente di soggiorno.
Tale documento può essere richiesto al questore (per sé, per il coniuge e per i figli minori conviventi) dallo straniero in possesso dei seguenti requisiti:
§ essere in possesso da almeno cinque anni di un permesso di soggiorno in corso di validità;
§ dimostrare di avere un reddito sufficiente.
Le condizioni ostative al rilascio del permesso, e quelle relative alla sua revoca sono specificamente individuate dal testo unico. In particolare, non può essere rilasciato agli stranieri considerati pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.
Inoltre, a favore dei titolari vengono circoscritte, rispetto a quelle generali previste all’art. 11 del testo unico, le ipotesi in cui si può procedere all’espulsione amministrativa.
Il permesso di soggiorno CE di lungo periodo consente al titolare: l’ingresso e il reingresso nel territorio italiano in esenzione delle norme sul visto; lo svolgimento di ogni attività lecita (con eccezione di quelle che la legge espressamente vieta allo straniero o riserva al cittadino italiano); l’accesso ai servizi ed alle prestazioni erogati dalla pubblica amministrazione (salvo che sia diversamente disposto); la partecipazione alla vita pubblica locale.
Una disciplina specifica è dettata per i titolari di un permesso di soggiorno CE rilasciato da un altro Stato membro dell’Unione europea (art. 9-bis, introdotto dal D.Lgs. 3/2007).
Come si è detto, l’ingresso per motivi di lavoro nel territorio italiano è regolato con il sistema della quote annuali e la concessione del permesso di soggiorno è subordinato alla firma del contratto di soggiorno per lavoro tra lo stranero e il suo datore di lavoro. Il contratto è stipulato presso lo sportello unico per l’immigrazione territorialmente competente, nel quale è concentrata la gran parte delle competenze nella procedura dell’accesso al lavoro degli immigrati.
In ciascuna provincia è collocato uno sportello unico, ubicato presso la prefettura – ufficio territoriale del Governo. Esso è configurato quale organismo responsabile dell’interno procedimento relativo all’instaurazione del rapporto di lavoro, assommando le attività in precedenza svolte dalle prefetture, dalle direzioni provinciali dalle lavoro e dalle questure, in modo da semplificare le procedure.
Il compito principale degli sportelli unici è di ricevere la richiesta di nulla osta al lavoro da parte del datore di lavoro e di rilasciarlo previo esame e, soprattutto, dopo verifica dell’indisponibilità per quel posto di lavoro di un lavoratore italiano o comunitario. Il nulla osta è poi consegnato al datore di lavoro o, su sua richiesta, inviato direttamente all’autorità diplomatica del Paese del lavoratore ai fini del rilascio del visto di ingresso.
Successivamente, sempre presso lo sportello deve essere firmato il citato contratto di soggiorno per lavoro (art. 5, comma 3-bis, T.U.) che costituisce titolo per il rilascio del permesso di soggiorno.
Allo sportello unico, inoltre, devono essere comunicate tutte le variazioni intervenute del rapporto di lavoro.
Gli sportelli unici sono divenuti operativi solamente nel 2005 dopo un complesso procedimento attuattivo.
Infatti, la legge 189/2002 (art. 34) che li ha istituiti ha previsto l’emanazione di un regolamento volto in linea generale a dare attuazione alla legge e, in particolare, a definire le modalità di funzionamento dello sportello unico.
Il regolamento è stato adottato alla fine del 2004 con il decreto del Presidente della Repubblica 18 ottobre 2004, n. 334, che ha modificato il precedente regolamento di attuazione del testo unico, il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394.
Ai sensi del regolamento attuativo (art. 30), lo sportello unico deve essere costituito con decreto del prefetto e deve essere composto da almeno tre membri: un rappresentante della prefettura – ufficio territoriale del Governo, uno della Direzione provinciale del lavoro e uno della Polizia di Stato. Lo stesso decreto prefettizio di costituzione dello sportello ne designa il responsabile secondo le direttive adottate congiuntamente dal Ministro dell’interno e dal Ministro del lavoro. Tali direttive sono state emanate il 13 maggio 2005 e a partire da questa data i prefetti hanno potuto emanare i decreti relativi e si sono potuti costituire materialmente gli sportelli unici.
In occasione delle procedure relative alle domande di lavoro connesse con il decreto flussi per il 2006 (presentate nel marzo 2006) sono stati utilizzati per la prima volta gli sportelli unici secondo la nuova procedura fissata dalla legge 189.
Un bilancio della prima fase di attività degli sportelli unici è stato realizzato dalla Corte dei conti nella relazione su L’attività di gestione integrata dei flussi di immigrazione, dove si rileva che le nuove strutture “non sono apparse in grado di ridurre le criticità del procedimento che, anzi, sono aumentate nella lavorazione dei flussi 2006”[158].
Da segnalare che l’art. 23 del testo unico prevede titoli di prelazione nel collocamento dei lavoratori stranieri derivanti dall’aver frequentato corsi di istruzione e di formazione professionale organizzati nei paesi di origine da enti abilitati. Nei decreti annuali dei flussi sono stabilite quote privilegiati per gli stranieri che hanno frequentato tali corsi (art. 34, comma 5, del regolamento di attuazione DPR 394/1999, come modificato dal DPR 334/2004).
Lo stesso art. 34 del regolamento prevede che le modalità di predisposizione e di svolgimento dei programmi di formazione e di istruzione da effettuarsi nel Paese di origine siano fissati con decreto del Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
Disposizioni specifiche sono dettate nei confronti del lavoro stagionale (art. 24), il lavoro autonomo (art. 26) e altre categorie particolari di lavoratori (art. 27).
L’art. 27 del testo unico e l’art. 40 del regolamento di attuazione regolano i cosiddetti ingressi fuori quota, che riguardano lavoratori appartenenti a specifiche categorie, in possesso di determinati requisiti, i quali possono entrare in Italia indipendentemente dalle quote stabilite ogni anno dai decreti sui flussi, a condizione che ci sia un datore di lavoro che intenda assumerli.
Le categorie che possono usufruire degli ingressi fuori quota sono espressamente indicate dall’art. 27, comma 1; tra queste si ricordano:
§ dirigenti o personale altamente specializzato di società aventi sede o filiali in Italia o di uffici di rappresentanza di società estere che abbiano la sede principale di attività nel territorio di uno Stato membro dell'Organizzazione mondiale del commercio, ovvero dirigenti di sedi principali in Italia di società italiane o di società di altro Stato membro dell'Unione europea;
§ lettori universitari di scambio o di madre lingua;
§ professori universitari destinati a svolgere in Italia un incarico accademico;
§ traduttori e interpreti;
§ persone che, autorizzate a soggiornare per motivi di formazione professionale, svolgano periodi temporanei di addestramento presso datori di lavoro italiani effettuando anche prestazioni che rientrano nell'ambito del lavoro subordinato;
§ lavoratori alle dipendenze di organizzazioni o imprese operanti nel territorio italiano, che siano stati ammessi temporaneamente a domanda del datore di lavoro, per adempiere funzioni o compiti specifici, per un periodo limitato o determinato, tenuti a lasciare l'Italia quando tali compiti o funzioni siano terminati;
§ lavoratori dipendenti regolarmente retribuiti da datori di lavoro, persone fisiche o giuridiche, residenti o aventi sede all'estero e da questi direttamente retribuiti, i quali siano temporaneamente trasferiti dall'estero presso persone fisiche o giuridiche, italiane o straniere, residenti in Italia, al fine di effettuare nel territorio italiano determinate prestazioni oggetto di contratto di appalto stipulato tra le predette persone fisiche o giuridiche residenti o aventi sede in Italia e quelle residenti o aventi sede all'estero;
§ artisti e personale artistico e tecnico per spettacoli;
§ stranieri che siano destinati a svolgere qualsiasi tipo di attività sportiva professionistica presso società sportive italiane;
§ giornalisti corrispondenti ufficialmente accreditati in Italia e dipendenti regolarmente retribuiti da organi di stampa quotidiani o periodici, ovvero da emittenti radiofoniche o televisive straniere;
§ persone che, secondo le norme di accordi internazionali in vigore per l'Italia, svolgono in Italia attività di ricerca o un lavoro occasionale nell'ambito di programmi di scambi di giovani o di mobilità di giovani o sono persone collocate “alla pari”;
§ infermieri professionali assunti presso strutture sanitarie pubbliche e private.
La richiesta di nulla osta al lavoro per l’ingresso al di fuori delle quote può essere presentata in qualsiasi periodo dell'anno.
Le domande per il rilascio del nulla osta al lavoro vanno presentate presso lo sportello unico per l’immigrazione, secondo le modalità previste in via generale per coloro che intendano assumere lavoratori stranieri dall’art. 30-bis, commi 2 e 3, del regolamento di attuazione.
Per i procedimenti in questione, non è richiesto l’adempimento della preventiva verifica della sussistenza di eventuali richieste presentate da parte di un lavoratore nazionale o comunitario per il medesimo impiego.
Per gli ingressi al di fuori delle quote, il nulla osta al lavoro non può essere concesso per un periodo superiore a quello del rapporto di lavoro a tempo determinato e, comunque, a due anni; la proroga oltre il limite biennale, se prevista, non può superare lo stesso termine di due anni[159]. La validità del nullaosta deve essere espressamente indicata nel provvedimento.
L’articolo 27 è stato oggetto di alcune modifiche nel corso della XV legislatura.
In primo luogo, è stato abolito il nulla osta per il lavoro per i lavoratori extracomunitari dipendenti da datori di lavoro residenti o aventi sede un altro Stato membro nell’Unione europea, sostituito da una semplice dichiarazione ai fini del rilascio del permesso di soggiorno (decreto legge 10/2007, art. 5)[160].
Inoltre, per la categoria dei ricercatori, in precedenza compresa tra quelle fuori quota ai sensi dell’art. 27, è stata prevista una specifica procedura semplificata indicata dal nuovo art. 27-ter, introdotto dal D.Lgs. 17/2008[161].
Il provvedimento introduce una nuova tipologia di visto di ingresso modulato su una procedura agevolata e finalizzato all’ingresso di soggetti specifici per lo svolgimento di attività di ricerca. In tal senso promuove la figura del ricercatore senza legarla alle modalità concrete di tale attività, ovvero al rapporto di lavoro o di collaborazione che verrà posto in essere tra il ricercatore e l’istituto di ricerca.
I destinatari del provvedimento sono i cittadini stranieri in possesso di un titolo di studio superiore che, nel Paese in cui è stato conseguito, dia accesso a programmi di dottorato.
I ricercatori sono selezionati da istituti di ricerca, pubblici o privati, che svolgono attività di ricerca, e che devono essere iscritti in un apposito elenco tenuto dal Ministero dell’università e della ricerca.
Il ricercatore e l’istituto di ricerca stipulano quindi una convenzione d’accoglienza con cui si impegnano reciprocamente a tener fede ai rispettivi impegni (realizzazione del progetto di ricerca da una parte, accoglienza e sostegno del ricercatore dall’altra).
Il progetto di ricerca, che deve essere approvato dagli organi di amministrazione dell’istituto, in quanto attività retribuita può assumere la forma di lavoro subordinato, borsa di addestramento alla ricerca o lavoro autonomo compatibile con gli obiettivi del progetto. La convenzione indica inoltre il compenso mensile messo a disposizione del ricercatore.
I ricercatori possono essere ammessi – a parità di condizioni con i cittadini italiani – a svolgere attività di insegnamento collegate al progetto di ricerca, se lo consentono le disposizioni statutarie e regolamentari dell’istituto di ricerca.
Una specifica disciplina è prevista anche per l’ingresso e soggiorno per volontariato (art. 27-bis, introdotto dal D.Lgs. 154/2007)[162].
Uno dei princìpi cardine della vigente disciplina dell’immigrazione consiste nell’adozione di misure di contrasto di tutti i comportamenti illeciti collegati ai fenomeni migratori. Innanzitutto misure preventive, volte a impedire gli ingressi al di fuori delle modalità consentite (immigrazione clandestina). In secondo luogo, misure repressive che puniscono sia la presenza di stranieri entrati illegalmente, sia la violazione delle disposizioni amministrative che regolano la presenza legale, sia, infine, l’eventuale comportamento criminale dell’immigrato.
Nell’elaborazione delle misure e delle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina nel nostro Paese, un ruolo decisivo è stato assunto dal vincolo esterno rappresentato dall’adeguamento delle norme del diritto interno alle esigenze legate all’adesione degli accordi internazionali di Schengen che hanno portato all’abolizione dei controlli alle frontiere interne (vedi oltre il paragrafo relativo a L’attuazione della normativa comunitaria in materia di espulsione).
Un articolato sistema di contrasto è definito dal testo unico del 1998[163], sul quale è intervenuta la L. 189/2002[164] che, pur mantenendone inalterate le basi, vi ha apportato notevoli modifiche, volte principalmente a rendere complessivamente più stringenti gli obblighi previsti e più restrittivo l’apparato sanzionatorio.
Il primo strumento di contrasto all’immigrazione clandestina è costituito da un efficace controllo delle frontiere atto, da un lato, ad intercettare i flussi degli immigrati clandestini e ad impedirne l’ingresso nel territorio dello Stato, attraverso il loro respingimento, e, dall’altro, a individuare e punire coloro che favoriscono l’ingresso illegale di stranieri, spesso a scopo di lucro.
Il respingimento è sostanzialmente una operazione di polizia volta ad impedire l’ingresso clandestino di immigrati.
Il testo unico prevede due diverse tipologie di respingimento:
§ il respingimento immediato (art. 10, co. 1, T.U.), effettuato direttamente dalla polizia di frontiera nei confronti di coloro che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti necessari per l’ingresso nel territorio nazionale[165];
§ il respingimento differito (art. 10, co. 2, T.U.), operato per ordine del questore, tramite accompagnamento alla frontiera, quando lo straniero, pur se intercettato ai valichi di frontiera senza i documenti richiesti per fare ingresso nello Stato, abbisogna di soccorso, oppure nel caso di ingresso attraverso l’elusione dei controlli di frontiera e conseguente fermo nelle sue vicinanze.
Il respingimento non viene effettuato nei casi previsti dalle disposizioni concernenti l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione temporanea degli stranieri per motivi umanitari (art. 10, co. 4, T.U.), oppure nei confronti dello straniero che possa essere oggetto di persecuzione nello Stato di provenienza (art. 19, co. 1, T.U.)
Il testo unico affida la funzione di controllo delle frontiere ai Ministeri dell’interno e degli affari esteri. Spetta ai titolari dei due dicasteri adottare, per la rispettiva competenza, un piano generale per il potenziamento e il perfezionamento delle misure di controllo delle frontiere (art. 11, co. 1, T.U.)
La funzione di coordinamento in materia di controlli delle frontiere compete al Ministero dell’interno[166] al quale sono demandati i seguenti compiti (co. 1-bis dell’art. 11).
§ l’emanazione delle misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre italiana, sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica[167];
§ la promozione di apposite misure di coordinamento tra le autorità italiane competenti in materia di controlli sull’immigrazione e le autorità europee competenti nella stessa materia in base all’Accordo di Schengen.
Le funzioni di polizia dell’immigrazione trovano un centro specifico e dedicato di direzione a livello dell’amministrazione centrale dell’interno nella Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere (nata per scorporazione dalla Direzione centrale per la polizia stradale, ferroviaria, postale, di frontiera e dell’immigrazione). Alla direzione sono affidate non solamente le funzioni polizia di frontiera e di contrasto all’immigrazione clandestina ma anche le attività gestionali proprie dell’autorità di pubblica sicurezza in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri.
A livello locale, il testo unico affida ai prefetti delle province di confine terrestre ed ai prefetti dei capoluoghi delle regioni interessate alla frontiera marittima il coordinamento dei controlli di frontiera e la vigilanza marittima e terrestre, nell’ambito delle direttive adottate dal ministro dell’interno; i prefetti, inoltre, sovrintendono all’attuazione delle direttive emanate in materia (art. 11, co. 3).
Sia il Ministero degli affari esteri, sia quello dell’interno possano promuovere intese con i Paesi di provenienza o di transito dei flussi irregolari finalizzate, in generale, alla collaborazione nel contrasto all’immigrazione clandestina, e, inoltre, volte ad accelerare l’espletamento degli accertamenti e il rilascio dei documenti relativi ai procedimenti previsti dal testo unico (quali ad esempio quelli relativi all’espulsione). Le intese di collaborazione possono prevedere anche la cessione a titolo gratuito di apparecchiature e mezzi, strumentali alla prevenzione dell’immigrazione clandestina (art. 11, co. 4).
In tale ambito, il D.L. 241/2004[168] ha previsto la possibilità che il Ministero dell’interno contribuisca, solo per il 2004 e il 2005, alla realizzazione, nei Paesi di provenienza, di apposite “strutture” destinate al contrasto dei flussi irregolari (art. 11, co. 5-bis, introdotto dall’art. 1-bis del decreto-legge). Allo scopo sono destinati 13,8 milioni di euro (art. 2, co. 1-quater).
Il testo unico dell’immigrazione (art. 12) contempla una serie di norme che costituiscono un completamento delle disposizioni relative ai controlli di frontiera.
Si tratta, innanzitutto, della previsione del reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, destinato a colpire coloro, come i cosiddetti “scafisti”, che a scopo di lucro conducono illegalmente nel territorio dello Stato cittadini provenienti da Paesi non comunitari (co. 1).
Si tratta di un reato grave per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza e la confisca del mezzo di trasporto.
È considerato come illecito non solo il favoreggiamento all’ingresso, ma anche le attività dirette a favorire l’uscita dall’Italia e l’ingresso illegale in altro Stato (immigrazione clandestina di transito).
Un secondo gruppo di disposizioni disciplina le operazioni di polizia finalizzate al contrasto delle immigrazioni clandestine. Il testo unico dà la facoltà alle forze dell’ordine operanti nelle zone di confine e in mare di procedere al controllo, alle ispezioni e alle perquisizione dei mezzi di trasporto nel corso delle operazioni di contrasto dei traffici legati all’immigrazione clandestina, e, in caso di necessità, al sequestro di tali mezzi e degli altri beni eventualmente utilizzati (art. 12, co. 7 e 8).
Quanto alla destinazione dei beni sequestrati nel corso di operazioni di contrasto dei traffici di clandestini, il co. 8 ne prevede (qualora non ostino esigenze processuali) l’affidamento in custodia giudiziale:
§ agli organi di polizia che ne facciano richiesta per l’impiego in attività di polizia, ovvero
§ ad altri organi dello Stato o ad altri enti pubblici per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale.
Gli oneri relativi alla gestione sono a carico di chi abbia l’utilizzo dei beni[169].
Una volta che i beni sequestrati sono definitivamente confiscati e acquisiti dallo Stato possono essere, a richiesta, assegnati all’amministrazione o trasferiti all’ente che ne abbiano avuto l’uso a titolo di custodia giudiziale ai sensi del co. 8, ovvero sono alienati (co. 8-quinques).
Peraltro, i mezzi di trasporto non affidati, assegnati o trasferiti ai sensi dei co. 8 e 8-quinques, non possono comunque essere alienati; di essi si prevede, in ultima istanza, la distruzione.
Le navi che si ha fondato motivo di ritenere siano adibite o coinvolte nel traffico illecito di migranti posso essere fermate, ispezionate ed eventualmente sequestrate (co. 9-bis e seguenti), in modo da prevenire gli sbarchi di clandestini.
Le modalità di intervento delle navi militari e il raccordo tra le loro attività e quelle svolte dalle navi in servizio di polizia sono rimesse dal co. 9-quinquies a un decreto interministeriale adottato dai ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti.
Tale disposizione è stata attuata con l’adozione del decreto del ministro dell’interno 14 luglio 2003, Disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina, Il decreto affida le attività di vigilanza, prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina ai mezzi aereonavali della Marina militare, delle Forze di polizia e delle Capitanerie di porto. Alla Marina militare spettano in modo prevalente le attività in acque internazionali, mentre le attività nelle acque territoriali e nelle zone contigue sono attribuite principalmente alle Forze di Polizia (Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di finanza, cui compete il coordinamento in caso di interventi di più corpi). Al Corpo delle capitanerie di porto sono affidati compiti di soccorso, assistenza e salvataggio. Il coordinamento di tutte le attività è esercitato dalla Direzione centrale della polizia di frontiera del Ministero dell’interno.
L’abolizione delle frontiere interne dell’Unione europea a seguito degli accordi di Schengen ha comportato che i confini dei singoli Paesi membri con i Paesi extraeuropei sono diventati, in sostanza, i confini dell’Unione stessa. Pertanto, la maggior parte degli oneri conseguenti alla realizzazione dell’area Schengen (maggiori controlli alle frontiere, alimentazione delle banche dati, monitoraggio dei flussi migratori) ricadono su quei Paesi che hanno una più vasta estensione delle frontiere “esterne” e sono più esposti ai tentativi di ingressi clandestini.
Questo spiega perché negli ultimi anni i Paesi dell’Unione europea affacciati sul Mediterraneo, come l’Italia, hanno promosso la realizzazione di forme di controllo coordinato delle frontiere, anche al fine di condividere gli oneri finanziari che questo comporta.
Un passo fondamentale in questa direzione è stato compiuto con l’istituzione dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (Frontex, dal francese Frontières extérieures) con il Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004.
L’Agenzia è stata costituita nel 2005 con sede a Varsavia.
Fermo restando che i singoli Stati membri rimangono responsabili del controllo e della sorveglianza delle frontiere esterne, l’Agenzia dovrà semplificare l’applicazione delle misure comunitarie in materia di gestione delle frontiere coordinando le azioni degli Stati membri nell’attuazione di tali misure.
L’Agenzia ha il compito di coordinare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di gestione delle frontiere esterne; assistere gli Stati membri nella formazione di guardie nazionali di confine, anche elaborando norme comuni in materia di formazione; preparare analisi dei rischi; seguire l’evoluzione delle ricerche in materia di controllo e sorveglianza delle frontiere esterne; aiutare gli Stati membri che devono affrontare circostanze tali da richiedere un’assistenza tecnica e operativa rafforzata alle frontiere esterne; fornire agli Stati membri il sostegno necessario per organizzare operazioni di rimpatrio congiunte.
Frontex opera in stretto collegamento con altri organismi comunitari e dell’Unione responsabili in materia di sicurezza alle frontiere esterne, come Europol, Cepol (l’accademia europea di polizia) e Olaf (l’ufficio europeo anti frodi), e di cooperazione nel settore delle dogane e dei controlli fitosanitari e veterinari, al fine di garantire la coerenza complessiva del sistema.
Tra gli atti preparatori che hanno fornito le basi di discussione per l’istituzione dell’Agenzia, una menzione particolare va fatta per lo Studio di fattibilità per una polizia europea, affidato dalla Commissione all’Italia e presentato a Roma nel maggio 2002.
Il testo unico sull’immigrazione contempla diversi tipi di espulsione del cittadino straniero riconducibili sostanzialmente a due categorie giuridiche: l’espulsione quale sanzione amministrativa, comminata, appunto, dall’autorità amministrativa (ministro o prefetto) in caso di violazione delle regole relative all’ingresso e al soggiorno e l’espulsione applicata dal giudicenell’ambito di un procedimento penale (l’espulsione a titolo di misura di sicurezza e l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa a sanzione penale).
Esse rispondono a due distinte finalità: la prima punisce coloro che trasgrediscono le procedure fissate per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri e costituiscono dunque una sanzione necessaria ai fini del loro rispetto.
La seconda colpisce il comportamento delinquenziale dello straniero a prescindere dalla regolarità della sua posizione amministrativa. Tuttavia, alcune forme di espulsione “giudiziaria” possono essere eseguite solo nei confronti degli stranieri passibili di espulsione amministrativa.
Il testo unico prevede poi una serie di situazioni per le quali è stabilito il divieto di espulsione (art. 19 che ha introdotto il principio del non refoulement).
Innanzitutto, l’espulsione, ed anche il semplice respingimento, sono vietati se nello Stato verso cui lo straniero è estradato, egli può essere oggetto di persecuzione “per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”[170].
Inoltre, è consentito il solo respingimento ma non l’espulsione nei seguenti casi:
§ minori, salvo il diritto di seguire il genitore espulso;
§ possessori di carta di soggiorno, a meno che non ricorrano gravi motivi di ordine pubblico, ai sensi dell’art. 9 T.U.;
§ conviventi con coniuge o con parenti entro il quarto grado di nazionalità italiana;
§ donne in stato di gravidanza o con figli minori di sei mesi[171].
È possibile espellere lo straniero anche nelle circostanze sopra indicate, nel caso di espulsione amministrativa operata da parte del ministro dell’interno per gravi motivi di ordine pubblico (art. 13, co. 1, T.U. vedi oltre).
L’art. 13 del testo unico disciplina l’espulsione amministrativa prevedendo due tipologie distinte di provvedimento:
§ l’espulsione disposta dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato;
§ l’espulsione disposta dal prefetto nei seguenti casi:
- quando lo straniero è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera (immigrato clandestino);
- quando lo straniero si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, oppure quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato o scaduto da più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo (immigrato irregolare);
- quando lo straniero sia un delinquente abituale o sia indiziato di appartenere ad associazioni criminali di tipo mafioso.
L’espulsione amministrativa (sia di iniziativa del ministro dell’interno, sia quella prefettizia) è disposta con decreto motivato ed è eseguita dal questore (co. 3). Il decreto è immediatamente esecutivo anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato e l’espulsione viene di norma eseguita con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (co. 4, vedi oltre).
Da ricordare in questa sede, che il D.L. 272/2006[172], nell’ambito di una ampia riforma del testo unico sulla droga, all’art. 4-ter sostituisce l’art. 75 del D.P.R. 309/1990, inserendo al co. 8 la previsione per cui lo straniero che incorre in condotte integranti illeciti amministrativi (ossia acquista o detiene sostanze stupefacenti al di sotto dei limiti quantitativi per i quali scatta la sanzione penale) è segnalato dalla polizia al questore per le valutazioni di competenza in sede di rinnovo di permesso.
Qualora lo straniero sia sottoposto a procedimento penale, l’esecuzione del provvedimento di espulsione è eseguita previo nulla osta dell’autorità giudiziaria che può essere negato in presenza di inderogabili esigenze processuali. Nel caso di arresto in flagranza o di fermo il giudice rilascia il nulla osta al momento della convalida. In dettaglio:
§ non si dà luogo all’espulsione se lo straniero sottoposto a procedimento penale si trova in stato di custodia cautelare in carcere; una volta estinta o revocata la misura di custodia il giudice rilascia il nulla osta (co. 3 e 3-ter);
§ le “inderogabili esigenze processuali” vanno valutate in relazione all’accertamento di responsabilità di eventuali concorrenti nel reato e all’interesse della persona offesa (co. 3);
§ una volta disposta l’espulsione in pendenza di giudizio, il giudice è tenuto a pronunciare sentenza di non luogo a procedere (co. 3-quater);
§ la sentenza di non luogo a procedere non impedisce l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto a carico dello straniero espulso, qualora questi rientri illegalmente, ai sensi dell’art. 345 del codice di procedura penale (co. 3-sexies).
Se il provvedimento di espulsione è stabilito dal prefetto o dal ministro dell’interno, l’esecuzione dell’espulsione è disposta con atto del questore.
L’articolo 13 del testo unico prevede che l’espulsione sia eseguita di regola mediante l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato (comma 4)o, esclusivamente in presenza di precise circostanze, tramite accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica.
La modalità di espulsione con intimazione a lasciare il territorio dello Stato è riservata agli immigrati irregolari il cui permesso di soggiorno è scaduto da oltre 60 giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo. È previsto però l’allontanamento forzato in presenza di sospetti sulla effettiva volontà del soggetto ad ottemperare all’ordine.
Per le altre ipotesi di mancanza di un titolo di soggiorno valido – permesso non richiesto o revocato o annullato – si dispone sempre l’allontanamento forzato.
L’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale mediante accompagnamento da parte della forza pubblica è sottoposta alla sua convalida da parte dell’autorità giudiziaria (art. 13, co. 5-bis, T.U.)
Il testo unico del 1998 nella sua formulazione originale era privo di un sindacato giurisdizionale nei confronti del provvedimento di allontanamento. La convalida da parte dell’autorità giudiziaria dei provvedimenti di accompagnamento alla frontiera è stata introdotta dal D.L. 51/2002[173] al fine di assicurare loro le garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione[174].
In questo modo si è adeguato l’ordinamento giuridico all’orientamento della Corte costituzionale (sen. 105 del 2001) che ha ritenuto contrario alla Costituzione il fatto che l’immigrato clandestino sia allontanato dal territorio nazionale in virtù di un semplice provvedimento amministrativo, emanato dal questore senza il vaglio della magistratura[175].
In particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza della questione assunta come più rilevante, ossia la lamentata violazione del principio della riserva della giurisdizione da parte del testo unico nella parte in cui non prevede espressamente che la decisione del giudice di convalida del provvedimento di trattenimento nel centro di permanenza temporanea coinvolga anche il provvedimento prefettizio di espulsione con accompagnamento alla frontiera, provvedimento a monte della decisione del trattenimento. La Corte ha affermato che il controllo del giudice non si limita alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti che hanno portato alla decisione del trattenimento, ma investe anche l’espulsione amministrativa nella sua specifica modalità di esecuzione consistente nell’accompagnamento alla frontiera.
In realtà, come la Consulta non ha mancato di rilevare, i giudici rimettenti ponevano anche la questione di legittimità costituzionale del provvedimento di accompagnamento in sé, a prescindere se ad esso segua o meno il trattenimento, in quanto la legge non prevede la convalida di tale provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria. Il giudice costituzionale non ha considerato rilevante questa parte: tuttavia, ha affermato decisamente che l’accompagnamento alla frontiera “inerisce alla materia regolata dall’art. 13 Cost., in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti solo sulla libertà di circolazione”. Tale posizione è stata da più parti interpretata nel senso che, se le parti rimettenti avessero posto come principale la questione, la Corte non avrebbe potuto esimersi dal dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 13, co. 4 e 5, del testo unico nella parte in cui non prevede l’intervento del giudice a convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera.
La norma introdotta dal D.L. 51 (art. 2) prevede – in caso di espulsione dello straniero – la comunicazione immediata (e, comunque, entro 48 ore) da parte del questore al tribunale monocratico competente, del provvedimento che dispone l’accompagnamento alla frontiera. Da questo momento il provvedimento è immediatamente esecutivo. Nelle successive 48 ore dalla comunicazione, il tribunale verificata la sussistenza dei requisiti, convalida il provvedimento.
Tuttavia, la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente sul punto con la sentenza 222 del 2004, sanzionando la possibilità per il questore di disporre l’accompagnamento alla frontiera prima di un controllo ai fini della convalida da parte dell’autorità giudiziaria.
La Corte ha ritenuto che tale norma privi lo straniero di una effettiva tutela giurisdizionale poiché risulta eliminato l’effettivo controllo del giudice sul provvedimento concernente la libertà personale: lo straniero viene espulso, infatti, prima che il giudice abbia potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della libertà personale, così vanificando la garanzia di cui all’art. 13, terzo comma, Cost.
La disposizione è stata ritenuta illegittima anche in quanto non prevede che il giudizio di convalida debba svolgersi in contraddittorio e con le garanzie delle difesa. Il procedimento infatti non contempla alcuna contestazione o audizione dell’interessato, né qualsivoglia forma di contraddittorio o difesa, così da riservare al giudice un controllo puramente formale sul decreto. Inoltre il medesimo provvedimento del questore – fa notare la Corte – è immediatamente esecutivo e non è prevista alcuna forma di opposizione avverso lo stesso, né alcuna possibilità di sospensione da parte dell’autorità giudiziaria.
Si è reso così necessario un nuovo intervento normativo realizzato con il D.L. 241/2004[176] che ha stabilito la sospensione dell’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento fino alla sua convalida. Inoltre, la competenza passa dal giudice monocratico al giudice di pace (art. 1, co. 1 del D.L. 241/2004 che modifica l’art. 13, co. 5-bis del T.U. e aggiunge il co. 5-ter)[177].
L’udienza per la convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore. La convalida è disposta con decreto motivato entro le 48 ore successive, verificando il rispetto dei termini, la sussistenza dei requisiti previsti dallo stesso art. 13 del T.U. per l’espulsione e sentito l’interessato. In attesa della decisione del giudice, lo straniero è trattenuto in uno dei centri di permanenza temporanea e di assistenza, a meno che si possa procedere al giudizio nell’immediatezza, senza dover ricorrere all’invio nei centri. Il provvedimento del questore diviene esecutivo se la convalida è concessa ma perde ogni effetto sia in caso di convalida negata dal giudice, sia in caso di mancata decisione del giudice nel termine previsto.
Contro il decreto del giudice che dispone la convalida è esperibile ricorso per Cassazione; tuttavia il ricorso non determina ulteriori effetti sospensivi sul provvedimento di allontanamento: lo straniero colpito dal provvedimento di allontanamento può dunque essere allontanato subito dopo la convalida, ferma la possibilità di proporre il ricorso dopo che il provvedimento restrittivo è stato eseguito.
A tale proposito va peraltro segnalato che l’articolo 2 del D.L. 249/2007, poi decaduto, riprendendo il testo dell’art. 1-ter del D.L. 181/2007 (anch’esso decaduto), introdotto nel corso dell’esame al Senato, trasferisce al tribunale ordinario in composizione monocratica le competenze riconosciute al giudice di pace dal testo unico sull’immigrazione (vedi capitolo Diritto di circolazione dei cittadini UE, nel dossier 1/1 parte seconda).
Avverso il decreto di espulsione può essere presentato unicamente il ricorso al giudice di pace del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione.
Il ricorso può essere presentato anche all’estero presso la rappresentanza diplomatica o consolare nel Paese di destinazione dello straniero espulso.
Non vi è l’obbligo di sentire l’interessato prima di decidere sul ricorso.
Il termine di presentazione del ricorso è di 60 giorni dalla comunicazione all’interessato. Il giudice ha 20 giorni di tempo dal deposito del ricorso per decidere sul ricorso stesso.
Contro il decreto di espulsione disposto dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, è ammesso ricorso al tribunale amministrativo regionale del Lazio (art. 13, co. 11, T.U.).
All’espulsione si accompagna il divieto di rientrare nel territorio dello Stato, salva speciale autorizzazione del ministro dell’interno, per un periodo che di norma è pari a dieci anni, ma che può essere di misura inferiore, sino a un minimo di cinque anni. L’eventuale termine più breve può essere previsto nel decreto di espulsione (art. 13, co. 14, T.U.).
L’interdizione al reingresso può diventare perpetua: infatti il testo unico indica come condizioni ostative all’ottenimento del visto di ingresso la condanna ad uno di una serie di gravi reati indicati dall’art. 4, co., 3.
La trasgressione del divieto di reingresso è sanzionata penalmente.
Il meccanismo sanzionatorio previsto dal testo unico (modificato dalla L. 189/2002 e dal D.L. 2412004) si articola come segue.
Innanzitutto, si distinguono due fattispecie: il reingresso e l’inadempienza all’ordine di allontanamento (quest’ultimo in caso ovviamente di espulsione tramite intimazione ad abbandonare il territorio dello Stato).
La fattispecie generale di reato di reingresso nel territorio dello Stato prima della scadenza del divieto è punito con la pena, da 1 a 4 anni e con una nuova espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera (art. 13, co. 13, T.U.).
Nel caso di espulsione disposta da giudice la pena per il reingresso è più alta: da 1 a 5 anni (art. 13, co. 13-bis, primo periodo).
Un aggravio della pena è previsto anche per lo straniero recidivo che, già denunciato per il reato di reingresso prima della scadenza del divieto e nuovamente espulso, è rientrato illegalmente per la seconda volta nel territorio nazionale. In questo caso la pena è la stessa della fattispecie precedente (minimo 1 anno, massimo 5 (co. 13-bis, secondo periodo).
La seconda fattispecie, l’inadempienza all’ordine di allontanamento, è prevista nell’ipotesi di espulsione tramite intimazione del questore a lasciare il territorio nazionale per lo straniero che non sia stato possibile trattenere in un centro di permanenza temporanea, ovvero per il quale sono scaduti i termini di permanenza nel centro (art. 14, co. 5-bis). In caso di inadempienza si prevedono due ipotesi distinte (art. 14, co. 5-ter e co. 5-quater):
§ se la violazione è compiuta da coloro che erano stati espulsi in quanto clandestini, delinquenti abituali o con permesso di soggiorno scaduto, annullato o non rinnovato senza valido motivo, la pena è fissata nella reclusione da 1 a 4 anni. In caso di recidiva la pena massima è aumentata a 5 anni;
§ se, invece, lo straniero era stato espulso semplicemente per la scadenza da più di 60 giorni del permesso di soggiorno è prevista la pena dell’arresto da 6 mesi ad un anno. Se recidivo, la pena è da 1 a 4 anni.
La Corte costituzionale - chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale sul pena prevista per il reato di trattenimento, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine di allontanamento impartito dal questore - ha messo in rilievo alcuni squilibri e disarmonie dell’apparato sanzionatorio delle violazioni alle regole che presiedono all’ingresso e alla permanenza degli stranieri “tali da rendere problematica la verifica della compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa”. La Corte ha, inoltre, rilevato l’opportunità dell’intervento del legislatore volto ad eliminare tali squilibri (sentenza 22/2007).
Nel quadro delle misure sanzionatorie disposte per la violazione delle norme sull’immigrazione il testo unico ha previsto l’istituzione di appositi centri di permanenza temporanea e accoglienza (CPTA) da costituire con decreto del ministro dell’interno (art. 14 T.U.).
Il centri costituiscono lo strumento per trattenere lo straniero quando non è possibile, per motivi contingenti, eseguire immediatamente il respingimento alla frontiera o l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera. Il testo unico indica tassativamente i motivi che consentono il trattenimento:
§ necessità di prestare soccorso;
§ accertamento dell’identità o nazionalità dello straniero;
§ acquisizione dei documenti per il viaggio;
§ indisponibilità di un mezzo di trasporto idoneo per l’espulsione;
E’ prevista una ulteriore ipotesi per lo straniero in attesa della definizione del procedimento di convalida che deve essere trattenuto in uno dei centri, a meno che non si possa procedere immediatamente alla convalida (art. 13, co. 5-bis).
Il trattenimento è disposto con provvedimento del questore per un periodo di 30 giorni, prorogabile, su richiesta del questore e solo in presenza di gravi difficoltà, di altri 30 giorni.
Anche questo atto, in quanto incidente sulla libertà di circolazione del cittadino straniero, è sottoposto a verifica giurisdizionale (convalida), come il provvedimento del questore di accompagnamento alla frontiera (di cui all’art. 12, co. 5-bis, vedi sopra).
Il questore è tenuto, perciò, a trasmettere immediatamente e comunque entro 48 copia degli atti all’autorità giudiziaria (giudice di pace) ai fini della sua convalida.
L’udienza di convalida si svolge in camera di consiglio con la presenza necessaria di un difensore e l’interessato, tempestivamente informato e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l’udienza, se compare, viene sentito. La decisione deve essere assunta dal giudice nelle 48 ore successive, con decreto motivato, verificato il rispetto dei termini e la sussistenza dei requisiti di cui agli articoli 13 e 14 del testo unico.
Il provvedimento del questore cessa di avere effetto se la convalida viene negata o se il giudice non decide nel termine summenzionato di 48 ore.
La disposizione prevede infine la possibilità che la convalida in questione sia disposta contestualmente alla convalida del decreto di accompagnamento alla frontiera o in sede di esame del ricorso avverso il decreto di espulsione.
La verifica delle condizioni di vita nei centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA), anche in vista della loro riforma, è stato l’obiettivo principale di una speciale commissione d’indagine sui CPTA istituita dal ministro dell’interno nel luglio 2006 e presieduta dall’ambasciatore Staffan de Mistura.
La Commissione ha concluso i suoi lavori nel gennaio 2007 con la pubblicazione di un dettagliato rapporto, in cui si propone il “superamento” dei CPTA attraverso un processo di svuotamento di tutte le categorie di persone per le quali non c’è necessità di trattenimento[178].
Il Governo è intervenuto in questa direzione con alcuni provvedimenti amministrativi.
Innanzitutto, sono stati chiusi i centri di Brindisi, Crotone e Ragusa e si è avviato un approfondito studio sulle altre strutture, in vista di ulteriori, eventuali, soppressioni o riqualificazione. Saranno adottati, inoltre, nuovi criteri per l’accesso ai Centri, garantendo la più ampia trasparenza e conoscenza dell’attività e dei servizi resi agli ospiti e sono previsti progetti di riqualificazione dei Centri di accoglienza (CDA) finalizzati al miglioramento degli standards attuali di ospitalità[179].
Inoltre, sono state avviate nuove procedure che, attraverso una più stretta collaborazione tra le autorità carcerarie e le forze di polizia, consentono l’espletamento di tutte le pratiche necessarie all’identificazione durante la permanenza in carcere degli extracomunitari, mentre in precedenza l’identificazione avveniva prevalentemente nei CPTA[180].
Attualmente sono operativi i centri di permanenza temporanea e assistenza localizzati a Torino, Milano, Bologna, Modena, Roma, Lecce, Lametia Terme, Caltanissetta, Agrigento, Lampedusa, Trapani.
L’art. 3, co. 1 del D.L. 144/2005 (emanato dopo gli attentati del 7 luglio a Londra) ha introdotto una nuova ipotesi di espulsione amministrativa, sottoposta in parte ad un regime diverso da quello previsto dal testo unico.
Essa può essere disposta dal ministro dell’interno, o, su sua delega, dal prefetto nei confronti dello straniero qualora ricorra una delle seguenti condizioni:
§ il destinatario appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 18 della L. 152/1975[181];
§ vi siano fondati motivi di ritenere che la permanenza del destinatario nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali.
Le categorie di cui all’art. 18 della L. 152/1975[182] comprendono coloro che:
1. operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei delitti elencati dal citato art. 18[183], nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale;
2. abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della L. 645/1952[184] (concernente la riorganizzazione del disciolto partito fascista) e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente;
3. compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’art. 1 della citata L. 645/1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza;
4. fuori dei casi sin qui indicati, siano stati condannati per uno dei delitti in materia di armi previsti nella L. 895/1967[185] e negli artt. 8 e seguenti della L. 497/1974[186], quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato nel precedente n. 1.
Agli appartenenti alle categorie sin qui illustrate sono equiparati i relativi istigatori, mandanti e finanziatori (è definito finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo a cui sono destinati).
Il co. 2 dell’art. 3 dispone che l’espulsione sia eseguita immediatamente, salvo che si tratti di persona detenuta, anche in deroga a quanto previsto dall’art. 13, co. 3 e 5-bis, del T.U. in materia di immigrazione, prescindendo cioè sia dal nulla osta dell’autorità giudiziaria richiesto per l’esecuzione dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale, sia dal procedimento giurisdizionale di convalida (di competenza del giudice di pace) al quale è di norma condizionata l’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale mediante accompagnamento alla frontiera.
Ai sensi del medesimo comma, la disciplina testé illustrata si applica anche nei casi in cui l’espulsione è disposta dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 del T.U.
Il successivo co. 3 consente al prefetto di omettere, sospendere o revocare il provvedimento di espulsione previsto in caso di ingresso o permanenza irregolare dello straniero nel territorio nazionale e nelle altre fattispecie di cui all’art. 13, co. 2, del T.U..
§ quando sussistono le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno a fini investigativi, introdotto dall’art. 2 del medesimo D.L. 144/2005, ovvero
§ quando sia necessario per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione di attività terroristiche, ovvero per la prosecuzione delle indagini o delle attività informative dirette alla individuazione o alla cattura dei responsabili dei delitti commessi con finalità di terrorismo.
Anche in questo caso, il prefetto informa preventivamente il ministro dell’interno.
Ai sensi del co. 4, contro i decreti di espulsione di cui al co. 1 è ammesso ricorso al tribunale amministrativo competente per territorio. È espressamente escluso (co. 4-bis) che il ricorso giurisdizionale sospenda l’esecuzione del provvedimento di espulsione o che in sede giurisdizionale (sia dinanzi al TAR, sia dinanzi al Consiglio di Stato) possa comunque disporsi la sospensione dell’esecuzione in via cautelare.
L’art. 3, co. 5 prevede invece che il procedimento dinanzi al TAR sia sospeso quando la decisione dipenda dalla cognizione di atti per i quali sussiste il segreto d’indagine o il segreto di Stato; la sospensione dura fino a quando l’atto o i contenuti essenziali dello stesso non possono essere comunicati al tribunale amministrativo. Se la sospensione si protrae per più di due anni, il TAR può tuttavia fissare un termine entro il quale l’amministrazione è tenuta a produrre nuovi elementi per la decisione o a revocare il provvedimento impugnato. Decorso il termine, il TAR decide allo stato degli atti.
La medesima procedura è estesa al giudizio amministrativo dinanzi al TAR del Lazio su ricorso contro il decreto di espulsione disposto dal ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, ex art. 13, co. 1 del T.U..
Il co. 6 ha posto peraltro un termine finale di efficacia alle disposizioni di cui ai commi 2 e 5 dell’articolo in esame, testé illustrate, disponendo che esse trovassero applicazione sino al 31 dicembre 2007.
Il co. 7 dell’art. 3 ha infine soppresso il comma 3-sexies dell’art. 13 del T.U. sull’immigrazione, che vietava la concessione del nulla osta all’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale qualora si proceda per delitti previsti dall’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.[187], nonché per i delitti concernenti le immigrazioni clandestine di cui all’art. 12 del T.U. medesimo.
L’ordinamento considera diverse ipotesi di espulsione disposta dall’autorità giudiziaria.
Il codice penale prevede l’espulsione a titolo di misura di sicurezza – ossia da eseguire dopo l’esecuzione della pena[188] – in due casi:
§ condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni (art. 235 del codice penale);
§ condanna a una pena restrittiva della libertà personale per uno dei delitti contro la personalità dello Stato (art. 312 del codice penale).
Il testo unico ha esteso la possibilità di applicare allo straniero l’espulsione quale misura di sicurezza a tutti reati per i quali è previsto l’arresto, anche facoltativo, in caso di flagranza indicati dagli art. 380 e 381 del codice di procedura penale[189] (art. 15 del testo unico). Il giudice può applicare tale misura, che è facoltativa, solo previo accertamento della pericolosità sociale dell’individuo.
L’espulsione quale misura di sicurezza è prevista, inoltre, in caso di condanna per uno dei delitti legati al traffico di stupefacenti (art. 86 del testo unico in materia di stupefacenti[190]).
A differenza dell’espulsione quale misura di sicurezza, che si applica dopo l’esecuzione della pena, di cui costituisce un inasprimento, l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa, si applica in luogo della pena.
Quanto all’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva delle detenzione, l’art. 16 del testo unico sull’immigrazione dispone che il giudice, al momento della sentenza di condanna per reato non colposo, quando ritiene di dover irrogare una pena detentiva contenuta entro i due anni, può decidere di sostituire la pena medesima con l’espulsione per un periodo di almeno cinque anni. È, dunque, anch’essa una misura facoltativa, la cui adozione spetta al giudice, e può essere applicata anche in caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (il cosiddetto “patteggiamento”)[191].
L’ambito di applicazione dalla misura sostitutiva non comprende gli stranieri extracomunitari legittimamente presenti sul territorio dello Stato, bensì unicamente quelli che si trovano in una delle situazioni passibili di espulsione amministrativa da parte del prefetto ai sensi dell’art. 13, co. 2: irregolari, clandestini e delinquenti abituali.
Non può, inoltre, essere applicata qualora non ricorrano le condizioni per la concessione della sospensione condizionale della pena (ai sensi dell’art. 163 c.p.) o nel caso sia impossibile eseguire immediatamente l’espulsione per le stesse cause (di cui all’art. 14, co. 1) che obbligano il trattenimento nei centri di permanenza (mancanza di documenti, indisponibilità di mezzi di trasporto ecc.).
La L. 189/2002 ha aggiunto due nuove cause ostative all’adozione della misura sostitutiva che ne restringono ulteriormente la possibilità di applicazione, si tratta di:
§ condanna di delitti particolarmente gravi (di cui all’art. 407, co. 2, lett. b) c.p.p.);
§ condanna per uno dei delitti previsti dal testo unico.
La sanzione sostitutiva è revocata nel caso di reingresso illegale prima del termine di 10 anni previsto in linea generale dall’art. 13, co. 14.
A differenza dell’espulsione sostitutiva, applicata discrezionalmente dal giudice, anche su richiesta delle parti, al momento della pronuncia della sentenza di condanna, l’espulsione quale sanzione alternativa è automatica e si applica dopo la condanna, nel caso dello straniero detenuto che deve scontare una pena, anche residua, non superiore ai due anni.
Sono escluse le condanne per i reati particolarmente gravi, come per la sanzione sostitutiva, e quelle per tutti i reati in materia di immigrazione previsti dal testo unico.
Anche l’espulsione a titolo di sanzione alternativa non riguarda gli stranieri legittimamente presente nel territorio italiano, bensì gli immigrati clandestini e gli irregolari.
In virtù della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen[192], il provvedimento di espulsione comporta l’inserimento del nome dello straniero nel Sistema d’informazione Schengen ai fini della non ammissione nell’area Schengen.
Il Sistema d’informazione Schengen (SIS) è un sistema comune di informazione automatizzato gestito dai paesi aderenti all’accordo di Schengen per la libera circolazione dei cittadini nei Paesi dell’Unione europea. Obiettivo del SIS è di consentire alle autorità di controllo di disporre di segnalazioni di persone, in occasione dei controlli di frontiera (art. 92).
Nella banca dati SIS sono inseriti anche i dati relativi agli stranieri che sono stati espulsi, respinti o allontanati (art. 96).
Sono, inoltre, segnalati:
§ gli stranieri colpevoli di reati per cui è prevista una pena privativa di libertà di almeno un anno;
§ gli stranieri sospettati di gravi reati, incluso il traffico di stupefacenti.
Le segnalazioni sono utilizzate ai fini della procedura di rilascio dei visti e dei documenti di soggiorno e ad esse consegue la non ammissione nell’area Schengen (art. 25).
Il sistema comporta l’efficacia in tutti gli Stati aderenti delle decisioni di espulsione adottato da uno di essi, e costituisce una delle condizioni indispensabili per la creazione di un effettivo spazio di libera circolazione. Tuttavia, la varietà delle disposizioni nazionali relative alle modalità e ai criteri delle espulsioni hanno reso necessario l’adozione di disposizioni comuni in materia di allontanamento dei cittadini non comunitari in modo da consentire il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di espulsione.
Tali disposizioni sono contenute della direttiva 2001/40/CE recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 10 gennaio 2005, n. 12[193] che, in pratica, introduce una nuova tipologia di allontanamento nell’ordinamento interno: l’espulsione a seguito di misura di allontanamento presa da un altro Paese dell’area Schenghen.
Il D.Lgs. 12/2005 individua nel prefetto l’autorità italiana cui compete l’adozione del provvedimento di espulsione per attuare la decisione di allontanamento adottata da un altro Stato membro. Mentre all’esecuzione materiale dell’espulsione provvede il questore.
Per quanto riguarda le procedure di adozione del provvedimento prefettizio e dell’esecuzione dell’espulsione, il D.Lgs. 12/2005 fa riferimento essenzialmente a quelle del testo unico con alcune particolarità. Il prefetto può acquisire i documenti dallo Stato autore della decisione relativi alla medesima decisione. Il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno è tenuto ad effettuare ulteriori accertamenti sulla situazione dello straniero da espellere, avvalendosi del Servizio per la cooperazione internazionale. Lo stesso Ministero dell’interno provvede anche a comunicare allo Stato autore della decisione l’avvenuta esecuzione dell’espulsione.
Contro il provvedimento di esecuzione è prevista la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria secondo le modalità previste per l’espulsione ai sensi del testo unico (art. 13, co. 8).
La legge 30 settembre 1993, n. 388, di ratifica dell’accordo di Schengen, nonché della Convenzione di applicazione dell’accordo medesimo, prevede, accanto alle disposizioni immediatamente attuative dei due trattati, l’istituzione (art. 18) di un Comitato parlamentare incaricato di “esaminare l’attuazione ed il funzionamento della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen”.
Dal punto di vista strutturale, ai sensi dell’art. 18, co. 2 della legge, il Comitato è composto da 10 deputati e 10 senatori, nominati dai Presidenti di ciascuna Camera in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Il Comitato elegge al suo interno, così come stabilisce il comma 3 dell’articolo 18, un Presidente ed un Vicepresidente. Nel corso della XIII Legislatura, pur in assenza di una specifica previsione in tal senso della legge istitutiva, si è ritenuto, con l’assenso dei Presidenti delle Camere, di integrare la composizione dell’Ufficio di Presidenza con l’elezione di un Segretario.
Dal punto di vista delle competenze e delle funzioni, i commi 4, 5 e 6 dell’art. 18 dispongono che il Comitato parlamentare esamini i progetti di decisione, vincolanti per l’Italia, pendenti innanzi al Comitato esecutivo contemplato dal Titolo VII della citata Convenzione.
A tal fine, il rappresentante del Governo italiano, chiesto eventualmente al Comitato esecutivo il rinvio della decisione a norma dell’art. 132, paragrafo 3, della Convenzione, trasmette immediatamente il progetto di decisione al Comitato parlamentare. Questo esprime il proprio parere vincolante entro quindici giorni dalla data di ricezione del progetto; qualora il parere non venga espresso entro tale termine, esso s’intende favorevole alla decisione.
Nella XV legislatura il Comitato ha svolto un’indagine conoscitiva sull’immigrazione e l’integrazione che si è conclusa con l’approvazione di un documento conclusivo il 19 febbraio 2008.
Inoltre, la I Commissione ha iniziato l’esame di una proposta di legge (A.C. 2808 Gozi ed altri) volta ad aggiornare le competenze del Comitato parlamentare, che assumerebbe la denominazione di “Comitato parlamentare in materia di immigrazione”.
L’iniziativa origina dal passaggio della materia Schengen dal quadro intergovernativo a quello giuridico comunitario e dell’Unione europea, e dalla necessità di raccordare le politiche nazionali in materia di libera circolazione, controllo delle frontiere, cooperazione di polizia ed immigrazione con la costruzione dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (si veda anche il capitolo Parlamento e sistema dei partiti, nel dossier 1/1, parte seconda).
Sempre nel corso della XV legislatura è stato emanato il decreto legislativo 24/2007[194], recante il recepimento della direttiva 2003/110/CE, del 25 novembre 2003, che definisce alcune misure comuni in materia di assistenza tra le autorità competenti qualora, nell’ambito dell’esecuzione di provvedimenti di espulsione di cittadini stranieri effettuata per via aerea, si verifichi la necessità del transito in altro Stato membro dell’Unione europea.
Il provvedimento lo scopo di stabilire le procedure necessarie per un’organizzazione ottimale del transito dei cittadini di paesi terzi espulsi, attraverso una notifica preventiva dello Stato membro richiedente delle coordinate di viaggio dello straniero, con l’indicazione dell’aeroporto di transito, della presenza della scorta e di ogni altra informazione utile per l’effettuazione del transito.
Da segnalare, inoltre, l’emanazione del decreto legislativo 144/2007[195], anch’esso di attuazione di norme comunitarie, che introduce l’obbligo, per i vettori aerei professionali, di comunicare anticipatamente i dati delle persone trasportate alle autorità incaricate di svolgere i controlli di polizia di frontiera. Il provvedimento si inserisce nel vasto insieme di misure finalizzate a migliorare i controlli alle frontiere e a contrastare l’immigrazione illegale, ma al contempo, presuppone il rispetto dei principi e delle garanzie previste in materia di tutela delle persone fisiche riguardo al trattamento dei dati personali.
Uno degli strumenti che hanno reso possibile un’efficace azione di contrasto all’immigrazione clandestina è stato la stipulazione, da parte del Governo italiano, di una serie di accordi bilaterali in materia di immigrazione.
Si tratta, innanzitutto, degli accordi di riammissione degli stranieri irregolari, previsti dal testo unico sull’immigrazione (art. 11, co. 4), volti ad ottenere la collaborazione delle autorità del Paese straniero nelle operazioni di rimpatrio dei migranti non regolari, espulsi dall’Italia o respinti al momento dell’attraversamento della frontiera.
Con alcuni Paesi, e specificamente con quelli a più alta pressione migratoria, sono stati perfezionati pacchetti di intese di portata più ampia che prevedono non soltanto accordi di riammissione, ma anche intese di cooperazione di polizia, nonché accordi in materia di lavoro. Nei decreti annuali sui flussi di ingresso del lavoratori extracomunitari sono previste quote riservate per gli stranieri provenienti da Paesi che hanno stretto tali accordi globali di cooperazione.
Si richiama, infine, la L. 228/2003 contro la tratta di persone, che affida al ministro degli affari esteri il compito di definire le politiche di cooperazione nei confronti dei Paesi interessati da tale reato tenendo conto della collaborazione da essi prestata e dell’attenzione riservata dai medesimi alle problematiche della tutela dei diritti umani e provvede ad organizzare, d’intesa con il ministro per le pari opportunità, incontri internazionali e campagne di informazione anche all’interno dei Paesi di provenienza delle vittime del traffico di persone (art. 14, co. 1).
Il testo unico delle leggi sull’immigrazione del 1998[196] disciplina sia il diritto dell’immigrazione in senso stretto, ossia l’insieme delle regole e delle procedure relative alla gestione complessiva dei flussi migratori, sia il diritto all’integrazione, consistente nella predisposizione degli strumenti idonei per garantire anche agli stranieri, per quanto è possibile, gli stessi diritti dei cittadini, per rimuovere gli ostacoli all’effettivo esercizio di tali diritti e per favorire la loro integrazione nella società.
Una disposizione di carattere generale è rinvenibile nell’art. 40, co. 1-bis, introdotto dalla L. 189/2002, che circoscrive l’accesso alle misure di integrazione sociale agli stranieri regolari.
Il testo unico contiene un articolato insieme di disposizioni volte a garantire agli stranieri alcuni diritti attribuiti ai cittadini italiani, tra queste:
§ il diritto alla difesa in giudizio (art. 17);
§ il diritto all’unità familiare (ricongiungimenti familiari: artt. 28-29);
§ il diritto alla salute (artt. 34-35);
§ il diritto allo studio (art. 39);
§ il diritto alla casa (art. 40).
Il D.Lgs. 286/1998 appresta, agli artt. 28 e
seguenti, una specifica tutela del diritto
dello straniero, regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, a mantenere l’unità del suo nucleo familiare, prevedendo la possibilità del ricongiungimento, allorché ricorrano le
condizioni di cui all’art.
Nella XV legislatura la disciplina sul ricongiungimento è stata adeguata alla normativa comunitaria ad opera del decreto legislativo 5/2007 (vedi la schedaRicongiungimento familiare, pag. 188).
Il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri è riconosciuto dall’art. 28 agli stranieri in possesso di un titolo legale di permanenza in Italia, ovvero: permesso di soggiorno CE di lungo periodo (che ha durata indeterminata) o permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro subordinato o autonomo, per asilo, per studio, per motivi religiosi, o per motivi familiari.
L’art. 29 individua le categorie di soggetti per i quali lo straniero regolarmente soggiornante può avanzare richiesta di ricongiungimento familiare e i requisiti necessari perché il questore possa rilasciare il relativo nulla osta (consistenti nella disponibilità di un reddito sufficiente al sostentamento e di un alloggio idoneo). Tali requisiti non sono richiesti nel caso di rifugiato.
Per quanto riguarda il primo profilo, il ricongiungimento può riguardare il coniuge, i figli minori, i figli maggiorenni se non possono provvedere a loro stessi e i genitori a carico che non dispongono di un adeguato sostentamento in patria.
Con riguardo al secondo profilo, lo straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità:
§ di un alloggio che soddisfi determinati requisiti di idoneità;
§ di un reddito annuo derivante da fonti lecite sufficiente al sostentamento del nucleo familiare ampliato a seguito del ricongiungimento.
A condizione che ricorrano i requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito appena illustrati, si consente l’ingresso al seguito dello straniero titolare di permesso di soggiorno, dei familiari con i quali è possibile attuare il ricongiungimento.
È consentito inoltre l’ingresso, per ricongiungimento, al figlio minore regolarmente soggiornante in Italia, del genitore naturale che dimostri, entro un anno dall’ingresso in Italia, il possesso dei requisiti logistici e reddituali di cui sopra, salvo che si tratti di straniero già espulso o del quale sia segnalato come necessario il respingimento (ai sensi dell’art. 4, co. 6 del Testo unico).
Le competenze in materia di nulla osta al ricongiungimento familiare sono conferite allo sportello unico per l’immigrazione (per un inquadramento della struttura e delle funzioni degli sportelli unici si veda la scheda Permesso di soggiorno e lavoro, pag. 117).
Sotto il profilo processuale, il testo unico affida al tribunale in composizione monocratica la giurisdizione sui ricorsi avverso il diniego di nulla osta al ricongiungimento familiare e, in generale, contro tutti i provvedimenti in materia di diritto all’unità familiare (art. 30, co. 6 T.U.).
Si individua, inoltre, (art. 30) una particolare categoria di permesso di soggiorno rilasciato per motivi familiari alle categorie di soggetti espressamente individuate e con durata identica a quella del permesso di soggiorno del familiare in possesso dei requisiti per il ricongiungimento.
Il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato:
§ allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore;
§ agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti[197];
§ al familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con il cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea residenti in Italia, ovvero con straniero regolarmente soggiornante in Italia. In tal caso il permesso del familiare è convertito in permesso di soggiorno per motivi familiari. La conversione può essere richiesta entro un anno dalla data di scadenza del titolo di soggiorno originariamente posseduto dal familiare. Qualora detto cittadino sia un rifugiato si prescinde dal possesso di un valido permesso di soggiorno da parte del familiare;
§ al genitore straniero, anche naturale, di minore italiano residente in Italia. In tal caso il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato anche a prescindere dal possesso di un valido titolo di soggiorno, a condizione che il genitore richiedente non sia stato privato della potestà genitoriale secondo la legge italiana.
Il permesso di soggiorno per motivi familiari consente l’accesso ai servizi assistenziali, l’iscrizione a corsi di studio o di formazione professionale, l’iscrizione nelle liste di collocamento, lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo.
Le disposizioni a favore dei minori (artt. 31-33) prevedono forme di facilitazione all’ingresso dei medesimi nel territorio nazionale, consistenti nella loro iscrizione automatica nel permesso o nella carta di soggiorno di uno o entrambi i genitori (se conviventi e regolarmente soggiornanti) fino al compimento del quattordicesimo anno di età. Al medesimo minore verrà in seguito rilasciato un permesso di soggiorno per motivi familiari, valido fino al raggiungimento della maggiore età, e che potrà essere successivamente riconvertito in altra categoria di permesso.
Si prevede, inoltre, la possibilità di concedere anche ai minori stranieri di cui non sono stati rintracciati i genitori (i cosiddetti minori non accompagnati) il permesso di soggiorno per motivi familiari, a condizione che siano ammessi per un periodo di almeno due anni in un progetto di integrazione gestito da enti autorizzati.
Recentemente è intervenuta in materia la direttiva del Ministro dell’interno 4 aprile 2008, che in primo luogo consente al minore straniero, che al compimento della maggiore età non decide immediatamente se proseguire gli studi o cominciare a lavorare, di rinnovare il permesso di soggiorno per motivi familiari. Ciò naturalmente in considerazione del fatto che i genitori o chi ne esercita la patria potestà, garantiscono per lui e per il suo mantenimento.
In secondo luogo è previsto il rilascio di un permesso di soggiorno autonomo al minore 14enne anche in mancanza di passaporto. Il permesso è valido fino ai 18 anni, al compimento dei quali, dovrà essere convertito.
Infine vengono previsti interventi per i minori stranieri non accompagnati e presi in carico da associazioni ed enti locali. A costoro, i questori potranno rilasciare, al compimento dei 18 anni, un permesso di soggiorno, indipendentemente dalla durata della sua presenza sul territorio nazionale, evitando così il rischio di espulsione.
Per far fronte alle diverse esigenze
collegate alla presenza dei minori, l’art. 33 del testo unico ha istituito il Comitato per i minori stranieri, originariamente
operante presso
Il Comitato, disciplinato dal decreto del Presidente del Consiglio 535/1999[198], svolge compiti di vigilanza e coordinamento sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri temporaneamente ammessi sul territorio dello Stato e di tutela dei relativi diritti.
Il Comitato per i minori stranieri, nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è composto dai seguenti rappresentanti:
§ uno del Ministero della solidarietà sociale, che presiede il Comitato
§ uno del Ministero degli Affari Esteri
§ uno del Ministero di Giustizia
§ uno del Ministero dell’Interno
§ uno dell’Unione province italiane
§ due dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani
§ due di organizzazioni maggiormente rappresentative operanti nel settore dei problemi della famiglia e dei minori.
Il comitato svolge la sua attività soprattutto in relazione ai “minori stranieri non accompagnati” e “minori stranieri accolti”:
Per minori non accompagnati si intende i minorenni senza cittadinanza italiana (o di altro Paese dell’Unione Europea) che non ha presentato domanda di asilo politico e che si trova nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili.
In relazione ai minori non accompagnati, il Comitato svolge le seguenti attività:
§ accerta lo status del minore non accompagnato;
§ promuove l’individuazione dei familiari dei minori;
§ adotta il provvedimento di rimpatrio assistito;
§ provvede al censimento dei minori presenti non accompagnati.
Al minore non accompagnato sono garantiti i diritti relativi al soggiorno temporaneo, alle cure sanitarie, all’avviamento scolastico e alle altre provvidenze disposte dalla legislazione vigente.
Al fine di garantire l’adeguata accoglienza del minore il Comitato può proporre la stipula di convenzioni con amministrazioni pubbliche e organismi nazionali e internazionali che svolgono attività inerenti i minori non accompagnati in conformità ai princìpi e agli obiettivi che garantiscono il superiore interesse del minore, la protezione contro ogni forma di discriminazione, il diritto del minore di essere ascoltato.
I minori stranieri accolti sono bambini, di almeno sei anni, che hanno fatto ingresso in Italia nell’ambito di programmi solidaristici di accoglienza temporanea promossi da enti, associazioni o famiglie.
In relazione ai minori accolti, il Comitato:
§ delibera, previa adeguata valutazione e secondo criteri predeterminati, in ordine alle richieste provenienti da enti, associazioni o famiglie italiane per l’ingresso di minori accolti nell’ambito dei programmi solidaristici di accoglienza temporanea nonché per l’affidamento temporaneo e per il rimpatrio dei medesimi;
§ provvede alla istituzione e alla tenuta dell’elenco dei minori accolti nell’ambito dei programmi solidaristici;
§ definisce i criteri predeterminati di valutazione delle richieste per l’ingresso di minori accolti.
Il testo unico garantisce una ampia assistenza sanitaria a tutti gli stranieri, compresi coloro che non sono in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno.
Le disposizioni in materia sanitaria contenute nel testo unico (artt. 34-36), in-dividuano le categorie di stranieri in capo ai quali è posto l’obbligo di iscrizione al Servizio sanitario nazionale, con conseguente parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani (specie in relazione all’obbligo contributivo e all’assistenza erogata dal Servizio): si tratta degli stranieri regolarmente soggiornanti che svolgono una attività lavorativa o che abbiano chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno e i familiari a carico. Al di fuori di questi casi, lo straniero in posizione regolare è comunque tenuto ad assicurarsi contro il rischio di malattie, infortunio e maternità, mediante la stipula di una polizza assicurativa o mediante iscrizione al Servizio sanitario nazionale con compartecipazione alla spesa sostenuta.
Per gli studenti stranieri e quelli collocati alla pari l’iscrizione al Servizio sanitario è facoltativa e prevede la corresponsione di un contributo annuale forfetario.
È prevista, infine, l’ipotesi dell’erogazione di prestazioni sanitarie agli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale, con garanzia di fornitura dei servizi sanitari essenziali che sono espressamente garantiti anche agli irregolari.
Il testo unico disciplina le condizioni e le forme in cui è consentito agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia l’iscrizione agli ordini o collegi professionali (art. 37).
L’art. 38 prevede che i minori stranieri presenti (per qualsiasi ragione) sul territorio nazionale siano soggetti all’obbligo scolastico, e ad essi si applichino tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione, accesso ai servizi educativi, partecipazione alla vita della comunità scolastica; ulteriori disposizioni concernono le iniziative volte a garantire l’effettività del diritto allo studio, nonché la realizzazione di un’offerta culturale valida per gli stranieri adulti regolarmente soggiornanti[199].
Per quanto riguarda l’istruzione superiore, i princìpi generali per l’accesso degli studenti stranieri ai corsi delle università italiane sono disciplinati dall’art. 39 del testo unico e dall’art. 46 del regolamento di attuazione (D.P.R. 394/1999).
Viene sancita in via generale la parità di trattamento degli stranieri con i cittadini italiani per quanto riguarda l’accesso all’istruzione universitaria ed il diritto allo studio.
Agli stranieri residenti in Italia, il co. 5 dell’articolo consente l’accesso, a parità di condizioni con gli studenti italiani, se titolari di permesso di soggiorno di lunga durata, ovvero di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o per lavoro autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario, o per motivi religiosi, ovvero se regolarmente soggiornanti da almeno un anno e in possesso di titolo di studio superiore conseguito in Italia.
L’accesso alle università italiane degli studenti stranieri residenti all’estero viene, come del resto già accadeva prima dell’entrata in vigore del testo unico, contingentato nei limiti del numero massimo di visti d’ingresso e permessi di soggiorno determinato annualmente, sulla base delle disponibilità comunicate dalle università, con decreto del ministro degli affari esteri, di concerto con il ministro dell’università e con il ministro dell’interno; sul relativo schema le competenti Commissioni parlamentari esprimono il proprio parere.
La prima applicazione dell’art. 39 del testo unico è avvenuta nel 2000, con la quantificazione di 20.220 visti di ingresso disponibili per l’anno accademico 2000-2001[200]. L’anno successivo il numero massimo di visti è stato fissato in 22.019 unità per l’anno accademico 2001-2002[201].
Dopo alcuni anni (il 26 luglio 2005), il ministro degli affari esteri ha presentato alle Camere, per il prescritto parere, uno schema di decreto per l’anno accademico 2005-2006 che stabilisce il numero di 40.268 visti. Il decreto non risulta ancora pubblicato.
È stato, invece, pubblicato il decreto flussi stranieri per il successivo anno accademico 2006-2007 che fissa in 47.128 il numero massimo di visti (41.351 per l’accesso all’università e 5.777 alle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica)[202].
Viceversa, non risulta pubblicato il successivo decreto per il 2007-2008, del quale è stato presentato lo schema alle Camere per il parere. Lo schema prevede 52.497 visti di ingresso suddivisi in 46.272 per le università e 6.224 per le altre istituzioni.
Al di fuori delle quote annuali, è in ogni caso consentito l’accesso ai corsi universitari (e alle scuole di specializzazione delle università, come specificato dal DL 241/2004[203]) a parità di condizioni con gli studenti italiani (e nei limiti delle disponibilità dei singoli atenei), ad alcune categorie di studenti, definite dall’art. 39, co. 5, del T.U.):
§ stranieri titolari di permesso di soggiorno CE, ovvero di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario o per motivi religiosi,
§ stranieri regolarmente soggiornanti da almeno un anno in possesso di titolo di studio superiore conseguito in Italia;
§ stranieri titolari di diplomi conseguiti nelle scuole italiane all’estero o nelle scuole oggetto di intese bilaterali.
Le università – nella loro autonomia e nei limiti delle loro disponibilità finanziarie – promuovono l’accesso degli stranieri ai corsi universitari, stipulando apposite intese con gli atenei stranieri per la mobilità studentesca ed organizzando attività di orientamento e di accoglienza e tenendo conto degli orientamenti comunitari in materia, con particolare riguardo all’inserimento di una quota di studenti universitari stranieri.
Il decreto legislativo 154/2007, di attuazione di normativa comunitaria[204], ha introdotto la fattispecie dell’ingresso e soggiorno per volontariato che prevede la determinazione annuale di un contingente di stranieri ammessi a partecipare a programmi di volontariato in Italia (art. 27-bis T.U.).
Viene disciplinato, inoltre, l’ingresso di studenti, sia minorenni, sia maggiorenni per studio, scambio di alunni, tirocinio e formazione professionale (art. 39-bis T.U.).
Infine, è stata introdotta una procedura semplificata per l’ingresso di cittadini extracomunitari ai fini di ricerca scientifica con il D.Lgs. 17/2008[205] che ha introdotto un apposito nuovo articolo (l’art. 27-ter) nel testo unico.
Le disposizioni del testo unico in materia di servizi abitativi e di assistenza sociale per stranieri (artt. 40-41) prevedono che le regioni, in collaborazione con gli enti locali e con le associazioni di volontariato, predispongano centri di accoglienza destinati ad ospitare stranieri regolarmente soggiornanti e impossibilitati, temporaneamente, a provvedere autonomamente alle proprie esigenze abitative e di sussistenza[206].
L’istituzione dei centri di accoglienza è comunque finalizzata a rendere autosufficienti gli stranieri ospitati nel più breve tempo possibile, anche provvedendo, ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l’autonomia e l’inserimento sociale degli ospiti.
In situazioni di emergenza si prevede la possibilità di accogliere anche i clandestini nei centri di accoglienza, fino alla predisposizione di una adeguata rete di centri di permanenza temporanea e di assistenza (art. 34, co. 4, della L. 189/2002).
Le misure di integrazione sociale sono riservate agli stranieri in regola con le norme relative al soggiorno, essendone precluso l’accesso agli irregolari e clandestini (art. 40, co. 1-bis). Si tratta di una disposizione che, pur collocata nell’ambito delle norme sui centri di accoglienza, sembra avere un carattere generale, coinvolgendo tutti gli strumenti di integrazione.
È inoltre stabilito il principio dell’accesso degli stranieri (regolari) agli alloggi sociali (pensionati) e alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.
Per l’accesso alle graduatorie delle case popolari da parte degli stranieri è richiesto il permesso di soggiorno almeno biennale e svolgimento di una regolare attività lavorativa.
L’art. 41 del testo unico estende a favore degli stranieri in possesso del permesso di soggiorno CE o del permesso di soggiorno (di durata non inferiore a un anno) anche l’accesso ai servizi socioassistenziali organizzati sul territorio[207].
La legge finanziaria 2001 (art. 80, co. 19)[208] ha circoscritto la portata della disposizione precisando che l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi agli stranieri che siano titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (e non anche a coloro in possesso del semplice permesso di soggiorno); per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.
Il testo unico individua una pluralità di attività e di interventi finalizzati a garantire, da parte dei soggetti pubblici e delle associazioni di volontariato, l’integrazione sociale degli stranieri soggiornanti in Italia (art. 42). In particolare, lo Stato, le regioni e gli enti locali, in collaborazione con le associazioni del settore devono favorire tutte le iniziative volte sia a diffondere la conoscenza dei diritti e doveri degli stranieri nella società italiana, sia la valorizzazione delle culture dei Paesi di origine.
Per la promozione dell’integrazione il testo unico prevede l’istituzione di appositi organismi.
Presso il CNEL, opera l’Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale dei cittadini stranieri a livello locale, previsto dall’art. 42, co. 3 del T.U., insediatosi il 10 dicembre 1998.
L’Organismo di coordinamento promuove il confronto fra soggetti istituzionali e sociali a livello locale al fine di individuare e valutare percorsi e modelli efficaci di intervento.
Presso il Ministero della solidarietà sociale è
inoltre istituita una Consulta per i
problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, si tratta di
organo prevalentemente consultivo con il compito di verificare l’attuazione del
testo unico e di elaborare proposte e suggerimenti per una migliore
integrazione degli stranieri.
Il testo unico prevede l’istituzione, presso
Il Fondo nazionale per le politiche migratorieè destinato a finanziare una pluralità di iniziative e interventi richiamati in precedenti articoli del decreto; tra di essi si segnalano quelli relativi alle misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali, all’istruzione degli stranieri e all’educazione interculturale, ai centri di accoglienza, e alle misure di integrazione sociale. L’entità della dotazione del Fondo è disposta direttamente dal testo unico per il triennio 1997/1999, per gli anni successivi, la determinazione degli importi è fissata dalla Tabella C della legge finanziaria, ai sensi della L. 468/1978. Si prevede comunque che nel fondo possano poi confluire eventuali ulteriori risorse di entrata provenienti da privati, da organizzazioni internazionali e dall’Unione europea. Il Fondo è annualmente ripartito con D.P.C.M., di concerto con i ministri interessati.
Lo Stato, le regioni e gli enti locali sono tenuti ad adottare, nelle materie di propria competenza, programmi annuali o pluriennali delle iniziative e attività concernenti l’immigrazione, con particolare riguardo a quelle attuative del testo unico e del regolamento di attuazione, alle attività culturali, formative, informative, di integrazione e di promozione di pari opportunità. I programmi sono adottati secondo i criteri e le modalità indicati dal regolamento di attuazione e indicano le iniziative pubbliche e private prioritarie per il finanziamento da parte del Fondo, compresa l’erogazione di contributi agli enti locali per l’attuazione del programma.
Nella XV legislatura al Fondo nazionale si è aggiunto un nuovo strumento di integrazione: il Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati operante anch’esso presso il Ministero della solidarietà sociale[209]. Il Fondo è finalizzato alla realizzazione di un piano per l’accoglienza degli alunni stranieri, anche per favorire il rapporto scuola-famiglia, mediante l’utilizzo per fini non didattici, di apposite figure professionali madrelingua quali mediatori culturali.
La dotazione del Fondo, fissata originariamente a 50 milioni di euro annui per il triennio 2007-2009, è stata successivamente integrata di ulteriori 50 milioni per il 2008[210].
Dal
momento che la norma non prevede un intervento pubblico connesso alla
programmazione dei flussi di ingresso ovvero al soggiorno degli stranieri nel
territorio nazionale - argomenta
Tra le strutture attive nelle politiche dell’integrazione si ricordano i Consigli territoriali per l’immigrazione, istituiti dall’art. 3, co. 6, T.U., operanti presso le prefetture e composti dai rappresentanti delle amministrazioni locali dello Stato, delle regioni, degli enti locali e dalle associazioni di settore con compiti di analisi delle esigenze e di promozione degli interventi a livello locale.
Nell’ambito delle azioni per l’integrazione degli immigrati, il testo unico prevede alcune disposizioni volte a contrastare la discriminazione razziale.
In particolare gli articoli 43 e 44 recano rispettivamente l’individuazione puntuale degli atti di discriminazione e la disciplina dell’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione[211].
L’art. 43 del testo unico sull’immigrazione qualifica come discriminatori i comportamenti che, direttamente o indirettamente, operano una distinzione, un’esclusione, una restrizione o una preferenza per motivi di razza, colore, nazionalità, etnia, religione e che abbiano l’intento o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento o l’esercizio, in condizione di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.
In particolare sono individuati i seguenti atti di discriminazione in ragione dell’appartenenza a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità :
§ compimento o omissione di un atto ingiustamente discriminatorio nei confronti di un cittadino straniero, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio o di un esercente un servizio di pubblica utilità;
§ imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire beni o servizi offerti al pubblico;
§ imposizione di condizioni più svantaggiose o rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia;
§ azioni od omissioni dirette ad impedire l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa dallo straniero regolarmente soggiornante in Italia;
§ atti o comportamenti compiuti dal datore di lavoro o dai suoi preposti diretti a discriminare anche indirettamente il lavoratore straniero. La disposizione fornisce, inoltre, una individuazione dei criteri in base ai quali individuare le fattispecie di “discriminazione indiretta”: è da considerarsi tale ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
L’articolo 44 del testo unico sull’immigrazione istituisce e disciplina l’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione.
Si prevede la possibilità di agire in giudizio avanti al tribunale civile in composizione monocratica con un ricorso privo di formalità, teso ad ottenere un provvedimento, impugnabile davanti al tribunale collegiale, che, eventualmente, anche in via di urgenza, possa rimuovere gli effetti della discriminazione e risarcire il danno subito. L’inosservanza del provvedimento è perseguita penalmente.
Quando si tratti di discriminazione di carattere collettivo in ambito lavorativo, il ricorso può essere presentato anche dalle maggiori organizzazioni sindacali, e sono previste sanzioni accessorie per le aziende[212].
Infine, si prevede l’istituzione ad opera delle regioni di centri di informazione, assistenza legale e osservazione sull’andamento del fenomeno.
Si ricorda, inoltre, che la citata Commissione per le politiche dell’integrazione esplica la sua attività consultiva nei confronti del Governo anche in relazione agli interventi contro il razzismo (vedi sopra).
Le norme sopra descritte non esauriscono quanto previsto dall’ordinamento sul contrasto alla discriminazione razziale.
Il complesso di norme di maggiore organicità in materia di discriminazione razziale è costituito dalla legge 13 ottobre 1975, n. 654[213], di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966.
Gli Stati contraenti si impegnano da un lato, a non porre in essere pratiche di discriminazione razziale e, dall’altro, ad adottare provvedimenti volti ad eliminare tali pratiche, ove esistano.
In particolare, si prevede che ciascuno degli
Stati che aderiscono alla Convenzione modifichi la propria legislazione penale
nel senso di prevedere i delitti di propaganda e di violenza razziale. Tali
modifiche sono state apportate nel nostro ordinamento dalla stessa legge n. 654
del 1975 di ratifica della Convenzione, ed in particolare dall’articolo 3 che
ha introdotto alcune nuove fattispecie penali, quali l’attività di
discriminazione razionale, la diffusione idee razziste, la violenza per motivi
razziali, la partecipazione ad organizzazioni o movimenti razzisti. Il D.L. n.
122 del 1993 [214] (il c.d. “decreto
Mancino”) ha provveduto ad inasprire le pene per le fattispecie di cui sopra e ha
introdotto la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di
odio etnico. Per qualsiasi reato, ad eccezione di quelli per i quali è previsto
l’ergastolo, se commesso per le finalità di cui sopra, la pena viene aumentata
fino alla metà. Il D.L.
L’articolo 5 della Convenzione, inoltre, impegna gli Stati contraenti ad adoperarsi per garantire – senza distinzione di razza o nazionalità – una serie di diritti fondamentali quali il diritto all’eguaglianza davanti alla legge, il diritto alla sicurezza e all’integrità personale, i diritti politici ed altri diritti civili (tra i quali il diritto di circolazione, alla libertà di pensiero, di religione, di associazione, diritto al lavoro, alla sanità, all’educazione).
Si segnalano i seguenti provvedimenti recanti ulteriori disposizioni per la repressione dei fenomeni di discriminazione razziale:
§
L. 11 marzo 1952, n, 153, che ratifica della
Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Le
norme attuative della Convenzione sono state adottate con la legge 9 ottobre
1967, n. 962, recante la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio:
l’articolo 8 prevede la reclusione da
§ L. 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. “Legge Scelba”) relativa al divieto di ricostituzione del partito fascista: l’art. 1 comprende la propaganda razzista tra le caratteristiche che denotano un movimenti o un partito come fascista; l’art. 4 (come modificato dal DL 122/93) che comprende tra le forme di apologia del fascismo l’esaltazione di principi razzisti;
§ L. 8 marzo 1989, n. 101, di recepimento dell’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche: l’art. 2 stabilisce che le fattispecie di reato connessi alla discriminazione razziale (di cui all’articolo 3 della L. 654 del 1975), si intendono riferiti anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso.
A queste norme si è aggiunto un complesso organico di disposizioni in materia di non discriminazione contenuto nei decreti legislativi 215 e 216 del 2003, entrambi di attuazione comunitaria, volti a tutelare la parità di trattamento tra le persone, il primo in via generale, il secondo per quanto riguarda specificatamente le condizioni di lavoro.
Il D.Lgs. 215/2003[215], di attuazione della direttiva 2000/43/CE, reca disposizioni relative della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Il provvedimento dispone a tal fine le misure necessarie per evitare che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione, diretta e indiretta, anche in considerazione del differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere:
§ su donne e uomini;
§ sull’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.
Nella nozione di discriminazione indiretta si fa riferimento, quali possibili fonti di discriminazione, oltre che ad una disposizione, a un criterio e una prassi anche a “un atto, un patto o un comportamento”.
Il provvedimento, all’articolo 3, specifica che il principio di parità di trattamento senza distinzioni di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia del settore pubblico che del settore privato, con particolare riferimento alle seguenti aree:
§ accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo sia dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
§ occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;
§ accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
§ attività nell’ambito di organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni;
§ protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;
§ assistenza sanitaria;
§ prestazioni sociali;
§ istruzione;
§ accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.
Il decreto disciplina anche la tutela giurisdizionale dei diritti, rinviando alla procedura di azione civile fissata dall’art. 44 del testo unico (vedi sopra), integrandola con alcuni strumento correlati, quali la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n. 165 del 2001, il regime probatorio di cui all’articolo 2729 del codice civile, la possibilità per il giudice (oltre che di risarcire il danno anche non patrimoniale e di impartire le opportune disposizioni per la cessazione del comportamento discriminatorio) di ordinare l’adozione di un piano di rimozione, di tenere conto, ai fini della liquidazione del danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale finalizzata ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento e di ordinare la pubblicazione della sentenza.
Da rilevare il riconoscimento della legittimazione ad agire da parte delle associazioni e agli enti inseriti in un apposito registro approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità[216].
Viene inoltre istituito presso
Sulla stessa linea il Governo ha promosso la costituzione di un Comitato interministeriale contro la discriminazione e l’antisemitismo, che opera presso il Ministero dell’interno ed è presieduto dal direttore del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione[218]. Il Comitato ha il compito di vigilare sui pericoli di regressione verso forme di intolleranza, razzismo, xenofobia e antisemitismo e di individuare tutte le misure necessarie per contrastare ogni comportamento ispirato da odio religioso o razziale.
Il D.Lgs. 216/2003[219], di attuazione della direttiva 2000/78/CE, stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, contro ogni forma di discriminazione legata a religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale.
Per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta (art. 2). In particolare si ha discriminazione:
§ quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (discriminazione diretta);
§ quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (discriminazione indiretta);
§ quando vengono perpetrate molestie o comportamenti indesiderati che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo;
Dopo aver stabilito l’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento ed aver enucleato una serie di ipotesi che non costituiscono discriminazione (art. 3), il decreto legislativo disciplina la tutela giurisdizionale dei suddetti diritti, riconoscendo anche il ruolo delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto di chi abbia subito discriminazioni (artt. 4 e 5).
Si ricorda, infine, il D.Lgs. 30/2006[220], in materia di professioni che vieta, nell’esercizio dell’attività professionale, qualsiasi discriminazione, che sia motivata da ragioni sessuali, razziali, religiose, politiche o da ogni altra condizione personale o sociale, secondo quanto stabilito dalla disciplina statale e comunitaria in materia di occupazione e condizioni di lavoro (art. 1, co. 2).
La Camera ha avviato l’esame, nel periodo tra settembre e novembre 2007, di diversi progetti di legge in materia di immigrazione. Tra questi, uno di iniziativa governativa (A.C. 2976) predisposto dal Ministro dell’interno, Giuliano Amato, e da Paolo Ferrero a capo del dicastero della Solidarietà sociale di nuova istituzione, volto a modificare in profondità il testo unico del 1998 (D.Lgs. 286/1998)[221].
ll 26 settembre 2007 presso la I Commissione (Affari costituzionali) ha inizio l’esame congiunto di nove proposte di legge di iniziativa parlamentare (776 Zacchera, 1102 Campa, 1263 Mascia ed altri, 1779 Boato, 1804 Sgobio ed altri, 1850 Bordo, 1852 Bucchino ed altri, 2122 Capotosti ed altri, 2547 Migliore ed altri) e del disegno di legge del Governo A.C. 2976. In un secondo momento verranno abbinate altre due proposte: 3122 Maroni ed altri e 3148 Santelli.
Il 31 ottobre 2007 si conclude la discussione sulle linee generali e il successivo 6 novembre il progetto del Governo viene adottato come testo base per il seguito dell’esame, con il parere contrario dei gruppi di opposizione.
Viene quindi fissato, dopo alcune proroghe, il termine per la presentazione degli emendamenti al 27 novembre 2007, quando risultano depositate oltre 1.000 proposte emendative.
Nel frattempo la Commissione ha deliberato un’indagine conoscitiva (il 13 novembre 2007) per procedere alle audizioni di un numero limitato di rappresentanti di istituzioni pubbliche e delle organizzazioni che direttamente operano a contatto con le realtà interessate dai fenomeni oggetto dei progetti di legge, nonché di alcuni esperti della materia. Il termine per la conclusione dell’indagine era stato fissato alla fine del mese di gennaio 2008.
Nella seduta del 15 novembre 2007 sono state svolte le audizioni di Marcello Fulvi, Questore di Roma, Massimo Sarmi, Amministratore delegato di Poste italiane s.p.a., Vincenzo Indolfi, Questore di Milano, Oscar Fiorolli, Questore di Napoli, Stefano Berrettoni, Questore di Torino, don Massimo Mapelli, Fondazione Casa della carità, Aldo Morrone, Ospedale San Gallicano di Roma - Medicina preventiva delle migrazioni, del turismo e dermatologia tropicale, Angela Pria, Prefetto presso la Direzione centrale dell'immigrazione e della Polizia delle frontiere del Ministero dell'interno, Luciano Bertozzi, Confcommercio, Fabio Sturani, Associazione nazionale comuni italiani, Tommaso Edoardo Frosini, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Giovanni Pitruzzella, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Palermo, Daniela Ruffini, Lega delle autonomie, Guglielmo LoY, Unione italiana del lavoro, Oberdan Ciucci, Confederazione italiana sindacati lavoratori, Antonella Inverno, Save the children, Mohamed Tailmoun, Rete G2 Seconde generazioni, Patrizia Toss, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Michele Consiglio, Associazioni cristiane lavoratori italiani, Paolo Bonetti, Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, padre Giovanni Lamanna, Associazione Centro Astalli, Angela OritI, Medici senza frontiere, Paolo Morozzo della Rocca, Comunità di Sant'Egidio, Pietro Soldini, Confederazione generale italiana del lavoro, Filippo Miraglia, Associazione ARCI, Oliviero Forti, Caritas italiana, e Luciano Lagamba, Unione generale del lavoro.
La Commissione non ha proseguito l’esame del provvedimento.
Qui di seguito sono sommariamente indicati, suddivisi per argomento, i punti qualificanti del disegno di legge del Governo adottato dalla Commissione come testo base, confrontati con le disposizioni attualmente vigenti.
La situazione attuale |
Le modifiche proposte |
La definizione delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per motivi di lavoro avviene annualmente con un decreto del Presidente del Consiglio (decreto-flussi) sulla base del documento triennale di programmazione (art. 3, co. 4, TU). |
La programmazione delle quote assume cadenza triennale, con eventuali quote aggiuntive annuali in presenza di ulteriori esigenze. Alle procedure di definizione delle quote partecipano i sindacati, le associazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni non governative del settore. |
La situazione attuale |
Le modifiche proposte |
Le intese di cooperazione in materia di immigrazione con i Paesi a forte pressione migratoria prevedono l’istituzione di liste di collocamento di lavoratori stranieri che intendono fare ingresso in Italia. Ad essi sono assegnate quote riservate nel decreto flussi annuale (art. 21, co. 1 e 5, TU). |
Il sistema delle liste di collocamento viene generalizzato: esse saranno istituite non solamente nei Paesi che hanno stretto accordi ufficiali con l’Italia, ma ovunque e in via prioritaria negli Stati che collaborino al contrasto dell’immigrazione clandestina. Nella formazione della graduatoria, costituiranno titolo di preferenza la conoscenza della lingua italiana e la qualifica professionale posseduta. |
Il testo unico prevedeva la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro, abrogata dalla L. 189/2002, basata sulla prestazione di adeguate garanzie da parte di sponsor, quali enti locali, associazioni di volontariato, privati. |
Viene ripristinato l’ingresso per inserimento nel mercato di lavoro, destinandovi una quota apposita del decreto flussi. E’ prevista inoltre la possibilità per l’immigrato di fornire egli stesso prove di adeguate risorse finanziarie al fine di ottenere il premesso di soggiorno per ricerca di lavoro (autosponsorizzazione). |
Alcune categorie di professionisti e di lavoratori particolarmente qualificati (dirigenti, ricercatori, artisti, sportivi, ecc.) non sono sottoposti al sistema delle quote e beneficiano di un trattamento di favore (art. 27 TU). |
Viene semplificato l’ingresso dei lavoratori altamente qualificati nell’ambito della revisione dei canali di ingresso e soggiorno agevolato al di fuori delle quote. |
Il datore di lavoro e il lavoratore straniero devono stipulare il contratto di soggiorno per lavoro (introdotto a dalla L. 189/2002) indispensabile per il rilascio del permesso di soggiorno (art. 5-bis TU). |
Il contratto di soggiorno è abolito. |
La situazione attuale |
Le modifiche proposte |
L’ingresso nel territorio italiano è consentito ai cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione europea in possesso di passaporto e di visto d’ingresso. Per ottenere il visto di ingresso deve avere prove idonee a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata di soggiorno. Mentre in origine il testo unico prevedeva che tutti i provvedimenti di diniego del visto fossero accompagnati dalla motivazione, la legge 189 ha conservato tale obbligo solo per i visti per lavoro, studio e ricongiungimento familiare. Anche se il testo unico non ne fa menzione, il provvedimento di diniego è impugnabile davanti al giudice amministrativo (art. 4 TU). |
Il decreto delegato dovrà semplificare le procedure per il rilascio del visto per l’ingresso anche attraverso la revisione della documentazione da esibire. La previsione dell’obbligo di motivazione del diniego viene estesa a tutte le tipologie di visto, prevedendo forme di tutela e garanzia per i richiedenti i visti. |
Il permesso di soggiorno è rilasciato e rinnovato dalle questure (art. 5 TU). Attualmente è in corso il trasferimento agli uffici postali dell'attività di sportello in materia di richiesta e rinnovo di numerose tipologie di permessi di soggiorno. Gli sportelli unici per l’immigrazione, istituiti dalla L. 189/2002, rilasciano il nulla osta al lavoro e presiedono alla stipula del contratto di soggiorno per lavoro tra datore di lavoro e lavoratore (art. 22 TU). |
Il disegno di legge prevede la semplificazione delle procedure per il rilascio del nulla osta, del permesso di soggiorno e del suo rinnovo. Mentre il contratto di soggiorno, come si è detto, viene eliminato. Dovranno essere trasferite ai Comuni le competenze per la ricezione delle domande di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno e per il suo ritiro e rinnovo. Anche gli sportelli unici saranno riorganizzati. |
La durata del permesso di soggiorno è al massimo di 9 mesi per lavoro stagionale, un anno per lavoro a tempo determinato, e di due anni, per lavoro a tempo indeterminato e autonomo. Il rinnovo va richiesto rispettivamente almeno 60 e 90 giorni prima della scadenza (art. 5, TU). |
Vengono allungati i tempi di durata dei permessi di soggiorno: un anno per rapporti di lavoro di durata fino a 6 mesi; due anni per rapporti di lavoro a tempo determinato superiore a 6 mesi; tre anni per rapporti di lavoro a tempo indeterminato e lavoro autonomo. E’ prevista, inoltre, l’unificazione dei termini per la richiesta di rinnovo. |
La situazione attuale |
Le modifiche proposte |
Gli stranieri rintracciati in posizione irregolare sono espulsi di norma con l’accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica. Nei casi di violazioni di minor rilievo l’espulsione avviene con la semplice intimazione a lasciare il territorio dello Stato (art. 13). |
Alle tipologie di esecuzione di espulsione vigenti si aggiunge il rimpatrio volontario assistito esteso anche ai non espulsi. Per il suo finanziamento è prevista l’istituzione di un Fondo nazionale rimpatri. |
All’espulsione si accompagna il divieto di reingresso nel territorio dello Stato per un periodo che di norma è pari a dieci anni. Il decreto di espulsione può prevedere un termine inferiore sino a un minimo di cinque anni (art. 13, co. 14, TU). |
Si procederà ad una differenziazione dei termini di divieto di reingresso in considerazione alla partecipazione ai programmi di rimpatrio e ai motivi dell’espulsione. |
L’autorità competente a decidere sul ricorso contro l’espulsione è il giudice di pace (art. 13, co. 8, TU). |
La competenza sul ricorso in materia di espulsione viene attribuita al giudice ordinario, come previsto prima dell’approvazione del decreto-legge 241/2004. Si prevede, inoltre, una revisione delle sanzioni, anche penali, e delle modalità di allontanamento in correlazione alle violazioni delle disposizioni in materia di immigrazione. |
Nei centri di permanenza temporanea e accoglienza (CPTA) sono trattenuti gli stranieri quando non è possibile eseguire immediatamente l’espulsione per necessità di prestare soccorso, accertamento dell’identità dello straniero, acquisizione dei documenti per il viaggio, indisponibilità di un mezzo di trasporto idoneo per l’espulsione, attesa di definizione del procedimento di convalida (art. 14). |
L’attuale sistema dei CPTA deve essere superato attraverso la differenziazione del trattamento tra coloro che si sottraggono all’identificazione (che dovrà essere effettuata in carcere) e gli stranieri da trattenere per altri motivi. Da rivedere anche il regime di gestione e l’accesso ai centri. |
La situazione attuale |
Le modifiche proposte |
Attualmente è previsto il diritto di voto unicamente per gli stranieri comunitari. |
Gli immigrati non comunitari regolari soggiornanti da lungo tempo in Italia potranno votare ed essere eletti nelle elezioni amministrative. |
I minori stranieri sono iscritti automaticamente nel permesso di soggiorno dei genitori fino al compimento del 14° anno di età. Ad essi viene in seguito rilasciato un permesso di soggiorno per motivi familiari, valido fino al raggiungimento della maggiore età, e che potrà essere successivamente riconvertito in altra categoria di permesso (art. 31). Particolari forme di tutela sono previste per i minori non accompagnati (art. 33). |
Il disegno di legge da ampio rilievo ai diritti dei minori stranieri prevedendo: il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari anche dopo la maggiore età per i ragazzi ancora a carico della famiglia, la conversione del permesso di soggiorno dei minori non accompagnati in permesso per lavoro, l’istituzione di un Fondo di accoglienza e tutela dei minori non accompagnati, disposizioni di tutela del minore in caso di espulsione. |
Gli stranieri regolarmente soggiornanti hanno l’obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale e hanno parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani. Agli irregolari sono assicurate le cure urgenti e essenziali (artt. 34-35 TU). |
Si prevede l’aggiornamento delle disposizioni relative all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale e la razionalizzazione delle competenze in materia di assistenza sanitaria dei cittadini stranieri. |
L’accesso all’assistenza sociale è garantita ai titolari della carta di soggiorno (di durata illimitata) o del permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno e ai bambini (art. 41 TU). |
Si prevede l’equiparazione ai cittadini italiani degli stranieri regolarmente soggiornanti da almeno due anni e dei minori iscritti nel loro permesso di soggiorno in materia di accesso alle provvidenze di assistenza sociale. |
La legge finanziaria 2007 (art. 1, co. 1267) ha istituito un Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati di 50 milioni di euro annui, finalizzato anche all’accoglienza degli alunni stranieri. |
Il Fondo potrà contare su ulteriori forme di finanziamento quali contributi volontari dei datori di lavoro e contributi, o donazioni disposti da privati, enti, organismi internazionali e dall’Unione Europea. |
Gli stranieri vittime di violenza e di sfruttamento che tentano di sottrarsi ai condizionamenti di organizzazioni criminali possono usufruire di un permesso di soggiorno speciale e di programmi di assistenza sociale (art. 18, TU). |
Si prevede ulteriori forme di tutela degli stranieri sfruttati o ridotti in schiavitù attraverso alcune modifiche delle disposizione riguardanti l’espulsione, il ricongiungimento e la punibilità delle vittime. |
Il disegno di legge presentato dal Governo (A.C. 2976), composto da un solo articolo, reca una delega per l’adozione di un decreto legislativo di modifica della disciplina legislativa in materia di immigrazione e di condizione dello straniero, di cui al testo unico approvato con D.Lgs. 286/1998. Il termine finale è fissato in dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge; l’esercizio della delega non può comunque aver luogo prima del gennaio 2008.
Mentre le sedici lettere (da a) ad r)) in cui si articola il comma 1 contengono i princìpi e criteri direttivi per l’esercizio della delega, i successivi commi da 2 a 5 definiscono le modalità per l’adozione del decreto legislativo e delle successive disposizioni di coordinamento, correttive e integrative[222].
Come accennato, le lettere da a) ad r) del comma 1 contengono i princìpi e criteri direttivi.
La lettera a) stabilisce i principi e criteri di delega per la revisione della disciplina dell’ingresso in Italia per motivi di lavoro degli stranieri non comunitari. In particolare:
§ il numero 1 prevede la revisione del meccanismo di determinazione dei flussi di ingresso, con una programmazione triennale delle quote e una procedura per l'adeguamento annuale;
§ il numero 2 prevede la partecipazione ai procedimenti di definizione dei flussi dei sindacati, delle associazioni dei datori di lavoro e delle organizzazioni ed enti che operano nel settore dell’immigrazione;
§ ai sensi del numero 3, con l’adeguamento annuale la quota fissata per il lavoro subordinato e autonomo può essere superata qualora ci sia un numero di richieste di nulla osta al lavoro eccedente la stessa quota;
§ il numero 4 prevede iniziative per favorire l'incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro nel settore del lavoro domestico e di assistenza alla persona;
§ i criteri di delega di cui ai numeri da 5 a 8) delineano un modello di gestione dei flussi di lavoratori immigrati da realizzarsi mediante liste collegate informaticamente che formeranno una sorta di sistema di collocamento all’estero;
§ il numero 9 reintroduce l’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro con il meccanismo della “sponsorizzazione”;
§ il numero 10 concerne la revisione della disciplina dei permessi riservati a categorie di lavoratori altamente qualificati (i cosiddetti ingressi “fuori quota”);
§ il numero 11 prevede la possibilità per l’immigrato di fornire personalmente prove di garanzia patrimoniale per ottenere il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro (“autosponsorizzazione”).
La lettera b), al numero 1, prevede che il decreto contenga disposizioni volte ad agevolare l’invio delle rimesse degli stranieri verso i Paesi di origine, incentivando il ricorso a strumenti legali.
Le misure relative all’invio delle rimesse degli stranieri, che il Governo è delegato ad emanare, non riguardano solamente i canali di invio delle rimesse e la riduzione dei costi di trasferimento. Infatti, allo scopo di favorire lo sviluppo dei Paesi da cui provengono i lavoratori migranti, il numero 2 prevede l’adozione di misure di cooperazione allo sviluppo utili a convogliare sia le competenze acquisite che le risorse da essi prodotte verso i Paesi d’origine, mentre il numero 3 prevede il coinvolgimento dei lavoratori migranti in attività di cooperazione allo sviluppo anche attraverso la partecipazione a progetti specifici che si svolgano nei Paesi di origine, consentendo quindi in tali casi un rientro temporaneo, senza pregiudizio per lo status di soggiornante regolare in Italia. Il numero 3 incoraggia inoltre il ritorno produttivo, sia temporaneo che definitivo.
La lettera c) interviene in materia di visti di ingresso, allo scopo di semplificare le procedure per il rilascio e la relativa documentazione da presentare, prevedendo di estendere a tutte le tipologie di visto l’obbligo di motivazione del diniego e di introdurre forme di tutela dei richiedenti contro il ritardo nel rilascio.
La lettera d) enuncia i princìpi e criteri direttivi per la semplificazione delle procedure e dei requisiti necessari per il rilascio del nulla osta, del permesso di soggiorno e del suo rinnovo. Si prevede l’eliminazione del contratto di soggiorno, il graduale passaggio ai comuni delle competenze amministrative per il rinnovo del permesso di soggiorno, l’adeguamento della loro durata e la riorganizzazione degli sportelli unici per l’immigrazione:
§ il numero 1 estende la validità iniziale dei permessi di soggiorno per lavoro non stagionale;
§ il numero 2 prevede misure per assicurare la continuità degli effetti del soggiorno regolare nelle more del rinnovo del permesso di soggiorno;
§ il numero 3 estende la validità del permesso di soggiorno per attesa occupazione, in caso di cessazione del rapporto di lavoro;
§ il numero 4 concerne la revisione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari;
§ il numero 5 prevede la possibilità di svolgere attività lavorativa per lo straniero legalmente soggiornante in base a disposizioni che non richiedono di dimostrare il possesso di risorse economiche.
La lettera e) prevede l’attribuzione, ad opera dell’emanando decreto legislativo, del diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative per gli stranieri extracomunitari, alle condizioni e con le modalità previste per i cittadini dell'Unione europea.
La lettera f) individua la finalità dell’armonizzazione della disciplina dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri con la normativa comunitaria, prevedendo in particolare che, in conformità con quest’ultima, la disciplina delle cause ostative all'ingresso o al soggiorno si fondi su una valutazione degli elementi soggettivi dell’interessato e non sia collegata in modo automatico alla sussistenza di determinati presupposti.
La lettera g) reca i princìpi e criteri direttivi in materia di espulsione e rimpatrio degli immigrati clandestini o irregolarmente soggiornanti. improntati al principio della graduazione delle misure di intervento.
In particolare, si prevede l’introduzione – accanto alle misure di contrasto all’immigrazione clandestina previsti a legislazione vigente – di programmi di rimpatrio volontario e assistito degli immigrati finanziati da un Fondo nazionale cui affluiscono contributi da parte dei datori di lavoro, degli sponsor e degli stranieri (numero 1).
In base al principio di graduazione degli interventi, si prevede inoltre:
§ l’introduzione di durate differenziate dei divieti di rimpatrio tenendo conto della partecipazione degli stranieri a programmi di rimpatrio (numero 2);
§ una revisione del quadro sanzionatorio amministrativo e penale in materia di immigrazione (numeri 3 e 4);
§ la riforma della disciplina dell’allontanamento forzato dello straniero, con la previsione della sospensione dell'esecuzione per gravi motivi (numero 5).
Si prevede, infine, (numero 6) che la competenza giurisdizionale in materia dovrà essere riportata al giudice ordinario in composizione monocratica.
La lettera h) reca i principi e criteri di delega per la riforma del sistema dei centri di trattenimento e di assistenza degli immigrati, prevedendo il superamento dei Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) attraverso un potenziamento della loro funzione di accoglienza, di soccorso e di tutela dell’unità familiare.
Il numero 1 introduce una riforma del sistema delle strutture destinate all’accoglienza e al soccorso degli stranieri in condizione di irregolarità, che intende valorizzare – attraverso interventi strutturali e gestionali – il carattere assistenziale delle strutture esistenti.
Il numero 2 interviene sulla disciplina dell’identificazione degli stranieri da espellere, stabilendo che – nei casi in cui tali soggetti siano sottoposti a misure limitative della libertà personale – gli accertamenti sulla loro identità siano effettuati durante il periodo di carcerazione.
Il numero 3 prevede la conversione dei CPTA in strutture destinate alle espulsioni, nelle quali siano trattenuti esclusivamente:
§ gli stranieri da espellere che si siano sottratti all’identificazione,;
§ i cittadini stranieri identificati o che collaborino in modo fattivo alla propria identificazione, solo nei casi in cui non sia possibile procedere immediatamente all’espulsione.
Il numero 4 prevede infine una riforma della disciplina vigente in materia di accesso ai centri di permanenza e di assistenza nonché di visite agli stranieri che vi sono trattenuti.
La lettera i) è dedicata ai minori stranieri; i criteri previsti mirano a favorirne l’inserimento civile e sociale adeguando le disposizioni sul loro soggiorno.
Al compimento della maggiore età vengono pertanto previsti (numeri 1 e 2) il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari al minore straniero affidato o sottoposto a tutela; quanto al minore straniero non accompagnato, al compimento della maggiore età si prevede la conversione del permesso di soggiorno in altre tipologie, compresa quella per accesso al lavoro; il rilascio del nuovo titolo di soggiorno rimane in questo caso condizionato alla partecipazione ad un progetto di accoglienza e tutela gestito da un ente pubblico o privato in possesso di determinati requisiti.
È inoltre confermato (numero 3) il rilascio del permesso per protezione sociale anche allo straniero che, avendo commesso reati durante la minore età, abbia concluso positivamente un percorso riabilitativo con la partecipazione ad un programma di assistenza ed integrazione sociale ovvero nei confronti del quale sia stata dichiarata l'estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.
L’azione degli enti pubblici o privati nella presa in carico dei minori stranieri viene sostenuta con l'istituzione presso il ministero della Solidarietà sociale di un “Fondo nazionale di accoglienza e tutela a favore dei minori stranieri non accompagnati” (numero 4).
È prevista la riorganizzazione e la ridefinizione delle procedure del Comitato per i minori stranieri istituito presso il Ministero della solidarietà sociale, anche con la previsione di una funzione consultiva dei Consigli territoriali per l'immigrazione presso le Prefetture-Uffici territoriali del Governo. (numero 5)
Il numero 6 introduce un criterio generale relativo alla “ridefinizione e l’estensione delle procedure di rimpatrio volontario assistito anche ai minori stranieri che al raggiungimento della maggiore età non possiedano i requisiti per la conversione del permesso di soggiorno per minore età”, stabilendo un più puntuale controllo giurisdizionale con la previsione della convalida da parte del Tribunale dei minori del rimpatrio del minore disposto senza il suo consenso. Al rientro nel paese d’origine, i minori stranieri rimpatriati, usufruiranno inoltre di un titolo di priorità relativamente all’iscrizione nelle liste di lavoratori stranieri di cui alla lettera a), numero 5, incentivando in tal modo la loro collaborazione.
Nei casi d'incertezza sulla minore età, il numero 7 prescrive che, ove gli accertamenti medico-sanitari non consentano l'esatta determinazione dell'età, si applicheranno comunque le disposizioni relative ai minori.
Le lettere da l) a p) riguardano l’integrazione sociale e l’assistenza sanitaria dei cittadini stranieri legalmente soggiornanti. Esse prevedono, in particolare, l’aggiornamento delle disposizioni in materia di assistenza sanitaria finalizzate ad una piena inclusione nel sistema sanitario nazionale (lettera l), numero 1) e di quelle relative alle provvidenze economiche di natura assistenziale (lettera l), numero 2), nonché la possibilità di interventi di accoglienza a carattere straordinario e temporaneo nei casi di emergenza (lettera m)).
La lettera o) richiede il potenziamento delle misure dirette all'integrazione dei migranti, concepita come inclusione, interazione e scambio e non come coabitazione tra comunità separate.
Sono previste altresì specifiche norme relativamente alla Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie (lettera n) ed al Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati (lettera p).
La lettera q) prevede misure volte a rafforzare la tutela delle vittime dei reati di tratta, riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, violenza o grave sfruttamento.
La lettera r) prevede il coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni introdotte con le restanti disposizioni del testo unico, nonché con la legislazione nazionale e comunitaria vigente in materia.
I commi da 2 a 4 dell’articolo 1 definiscono le modalità per l’adozione del decreto legislativo e contengono due ulteriori deleghe per l’adozione delle disposizioni di coordinamento, nonché delle disposizioni correttive e integrative che si rendessero successivamente necessarie.
Il comma 5 introduce una clausola di salvaguardia finanziaria.
Il disegno di legge governativo è stato esaminato congiuntamente a nove proposte di legge di iniziativa parlamentare.
Di queste, due proponevano una radicale riforma del testo unico:
§ l’A.C. 2547 (on. Migliore ed altri), composta da 54 articoli, recava una disciplina organica della materia, alternativa a quella recata dal vigente testo unico in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998), che in buona misura sostituiva;
§ l’A.C. 1779 (on. Boato) proponeva l’integrale abrogazione della L. 189/2002 (c.d. “legge Bossi-Fini”) e la reviviscenza della disciplina legislativa previgente.
Le altre proposte di legge intervenivano su ambiti più limitati, con puntuali modifiche o integrazioni. In particolare:
§ l’A.C. 776 (on. Zacchera) modificava il procedimento che presiede all’ingresso in Italia per motivi di lavoro entro i limiti fissati dalle quote annuali, al fine di superare le difficoltà e i disagi originati dal criterio di precedenza oggi seguito, (basato sull'ordine di presentazione delle richieste presso gli uffici postali); esso regolava inoltre in modo specifico, al di fuori delle quote, l’ingresso per lavoro delle c.d. “badanti”;
§ l’A.C. 1102 (on. Campa) consentiva agli sportivi stranieri dilettanti che si trovino nel territorio nazionale da almeno sei mesi di cambiare settore di attività per svolgere un’attività lavorativa subordinata o autonoma;
§ l’A.C. 1263 (on. Mascia ed altri) riconosceva allo straniero che regolarmente e stabilmente risiede in Italia da almeno cinque anni il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative;
§ l’A.C. 1804 (on. Sgobio ed altri) e l’A.C. 1850 (on. Bordo), con formulazione diversa, estendevano entrambe la disciplina concernente il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, di cui all’art. 18 del testo unico, agli stranieri che siano vittime di violenze o grave sfruttamento sui luoghi di lavoro;
§ l’A.C. 1852 (on. Bucchino ed altri) modificava la disposizione che vieta l’espulsione delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio, estendendo tale periodo a dodici mesi e disponendo che il divieto riguarda anche i mariti conviventi (come già sancito dalla sent. 376/2000 della Corte costituzionale);
§ l’A.C. 2122 (on. Capotosti) recava misure volte ad agevolare il processo di integrazione degli immigrati, concernenti il riconoscimento dei titoli di formazione professionale, il ricongiungimento familiare, il diritto allo studio, nonché la promozione delle attività di studio e ricerca sull’immigrazione e delle funzioni svolte dalle associazioni di stranieri e da quelle che operano in loro favore;
§ l’A.C. 3122 (on. Maroni ad altri) incideva su due specifici aspetti del testo unico, facendo rientrare nel delitto di favoreggiamento della permanenza illegale anche la locazione di immobili agli stranieri clandestini e prevedendone la confisca obbligatoria; introducendo, mutuati da una proposta di legge all’esame del Parlamento francese, due requisiti ulteriori per il ricongiungimento familiare: la valutazione del grado di conoscenza della lingua italiana e dei valori della Repubblica dei familiari dei quali si richiede il ricongiungimento e l’identificazione mediante le impronte genetiche (test del DNA);
§ anche l’A.C. 3148 (on. Santelli) prevedeva la rilevazione del DNA, oltre che in caso di ricongiungimento familiare, anche in presenza di comportamenti elusivi dell’identificazione, per i quali viene contestualmente incrementata la sanzione relativa. introduceva, inoltre, varie disposizioni relative alla tutela dei minori e al contrasto dello sfruttamento degli stranieri clandestini, disponendo, anche in questa occasione in analogia con l’A.C. 3122, la confisca degli immobili per chi alloggia i clandestini, e il sequestro dell’azienda per i datori di lavoro che li impiegano alle proprie dipendenze. Altre disposizioni riguardavano il potenziamento dei controlli sulle rotte dell’immigrazione clandestina, l’effettività dell’espulsione e la previsione di criteri preferenziali nella determinazione dei flussi di ingresso.
Il Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato per il triennio 2007-2009 reca un’analisi ed una programmazione delle più importanti politiche relative all’immigrazione e alla presenza in Italia degli stranieri non cittadini dell’Unione europea, con riferimento al triennio 2007-2009.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il documento programmatico nella seduta del 12 ottobre 2007 e nel dicembre successivo lo ha trasmesso alle Camere per il prescritto parare della Commissioni competenti. Nel febbraio 2008 il Governo ha sottoposto il documento al parere delle Camere.
La I Commissione della Camera ha reso parere favorevole il 13 febbraio 2008, lo stesso giorno anche la 1ª Commissione del Senato ha espresso parere favorevole con osservazioni.
Alla data di chiusura del presente dossier (28 aprile 2008) il documento non risulta pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Il principio fondamentale alla base del documento programmatico 2007-2009 consiste nel “favorire una condizione migratoria secondo un percorso di stabilizzazione e di inclusione” in vista di un “nuovo patto” tra lo Stato e immigrati volto a superare la precarietà delle loro condizioni. Alla base di tale principio ci sono tre considerazioni:
§ i flussi migratori non sono più un fenomeno eccezionale, bensì continuo e stabile;
§ i lavoratori immigrati stranieri rappresentano una risorsa indispensabile per il nostro Paese;
§ l’Unione europea è avviata verso politiche comuni in materia di immigrazione, non incentrate esclusivamente sulla sicurezza, ma nelle quali hanno ampio spazio la gestione efficace dei flussi e l’integrazione degli stranieri.
Il documento affronta le problematiche relative sia alla immigrazione per motivi di lavoro (Cap. 1: Le politiche di governo degli ingressi e del lavoro), sia a quella legata ad esigenze umanitarie (Cap. 6: Richiedenti asilo e rifugiati).
Particolare spazio è dedicato al diritto all’integrazione dei migranti, dal punto di visti degli interventi volti all’inclusione sociale (Cap. 2: Interventi per favorire l’inclusione e l’accoglienza), ma anche per quanto riguarda la lotta alle discriminazioni (Cap. 3: Politiche di contrasto alle discriminazioni razziste e xenofobe).
La questione della sicurezza e della lotta alla immigrazione clandestina è affrontata nel Capitolo 4 Politiche di contrasto al traffico di persone e all’irregolarità.
Infine, un capitolo specifico è dedicato all’attività internazionale in materia di immigrazione (Cap. 5: Parteniariato e cooperazione a livello europeo e internazionale).
Nel documento viene formulata una previsione della domanda di lavoro nel triennio in oggetto, quantificata in oltre 200 mila unità per anno.
Il documento indica numerosi interventi da realizzare nei prossimi anni, tra cui si segnalano:
§ la determinazione triennale (e non più annuale) dei flussi di ingresso;
§ la introduzione dell’ingresso per ricerca di lavoro (sponsorizzazione);
§ misure per favorire l’immigrazione qualificata;
§ la semplificazione dei procedimenti amministrativi;
§ la lotta al lavoro nero;
§ azioni per favorire l’inclusione sociale con particolare riguardo alle “seconde generazioni”;
§ il contrasto alla discriminazione razziale e xenofoba;
§ il superamento dei centri di permanenza temporanea e accoglienza (i CPTA);
§ il rafforzamento delle relazioni bilaterali con i Paesi a forte pressione migratoria;
§ la predisposizione di un testo unico sull’asilo.
Molti di questi interventi sono contenuti nel disegno di legge delega, di iniziativa governativa, A.C. 2976, il cui esame è iniziato presso la I Commissione della Camera (si veda in proposito la scheda Il progetto di riforma del testo unico sull’immigrazione, pag. 164).
Il primo capitolo del documento programmatico è dedicato alle politiche di gestione dell’immigrazione regolare che si ispirano ad una programmazione dei flussi di ingresso più flessibile, a una diversificazione delle modalità di ingresso per motivi di lavoro e alla semplificazione delle procedure amministrative.
Nella prima sezione, particolare rilievo viene dato alla necessità di predisporre una serie di indicatori quantitativi della domanda di lavoro.
Nella sezione sono presenti una serie di previsioni sulla necessità di manodopera nel triennio 2007-2009 che viene complessivamente valutata nell’ordine di oltre 200 mila unità l’anno in media, con un’ipotesi massima di 275 mila.
La disponibilità di elementi quantitativi è necessaria per una determinazione efficace dei flussi di ingresso la cui scansione temporale dovrà essere riformata e portata da base annuale, come avviene attualmente con i “decreti-flussi”, a triennale, con possibilità di rideterminazione annuale e con procedure comunque semplificate rispetto a quelle attuali.
Pur confermando il sistema delle quote, si prevede una revisione dei canali di ingresso, sia dal punto di vista quantitativo, prevedendo una differente modulazione del decreto flussi in base alla tipologia lavorativa (per esempio lavoro stagionale) e una gestione temporale separata dei flussi per evitare picchi periodici, sia dal punto di vista qualitativo, determinando le quote di ingresso in corrispondenza della domanda, con particolare attenzione all’attività di collaborazione familiare, agli ingressi fuori quota di personale specialistico, al personale formato all’estero.
Si prevedono, inoltre, meccanismi innovativi, quali l’ingresso per ricerca di lavoro – attraverso la triplice forma di sponsorizzazione collettiva (da parte di enti e istituzioni), di sponsorizzazione da parte di privati e di auto-sponsorizzazione – e la predisposizione di liste all’estero di cittadini extracomunitari disponibili a lavorare in Italia (entrambi gli strumenti erano previsti dal citato d.d.l. di riforma).
Altre forme di agevolazione sono previste in caso di legalizzazione del soggiorno in casi particolari (ad esempio per motivi umanitari) e per il lavoro stagionale.
La seconda sezione descrive alcune misure per favorire l’immigrazione qualificata, sia dirette all’accoglienza di lavoratori altamente qualificati, sia per creare canali privilegiati per l’ingresso e la permanenza di studenti, ricercatori, investitori ed imprenditori, secondo le indicazioni della strategia di Lisbona finalizzata all’aumento della competitività dell’economia europea.
La terza sezione individua alcuni interventi di semplificazione amministrativa (in parte contenuti anche nel disegno di legge di riforma del testo unico).
Si ricordano in particolare:
§ la semplificazione degli oneri in capo al datore di lavoro collegati alla stipula del contratto di lavoro;
§ la riorganizzazione degli sportelli unici per l’immigrazione in vista della completa informatizzazione delle procedure;
§ la semplificazione dei procedimenti di rilascio del nulla osta e del permesso di soggiorno, nell’ottica di un futuro trasferimento delle competenze in materia ai comuni.
Alle prospettive dell’allargamento dell’Unione europea sul mercato del lavoro è dedicata la quarta sezione, incentrata sull’esigenza di monitorare attentamente le assunzioni di lavoratori provenienti da Romania e Bulgaria, in considerazione dei rilevanti flussi provenienti da questi Paesi (nel 2006 il 27% delle domande di nulla osta sono state di cittadini rumeni (121 su 458 mila lavoratori non stagionali).
Sulla base del principio della parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri in materia pensionistica, che ha il suo fondamento nella costituzione (art. 38, co. 2), la quinta sezione dispone la incentivazione della politica volta alla definizione di accordi e convenzioni internazionale in materia di prestazioni previdenziali, sulla scorta degli accordi già in essere con diversi Paesi sulla totalizzazione dei periodi assicurativi.
Il capitolo dedica ampio spazio alla formazione – oggetto della sesta sezione – ed in particolare della formazione universitaria, sia dal punto di vista della mobilità (in entrata e in uscita), sia per quanto riguarda l’inserimento e l’integrazione dello studente straniero. Tra le misure previste si segnalano:
§ l’aumento dei finanziamenti per la ricerca;
§ gli interventi per la riforma dei sistemi di istruzione;
§ l’incentivazione delle collaborazioni internazionali;
§ iniziative mirate ad attrarre studenti stranieri (borse di studio ecc.);
§ semplificazione delle procedure di rinnovo del permesso di soggiorno al termine del periodo universitario per la prosecuzione degli studi post laurea.
La formazione degli adulti stranieri risponde alle esigenze derivanti dalle caratteristiche ormai strutturali assunte dall’immigrazione nel nostro Paese. La formazione in questo campo riguarda prioritariamente l’apprendimento della lingua italiana e l’acquisizione di un titolo di studio, ma deve estendersi anche alla sicurezza dei luoghi di lavoro.
Da incentivare anche i meccanismi di selezione e formazione all’estero già previsti dalla normativa vigente (art. 23 del TU).
Infine, la settima sezione introduce misure volte a combattere il lavoro nero, in particolare delle donne, e l’economia sommersa il cui contrasto costituisce ormai un’esigenza “non più procrastinabile”.
Tra le misure previste si segnalano le seguenti:
§ il coordinamento degli organismi preposti al controllo ispettivo (Direzioni regionali e provinciali del lavoro, enti previdenziali);
§ l’applicazione agli immigrati di programmi e modelli di prevenzione del lavoro nero già sperimentati dal Ministero del lavoro;
§ l’attuazione delle disposizioni in materia previste nella legge finanziaria 2007;
§ la previsione di una strategia specificatamente mirata alla protezione della salute e della sicurezza degli immigrati stranieri.
Il capitolo 2, suddiviso in 12 sezioni, prefigura un percorso di integrazione coerente con quanto proposto in ambito europeo[223], individuando interventi normativi ed obiettivi specifici da conseguire attraverso un approccio integrato in grado di comprendere i differenti ambiti della vita degli stranieri.
La prima sezione è dedicata all’accesso alla cittadinanza e al permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, considerati momenti fondamentali del processo di integrazione.
Nella seconda e terza sezione il documento rileva come l’equiparazione tra cittadini e stranieri abbia fatto notevoli progressi in materia di godimento dei diritti sociali mentre proceda ancora fra molte cautele nell’ambito dei diritti politici. In tal senso, vengono considerati di grande importanza, oltre al riconoscimento del diritto di voto alle elezioni amministrative la creazione o il rafforzamento di organismi in grado di consentire la partecipazione degli stranieri alla vita delle comunità di residenza, locale e nazionale.
La Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie (art, 42, co.4, del T.U.) costituirà in tal senso lo strumento attraverso il quale rafforzare il dialogo con gli enti e le associazioni nazionali attive nel settore, affiancata altresì dalla neocostituita Consulta giovanile per il pluralismo religioso e culturale[224].
Grande spazio è dedicato (nella quarta sezione) ai Consigli territoriali per l’immigrazione, previsti dall’art. 3 del testo unico, istituiti a livello provinciale presso le Prefetture. L’azione di monitoraggio svolta dal Ministero dell’interno ha evidenziato come tali organismi siano in grado di assicurare il coordinamento necessario a promuovere la rete di relazioni ed interventi fra centro e periferia, fondamentale fra l’altro per la determinazione delle quote di ingresso dei lavoratori extracomunitari.
La quinta sezione è dedicata agli interventi per la famiglia nonché ai ricongiungimenti familiari,la cui disciplina è stata innovata dal D. Lgs. 5/2007. Il documento sottolinea come, in Italia, negli ultimi anni sia stato registrato un forte incremento delle famiglie immigrate (nel triennio 2004-2006 si è avuto un aumento, pari al 30,94%, dei visti per ricongiungimento familiare emessi da tutta la rete estera). A fronte di tale dato, e degli incrementi registrati nel numero dei nati stranieri e dei minori stranieri presenti sul territorio nazionale, si ritiene indispensabile che le famiglie immigrate, “promotrici del processo di inclusione sociale degli stranieri”, possano fruire degli interventi indirizzati alle famiglie in difficoltà, da individuare attraverso il primo Piano nazionale, finanziato, come stabilito dalla legge finanziaria 2008[225], con le risorse del Fondo per la Famiglia, d’intesa con le amministrazioni statali competenti e la Conferenza Unificata.
Tra le misure specificamente previste per i nuclei familiari stranieri, rivestono grande importanza quelle relative alla promozione della conoscenza dei servizi sanitari e socio-educativi presenti sul territorio e l’inserimento nell’organico dei consultori (della cui disciplina è prevista una riforma) della figura dei mediatori culturali nonché la formazione di operatori preposti alle relazioni con i cittadini stranieri. Verrà inoltre definito un piano d’intervento per promuovere l’informazione e il sostegno delle donne e delle loro famiglie prima e dopo il parto. Infine, per agevolare lo scambio tra le famiglie di diverse culture, immigrate e non, nei comuni, per tramite delle Regioni, dovranno essere attuate azioni di prossimità (ricorso all’accompagnamento o ad azioni di mediazione territoriale).
La sesta sezione è dedicata ai minori stranieri non accompagnati, la cui presenza sul territorio, secondo dati aggiornati al febbraio 2007, risulta pari a circa 6000. Il documento rileva come la normativa in materia appaia ormai inadeguata a corrispondere all’esigenze di protezione e tutela di una categoria di stranieri particolarmente vulnerabile e purtroppo soggetta ai fenomeni di reclutamento delle organizzazioni criminali.
Si prevede pertanto l’introduzione di disposizioni di vario genere, prima fra tutte la riduzione dei limiti temporali di permanenza dei minori sul territorio nazionale e di frequenza a un progetto di integrazione sociale e civile, necessari, a legislazione vigente, per la conversione, al compimento della maggiore età, del permesso di soggiorno per minore età in altre tipologie di permesso, comprendendo quella per accesso al lavoro.Inoltre, l’aumento della presenza di minori provenienti da aeree geografiche a rischio, rende opportuno “un processo di innovazione, nella composizione, nelle procedure, e nelle modalità di funzionamento del Comitato per minori stranieri”, unitamente all’impostazione di un Programma nazionale che regoli nello specifico i singoli ambiti di intervento.
Il documento, nella settima sezione, indica poi misure per le seconde generazioni, finalizzate ad assicurare loro pari opportunità di accesso alla formazione, all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale: l’integrazione delle seconde generazioni è considerata cruciale per la tenuta del tessuto sociale del paese e per la sua evoluzione verso forme mature di pluralismo.
Alla salute è dedicata l’ottava sezione, che rende conto della già ottima situazione dell’assistenza sanitaria prestata agli stranieri nel nostro paese, da questo punto di vista fra i più garantisti del panorama europeo.
L’obiettivo fissato dal documento programmatico è dunque quello di rafforzare, con azioni concordate fra lo Stato e gli enti locali, una politica di piena parità fra stranieri e cittadini italiani ponendo in essere correttivi quali il coordinamento delle politiche sanitarie regionali, la prevenzione e il contrasto di pratiche quali la mutilazione genitale femminile, la promozione di campagne informative sul SSN, ponendo particolare attenzione a donne e minori e intensificando i controlli sanitari nei centri di permanenza temporanea e nelle carceri.
Nella nona sezione il documento illustra le politiche relative all’integrazione scolastica e all’educazione interculturale. I dati rivelano come la presenza degli alunni stranieri sia in progressivo aumento nel segmento delle scuole superiori, più elevata nel centro e nel nord del paese ma diffusa sia nei grandi che nei piccoli centri; conseguentemente gli elementi di criticità individuati risultano la polarizzazione degli alunni stranieri in alcuni istituti scolastici e la novità della loro maggiore presenza nelle scuole superiori.
Gli interventi proposti riguardano pertanto la formazione dei dirigenti scolastici e di tutto il personale delle scuole ad alta presenza di alunni stranieri, da affrontare attraverso un Piano nazionale per la formazione, da definire d’intesa con gli uffici scolastici regionali, gli enti locali, le università e in collaborazione con i centri interculturali e le associazioni del terzo settore.
Ampio spazio è dedicato all’insegnamento dell’italiano, posto al centro dell’azione didattica scolastica ma considerato fondamentale anche come percorso formativo da offrire alle famiglie, con particolare attenzione alle donne, soggetti con scarse occasioni di interazione sociale, ma fondamentali per il coinvolgimento nei processi decisionali che riguardano i figli.
Il documento infine rimanda alla necessità di rivisitare i curricula scolastici alla luce delle diverse e molteplici appartenenze culturali degli alunni, tenendo anche conto delle strategie adottate dagli altri paesi europei.
La decima sezione del documento è dedicata alle attività sportive. Attualmente, la normativa vigente disciplina solo l’ingresso degli sportivi che svolgono la loro attività a livello professionistico, prevedendo quale presupposto per il soggiorno sul territorio italiano, un contratto di lavoro; in quest’ambito diviene quindi di particolare importanza la previsione di un permesso anche per gli sportivi che praticano attività dilettantistica nelle numerose discipline che non appartengono alle attività sportive professionistiche (nuoto, pallavolo, baseball, etc.), approfondendo la percorribilità dell’istituzione di un visto per attività sportiva dilettantistica.
L’undicesima sezione è dedicata al riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche professionali: viene proposta l’istituzione di un nuovo certificato attestante il livello, sostitutivo delle dichiarazioni di equipollenza e di riconoscimento.
La dodicesima sezione concerne infine le politiche abitative. Il documento rileva come la questione abitativa sia un problema strutturale avvertito da tutte le fasce più deboli della popolazione – indipendentemente dalla cittadinanza – sia per la povertà dell’offerta di edilizia residenziale pubblica che per la scarsezza di alloggi privati in affitto a canoni accessibili. Premesso che non appare opportuno affrontare la questione separando e individuando percorsi diversi per i cittadini e gli immigrati, il documento segnala l’esigenza di percorsi d’accesso orientati all’accompagnamento all’abitare per le fasce deboli, soprattutto in talune aree metropolitane più esposte al degrado e alla marginalizzazione; quanto agli immigrati, occorrerà tener conto delle tipologie di ingresso e di composizione del nucleo familiare: lavoratori stagionali e lavoratori fissi non accompagnati dal nucleo familiare (creazione di centri di accoglienza, alloggi sociali in forma di pensionato, etc.) o lavoratori fissi che vivano con il proprio nucleo familiare (forme di credito ad hoc, forme di garanzia per i piccoli proprietari che intendano affittare agli immigrati, sportelli informativi).
Il terzo capitolo si articola in sette sezioni: le prime quattro forniscono indicazioni di massima relativamente ai fenomeni legati alla percezione della discriminazione con particolare riguardo all’origine etnica. Il monitoraggio dei fenomeni di esclusione sociale viene ritenuto fondamentale per l’individuazione di azioni positive che favoriscano una piena collaborazione delle istituzioni con le parti sociali. Viene pertanto sottolineata l’importanza che si proceda ad indagini sistematiche di tipo multiscopo ed ad analisi statistiche, cercando di favorire il più possibile l’emersione su tutti gli aspetti della discriminazione, violenze e crimini razzisti e xenofobi.
D’altra parte, viene ribadita la necessità che il principio della parità e delle pari opportunità divenga parte integrante del patrimonio culturale ed educativo.
La quinta sezione del documento esamina sinteticamente i nodi problematici legati al mondo del lavoro, all’alloggio, all’accesso al credito, all’attività sportiva e alla rappresentazione mediatica del mondo dell’immigrazione, indicando al contempo le possibile linee di intervento.
La sesta sezione è dedicata all’integrazione dei Rom e dei Sinti: l’ingresso nell’Unione europea della Romania, paese da cui tradizionalmente tali popolazioni provengono, fa ragionevolmente presumere che la loro presenza si rafforzerà nel tempo, rendendo necessari interventi mirati alla risoluzione delle criticità legate alla gestione dei cosiddetti “campi sosta”, nonché alle situazioni di disagio abitativo, devianza, accesso ai servizi sociali e all’istruzione, e a contrastare le discriminazioni. Si ritiene necessario che una strategia mirata di intervento si avvalga dell’apporto delle associazioni impegnate nella tutela dei diritti di tali minoranze.
La settima sezione sottolinea l’importanza di utilizzare strumenti di azione e mezzi di intervento finalizzati al rafforzamento diffuso della consapevolezza dei diritti e delle regole. In tale prospettiva, il documento ritiene fondamentale instaurare uno stretto legame con il mondo dell'associazionismo, partendo dai luoghi della vita quotidiana, attraverso la costituzione di piccoli gruppi sostenuti dalle pratiche della mediazione interculturale.
Il capitolo 4, ripartito in cinque sezioni, prende in esame le questioni relative alle politiche europee di contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani. Queste si ispirano alla duplice necessità di
§ rafforzare la gestione integrata delle frontiere esterne;
§ promuovere la cooperazione con i Paesi di origine e transito dell’immigrazione.
Nella prima sezione sono illustrate le iniziative in ambito comunitario, alle quali partecipa anche l’Italia, che sono state assunte più di recente o che sono in corso di realizzazione.
La seconda sezione riguarda le misure di espulsione. Tra gli interventi da attuare al riguardo si prevede di:
§ rendere effettive le espulsioni, graduando le misure di intervento e incentivando la collaborazione degli immigrati irregolari;
§ predisporre programmi di rimpatrio volontario e assistito, rivolti anche a immigrati non espulsi, privi dei mezzi di sussistenza, finanziati da un Fondo nazionale rimpatri, in cui confluiscono i contributi corrisposti dai datori di lavoro e dagli sponsor (enti o singoli cittadini), che garantiscono l’ingresso degli stranieri;
§ differenziare la durata del divieto di reingresso per gli stranieri espulsi, tenendo conto della loro partecipazione ai programmi di rimpatrio o dei motivi dell’espulsione e prevedere un meccanismo deterrente graduale, in funzione della gravità e della reiterazione delle violazioni e dei motivi dell’espulsione.
La terza sezione enuncia le linee guida per la modifica sostanziale della disciplina dei Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPT), nel senso di:
§ rivedere le caratteristiche strutturali e gestionali dei CPT:
- limitando il tempo di trattenimento degli stranieri irregolari al minimo necessario,
- applicando misure di sicurezza proporzionate alle finalità,
- individuando forme di gestione in collaborazione con gli enti locali, le ASL e le associazioni umanitarie,
- fornendo informazioni agli immigrati sulle procedure per ottenere l’asilo, sulla normativa in materia di tratta e di grave sfruttamento del lavoro, sulle modalità di ingresso regolare e sui programmi di rimpatrio;
§ prevedere l’esclusiva destinazione delle strutture per le espulsioni al trattenimento degli stranieri da espellere che si sono sottratti all’identificazione, riducendo il periodo di permanenza e utilizzando le stesse strutture per gli stranieri identificati, quando non è possibile eseguire immediatamente l’espulsione;
§ garantire maggiore trasparenza all’attività svolta nei CPT rivedendo la disciplina dell’accesso a tali strutture.
Nella quarta sezione il documento propone una serie di azioni per contrastare la tratta di esseri umani.
Tra queste, si segnala l’introduzione, a livello normativo, della possibilità di ricongiungimento familiare per le vittime di tratta alle quali sia stato rilasciato il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale: ciò consentirebbe di evitare ritorsioni nei confronti dei familiari rimasti nei Paesi d’origine e di favorire la collaborazione con le Forze di polizia.
Per le vittime della tratta e dello sfruttamento minori di 18 anni (sovente impiegati nell’accattonaggio e nel lavoro clandestino) devono essere previste misure specifiche che garantiscano loro il diritto allo studio e l’assistenza psicologica specializzata; si intende inoltre valutare la possibilità di dotare tutti i minori presenti sul territorio di un documento di riconoscimento elettronico, per evitare che i membri delle organizzazioni criminali si dichiarino parenti del minore. Per i minori sprovvisti di qualunque documento di identità, si dovrà attivare una procedura per l’accertamento dell’età, fermo restando, nel dubbio, il principio di presunzione della minore età.
Si dovranno inoltre adeguare le risorse finanziarie per i programmi di assistenza alle vittime di tratta, rilanciare una politica per il rientro volontario assistito e promuovere un “sistema europeo” di politiche di contrasto della tratta. Si intende modificare il quadro sanzionatorio per reprimere più efficacemente il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
La quinta sezione indica gli obiettivi che il Governo intende perseguire nel campo della cooperazione di polizia con i Paesi da cui hanno origine o transitano rilevanti flussi di immigrazione irregolare per realizzare iniziative di collaborazione operativa, nel quadro di accordi formali già conclusi o in via di perfezionamento, e per attuare i programmi già intrapresi di assistenza tecnica con la fornitura di mezzi e con attività di formazione.
Nella prima sezione, delle tre di cui si compone il capitolo, si ribadisce che il partenariato con i Paesi di origine e di transito resta, nell’ottica italiana, lo strumento d’azione privilegiato a disposizione dell’Unione europea, in grado di garantire un’ordinata gestione delle migrazioni con beneficio di tutti i Paesi interessati (di origine, di transito, di destinazione) oltre che degli stessi migranti. Per questo motivo, l’Italia continuerà ad impegnarsi in sede comunitaria nella promozione di iniziative di cooperazione nel campo dell’immigrazione.
La seconda sezione si diffonde sugli accordi bilaterali in materia di:
§ regolamentazione e gestione dei flussi di lavoro, che consentono di rafforzare i canali di ingesso regolare e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro;
§ minori non accompagnati, al fine di prevenire il fenomeno, agevolare il rimpatrio assistito e il reinserimento familiare e sociale dei minori rientrati in patria;
§ riammissione: l’obiettivo è di trasformare tali accordi in accordi generali in materia migratoria che prevedano percorsi di ingressi legali, programmi di rimpatrio volontario e di reintegrazione nel Paese di provenienza, forme di immigrazione circolare e di utilizzo produttivo delle rimesse degli immigrati;
§ movimento temporaneo di personale qualificato, per semplificare le procedure per gli ingressi collegati alla fornitura di specifici servizi nel quadro di accordi commerciali internazionali (distacchi intra-societari, visitatori d’affari, tirocinanti laureati, prestatori di servizi su contratto, professionisti indipendenti, etc.);
§ salute e scienze mediche, con l’obiettivo di favorire lo scambio di informazioni ed esperienze tra i sistemi sanitari e il trasferimento di conoscenze e tecnologie nel settore della ricerca;
§ prevenzione e contrasto alla tratta di esseri umani, accrescendo l’impegno per la ratifica degli atti internazionali sulla tutela dei diritti fondamentali e in particolare della Convenzione di Varsavia del 2005 in materia di azioni contro il traffico di esseri umani.
La terza sezione dà conto delle strategie di cooperazione allo sviluppo mirate, tra l’altro, a sostenere il consolidamento della democrazia, la riduzione della povertà, lo sviluppo economico nei Paesi di origine dei flussi migratori, stimolando le capacità produttive.
Nel quadro dell’impegno dei maggiori Paesi industrializzati per incentivare l’utilizzo produttivo delle rimesse dei lavoratori immigrati, assumono rilievo le azioni volte a ridurre i costi di transazione delle rimesse, allo scopo di favorire l’investimento nei Paesi di provenienza.
Il capitolo 6 si articola in quattro sezioni.
La prima sezione illustra le principali iniziative assunte in ambito comunitario in materia di riconoscimento del diritto di asilo.
Particolare rilievo viene dato al recente recepimento da parte dell’Italia di due direttive, la 2004/83/CE, attuata con il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, sulle norme minime per l'attribuzione della qualifica di rifugiato e per il contenuto della protezione riconosciuta, e la 2005/85/CE, concernente le procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato.
Nel documento si individua l’obiettivo della predisposizione di un testo unico sul diritto di asilo, che dia un assetto ordinamentale organico alla materia.
La seconda sezione delinea un quadro della normativa interna concernente i centri di identificazione, il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati e il Piano nazionale di accoglienza per i minori non accompagnati richiedenti asilo.
Nella terza sezione, dedicata alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato, si evidenzia la diminuzione complessiva delle istanze di asilo, a fronte di un costante aumento delle decisioni di riconoscimento di protezione umanitaria, segno della crescente attenzione prestata dall’Italia a questo tema.
La quarta sezione, infine, ha per oggetto il regolamento (CE) 343/2003 (c.d. Regolamento Dublino II).
L’Italia si propone di migliorare il funzionamento delle procedure previste da tale regolamento con particolare riferimento a:
§ l’esame delle domande di asilo;
§ il riconoscimento al richiedente asilo della facoltà di rimanere nello Stato membro fino al momento in cui non sia stata assunta la decisione relativa all’effetto sospensivo, armonizzando le differenze ora esistenti nell’interpretazione da parte dei singoli Stati della nozione di rifugiato e dell’applicazione;
§ il rispetto del principio dell’unità familiare.
Sul tema del diritto di asilo, si vedano anche i capitoli Status di rifugiato e diritto di asilo e Attività UE: immigrazione e asilo, nel dossier 1/1, parte seconda.
Il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5, Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare, modifica l’istituto del ricongiungimento familiare degli stranieri non comunitari semplificandone le procedure ed eliminando alcune condizioni limitative al suo esercizio.
Il decreto è stato adottato in virtù della norma di delega conferita al Governo nell’art. 1, commi 1 e 3, della L. 62/2005 (legge comunitaria 2004)[226]; per effetto di tali disposizioni lo schema preliminare del decreto è stato sottoposto preventivamente al parere delle competenti Commissioni parlamentari. Si segnala peraltro che lo schema è stato presentato oltre il termine per il recepimento della direttiva, fissato dalla direttiva stessa al 3 ottobre 2005.
La I Commissione (Affari costituzionali) della Camera ha reso parere favorevole il 18 ottobre 2006, mentre la 1ª Commissione (Affari costituzionali) del Senato non ha espresso il prescritto parere.
Il decreto legislativo apporta al testo unico sull’immigrazione (D.Lgs. 286/1998[227]) le modifiche e le integrazioni necessarie per il recepimento della direttiva 2003/86/CE, del Consiglio dell’Unione europea, in materia di diritto al ricongiungimento familiare da parte dei cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti nel territorio degli Stati membri.
Il provvedimento incide in primo luogo sulle disposizioni del testo unico che garantiscono il diritto all’unità familiare e dettano le condizioni per i ricongiungimenti familiari (artt. 28-30); tuttavia, le modifiche al testo unico riguardano anche altri aspetti: il pieno adeguamento alla direttiva comunitaria comporta infatti una ricaduta anche sulla disciplina in materia di ingresso nel territorio dello Stato (art. 4); permesso di soggiorno (art. 5); espulsione amministrativa (art. 13). La disciplina relativa a tali istituti viene integrata con l’obiettivo di introdurvi specifiche fattispecie applicabili in caso di ricongiungimenti familiari.
In attuazione del dettato comunitario, viene inoltre introdotto un articolo aggiuntivo (art. 29-bis) concernente specificamente il ricongiungimento familiare dei rifugiati.
Nel dettaglio, l’articolo 1 dello schema di decreto reca le finalità del provvedimento in esame, consistenti, come si diceva, nell’adeguamento della normativa italiana alla direttiva comunitaria 2003/86/CE in materia di esercizio del diritto di ricongiungimento familiare da parte degli stranieri residenti regolarmente sul territorio degli Stati membri.
L’articolo 2 reca al D.Lgs. 286/1998 le modifiche di seguito illustrate.
Il comma 1, lett. a), aggiunge un periodo all’art. 4, comma 3, del testo Unico sull’immigrazione, che disciplina l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato italiano.
Nel nuovo periodo si precisa che gli stranieri per i quali è richiesto il ricongiungimento familiare non sono ammessi nel nostro Paese quando rappresentino una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato italiano o di uno dei Pesi dell’area Schengen, con i quali l’Italia ha sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone.
Per effetto della novella, le ipotesi in cui le richieste di ricongiungimento familiare possono essere respinte vengono circoscritte alle motivazioni sopra enunciate (minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato), laddove, precedentemente, anche tali richieste rientravano nella disciplina generale di cui al comma 3 dell’art. 4 che prevede ulteriori cause ostative all’ingresso nel territorio dello Stato: esso infatti è automaticamente interdetto in caso di condanna – anche a seguito di patteggiamento – ad una serie di gravi reati. Si tratta, innanzitutto, dei reati particolarmente gravi per i quali la legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza (ai sensi dell’art. 380, commi 1 e 2 del codice di procedura penale) nonché di una serie di reati, riconducibili direttamente o indirettamente al fenomeno migratorio (sono quelli inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento delle migrazioni clandestine, lo sfruttamento della prostituzione e lo sfruttamento dei minori).
La lettera b) apporta due modifiche all’art. 5 del testo unico, che reca la disciplina del permesso di soggiorno, incidendo, in particolare, sul procedimento con il quale viene disposto il rifiuto del rilascio, la revoca o il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno.
Ai sensi dell’art. 5, co. 5, il rifiuto, la revoca o il diniego di rinnovo sono disposti in assenza dei requisiti per l’ingresso e per il soggiorno nel territorio dello Stato, sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili.
I requisiti per l’ingresso sono contenuti principalmente nell’art. 4, co. 3, di cui si è detto. In particolare, per i familiari ricongiunti rileva, ai fini del loro ingresso, il requisito di non costituire una minaccia per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato. Mentre per quanto riguarda i requisiti per il soggiorno, si ricorda che il permesso di soggiorno è rilasciato agli stranieri entrati regolarmente e, per i lavoratori, è subordinato alla stipula con il datore di lavoro del contratto di soggiorno per lavoro (art. 5 e 5-bis).
Per effetto della prima modifica, nella decisione su un provvedimento di rifiuto, revoca o diniego del rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto, si dovrà effettuare una valutazione che tenga conto dei seguenti aspetti:
§ natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato;
§ esistenza di legami familiari e sociali con il Paese d’origine;
§ durata del soggiorno nel territorio nazionale (ciò vale, evidentemente, soltanto per lo straniero che vi è già presente).
Come evidenziato nella relazione illustrativa del Governo sullo schema di decreto presentato alle Camere per il parere, la disposizione innova fortemente la disciplina nazionale sui permessi di soggiorno, poiché introduce un elemento di valutazione discrezionale in sede di decisione sul rifiuto, sulla revoca o sul diniego di rinnovo del medesimo, in caso di ricongiungimento familiare, in precedenza definita in modo automatico in base ad un elemento oggettivo (ossia la mancanza dei requisiti necessari).
Viene così a crearsi una doppia procedura in materia di permesso di soggiorno: per coloro che non hanno esercitato il diritto al ricongiungimento familiare vale la disciplina generale per cui la revoca e il rinnovo sono subordinati unicamente alla presenza dei requisiti di legge, mentre per gli stranieri che hanno ottenuto il ricongiungimento e per i loro congiunti si introduce anche una valutazione discrezionale.
Tale innovazione recepisce una precisa disposizione contenuta nella direttiva 2003/86/CE che all’articolo 17 prevede: “In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d'origine”.
Un ulteriore motivo di diniego del ricongiungimento familiare è individuato dal provvedimento in esame nell’ipotesi di accertamento che il matrimonio o l’adozione abbiano avuto luogo unicamente per permettere l’ingresso o il soggiorno dell’interessato (si veda oltre il nuovo comma 9, dell’art. 29 TU e la modifica all’art. 30).
La seconda modifica chiarisce quali tipi di reati contro l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica debbano essere presi in considerazione ai fini della valutazione in ordine al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari (disciplinato dall’art. 30 del TU): si tratta dei reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (di cui all’art. 12, co. 1 e 3 del TU) e di quei reati particolarmente gravi (omicidio, sequestro, associazione mafiosa ecc.) per i quali la legge prevede una durata massima delle indagini preliminari di due anni in luogo di 18 mesi (ai sensi dell’art. 470, co. 2 del codice di procedura penale).
Tale modifica accoglie sostanzialmente un’osservazione formulata nel corso dell’esame al Senato con la quale si invitava il Governo a prevedere “un riferimento alle tipologie di reati contro l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica in presenza dei quali si orienta la valutazione ai fini della revoca o del rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari”[228].
La lettera c) introduce due novelle all’art. 13 del testo unico, che regola l’espulsione amministrativa dello straniero.
Con la primanovella, si inserisce nel corpo dell’articolo un comma 2-bis ai sensi del quale – parallelamente a quanto disposto dalla precedente lettera b) – anche per l’adozione del provvedimento di espulsione dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto si deve effettuare una valutazione discrezionale che tenga conto di alcuni elementi di fatto, ovvero:
§ natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato;
§ esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine;
§ durata del soggiorno nel territorio nazionale.
È importante evidenziare che tale valutazione – che anche in questo caso comporta un freno all’automatismo dell’espulsione e introduce un elemento di discrezionalità nel giudizio – può essere fatta unicamente nei casi in cui l’espulsione è disposta perché lo straniero ha violato le norme sull’ingresso o sul soggiorno nel nostro paese e vi soggiorna illegalmente (ai sensi dell’art. 13, co. 2, lett. a) e b) del T.U.); mentre è preclusa nei casi “più gravi”, in cui l’espulsione derivi dall’appartenenza dello straniero alle categorie di persone che la legge ritiene pericolose per la sicurezza e la moralità pubblica[229] oppure dall’affiliazione ad associazioni di tipo mafioso[230] (art. 13, co. 2 lett. c), così come è preclusa nel caso di espulsione disposta dal giudice nell’ambito del procedimento penale.
La seconda novella incide sul comma 13 dell’art. 13, che sancisce il divieto, per lo straniero espulso, di rientrare nel territorio italiano senza una speciale autorizzazione del ministro dell’interno e, in caso di trasgressione, prevede la reclusione da uno a quattro anni e una nuova espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera.
La disposizione in esame esclude l’applicazione del divieto di reingresso allo straniero espulso per il quale sia stato autorizzato il ricongiungimento, sempre se l’espulsione era stata disposta per aver violato le norme sull’ingresso o sul soggiorno nel nostro paese.
Viene quindi eliminato l’automatismo relativo al divieto di reingresso nel territorio italiano che vige per gli stranieri espulsi; ciò significa che il ricongiungimento non potrà essere negato solamente per il fatto che il familiare è stato già destinatario di un decreto di espulsione per ingresso o soggiorno clandestino nel nostro Paese, ferma restando la valutazione della pericolosità dello straniero per l’ordine pubblico e la sicurezza.
La lettera d) sostituisce il comma 1 dell’art. 28 del testo unico che sancisce il diritto a mantenere o a riacquistare unità familiare degli stranieri regolarmente soggiornanti sul nostro territorio.
In particolare, il diritto è riconosciuto agli stranieri titolari di permesso di soggiorno CE (per i soggiornanti di lungo periodo) o di permesso di soggiorno rilasciato per lavoro subordinato o autonomo, per asilo, per studio o per motivi religiosi e, come aggiunto dal provvedimento in esame, anche ai titolari di permesso di soggiorno per motivi familiari.
Viene così recepito l’orientamento della giurisprudenza che ha riconosciuto il diritto a chiedere il ricongiungimento familiare non solamente allo straniero titolare di permesso di soggiorno, rilasciato per lavoro subordinato o autonomo ovvero per asilo, studio o motivi religiosi, ma anche allo straniero in possesso di permesso di soggiorno per motivi familiari, in base al fatto che quest'ultimo ha la stessa durata del permesso di soggiorno del familiare che ha ottenuto il ricongiungimento, è, inoltre, rinnovabile con esso e consente lo svolgimento delle stesse attività. I due tipi di permessi di soggiorno dunque attribuiscono facoltà analoghe se non identiche, e pertanto un trattamento giuridico differenziato non sarebbe costituzionalmente legittimo[231]. Peraltro, tale orientamento è stato già accolto nella prassi amministrativa che ammette gli stranieri in possesso di un titolo di soggiorno per motivi familiari alla richiesta di ricongiungimento familiare, purché in possesso di tutti gli altri requisiti previsti dall'art. 29 del TU[232].
La lettera e) sostituisce l’art. 29 del testo unico che regola le condizioni per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare.
La relazione governativa allo schema di decreto dichiara che le modifiche apportate all’art. 29 incidono “su alcune condizioni che limitavano o appesantivano ingiustificatamente l’esercizio del diritto, anche perché rilevatasi di difficile accertamento nella prassi applicativa”, nel dichiarato obiettivo di “semplificare le relative procedure”.
La nuova disciplina non amplia il numero delle categorie di familiari per i quali è possibile chiedere il ricongiungimento familiare ma elimina talune limitazioni o condizioni presenti nel testo previgente (art. 29, co. 1).
Per il coniuge viene eliminata la condizione di non sussistenza della separazione legale, in quanto tale istituto non è presente in alcuni ordinamenti. Il legislatore delegato non ha ritenuto di includere nel novero dei familiari anche il partner non coniugato, come pure era possibile in via facoltativa ai sensi dell’art. 4, comma 3 della direttiva.
Viene eliminato il requisito di familiari a carico per i figli minori, che è da considerarsi implicito.
Per i figli maggiorenni a carico non viene più richiesta l’invalidità totale ai fini del ricongiungimento, sostituita dall’impossibilità di provvedere a sé stessi.
Infine, per i genitori si è eliminata la necessità di accertare o la non esistenza di altri figli nel Paese di origine, ovvero, per genitori ultrasessantacinquenni, l’impossibilità di provvedere al loro sostentamento da parte di altri figli per documentati gravi motivi di salute. Tali ipotesi sono state sostituite dall’unico requisito di non disporre di un adeguato sostegno familiare nel Paese di origine.
Rispetto alla normativa previgente si segnalano gli ulteriori elementi di novità concernenti:
§ il computo della minore età dei figli, riferito al momento della presentazione dell’istanza di ricongiungimento (art. 29, co. 2);
§ il requisito della disponibilità di un alloggio, le cui caratteristiche di idoneità sono riferite non solo ai parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ma, in alternativa, ai requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’ASL competente (ciò oltre ad evitare disparità di trattamento di regione in regione, eleva a norma di legge una disposizione già contenuta nel regolamento di attuazione[233]);
§ il requisito del reddito minimo occorrente, che in presenza di figli infraquattordicenni viene diminuito, ciò per favorire il ricongiungimento dei figli minori;
§ la soppressione dei commi 5 e 9 la cui disciplina, relativa ai cittadini comunitari, è superata dall’entrata in vigore del relativo testo unico (DPR 54/2002, poi sostituito dal D.Lgs. 30/2007 (sul quale si può consultare il capitolo Diritto di circolazione dei cittadini UE,nel dossier 1/1, parte seconda);
§ l’introduzione (al nuovo comma 6) di un “permesso per assistenza minore”, che consente l’esercizio di un’attività lavorativa al familiare di minore presente nel territorio italiano che, ai sensi dell’art. 31, co. 3, del TU, sia stato autorizzato a permanere sul territorio nazionale dal Tribunale per i minorenni (per un periodo di tempo determinato ed anche in deroga alle altre disposizioni del T.U.), per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore;
§ le modalità di presentazione della richiesta di ricongiungimento e le procedure di rilascio del relativo nulla osta, affidando alle autorità consolari il compito di verificare la veridicità dello stato di parentela e allo sportello unico per l’immigrazione quello di verificare i requisiti di reddito ed alloggio (art. 29, co. 7);
§ l’introduzione di un motivo di reiezione della richiesta di ricongiungimento in caso di accertamento che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo esclusivamente per eludere le norme sull’ingresso e il soggiorno (art. 29, co. 9, che recepisce l’art. 16, co. 2, lett. b) della direttiva);
§ l’esclusione della possibilità di richiedere il ricongiungimento familiare per coloro che sono in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, e per quelli destinatari di misure di protezione temporanea (art. 20 TU e D.lgs. 85/2003[234]) o titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 5, co. 6 TU).
Per un analitico esame delle novità introdotte dall’articolo, si veda il testo a fronte che segue.
Testo previgente |
Testo modificato dal D.Lgs. 5/2007 |
Art.
29. |
Art.
29. |
1. Lo straniero può chiedere il ricongiungimento per i seguenti familiari: |
1. Identico |
a) coniuge non legalmente separato; |
a) coniuge; |
b) figli minori a carico, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati ovvero legalmente separati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso; |
b) figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso; |
b-bis) figli maggiorenni a carico, qualora non possano per ragioni oggettive provvedere al proprio sostentamento a causa del loro stato di salute che comporti invalidità totale; |
c) figli maggiorenni a carico, qualora permanentemente non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute; |
c) genitori a carico qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza ovvero genitori ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di salute; |
d) genitori a carico che non dispongano di un adeguato sostegno familiare nel Paese di origine o di provenienza. |
d) [lettera abrogata dall’art. 23, co. 1, L. 189/2002]. |
|
2. Ai fini del ricongiungimento si considerano minori i figli di età inferiore a 18 anni. I minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli. |
2. Ai fini del ricongiungimento si considerano minori i figli di età inferiore a diciotto anni al momento della presentazione dell’istanza di ricongiungimento. I minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli. |
3. Salvo che si tratti di rifugiato, lo straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità: |
3. Salvo quanto previsto dall’articolo 29-bis, lo straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità: |
a) di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ovvero, nel caso di un figlio di età inferiore agli anni 14 al seguito di uno dei genitori, del consenso del titolare dell’alloggio nel quale il minore effettivamente dimorerà; |
a) di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’Azienda unità sanitaria locale competente per territorio. Nel caso di un figlio di età inferiore agli anni quattordici al seguito di uno dei genitori, è sufficiente il consenso del titolare dell’alloggio nel quale il minore effettivamente dimorerà; |
b) di un reddito annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di un solo familiare, al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di due o tre familiari, al triplo dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di quattro o più familiari. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il richiedente. |
b) di un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di un solo familiare, al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di due o tre familiari, al triplo dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di quattro o più familiari. Per il ricongiungimento di due o più figli di età inferiore agli anni quattordici è richiesto, in ogni caso, un reddito minimo non inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il richiedente. |
4. È consentito l’ingresso, al seguito dello straniero titolare di carta di soggiorno o di un visto di ingresso per lavoro subordinato relativo a contratto di durata non inferiore a un anno, o per lavoro autonomo non occasionale, ovvero per studio o per motivi religiosi, dei familiari con i quali è possibile attuare il ricongiungimento, a condizione che ricorrano i requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito di cui al comma 3. |
4. Identico |
5. Oltre a quanto previsto dall’articolo 28, comma 2, è consentito l’ingresso, al seguito del cittadino italiano o comunitario, dei familiari con i quali è possibile attuare il ricongiungimento. |
[soppresso]. |
6. Salvo quanto disposto dall’articolo 4, comma 6, è consentito l’ingresso, per ricongiungimento al figlio minore regolarmente soggiornante in Italia, del genitore naturale che dimostri, entro un anno dall’ingresso in Italia, il possesso dei requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito di cui al comma 3. |
5. Identico |
|
6. Al familiare autorizzato all’ingresso ovvero alla permanenza sul territorio nazionale ai sensi dell’articolo 31, comma 3, è rilasciato, in deroga a quanto previsto dall’articolo 5, comma 3-bis, un permesso per assistenza minore, rinnovabile, di durata corrispondente a quella stabilita dal Tribunale per i minorenni. Il permesso di soggiorno consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in permesso per motivi di lavoro. |
7. La domanda di nulla osta al ricongiungimento familiare, corredata della prescritta documentazione compresa quella attestante i rapporti di parentela, coniugio e la minore età, autenticata dall’autorità consolare italiana, è presentata allo sportello unico per l’immigrazione presso la prefettura-ufficio territoriale del Governo competente per il luogo di dimora del richiedente, la quale ne rilascia copia contrassegnata con timbro datario e sigla del dipendente incaricato del ricevimento. L’ufficio, verificata, anche mediante accertamenti presso la questura competente, l’esistenza dei requisiti di cui al presente articolo, emette il provvedimento richiesto, ovvero un provvedimento di diniego del nulla osta. |
7. La domanda di nulla osta al ricongiungimento familiare, corredata della documentazione relativa ai requisiti di cui al comma 3, è presentata allo sportello unico per l’immigrazione presso la prefettura-ufficio territoriale del Governo competente per il luogo di dimora del richiedente, il quale ne rilascia copia contrassegnata con timbro datario e sigla del dipendente incaricato del ricevimento. L’ufficio, acquisito dalla questura il parere sulla insussistenza dei motivi ostativi all’ingresso dello straniero nel territorio nazionale, di cui all’articolo 4, comma 3, ultimo periodo, e verificata l’esistenza dei requisiti di cui al comma 3, rilascia il nulla osta ovvero un provvedimento di diniego dello stesso. Il rilascio del visto nei confronti del familiare per il quale è stato rilasciato il predetto nulla osta è subordinato all’effettivo accertamento dell’autenticità, da parte dell’autorità consolare italiana, della documentazione comprovante i presupposti di parentela, coniugio, minore età o lo stato di salute. |
8. Trascorsi novanta giorni dalla richiesta del nulla osta, l’interessato può ottenere il visto di ingresso direttamente dalle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane, dietro esibizione della copia degli atti contrassegnata dallo sportello unico per l’immigrazione, da cui risulti la data di presentazione della domanda e della relativa documentazione. |
8. Identico |
9. Le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane rilasciano altresì il visto di ingresso al seguito nei casi previsti dal comma 5. |
[soppresso]. |
|
9. La richiesta di ricongiungimento familiare è respinta se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all’interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato. |
|
10. Le disposizioni del presente articolo non si applicano: |
|
a) quando il soggiornante chiede il riconoscimento dello status di rifugiato e la sua domanda non è ancora stata oggetto di una decisione definitiva; |
|
b) agli stranieri destinatari delle misure di protezione temporanea, disposte ai sensi del decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85 ovvero delle misure di cui all’articolo 20; |
|
c) nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 6. |
La lettera f) introduce nel testo unico il nuovo articolo 29-bisvolto a estendere espressamente anche ai rifugiati il diritto di ricongiungimento familiare, regolandone le modalità, in attuazione del Capo V della direttiva.
Lo straniero al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato può richiedere il ricongiungimento per le stesse categorie di familiari previste all’art. 29 e con le stesse modalità, ma è esonerato dal dover dimostrare la disponibilità dei requisiti di idoneità abitativa e finanziaria previsti in via generale dall’art. 29, co. 3 (in virtù di quanto previsto dalla direttiva: art. 12, co. 1).
Il nuovo articolo prende in considerazione l’ipotesi in cui il rifugiato non possa fornire una documentazione ufficiale a sostegno dei suoi vincoli familiari.
Ciò potrebbe accadere per diversi motivi:
§ in ragione del suo particolare status;
§ per la mancanza di un’autorità riconosciuta nel paese di origine;
§ per la presunta inaffidabilità dei documenti rilasciati dall’autorità locale, rilevata anche in sede di cooperazione consolare locale tra i Paesi di area Schengen.
In tale ipotesi si prevede che le rappresentanze diplomatiche o consolari forniscano le necessarie certificazioni sulla base di verifiche effettuate a spese degli interessati. Per provare l’esistenza del vincolo familiare è ammesso anche il ricorso ad altri mezzi, come ad esempio alla documentazione fornita da organismi internazionali ritenuti idonei dal Ministero degli esteri.
Si stabilisce comunque l’importante principio, contenuto nella direttiva comunitaria (art. 11, co. 2), per cui il rigetto della domanda di ricongiungimento non può essere motivato unicamente dall’assenza di documenti probatori.
Se, infine, il rifugiato è un minore non accompagnato, ai fini del ricongiungimento è consentito l’ingresso e il soggiorno degli ascendenti diretti di primo grado (art. 10, co. 3 della direttiva).
La lettera g) aggiunge un nuovo periodo al comma 1-bis dell’art. 30, in materia di permesso di soggiorno per motivi familiari.
Tale tipologia di permesso di soggiorno può essere rilasciato, tra gli altri allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore (così la lett. a) del co. 1 dell’art. 30 citato).
L’integrazione disposta dalla lett. g) in commento dispone che in tal caso, la richiesta di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato.
Si tratta di una norma analoga a quella introdotta all’art. 29, co. 9 che recepisce anch’essa l’art. 16, co. 2, lett. b) della direttiva.
L’articolo 3 reca una clausola di invarianza finanziaria: dall’attuazione del decreto non dovranno derivare nuovi oneri per la finanza pubblica; pertanto, gli uffici interessati dalle modifiche disposte nel decreto dovranno utilizzare le risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili secondo la legislazione vigente.
L’articolo 4 demanda a un successivo regolamento l’adozione delle norme di integrazione e attuazione del decreto legislativo, nonché l’adeguamento del vigente regolamento di attuazione del Testo unico, recato dal D.P.R. 394/1999[235], alle novità normative introdotte dal decreto legislativo.
Tale regolamento, che avrebbe dovuto essere adottato entro sei mesi dalla pubblicazione del decreto non è ancora stato emanato.
In particolare, il regolamento dovrebbe adeguare l’art. 6 del citato D.P.R. 394/2999, relativo ai visti per il ricongiungimento familiare e per i familiari al seguito.
Tuttavia l’amministrazione dell’interno ha ritenuto, con riguardo alle modalità di presentazione della richiesta di nulla osta al ricongiungimento familiare, che la nuova disciplina sia applicabile anche in assenza di provvedimenti attuativi in quanto “la procedura finora disciplinata dal regolamento di attuazione viene modificata da una norma di rango primario” volte a introdurre “sostanziali modifiche che mirano ad una razionalizzazione e conseguente semplificazione delle procedure” (si veda in particolare l’art. 29, comma 7). Inoltre, è stato chiarito che la nuova disciplina deve essere applicata anche alle istanze già acquisite e per le quali non sia stato ancora avviato l’iter istruttorio[236].
Il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo apporta al testo unico sull’immigrazione le modifiche e le integrazioni necessarie per il recepimento della direttiva 2003/109/CE, del 25 novembre 2003, del Consiglio.
Lo decreto è stato adottato in virtù della norma di delega conferita al Governo nell’art. 1, commi 1 e 3, della L. 62/2005 (legge comunitaria 2004)[237]; per effetto di tali disposizioni lo schema preliminare del decreto è anche sottoposto al parere delle competenti Commissioni parlamentari. Si segnala peraltro che lo schema è stato presentato oltre il termine per il recepimento della direttiva, fissato dalla direttiva stessa al 23 gennaio 2006.
La I Commissione (Affari costituzionali) della Camera ha espresso parere favorevole con osservazioni il 24 ottobre 2006; mentre la 1ª Commissione (Affari costituzionali) del Senato non ha espresso il prescritto parere.
L’articolo 1, in particolare, riscrive integralmente l’art. 9 del testo unico (co. 1, lett. a)), sostituendo la disciplina della carta di soggiorno ivi recata con quella del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo ed aggiunge (co. 1, lett. b)) un nuovo art. 9-bis, che definisce lo status dello straniero in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo rilasciato da un altro Stato membro.
L’art. 9 del testo unico, nella nuova riformulazione, prevede come requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo (co. 1):
§ il possesso da almeno cinque anni di un permesso di soggiorno in corso di validità (per il rilascio della carta di soggiorno era prima previsto il regolare soggiorno nel territorio dello Stato da almeno sei anni e la titolarità di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi);
§ un reddito minimo non inferiore all’assegno sociale annuo.
L'assegno sociale è una prestazione di natura assistenziale erogata dall'Inps riservata ai cittadini italiani che abbiano: 65 anni di età, la residenza in Italia, un reddito pari a zero o di modesto importo. I redditi devono essere inferiori ai limiti stabiliti ogni anno dalla legge e variano a seconda che il pensionato sia solo o coniugato. Per il 2008 tali limiti sono pari a € 5.142,67 annui se il pensionato è solo, € 10.285,34 annui se è coniugato. Sono equiparati ai cittadini italiani: gli abitanti della Repubblica di San Marino; i rifugiati politici; i cittadini di uno Stato dell'Unione europea; i cittadini extracomunitari che hanno ottenuto la carta di soggiorno. L'importo dell'assegno viene stabilito anno per anno ed è esente da imposta. Per il 2008 è pari a € 395,59 mensili.
Il permesso di soggiorno può essere richiesto dallo straniero, oltre che per sé, per i familiari dei quali lo straniero può chiedere il ricongiungimento ai sensi dell’art. 29, co. 1, del T.U. (si veda in proposito la scheda Ricongiungimento familiare, pag. 188).
In caso di richiesta formulata per i familiari, la disposizione in commento prevede i più elevati requisiti di reddito fissati, ai fini del ricongiungimento, dal comma 3, lett. b), del citato art. 29[238] nonché il requisito della disponibilità di un alloggio, le cui caratteristiche di idoneità sono riferite non solo ai parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ma, in alternativa, ai requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’ASL competente.
Il permesso di soggiorno che, non diversamente dalla carta di soggiorno, è a tempo indeterminato, è rilasciato entro 90 giorni dalla data della richiesta (co. 2).
Il co. 3 del nuovo art. 9 individua le ipotesi in cui il permesso di soggiorno non può essere richiesto: permanenza del personale diplomatico, titolarità di permessi soggiorno per motivi di carattere temporaneo, soggiorno per motivi di carattere umanitario, soggiorno dei rifugiati e dei richiedenti asilo, soggiorno per motivi di studio o di formazione professionale. Se le relative categorie di stranieri non possono richiedere lo status di soggiornante di lungo periodo, la (trascorsa) permanenza in Italia per i motivi suelencati è tuttavia computata ai fini del calcolo del periodo di permanenza (con l’eccezione dei permessi di soggiorno di breve durata e della permanenza del personale diplomatico): così dispone il co. 5, mentre il successivo co. 6 reca ulteriori criteri per il computo del periodo di permanenza.
Il co. 4 esclude il rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo agli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. A tale riguardo si fa riferimento all’appartenenza dello straniero alle categorie di persone che la legge ritiene pericolose per la sicurezza e la moralità pubblica[239] oppure all’affiliazione ad associazioni di tipo mafioso[240], nonché all’irrogazione di condanne, anche non definitive, per delitti per i quali la legge prevede l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 c.p.c.) ovvero per delitti non colposi per i quali si prevede l’arresto facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.c.). Il diniego è comunque subordinato alla valutazione di ulteriori elementi, quali la durata del soggiorno e l’inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero.
I co. 7, 8 e 9 disciplinano le ipotesi di revoca del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo; tale revoca non esclude, qualora sussistano i requisiti prescritti, il rilascio di un permesso di soggiorno (ordinario) ad altro titolo (comma 9) o il riacquisto del permesso di soggiorno CE se la revoca è dovuta ad una prolungata assenza (comma 8).
I co. 10 e 11 precisano (e delimitano) le ipotesi in cui è possibile disporre l’espulsione dello straniero titolare di permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo. Si tratta di motivi in ogni caso attinenti alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza; analogamente a quanto previsto per il diniego, la relativa decisione dovrà inoltre tener conto di ulteriori elementi, quali la durata del soggiorno, l’età dell’interessato, le conseguenze per lui e per i familiari, i vincoli con il Paese di soggiorno e l’assenza di vincoli con quello di origine.
Tali previsioni, necessarie per adeguarsi alla normativa comunitaria, hanno innovato fortemente la disciplina previgente, introducendo un elemento di valutazione discrezionale, in precedenza assente.
Il comma 12 elenca i diritti del soggiornante di lungo periodo.
Questi ultimi, pur adeguandosi nella formulazione al dettato della direttiva, non si discostano, nella sostanza, dai diritti riconosciuti già in precedenza al titolare della carta di soggiorno. Giova comunque rilevare l’esplicita esclusione, ai fini dello svolgimento di attività lavorative, della necessità di stipulare il contratto di soggiorno di cui all’art. 5-bis del T.U., e la diversa formulazione della facoltà di “partecipare alla vita pubblica locale”, che non fa più menzione dell’ipotetico (e inoperante) esercizio dell’elettorato.
Ai sensi del co. 13, infine, lo straniero espulso da altro Stato membro e titolare di permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo può essere riammesso sul territorio nazionale, se non costituisce un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato.
L’articolo 9-bis del T.U., introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. b), dello schema in esame, elenca i casi e le modalità con cui uno straniero in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo rilasciato da un altro Stato membro può essere ammesso a soggiornare in Italia.
Il soggiorno per brevi periodi (inferiori a tre mesi) è ammesso (co. 4) secondo le modalità previste dall’art. 5, co. 7, del T.U. per gli stranieri muniti di permesso di soggiorno rilasciato da un altro Stato membro e valido per il soggiorno in Italia.
Gli stranieri in questione sono tenuti a dichiarare la loro presenza al questore entro otto giorni lavorativi dall’ingresso nel territorio dello Stato; ad essi è rilasciata idonea ricevuta della dichiarazione di soggiorno.
Il permesso di soggiorno per periodi superiori a tre mesi può essere richiesto (co. 1-3) per motivi di lavoro subordinato o autonomo, di studio, o per altri scopi leciti previa dimostrazione della disponibilità di mezzi di sussistenza (pari almeno al doppio dell’importo minimo previsto per l’esenzione dalla spesa sanitaria), e di una assicurazione sanitaria. È possibile inoltre il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di famiglia previsto dall’art. 30 del T.U.. Per l’ingresso in Italia non è richiesto il visto e si prescinde dall’effettiva residenza all’estero per il rilascio del nulla osta al lavoro di cui all’art. 22 T.U. (co. 5).
Il diniego e la revoca del permesso di soggiorno possono essere disposti (co. 6) in presenza di presupposti (pericolosità per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato) sostanzialmente non dissimili da quelli previsti dal precedente art. 9 (vedi supra).
In caso di espulsione (co. 7) l’allontanamento è di norma disposto verso lo Stato membro di provenienza, ma in caso di espulsione disposta dal ministro dell'interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 13, co. 1, T.U.), ovvero dal ministro dell'interno o, su sua delega, dal prefetto per motivi di prevenzione del terrorismo (art. 3, co. 1, D.L. 144/2005[241]), l’espulsione – sentito lo Stato membro che ha rilasciato il permesso di soggiorno – comporta l’allontanamento dal territorio dell’Unione europea.
Il co. 8, infine, prevede che il titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo rilasciato da un altro Stato membro e regolarmente presente in Italia possa richiedere alle autorità italiane, se in possesso dei requisiti, il permesso di soggiorno per i soggiornanti di lungo periodo.
L’articolo 2 dello schema di D.Lgs. in esame reca norme transitorie e di coordinamento, principalmente volte a consentire l’applicazione della nuova disciplina ai titolari della carta di soggiorno, e ad attivare i meccanismi di scambio informativo tra le autorità italiane e quelle degli altri Stati membri previste dalla direttiva.
L’articolo 3 reca la copertura finanziaria del provvedimento, i cui oneri sono quantificati in 1 milione di euro per l’anno 2006 e in 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2007.
L’articolo 4, infine, demanda a un successivo regolamento (non ancora emanato) l’adozione delle norme di integrazione e attuazione del decreto legislativo.
Status di rifugiato e diritto di asilo
Secondo il diritto internazionale, presupposto per l’applicazione del diritto di asilo è la nozione di rifugiato internazionale, cioè di colui che, direttamente (mediante provvedimento di espulsione o impedimento al rientro in patria) o indirettamente (per l’effettivo o ragionevolmente temuto impedimento dell’esercizio di uno o più diritti o libertà fondamentali), sia stato costretto dal Governo del proprio Paese ad abbandonare la propria terra e a “rifugiarsi” in un altro Paese, chiedendovi asilo.
Questa nozione risulta ulteriormente specificata dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati[242], che indica i seguenti motivi per i quali si ha diritto allo status di rifugiato:
§ discriminazioni fondate sulla razza;
§ discriminazioni fondate sulla nazionalità (cittadinanza o gruppo etnico);
§ discriminazioni fondate sull’appartenenza ad un determinato gruppo sociale;
§ limitazioni al principio della libertà di culto;
§ persecuzione per le opinioni politiche.
La cessazione dello status di rifugiatoavviene quando (sez. C dell’art. 1 della Convenzione):
§ il rifugiato abbia nuovamente usufruito della protezione del Paese di cui abbia la cittadinanza oppure ne riacquisti volontariamente la cittadinanza;
§ il rifugiato sia tornato a stabilirsi volontariamente nel proprio Paese;
§ il rifugiato abbia acquisito una nuova cittadinanza e goda della protezione del Paese che gliel’ha concessa;
§ siano venute meno le condizioni in seguito alle quali la persona abbia ottenuto il riconoscimento della qualifica di rifugiato.
Le sezioni D, E ed F dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra individuano invece le cause di esclusione, precludendo dai benefici della Convenzione le seguenti categorie di persone:
§ coloro che beneficino attualmente ed effettivamente della protezione o assistenza da parte di organi o agenzie delle Nazioni Unite diverse dall’Alto Commissariato per i rifugiati;
§ i rifugiati o profughi nazionali, cioè i cittadini di un Paese che abbiano la propria residenza abituale in un altro Paese e che, a causa di eventi bellici, politici o altre situazioni verificatesi in tale Paese, volontariamente o forzatamente lo abbandonano o non vi facciano rientro e si rifugiano nel Paese di cui sono cittadini;
§ coloro che non sono degni di protezione internazionale.
L’articolo 32 della Convenzione prevede espressamente il divieto di espulsione del rifugiato che risieda regolarmente nel territorio di uno degli Stati contraenti se non per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. In tali casi, il rifugiato dovrà essere messo comunque in condizione di far valere le proprie ragioni e gli dovrà essere accordato un periodo di tempo per cercare di essere ammesso in un altro Paese.
Il principio del divieto di espulsione è stato recepito nel testo unico del 1998 (art. 19) dove si fa divieto di procedere all’espulsione ed al respingimento se nello Stato verso cui lo straniero è estradato, egli può essere oggetto di persecuzione “per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali” (si veda la scheda Contrasto dell’immigrazione clandestina, pag. 126).
L’Italia, con la L. 523/1992[243], ha ratificato la Convenzione di Dublino sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea, in ottemperanza alle statuizioni della Convenzione di Ginevra.
In particolare, gli Stati membri si impegnano affinché la domanda di asilo loro presentata da parte di qualsiasi straniero sia esaminata dallo Stato competente (i criteri di individuazione della competenza sono indicati dagli artt. 5-8 della Convenzione) in conformità alla sua legislazione ed agli obblighi internazionali. È sancito il diritto da parte di ogni Stato membro di prendere in esame la domanda di asilo, liberando quindi lo Stato competente.
Lo Stato competente ha l’obbligo:
§ di accettare il richiedente asilo che abbia presentato domanda in altro Stato membro o di riammetterlo se si trova irregolarmente in altro Stato membro;
§ di condurre a termine l’esame della domanda.
Gli Stati membri hanno poi l’obbligo:
§ di procedere a scambi reciproci riguardanti la legislazione nazionale e i dati statistici relativi al numero dei richiedenti asilo;
§ di comunicare a qualsiasi altro Stato membro che ne faccia domanda le informazioni di carattere personale necessarie per determinare lo Stato competente per l’esame della domanda e l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla Convenzione, ovvero (previo consenso dell’interessato) i motivi invocati dal richiedente a sostegno della domanda e della decisione presa nei suoi confronti.
Il decreto legislativo reca l’attuazione della direttiva 2004/83/CE, del 29 aprile 2004, del Consiglio relativa alla introduzione di norme minime comuni sull’attribuzione della qualifica di rifugiato (o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale) e sul contenuto della protezione riconosciuta.
Esso è composto da 34 articoli e suddiviso in sei capi:
§ Capo I: Disposizioni generali (artt. 1 e 2);
§ Capo II: Valutazione delle domande di protezione internazionale (artt. 3-5);
§ Capo III: Status di rifugiato (artt. 7-13);
§ Capo IV: Protezione sussidiaria (artt. 14-18);
§ Capo V: Contenuto della protezione internazionale (artt.19-30);
§ Capo VI: Disposizioni finali (artt. 31-34).
Il Capo I, recante le disposizioni generali, è composto da due articoli.
L’articolo 1 definisce l’oggetto del provvedimento (disciplina dell’attribuzione della qualifica di rifugiato o della protezione sussidiaria; contenuto dei due status) e individua i destinatari (cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e apolidi).
L’articolo 2 reca le definizioni di taluni termini utilizzati nel prosieguo dell’articolato. In particolare, mentre per la definizione di rifugiato si mantiene quale modello la Convenzione di Ginevra, costituisce un elemento di novità l’introduzione nell’ordinamento interno, a integrazione di quella che viene definita nel suo complesso “protezione internazionale”, della figura della “persona ammissibile alla protezione sussidiaria”, definita come il cittadino straniero privo dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato il quale, tuttavia, si ritiene che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno e che non può o (proprio a cagione di tale rischio) non vuole avvalersi della protezione del Paese di origine.
Degna di menzione è anche la definizione di “familiari” del beneficiario dello status: sono considerati tali ai fini della disciplina in esame il coniuge e i figli minori non sposati e a suo carico. Sono inclusi i figli naturali, adottati o affidati o sottoposti a tutela. Il nucleo familiare deve essere peraltro già costituito prima dell’ingresso in Italia[244].
Il Capo II definisce le modalità e i criteri per la valutazione delle domande di protezione internazionale, ripercorrendo sostanzialmente il disposto della direttiva, con particolare riguardo all’affermazione del principio secondo cui l’esame della domanda deve essere effettuato su base individuale, tenendo conto di tutti i fatti pertinenti che riguardano sia il Paese d’origine sia il richiedente, e degli elementi (sia meramente dichiarati, sia documentati) offerti dal richiedente medesimo, il quale per parte sua è tenuto a presentarli unitamente alla domanda o, comunque, non appena disponibili.
Il comma 4 dell’articolo 3 (con formula che si incontra anche in altre parti del testo: cfr. art. 9, co. 2 e art. 15, co. 2) introduce quale ulteriore elemento di valutazione l’eventuale presenza di gravi motivi umanitari, che impediscano il ritorno nel Paese di origine anche nell’ipotesi in cui si ritenga cessato il rischio di persecuzioni o danni gravi.
La protezione internazionale è attribuita (articolo 4) anche quando il rischio di persecuzione o di danno grave sia sorto successivamente alla partenza del richiedente dal Paese d’origine[245].
L’articolo 5 individua quali responsabili della persecuzione o del danno grave lo Stato, i partiti o le organizzazioni, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, o i soggetti non statuali, se i soggetti precedenti non possono o non vogliono fornire protezione. L’articolo 6 esamina l’eventualità che la protezione possa essere fornita nel Paese di originedallo Stato o da partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio. Tale eventualità è valutata anche tenendo conto, oltre che degli orientamenti del Consiglio dell’Unione europea (come prevede l’art. 7 della direttiva) anche delle valutazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite sui rifugiati e di altre competenti organizzazioni internazionali[246].
Il Capo III e il Capo IV definiscono, rispettivamente, i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato e per l’accesso alla protezione sussidiaria.
Gli articoli 7 e 8 delineano la natura e le caratteristiche degli atti di persecuzione e dei motivi che ad essa danno luogo, considerati rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato; il successivo articolo 14 definisce il concetto di “danno grave”, il rischio del quale rileva ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria. Il testo dei tre articoli segue, in buona parte anche letteralmente, quello della direttiva.
Gli articoli 9 e 10 elencano i casi di cessazione e di esclusione dallo status di rifugiato sulla falsariga, anche in questo caso, della direttiva che a sua volta riprende tali ipotesi dalla Convenzione di Ginevra. Ulteriori elementi si rinvengono al comma 2 dell’art. 9, che esclude la cessazione in presenza di gravi motivi umanitari che impediscano il ritorno nel Paese d’origine, e al successivo comma 3, ove si ribadisce che la cessazione è dichiarata sulla base di una valutazione individuale della situazione personale del richiedente.
Quanto alle ipotesi di esclusione, quella relativa alla commissione di “reati gravi di diritto comune” al di fuori del Paese di accoglienza (art. 12, par. 2, lett. b) della direttiva) è precisata introducendo un criterio di valutazione della gravità del reato basato sull’entità della pena edittale prevista in Italia (non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni). Tale criterio non appare peraltro esclusivo: il comma 2, lettera b) dell’art. 10 recita infatti: “La gravità del reato è valutata anche tenendo conto della pena […]”.
Come si desume dagli articoli 11 e 12, comma 1, lettera a) (e come precisa peraltro la direttiva al punto 14 della premessa), il riconoscimento dello status di rifugiato ha efficacia dichiarativa di una situazione preesistente e non sembra presentare margini di discrezionalità, in presenza delle circostanze di legge. Il diniego dello status di rifugiato può tuttavia aver luogo (anche) quando lo straniero costituisce (articolo12) un pericolo per la sicurezza dello Stato (comma 1, lettera b)) o un pericolo per l’ordine o la sicurezza pubblica (comma 1, lettera c)): in quest’ultimo caso, la valutazione dev’essere corroborata dall’intervenuta condanna definitiva per uno tra i reati previsti dall’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.[247]
La revoca dello status di rifugiato ha luogo (articolo 13) per il sopravvenire o il successivo accertamento di elementi che avrebbero determinato il diniego, ovvero quando l’aver presentato i fatti in modo erroneo o l’averli omessi ha determinato in modo esclusivo il riconoscimento dello status.
Parallelamente a quanto detto con riguardo allo status di rifugiato, gli articoli 15, 16, 17 e 18 disciplinano, in termini conformi alla direttiva, rispettivamente la cessazione, l’esclusione, il riconoscimento e la revoca dello status di protezione sussidiaria. Diversamente da quanto previsto per i rifugiati, l’articolo 16, comma 1, lettera b), esclude il beneficio in presenza di un reato grave commesso (non solo all’estero ma) anche in Italia; e la successiva lettera d), nell’escludere il beneficio quando il richiedente costituisce un pericolo per l’ordine o la sicurezza pubblica, non richiede il necessario concorso di una condanna penale definitiva[248].
Il Capo V definisce nei suoi vari aspetti il contenuto sia della protezione connessa allo status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria.
L’articolo 19 fa comunque salvi i diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra e introduce quale criterio generale l’obbligo di tener conto della specifica situazione delle persone vulnerabili (minori, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologia, fisica o sessuale).
L’articolo 20 determina il contenuto della protezione dal respingimento, in primo luogo operando un richiamo al citato art. 19, co. 1, del testo unico in materia di immigrazione, che ha introdotto nell’ordinamento il principio del non refoulement.
Nei limiti del rispetto di tale divieto, l’espulsione del rifugiato o dell’ammesso alla protezione sussidiaria può aversi (solo) quando:
§ sussistono motivi per ritenere che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato;
§ rappresenti un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato punibile con la reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni.
L’articolo 21 dà attuazione all’obbligo di fornire adeguate informazioni all’interessato sui diritti e i doveri inerenti al proprio status sia mediante la prevista consegna di un opuscolo redatto in lingua nota allo straniero, sia dettando l’obbligo di fornire informazioni preliminari già nel corso della procedura di riconoscimento, in sede di audizione del richiedente.
L’articolo 22 regola la condizione dei familiari del soggetto ammesso alla protezione internazionale, come definiti dal precedente art. 2 (ossia coniuge e figli minori non sposati a carico), equiparandoli al beneficiario a tutela dell’unità del nucleo familiare, a meno che per taluno di essi non ricorra una delle cause che avrebbero determinato l’esclusione o il diniego del beneficio.
Si ricorda che ai familiari del rifugiato, se presenti sul territorio nazionale, è rilasciato il permesso di soggiorno per motivi familiari ai sensi dell’art. 30, co. 1, lett. c), ultimo periodo, del testo unico sull’immigrazione; e che l’art. 29-bis del medesimo testo unico, introdotto dal recente D.Lgs. 5/2007[249], ha attribuito al rifugiato la facoltà di richiedere il ricongiungimento familiare per le medesime categorie di familiari e con la stessa procedura prevista in via generale dal precedente art. 29 per gli stranieri legalmente soggiornanti sul territorio nazionale, escludendo in tale ipotesi la necessità di dimostrare la disponibilità di un alloggio idoneo e di un reddito minimo, richiesta dal co. 3 dell’art. 29[250].
L’articolo 23 prevede che il permesso di lavoro rilasciato ai rifugiati abbia durata quinquennale e sia rinnovabile; quello rilasciato ai titolari di protezione sussidiaria ha invece durata triennale, e il rinnovo è subordinato a una verifica del permanere delle condizioni che hanno determinato il rilascio[251].
L’articolo 24 disciplina il rilascio dei documenti necessari a consentire i viaggi al di fuori del territorio nazionale. I documenti di viaggio possono essere negati solo in caso di gravissimi motivi attinenti la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico ovvero (per i soli destinatari della protezione sussidiaria) quando manchi la certezza sull’identità del titolare (tale motivo non è espressamente menzionato dalla direttiva).
L’articolo 25equipara la posizione dei titolari di protezione internazionale a quella dei cittadini italiani con riguardo all’accesso al lavoro ed in particolare:
§ al lavoro subordinato,
§ al lavoro autonomo,
§ all’iscrizione agli albi professionali,
§ alla formazione professionale e al tirocinio sul luogo di lavoro,
e con riguardo alla relativa disciplina.
L’accesso al pubblico impiego è consentito al solo titolare dello status di rifugiato (non a chi beneficia della protezione sussidiaria), secondo le stesse modalità e limitazioni previste per i cittadini dell’Unione europea[252].
Ai sensi dell’art. 38, co. 1 e 2, del D.Lgs. 165/2001[253], i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri e non attengono alla tutela dell’interesse nazionale. I requisiti per l’accesso, nonché i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dalla cittadinanza italiana, sono stabiliti con regolamento.
Quanto all’accesso all’istruzione, l’articolo 26 equipara pienamente ai cittadini italiani i minori che beneficino della protezione internazionale; quanto ai maggiorenni, la loro posizione riguardo all’accesso al sistema di istruzione e di formazione professionale è equiparata a quella delle altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti. È assicurata l’applicazione della disciplina prevista per i cittadini italiani quanto al riconoscimento di titoli di studio stranieri[254].
L’articolo 27 sancisce la piena equiparazione ai cittadini dei titolari della protezione internazionale con riguardo alle prestazioni di assistenza sociale e sanitaria. Tale equiparazione, già prevista per i rifugiati (come per altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti) in particolare dall’art. 34 e dall’art. 41 del testo unico in materia di immigrazione, è dunque estesa ai titolari di protezione sussidiaria.
L’articolo 28 disciplina la condizione del minore non accompagnato (cioè dello straniero di età inferiore a 18 anni che si trova per qualsiasi motivo sul territorio nazionale ed è privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili), il quale richieda la protezione internazionale.
L’articolo (commi 1 e 2) rinvia alla disciplina generale relativa a tutti i minori in stato di abbandono, recata dagli artt. 343 e seguenti del codice civile, ove si prevede l’apertura della tutela ad opera dell’autorità giudiziaria per il minore i cui genitori non possono esercitare la potestà. Nelle more, si consente l’applicabilità delle misure di protezione sociale previste per i richiedenti asilo ai sensi dell’art. 1-sexies del D.L. 416/1989 (legge Martelli) che ha previsto e disciplinato un sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, e al D.Lgs. 140/2005, di attuazione della disciplina comunitaria in materia di accoglienza dei richiedenti asilo.
L’art. 8, co. 4, del D.Lgs. 140/2005 già dispone che l’accoglienza ai minori non accompagnati è effettuata, secondo il provvedimento del Tribunale dei minorenni, ad opera dell’ente locale, e che nell’àmbito dei servizi del sistema di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, gli enti locali possono prevedere specifici programmi di accoglienza riservati ai minori non accompagnati, richiedenti asilo e rifugiati, che partecipano alla ripartizione del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo.
Il minore, quando sia possibile, è affidato a un familiare adulto e regolarmente soggiornante; altrimenti si procede al suo affidamento ad una famiglia idonea o, in mancanza, all’inserimento in una comunità di tipo familiare o in un istituto di assistenza secondo la disciplina generale recata dall’art. 2, co. 1 e 2, della L. 184/1983[255], curando di evitare la separazione dei fratelli e di limitare gli spostamenti. È qui ribadito il principio secondo cui i provvedimenti in materia sono adottati nel superiore interesse del minore.
Le iniziative di ricerca volte all’individuazione dei familiari devono anch’essi svolgersi (comma 3) nel superiore interesse dei minori e con l’obbligo della assoluta riservatezza, in modo da tutelare la sicurezza del richiedente asilo, oltre che dei suoi familiari.
La disposizione ribadisce quanto previsto dal co. 5 del citato art. 8 del D.Lgs. 140/2005, ove si dispone, inoltre, che il Ministero dell’interno stipula convenzioni, sulla base delle risorse disponibili del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, sentito il Comitato per i minori, con l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) ovvero con la Croce Rossa Italiana, per l’attuazione di programmi diretti a rintracciare i familiari dei minori non accompagnati.
L’articolo 29 dispone, al comma 1, in ordine al diritto di libera circolazione dei titolari di protezione internazionale sul territorio nazionale, fermi restando i limiti stabiliti nelle leggi militari e la possibilità per il prefetto di vietare agli stranieri il soggiorno in comuni o in località che comunque interessano la difesa militare dello Stato, come prevede l’art. 6 del testo unico in materia di immigrazione.
Il comma 2 prevede che, nell’ambito delle misure di integrazione sociale intraprese in favore degli stranieri regolarmente soggiornanti a sensi dell’art. 42 del testo unico in materia di immigrazione, si tenga conto delle esigenze particolari dei titolari di protezione internazionale. Quanto detto si aggiunge alle misure di accoglienza di cui al poc’anzi citato art. 1-sexies del D.L. 416/1989 e all’art. 5 del D.Lgs. 140/2005, anch’esso concernente l’accoglienza dei richiedenti asilo.
Il comma 3 consente ai titolari dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria l’accesso, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa, come previsto per altre categorie di stranieri regolarmente soggiornanti dall’art. 40, co. 6, del testo unico in materia di immigrazione.
Il citato co. 6 dispone che gli stranieri titolari di permesso di soggiorno CE a tempo indeterminato e gli stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.
L’articolo 30 richiama, con riguardo all’assistenza al rimpatrio volontario dei titolari di protezione internazionale, i programmi menzionati dall’art. 1-sexies del D.L. 416/1989.
Ai sensi del co. 5, lett. e), dell’art. 1-sexies, tra i compiti del servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano i servizi di accoglienza dei richiedenti asilo e alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria, vi è quello di promuovere e attuare, d’intesa con il Ministero degli affari esteri, programmi di rimpatrio attraverso l’Organizzazione internazionale per le migrazioni o altri organismi, nazionali o internazionali, a carattere umanitario.
L’articolo 31 individua nel Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno il punto nazionale di contatto che, ai sensi dell’art. 35 della direttiva, costituisce l’organo di riferimento per le attività di cooperazione amministrativa diretta e per lo scambio di informazioni tra le autorità competenti dei singoli Stati membri.
Il successivo articolo 32 contempla il dovere di impartire la necessaria formazione di base al personale addetto all’applicazione della disciplina in esame[256], e vincola tale personale all’obbligo di riservatezza su quanto appreso in ragione delle proprie attività.
L’articolo 33 reca la quantificazione degli oneri recati dal provvedimento e le disposizioni di copertura finanziaria. Gli oneri derivano dalle prestazioni di assistenza sanitaria e sociale assicurate ai titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria ed ai loro familiari, nonché dalla pubblicazione dell’opuscolo informativo di cui all’art. 21.
I commi 1 e 2 recano le seguenti autorizzazioni di spesa:
In euro
|
2007 |
2008 |
2009 |
2010 |
2011 |
Art. 21 (opuscolo informativo) |
50.000 |
50.000 |
50.000 |
- |
- |
Artt. 22 e 27 (assistenza sanitaria e sociale) |
2.031.510 |
11.901.820 |
15.677.600 |
19.453.380 |
23.229.160 |
Totale |
2.081.510 |
11.951.820 |
15.727.600 |
19.453.380 |
23.229.160 |
La copertura (comma 3) è effettuata attingendo, per il 2007, al fondo di rotazione per l’attuazione delle politiche comunitarie, di cui all’art. 5 della L. 183/1987[257]; per gli anni successivi, mediante riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui alla medesima L. 183/1987.
Il decreto legislativo reca l’attuazione della direttiva 2005/85/CE, del 1° dicembre 2005, del Consiglio relativa alla introduzione di norme minime comuni per le procedure relative al riconoscimento e alla revoca dello status di rifugiato.
Il decreto, composto di 41 articoli, si suddivide nei seguenti sei capi:
§ Capo I: Disposizioni generali (artt. 1-5);
§ Capo II: Principi fondamentali e garanzie (artt. 6-25);
§ Capo III: Procedure di primo grado (artt. 26-32);
§ Capo IV: Revoca, cessazione e rinuncia della protezione internazionale (artt. 33 e 34);
§ Capo V: Procedure di impugnazione (artt. 35-36);
§ Capo VI: Disposizioni finali e transitorie (artt. 37-41).
Il Capo I reca alcune disposizioni di carattere generale.
In primo luogo, l’articolo 1 (corrispondente agli articoli 1 e 3 della direttiva) delimita l’ambito di applicazione del provvedimento: le procedure per l’esame delle domande di protezione internazionale. Viene specificato che si tratta delle domande presentate nel territorio nazionale da cittadini non appartenenti all’Unione europea o da apolidi. Il provvedimento reca, inoltre, le procedure per la revoca e la cessazione degli status riconosciuti e quelle per l’impugnazione delle decisioni.
Da rilevare, innanzitutto, che il legislatore delegato ha scelto di applicare una “procedura unica” a tutte le forme di protezione internazionale, attivando l’opzione prevista dalla direttiva 2005/85: questa, infatti, si applica obbligatoriamente alle sole domande di asilo (art. 3, co. 1). Il comma 4 del medesimo art. 3, prevede la possibilità per gli Stati membri di decidere di applicare la stessa procedura ad altre forme di protezione internazionale.
Nella terminologia comunitaria, la protezione internazionale comprende sia il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra, sia la protezione sussidiaria, prevista per coloro che, pur non avendo i requisiti necessari per essere riconosciuti rifugiati, non possono comunque essere rimpatriati perchè esposti a gravi rischi.
L’articolo 2 contiene le definizioni utilizzate nel provvedimento che coincidono in parte con quelle dell’articolo 2 della direttiva.
Gli articoli 3, 4 e 5 danno attuazione all’art. 4 della direttiva che prevede la designazione di una autorità nazionale competente per l’esame delle domande di asilo.
In particolare, l’articolo 3 individua tre livelli di competenze in materia (un quarto livello è indicato nell’articolo 5) riproducendo sostanzialmente la situazione prevista dalla disciplina anteriore.
Innanzitutto, le autorità competenti a ricevere le istanze di protezione sono gli uffici della polizia di frontiera e le questure secondo le modalità indicate dall’art. 26 (comma 2).
La decisione relativa alla determinazione dello Stato competente all’esame della domanda, ai sensi del regolamento (CE) 343/2003 spetta all’Unità Dublino, istituita in attuazione dell’art. 22 del citato regolamento 343, che appunto prevede l’istituzione di una autorità competente in materia (comma 3). Si tratta di un ufficio operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, ed in particolare nell’Ufficio III della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo, una delle articolazioni del Dipartimento.
L’esame vero è proprio delle domande è svolto dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale (comma 1).
Si tratta delle Commissioni territoriali per il riconoscimenti dello status di rifugiato – che assumono la nuova denominazione in virtù del principio di uniformità della procedura di esame delle domande di protezione (vedi art. 1) – istituite dalla L. 189/2002, attraverso l’introduzione dell’art. 1-quater nella legge Martelli.
L’articolo in esame conferma in larga parte la disciplina attuale delle Commissioni territoriali, con alcune significative differenze.
Innanzitutto, viene fissato il numero massimo delle Commissioni pari a dieci[258]. L’individuazione delle sedi spetta al ministro dell’interno.
La competenza relativa alla nomina dei componenti, invece, viene trasferita dal ministro dell’interno, che mantiene un potere di proposta, al Presidente del Consiglio.
La struttura della Commissione rimane inalterata; essa è composta da quattro membri: un prefetto che la presiede, un funzionario della Polizia di Stato, un rappresentante degli enti territoriali e un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR). A questi può aggiungersi un rappresentante del Ministero degli affari esteri in presenza di particolari afflussi di richiedenti protezione internazionale.
Mentre in precedenza era esclusa qualsiasi forma di indennità per i componenti le Commissioni, il decreto prevede la corresponsione di un gettone di presenza per ogni partecipazione da determinarsi con decreto del ministro dell’interno, di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze.
Le Commissioni si avvalgono del supporto organizzativo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno.
L’articolo 5 disciplina il quarto organismo competente in materia, la Commissione nazionale per il diritto di asilo, in termini analoghi a quanto previsto dall’articolo 1-quinques del D.L. 416/1989 e dagli artt. 18-20 del D.P.R. 303/2004. Viene confermato, in particolare il ruolo di organo di indirizzo e di coordinamento delle Commissioni territoriali, oltre all’importante compito di decidere in materia di revoca e cessazione degli status di protezione internazionale riconosciuti.
Il Capo II contiene prevalentemente disposizioni volte alla tutela del richiedente asilo, oltre ad alcuni principi di carattere generale.
Innanzitutto, viene disciplinato l’accesso alla procedura prevedendo che la domanda di protezione è presentata dall’interessato presso l’ufficio di frontiera, al momento dell’ingresso nel territorio dello Stato, oppure presso la questura (art. 6). Viene specificato che la domanda deve essere presentata personalmente dal richiedente, non attuando così la disposizione della direttiva (art. 6, co. 3) che prevede, in via facoltativa, la possibilità di consentire al richiedente di presentare domanda anche per conto delle persone a suo carico. Parimenti, non viene contemplata l’ipotesi di presentazione di domanda di asilo da parte dei minori per proprio conto (art. 6, co. 4, lett. a) della direttiva): per essi vale la domanda presentata dai genitori; ai minori non accompagnati è consentito l’accesso alla procedura secondo le modalità dell’articolo 17.
L’articolo 7 sancisce il principio che il richiedente ha diritto a rimanere nel territorio nazionale per tutto il tempo necessario all’esame della domanda. La permanenza è finalizzata unicamente allo svolgimento della procedura, anche se viene fatto salvo il diritto del richiedente di svolgere una attività lavorativa nel caso in cui la decisione sulla domanda di asilo non venga adottata entro sei mesi dalla presentazione, senza che il ritardo possa essere attribuito al medesimo richiedente asilo (come stabilito dal D.Lgs. 140/2005, art. 11, di attuazione della direttiva n. 9 del 2003)[259].
Il diritto di permanenza non è riconosciuto nei seguenti casi:
§ mandato di arresto europeo;
§ consegna ad un Tribunale penale internazionale;
§ avviamento verso un altro Stato competente per l’esame dell’istanza[260].
L’articolo 8 stabilisce che le domande non possono essere respinte o non esaminate per il solo fatto di non essere state presentate tempestivamente, e che le domande devono essere esaminate in modo obiettivo ed approfondito.
Le decisioni devono essere comunicate per iscritto e le decisioni negative devono essere adeguatamente motivate (articolo 9).
Ai sensi dell’articolo 10 sono definite una serie di garanzie a tutela del richiedente asilo che ricalcano quelle dell’articolo 10 della direttiva: informazione adeguata al richiedente sulla procedura da seguire e sull’esito della domanda, possibilità di comunicare con l’ACNUR, assistenza di interpreti. Si tratta, in larga parte, di disposizioni già presenti nel nostro ordinamento (si veda in particolare l’art. 2, co. 6, art. 3, co. 3, art. 4 del D.P.R. 303/2004).
A sua volta, il richiedente è tenuto a rispettare alcuni obblighi (articolo 11): cooperare con le autorità, comunicare i propri cambiamenti di residenza o domicilio e, in generale, agevolare il compimento degli “accertamenti previsti dalla legislazione in materia di pubblica sicurezza”. Con tale ultima espressione, si è inteso presumibilmente dare attuazione all’articolo 11, comma 2, lettere d), e) ed f) della direttiva che prevedono la possibilità di perquisire e fotografare il richiedente e di registrarne le dichiarazioni.
Gli articoli12, 13 e 14 disciplinano il colloquio personale che il richiedente può sostenere davanti alla commissione territoriale. Si tratta di una delle fasi centrali del procedimento di esame delle domande di protezione regolate dagli articoli 12, 13 e 14 della direttiva (e dall’articolo 16 per quanto riguarda la presenza di un avvocato al colloqui) le cui disposizioni sono sostanzialmente riprese nel provvedimento in esame ed integrate con quelle previgenti contenute prevalentemente nell’art. 1-quater del D.L. 416/1989 e negli artt. 13 e 14 del D.P.R. 303/2004.
L’articolo 15 affida alla Commissione nazionale il compito di curare la formazione e l’aggiornamento dei propri componenti e di quelli delle commissioni territoriali come prescritto dall’art. 4, co. 3 della direttiva. Compito già previsto dall’art. 1-quinquies del decreto legge 416/1989.
Il decreto prevede ulteriori garanzie in favore del richiedente asilo, quali il diritto all’assistenza legale e, nel caso di ricorso, al gratuito patrocinio (articolo 16)[261], il diritto all’accesso alle informazioni relative alla procedura (articolo 17), il diritto all’accesso agli atti amministrativi e più in generale alle tutele connesse all’azione amministrativa (articolo 18).
Riguardo a quest’ultimo aspetto, il decreto amplia la portata del grado di tutela previsto dalla direttiva, estendendo ai richiedenti asilo l’applicazione di alcune forme di garanzia dei cittadini italiani nei confronti dell’attività amministrativa contemplati dalla L. 241/1990[262], quali l’obbligo di conclusione e di motivazione del procedimento (artt. 2 e 3), l’obbligo di individuare un responsabile del procedimento (artt. 5 e 6), la possibilità dell’interessato (ma non anche di soggetti terzi quali associazioni e comitati) di partecipare al procedimento (artt. 7, 8 e 10), il diritto all’acceso agli atti (capo V). Al procedimento si applicano anche le norme generali relative all’efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo (capo IV-bis della L. 241/1990).
Una speciale tutela è assicurata ai minori non accompagnati (articolo 19) ai quali deve essere garantita l’assistenza del tutore (nominato secondo le procedure del codice civile, art. 343 e seguenti) in ogni fase del procedimento. In caso di dubbio sull’età, il richiedente può essere sottoposto, previo consenso, ad accertamenti medici. Il mancato consenso non pregiudica il proseguimento della procedura, né il suo esito.
Gli articoli 20, 21 e 22 disciplinano il trattenimento del richiedente asilo nel periodo necessario all’esame della domanda.
In proposito, la direttiva (art. 18) si limita a stabilire il principio che il richiedente asilo non deve essere trattenuto per il solo fatto di aver presentato istanza. Questo principio, del resto già presente nella disciplina previgente (art. 1-bis, co. 1, del D.L. 416/1989) viene recepito dal decreto legislativo (art. 20, co. 1) che, inoltre, disciplina in modo dettagliato le modalità di trattenimento.
Viene mantenuta la distinzione prevista dal D.L. 416/1989 (art. 1-bis) tra coloro che fanno richiesta di asilo dopo essere stati oggetto di un provvedimento di espulsione, da trattenere nei centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) e gli altri richiedenti da trattenere nei centri di identificazione.
Al sistema sopra delineato sono apportate alcune significative modificazioni.
Innanzitutto, viene separata nettamente l’ipotesi di accoglienza da quella del trattenimento.
Nel primo caso, i richiedenti vengono ospitati nei centri di accoglienza (che prendono il posto degli attuali centri di identificazione) quando si verificano le seguenti condizioni:
§ necessità di determinare l’identità o la nazionalità del richiedente;
§ presentazione della richiesta da parte di coloro che sono stati fermati dalla forza pubblica per aver eluso i controlli di frontiera o per essere in condizioni di soggiorno irregolare;
§ presentazione della richiesta da parte di coloro che sono stati oggetto di un provvedimento di espulsione amministrativa per due specifiche cause: ingresso clandestino e trattenimento nel territorio nazionale senza aver fatto richiesta del permesso di soggiorno (art. 13, co. 2, lett. a) e b), del testo unico sull’immigrazione, D.Lgs. 286/1998);
§ presentazione della richiesta da parte di coloro che sono stati respinti alla frontiera (art. 10, D.Lgs. 286/1998).
Rispetto alla normativa previgente, non vengono più accolti nei centri coloro per i quali è necessario verificare gli elementi su cui si basa la domanda e coloro nei cui confronti è pendente un procedimento relativo al riconoscimento del diritto ad essere ammesso nel territorio dello Stato (art. 1-bis, co. 1, lett. b) e c), del D.L. 416/1989,.
La differenza maggiore però consiste nel destinare ai centri di accoglienza gli espulsi (nelle fattispecie viste sopra) e i respinti alla frontiera che, ai sensi delle norme previgenti, devono essere trattenuti nei CPTA.
Inoltre, si introduce una differenziazione dei tempi massimi di permanenza nei centri di accoglienza: il termine previgente di 20 giorni (art. 3, co. 1, D.P.R. 303/2004) è mantenuto solamente nell’ipotesi di dover accertare l’identità del richiedente, mentre per tutti gli altri casi visti sopra il termine è prolungato a 35 giorni, ferma restando una minore permanenza nel caso intervenga nel frattempo la decisione sull’istanza. Decorso tale periodo senza che la procedura si sia conclusa al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo di tre mesi, eventualmente rinnovabile.
L’articolo 21 disciplina i casi di trattenimento presso i CPTA dove affluiscono:
§ coloro che sono esclusi dai benefici della Convenzione di Ginevra, perchè macchiatesi di gravi reati (crimini di guerra, contro l’umanità)[263];
§ coloro che sono stati condannati per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto in flagranza (art. 380 codice procedura penale) o per reati particolarmente gravi quali quelli di droga, immigrazione clandestina, prostituzione;
§ coloro che sono destinatari di un provvedimento di espulsione diverso da quelli esaminati sopra e derivanti da più gravi motivi: si tratta dell’espulsione disposta dal Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico (art. 13, co. 1, del testo unico in materia di immigrazione), espulsione disposta per i delinquenti abituali o per gli indiziati di mafia (art. 13, co. 2, lett. c), del testo unico), per motivi di prevenzione del terrorismo (art. 3, D.L. 144/2005), espulsione disposta dall’autorità giudiziaria (artt. 235 e 312 c.p., artt. 15 e 16 del testo unico);
È comunque garantito l’accesso ai CPTA dei rappresentanti dell’ACNUR, degli avvocati e dei rappresentanti degli organismi di tutela dei rifugiati autorizzati dal Ministero dell’interno.
L’articolo 22, al comma 2, stabilisce che l’allontanamento dai centri di accoglienza o di trattenimento senza giustificato motivo fa cessare le condizioni di accoglienza e fa sì che la commissione territoriale decide la domanda sulla base della documentazione in suo possesso. Viene, dunque, abolito l’automatismo che consentiva di considerare l’allontanamento non autorizzato quale rinuncia della domanda (art. 1-ter, co. 4, D.L. 416/1989). Conseguentemente non viene recepito l’art. 20 della direttiva che disciplina l’ipotesi di ritiro implicito della domanda.
È invece considerata la rinuncia esplicita: l’articolo 23 disciplina le conseguenze del ritiro della domanda di asilo, prevedendo in tal caso l’estinzione del procedimento, mentre la direttiva offre un’alternativa tra la sospensione e il respingimento (art. 19).
L’articolo 24 consente all’ACNUR l’accesso alle strutture di accoglienza e il potere di svolgere attività di consulenza e supporto al Ministero dell’interno, alla commissione nazionale e alle commissioni territoriali a richiesta del Ministero dell’interno[264].
Infine, l’articolo 25 vieta l’acquisizione di informazioni dai presunti responsabili delle persecuzioni ai danni del richiedente, e, nel contempo, la diffusione di informazioni sul conto del richiedente che possano nuocergli.
L’articolo 26 disciplina le operazioni preliminari della procedura di esame, disponendo, in particolare, che la presentazione della domanda può avvenire indifferentemente all’ufficio di polizia di frontiera o alla questura[265]. L’attività istruttoria è compiuta comunque dal questore che dispone anche l’eventuale trattenimento nel caso ricorrano le condizioni sopra esaminate.
Si rileva che non è più indicato il termine perentorio (due giorni) entro il quale il questore deve trasmettere l’istanza alla commissione territoriale competente (art. 1-quater, co. 2, decreto legge 416/1989).
Nel caso di domanda presentata da minori non accompagnati è lo stesso questore che ne dà comunicazione al Tribunale dei minorenni per la nomina del tutore ai sensi dell’art. 343 del codice civile e per il suo inserimento nelle strutture di accoglienza, così come già previsto dall’art. 2, co. 5, del D.P.R. 303/2004.
L’articolo 27 introduce la disciplina relativa alla procedura vera e propria dell’esame delle domande di protezione.
Viene accolto il sistema delineato dall’articolo 23 della direttiva basato su due tipi di procedura: una ordinaria e una prioritaria o accelerata (facoltativa) che si distingue dalla prima per tempi di esame più brevi. Tale struttura del resto era già presente nella normativa previgente (D.L. 416/1989) che prevedeva una procedura ordinaria (art. 1-quater) e una semplificata (art. 1-ter).
Il comma 1 dell’articolo 27 affida alle commissioni territoriali il compito di esaminare le domande di asilo, nel rispetto dei principi e delle garanzie indicate nel Capo II.
I tempi di esame per la procedura ordinaria (comma 2) sono quelli già previsti dalla normativa in precedenza: entro 30 giorni dal ricevimento della domanda la commissione territoriale competente provvede al colloquio e nei successivi 3 giorni decide. Tali termini tuttavia possono essere derogati se sopravvenga l’esigenza di acquisire nuovi elementi: in tal caso devono esserne informati il richiedente e la questura competente (comma 3).
La procedura accelerata (definita esame prioritario dall’articolo 28) si attiva in tre ipotesi[266]:
§ domanda palesemente fondata;
§ domanda presentata da persone appartenenti ad una delle categorie vulnerabili individuate dal D.L. 140/2005 (minori, anziani, disabili, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, persone che hanno subito violenze gravi);
§ domanda presentata dai richiedenti che rientrano nelle categorie di cui agli articoli 20 e 21, ossia coloro che sono avviati ai centri di accoglienza (ad eccezione di coloro che devono essere semplicemente identificati) o ai CPTA.
La tipologia di casi per i quali si attiva la procedura prioritaria differisce radicalmente dal sistema precedente, che prevedeva la procedura semplificata in due ipotesi: accertamento dell’identità e verifica degli elementi su cui si basa la domanda di asilo (art. 1-bis, co. 1, lett. a) e b) del D.L. 416/1989. Un’altra importante differenza risiede nei tempi di esame: nella disciplina previgente erano fissati in 15 giorni per il colloquio e in 3 giorni per la decisione. L’articolo in esame invece non dà indicazioni sui tempi di esame (condizione del resto non richiesta dalla direttiva) ma si limita a precisare che le domande con le caratteristiche di cui sopra devono essere esaminate in via prioritaria. Fanno eccezione le domande presentate dagli espulsi avviati ai CPTA, per i quali sono previsti tempi brevissimi: 7 giorni per il colloquio e 2 per la decisione.
In qualsiasi fase del procedimento il richiedente può inviare ulteriore documentazione alla commissione (articolo 31).
L’articolo 29 disciplina i casi di inammissibilità delle domande. Mentre l’articolo 30prevede la sospensione dell’esame delle domande per le quali è in corso la decisione in merito allo Stato competente (ai sensi del regolamento (CE) n. 343/2003).
Dei sette casi indicati dalla direttiva come possibili cause di inammissibilità (o più precisamente di irricevibilità come definiti dalla direttiva), il decreto legislativo ne considera solamente due:
§ le domande presentate da chi è stato già riconosciuto rifugiato da uno Stato firmatario della convenzione di Ginevra (la direttiva limita tale ipotesi ai soli Stati dell’Unione europea, art. 25, co. 2, lett. a);
§ le reiterazioni di identica domanda senza nuovi elementi.
Due delle altre ipotesi non considerate dal legislatore delegato, riguardano la irricevibilità delle domande di coloro che già godono della protezione di un paese definito paese di primo asilo oppure provengono da un paese terzo sicuro.
Queste ultime due fattispecie (la cui applicazione non è obbligatoria per gli Stati membri) sono disciplinate dagli articoli 26 e 27 della direttiva e non sono recepiti dal decreto. Sinteticamente, si tratta di due elenchi, redatti da ciascun Paese membro, contenenti, rispettivamente, i Paesi che per primi hanno dato asilo (o una qualche altra forma di protezione adeguata) ai richiedenti e i Paesi di provenienza dei richiedenti che il Paese membro dove è stata presentata la domanda di asilo considera sicuri. La redazione dei due elenchi è sottoposta ad alcune norme dettagliate, e consente ai Paesi membri che scelgono di adottarli di considerare non ricevibili le istanze presentate da persone provenienti da quei Paesi.
Come si è detto, il legislatore delegato italiano ha scelto di non attivare questo meccanismo. Un diverso discorso deve farsi in relazione ad una terza fattispecie introdotta dalla direttiva, il concetto di paese di origine sicuro, il cui recepimento apparirebbe invece obbligatorio.
L’articolo 29 della direttiva, infatti, prevede la redazione da parte del Consiglio dell’Unione europea di un elenco comune minimo di Paesi terzi considerati Paesi di origine sicuri. Elenco che può essere integrato da ciascun Paese membro secondo le modalità viste sopra. Ai sensi del successivo articolo 31 della direttiva, se un cittadino di uno dei Paesi dell’elenco comune presenta istanza di asilo, questa deve essere necessariamente respinta (o meglio considerata infondata), a meno che il richiedente non invochi gravi motivi relativi alla condizione personale del richiedente stesso in quel Paese, che inducano a non ritenerlo sicuro.
Si segnala, peraltro, che recentemente la Corte di giustizia delle comunità europee (sen. 6 maggio 2008, C-133/06) ha annullato l’art. 29, co. 1 e 2 e art. 36, co. 3, della direttiva 2005/85/CE, censurando la procedura di adozione dell’elenco dei Paesi di origine sicuro che prevede la decisione del Consiglio previa “consultazione” del Parlamento europeo, in luogo della “co-decisione”.
La definizione di Paese di origine sicuro, operata mediante un mero riferimento all’art. 29 della direttiva, è contenuta nell’art. 2, co. 1, lett. m), del decreto, e un riferimento indiretto a tale concetto è contenuto nel successivo articolo 32 che regola la fase finale del procedimento, ossia quello della decisione.
La commissione territoriale, fatto salvo il caso di ritiro della domanda (art. 23), di inammissibilità della stessa (art. 29), o di sospensione in caso di dubbio sullo Stato competente a decidere (art. 30), deve adottare una delle seguenti decisioni (art. 32):
§ riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria;
§ rigettare la domanda qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale indicati nel D.Lgs. 251/2007, oppure in caso di cessazione o esclusione dalla protezione ivi previste.
Il comma 2 stabilisce che il solo fatto che un richiedente asilo provenga da un Paese di origine sicuro, non deve necessariamente determinare il respingimento della domanda senza averla esaminata alla luce dei motivi addotti dal richiedente per non ritenere sicuro quel Paese nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. Si tratta di una disposizione che recepisce il contenuto di parte dell’articolo 31 della direttiva, descritto sopra. Il decreto di recepimento aggiunge la specificazione che i gravi motivi di cui sopra possono comprendere anche gravi discriminazioni e repressioni di comportamenti che pur risultando oggettivamente perseguibili nel Paese di origine, non costituiscono reato per l’ordinamento italiano.
Queste precisazioni sono dovute ad uno specifico criterio direttivo contenuto nella legge di delega.
L’articolo 12 della legge comunitaria 2006 ha introdotto un principio e criterio direttivo – ulteriore rispetto a quelli di carattere generale indicati nell’art. 2 della legge comunitaria – che il Governo è tenuto a seguire nell’esercizio della delega per l’attuazione della direttiva 2005/85/CE. Esso prevede che la domanda di asilo non possa essere dichiarata infondata solamente perché il richiedente asilo sia cittadino di un paese sicuro, secondo l’elenco definito dal Consiglio[267]. Bisognerà, infatti, verificare che non siano stati invocati gravi motivi per non ritenere sicuro quel Paese in relazione alle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente. Si tratta, quest’ultima, di una disposizione contenuta nell’art. 31 della direttiva. Tra i motivi di cui sopra possono essere comprese gravi discriminazioni e repressioni di comportamentiche, nel Paese di provenienza, risultano oggettivamente perseguiti, mentre nel nostro Paese non costituiscono reati.
L’obiettivo della disposizione è di inserire, tra gli elementi di valutazione nella decisione di accoglimento o rifiuto delle domande di asilo, la considerazione che il richiedente, pur provenendo da un Paese sicuro, può essere perseguito (non necessariamente in base ad una norma penale, ma comunque in base a disposizioni o atti concreti, oggettivamente individuabili) a causa di un fatto o comportamento che nel nostro ordinamento non è perseguibile (in quanto non costituisce reato). La norma non sembra però considerare tutti i fatti o i comportamenti perseguiti, bensì quelli la cui repressione lede diritti fondamentali (così potrebbe esser letta l’endiadi “gravi discriminazioni e repressioni di comportamenti […]”)[268].
L’articolo 33 disciplina il procedimento di revoca e cessazione della protezione internazionale secondo i principi degli articoli 37 e 38 della direttiva.
Infine, l’articolo 34 prevede la rinuncia espressa (ipotesi non contemplata dalla direttiva) allo status di rifugiato o di soggetto ammesso alla protezione sussidiaria che comporta la decadenza dal medesimo status.
Il Capo V attua l’articolo 39della direttiva che riconosce al richiedente asilo il diritto a ricorrere davanti al giudice nei confronti delle decisioni relative alla sua domanda.
L’articolo 35 prevede infatti la possibilità di impugnare:
§ la decisione della commissione territoriale relativa all’accoglimento o il rigetto della domanda;
§ la decisione di accordare la protezione sussidiaria in luogo dello status di rifugiato;
§ la decisione sulla revoca o cessazione della protezione internazionale;
§ il provvedimento di inammissibilità della domanda.
In quest’ultima ipotesi, e nel caso di decisione successiva all’abbandono del richiedente del centro di accoglienza o di permanenza, il ricorso non comporta la sospensione della decisione (tranne per decisione del tribunale cui è presentato il ricorso per gravi motivi); sospensione che, invece, scatta per le altre ipotesi.
Da rilevare che ai sensi della legislazione previgente, il ricorso in nessun caso poteva sospende automaticamente l’esecuzione del provvedimento di espulsione (ma il prefetto aveva la facoltà di autorizzare il richiedente a rimanere nel territorio nazionale, art. 1-ter, co. 6, decreto legge 416/1989).
Il ricorso è presentato dinanzi al tribunale che ha sede nel capoluogo di distretto di corte d’appello dove ha sede la commissione territoriale che ha preso la decisione. La sentenza del tribunale può essere impugnata in secondo grado davanti alla Corte d’appello contro la cui decisione si può ricorrere in Cassazione.
Il nuovo sistema, interamente giurisdizionale, diverge radicalmente da quello precedente. Questo prevedeva un riesame di primo grado da parte della stessa commissione territoriale che ha emesso il provvedimento impugnato, pur se integrata da un componente la commissione nazionale, e un ricorso in secondo grado davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 1-ter, co. 6, decreto legge 416/1989).
Ai sensi dell’articolo 36 i richiedenti che hanno fatto ricorso possono avere rinnovato il permesso di soggiorno se la decisione non interviene entro 6 mesi (ai sensi dell’art. 11 del D.Lgs., 140/2005). Inoltre, se sono ospitati nei centri di accoglienza rimangono nei medesimi centri, dove vengono anche trasferiti i richiedenti trattenuti nei CPTA che hanno ottenuto la sospensione del provvedimento impugnato.
L’articolo 37 pone l’obbligo della riservatezza in merito alle informazioni ottenute nel corso del procedimento di esame delle domande.
Le modalità di attuazione della legge sono demandate (articolo 38) all’emanazione di uno o più regolamenti da emanare ai sensi dell’art. 17. co. 1, della L. 400/1988[269].
L’articolo 39 valuta l’onere complessivo derivante dall’applicazione del decreto legislativo nella cifra di 9.571.000 euro per il 2008, in 22.018.250 a decorrere dal 2008 e in 1.332.000 euro annui a decorrere dal 2009.
I servizi di assistenza e di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati sono svolti principalmente dagli enti locali.
La L. 189/2002 ha soppresso la corresponsione di un contributo di prima assistenza per 45 giorni da parte del Ministero dell’interno in favore dei richiedenti asilo privi di mezzi (art. 1, comma 7, DL 416/1989).
In luogo di tale contributo l’articolo 1-sexies del medesimo D.L. 416/1989 (introdotto dall’art. 32 della legge 189/2002), disciplina un sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati:
§ consentendo agli enti locali di accogliere nell’àmbito dei servizi di accoglienza da essi apprestati i richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza, ove non ricorrano le condizioni (previste dai precedenti articoli 1-bis e 1-ter) di trattenimento nei centri di identificazione (comma 1);
§ prevedendo (commi 2 e 3) forme di sostegno finanziario apprestate dal Ministero dell’interno e poste a carico di un fondo ad hoc (Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo) istituito dal successivo articolo 1-septies;
§ prevedendo l’attivazione (ad opera del Ministero dell’interno) e l’affidamento, mediante convenzione, all’ANCI di un servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano i servizi di accoglienza (commi 4-6).
Il DL 195/2002, art. 2, comma 8, chiarisce che i soggetti destinatari dei servizi di accoglienza richiamati all’articolo 1-sexies del D.L. 416/1989, sono gli stranieri titolari di permesso umanitario di cui all’articolo 5, comma 6, del testo unico. Ai sensi del citato articolo 5, comma 6, è possibile disporre il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno sulla base di convenzioni o accordi internazionali quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Il Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo (art. 1-septies) destinato a finanziarie le iniziative degli enti locali è alimentato da:
§ apposite risorse iscritte nel bilancio di previsione del Ministero dell’interno;
§ assegnazioni annuali del Fondo europeo per i rifugiati[270];
§ donazioni private.
Le disponibilità del Fondo sono assegnate annualmente con decreto del Ministro dell’interno, e sono destinate alle iniziative dei comuni e province, in misura non superiore all’80% del costo complessivo di ciascuna iniziativa territoriale (artt. 1-sexies e 1- septies D.L. 416/1989).
Con il decreto del Ministro dell’interno del 23 luglio 2003 si è provveduto alla prima ripartizione tra i comuni del fondo per un importo complessivo di circa 9 milioni di euro per l’esercizio 2003, per il 2004 lo stanziamento è stato di 9,7 milioni di euro (decreti 25 maggio e 26 novembre 2004.[271]
Con decreto del capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione 25 maggio 2006 (non pubblicato in Gazzetta ufficiale) è stata fissata la capacità ricettiva massima del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati per l'anno 2007. Il provvedimento fissa la misura di posti n. 2.350 (di cui una parte riservata per le categorie più vulnerabili individuate dall’art. 6, co. 1 del precedente D.M. 28 novembre 2005, come modificato dal D.M. 27 giugno 2007).
I D.M. 5 agosto 2006 e 20 novembre 2006 hanno disposto l’assegnazione dei fondi per l’anno finanziario 2006, per un ammontare complessivo di circa 27,4 milioni di euro. Mentre per il 2007 l’importo assegnato è di 27,4 milioni (D.M. 16 agosto 2007).
Il sistema nazionale di accoglienza ha trovato il suo completamento con l’adozione del D.Lgs. 140/2005 di attuazione della disciplina comunitaria in materia di accoglienza dei richiedenti asilo[272].
Si prevede che l’accoglienza dei richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza sia disposta preferibilmente presso i servizi attivati dagli enti locali e, in caso di indisponibilità, nei centri di identificazione o nei centri di accoglienza allestiti ai sensi della legge 563/1995 (cosiddetta “legge Puglia”). Agli interessati è rilasciato il permesso di soggiorno. Qualora dopo sei mesi non sia stata adottata le decisione sulla domanda di asilo, il permesso di soggiorno è rinnovato per sei mesi e consente di svolgere attività lavorativa.
Tra le misure in materia di immigrazione recate dalla legge finanziaria per il 2007 (L. 27 dicembre 2006, n. 296), sono esplicitamente rivolte anche ai richiedenti asilo quelle di cui:
§ all’art. 1, co. 312, che dispone l’esenzione dall’IVA per le prestazioni socio-sanitarie rese a vari soggetti svantaggiati, tra i quali le persone richiedenti asilo;
§ all’art. 1, co. 1262, che istituisce nello stato di previsione del Ministero dell’interno un Fondo per fare fronte alle spese, diverse da quelle per il personale, connesse agli interventi in materia di immigrazione ed asilo ed al funzionamento dei servizi connessi alla gestione delle emergenze derivanti dai flussi migratori. La dotazione del fondo è di 3 milioni di euro a decorrere dall’anno 2007.
Nel caso di profughi che lasciano il proprio Paese non a causa di misure di discriminazione individuale cui siano stati sottoposti, bensì al verificarsi di gravi eventi (guerra civile, violenze generalizzate, aggressioni esterne, catastrofi naturali ecc.) non è prevista nel nostro ordinamento la possibilità di richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato.
Tuttavia, il testo unico sull’immigrazione consente di far fronte a emergenze umanitarie causate da eventi eccezionali. In tali circostanze è possibile per il Governo determinare con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri gli interventi di protezione temporanea necessari per accogliere in maniera tempestiva e adeguata le popolazioni sfollate che dovessero raggiungere in massa il territorio italiano (art. 20, D.Lgs. 286/1998).
Tale disposizione è stata applicata per la prima volta nel 1999 in occasione della crisi che ha interessato i territori dell’area balcanica, in seguito della quale sono giunti in Italia circa 30.000 stranieri di diversa etnia (kosovari, serbi, montenegrini).
Per oltre 18.000 di loro era stato previsto con il D.P.C.M. 12 maggio 1999 il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione temporanea e l’assistenza in strutture individuate o realizzate nel territorio nazionale con oneri a carico del Ministero dell’interno.
Gli altri 12.000 circa avevano presentato domanda di riconoscimento dello status di rifugiato.
Nel Consiglio europeo di Tampere, in Finlandia, dell’ottobre 1999 è stata definita una politica comune dell’Unione europea in materia di immigrazione e di asilo come politica di carattere globale che abbraccia le questioni della politica, dei diritti umani e dello sviluppo dei Paesi d’origine dei flussi migratori.
La politica fissata a Tampere prevede quattro direttrici d’azione. Una di esse riguarda un regime europeo comune in materia di asilo, secondo la quale l’Unione e gli Stati membri riconoscono l’importanza del rispetto assoluto del diritto di chiedere asilo.
La strategia di Tampere si proponeva, in una prima fase, l’armonizzazione delle disposizioni nazionali in materia di asilo per permettere di determinare con chiarezza e praticità lo Stato competente per l’esame delle domande di asilo, per prevedere una procedura di asilo equa ed efficace e condizioni comuni minime per l’accoglienza dei richiedenti asilo nonché il ravvicinamento delle normative relative al riconoscimento e agli elementi sostanziali dello status di rifugiato.
Nel lungo periodo, le norme comunitarie dovrebbero indirizzarsi verso una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto l’asilo, valido in tutta l’Unione.
La prima fase della politica di Tampere ha compiuto notevoli progressi con l’adozione di una serie di provvedimenti (tutti accolti nell’ordinamento interno italiano) i principali dei quali sono:
§ la direttiva 2001/55 del 20 luglio 2001, recante norme minime per la concessione della protezione temporanea (recepita nell’ordinamento interno con il D.Lgs. 7 aprile 2003, n. 85);
§ la direttiva 2003/9 del 27 gennaio 2003, che introduce alcune norme minime comuni in relazione all'accoglienza dei richiedenti asilo (recepita con D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 140);
§ il regolamento 2003/343 del 18 febbraio 2003, del Consiglio, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo;
§ la direttiva 2004/83 del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione a cittadini di Paesi terzi della qualifica di rifugiato (D.Lgs. 251/2007);
§ la direttiva 2005/85 del Consiglio, del 1º dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (D.-Lgs. 25/2008).
Il Consiglio europeo dell’Aja del novembre 2004 ha confermato il programma di Tampere e ha posto le basi per la realizzazione delle seconda fase della politica europea in materia di asilo volta a instaurare entro il 2010 un regime comune in materia di asilo valido nell’intera Unione.
Sul tema si veda anche il capitolo Attività UE: immigrazione e asilo,nel dossier 1/1, parte seconda.
Status di rifugiato e diritto di asilo
La I Commissione (Affari costituzionali) della Camera ha avviato il 13 giugno 2007 l’esame di sei proposte di legge, tutti di iniziativa parlamentare, in materia di protezione umanitaria e diritto di asilo.
Ad esse sono state dedicate sei sedute in sede referente nei mesi di giugno e luglio, senza pervenire nè alla loro approvazione, né alla redazione di un testo unificato.
Nell’ultima seduta dedicata alle proposte, il 24 luglio 2007, il rappresentante del Governo ha annunciato l’imminente presentazione alle Camere di due schemi di decreti legislativi di recepimento di altrettante direttive comunitarie sui rifugiati. I due provvedimenti, i cui contenuti coincidono in parte con le proposte di legge, sono stati effettivamente trasmessi al Parlamento nel successivo mese di agosto e sono stati successivamente emanati tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 (si veda la scheda La nuova disciplina sui rifugiati, pag. 205), ed in particolare i paragrafi dedicati ai D.Lgs. n. 251/2007 e 25/2008).
Si ricorda che la proposta di una legge organica sul diritto d’asilo è all’attenzione del Parlamento fin dal 1997.
Nel settembre 1997 (XIII legislatura), la 1ª Commissione del Senato avviava l’esame di un disegno di legge governativo e di due proposte di legge di iniziativa parlamentare in materia di protezione umanitaria e di diritto di asilo. Il 5 novembre 1998, il Senato approvava in un testo unificato (A.S. 203 e abb.) le tre proposte di legge, trasmettendole alla Camera dei deputati (A.C. 5381 e abb.).
Obiettivo del provvedimento era quello di completare la riforma della disciplina relativa alla condizione dello straniero operata in larga parte dalla L. 40/1998 (la cosiddetta “legge Turco-Napolitano”) e dal testo unico approvato con il D.Lgs. 286/1998 che avevano sostituito la legislazione precedente, la citata “legge Martelli”, ad eccezione, appunto, della parte in cui viene regolato il diritto di asilo.
La Camera iniziava l’esame del testo unificato (unitamente a quattro proposte di iniziativa parlamentare) nel luglio 1999, approvandolo con modificazioni nella seduta del 7 marzo 2001. Nuovamente trasmesso al Senato, il provvedimento non concludeva il suo iter a causa della fine della legislatura.
Il disegno di legge dettava alcune disposizioni di carattere generale, riconoscendo il diritto di asilo e il principio della protezione umanitaria su base individuale in conformità ai princìpi dell’ordinamento costituzionale e delle convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce, e definendo i titolari del diritto di asilo. Il progetto recava inoltre disposizioni specifiche riguardanti sia le procedure per la presentazione e l’esame della domanda di asilo sia l’assistenza temporanea ai richiedenti asilo, e definiva il quadro dei diritti riconosciuti a quanti avessero ottenuto il riconoscimento di tale diritto.
L’esame parlamentare riprendeva nella XIV legislatura, il 6 marzo 2003, presso la I Commissione della Camera, con l’avvio della discussione congiunta di tre proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 1554, on Trantino ed altri; A.C. 1738, on. Soda ed altri; A.C. 1238, on. Pisapia ed altri). Le prime due proposte di legge riproducevano, nella sostanza, il testo del progetto di legge esaminato nella precedente legislatura; la terza, pur mantenendone l’impianto, se ne differenziava sotto alcuni profili.
Nel corso dell’esame in sede referente sono state abbinate tre ulteriori proposte di legge[273].
Nella seduta dell’11 maggio 2004 la I Commissione ha licenziato per l’Assemblea un testo unificato, volto a definire una disciplina organica del diritto di asilo (A.C. 1238 e abb.-A). La discussione in Assemblea, peraltro, non è andata oltre la prima seduta (12 luglio 2004), nel corso della quale si è svolta la discussione generale.
Il testo unificato elaborato dalla Commissione era volto ad attuare l’art. 10 Cost., che garantisce il diritto all’asilo politico, e contestualmente a dare esecuzione alle convenzioni internazionali in materia, tentando di conciliare il tema della sicurezza con quello dell’accoglienza.
In particolare, la proposta individuava i titolari del diritto di asilo; definiva la composizione e i compiti delle Commissioni territoriali e della Commissione centrale per il riconoscimento del diritto di asilo; individuava in dettaglio le modalità per la presentazione e l’esame delle domande di asilo; stabiliva misure di assistenza e di integrazione in favore dei soggetti richiedenti asilo e specificava i diritti spettanti ai rifugiati.
I punti caratterizzanti del testo erano i seguenti:
§ il riconoscimento del diritto di asilo non soltanto a coloro che sono qualificati come rifugiati secondo le Convenzioni internazionali, ma anche a tutti coloro ai quali nel loro paese di origine sono conculcate le libertà democratiche, ossia a coloro cui è impedito l’effettivo esercizio del diritto di espressione e di libertà politiche e democratiche;
§ l’estensione dei diritto di asilo anche al coniuge e al convivente;
§ la costituzione di commissioni competenti ad esaminare le domande di asilo articolate sul territorio che garantiscono tempi più rapidi rispetto alla commissione unica nazionale;
§ la garanzia ai richiedenti l’asilo dell’assistenza tecnico-giuridica e di tempi ragionevoli per l’esame della domanda;
§ la disciplina dei centri di identificazione e introduzione della convalida da parte dell’autorità giudiziaria nel caso di trattenimento dei richiedenti asilo;
§ la possibilità di ricorrere davanti all’autorità giudiziaria in caso di rigetto della domanda.
I sei progetti di legge esaminati nella XV legislatura recano una disciplina organica del diritto di asilo, attuativa della norma di cui al terzo comma dell’articolo 10 della Costituzione e delle relative convenzioni internazionali, espressamente richiamati all’articolo 1 di tutti i testi in esame.
La sola proposta A.C. 1449 istituisce la “Giornata nazionale del diritto di asilo”, da celebrarsi il 20 giugno.
A norma dell’articolo 2 delle proposte di legge, il diritto d’asilo nel territorio italiano è riconosciuto:
§ allo straniero o all’apolide cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra;
§ allo straniero o all’apolide che non possa o non voglia avvalersi della protezione del paese del quale è cittadino o residente abituale, se impedito nell’esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione italiana ed esposto a pericolo per la vita propria o dei propri familiari oppure a restrizioni gravi della libertà personale.
A partire dall’articolo 3 le proposte in esame si differenziano in più punti e pertanto saranno illustrate come segue.
Le prime tre proposte (A.C. 191, 1449 e 1646) riproducono, sostanzialmente in modo analogo tra di loro, il contenuto dell’A.C. 1738 presentato nella XIV legislatura e, pertanto, sono esaminate insieme.
La proposta A.C. 2099, pur facendo anch’essa ampio riferimento all’A.C. 1738 presenta alcune caratteristiche peculiari, le principali delle quali sono oggetto di un esame a parte.
Le altre due proposte (A.C. 2182 e 2410) hanno un profilo autonomo e sono descritte separatamente. L’A.C. 2182 riproduce integralmente il testo unificato approvato dalla Commissione affari costituzionali nella XIV legislatura (A.C. 1238 e abbinate A).
L’articolo 3delle proposte A.C. 191 (on. Boato), A.C. 1449 (on. Piscitello) ed A.C. 1646 (on. De Zulueta) definisce i compiti della Commissione centrale per il riconoscimento del diritto di asilo, cui è affidato il compito di esaminare e decidere sulle domande di asilo. La Commissione ha la durata di tre anni, è divisa in tre sezioni ed è presieduta da un prefetto. La sola proposta A.C. 1449 prevede la possibilità di istituire sezioni territoriali.
L’articolo 4 reca norme relative alla presentazione della domanda di asilo presso il posto di polizia di frontiera ovvero presso la questura del luogo di dimora, mentre l’articolo 5 disciplina le domande di asilo presentate da minorenni non accompagnati, per i quali si prevede la nomina di un tutore.
L’articolo 6 regolamenta la fase del pre-esame della domanda di asilo, che si articola:
§ nell’accertamento circa la competenza dell’Italia sull’esame delle domande di asilo;
§ nella valutazione di ammissibilità della domanda di asilo;
§ nella valutazione di non manifesta infondatezza della domanda medesima.
In questa fase è previsto il trattenimento del richiedente asilo in sezioni apposite dei centri di permanenza (CPTA).
L’A.C. 2099 non contempla la fase del pre-esame delle richieste di asilo.
Gli articoli 7 e 8 dispongono in merito all’esame delle domande di asilo ed alle relative decisioni della Commissione centrale di cui all’articolo 3, le quali possono essere di tre tipi:
§ riconoscimento del diritto di asilo;
§ rigetto della domanda;
§ temporanea impossibilità al rimpatrio.
Sono previste adeguate garanzie per l’interessato, tra cui il diritto, su sua richiesta, di essere audito.
L’articolo 9 disciplina la decisione di impossibilità temporanea al rimpatrio, che viene adottata in assenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto di asilo ma in presenza di gravi e fondati motivi di carattere umanitario che rendano inopportuno il rinvio del richiedente al Paese di origine.
Avverso le decisioni della Commissione centrale può essere presentato, ai sensi dell’articolo 10, ricorso entro un mese dalla comunicazione o notificazione della decisione stessa.
Gli articoli 11 e 12 recano disposizioni sul permesso di soggiorno e il documento di viaggio.
L’articolo 13regola l’ipotesi dell’estinzione del diritto di asilo, che viene dichiarata dalla Commissione centrale che abbia accertato la non sussistenza delle condizioni richieste per il riconoscimento del diritto di asilo.
L’articolo 14 detta disposizioni finalizzate all’assistenza temporanea dei soggetti che abbiano presentato richieste di asilo, mentre l’articolo 15 definisce il quadro dei diritti riconosciuti a quanti abbiano ottenuto il riconoscimento del diritto di asilo (diritto a soggiornare nel territorio dello Stato, diritto al ricongiungimento familiare, all’integrazione, allo studio, al lavoro e all’assistenza sociale e sanitaria).
L’articolo 16 reca la disciplina delle misure di assistenza e di integrazione in favore dei rifugiati sulla base di programmi definiti con regolamenti governativi. È prevista l’erogazione di un contributo di prima assistenza da parte dei comuni.
L’articolo 17 detta disposizioni transitorie, mentre disposizioni finanziarie sono contenute nell’articolo 18.
La proposta di legge A.C. 2099 (on. Mascia ed altri) stabilisce che la Commissione centrale è presieduta da un docente universitario in materie giuridiche (articolo 3).
È disciplinato un procedimento di esame delle richieste di asilo, sostanzialmente simile alle prime tre proposte ad eccezione della fase del pre-esame, che non è contemplata.
Inoltre, in materia di tutela del richiedente asilo l’A.C. 2099 non prevede la possibilità di negare il prolungamento del permesso di soggiorno per richiesta di asilo nelle more del ricorso contro una decisione di respingimento della domanda, né l’espulsione in caso di rigetto del ricorso (articolo 9).
Infine, non è contemplata l’ipotesi dell’estinzione del diritto di asilo, prevista, invece, dalle altre proposte di legge.
La proposta di legge A.C. 2182 (on. Santelli e Bruno) prevede anch’essa l’istituzione di una commissione centrale per il diritto di asilo (articolo 4) con caratteristiche simili a quelle indicate dalle altre proposte ma, sulla scorta della legislazione allora vigente (confermata anche dalla nuova disciplina sui rifugiati), a tale commissione sono riservati compiti di indirizzo e coordinamento e di revoca e cessazione dello status di rifugiato, mentre alle commissioni territoriali (articolo 3) è affidato l’esame della domande.
L’articolo 5 introduce le modalità di presentazione della domanda, direttamente alla frontiera o presso le questure.
L’articolo 6 disciplina le domande di asilo presentate da minorenni non accompagnati, per i quali si prevede la nomina di un tutore.
L’articolo 7 prevede che il richiedente asilo può essere trattenuto per il tempo necessario alla definizione delle autorizzazioni alla permanenza nel territorio dello Stato. Devono essere trattenuti in ogni caso gli stranieri in posizione irregolare.
Le commissioni territoriali provvedono all’istruttoria della domanda di asilo (articolo 8) consistente principalmente nella definizione nella determinazione dello Stato competente per l’esame della domanda.
L’esame delle richieste di asilo vero e proprio è disciplinato dall’articolo 9 e prevede due procedimenti distinti: uno ordinario e uno semplificato per coloro che si trovano trattenuti ai sensi dell’art. 7.
Anche in questa proposta sono previste garanzie procedurali, tra cui l’obbligo di audire l’interessato (articolo 10).
L’articolo 11 verte sull’esito dell’esame da parte delle commissioni territoriali. In particolare, sono disciplinate in modo dettagliato le ipotesi di respingimento della domanda.
La decisione del rigetto della domanda comporta l’espulsione del richiedente asilo (articolo 12).
La decisione di impossibilità temporanea al rimpatrio (articolo 13) e le modalità di ricorso (articolo 14) sono analoghe alle prime tre proposte.
L’articolo 15 riguarda il permesso di soggiorno e altri documenti relativi allo status di rifugiato.
L’articolo 17 disciplina l’estinzione del diritto di asilo.
L’articolo 18 reca misure di carattere assistenziale in favore dei richiedenti asilo, prevedendo ampie competenze in capo agli enti locali. Tali misure sono finanziate con un fondo apposito istituito dall’articolo 19.
L’articolo 20 definisce i diritti dei rifugiati.
Infine, l’articolo 21 contiene le disposizioni transitorie e finali.
La prima parte della proposta di legge A.C. 2410 (on. Zaccaria ed altri) è dedicata alla disciplina di fattispecie non considerate dalle altre proposte, quali la protezione sussidiaria in favore di coloro che pur non possedendo i requisiti per ottenere il diritto di asilo, sono in situazione di pericolo (articolo 3), la protezione temporanea per afflussi massicci di sfollati (articolo 5), il reinsediamento di rifugiati trasferiti in Paesi terzi (articolo 7).
L’articolo 4 definisce in modo analitico i soggetti responsabili dell’impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche e gli atti da considerare tali.
L’articolo 6 concerne la protezione dei familiari dei rifugiati.
Analogamente alla proposta A.C. 2182, si prevede l’istituzione una commissione nazionale (articolo 8) e di commissioni territoriali (articolo 9).
Accanto a questi organismi, si prevede la costituzione dell’Ufficio nazionale per la protezione sociale (articolo 10) con compiti connessi con l’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati. L’Ufficio tra l’altro amministra il fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, di cui al successivo articolo 29.
L’articolo 11 disciplina la fase della presentazione della domanda di asilo in via generale, mentre con disposizioni specifiche sono disciplinate la presentazione della domanda alla frontiera (articolo 12), alla questura (articolo 13), alla rappresentanza diplomatica (articolo 14), al comandante della nave o dell’aeromobile in navigazione (articolo 15).
L’articolo 16 è dedicato alla questione dello Stato competente per l’esame delle domande di asilo.
L’articolo 17 disciplina la richiesta di asilo dei minori non accompagnati, in maniera sostanzialmente analoga alle altre proposte.
L’articolo 18 individua i diritti e i doveri dei richiedenti asilo nelle more dell’esame della domanda: si prevede, tra l’altro la possibilità di rilasciare loro un permesso di soggiorno per lavoro.
L’articolo 19 definisce le garanzie del richiedente asilo nel corso del procedimento, prevedendo, come anche la proposta A.C. 2410, l’obbligo di audire l’interessato.
L’esito della richiesta di asilo (articolo 20) può essere di
§ riconoscimento del diritto di asilo;
§ riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria;
§ reiezione della domanda;
§ sospensione della decisione per ulteriori accertamenti.
Contro la decisione può essere presentato ricorso con le modalità di cui all’articolo 21.
L’articolo 22 disciplina i documenti e i permessi di soggiorno relativi allo status di rifugiato.
Oltre ai diritti dei rifugiati previsti dalle altre proposte di legge, l’articolo 23 contempla l’equiparazione di essi ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea per quanto riguarda l’accesso al pubblico impiego, l’ottenimento della cittadinanza e il diritto di voto.
L’articolo 24 stabilisce misure per favorire l’integrazione dei rifugiati, alcune delle quali di competenza dell’Ufficio nazionale di cui all’articolo 10.
L’articolo 25 reca disposizioni in materia di revoca e cessazione del diritto di asilo.
Per coloro ai quali non è stato riconosciuto il diritto di asilo, sono previsti programmi di rimpatrio volontario (articolo 26).
L’articolo 27 prevede programmi di effettiva protezione dei rifugiati in Paesi vicini a quelli di origine.
Sono riconosciute la associazioni e gli enti di tutela dei rifugiati con compiti di promozione e consulenza (articolo 28).
Infine, l’articolo 29 istituisce il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo.
Diritto di circolazione dei cittadini UE
Il decreto legislativo 30/2007[274], come modificato dal decreto legislativo 32/2008[275], reca attuazione della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Esso è stato adottato in virtù della norma di delega conferita al Governo nell’art. 1, commi 1 e 3, della L. 62/2005 (legge comunitaria 2004)[276].
Il decreto, in conformità all’atto normativo europeo, prevede la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari, stabilendo pertanto la normativa diretta a sostituire interamente la precedente disciplina adottata con il D.P.R. 18 gennaio 2002, n. 54, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di circolazione e soggiorno dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea.
Il decreto legislativo 30/2007 è stato emanato nel febbraio 2007 e successivamente modificato, nella parte relativa all’allontanamento per motivi di sicurezza dei cittadini comunitari dal territorio italiano, da due decreti legge (n. 181 e 249 del 2007) entrambi decaduti (per un esame di queste vicende si veda il capitolo Diritto di circolazione dei cittadini UE,nel dossier 1/1, parte seconda). Alcune delle disposizioni in essi contenute sono confluite nel D.Lgs. 32/2008 che ha integrato il D.Lgs. 30/2007.
Il provvedimento disciplina le modalità di esercizio del diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio dello Stato da parte dei cittadini dell’Unione europea e dei familiari che li accompagnano o li raggiungono, i presupposti del diritto di soggiorno permanente, nonché le limitazioni ai predetti diritti per motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza (articolo 1).
Un particolare rilievo assume, anche alla luce del dibattito parlamentare in occasione dell’esame dello schema di decreto attuativo della direttiva 2004/38/CE, il recepimento degli articoli 2 e 3 della direttiva.
Tali articoli – recanti, rispettivamente, le definizioni dei termini usati nel testo e l’individuazione dei titolari del diritto di ingresso e soggiorno – individuano, nell’ambito dei familiari destinatari della direttiva medesima, il partner del cittadino dell’Unione europea.
La direttiva configura un vero e proprio diritto soggettivo all’ingresso e soggiorno per coloro che soddisfano le caratteristiche necessarie per essere definiti partner ai sensi dell’art. 2, lettera b), punto 2: tale condizione deve tuttavia risultare da un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro e diviene vincolante solo qualora lo Stato membro ospitante abbia una legislazione che equipari l’unione registrata al matrimonio, nel rispetto delle condizioni previste da tale legislazione.
In Italia tale previsione normativa non appare oggi applicabile, poiché manca nel nostro ordinamento una specifica disciplina giuridica delle “unioni di fatto” ed un riconoscimento giuridico delle “unioni civili” previste dagli ordinamenti di alcuni Paesi dell’Unione europea.
Peraltro, il comma 2, lett. b), dell’articolo 3 della direttiva, riferendosi alla (diversa) figura del “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”, pur non configurando per essa un diritto soggettivo pieno, prevede che lo Stato membro ospitante – conformemente alla sua legislazione nazionale - ne agevoli l’ingresso e il soggiorno.
Con riguardo a tale questione, come sottolinea la relazione illustrativa di accompagnamento dello schema di decreto presentato alle Camere per il prescritto parere, la scelta operata è stata quella di utilizzare quale modalità di recepimento l’integrale e testuale riproposizione degli artt. 2 e 3 della direttiva 2004/38/CE nei corrispondenti articoli 2 e 3 del decreto: ciò – precisa la relazione, “al fine di evitare che con il provvedimento venissero introdotti istituti non previsti dal nostro ordinamento”.
Gli articoli 4, 5 e 6 disciplinano il diritto di libera circolazione nell’ambito dell’Unione Europea a favore del cittadino dell’Unione europea e dei suoi familiari, qualunque sia la loro cittadinanza. Il diritto è condizionato esclusivamente al possesso di un documento d’identità valido per l’espatrio, per il cittadino europeo, ovvero al possesso del passaporto valido, per il suo familiare extracomunitario. Per questi ultimi è anche richiesto il visto d’ingresso, quando previsto dalla normativa vigente. Il visto non è richiesto nei casi in cui il familiare, non cittadino europeo, sia in possesso della carta di soggiorno (disciplinata dal successivo art. 10).
La permanenza entro i tre mesi di tempo non è soggetta a nessuna ulteriore formalità. Tuttavia, il D.Lgs. 32/2008 ha introdotto la possibilità, per il cittadino dell’Unione o il suo familiare che abbia fatto ingresso in Italia, di dichiarare presso un ufficio di polizia la propria presenza nel territorio nazionale. Tale adempimento non è obbligatorio; la sua mancanza, peraltro, fa sorgere la presunzione giuridica, di carattere relativo (che ammette, quindi, la prova contraria), che il soggiorno si sia protratto da oltre tre mesi.
Le modalità della dichiarazione sono rimesse a un decreto del ministro dell’interno da adottare entro trenta giorni dall’entrata in vigore della disposizione.
L’onere di dichiarazione e la correlata presunzione si collegano al diritto, riconosciuto come si è visto dall’art. 6, di soggiornare nel territorio nazionale per un periodo non superiore a tre mesi senza alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di un documento d’identità valido per l’espatrio (o, per i familiari, di un passaporto valido).
Si rammenta che l’art. 5, co. 5, della direttiva dà allo Stato membro la possibilità di “prescrivere all’interessato di dichiarare la propria presenza nel territorio nazionale entro un termine ragionevole e non discriminatorio. L’inosservanza di tale obbligo può comportare sanzioni proporzionate e non discriminatorie”.
L’articolo 7 riconosce il diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi al cittadino dell’Unione che sia lavoratore subordinato o autonomo, ovvero che disponga per sé e per i propri familiari di risorse economiche sufficienti per il periodo del soggiorno[277] non divenendo un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato e di una assicurazione sanitaria o di altro titolo idoneo che copra tutti i rischi. Analogo diritto è riconosciuto anche a chi frequenti un corso di studi o di formazione professionale presso un istituto pubblico o privato. Anche in tal caso il diritto di soggiorno è subordinato alla titolarità di una assicurazione sanitaria e alla dimostrazione di disporre di risorse economiche sufficienti per il periodo del soggiorno. Infine il diritto di soggiorno è riconosciuto al familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, che accompagna o raggiunge il cittadino dell’Unione cui è riconosciuto il diritto di soggiorno. È prevista la conservazione del diritto di soggiorno a favore del cittadino comunitario, già lavoratore subordinato o autonomo, nei casi d’inabilità temporanea al lavoro per malattia o infortunio ovvero in stato di disoccupazione involontaria, dopo aver lavorato nello Stato per oltre un anno. Nell’eventualità, invece, in cui la disoccupazione involontaria si sia verificata durante i primi dodici mesi di soggiorno nel territorio nazionale, il cittadino dell’Unione conserva il diritto di soggiorno per un solo anno.
A tutela dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, nei casi di rifiuto o revoca del diritto di ingresso e soggiorno è ammesso ricorso al tribunale in composizione monocratica del luogo in cui dimora lo straniero, il quale provvede, sentito l’interessato, pronunciandosi in camera di consiglio ai sensi dell’art. 737 del codice di procedura civile (articolo 8).
Per l’iscrizione anagrafica del cittadino dell’Unione e dei suoi familiari si rinvia alla normativa generale in materia[278]. Trascorsi tre mesi dall’ingresso nel territorio nazionale, l’interessato deve chiedere l’iscrizione al comune. Per l’iscrizione, oltre l’ordinaria documentazione prevista dalla normativa vigente per i cittadini italiani, è anche richiesta una documentazione specifica secondo le condizioni cui è collegato il diritto di soggiorno (articolo 9).
L’articolo 10 disciplina la carta di soggiorno per il familiare del cittadino dell’Unione con cittadinanza di Stato extracomunitario: trascorsi tre mesi dall’ingresso nel territorio nazionale, il familiare interessato deve fare richiesta alla questura del luogo di residenza per il rilascio della carta di soggiorno.
La carta di soggiorno ha validità quinquennale anche nell’eventualità di assenze temporanee non superiori a sei mesi e, nel caso di periodi maggiori, quando l’assenza è dovuta all’assolvimento di obblighi militari o è dovuta a rilevanti motivi quali gravidanza e maternità o malattia grave.
Nel caso di decesso o partenza dallo Stato del cittadino dell’Unione, l’articolo 11 garantisce la conservazione del diritto di soggiorno a favore dei suoi familiari, cittadini di Stati membri dell’Unione europea, purché questi abbiano acquisito il “diritto di soggiorno permanente” (vedi infra) oppure abbiano i requisiti che consentono il riconoscimento del diritto di soggiorno autonomo (attività lavorativa ovvero polizza assicurativa e disponibilità di risorse economiche, etc.).
Per i familiari non cittadini dell’Unione, la conservazione del diritto di soggiorno è consentita a condizione di aver soggiornato nel territorio nazionale per almeno un anno e purché i familiari abbiano acquisito il diritto di soggiorno permanente o esercitino una attività lavorativa o dimostrino di possedere risorse economiche sufficienti e una polizza assicurativa sanitaria.
Nell’eventualità che non si sia verificata la condizione del soggiorno per almeno un anno, il decreto rinvia all’applicazione della disposizione di cui all’articolo 30, comma 5, del testo unico n. 286/1998 che, con disposizione valevole in via generale per i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea regolarmente soggiornanti, prevede, nelle medesime ipotesi, il rilascio del permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo o per studio purché ne ricorrano le condizioni. Si è ritenuto necessario estendere tale disposizione anche ai familiari di cittadini comunitari in quanto, in assenza di tale specifica previsione, per il caso in esame sarebbe stata prevista una normativa più favorevole ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea rispetto alla regolamentazione prevista per i comunitari.
Specifiche disposizioni sono previste in caso di divorzio o annullamento del matrimonio del cittadino dell’Unione europea (articolo 12).
Il diritto di soggiorno è conservato ai sensi della disposizione in esame fino a quando gli interessati dispongano di risorse economiche adeguate in modo da non diventare un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato, o fin quando non costituiscano un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica (articolo 13).
Qualsiasi cittadino dell’Unione europea, così come i suoi familiari, che abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per cinque anni nello Stato, gode del diritto di soggiorno permanente.
La continuità della residenza non è pregiudicata da assenze temporanee che non superino complessivamente sei mesi all’anno né da assenze superiori per l’assolvimento degli obblighi militari, né da un’assenza di dodici mesi complessivi dovuta a motivi rilevanti (gravidanza, maternità, malattia grave, studi o formazione, distacco per motivi di lavoro presso un altro Stato membro). Tale diritto non è più soggetto ad alcuna condizione, se non quella relativa ad assenze dallo Stato membro ospitante di durata superiore a due anni consecutivi. Le stesse disposizioni si applicano ai familiari dell’interessato, non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, che hanno legalmente risieduto cinque anni con il suddetto nello Stato in questione.
La direttiva riconosce ai cittadini dell’Unione che svolgono un’attività di lavoro subordinato o autonomo e ai loro familiari il diritto di soggiorno permanente prima dello scadere dei cinque anni consecutivi di residenza se determinate condizioni si verificano.
Relativamente all’attestazione della titolarità, l’articolo 16 prevede che la richiesta dell’interessato, accompagnata dalla documentazione attestante le condizioni stabilite, venga inoltrata al Comune di residenza che rilascia, entro trenta giorni, l’attestato che certifica la titolarità del diritto di soggiorno permanente. È poi stabilito che l’attestato potrà essere sostituito da una istruzione contenuta nel microchip della carta d’identità elettronica ai sensi del D.Lgs. 82/2005[279].
I familiari extracomunitari del cittadino dell’Unione europea possono presentare richiesta alla questura competente, che entro 90 giorni rilascia una “Carta di soggiorno permanente per familiari di cittadini europei” (articolo 17).
Il decreto rinvia alla legislazione vigente in ordine ai mezzi di prova dei requisiti per il mantenimento del soggiorno e per le deroghe relative al diritto di soggiorno permanente. La continuità del soggiorno è comunque interrotta dal provvedimento di allontanamento adottato nei confronti dell’interessato. L’allontanamento (come specificato dal decreto correttivo, il D.Lgs. 82/2008) comporta la cancellazione anagrafica (articolo 18).
Conformemente alla normativa previgente, ai cittadini dell’Unione ed ai loro familiari, indipendentemente dalla loro cittadinanza, è consentito lo svolgimento di qualsiasi attività economica autonoma o subordinata escluse quelle attività che la legge, conformemente ai Trattati dell’Unione europea ed alla normativa comunitaria, riserva ai cittadini italiani. In linea con quanto disposto dalla direttiva 2004/38/CE, il decreto stabilisce che per i primi tre mesi di soggiorno i cittadini comunitari e i loro familiari non godono del diritto a prestazioni d’assistenza sociale (articolo 19).
Il decreto legislativo distingue due fattispecie principali di cause che determinano limitazioni al diritto di soggiorno, e quindi l’allontanamento del cittadini comunitario: quella derivante da motivi di sicurezza (artt. 20, 20-bis e 20-ter), e quella per la perdita dei requisiti che consentono il soggiorno (art. 21).
Per quanto riguarda la prima fattispecie, si distinguono tre ipotesi:
§ motivi di sicurezza dello Stato;
§ motivi imperativi di pubblica sicurezza;
§ altri motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.
Il comma 2 indica, a titolo esemplificativo, che i motivi di sicurezza dello Stato si verificano “anche” quando ricorra una delle seguenti condizioni:
§ il destinatario appartenga ad una delle categorie di cui all’art. 18 della L. 152/1975[280];
§ vi siano fondati motivi di ritenere che la permanenza del destinatario nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali.
Le categorie di cui all’art. 18 della L. 152/1975[281] comprendono coloro che:
5. operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei delitti elencati dal citato art. 18[282], nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale;
6. abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della L. 645/1952[283] (concernente la riorganizzazione del disciolto partito fascista) e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente;
7. compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’art. 1 della citata L. 645/1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza;
8. fuori dei casi sin qui indicati, siano stati condannati per uno dei delitti in materia di armi previsti nella L. 895/1967[284] e negli artt. 8 e seguenti della L. 497/1974[285], quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato nel precedente n. 1.
Agli appartenenti alle categorie sin qui illustrate sono equiparati i relativi istigatori, mandanti e finanziatori (è definito finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo a cui sono destinati).
Si tratta delle stesse condizioni per le quali l’art. 3, co. 1 del D.L. 144/2005 (vedi scheda Contrasto dell’immigrazione clandestina, pag. 126) ha previsto l’espulsione per motivi di terrorismo dello straniero non comunitario su decisione del ministro dell’interno.
E al citato decreto 144 faceva esplicito riferimento l’art. 3 del decreto-legge 249/2007 (decaduto), le cui disposizioni sono in parte confluite nel comma in esame.
I motivi imperativi di pubblica sicurezza (la cui disciplina ricalca quella dell’art. 4 del decreto 144) sussistono in presenza di “comportamenti che costituiscono una minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona o dell’incolumità pubblica” tali da rendere urgente l’allontanamento dello straniero, in quanto la sua permanenza “è incompatibile con la civile e sicura convivenza” (comma 3).
Nella disposizione vengono individuati alcuni elementi che devono essere presi in considerazione in sede di adozione del provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale per motivi imperativi di pubblica sicurezza.
La norma fa riferimento, in primo luogo, ad eventuali sentenze di condanna pronunciate da un giudice nazionale o straniero per uno o più delitti non colposi, anche tentati contro la vita o l’incolumità della persona, ovvero per taluni delitti corrispondenti a quelli previsti dall’articolo 8 della legge 69/2005[286], anche nel caso in cui la pena inflitta per i citati reati sia stata oggetto di patteggiamento ai sensi dell’articolo 444 c.p.p..
La citata L. 69/2005 reca disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. In particolare, l’articolo 8, richiamato dal comma in esame,delimita il campo di applicazione obbligatoria del mandato di arresto europeo che prescinde dalla necessità di doppia punibilità (nel Paese emittente il mandato ed in quello ricevente) enucleando un elenco di 32 reati (per i quali la pena sia, nel Paese emittente, pari o superiore a 3 anni): tra essi, si segnalano la partecipazione ad un’associazione criminale, il terrorismo, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento sessuale e la pornografia minorile, lo stupro, numerose fattispecie di traffico illecito (droga, armi, materiali nucleari e radioattivi, organi e tessuti umani, veicoli rubati, sostanze ormonali), la corruzione, frode (anche a danno delle comunità europee) il riciclaggio, l’omicidio volontario, reati ambientali, il razzismo e la xenofobia.
Inoltre, dovrà essere tenuta in considerazione l’eventuale appartenenza della persona da allontanare per motivi imperativi di pubblica sicurezza a taluna delle categorie di persone nei cui confronti è possibile applicare una misura di prevenzione personale ai sensi dell’art. 1 della L. 1423/1956[287], e dell’art. 1 della L. 575/1965[288].
La L. 1423/1956 individua i seguenti destinatari delle misure di prevenzione personale:
§ coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi;
§ coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
§ coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
A sua volta, la L. 575/1965 individua i destinatari delle misure di prevenzione “antimafia”, in coloro che siano “indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.
Da ultimo, il comma 3 fa, altresì, riferimento all’eventuale applicazione di misure di prevenzione o di allontanamento disposte da autorità straniere.
Tutti i provvedimenti di allontanamento sono adottati nel rispetto del principio della proporzionalità e non possono essere motivati da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell’interessato che comunque devono rappresentare una minaccia reale ed attuale tale da pregiudicare l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica. Tra le motivazioni da escludere sono comprese le ragioni di ordine economico[289].
La valutazione è fatta con riferimento a comportamenti concreti e non è di per sé sufficiente l’esistenza di condanne penali.
Nell’adottare il provvedimento di allontanamento, deve comunque tenersi conto della durata del soggiorno in Italia dell’interessato, della sua età, del suo stato di salute, della sua situazione familiare ed economica, della sua integrazione sociale e culturale in Italia e dell’importanza dei suoi legami con il paese di origine.
Per i cittadini comunitari ed i loro familiari che hanno acquisito il diritto di soggiorno permanente, l’allontanamento è disposto esclusivamente per gravi motivi: si tratta degli stessi motivi individuati nei commi precedenti: motivi di sicurezza dello Stato, nei motivi imperativi di pubblica sicurezza e in altri motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, con la differenza che questi ultimi (motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza) devono essere particolarmente gravi.
Invece l’allontanamento di coloro che hanno soggiornato nel territorio dello Stato per oltre dieci anni e per i minorenni può essere disposto esclusivamente per motivi di sicurezza dello Stato o motivi imperativi di pubblica sicurezza. Resta comunque salva la possibilità, per i minorenni, di adottare l’allontanamento nel caso in cui questo è necessario nell’interesse del minore stesso, come previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo.
Le malattie e le infermità possono costituire motivo di allontanamento, ma unicamente nel caso siano individuate dall’Organizzazione mondiale della sanità, oppure riguardino malattie infettive o parassitarie contagiose, oggetto di disposizioni valide anche per i cittadini italiani. Sono, inoltre, escluse le malattie insorte dopo l’ingresso in Italia.
Quanto alla titolarità del potere di allontanamento, la nuova formulazione del comma 9 (già 7) dell’articolo 20 delinea un “doppio binario”, con una suddivisione delle competenze tra ministro dell’interno e prefetto[290].
Spettano al ministro dell’interno i provvedimenti di allontanamento disposti:
§ per motivi imperativi di pubblica sicurezza limitatamente all’ipotesi di cui al comma 7 (allontanamento di soggiornanti di lungo periodo o di minorenni);
§ per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato;
Competono invece al prefetto i provvedimenti disposti negli altri casi, tra cui, quelli per motivi imperativi di pubblica sicurezza e, presumibilmente i motivi di pubblica sicurezza.
La competenza territoriale del prefetto è individuata secondo la residenza o dimora del destinatario del provvedimento.
Il principale elemento di innovazione recato dal decreto correttivo in tema di competenza all’allontanamento risiede peraltro nella attribuzione della relativa titolarità al prefetto. Nel testo previgente, infatti, i poteri di allontanamento erano attribuiti in tutti i casi al ministro dell’interno.
La relazione governativa di illustrazione dello schema di decreto correttivo presentato alle Camere afferma al riguardo che la devoluzione al prefetto della competenza in ordine all’adozione dei provvedimenti di allontanamento per motivi di pubblica sicurezza, in linea con le altre innovazioni introdotte, ha lo scopo di rendere più celeri le procedure di allontanamento nei casi esso consegua a motivi di pubblica sicurezza.
Il Governo segnala che, a livello sistematico, il potere prefettizio di allontanamento trova un precedente legislativo nell’art. 13 del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (vedi scheda Contrasto dell’immigrazione clandestina, pag. 126).
La disposizione richiamata stabilisce, infatti, (co. 1) che per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il ministro dell’interno può disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei ministri e al ministro degli affari esteri. L’espulsione è invece disposta dal prefetto quando lo straniero, tra l’altro (co. 2, lett. c)), rientri nella categoria delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, ovvero in quella degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.
Peraltro, l’art. 21, co. 2 (non modificato in questa parte) del D.Lgs. 30/2007 attribuisce al prefetto la competenza ad adottare i provvedimenti di allontanamento dei cittadini comunitari e dei loro familiari nel caso in cui il provvedimento fosse motivato dal venir meno delle condizioni che determinano il diritto al soggiorno nel territorio nazionale.
Quanto ai fondamentali caratteri del provvedimento di allontanamento il nuovo testo dell’art. 20, co. 10, reca una disciplina uniforme per i provvedimenti adottati dal ministro dell’interno e dal prefetto.
In particolare, si prevede che l’allontanamento:
§ sia disposto con atto motivato, salvo che alla motivazione ostino motivi attinenti alla sicurezza dello Stato[291];
§ se il destinatario del provvedimento non comprende la lingua italiana, sia accompagnato da una traduzione[292] del suo contenuto redatta –anche attraverso l’utilizzo di appositi formulari, sufficientemente dettagliati – in una lingua comprensibile dall’interessato o, comunque, in francese, inglese, spagnolo o tedesco, sulla base delle preferenze indicate dall’interessato;
§ sia notificato all’interessato;
§ debba riportare le modalità di impugnazione;
§ salvi i casi di esecuzione immediata dell’allontanamento, introdotti dal successivo comma 11, debba indicare il termine per lasciare il territorio nazionale, che non può essere inferiore ad un mese dalla data di notifica, ma che nei casi di comprovata urgenza può essere ridotto a 10 giorni[293];
§ debba indicare la durata del divieto di reingresso in Italia, che non può essere superiore a 10 anni nei casi di allontanamento per motivi di sicurezza dello Stato e a 5 anni negli altri casi[294].
Con riferimento all’esecuzione del provvedimenti di allontanamento, il nuovo testo dell’articolo 20 conferma che di norma all’allontanamento si provveda mediante intimazione ad abbandonare il territorio nazionale entro un termine fissato dal provvedimento, che, come si è detto, non può essere inferiore a un mese dalla data della notifica. Tale termine può, peraltro, essere derogato in presenza di casi di comprovata urgenza.
Il successivo comma 11 stabilisce tuttavia che, ove ricorrano motivi di sicurezza dello Stato e per motivi imperativi di pubblica sicurezza, il provvedimento di allontanamento è immediatamente eseguito dal questore.
Il testo non chiarisce con quali modalità il questore debba provvedere all’esecuzione dell’allontanamento. L’art. 13, co. 4 del D.Lgs. 286/1998, precisa come l’espulsione dello straniero non appartenente all’Unione europea debba essere eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Tale questione applicativa si poneva, peraltro, già con riferimento al comma 9 dell’art. 20 del testo previgente, il quale già contemplava analoghe fattispecie di esecuzione immediata dell’allontanamento.
Innovando rispetto alla disciplina precedente, il testo prevede invece espressamente, tramite rinvio all’art. 13, co. 5-bis, del D.Lgs. 286/1998, che il rimedio giurisdizionale esperibile avverso il provvedimento di allontanamento eseguito dal questore per motivi imperativi di pubblica sicurezza è il medesimo previsto per gli stranieri cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea (vedi scheda Contrasto dell’immigrazione clandestina, pag. 126), con la differenza che per i comunitari l’autorità competente a decidere è il tribunale ordinario e non il giudice di pace (vedi oltre).
Il questore dispone inoltre l’allontanamento immediato dal territorio dello Stato anche nei casi in cui:
§ l’intimato non abbandoni il territorio dello Stato entro il termine in precedenza assegnato in sede di intimazione (art. 20, co. 12, nel testo novellato, la disposizione era peraltro già contenuta nel co. 9 del testo vigente);
§ il destinatario del provvedimento rientri nel territorio dello Stato in violazione del divieto di reingresso (art. 20, co. 14, nel testo novellato); la disposizione era contenuta nel co. 8 del testo previgente, ma ora la decisione dell’allontanamento è disposta a discrezione del giudice, in sostituzione della reclusione (vedi oltre).
Anche con riferimento a dette fattispecie il testo prevede, attraverso il rinvio all’art. 13, co. 5-bis, del D.Lgs. 286/1998, la presenza di un giudizio di convalida coincidente con quello previsto in caso di espulsione con accompagnamento alla frontiera di stranieri cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea.
Innovando rispetto alla disciplina previgente, il comma 13 dell’articolo 20 introduce una procedura che consente al cittadino dell’Unione destinatario del provvedimento di allontanamento di chiedere la revoca del divieto di reingresso, qualora ritenga di poter dimostrare l’avvenuto oggettivo mutamento delle circostanze che hanno motivato la decisione, purché sia decorsa almeno la metà della durata del divieto, o comunque almeno tre anni, dall’esecuzione del provvedimento.
Sulla domanda decide entro sei mesi con atto motivato l’autorità che ha emanato il provvedimento. Durante l’esame della domanda l’interessato non ha diritto di ingresso nel territorio nazionale.
Il comma 14 dell’articolo 20 dispone invece in ordine alle conseguenze della violazione del divieto di reingresso.
Sul punto, viene innovato il D.Lgs. 30 nel testo originario, che prevedeva una fattispecie contravvenzionale, punita con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000.
In particolare, si prevede che il divieto di reingresso configuri un’ipotesi di delitto, punito, se l’allontanamento era stato disposto per motivi di sicurezza dello Stato, con la reclusione fino a due anni, che nelle altre ipotesi è ridotta ad un anno[295]. In alternativa la pena detentiva può essere sostituita, a discrezione del giudice, con l’allontanamento immediato con divieto di reingresso nel territorio nazionale per un periodo da cinque a dieci anni. L’allontanamento è eseguito immediatamente dal questore, anche in presenza di sentenza non definitiva.
Nel caso di ulteriore ingresso la pena è aumentata fino a tre anni.
Le segnalazioni del sindaco della città dello straniero sono tenute in considerazione ai fini delle decisioni di allontanamento (comma 17).
È stato, inoltre, introdotto un articolo 20-bis che disciplina l’ipotesi dell’allontanamento di stranieri sottoposti a procedimento penale pendente, recependo così le indicazioni emerse in sede di esame parlamentare.
In questa ipotesi, la decisione di allontanamento è sottoposta a convalida secondo le procedure previste dall’articolo 13, co. 3, 3-bis, 3-ter, 3-quater e 3-quinquies del testo unico sull’immigrazione, di cui al citato D.Lgs. 286/1998.
In altri termini, si rinvia alla analoga disciplina già vigente per i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e per gli apolidi. Tale disciplina si basa sulla necessità di un nulla-osta da parte dell’autorità giudiziaria (vedi scheda Contrasto dell’immigrazione clandestina, pag. 126)che viene in parte modificata (esclusivamente per l’allontanamento dei cittadini comunitari) come segue:
§ il nulla osta si intende concesso se il giudice non provvede entro 48 ore (e non entro 15 giorni come per i non comunitari);
§ nel caso di procedimenti non ancora conclusi che hanno ad oggetto reati di cui all’art. 380 cpp, non si dà luogo alla sentenza di non luogo a procedere che interrompe il giudizio, una volta constata l’avvenuta espulsione;
§ sempre in presenza di reati di cui all’art. 380 è possibile procedere all’allontanamento solo in assenza di misure cautelari detentive;
§ l’interessato può essere autorizzato a rientrare nel territorio dello Stato, anche dopo l’allontanamento, per esercitare il diritto alla difesa.
I provvedimenti di allontanamento sono sottoposti alla convalida da parte dell’autorità giudiziaria. L’autorità competente viene individuata nel tribunale ordinario in composizione monocratica (art. 20-ter).
In questo caso, la disciplina prevista per l’allontanamento degli stranieri comunitari si differenza da quella per l’espulsione degli stranieri non comunitari, per i quali è competente il giudice di pace (art. 13, co. 5-bis T.U.).
Si ricorda che sia il DL 181/2007 (art. 1-ter), sia il DL 249/2007 (art. 2), entrambi decaduti, disponevano anche per i non comunitari il trasferimento al tribunale ordinario in composizione monocratica le competenze in materia di espulsione riconosciute al giudice di pace.
L’allontanamento per cessazione delle condizioni che determinano il diritto di soggiorno (articolo 21) è invece previsto, per il cittadino dell’Unione e i suoi familiari, indipendentemente dalla loro nazionalità, nei casi in cui vengono a mancare le condizioni che hanno determinato il diritto di soggiorno. In tali ipotesi, l’allontanamento è disposto con provvedimento motivato del prefetto notificato all’interessato. Nell’adottare il provvedimento si deve tener conto della durata del soggiorno in Italia dell’interessato, della sua età, del suo stato di salute, della sua situazione familiare ed economica, della sua integrazione sociale e culturale in Italia e dell’importanza dei suoi legami con il paese di origine. Per queste ipotesi di allontanamento il provvedimento non può prevedere un divieto di reingresso.
Si prevede, inoltre, che, unitamente al provvedimento di allontanamento, sia consegnata al cittadino comunitario da allontanare anche una “attestazione di obbligo di adempimento” dell’allontanamento, secondo modalità stabilite con decreto del ministro dell’interno e del ministro degli affari esteri. Detta attestazione deve essere presentata presso un consolato italiano (in base al tenore letterale della disposizione non sembra necessario si tratti del consolato del Paese di cittadinanza dell’allontanato).
È conseguentemente introdotta (co. 4) una specifica fattispecie contravvenzionale, sanzionata con l’arresto da un mese a sei mesi e con l’ammenda da 200 a 2.000 euro, che ricorre allorquando l’allontanato sia individuato sul territorio dello Stato oltre il termine fissato nel provvedimento di allontanamento, e non abbia provveduto alla presentazione dell’attestazione di cui sopra.
Al riguardo, la relazione illustrativa dello schema di D.Lgs. correttivo evidenzia che la disciplina introdotta intende garantire maggiore efficacia al provvedimento di allontanamento nel rispetto delle disposizioni della direttiva comunitaria, la quale esclude che in caso di allontanamento per cessazione delle condizioni che determinano il diritto di soggiorno possa prevedersi un divieto di reingresso (art. 15, paragrafo, 3 della direttiva 2004/38/CE)[296]. La relazione sottolinea come, alla luce di tale previsione, l’esecuzione dell’allontanamento da parte del questore sarebbe un inutile dispendio di risorse umane e finanziarie, in quanto l’allontanato potrebbe comunque rientrare immediatamente sul territorio nazionale.
L’articolo 22 dello schema di decreto prevede i mezzi di tutela avverso i provvedimenti di allontanamento.
Si prevede una differenziazione dell’organo competente a ricevere i ricorsi fondata sul tipo di motivazioni alla base della decisione dell’allontanamento:
§ per i motivi di sicurezza dello Stato e per motivi di ordine pubblico il ricorso è presentato al Tribunale amministrativo del Lazio;
§ per i motivi di pubblica sicurezza e per motivi imperativi di pubblica sicurezza l’organo competente è il tribunale ordinario.
Il ricorso può essere presentato anche dall’estero. Unitamente al ricorso può essere presentata anche l’istanza di sospensione dell’allontanamento. In tal caso l’efficacia dell’allontanamento è sospesa fino alla decisione della relativa istanza, salvo che il provvedimento di allontanamento si basi su una precedente decisione giudiziale, oppure sia fondato su motivi di sicurezza dello Stato o su motivi imperativi di pubblica sicurezza. Il tribunale provvede in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile.
L’articolo 23 estende l’applicabilità delle norme contenute nel decreto legislativo, se più favorevoli, ai familiari di cittadini italiani di diversa cittadinanza.
L’articolo 24 prevede la norma di copertura finanziaria con un onere derivante valutato in 14,5 milioni di euro annui, a decorrere dal 2007, a carico della disponibilità del Fondo di rotazione di cui alla legge 183/1987[297] cui risorse sono assegnate all’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS) e al Fondo sanitario nazionale.
Iniziative in materia di cittadinanza
Composto da 19 articoli, il testo unificato elaborato dalla I Commissione Affari costituzionali della Camera innova la disciplina vigente sotto vari profili.
Intervenendo sull’art. 1, comma 1, della L. 91/1992, l’art. 1 del testo amplia il novero dei casi in cui la cittadinanza è attribuita in base al criterio dello jus soli.
Si introducono (art. 1) due nuovi casi di acquisizione automatica della cittadinanza italiana per nascita, stabilendo che essa può essere ottenuta da parte di:
§ coloro che nascono nel territorio italiano da genitori stranieri dei quali almeno uno vi risieda legalmente e in maniera continuativa da non meno di cinque anni;
§ coloro che nascono nel territorio italiano da genitori stranieri dei quali almeno uno sia nato in Italia e vi sia legalmente residente, senza interruzioni, da almeno un anno.
In tali casi la cittadinanza si acquista a seguito di una dichiarazione di volontà del genitore risultante nell’atto di nascita. Entro un anno dal compimento della maggiore età, i soggetti che hanno ottenuto secondo le modalità illustrate la cittadinanza italiana jure soli possono, nel caso in cui siano in possesso di un’altra cittadinanza, rinunciare a quella italiana. Qualora non sia stata resa da parte dei genitori la dichiarazione di volontà, al raggiungimento della maggiore età i soggetti in questione acquistano la cittadinanza su loro richiesta, senza condizioni, purché presentino domanda entro due anni.
Dopo il compimento del diciottesimo anno di età, lo straniero nato o entrato in Italia entro il quinto anno di età può acquistare la cittadinanza italiana se abbia risieduto legalmente in Italia fino al compimento della maggiore età[298], qualora manifesti entro un anno la volontà di diventare cittadino mediante un’apposita dichiarazione.
L’art. 2 introduce inoltre un diritto all’acquisizione della cittadinanza jure domicilii per il minore figlio di genitori stranieri che abbia frequentato corsi di istruzione presso istituti scolastici del sistema nazionale di istruzione o percorsi di formazione professionale per ottenere una qualifica professionale. Esso costituisce un’alternativa sia allo jus sanguinis, sia allo jus soli, fornendo un’opportunità di conseguire la cittadinanza a coloro che, pur non essendo nati in Italia, vi abbiano trascorso il periodo decisivo della formazione della loro personalità.
Per il conferimento della cittadinanza, in questo caso, è necessaria la presentazione di un’istanza da parte dei genitori ovvero del genitore che esercita la potestà genitoriale in base all’ordinamento del Paese di origine; resta comunque fissata la possibilità per gli interessati di rinunciare, entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, alla cittadinanza italiana per mantenere quella dei genitori o un’altra cittadinanza.
Il testo (art. 3) interviene in senso restrittivo sulla disciplina dettata dall’art. 5 della L. 91/1992, che regola l’acquisto della cittadinanza parte di stranieri che abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani, con l’intento di porre un freno al fenomeno dei “matrimoni di comodo”.
Tale finalità viene perseguita estendendo il periodo minimo di residenza in Italia (da sei mesi a due anni[299]) per l’attribuzione della cittadinanza jure matrimonii; inoltre, la persistenza del vincolo matrimoniale è richiesta al momento dell’adozione del decreto di conferimento della cittadinanza. Viene distinta l’ipotesi del matrimonio all’interno del quale siano nati o siano stati adottati dei figli: in questo caso i termini sono ridotti della metà.
La novità di maggior rilievo rispetto alla disciplina vigente è costituita dalle disposizioni di cui agli artt. 4 e 5 del provvedimento, che introducono un percorso di attribuzione della cittadinanza ulteriore rispetto a quello attualmente previsto dall’art. 9 della L. 91/1992, che viene comunque mantenuto pur con delle modifiche. Secondo la nuova previsione, la cittadinanza italiana è attribuita con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno:
§ allo straniero che risiede legalmente in Italia da almeno cinque anni (in luogo dei dieci attualmente previsti) e che è in possesso del requisito reddituale non inferiore a quello prescritto per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (che disponga cioè un reddito minimo non inferiore all’assegno sociale annuo; vedi la scheda Permesso di soggiorno CE di lungo periodo, pag. 200);
§ al cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea che risieda legalmente da almeno tre anni In Italia (tale ipotesi è già contemplata alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 9 della legge vigente, che viene soppressa, ma il periodo minimo di residenza è attualmente fissato in quattro anni);
§ allo straniero regolarmente soggiornante da almeno tre anni a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato.
Nel caso di cui al primo punto, l’attribuzione della cittadinanza è subordinata (art. 5), oltre che al soggiorno regolare e continuativo, anche all’accertamento della concreta integrazione linguistica e sociale dello straniero, che preveda una conoscenza della lingua italiana parlata, corrispondente a quella del diploma di scuola elementare, dei princìpi fondamentali della storia e della cultura italiana, dell’educazione civica e della Costituzione.
Le modalità di esecuzione di tali disposizioni (titoli idonei, documentazione da allegare all’istanza, modalità del colloquio volto ad accertare il reale grado di conoscenza della lingua, della cultura e delle istituzioni italiane, ecc.) sono definite con successivo D.P.R..
Il requisito dell’integrazione linguistica e sociale dello straniero è stato adottato con varie definizioni (“indicatore di socializzazione”, “sufficiente integrazione personale e professionale”) e con diverse modalità (test di integrazione, attestazione di conoscenza della lingua, frequenza di appositi corsi, eccetera), in alcuni Paesi europei, con lo scopo di verificare la serietà dell’intento dello straniero di acquisire la cittadinanza e la possibilità di un suo reale inserimento nel tessuto sociale del Paese in vista del rapporto perdurante e stabile che con il conferimento della cittadinanza verrà a determinarsi con la società e le sue istituzioni, anche attraverso la conseguente acquisizione dei diritti civili e politici che lo Stato riserva ai suoi cittadini.
Nell’ambito della Consulta per l’islam un comitato di esperti nominato dal Ministro dell’interno destinata ha elaborato la Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione, destinatanon solo all’adesione degli islamici ma di tutti coloro che vogliono diventare cittadini e adottata con decreto dello stesso Ministro[300].
Si prevede lo svolgimento, anche in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, di attività finalizzate a promuovere l’effettiva integrazione linguistica e sociale dello straniero (tra le quali, corsi di lingua e cultura italiana per stranieri).
La Fondazione ISMU (Studi e ricerche sulla multietnicità) ha svolto nel 2006 un’indagine per conto del Ministero del lavoro. Come si rileva da un’elaborazione dei dati emersi nel corso di tale indagine eseguita dal medesimo Istituto, sarebbero circa un 1.037.000 gli stranieri che, a seguito della riduzione dei termini da 10 a 5 anni, potrebbero presentare istanza per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Come sottolinea l’ISMU, si tratta di valori del tutto teorici sia perché non tutti coloro che sono nel nostro Paese da lungo tempo sono in possesso dei necessari requisiti di continuità rispetto alla residenza, sia perché, pur avendo i titoli richiesti, potrebbero non avere interesse ad acquisire la cittadinanza italiana.
Se dunque, con maggior realismo, ci si limita a considerare quel 9,8% di immigrati stranieri che sono già in possesso della carta di soggiorno e che vivono altresì con il coniuge e gli eventuali figli – associando pertanto un’anzianità di residenza in Italia almeno quinquennale con un progetto migratorio verosimilmente stabile - lo stock dei potenziali “aspiranti alla cittadinanza” a seguito della nuova normativa scenderebbe a 331.000 unità.
Anno |
Concessioni |
Reiezioni |
||||
Per matrimonio |
Per residenza |
Totale |
Per matrimonio |
Per residenza |
Totale |
|
2007 |
31.609 |
6.857 |
38.466 |
84 |
63 |
147 |
2006 |
30.151 |
5.615 |
35.766 |
279 |
243 |
522 |
2005 |
11.854 |
7.412 |
19.266 |
337 |
829 |
1.166 |
2004 |
9.997 |
1.948 |
11.945 |
261 |
1.056 |
1.317 |
2003 |
11.271 |
2.111 |
13.382 |
199 |
1.763 |
1.962 |
2002 |
9.728 |
917 |
10.645 |
143 |
762 |
905 |
2001 |
9.266 |
1.203 |
10.469 |
99 |
582 |
681 |
2000 |
8.027 |
1.518 |
9.545 |
121 |
524 |
645 |
1999 |
9.538 |
1.753 |
11.291 |
141 |
860 |
1.001 |
1998 |
10.930 |
1.106 |
12.036 |
131 |
558 |
689 |
1997 |
7.404 |
813 |
8.217 |
101 |
255 |
356 |
1996 |
6.053 |
899 |
6.952 |
112 |
325 |
437 |
1995 |
6.396 |
1.046 |
7.442 |
66 |
817 |
883 |
1994 |
5.498 |
495 |
5.993 |
62 |
880 |
942 |
1993 |
5.897 |
579 |
6.476 |
37 |
1.193 |
1.230 |
1992 |
3.844 |
601 |
4.445 |
72 |
488 |
560 |
Fonte: Ministero dell’interno. Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Direzione centrale per i diritti civili, la cittadinanza e le minoranze[301].
Il considerevole aumento dei casi di concessione della cittadinanza che si registra a partire dal 2006 è dovuto in larga parte all’adozione di un sistema di gestione informatica delle pratiche, che ne ha ridotto notevolmente i tempi di esame. Come ha rilevato il Sottosegretario all’interno, Lucidi[302], nel 2006, per la prima volta, il numero delle domande definite è stato superiore a quello delle domande presentate, il che ha significato una riduzione delle domande pregresse e pendenti.
L’art. 6 estende alcune cause ostative, che attualmente precludono il riconoscimento della cittadinanza per matrimonio, alle ipotesi di attribuzione della cittadinanza illustrate nel precedente paragrafo e a quella jure domicilii, e amplia il novero delle cause escludendo la possibilità di divenire cittadini italiani anche per coloro che hanno riportato una condanna per uno dei crimini contro l’umanità puniti ai sensi della legge penale internazionale.
Costituisce ostacolo per la concessione della cittadinanza anche la dichiarazione di delinquenza abituale. Si stabilisce infine che l’irrogazione di una misura cautelare personale, l’apertura di un procedimento penale per i reati previsti dall’art. 6 della L. 91/1992 o del procedimento di riconoscimento della sentenza straniera determinano la sospensione del procedimento per l’attribuzione della cittadinanza, fino alla comunicazione della sentenza definitiva di assoluzione, o del decreto di archiviazione o della revoca della misura cautelare. Il Ministro dell’interno respinge l’istanza di attribuzione della cittadinanza con decreto motivato ove sussistano le cause ostative prima ricordate (art. 8).
Viene collocata in un articolo autonomo la disposizione che già prevede, qualora sussistano motivi tali da far ritenere il richiedente pericoloso per la sicurezza della Repubblica, la reiezione con decreto motivato da parte del Ministro dell’interno dell’istanza per l’acquisto della cittadinanza: del rigetto viene data comunicazione al Presidente del Consiglio (in quest’ultima previsione è la differenza rispetto alla disciplina attuale); l’istanza può essere riproposta dopo due anni (invece dei cinque ora previsti). Qualora risulti necessario acquisire ulteriori informazioni in ordine alla pericolosità per la sicurezza della Repubblica, il Ministro dell’interno può sospendere il procedimento di attribuzione della cittadinanza per un periodo massimo di tre anni, informandone il Presidente del Consiglio.
L’art. 10 incide sull’art. 9 della L. 91/1992 stabilendo che la cittadinanza può essere concessa al minore straniero o apolide che abbia frequentato integralmente un ciclo scolastico in Italia, al raggiungimento della maggiore età, e riducendo da cinque a tre anni il termine per la concessione all’apolide che risieda legalmente in Italia.
Viene mantenuta la possibilità di concessione della cittadinanza per naturalizzazione allo straniero: al requisito del periodo minimo di dieci anni di presenza regolare e continuativa in Italia attualmente richiesto si aggiunge quello ulteriore del possesso di un reddito sufficiente al proprio sostentamento, che sia comunque non inferiore a quello richiesto per il rilascio del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo. Il reddito di riferimento del soggetto richiedente la cittadinanza è quello dell’anno precedente rispetto al momento di presentazione della domanda.
La modalità di acquisto della cittadinanza per concessione disciplinata dall’art. della L. 91/1992 è stata ritenuta dal relatore residuale[303] rispetto a quella dettata dagli artt. 4 e 5 del provvedimento, che ne costituiscono il nucleo centrale. In considerazione della sua residualità sono previsti requisiti, come si è visto, diversi. Oltre al maggior tempo di permanenza richiesto per la concessione della cittadinanza, un’ulteriore differenza risiede nel fatto che, secondo quanto emerge anche dalla giurisprudenza, il regime procedimentale della concessione della cittadinanza è improntato a valutazioni discrezionali dell’autorità competente, volte a considerare sia la situazione privatistica particolare dell’istante, sia quella generale dell’interesse pubblicistico della collettività.
Secondo il Consiglio di Stato, l’amministrazione chiamata a decidere sulla domanda di concessione di cittadinanza italiana è tenuta a verificare la serietà sia dell’intento ad ottenere la cittadinanza italiana, sia delle ragioni che inducono ad abbandonare la comunità di origine. È inoltre necessario accertare il grado di conoscenza della lingua italiana, l’idoneità professionale, l’ottemperanza agli obblighi tributari e contributivi. Non può essere trascurata l’esigenza di ricomposizione di gruppi familiari, parte dei quali già residenti nel territorio italiano. L’amministrazione deve verificare eventuali cause ostative all’acquisto di cittadinanza, collegate a ragioni di sicurezza della Repubblica ed all’ordine pubblico (Consiglio di Stato, sez. I, parere n. 1423 del 26 ottobre 1988).
Per quanto riguarda il diniego della concessione della cittadinanza italiana, è indubbio che l’amministrazione competente, anche laddove disponga di un’ampia discrezionalità, debba indicare sia pure sinteticamente le ragioni poste a base delle proprie determinazioni (Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 366 del 24 maggio 1995).
Come ricordato durante l’esame in Commissione, la disciplina approvata nel 1992, tenendo conto dell’intensificarsi del fenomeno dell’immigrazione, modificò il requisito del periodo minimo di permanenza in Italia elevandolo da cinque a dieci anni; contestualmente fu agevolato l’acquisto della cittadinanza per matrimonio, circostanza che ha prodotto la conseguenza di numerosi “matrimoni di comodo”, finalizzati al solo conseguimento della cittadinanza.
Il decreto di attribuzione o di concessione della cittadinanza acquista efficacia con la prestazione del giuramento, che avviene davanti al sindaco del comune di residenza dell’istante, ovvero, in caso di residenza all’estero, dinanzi all’autorità consolare del luogo di residenza. Al giuramento vieneattribuita maggiore solennità mediante una nuova formula che, evidenziando in maniera più precisa ed efficace i doveri del nuovo cittadino, costituisce un importante corollario del processo di integrazione (artt. 11 e 14).
Viene sancito (art. 12) il principio secondo cui è possibile conservare la cittadinanza di origine al momento dell’acquisizione di quella italiana, ammettendo in sostanza la doppia cittadinanza.
In Italia vige attualmente il regime della doppia cittadinanza, accettato esplicitamente con la legge 91 del 1992 (art. 11). La precedente legge del 1912 rifiutava formalmente il principio, ma casi di doppia cittadinanza erano comunque ampiamente tollerati o disciplinati attraverso trattati bilaterali al fine di non perdere i vantaggi derivanti da una forte comunità di cittadini residenti all’estero. L’istituzione del certificato di svincolo, ossia di rinuncia alla cittadinanza di origine, trova fondamento non nella legge n. 91 del 1992, e nemmeno nel relativo regolamento di attuazione, ma piuttosto nell’art. 1 del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362, recante il regolamento sulla disciplina del procedimento di concessione, il quale autorizzava il Ministero dell’interno a richiedere ulteriori documenti, oltre a quelli espressamente indicati dalle norme regolamentari. Il Ministero aveva quindi stabilito, con il decreto ministeriale 22 novembre 1994, che, ai fini della concessione della cittadinanza italiana, ai sensi dell’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, i naturalizzandi dovessero produrre un certificato di svincolo dalla cittadinanza posseduta, a meno che quest’ultima non venisse persa automaticamente con l’acquisto di uno status civitatis straniero. La produzione, da parte dell’interessato, del certificato di svincolo costituiva quindi condizione indispensabile per procedere alla predisposizione del decreto da sottoporre alla firma del Presidente della Repubblica. L’applicazione di detta norma regolamentare aveva peraltro evidenziato, nel tempo, vari profili di problematicità. Spesso gli aspiranti alla cittadinanza, per la normativa disciplinante la materia nei diversi Paesi, incontravano difficoltà per l’ottenimento del predetto certificato presso le autorità del proprio Stato di origine, con conseguente notevole allungamento dei tempi del procedimento di concessione. Peraltro, una volta ottenuto tale documento, l’interessato risultava privo della titolarità della cittadinanza di origine e non ancora in possesso di quella italiana: versava quindi in una condizione di apolidia di fatto, seppur temporanea, fino al momento del giuramento. Sulla base di tali considerazioni, con il decreto ministeriale 7 ottobre 2004, è stata definitivamente eliminata la richiesta di svincolo, anche al fine di adeguare la procedura di concessione dello status civitatis a criteri di razionalizzazione e semplificazione, nonché di favorire una migliore integrazione sociale dei nuovi cittadini[304].
Per quanto riguarda le modalità di computo del periodo di residenza legale (art. 15), il testo, premesso che tale periodo inizia dalla data di presentazione della dichiarazione anagrafica all’ufficio comunale, specifica che si considera che abbia soggiornato o risieduto in Italia senza interruzioni: per almeno un anno, chi in tale periodo abbia trascorso all’estero periodi complessivamente non superiori a novanta giorni; per almeno cinque anni, chi in tale periodo abbia trascorso all’estero periodi complessivamente non superiori a novanta giorni nell’ultimo anno e a quattrocentocinquanta giorni nel quinquennio.
Per quanto riguarda la questione circa il significato da attribuire alla locuzione “senza interruzioni” utilizzata nel provvedimento, con circolare del 5 gennaio 2007, il Ministro dell’interno è intervenuto sull’argomento. Nel passato, infatti, l’interruzione della permanenza in Italia è stata motivo di preclusione alla concessione della cittadinanza per residenza ai sensi dell’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, in quanto si riteneva non maturato il presupposto normativo. Ma, in un mondo in costante evoluzione non si è potuto non tener conto delle mutate condizioni di vita, le quali possono determinare brevi periodi di allontanamento dal territorio nazionale per motivate ragioni, quali, ad esempio, esigenze lavorative, di studio o di semplice arricchimento e scambio culturale. Sulla base di tali considerazioni - supportate peraltro da recenti pronunce giurisprudenziali - le eventuali assenze temporanee sono oggi considerate non più pregiudizievoli ai fini della concessione dello status civitatis a condizione che l’aspirante cittadino, recandosi all’estero, abbia comunque mantenuto in Italia la propria residenza legale, vale a dire l’iscrizione anagrafica presso il comune di residenza e il titolo di soggiorno valido per l’intero arco temporale, nonché il centro delle proprie relazioni familiari e sociali. Le ragioni dell’assenza - dovute comunque per lo più a necessità di studio, di lavoro, di assistenza alla famiglia di origine e di cure mediche - devono essere comprovate da idonea documentazione che lo straniero è tenuto a produrre ad integrazione dell’istanza[305].
L’art. 17 autorizza il Governo a riordinare e accorpare la disciplina di attuazione in materia di cittadinanza in un unico regolamento, in cui si stabilisce, per la conclusione dei procedimenti amministrativi per la concessione e per l’attribuzione della cittadinanza, un termine certo improrogabile, non superiore a ventiquattro mesi dalla data di presentazione dell’istanza.
L’articolo 18 reca alcune disposizioni transitorie che intendono definire la posizione degli stranieri maggiorenni, figli di genitori stranieri, che siano nati in Italia o vi risiedano da lungo tempo e abbiano già maturato i requisiti introdotti rispettivamente dagli artt. 1 e 2 del provvedimento: questi soggetti acquistano la cittadinanza italiana se effettuano una dichiarazione in tal senso entro tre anni dalla data di entrata in vigore del regolamento di attuazione.
L’art. 19 provvede alla copertura finanziaria del provvedimento.
Pari opportunità e non discriminazione
Il D.L. 181/2006[306] convertito con modificazioni dalla L. 233/2006[307], all’art. 1, comma 19, lettere f) e g), attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri le funzioni di competenza statale in materia di pari opportunità nei rapporti di lavoro e di azioni positive, precedentemente in capo al ministro del lavoro e delle politiche sociali, nonché le funzioni di competenza statale in materia di imprenditoria femminile in precedenza attribuite al ministro delle attività produttive dalla L. 215/1992[308].
Tali nuove competenze sono state successivamente trasferite, con il D.P.C.M. 15 giugno 2006[309] di conferimento deleghe, al Ministro per i diritti e le pari opportunità, prevedendo che il ministro possa esercitare le funzioni di programmazione, indirizzo e coordinamento di tutte le iniziative, anche normative, nonché ogni altra funzione attribuita dalle vigenti disposizioni al Presidente del Consiglio dei ministri nelle materie concernenti la promozione dei diritti della persona e delle pari opportunità nonché la prevenzione e rimozione di ogni forma e causa di discriminazione tra gli individui.
In particolare, il ministro è delegato a promuovere e coordinare le azioni del Governo:
§ volte ad assicurare l’attuazione delle politiche in materia di diritti e di pari opportunità tra uomo e donna con riferimento ai temi della salute, della ricerca, della scuola, dell’ambiente, della famiglia, delle cariche elettive e nelle nomine di competenza statale, nonché del lavoro e dell’imprenditoria (d’intesa con il ministro del lavoro e della previdenza sociale), ed a promuovere la cultura dei diritti e delle pari opportunità nel settore dell’informazione e della comunicazione;
§ in tema di diritti umani delle donne e di diritti delle persone, e le azioni dirette a prevenire e rimuovere le discriminazioni per cause fondate, in particolare, sulla razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età e gli orientamenti sessuali;
§ in tema di diritti, prerogative e facoltà delle persone che prendono parte ad unioni di fatto (d’intesa col Ministro delle politiche per la famiglia).
Spetta inoltre al ministro indirizzare e coordinare l’attività di Governo esplicata per il tramite del Comitato interministeriale dei diritti umani, esercitando le funzioni del Presidente del Consiglio nell’ambito di tale Comitato. Si ricorda che il Comitato in oggetto è stato istituito presso il Ministero degli affari esteri con D.M. 15 febbraio 1978, n. 519.
Il Comitato, coadiuvando il ministro degli affari esteri e assicurando il collegamento tra i dicasteri e gli enti nazionali competenti in materia di diritti umani, rappresenta la sede istituzionale nella quale vengono predisposti i rapporti periodici che l’Italia è tenuta a presentare alle Organizzazioni internazionali di cui è membro, in merito all’attuazione degli impegni assunti con la ratifica di convenzioni internazionali sui diritti umani.
Il Comitato interministeriale ha la funzione di vigilare sull’attuazione delle norme internazionali recepite nell’ordinamento italiano, svolgendo così anche un’azione propositiva presso le istituzioni nazionali e mantenendo rapporti costruttivi con le organizzazioni non governative che operano nel settore dei diritti umani.
Con
La stessa legge ha disposto la presentazione di una relazione annuale alle Camere in merito all’attività del Comitato.
Le competenze del ministro si estendono alle iniziative ed attività svolte dal Governo, nei settori indicati, in ambito comunitario ed internazionale.
Sono espressamente inclusi in quest’ambito di competenza:
§ la programmazione, l’indirizzo, il coordinamento ed il monitoraggio dei fondi strutturali europei in materia di pari opportunità;
§ il coordinamento delle politiche di Governo relative alla tutela dei diritti umani delle donne (d’intesa con il Ministro degli affari esteri), con particolare riferimento agli obiettivi indicati nella piattaforma di azione adottata dalla IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, svoltasi a Pechino nel settembre del 1995;
§ l’adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento comunitario e la realizzazione dei programmi comunitari in materia di parità di trattamento tra uomo e donna, di pari opportunità e di promozione di azioni positive, previsto dall’art. 18 della L. 6 febbraio 1996, n. 52 (legge comunitaria 1994);
§ la rappresentanza del Governo italiano in tutti gli organismi internazionali e comunitari aventi competenza in materia di diritti e pari opportunità, anche ai fini della formazione e dell’attuazione della normativa comunitaria.
In relazione a quanto detto, spetta al ministro la verifica dell’impatto di genere in tutte le iniziative di Governo.
Il ministro per i diritti e le pari opportunità
è infine delegato a presiedere, in coordinamento con il ministro della
solidarietà sociale,
Nel 1997 è stato istituito, nell’ambito della Presidenza del Consiglio, il Dipartimento per le pari opportunità, come struttura di supporto per l’attività del ministro. Ai sensi dell’art. 19 del decreto del Presidente del Consiglio del 23 luglio 2002, recante l’ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio, il Dipartimento per le pari opportunità opera nell’area funzionale concernente la promozione e il coordinamento delle politiche di pari opportunità e delle azioni di Governo volte a prevenire e rimuovere le discriminazioni.
Il Dipartimento si articola in tre Uffici competenti rispettivamente: per gli interventi in campo economico e sociale; per gli interventi in materia di parità e di pari opportunità; in materia di antidiscriminazione. Nell’articolazione organizzativa del Dipartimento è inserito anche un Nucleo di valutazione che ha il compito di vagliare, al fine di assicurare il rispetto del principio di pari opportunità, gli investimenti pubblici, promossi e attuati a livello nazionale e regionale, finanziati con risorse nazionali e comunitarie.
Il decreto del Presidente del Consiglio dell’11
dicembre
Le nuove funzioni esercitate dal ministro hanno comportato una riorganizzazione del Dipartimento per i diritti e le pari opportunità con la costituzione di nuovi organismi collegiali e il riordino di quelli già esistenti. Tale azione di riordino, prevista fra l’altro dall’art. 29 del D.L. 223/2006[313] convertito dalla L. 248/2006[314] Contenimento spesa per commissioni comitati ed altri organismi, è stata finalizzata alla eliminazione delle duplicazioni organizzative e funzionali, nonché a una riduzione della spesa complessiva funzionale per organismi collegiali[315].
Il D.P.R. 14 maggio 2007, n. 115[316],
reca il regolamento di riordino della Commissione
per le pari opportunità fra uomo e donna.
§ dal Ministro per i diritti e le pari opportunità, che la presiede e che può nominare con proprio decreto fino a quattro esperti e consulenti competenti in materia di politiche di genere determinandone il compenso;
§ da undici componenti scelti nell’ambito delle associazioni e dei movimenti delle donne maggiormente rappresentativi sul piano nazionale;
§ da tre donne che si siano particolarmente distinte, per riconoscimenti e titoli, in attività scientifiche, letterarie e sociali;
§ da tre rappresentanti regionali designati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
§ da quattro personalità espressive degli organismi sindacali con peculiare esperienza in materia di politiche di genere;
§ da tre componenti scelti nell’ambito delle organizzazioni imprenditoriali e della cooperazione femminile maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
§ fornisce consulenza e supporto tecnico-scientifico nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche di genere, sui provvedimenti di competenza dello Stato e in particolare propone il programma annuale di lavoro, indicando le conseguenti esigenze finanziarie;
§ controlla sistematicamente gli sviluppi delle politiche delle pari opportunità tra uomini e donne in ambito sopranazionale e comunitario e a tal fine redige un rapporto annuale per il Ministro sullo stato di attuazione delle politiche di pari opportunità, rilevando altresì l’eventuale mancato rispetto degli impegni comunitari;
§ segnala al Ministro le iniziative necessarie per conformare l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni alla parità dei sessi e, in generale, per realizzare l’effettiva parità nell’amministrazione.
Il D.P.R. 14 maggio 2007, n. 101[318], reca il regolamento di riordino del Comitato per l’imprenditoria femminile, stabilendo fra l’altro che il Comitato duri in carica tre anni decorrenti dalla data di entrata in vigore del regolamento. Il Comitato è presieduto dal Ministro per i diritti e le pari opportunità, o da un suo delegato, ed è composto dai Ministri del lavoro e della previdenza sociale, dello sviluppo economico, delle politiche agricole alimentari e forestali, dell’economia e delle finanze, delle politiche per la famiglia o da loro delegati, da due rappresentanti della Presidenza del Consiglio - Dipartimento per i diritti e le pari opportunità, tra i quali il Ministro designa un Vice Presidente, da un rappresentante del settore bancario designato dalle associazioni bancarie italiane di intesa fra loro nonché da un rappresentante per ciascuna delle organizzazioni operanti a livello nazionale nella cooperazione, nella piccola industria, nel commercio, nell’artigianato, nell’agricoltura, nel turismo e nei servizi. I membri del Comitato operano a titolo gratuito.
Il Comitato ha compiti di indirizzo, di coordinamento, di concertazione, di programmazione generale in ordine agli interventi previsti in materia di azioni positive per l’imprenditoria femminile, e promuove altresì lo studio, la ricerca e l’informazione sull’imprenditorialità’ femminile. Il Comitato può procedere ad audizioni di rappresentanti di associazioni, di esperti e tecnici.
Ulteriori organismi sono stati istituiti con
decreti ministeriali rispondendo ai compiti di coordinamento, indirizzo e
monitoraggio in capo al Dipartimento. Un
decreto ministeriale del 3 maggio
Presso il Dipartimento è stata altresì
istituita con decreto ministeriale 11 gennaio 2008,
Con decreto il 13 dicembre 2007 è stato istituito il Forum permanente contro le molestie gravi e la violenza alle donne, per orientamento sessuale e identità di genere, quale sede di dialogo e confronto fra istituzioni e società, nonché di sostegno e inclusione delle vittime. Di ancor più recente istituzionel’Osservatorio nazionale contro la violenza sessuale e di genere, previsto dal comma 1261, art. 1, della L. 296/2006 (Legge finanziaria 2007), avente compiti di analisi e ricerca scientifica e di supporto alla progettazione ed implementazione delle politiche di prevenzione, sensibilizzazione e contrasto alla violenza di genere, contro le donne e contro le persone di diverso orientamento sessuale[320].
Presso il Dipartimento è altresì operante
Pari opportunità e non discriminazione
Nel corso della legislatura sono mancati interventi organici in materia di pari opportunità; molteplici sono stati invece gli interventi settoriali per sostenere e incentivare l’occupazione femminile o per favorirla tramite il rafforzamento dei servizi di cura. Tali interventi sono rintracciabili soprattutto nelle leggi finanziarie sotto forma di incentivi o di misure di sostegno indiretto o come misure direttamente finalizzate al rispetto delle pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
Dalla modifica costituzionale dell’articolo 51 discendono le norme inserite nella L. 244/2007[321] (Legge finanziaria 2008) ai commi 376 e 377 dell’art. 1 (v. scheda La composizione dei successivi Governi, pag. 321) i quali, disponendo in tema di organizzazione del Governo, ribadiscono che la sua composizione deve essere coerente con il principio costituzionale delle pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
La nuova disciplina, che innova (senza novellarla) quella recata dal D.Lgs. 300/1999[322] , avrà efficacia “a partire dal Governo successivo a quello in carica” alla data di entrata in vigore della legge finanziaria. Ai sensi del comma 376, il contingente governativo dovrà essere configurato “in coerenza” con il principio costituzionale delle pari opportunità tra donne e uomini ai fini dell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Dalla formulazione dell’art. 51 Cost. non sembra peraltro discendere un puntuale vincolo giuridico (misurabile in termini di “quote”) in ordine alla rappresentanza dei due generi nella futura compagine governativa, quanto piuttosto l’obbligo di promuovere le “pari opportunità nell’accesso”; il modo in cui a tale principio si darà applicazione all’atto della formazione del nuovo Governo parrebbe dunque sostanzialmente rimesso alle sensibilità e alle dinamiche dei diversi attori politico-istituzionali (principalmente, il Presidente del Consiglio incaricato e il Capo dello Stato).
Ugualmente, i commi da 481 a 484 dell’art. 2 prevedono un’attività di sperimentazione volta ad introdurre, per le amministrazioni statali, il “Bilancio di genere”. La sperimentazione è prevista, limitatamente all’anno 2008, presso i Ministeri della salute, della pubblica istruzione, del lavoro e previdenza sociale e dell’università e della ricerca[323]. I criteri e le metodologie utili per la realizzazione della sperimentazione sono stabiliti con decreto del ministro dei diritti e delle pari opportunità, da adottare di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze. Ai fini della stesura sperimentale del bilancio di genere, il ministro per i diritti e le pari opportunità predispone corsi di formazione e di aggiornamento per i dirigenti dei suddetti Ministeri, per i quali viene autorizzata la spesa di 2 milioni di euro. Entro il 31 marzo 2009, il ministro per le pari opportunità presenta al Parlamento una apposita relazione recante l’indicazione dei risultati della sperimentazione.
I successivi commi da 485 a 487 istituiscono, per l’anno 2008, un Fondo con una dotazione di 1 milione di euro destinato all’inserimento nel programma statistico nazionale di rilevazioni statistiche di genere, da realizzarsi attraverso una disaggregazione dei dati raccolti nonché grazie all’utilizzo di indicatori “sensibili al genere”. Non sono oggetto di specifica disciplina le modalità di costituzione del Fondo e di attribuzione o ripartizione delle risorse stanziate; viene affidato all’ISTAT il compito di assicurare l’attuazione di tale obiettivo nell’ambito del Sistema statistico nazionale.
Obiettivo del provvedimento è la migliore lettura dei fenomeni sociali e culturali al femminile per permettere politiche adeguate e differenziate.
Un quadro generale per la parità di trattamento tra uomini e donne per quanto attiene all’accesso ai beni e servizio ed alla loro fornitura è stato stabilito dal D.Lgs. 196/2007[324], che ha novellato il Codice delle pari opportunità introducendo, nell’ambito del Libro III, il nuovo Titolo III Parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura recante nove articoli (da 55-bis a 55-decies). Il decreto, in attuazione della direttiva 2004/113/CE, reca la disciplina specifica relativa alla parità di trattamento tra donne e uomini per quanto riguarda l’accesso ai beni e servizi assicurativi e finanziari e alla loro fornitura, sia per il settore pubblico che per quello privato. Una particolare ed importante applicazione del principio contenuto nel provvedimento riguarda il settore delle assicurazioni: il riferimento al sesso come criterio nel calcolo dei premi e delle prestazioni per fini assicurativi e per altri servizi finanziari viene vietato; differenze proporzionate nei premi o nelle prestazioni individuali sono consentite soltanto ove il fattore sesso sia determinante nella valutazione dei rischi, in base a dati attuariali e statistici pertinenti e accurati. In ogni caso i costi inerenti alla gravidanza e alla maternità non possono determinare differenze nei premi o nelle prestazioni individuali. Il decreto prevede altresì una specifica procedura giurisdizionale a tutela di queste forme di discriminazione, nonché l’attribuzione al Dipartimento per i diritti e le pari opportunità di funzioni di assistenza alle vittime e di promozione della parità di trattamento negli ambiti presi in considerazione.
Diritti e libertà: altre iniziative
Nel corso della XV legislatura la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera ha esaminato due progetti di legge recanti norme sulla libertà religiosa, entrambi di iniziativa parlamentare (A.C. 36, Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi, presentato dall’on. Boato, e A.C. 134, con identico titolo, presentato dagli onn. Spini ed altri).
I due progetti di legge, pressoché identici, riproducono il disegno di legge governativo esaminato nella XIII legislatura (A.C. 3947), nel testo approvato dalla I Commissione affari costituzionali della Camera, sul quale il relatore aveva ricevuto mandato a riferire in Assemblea. Detto testo era successivamente stato riproposto, con varie modifiche, dal governo Berlusconi II nel corso della XIV legislatura (A.C. 2531).
Il capo I detta norme a tutela della libertà di coscienza e di religione. richiamando quali fonti i princìpi della Costituzione, le convenzioni sui diritti inviolabili dell'uomo, nonché i principi del diritto internazionale, e superando la dizione di “culti ammessi nello Stato”, rappresentativa della concezione, fatta propria dalla normativa del 1929, basata non sul principio della libertà religiosa, ma su quello della tolleranza dello Stato rispetto alla presenza di culti diversi dalla “religione di Stato”.
Gli altri principi individuati dai progetti di legge sono:
§ il diritto di manifestazione della libertà di religione, intesa come diritto a professare la propria fede religiosa, a diffonderla, ad osservarne i riti, ad esercitare il culto, nonché a mutare religione oppure a non averne alcuna;
§ il divieto di discriminazioni connesse a motivi religiosi, il diritto di riunione e di associazione per finalità di culto, e il diritto alla obiezione di coscienza;
§ il diritto dei genitori di istruire i figli secondo le proprie convinzioni religiose, e il principio della libera determinazione dei minori, nell'ambito delle scelte religiose, a partire dai quattordici anni di età;
§ la tutela dell'esercizio della libertà religiosa a soggetti che si trovano in particolari condizioni (appartenenti alle forze armate e di polizia, degenti in ospedale, detenuti), sui luoghi di lavoro e nell’ambito dell’insegnamento scolastico;
§ il riconoscimento della libertà di esercitare le proprie funzioni spirituali anche ai ministri dei culti per i quali non è stata ancora stipulata intesa con lo Stato, con l'unico onere di depositare la certificazione rilasciata dalla confessione di appartenenza, quando pongano in essere atti aventi rilevanza giuridica per lo Stato italiano;
§ la definizione delle procedure per la celebrazione del matrimonio con effetti civili, relativamente a culti religiosi per i quali non sia intervenuta l'intesa, ma le cui confessioni siano dotate di personalità giuridica;
§ la libertà di attività connesse alla vita religiosa, quali la pubblicazione e affissione di stampati e le collette, e la tutela degli edifici di culto.
Il capo II è dedicato alla disciplina delle confessioni e associazioni religiose. Esso prevede, innanzitutto, una tutela generale comune a tutte le confessioni, secondo il principio di cui all'articolo 8 della Costituzione, nell'ambito della quale sono compresi il diritto di celebrare i propri riti, di aprire edifici di culto, di diffondere la propria fede, di nominare i ministri di culto. Inoltre, si definiscono e disciplinano le forme di tutela e i benefici (anche di natura fiscale) cui possono accedere le confessioni che chiedono ed ottengono il riconoscimento della personalità giuridica, nonché i requisiti e la procedura del riconoscimento.
il capo III definisce le procedure per la stipulazione delle intese, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, fra lo Stato e le confessioni religiose. Il procedimento previsto ricalca sostanzialmente quello utilizzato nella prassi, con la notevole differenza che a tale procedimento possono avere accesso anche le confessioni che non abbiano previamente conseguito la personalità giuridica. Inoltre, il Presidente del Consiglio, già al momento in cui sottopone il progetto di intesa al Consiglio dei ministri, deve informare il Parlamento sui contenuti dello stesso.
Il capo IV reca disposizioni finali e transitorie.
L’esame delle due proposte è stato avviato dalla I Commissione nella seduta del 7 novembre 2006 e nella riunione del 27 novembre 2006 l'Ufficio di presidenza della Commissione, integrato dai rappresentanti di gruppo, ha convenuto sull'opportunità di procedere – nell’ambito dell’istruttoria legislativa - allo svolgimento di una indagine conoscitiva da articolarsi nell'audizione di rappresentanti della Conferenza episcopale italiana, di rappresentanti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica che hanno concluso un'intesa con lo Stato o che ne hanno fatto richiesta, della Consulta islamica e, infine, di esperti della materia.
Nella seduta del 19 giugno 2007 il relatore ha quindi presentato una prima proposta di testo unificato. Un nuovo testo unificato, che si differenzia dal precedente per alcune limitate modifiche introdotte dal relatore alla luce del dibattito svolto sulla iniziale proposta, è stato quindi presentato dal relatore ed adottato come testo base per il seguito dell’esame nella seduta del 4 luglio 2007.
La nuova serie di audizioni nell’ambito dell’indagine conoscitiva è stata quindi svolta al fine di acquisire osservazioni e valutazioni sul testo base adottato dalla Commissione.
Successivamente allo svolgimento del nuovo ciclo di audizioni e alla presentazione degli emendamenti[325], l’esame da parte della I Commissione è ripreso nella seduta del 24 luglio 2007 e non è successivamente proseguito.
Il testo unificato adottato come testo base dalla I Commissione, pur rifacendosi ai contenuti delle proposte A.C. 36 e A.C. 134, presenta rispetto ad esse una diversa articolazione ed alcune significative innovazioni.
Al riguardo, il relatore ha chiarito di aver tenuto conto, nella sua elaborazione, sia delle due proposte di legge iniziali, le quali a loro volta riproducevano il testo dei due disegni di legge in materia di libertà religiosa presentati dal Governo nella XIII e nella XIV legislatura, sia di quanto emerso nel corso dell’indagine conoscitiva svolta sulla materia dalla I Commissione. Trattandosi di un testo che intende costituire il punto di partenza per una legge quadro in materia di libertà religiosa, esso tiene altresì conto della complessiva disciplina vigente in materia nell'ordinamento italiano, dei trattati internazionali sottoscritti dall'Italia, nonché delle riflessioni della dottrina e della giurisprudenza.
Il testo base si compone di 6 Capi:
§ il capo I (artt. 1-15), reca le disposizioni in materia di libertà di religione;
§ il capo II (artt. 16-21) prevede l’istituzione di un registro delle confessioni religiose e disciplina le procedure per l’iscrizione nel registro;
§ il capo III (art. 22-29) disciplina lo status delle confessioni religiose iscritte nel registro;
§ il capo IV (artt. 30-33) detta disposizioni in ordine al riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso celebrato dai ministri di culto delle confessioni iscritte nel registro delle confessioni religiose;
§ il capo V (artt. 34-43) regola la stipulazione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose, previste dall’articolo 8 della Costituzione;
§ il capo VI (artt. 44-47) reca disposizioni finali e transitorie.
Il Capo I del testo unificato adottato come testo base (artt. 1-15) reca disposizioni in materia di libertà di religione, individuando una serie di diritti che trovano applicazione a prescindere dal riconoscimento della personalità della confessione religiosa o del suo ente esponenziale e dalla eventuale stipulazione di una intesa.
Rispetto all’impostazione iniziale delle proposte di legge all’esame della I Commissione, il testo elaborato dal relatore presenta una maggiore ampiezza, nonché alcune significative innovazioni, che riguardano in particolare la disciplina dei ministri di culto.
Più in particolare, l’articolo 1 enuncia espressamente la garanzia, riconosciuta a tutti, del diritto fondamentale, proprio della persona, della libertà di religione, sulla base delle disposizioni costituzionali, del diritto dell’Unione europea, delle convenzioni internazionali sui diritti inviolabili dell’uomo e dei princìpi del diritto internazionale in materia.
L’espressione “libertà di coscienza e di religione” presente nei testi delle proposte di legge all’esame della I Commissione è sostituita da quella di “libertà di religione”. Al riguardo, il successivo articolo 2 precisa che “la libertà di religione comprende e presuppone la libertà di coscienza e la libertà di pensiero in materia religiosa”.
Il testo adottato dalla Commissione reca inoltre una disposizione (art. 1, co. 2), che non era contenuta nel testo dell’A.C. 36 e dell’A.C. 134, volta ad evidenziare che il provvedimento “si fonda sul principio della laicità dello Stato al quale è data attuazione nelle leggi della Repubblica”.
L’articolo 2 garantisce invece le manifestazioni proprie della libertà religiosa, enumerando (co. 1 e 2) i diritti:
§ di mutare religione o di non averne alcuna;
§ di discutere liberamente di temi religiosi;
§ di professare liberamente la propria fede religiosa, in forma individuale o associata, pubblica e privata;
§ di diffonderla e di farne propaganda;
§ di osservarne i riti e di esercitare il culto.
Si prevede altresì che a tutti sia garantito un diritto alla riservatezza in ordine alla propria appartenenza religiosa ed alle opinioni in tale materia, stabilendo che nessuno possa essere obbligato a manifestare i propri orientamenti, salvi i casi necessari a tutelare la stessa libertà ed altri diritti costituzionalmente garantiti, e prevedendo un rinvio alla disciplina vigente in materia di protezione dei dati personali[326].
Si precisa inoltre (co. 4) che non possono essere disposte limitazioni alla libertà di religione diverse da quelle previste dall’art. 19 Cost., il quale pone come unico limite quello della contrarietà dei riti al buon costume.
Il testo unificato introduce infine una disposizione di principio non contenuta nei precedenti testi, in base alla quale l’abbigliamento indossato in ragione dell’adesione ad un precetto religioso deve comunque garantire la possibilità di identificare della persona che lo indossa (art. 2, co. 5).
L’articolo 3 pone un generale divieto di adozione di comportamenti discriminatori fondati su ragioni di carattere religioso sia nei rapporti tra privati, sia in quelli tra cittadini e pubblica amministrazione.
I commi 2 e 3 della disposizione, introdotti nel testo unificato adottato dalla Commissione come testo base, fanno uno specifico rinvio alle principali disposizioni vigenti nel nostro ordinamento in materia di discriminazioni per motivi religiosi e razziali, ed in particolare:
§ all’art. 3 della L. 654/1975[327], da ultimo modificata dalla L. 85/2006[328], che punisce l’istigazione e la commissione di atti di discriminazione e di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonché la partecipazione ad associazioni dirette a tali fini;
§ al D.L. 122/1993[329], che - oltre a modificare l’articolo 3 della L. 654 – ha, tra l’altro, introdotto una specifica circostanza aggravante per i reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di associazioni aventi tali finalità;
§ agli articoli 43 e 44 del Testo unico in materia di immigrazione[330], che – con disposizioni applicabili anche a cittadini italiani, comunitari ed apolidi - recano rispettivamente l’individuazione puntuale degli atti di discriminazione e la disciplina dell’azione in sede civile contro gli atti di discriminazione.
Il successivo articolo 4 estende espressamente alle finalità di religione o culto i diritti di riunione ed associazione che gli articoli 17 e 18 Cost. sanciscono (e, al tempo stesso, delimitano) in via generale.
Con riferimento ai principi in materia di esercizio della libertà religiosa in forma associata, l’articolo 5 – con una disposizione che non trova precisa corrispondenza nei testi delle proposte esaminate dalla I Commissione – riconosce alle confessioni religiose il diritto di:
§ celebrare i propri riti, purché questi non siano contrari al buon costume, in conformità all'art. 19 Cost.;
§ costruire luoghi di culto o destinare edifici già esistenti a tale funzione, nel rispetto della disciplina urbanistica;
§ produrre, pubblicare e diffondere atti e documenti sulla propria attività;
§ esercitare la libertà di propaganda e di proselitismo;
§ formare e nominare i propri ministri di culto;
§ assistere spiritualmente i propri fedeli;
§ comunicare e corrispondere liberamente al proprio interno e con altre confessioni in Italia e all'estero;
§ promuovere e valorizzare il proprio patrimonio culturale ed artistico.
Il successivo comma precisa, tuttavia, che l'esercizio di tali diritti da parte delle confessione religiosa non può pregiudicare i diritti inviolabili spettanti agli aderenti alla confessione stessa.
Le facoltà in cui si estrinseca la libertà religiosa dei singoli in ambito associativo sono elencate nell’articolo 6, comma 1. Sotto questo profilo, la libertà religiosa comprende quindi:
§ il diritto di aderire liberamente ad una confessione o associazione religiosa e di recedere da essa in modo parimenti libero ed incondizionato;
§ il diritto di partecipare, senza ingerenza da parte dello Stato, alla vita ed all’organizzazione della confessione religiosa di appartenenza in conformità alle sue regole.
Con una disposizione volta a garantire la libertà degli aderenti alle confessioni religiose all’interno delle confessioni stesse[331], il comma 2 dell’articolo 6 prevede che le confessioni ed associazioni religione debbano garantire il rispetto delle libertà costituzionali e dei diritti della persona dei propri fedeli, assicurando loro in particolare il rispetto dei principi del giusto processo nei procedimenti che eventualmente si svolgano all’interno delle comunità religiose.
Il successivo comma 3 ribadisce, a tutela dei diritti connessi alla libertà religiosa, che non possono essere posti in essere atti aventi lo scopo di discriminare, nuocere o recare molestia a coloro che abbiano esercitato tali diritti.
L’articolo 7 stabilisce (comma 1) che i cittadini hanno diritto di agire secondo i dettami imprescindibili della propria coscienza, nel rispetto delle leggi nonché dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione, mentre viene demandata (comma 2) alla legge la disciplina delle modalità per l’esercizio dell’obiezione di coscienza nei vari settori.
L’articolo 8, disponendo in materia di educazione religiosa, riconosce a quanti esercitano la potestà genitoriale il diritto di istruire ed educare i minori, anche se nati fuori dal matrimonio, in coerenza con la propria fede religiosa, nel rispetto della loro personalità e senza pregiudizio della salute dei medesimi.
Rispetto al testo dei progetti di legge all’esame della Commissione, il testo unificato richiama quanto disposto al riguardo dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con la L. 176/1991[332].
In particolare, ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione, “1. Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. 2. Gli Stati parti rispettano il diritto ed il dovere dei genitori oppure, se del caso, dei rappresentanti legali del bambino, di guidare quest'ultimo nello esercizio del summenzionato diritto in maniera che corrisponda allo sviluppo delle sue capacità. 3. La libertà di manifestare la propria religione o convinzioni può essere soggetta unicamente alle limitazioni prescritte dalla legge, necessarie ai fini del mantenimento della sicurezza pubblica, dell'ordine pubblico, della sanità e della moralità pubbliche, oppure delle libertà e diritti fondamentali dell'uomo”.
Il comma 3 della disposizione in esame riconosce peraltro al minore al di sopra dei quattordici anni la possibilità di compiere autonomamente le scelte pertinenti all’esercizio del diritto di libertà religiosa. In base all’art. 316 c.c., esplicitamente fatto salvo dalla norma, tuttavia, entrambi i coniugi possono paritariamente influire sull’educazione religiosa dei figli ed in caso di disaccordo che non sia composto nell’ambito familiare, potrà adirsi il Tribunale per i minori. Tale facoltà è ribadita nel comma 2 della disposizione, ove si precisa che il giudice decide “tenendo conto dell’interesse del minore”.
L’articolo 9 reca, al comma 1 una disposizione di ordine generale inerente all’insegnamento scolastico nel suo complesso[333], che deve svolgersi “nel rispetto della libertà di coscienza e di religione e della pari dignità […] senza distinzione di religione”. Il successivo comma stabilisce che, nell’ambito delle attività di promozione culturale, sociale e civile previste dall’ordinamento scolastico vigente, gli alunni e i genitori possano chiedere agli organi competenti di svolgere “libere attività complementari” attinenti al fenomeno religioso, con l’esclusione di oneri aggiuntivi a carico delle amministrazioni interessate.
Con una disposizione introdotta nel testo unificato, il comma 3 rinvia, per la disciplina dei requisiti per il riconoscimento della parità alle scuole non statali di ispirazione religiosa, alla normativa vigente in materia, e, in particolare, alla L. 62/2000[334].
Il libero svolgimento di altre attività ricollegabili all’esercizio della libertà religiosa, quali le affissioni e la distribuzione di pubblicazioni, o le collette effettuate all’interno ed all’ingresso dei luoghi di culto, è garantito dall’articolo 10, che riprende in sostanza i contenuti di disposizioni attualmente contenute nella legislazione sui “culti ammessi”. In particolare, l’art. 3 del R.D. 289/1930[335] consente ai ministri dei culti ammessi (attualmente, delle confessioni che non hanno stipulato intese) di pubblicare ed affiggere nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al proprio culto gli atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli, senza particolare licenza dell’autorità di pubblica sicurezza e con esenzione dalle tasse. L’art. 4 del R.D. 289 consente poi che siano effettuate, senza alcuna ingerenza delle autorità civili, collette all’interno ed all’ingresso degli edifici di culto.
L'articolo 11, introdotto dal testo unificato, prevede che il servizio pubblico radiotelevisivo debba realizzare un effettivo pluralismo in materia religiosa ed assicurare adeguato spazio alle diverse confessioni religiose, demandando al contratto di servizio l'individuazione delle specifiche modalità per la realizzazione di dette finalità.
L’articolo 12 è volto ad attuare il principio della libertà di organizzazione confessionale, sancendo in via generale la libertà per i ministri di culto di svolgere il loro ministero spirituale senza ingerenze da parte dello Stato (comma 1).
Con una rilevante innovazione rispetto ai testi dell'A.C. 36 e dell'A.C. 134 (i quali affrontavano la materia nell'articolo 10), il testo unificato adottato dalla I Commissione introduce (co. 2-3) una disciplina del riconoscimento della qualifica di ministro di culto applicabile alle confessioni religiose ed ai loro enti esponenziali che non siano iscritti nel registro delle confessioni religiose istituito dall'articolo 16 del provvedimento (sul quale v. infra).
Per poter godere dello status di ministri di culto, i religiosi delle confessioni non iscritte nel registro devono, infatti, essere iscritti un apposito elenco tenuto dal Ministro dell'interno. Ai fini dell'iscrizione, il testo unificato richiede che il ministro di culto sia in possesso della cittadinanza italiana e che lo statuto della sua confessione religiosa non sia in contrasto con i principi dell'ordinamento italiano. La disciplina dell'iscrizione nel registro è rimessa ad un regolamento ministeriale, da adottare entro un anno, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari.
Per i ministri di culto delle confessioni iscritte nel registro delle confessioni religiose e, pertanto, in possesso della personalità giuridica, si prevede invece (co. 4) che essi possano compiere atti destinati ad avere rilevanza giuridica nello Stato (ad esempio, la celebrazione di matrimoni) purché abbiano cittadinanza italiana e abbiano depositato presso la Prefettura una certificazione, rilasciata dalla confessione di appartenenza, che attesti la qualifica rivestita.
Il testo unificato presenta due ulteriori innovazioni rispetto a quanto previsto nelle proposte di legge esaminate dalla I Commissione, prevedendo che:
§ la condanna ad una pena detentiva con una sentenza passata in giudicato comporta la perdita dei benefici connessi allo stato di ministro di culto, salvi i diritti previdenziali già maturati (co. 5);
§ la disciplina prevista per i ministri di culto si applichi anche ai soggetti ad essi equiparabili in base agli statuti delle rispettive confessioni religiose (co. 6).
L'inserimento di tale disposizione di chiusura pare doversi porre in relazione alla problematiche, più volte ricordate nel corso dell'attività conoscitiva e del dibattito parlamentare, emerse con riferimento all'identificazione dei soggetti ai quali può essere riconosciuta la qualifica di “ministro di culto”[336] in alcune confessioni religiose (in molti interventi si è, ad esempio, sottolineato come detta qualifica non potrebbe essere riconosciuta nella religione islamica agli imam)[337].
L'articolo 13 reca una disposizione di principio in materia di cimiteri e crematori che non trova corrispondenza nei testi dell'A.C. 36 e dell'A.C. 134, prevedendo che tali strutture siano dotate di sale che consentano di rispettare i diversi riti di commemorazione dei defunti.
Con riferimento all'esercizio della libertà religiosa e delle pratiche di culto in particolari condizioni, l’articolo 14, al comma 1, afferma il principio secondo cui l’appartenenza alle Forze armate, alle Forze di polizia o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura e di assistenza o la permanenza in istituti di prevenzione e pena nonché in altre strutture nelle quali sia limitata la libertà personale[338].
I successivi commi – i quali nel testo adottato dalla I Commissione presentano una articolazione più ampia che nei testi delle originarie proposte di legge - prevedono quindi che siano garantiti:
§ la periodica assistenza spirituale in locali idonei anche sotto il profilo della riservatezza (co. 2);
§ l’adempimento delle prescrizioni religiose in materia alimentare e di astensione dal lavoro nella misura in cui ciò sia compatibile con il funzionamento delle strutture e comunque senza maggiori oneri per la finanzia pubblica (co. 3);
§ la possibilità di esporre simboli o immagini della propria religione nella stanza o nello spazio a ciascuno spettante (co. 4);
§ in caso di decesso, la celebrazione di esequie in locali idonei ad opera di ministro di culto della religione indicata dal coniuge, dal convivente o, in mancanza, da un parente del defunto (co. 5).
Il comma 6 demanda le specifiche modalità di attuazione della norma, a regolamenti ministeriali da emanare ai sensi dell’art. 17, co. 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, prevedendo che essi debbano assicurare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze organizzative delle strutture e la salvaguardia dei diritti inviolabili degli interessati.
L'articolo 15 dispone in ordine all’esercizio della libertà religiosa in ambito lavorativo, riprendendo e ampliando le norme recate dall’articolo 9 dell’A.C. 36 e dell’A.C. 134.
Il comma 1, introdotto nel testo unificato, prevede un generale divieto di discriminazione per motivi religiosi in tutti i rapporti di lavoro, facendo salve le differenze di trattamento ammesse dalla legislazione che ha recepito la normativa comunitaria in materia[339]. Il successivo comma 3, anche esso non presente nei testi delle proposte di legge, sanziona con la nullità gli atti compiuti in violazione del divieto di discriminazione, con conseguente responsabilità per i danni patrimoniali e non patrimoniali causati[340].
Il comma 2, dopo aver previsto la garanzia dell’adempimento dei doveri essenziali del culto nel lavoro domestico[341], opera un generale rinvio alla legislazione vigente con riguardo a vari aspetti della tutela della libertà religiosa nei luoghi di lavoro. Il rinvio si riferisce, in particolare, ai seguenti aspetti:
§ il divieto di discriminazioni per motivi religiosi all’atto dell’assunzione[342];
§ il divieto di licenziamento determinato da ragioni di fede religiosa nei luoghi di lavoro e la nullità di patti o atti diretti a fini di discriminazione religiosa[343];
§ il divieto di indagine sulle opinioni religiose[344].
Il comma 4 rimette, invece, ai contratti collettivi e individuali di lavoro il compito di garantire l’esercizio della libertà religiosa nelle sue varie espressioni.
Il comma 5 menziona specificamente la macellazione rituale in conformità a prescrizioni religiose, rinviando alla legislazione nazionale e comunitaria vigente in materia. Con una precisazione introdotta dal testo unificato, si prevede che l'eventuale certificazione richiesta a fini religiosi non possa determinare limitazioni non ragionevoli e sproporzionate alla concorrenza e alla libertà di circolazione delle merci.
Gli articoli da 16 a 20 disciplinano l’iter procedurale finalizzato al riconoscimento della personalità giuridica delle confessioni religiose: ai sensi di tale disciplina normativa, le confessioni “prive di intesa” possono dunque richiedere, direttamente o per il tramite di un proprio ente esponenziale, il riconoscimento della personalità giuridica.
Quanto ai modi di acquisto della personalità giuridica, la disciplina prevista dall’articolo 16 innova rispetto al contenuto delle proposte che sono alla base del testo unificato e alla procedura finora adottata per il riconoscimento di tutti i nuovi enti, cattolici e non cattolici, a carattere unitario e su base nazionale: si stabilisce al riguardo che l’acquisto della personalità giuridica consegua all’iscrizione in uno specifico registro delle confessioni religiose, istituito dal provvedimento in esame.
La disciplina generale del riconoscimento di persone giuridiche private, essenzialmente contenuta nel codice civile e nelle relative disposizioni di attuazione, è stata delegificata ad opera del D.P.R. 361/2000[345], ai sensi del quale “le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento determinato dall'iscrizione nel registro delle persone giuridiche, istituito presso le prefetture” (art. 1, co. 1). È peraltro fatta salva (art. 9) la disciplina degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti in base alla legge 20 maggio 1985, n. 222, e degli enti civilmente riconosciuti in base alle leggi di approvazione di intese con le confessioni religiose ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost. (per i quali è comunque prevista l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche), nonché le altre norme speciali derogatorie rispetto alla disciplina generale delle persone giuridiche.
La legislazione vigente sui c.d. culti ammessi, recata dalla citata L. 1159/1929 (art. 2) stabilisce che: “Gli istituti di culti diversi dalla religione dello Stato possono essere eretti in ente morale, con regio decreto su proposta del Ministro per la giustizia e gli affari di culto, di concerto col Ministro per l'interno, uditi il Consiglio di Stato e il Consiglio dei ministri”. Per quanto riguarda gli enti cattolici, l’art. 1 della L. 20 maggio 1985, n. 222, prevede che: “Gli enti costituiti o approvati dall'autorità ecclesiastica, aventi sede in Italia, i quali abbiano fine di religione o di culto, possono essere riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato”.
Analogamente, l’A.C. 36 e l’A.C. 134 prevedevano invece una procedura di acquisto della personalità giuridica attraverso un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, previo parere obbligatorio del Consiglio di Stato.
L’iscrizione nel registro è disposta con decreto del Ministro dell’interno, il quale può richiedere in casi dubbi un parere al Consiglio di Stato, che si esprime entro 60 giorni dalla richiesta.
L’articolo 17 dispone che l’istanza di riconoscimento sia corredata dello statuto e di una documentazione (i cui contenuti sono definiti dall’articolo 18) e prevede – con una disposizione innovativa rispetto alla normativa vigente e alle proposte iniziali – specifici termini per la conclusione del procedimento: (il decreto deve infatti intervenire entro 120 giorni dal ricevimento dell’istanza, salva una proroga di 60 giorni nel caso sia richiesto il parere del Consiglio di Stato) e introducendo una ipotesi di silenzio-accoglimento nel caso di infruttuoso decorso del termine. In linea con i principi generali in materia di procedimento amministrativo, si prevede che la decisione di rigetto debba essere adeguatamente motivata.
Quanto ai requisiti per l’iscrizione nel registro, l’articolo 18 – nel rinviare per quanto non previsto alla disciplina civilistica - prevede che:
§ la confessione o l’ente esponenziale abbia sede in Italia e sia rappresentata da un cittadino italiano residente nel nostro Paese;
§ lo statuto e i documenti allegati rechino le indicazioni necessarie all’identificazione della confessione (denominazione e sede); le norme relative all’organizzazione, all’amministrazione o al funzionamento e agli elementi essenziali della confessione; elementi per valutare la stabilità anche economica della confessione o dell’ente in relazione alle finalità perseguite;
§ lo statuto e gli elementi essenziali della confessione non debbano essere in contrasto con i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico italiano.
L’articolo 19 disciplina invece gli effetti della trascrizione nel registro, precisando in particolare le indicazioni che debbono essere fornite in ordine ai poteri di rappresentanza ed alle norme essenziali di funzionamento.
Quanto alla capacità giuridica riconosciuta alle confessioni iscritte nel registro si prevede che essa sia disciplinata dalle disposizioni del codice civile in materia di associazioni e fondazioni ove non espressamente oggetto di deroga.
L’articolo 20 prevede che le modificazioni dello statuto della confessione o dell’ente esponenziale riconosciuti siano comunicate al Ministro dell’interno per la pubblicazione nel registro ai fini della loro opponibilità a terzi.
Qualora intervenga un mutamento che implichi la perdita di uno dei requisiti prescritti per il riconoscimento, quest’ultimo è revocato con le stesse modalità procedurali precedentemente richiamate. Il parere del Consiglio di Stato in questo caso ha tuttavia carattere obbligatorio.
L’articolo 21 introduce inoltre – con una disposizione che ha carattere innovativo rispetto al contenuto delle proposte che sono alla base del testo unificato e alla disciplina vigente – una nuova categoria di enti a carattere religioso, quella degli enti confessionali civilmente riconosciuti.
Possono acquisire la personalità giuridica, con le modalità che saranno previste per tale nuova categoria di enti da un regolamento ministeriale da emanare entro un anno, le associazioni e le fondazioni che abbiano finalità prevalenti e costitutive di religione o di culto e siano collegate a una confessione iscritta nel registro delle confessioni che ne abbia approvato lo statuto.
In attuazione dell’art. 20 Cost. (che vieta trattamenti speciali restrittivi nei confronti di associazioni ed istituzioni aventi “carattere ecclesiastico” e “fine di religione o di culto”), il comma 2 dell’articolo 21 prevede invece che le altre associazioni e fondazioni con finalità di religione e di culto possano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica secondo le norme del diritto comune e ad esse si applichi la disciplina prevista per le persone giuridiche private; tale ultimo rinvio non opera peraltro, secondo quanto specificato dall’articolo in esame, per quanti attiene alle attività di religione o di culto.
Gli articoli 22-29 del testo unificato adottato dalla Commissione disciplinano lo status delle confessioni religiose che, in base alla nuova disciplina introdotta, siano iscritte nel registro delle confessioni religiose, riprendendo e ampliando le disposizioni previste nei testi dell’A.C. 36 e dell’A.C. 134 riferite alle confessioni che avessero conseguito la personalità giuridica in base al procedimento ivi previsto.
Più in particolare, l’articolo 22 costituisce una norma di mero rinvio, specificando che le norme relative alla capacità delle confessioni religiose iscritte nel registro di effettuare acquisisti, vendite e di perfezionare negozi giuridici sono contenute nelle successive disposizioni del Capo III, mentre nel Capo IV è regolata la materia matrimoniale.
Con riferimento agli edifici di culto, il comma 1 dell’articolo 23 innova rispetto ai testi delle proposte all’esame della Commissione, prevedendo che le confessioni religiose iscritte nel registro che abbiano una presenza organizzata in un comune possano adibire al culto edifici esistenti di cui sia cessata la precedente destinazione ovvero costruire nuovi edifici a tale scopo anche derogando alle norme urbanistiche ove queste siano “irragionevolmente limitative”, purché sia rispettata la disciplina vigente in materia di parametri urbanistici, di sicurezza e di accessibilità per gli edifici aperti al pubblico.
Al comma 2 è invece previsto - come già nei testi delle proposte originarie – che alle confessioni religiose iscritte nel registro si applichino le norme sulla concessione e locazione degli immobili demaniali e patrimoniali dello Stato e degli enti locali vigenti per gli enti ecclesiastici, nonché di quelle che regolano la disciplina urbanistica dei servizi religiosi e l’utilizzo di fondi per gli interventi di costruzione, restauro e conservazione di edifici aperti al culto.
La disciplina relativa alla concessione dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato agli enti ecclesiastici è recata dal D.P.R. 296/2005[346] (artt. 23-28). Le norme ivi previste sono applicabili agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano regolati in base ad intese, ai sensi dell’art. 8 Cost..
A tutela della destinazione degli edifici aperti al culto di confessioni religiose iscritte nel registro si prevedono inoltre limitazioni a una serie di interventi pubblici (occupazione, requisizione, espropriazione, demolizione), che sono possibili solo per gravi motivi e sentite le confessioni stesse. Si precisa poi – con una disposizione introdotta nel testo unificato – che detti edifici non possono essere sottratti alla loro destinazione al culto neppure attraverso alienazioni fino a che la destinazione non sia cessata con il consenso della confessione stessa (art. 23, co. 4).
Con una ulteriore disposizione di garanzia introdotta nel testo unificato, si prevede inoltre che la forza pubblica non possa accedere negli edifici aperti al culto pubblico delle confessioni iscritte nel registro senza un preavviso ed un accordo con l’autorità religiosa competente (art. 23, co. 5).
Il comma 6 dispone infine che gli edifici di culto costruiti con contributi regionali o comunali non possano essere sottratti alla propria destinazione prima che siano trascorsi 20 anni dalla erogazione del contributo, pena la nullità degli atti e dei negozi in violazione del vincolo di destinazione.
L’articolo 24 reca disposizioni sul trattamento delle salme e sulla sepoltura dei defunti, i quali possono essere effettuati secondo il rito della confessione iscritta nel registro, compatibilmente con le norme di polizia mortuaria. È esplicitamente fatto salvo l’art. 100 del regolamento di polizia mortuaria[347], ai sensi del quale i piani regolatori cimiteriali possono prevedere reparti speciali e separati per la sepoltura di cadaveri di persone professanti un culto diverso da quello cattolico.
Quanto al regime previdenziale, l’articolo 25 prevede – a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge - l’obbligo di iscrizione al “Fondo di previdenza per il clero secolare e per i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica di cui all’art. 42, co. 6, della L. 488/1999[348] per i ministri di culto delle confessioni religiose iscritte nel registro, a condizione che essi risiedano in Italia e siano cittadini italiani.
Attualmente tale disposizione prevede che siano iscritti al Fondo i sacerdoti e ministri di culto non aventi cittadinanza italiana e presenti in Italia al servizio di diocesi italiane e delle Chiese o enti acattolici riconosciuti, nonché i sacerdoti e ministri di culto aventi cittadinanza italiana, operanti all'estero al servizio di diocesi italiane e delle Chiese o enti acattolici riconosciuti
In precedenza, l’art. 5 della L. 903/1973[349] aveva peraltro già stabilito che sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione al Fondo tutti i sacerdoti secolari, nonché tutti i ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica aventi cittadinanza italiana, residenti in Italia, dal momento della loro ordinazione sacerdotale o dall’inizio del ministero di culto in Italia fino alla data di decorrenza della pensione di vecchiaia ovvero della pensione di invalidità; disposizioni particolari sono dettate per i funzionari di culto delle comunità ebraiche.
L’articolo 26 rinvia per l’amministrazione ordinaria e straordinaria del patrimonio delle confessioni religiose iscritte nel registro o dei loro enti esponenziali alle rispettive norme statutarie, purché ci si muova nell’ambito dei leggi civili concernenti le persone giuridiche, in ossequio all’articolo 20 Cost. che vieta speciali limitazioni in ragione del carattere ecclesiastico o del fine di religione o di culto di associazioni e fondazioni.
L’articolo 27 opera una distinzione tra le attività di religione e le altre attività: riprendendo una ripartizione già invalsa nella legislazione ecclesiastica (art. 16 della L. 222/1985[350]), agli effetti civili, sono ricomprese nella prima categoria le attività “dirette all’esercizio del culto e alla celebrazione dei riti, alla formazione dei ministri di culto, a scopi missionari e di diffusione della fede e alla educazione religiosa”. Rientrano nella sfera delle altre attività, quelle di “assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro”.
Quanto agli aspetti tributari, l’articolo 28 dispone direttamente l’equiparazione delle confessioni religiose iscritte nel registro e dei loro enti esponenziali aventi fine di religione, o di culto, nonché delle attività dirette a tali scopi, agli enti ed alle attività aventi finalità di beneficenza o di istruzione.
Per le altre attività svolte, si stabilisce che resta valido il regime vigente, ivi compreso quello tributario.
All’articolo 29 il testo unificato introduce due disposizioni che recano agevolazioni fiscali in favore delle confessioni iscritte nel registro non previste nelle originarie proposte di legge. In particolare si prevede:
§ l’equiparazione alle ONLUS delle confessioni iscritte nel registro, nonché delle associazioni con finalità di religione e di culto, ai fini della destinazione del 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche[351];
§ la deducibilità, fino all’importo di 1.000 euro, delle erogazioni liberali in favore delle confessioni iscritte nel registro[352].
II IV Capo del testo adottato dalla I Commissione (articoli 30-33) contiene la disciplina del riconoscimento degli effetti civili al matrimonio religioso celebrato dai ministri di culto delle confessioni iscritte nel registro delle confessioni religiose, cui nel testo degli A.C. 36 e 134 era dedicato un solo articolo[353].
Una prima innovazione è rappresentata dalla stessa definizione adottata: il testo qualifica, infatti, in modo espresso anche il matrimonio celebrato da un ministro di una confessione che non abbia stipulato una intesa come matrimonio religioso con effetti civili.
Attualmente, infatti, la dottrina non è concorde sulla natura da attribuire al matrimonio celebrato, in base alla legislazione vigente, davanti ai ministri delle confessioni religiose che non abbiano stipulato una intesa. Mentre per taluni si tratterebbe di un matrimonio religioso rilevante agli effetti civili, per altri si configurerebbe un matrimonio civile celebrato in forma a speciale e per altri ancora si tratterebbe di un tertium genus di matrimonio.
Le intese stipulate prevedono invece espressamente il riconoscimento degli effetti civili ai matrimoni celebrati davanti ai ministri di culto delle religioni che hanno stipulato l’intesa, secondo formule che riprendono quelle contenute nell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra lo Stato e la Santa Sede.
Intervenendo su un profilo che è stato al centro di particolare attenzione anche nel corso dell’attività conoscitiva l’articolo 32, co. 2, del testo base adottato prevede che la lettura degli articoli del codice civile relativi ai diritti e ai doveri dei coniugi debba essere effettuata in modo solenne dal ministro di culto all’atto della celebrazione del matrimonio prima della raccolta del consenso dei nubendi.
I testi delle proposte di legge da cui trae origine il testo unificato davano invece alla confessione religiosa interessata la possibilità di scegliere se la lettura delle disposizioni civilistiche dovesse avvenire nel corso della cerimonia ovvero essere effettuata dall’ufficiale dello stato civile al momento della richiesta delle pubblicazioni.
Si precisa inoltre, con una disposizione che non era contenuta nel testi delle proposte originarie, che l’omissione della lettura delle disposizioni del codice civile costituisce causa di intrascrivibilità del matrimonio e di nullità della trascrizione eventualmente effettuata (art. 32, co. 3).
Si stabilisce altresì (art. 32, co. 4) che il ministro di culto possa raccogliere le dichiarazioni che la legge consente siano incluse nell’atto di matrimonio, e cioè le dichiarazioni in ordine alla scelta del regime patrimoniale della famiglia e alla legittimazione di figli naturali[354].
Quanto agli altri profili procedurali, rimane sostanzialmente confermata la disciplina prevista nelle proposte di legge da cui trae origine il testo unificato.
Ai sensi dell’art. 31, dopo aver provveduto alle pubblicazioni da parte dei nubendi, l’ufficiale di stato civile rilascia loro un nulla osta (in duplice originale) dal quale risulti tra l’altro l’inesistenza d’impedimenti al matrimonio.
Ai sensi dell’art. 33 il ministro di culto, dopo aver celebrato il matrimonio, trasmette il relativo certificato – cui è allegato il nulla osta – all’ufficiale di stato civile (entro e non oltre cinque giorni dalla celebrazione); la trascrizione del matrimonio deve essere effettuata entro il giorno successivo alla ricezione di detta documentazione. Indipendentemente dalla tempestività della trascrizione, gli effetti civili del matrimonio decorrono in ogni caso dalla celebrazione.
Il Capo V (articoli 34-43) del testo adottato dalla I Commissione (Affari costituzionali) della Camera riprendendo con limitate innovazioni i contenuti delle disposizioni che nei progetti di legge originari erano recate negli articoli 27-36, introduce una puntuale disciplina della procedura per la stipulazione delle intese previste dall’articolo 8 Cost.
Il procedimento proposto per la stipulazione delle intese, che si applica anche a eventuali modifiche delle intese stesse (art. 43) ricalca sostanzialmente quello che si è andato affermando nella prassi (vedi la scheda Le intese con le confessioni religiose, pag. 292) e si può suddividere in tre fasi:
§ la fase preliminare, relativa alle modalità di presentazione della istanza da parte della confessione religiosa (artt. 34-35);
§ la fase di formazione dell’intesa, fino alla firma della stessa (artt. 36-40);
§ la fase finale, di perfezionamento dell’intesa con la ratifica parlamentare (artt. 41).
Per quanto riguarda la fase preliminare, il testo in esame - rifacendosi al procedimento finora utilizzato nella prassi e differenziandosi dalle proposte iniziali[355] - consente la presentazione dell’istanza per la stipulazione dell’intesa solo alle confessioni religiose aventi personalità giuridica ed iscritte nel registro delle confessioni. L’istanza deve comunque essere accompagnata anche dai documenti ed elementi richiesti ai fini dell’iscrizione nel registro delle confessioni e deve indicare in linea di massima le materie per le quali si richiede l’adozione dell’intesa (art. 34).
Infine, prima di procedere all’inizio delle trattative per la definizione dell’intesa, il Presidente del Consiglio – che rappresenta lo Stato nelle trattative - procede ad una sorta di preistruttoria (“acquisite le necessarie valutazioni”), ed invita formalmente la confessione interessata a indicare i propri rappresentanti, responsabili delle trattative (art. 35-36).
Diversamente da quanto prevedevano le proposte iniziali, si dispone che in questa fase esprimano altresì le loro propose i due organismi che attualmente concorrono alla preparazione delle intese:
§ la Commissione consultiva per la libertà religiosa, che ha tra l’altro il compito di procedere alla ricognizione e all’esame dei problemi relativi alla preparazione di intese con le Confessioni religiose, elaborando orientamenti di massima in vista della loro stipulazione;
§ la Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose, che allo stato ha il compito di predisporre le bozze di intesa.
Prende quindi avvio il procedimento vero e proprio di formazione dell’intesa. Le trattative sono condotte, da parte della confessione religiosa, dai rappresentanti indicati ai sensi dell’art. 35, e da parte del Governo, da un sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, delegato dal Presidente del Consiglio. La base della trattativa è costituita dalle proposte formulate da una Commissione paritetica costituita ad hoc (art. 37).
Si tratta di una commissione che rientra tra i gruppi di studio o di lavoro misti, ossia formati da rappresentanti della pubblica amministrazione e da esperti esterni, che il Presidente del Consiglio può istituire ai sensi dell’art. 5, co. 2, lett. i) della L. 400/1988[356].
La commissione, istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri senza oneri per il bilancio statale, è composta da:
§ un Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio (si tratta di una innovazione rispetto al testo delle proposte A.C. 36 e A.C. 134);
§ il direttore della Direzione centrale degli affari dei culti del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’interno;
§ rappresentanti delle amministrazioni interessate con incarico di dirigente generale o equiparato;
§ esperti designati, tra cittadini italiani, dalla confessione religiosa interessata in numero pari a quello dei funzionari pubblici.
Innovando rispetto ai testi originari, si prevede che il presidente della commissione sia eletto a maggioranza assoluta dai componenti della commissione stessa.
Al termine delle trattative si giunge ad un progetto di intesa che il sottosegretario di Stato trasmette al Presidente del Consiglio accompagnato da una propria relazione (art. 37).
Il progetto di intesa concordato tra il Presidente del Consiglio e la confessione religiosa viene sottoposto, prima della firma definitiva, ad un duplice controllo: del Consiglio dei ministri e del Parlamento (art. 38).
Nel primo caso, il Presidente del Consiglio sottopone il progetto di intesa al Consiglio che è chiamato a deliberare in proposito. Nel secondo caso, il Parlamento è informato dal Presidente del Consiglio sui princìpi e contenuti dell’intesa. Al riguardo, il testo adottato specifica che l’informazione deve avvenire attraverso “una relazione dettagliata”.
Qualora nell’(eventuale) esame parlamentare o in seno al Consiglio dei ministri emergano osservazioni ed indirizzi di portata tale da rendere necessaria la modifica dell’intesa, il testo viene rimesso al sottosegretario di Stato che riprende le trattative con le stesse procedure sopra viste (art. 39).
Infine, il procedimento si conclude con la firma dell’intesa da parte del Presidente del consiglio e del rappresentante della confessione religiosa (art. 40).
L’ultima fase consiste nella presentazione al Parlamento da parte del Governo del disegno di legge di approvazione dell’intesa (art. 41).
L’articolo 42 reca invece una disposizione relativa ad una materia estranea alla stipulazione delle intese.
Si tratta, infatti, della questione della applicazione di disposizioni di legge relative a specifiche materie che riguardino i rapporti tra lo Stato e singole confessioni religiose che hanno personalità giuridica[357]. In questi casi il progetto dispone si provveda con decreto del Presidente della Repubblica su richiesta della confessione e previa intesa (da intendersi nel senso di “concertazione”) con essa.
Si tratta di una procedura già utilizzata soprattutto nella normativa in vigore in materia di previdenza.
L’articolo 44 prevede che le confessioni religiose e gli istituti di culto riconosciuti ai sensi della normativa del 1929 conservino la personalità giuridica; essi sono tenuti, tuttavia, a richiedere l’iscrizione al registro delle confessioni religiose entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge.
Una analoga conservazione degli effetti di atti adottati in base alla disciplina previgente è prevista per l’approvazione delle nomine dei ministri di culto, che - sino a quando i soggetti interessati mantengano la qualifica loro riconosciuta - resta efficace agli effetti giuridici e previdenziali. A questi ministri di culto si consente – inoltre - con una disposizione introdotta nel testo unificato del relatore la celebrazione di matrimoni religiosi con effetti civili in base alle disposizioni introdotte dal provvedimento in esame (art. 44, co. 5).
La norma transitoria, in relazione alle nuove modalità di riconoscimento dei ministri di culto, salvaguarda il regime giuridico e previdenziale spettante ai ministri di culto la cui nomina sia stata approvata ai sensi della disciplina previgente.
L’articolo 45 precisa che alle confessioni religiose che siano persone giuridiche straniere si applicano le norme di cui all’art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale: le persone giuridiche straniere godono pertanto degli stessi diritti delle persone giuridiche italiane a condizione che abbiano soggettività giuridica riconosciuta all’estero e che sussista un regime di reciprocità nello Stato di appartenenza.
E’ comunque prevista la facoltà, per le confessioni che abbiano una “presenza sociale organizzata”, di presentare domanda di iscrizione nel registro delle confessioni religiose abbandonando, pertanto, la qualificazione di persone giuridiche straniere di “diritto comune”.
Gli articoli 46 e 47 dispongono l’abrogazione della L. 1159/1929 e del relativo regolamento di attuazione (R.D. 289/1930), nonché – con una formula abrogativa esplicita innominata – di ogni altra disposizione di rango primario o secondario incompatibile con il provvedimento, delimitando l’applicazione della normativa contenuta nel testo in esame e mantenendo in vigore le disposizioni di origine negoziale emanate in attuazione di accordi e Intese già stipulate ai sensi degli artt. 7 e 8 Cost. e quelle di attuazione di disposizioni di diritto internazionale, come il già ricordato D.L. 122/1993.
Scompaiono infine dall’ordinamento le espressioni “culti ammessi”, “confessioni acattoliche” e analoghe definizioni, che vengono sostituite dalla dizione “confessioni religiose diverse dalla cattolica”.
Diritti e libertà: altre iniziative
La Costituzione sancisce il diritto di professare le proprie convinzioni, anche religiose. In via generale, l’articolo 3 vieta ogni discriminazione in base a ragioni legate al sesso alla razza, alla lingua, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e, appunto, alla religione, e l’articolo 21 riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.
Più in particolare, la libertà religiosa è garantita dall’articolo 19, che stabilisce il diritto per tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, e dall’articolo 20, che vieta l’introduzione di speciali limitazioni legislative o fiscali per le associazioni religiose.
I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono disciplinati dagli articoli 7 e 8 della Costituzione, relativi ai rapporti tra Stato e, rispettivamente, Chiesa cattolica e confessioni non cattoliche.
L’articolo 7 della Costituzione stabilisce quale sia la reciproca posizione istituzionale dello Stato e della Chiesa cattolica, affermando che “sono ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.
Sulla base di quanto disposto dal secondo comma di tale articolo, i rapporti istituzionali tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono disciplinati dai Patti Lateranensi, stipulati l’11 febbraio 1929 e resi esecutivi con la L. 810/1929[358], nonché dall’Accordo di modificazione del Concordato e dal “Protocollo addizionale” del 18 febbraio 1984[359].
I Patti Lateranensi constavano, nella versione stipulata nel 1929 e parzialmente in vigore, di:
§ un Trattato, che ha restituito in forma simbolica la sovranità della Santa Sede su un territorio ed ha lo scopo di garantire alla stessa Santa Sede l’assoluta indipendenza per l’adempimento della sua missione nel mondo. A tal fine il Trattato riconosce alla Santa Sede sovranità internazionale, creando lo Stato della Città del Vaticano;
§ una Convenzione finanziaria, che ha regolato i rapporti finanziari collegati con la “questione romana” (sorta nel 1870 con l’annessione dello Stato Pontificio e di Roma all’Italia), liquidando l’indennizzo alla Santa Sede sia per la perdita degli Stati pontifici che dei beni degli enti ecclesiastici incamerati dallo Stato;
§ un Concordato, proposto come necessario completamento del Trattato, riguardante le condizioni della religione e della Chiesa cattolica in Italia.
La disciplina contenuta nell’Accordo di modificazione è racchiusa in 14 articoli che riguardano, fra gli altri temi: la libertà della missione della Chiesa, la libertà di comunicazione e corrispondenza dell’autorità ecclesiastica e quella dei cattolici in materia di associazione, riunione e manifestazione del pensiero, la libertà per l’autorità ecclesiastica di nominare i titolari degli uffici ecclesiastici (salvo comunicare all’autorità statale la nomina degli ufficiali che ricoprano uffici rilevanti per lo Stato, quali vescovi, parroci, etc.), la regolamentazione degli enti ecclesiastici e la gestione del patrimonio di questi, il nuovo regime del riconoscimento civile del matrimonio canonico e delle sentenze ecclesiastiche di nullità del vincolo, la disciplina delle scuole cattoliche parificate e delle Università cattoliche, nonché dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.
Il Protocollo addizionale ha lo scopo di assicurare la migliore interpretazione dei Patti lateranensi ed evitare ogni difficoltà di interpretazione: viene eliminato il riferimento alla religione cattolica come religione di Stato (contenuta nel Concordato del 1929) e si disciplina ulteriormente il regime del matrimonio canonico e l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche.
I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche (o acattoliche) sono regolati dall’articolo 8 della Costituzione, che sancisce il principio di eguale libertà di tutte le confessioni religiose. Viene riconosciuta alle confessioni non cattoliche l’autonomia organizzativa sulla base di propri statuti, a condizione che questi non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, ed è posto il principio secondo il quale i rapporti delle confessioni con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Per quanto riguarda l’autonomia organizzativa delle confessioni diverse dalla cattolica, la Corte costituzionale, con la sentenza 43/1988, ha chiarito che “al riconoscimento da parte dell’art. 8, secondo comma, Cost., della capacità delle confessioni religiose, diverse dalla cattolica, di dotarsi di propri statuti, corrisponde l’abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti”. Questa autonomia istituzionale esclude ogni possibilità di ingerenza dello Stato nell’emanazione delle disposizioni statutarie delle confessioni religiose che non sia riconducibile ai limiti espressamente previsti dalla Costituzione. A questo riguardo, tuttavia, la Corte precisa che il limite al diritto riconosciuto alle confessioni religiose dall’art. 8 Cost. di darsi i propri statuti, purché ‘non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano’ si può intendere riferito “solo ai principi fondamentali dell’ordinamento stesso e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative”[360].
Il principio della regolazione con intesa, che, come si è visto, avrebbe dovuto costituire la forma principale di rapporto con le confessioni non cattoliche, in realtà è stato attuato solamente a partire dalla metà degli anni ‘80 e riguarda alcune delle varie confessioni presenti in Italia (vedi oltre).
Attualmente, la disciplina riguardante le confessioni non cattoliche presenti in Italia è diversa a seconda che queste abbiano o meno proceduto alla stipulazione di una intesa con lo Stato.
Per le confessioni prive di intesa trovano tuttora applicazione la legge sui “culti ammessi” (L. 1159/1929[361]) e il relativo regolamento di attuazione[362].
La legge del 1929 si fonda sul principio della libera ammissione dei culti diversi dalla religione cattolica “purché non professino princìpi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume”. Entro questi limiti, viene affermata la libertà di coscienza e di culto in tutte le sue forme e dell’eguaglianza dei cittadini, qualunque sia la religione da essi professata.
Gli istituti dei culti non cattolici possono essere eretti in ente morale dallo Stato italiano. Il riconoscimento comporta una serie di vantaggi tra cui la possibilità dell’ente di culto di acquistare e possedere beni in nome proprio e di avvalersi di agevolazioni tributarie.
D’altra parte, lo Stato, attraverso il Ministero dell’interno, esercita penetranti poteri di controllo nei confronti degli enti riconosciuti. In particolare, sono previste le seguenti misure:
§ l’approvazione governativa delle nomine dei ministri di culto, con la precisazione che “nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti compiuti da tali ministri se la loro nomina non abbia ottenuto l’approvazione governativa”;
§ l’autorizzazione dell’ufficiale dello stato civile alla celebrazione del matrimonio con effetti civili davanti ad un ministro di culto non cattolico;
§ la vigilanza sull’attività dell’ente, al fine di accertare che tale attività non sia contraria all’ordinamento giuridico e alle finalità dell’ente medesimo. La vigilanza include la facoltà di ordinare ispezioni e, in caso di gravi irregolarità, di sciogliere l’ente e di nominare un commissario governativo per la gestione temporanea.
Il R.D. 289/1930 non si è limitato a dettare norme per l’attuazione della legge, ma ha stabilito princìpi nuovi ed in parte più restrittivi. Ad esempio:
§ è prevista la necessaria autorizzazione con decreto per l’apertura di templi o oratori, subordinatamente all’accertamento, da parte dell’autorità amministrativa, della necessità di essi “per soddisfare effettivi bisogni religiosi di importanti nuclei di fedeli” e della sussistenza di “mezzi sufficienti per sostenere le spese di manutenzione”;
§ i fedeli di un culto ammesso possono tenere riunioni pubbliche, senza autorizzazione preventiva, solo negli edifici aperti al culto ed a condizione che la riunione sia “presieduta o autorizzata da un ministro di culto” nominato con la prevista autorizzazione.
Il R.D. 289/1930 prevede anche disposizioni di favore, quali:
§ la facoltà di prestare assistenza religiosa nei luoghi di cura e di ritiro, presso le Forze armate, gli istituti penitenziari;
§ le esenzioni dal servizio militare;
§ la possibilità, per i genitori di famiglia professante un culto non cattolico, di chiedere la dispensa per i propri figli dal frequentare i corsi di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche e di ottenere che sia messo a loro disposizione un locale scolastico per l’insegnamento religioso dei loro figli.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 346 del 2002, ha giudicato costituzionalmente illegittima una disposizione di una legge della Regione Lombardia che prevede benefici per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, nella parte in cui introduceva come elemento di discriminazione fra le confessioni religiose che aspirano ad usufruire dei benefici, avendone gli altri requisiti, l’esistenza di un’intesa per la regolazione dei rapporti della confessione con lo Stato.
La Corte ha affermato che le intese previste dall’art. 8, terzo comma, Cost. non sono e non possono essere una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8 né per usufruire di benefici a loro riservati, quali, nella specie, l’erogazione di contributi; risulterebbero altrimenti violati il divieto di discriminazione (art. 3 e art. 8, primo comma, Cost.), nonché l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto (art. 19, Cost.), di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario e sulla quale esercita una evidente, ancorché indiretta influenza, la possibilità per le medesime di accedere a benefici economici come quelli previsti dalla legge oggetto del giudizio di costituzionalità.
Il riconoscimento della personalità giuridica degli enti, associazioni o fondazioni di confessioni religiose presuppone come condizione ineludibile che si tratti di religioni i cui princìpi e le cui manifestazioni esteriori (riti) non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico dello Stato.
La richiesta per il riconoscimento della personalità giuridicaè presentata dal soggetto interessato al prefetto. Alla domanda deve essere allegato lo statuto dell’ente. Il riconoscimento viene concesso, su proposta del Ministro dell’interno, con decreto del Presidente della Repubblica, uditi il Consiglio di Stato (che esprime un parere di legittimità) ed il Consiglio dei ministri (il quale si pronuncia in merito alla opportunità politica).
Pur essendo venuta meno l’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato con l’approvazione della L. 127/1997 (art. 17, commi 25-27), che ha dettato una disciplina generale dei pareri di tale organo, stabilendo tassativamente i casi in cui i pareri sono obbligatori e non ricomprendendo tra questi il riconoscimento della personalità giuridica[363], rimane tuttavia in capo all’Amministrazione la facoltà di richiedere il parere dell’organo consultivo qualora ne ravvisi la necessità.
A seguire, si elencano gli enti di culto (diversi dal cattolico) che hanno ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica e i relativi provvedimenti di riconoscimento.
Enti di culto diversi dal cattolico dotati di personalità giuridica |
ASSOCIAZIONE DEI CRISTIANI ORTODOSSI IN ITALIA - GIURISDIZIONI TRADIZIONALI – D.P.R. ric. giur.14/1/1998 – mut. denom. D.P.R. 28/7/2004 |
ASSOCIAZIONE CHIESA DEL REGNO DI DIO – TORINO D.P.R. 16/12/1988 |
ASSOCIAZIONE SANTACITTARAMA – D.P.R. 10/7/1995 |
CENTRO ISLAMICO CULTURALE D´ITALIA – D.P.R. 21/12/1974 |
CHIESA CRISTIANA EVANGELICA MISSIONARIA PENTECOSTALE DI OLIVARELLA DI MILAZZO - D.P.R. 16/12/1988 |
CHIESA CRISTIANA EVANGELICA INDIPENDENTE BEREA – D.P.R. 25/10/1999 |
CHIESA CRISTIANA MILLENARISTA – D.P.R. 17/5/1979 |
CHIESA DI CRISTO DI MILANO – D.P.R. 13/6/1977 |
CHIESA E CONFRATERNITA DEI SS. PIETRO E PAOLO DEI NAZIONALI GRECI – Regio Exequatur 20/2/1764 |
CHIESA ORTODOSSA RUSSA IN ROMA – R.D. 14/11/1929. Approvazione nuovo statuto 15/2/2006 |
CHIESA ORTODOSSA RUSSA IN SANREMO – D.P.R. 3/7/1966 |
COMUNITA´ ARMENA DEI FEDELI DI RITO ARMENO GREGORIANO – D.P.R. 24/2/1956 |
COMUNITA´ DEI GRECI ORTODOSSI IN VENEZIA – SOVRANE CONCESSIONI REPUBBLICA VENETA 28/11/1498, 4/10/1511 E 11/7/1526 – Statuto approvato 30/7/1940 |
COMUNITA´ EVANGELICA DI CONFESSIONE ELVETICA O CHIESA EVANGELICA RIFORMATA SVIZZERA DI TRIESTE – R.D. 4/4/1938 |
COMUNITA´ EVANGELICA DI CONFESSIONE ELVETICA O CHIESA EVANGELICA RIFORMATA SVIZZERA DI FIRENZE – Provvedimento Governo austriaco 7/1/1782 |
COMUNITA´ EVANGELICA DI MERANO DI CONFESSIONE AUGUSTANA – PROVVEDIMENTI GOVERNO AUSTRIACO 28/12/1875 E 5/1/1876 |
COMUNITA´ GRECO-ORIENTALE IN TRIESTE – PROVVEDIMENTI IMPERIALI 9/8/1782 E 7/3/1784 – statuto approvato con decreto imperiale 7/4/1786 |
COMUNITA´ RELIGIOSA SERBO-ORTODOSSA DI TRIESTE – prima approvazione statuto rescritto imperiale 28/2/1773 – ultimo statuto approvato D.P.R. 29/3/1989 |
CONGREGAZIONE CRISTIANA DEI TESTIMONI DI GEOVA – D.P.R. 31/10/ 1986 |
CONGREGAZIONE CRISTIANA EVANGELICA ITALIANA IN GENOVA-SAMPIERDA-RENA – D.P.R. 26/10/1976 |
CONSULTA EVANGELICA – D.P.R. 13/9/1999 |
ENTE CRISTIANO EVANGELICO DEI FRATELLI IN NOVI LIGURE – D.P.R. 13/11/1997 |
ENTE PATRIMONIALE DELLA CHIESA DI GESU’ CRISTO DEI SANTI DEGLI ULTIMI GIORNI (MORMONI) – D.P.R. 23/2/1993 |
F.P.M.T. ITALIA – FONDAZIONE PER LA PRESERVAZIONE DELLA TRADIZIONE MAHAYANA – D.P.R. 20/ 7/1999 |
FONDAZIONE APOSTOLICA – ENTE PATRIMONIALE DELLA CHIESA APOSTOLICA IN ITALIA – D.P.R. 21/2/ 1989 |
FONDAZIONE DELL´ASSEMBLEA SPIRITUALE NAZIONALE DEI BAHA´I D´ITALIA – D.P.R. 21/11/1966 |
ISTITUTO BUDDISTA ITALIANO SOKA GAKKAI – D.P.R. 20/11/2000 |
ISTITUTO ITALIANO ZEN SOTO SHOBOZAN FUDENJI – D.P.R. 5/7/1999 |
MOVIMENTO EVANGELICO INTERNAZIONALE “FIUMI DI POTENZA” – D.P.R. 10/9/1971 |
OPERA DELLA CHIESA CRISTIANA DEI FRATELLI – R.D. 22/2/1891 |
SACRA ARCIDIOCESI ORTODOSSA D´ITALIA ED ESARCATO PER L´EUROPA MERIDIONALE (PATRIARCATO DI COSTANTINOPOLI) – D.P.R. 16/7/1998 |
SELF REALIZATION FELLOWSHIP CHURCH – ENTE DELLA CHIESA DELLA FRATELLANZA NELLA REALIZZAZIONE DEL SE´ – D.P.R. 3/7/1998 |
UNIONE BUDDHISTA ITALIANA (U.B.I.) – D.P.R. 3/1/1991 |
UNIONE INDUISTA ITALIANA (U.I.I.) SANATANA DHARMA SAMGHA – D.P.R. 29/12/2000 |
CHIESA CRISTIANA BIBLICA – D.P.R. 28/1/2004 |
MISSIONI CRISTIANE INTERNAZIONALI – AVVENTISTI DEL SETTIMO GIORNO - MOVIMENTO DI RIFORMA – D.P.R. 28/1/2004 |
PRIMA CHIESA DEL CRISTO SCIENTISTA – D.P.R. 28/1/2004 |
CONGREGAZIONI CRISTIANE PENTECOSTALI - D.P.R. 20/6/2005 |
Fonte: Ministero dell’interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Direzione centrale degli affari dei culti (www.interno.it)
Per le confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato italiano cessano di avere efficacia le norme sopra indicate, che sono sostituite dalle disposizioni contenute nelle singole intese.
A partire dal 1984, lo Stato italiano, in attuazione dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione, ha proceduto a stipulare intese con alcune confessioni religiose (vedi tabella 1).
Tab. 1. Le intese approvate con legge
Chiese rappresentate dalla Tavola valdese |
L. 11 agosto 1984, n. 449, integrata con la L. 5 ottobre 1993, n. 409 |
Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno |
L. 22 novembre 1988, n. 516, modificata dalla L. 20 dicembre 1996, n. 637 |
Assemblee di Dio in Italia |
L. 22 novembre 1988, n. 517 |
Unione delle Comunità ebraiche italiane |
L. 8 marzo 1989, 101, modificata dalla L. 20 dicembre 1996, n. 638 |
Unione cristiana evangelica battista d’Italia |
L. 12 aprile 1995, n. 116 |
Chiesa evangelica luterana in Italia |
L. 29 novembre 1995, n. 520 |
Le intese finora intervenute danno atto della autonomia e della indipendenza degli ordinamenti religiosi diversi da quello cattolico. Ciascuna intesa contiene disposizioni dirette a disciplinare i rapporti tra lo Stato e la confessione religiosa che ha stipulato l’intesa. Si tratta, pertanto, di norme specifiche, spesso finalizzate a tutelare aspetti particolari, peculiari della confessione interessata. Si possono tuttavia individuare alcuni elementi ricorrenti: quasi tutte le intese recano disposizioni per l’assistenza individuale nelle caserme, negli ospedali, nelle case di cura e di riposo e nei penitenziari, per l’insegnamento della religione nelle scuole, per il matrimonio, per il riconoscimento di enti con fini di culto, istruzione e beneficenza, per il regime degli edifici di culto e per i rapporti finanziari con lo Stato nella ripartizione dell’8 per mille del gettito IRPEF e, infine, per le festività.
In generale, tali disposizioni concorrono a definire un regime di maggior favore e di più ampia autonomia rispetto a quello valido per le confessioni prive di intesa sopra illustrato.
In questo senso particolarmente significative sono le disposizioni relative ai ministri del culto: per le confessioni che hanno stipulato le intese cessano di avere efficacia le norme sui “culti ammessi”, che, come si è detto, prevedono l’approvazione governativa delle nomine dei ministri; le confessioni nominano pertanto i propri ministri senza condizioni, salvo l’obbligo di registrazione in appositi elenchi.
Inoltre, diversa è la procedura relativa al riconoscimento della personalità giuridica degli istituti di culto: per quelli afferenti alle confessioni religiose che per prime hanno stipulato l’intesa, il procedimento ricalca quella per i “culti ammessi”, mentre per gli istituti di culto delle Chiese battista e luterana è prevista una procedura semplificata di emanazione con decreto ministeriale e non con decreto del Presidente della Repubblica.
Nella tabella seguente si riporta un quadro delle intese concluse e non ancora ratificate dal Parlamento:
Tab. 2. Le intese firmate e non approvate con legge
Data firma intesa |
|
Tavola Valdese (modifica) |
4 aprile 2007[364] |
Unione italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno (modifica) |
4 aprile 2007[365] |
Chiesa apostolica in Italia |
4 aprile 2007 |
Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni |
4 aprile 2007 |
Congregazione cristiana dei testimoni di Geova |
4 aprile 2007[366] |
Sacra Arcidiocesi d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale |
4 aprile 2007 |
Unione buddista italiana (UBI) |
4 aprile 2007[367] |
Unione induista italiana |
4 aprile 2007 |
Fonte: Presidenza del Consiglio[368] (www.governo.it)
Nel corso della XV legislatura il Governo non ha peraltro presentato alle Camere i relativi disegni di legge di approvazione
La procedura per la stipulazione delle intese non è disciplinata in via legislativa. Si è formata peraltro, a partire dal 1984 (data della prima attuazione del dettato costituzionale in tale materia), una prassi consolidata che si può riassumere come segue.
Le trattative vengono avviate soltanto con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica nel nostro Paese ai sensi della L. 1159/1929. Tale riconoscimento presuppone che sia stata già effettuata una verifica della compatibilità dello statuto dell’ente rappresentativo della confessione con l’ordinamento giuridico italiano, così come richiesto dallo stesso articolo 8, comma 2, della Costituzione.
L’esame di compatibilità viene condotto sia dal Ministero dell’interno, competente per l’istruttoria volta al riconoscimento, sia dal Consiglio di Stato, il quale è chiamato ad esprimere il proprio parere in merito[369], concernente anche il carattere confessionale dell’organizzazione richiedente.
La competenza ad avviare le trattative, in vista della stipulazione di tali intese, spetta al Governo: a tal fine, le confessioni interessate che hanno conseguito il riconoscimento della personalità giuridica si devono rivolgere, tramite istanza, al Presidente del Consiglio.
L’incarico di condurre le trattative con le rappresentanze delle confessioni religiose è affidato dal Presidente del Consiglio al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, con funzioni di Segretario del Consiglio dei Ministri, il quale si avvale di una apposita Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose, istituita presso la stessa Presidenza per la prima volta nel 1985.
La Commissione per le intese con le confessioni religiose è stata istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 1997 ed è composta da rappresentanti della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri interessati: interno, giustizia, economia e finanze, difesa, pubblica istruzione, università e ricerca, beni e attività culturali, salute. La commissione attualmente in carica è presieduta dal prof. Franco Pizzetti e verrà a scadenza il 4 maggio 2010.
La Commissione, su indicazione del Sottosegretario, predispone le bozze di intesa unitamente alle delegazioni delle confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta. Sulle bozze di intesa esprime il proprio parere preliminare la Commissione consultiva per la libertà religiosa, operante presso la Presidenza del Consiglio a partire dal 1997.
La Commissione consultiva per la libertà religiosa è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 14 marzo 1997,ed è stata da ultimo riordinata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 10 settembre 2007. Alla Commissione sono attribuite, in via generale, funzioni di studio, informazione e proposta per tutte le questioni attinenti all’attuazione dei principi della Costituzione e delle leggi in materia di libertà di coscienza, di religione o credenza. La Commissione procede alla ricognizione e all’esame dei problemi relativi alla preparazione di intese con le Confessioni religiose, elaborando orientamenti di massima in vista della loro stipulazione e formulando un parere preliminare sulle bozze di intesa. Essa si esprime, altresì, su questioni attinenti alle relazioni tra Stato e confessioni religiose in Italia e nell’Unione europea che le vengono sottoposte dal Presidente del Consiglio dei ministri e segnala, a sua volta, problemi che emergono in sede di applicazione della normativa vigente in materia, anche di derivazione internazionale.
La Commissione si compone di sei componenti ed è attualmente presieduta dal prof. Francesco Margotta Broglio.
Dopo la conclusione delle trattative, le intese sono sottoposte all’esame del Consiglio dei ministri ai fini dell’autorizzazione alla firma da parte del Presidente del Consiglio.
Una volta che siano state firmate dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della confessione religiosa, le intese sono trasmesse al Parlamento per l’approvazione con legge (vedi infra).
Successivamente alla firma delle otto intese il 4 aprile 2007, risultano attualmente in corso trattative esclusivamente con l’Istituto buddista italiano Soka Gakkai.
Tab. 3. Le intese in corso di stipulazione
Istituto buddista italiano Soka Gakkai |
Confessione riconosciuta come ente di culto con D.P.R. del 20 novembre 2000 Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative in data 11 aprile 2001. Le trattative sono iniziate il 18 aprile 2001 |
Fonte: Presidenza del Consiglio[370] (www.governo.it)
Dal punto di vista tecnico-giuridico, non sono state avviate, fino ad oggi trattative per la conclusione di intese, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, con associazioni islamiche.
Fin dagli anni ‘90 sono state avanzate da parte di alcune comunità islamiche, quali la Comunità religiosa islamica, l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia, l’Associazione musulmani italiani e il Centro islamico culturale d’Italia, istanze per arrivare a stipulare intese con lo Stato italiano, basate su proposte unilaterali, dal momento che le predette organizzazioni non avevano raggiunto un accordo preventivo tra loro.
Nel 2000, per superare tale situazione, le organizzazioni citate sono pervenute alla costituzione dell’associazione del Consiglio islamico d’Italia, quale organismo di rappresentanza dell’Islam, sull’esempio di quanto già verificatosi in Spagna, ove nel 1992 la locale comunità islamica ha siglato con lo Stato l’accordo di cooperazione concernente la regolamentazione di alcune tematiche di rilievo, quali il matrimonio, l’assistenza religiosa nei centri pubblici, l’insegnamento della religione islamica, le festività religiose ed altro. Dissidi interni sopravvenuti hanno, tuttavia, impedito che in Spagna tali disposizioni avessero effettiva applicazione. Analogamente in Italia, il Consiglio islamico, costituito nel 2000, non è mai divenuto operativo e l’incapacità di raggiungere un’unitarietà dei richiedenti che fosse rappresentativa dell’universo islamico in Italia ha determinato l’impossibilità di stipulare un’intesa con lo Stato, mancando l’interlocutore riconosciuto. Le richieste di intesa con lo Stato italiano non sono state prese in esame dalla Presidenza del Consiglio dal momento che nessuna delle associazioni è dotata del riconoscimento giuridico come ente di culto, indispensabile per avviare i negoziati da parte della Commissione per le intese con le confessioni religiose[371].
L’art. 8 della Costituzione stabilisce che i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica sono regolati per legge, sulla base di intese con le relative rappresentanze: si tratta, quindi, di una riserva di legge rinforzata, essendo caratterizzata da aggravamenti procedurali, che non consente la modifica, abrogazione o deroga di tali leggi se non mediante leggi ordinarie che abbiano seguito la stessa procedura bilaterale di formazione.
Sulla natura delle intese, e di conseguenza delle leggi approvate sulla base delle intese, la dottrina si divide tra i sostenitori della tesi dell’intesa qualeatto esterno, e quindi paragonabile al trattato internazionale che è recepito dall’ordinamento con legge di esecuzione, e quelli che ne sostengono la natura di atto interno. In base alla seconda teoria le intese costituiscono sì dei tipici atti bilaterali, ma essi non sono stipulati tra due ordinamenti indipendenti e sovrani, come è il caso degli accordi tra Stati o tra Stato e Chiesa cattolica, bensì intervengono tra lo Stato (ordinamento primario) ed una società intermedia sottoposta alla sovranità dello Stato (la confessione religiosa non cattolica).
Nella prassi prevalente dal 1984, le leggi sulla base di intese sono state definite leggi di approvazione. A differenza delle leggi di esecuzione dei trattati internazionali, costituite solitamente da un articolo unico recante la formula di esecuzione del trattato che è allegato alla legge, le leggi di approvazione delle intese sono costituite da un articolato che riproduce sostanzialmente, con poche modifiche formali, il testo dell’intesa, anch’essa allegata alla legge.
Per quanto riguarda i riflessi sulla procedura parlamentare, si è posto, in primo luogo, il problema dell’ammissibilità dell’iniziativa parlamentare per i progetti di legge volti a regolare i rapporti con le confessioni religiose.
L’art. 8 della Costituzione pone una riserva di legge in materia, ma non specifica se l’iniziativa legislativa al riguardo sia attribuita in via esclusiva al Governo, in quanto titolare del potere di condurre le trattative e stipulare le intese, e individua nella stipula delle intese un presupposto costituzionalmente necessario per l’inserimento nell’ordinamento di una legge che regoli i rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose. Ciò analogamente a quanto avviene per i disegni di legge di ratifica dei trattati internazionali, in merito ai quali l’avvenuta stipula del trattato costituisce un presupposto necessario dell’iniziativa legislativa.
Come per la ratifica dei trattati, anche in relazione alle intese, non vi sono norme che espressamente attribuiscono l’iniziativa legislativa in materia esclusivamente al Governo (a differenza di quanto avviene per altri procedimenti legislativi, quale la legge di bilancio, di cui all’art. 81 Cost.); parimenti, l’art. 117 Cost., secondo comma, lettera c), rimette la materia dei rapporti fra la Repubblica e le confessioni religiose, alla competenza esclusiva dello Stato, senza individuare limiti all’iniziativa parlamentare.
La Giunta del Regolamento della Camera dei deputati, dopo aver affrontato la questione della titolarità dell’iniziativa legislativa per la presentazione di progetti di legge volti ad autorizzare la ratifica di trattati internazionali, nella seduta del 5 maggio 1999 – adeguandosi ad una prassi invalsa presso l’altro ramo del Parlamento – si è pronunciata per l’ammissibilità dell’iniziativa parlamentare in tale materia, ove ricorrano i necessari presupposti di fatto.
Come sopra ricordato, secondo la dottrina prevalente, le intese differirebbero dall’autorizzazione alla ratifica in quanto tipici atti bilaterali. Pertanto se si ritengono ammissibili proposte di legge di iniziativa parlamentare per l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali che sono atti tra ordinamenti indipendenti e sovrani, non sembrano a fortiori sussistere elementi ostativi all’ammissibilità di proposte di legge di iniziativa parlamentare per l’approvazione delle intese che sono atti interni.
A favore dell’inammissibilità sembrano invece far propendere due considerazioni:
§ per le intese – a differenza di quanto previsto per l’autorizzazione alla ratifica[372] – non è prevista alcuna forma di comunicazione in merito all’avvenuta stipulazione e al contenuto delle stesse, per cui risulterebbe difficile per i singoli parlamentari presentare una proposta di legge che recepisca le intese stipulate. Tale difficoltà appare, peraltro, superabile qualora l’intesa risulti oggetto di un disegno di legge di iniziativa governativa già presentato: in tal caso la conoscenza della stessa ai fini della trasfusione in una proposta di legge di iniziativa parlamentare risulterebbe possibile;
§ l’iniziativa legislativa parlamentare in materia di rapporti con le confessioni religiose potrebbe determinare, una volta approvata la legge, un vincolo per il Governo, il quale potrebbe trovarsi obbligato ad assumere decisioni o ad esplicitare la propria posizione nei confronti di confessioni religiose (con le quali pure abbia già stipulato un’intesa) in tempi da esso ritenuti inopportuni.
Non risultano comunque, a differenza di quanto avviene per i progetti di legge di ratifica di trattati internazionali, precedenti di proposte di legge di iniziativa parlamentare volte a recepire intese con confessioni religiose.
La forma dell’articolato e la procedura di approvazione parlamentare del disegno di legge di approvazione con votazioni articolo per articolo, alla stregua di qualsiasi progetto di legge, pone la questione dell’emendabilità o meno del testo. Nel corso dei lavori parlamentari, si è affermata una prassi che pur non escludendo in assoluto la emendabilità, restringe l’ambito di intervento del Parlamento a modifiche di carattere non sostanziale, quali quelle dirette ad integrare o chiarire il disegno di legge o ad emendarne le parti che non rispecchiano fedelmente l’intesa.
Diritti e libertà: altre iniziative
Nella seduta del 4 aprile 2007 l’Assemblea della Camera ha approvato un testo unificato di quattro proposte di legge relativo all’Istituzione della Commissione nazionale per la promozione e la protezione dei diritti umani e la tutela dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il cui esame nell’altro ramo del Parlamento non è stato avviato prima dello scioglimento delle Camere.
L’iter parlamentare del provvedimento ha preso l’avvio il 1° agosto del 2006 con l’esame, da parte della I Commissione della Camera, di tre proposte di legge abbinate, A.C. 626 (on. Mazzoni), A.C. 1090 (on. Mascia ed altri), ed A.C. 1441 (on. Boato), finalizzate esclusivamente all’istituzione di un organismo di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, denominato, nella prima proposta, Difensore civico delle persone private della libertà personale e nelle altre due, Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
La proposta A.C. 626 riproduce testualmente il progetto di legge A.C. 3229, presentato dall’on. Mazzoni nella XIV legislatura, esaminato insieme ad altre due proposte, dalla I Commissione della Camera e approvato il 20 ottobre 2005. Le proposte A.C. 1090 e A.C. 1441 coincidono in linea di massima con il testo approvato dalla Commissione nella scorsa legislatura (A.C. 411-3229-3344-A).
Il testo unificato licenziato dalla Commissione (A.C. 411 e abb.-A) nella XIV legislatura istituiva un’autorità indipendente, denominata Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e configurata quale organo collegiale, composto dal presidente, nominato d’intesa dai Presidenti delle due Camere, e da quattro membri eletti, a maggioranza assoluta dei componenti e con voto limitato, in numero di due dal Senato e in numero di due dalla Camera. Al Garante dei diritti erano attribuiti (in concorso con il magistrato di sorveglianza) compiti di vigilanza sul rispetto delle norme concernenti l’esecuzione della custodia poste a tutela dei detenuti, degli internati e dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere, e di verifica sull’idoneità delle relative strutture edilizie pubbliche per salvaguardarne la dignità.
A tal fine erano attribuiti al Garante pregnanti poteri di indagine e di impulso: visitare, senza necessità di autorizzazione, gli istituti di pena e le strutture assimilate (nonché i centri di permanenza temporanea e assistenza per immigrati); prendere visione del fascicolo della persona privata della libertà (col consenso di questa); richiedere informazioni e documentazione alle amministrazioni responsabili; formulare specifiche raccomandazioni alle amministrazioni medesime le quali, se disattendono la richiesta, devono comunicare il loro dissenso motivato nel termine di 30 giorni.
Il Garante poteva rivolgersi al magistrato di sorveglianza nei casi e modi previsti dal progetto di legge ed aveva l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria i fatti costituenti reato dei quali fosse venuto a conoscenza.
Nella seduta del 26 settembre 2006 la I Commissione ha quindi adottato come testo base per il seguito dell’esame delle proposte di legge, il testo unificato predisposto dal relatore, che riprendeva gran parte dei contenuti presenti nelle proposte A.C. 1090 e A.C. 1441. Il testo unificato è stato quindi oggetto di limitate modifiche nel corso dell’esame da parte della Commissione, che il 6 dicembre 2006 ha conferito al relatore il mandato a riferire in senso favorevole all'Assemblea sul testo risultante dall’esame in Commissione (A.C. 626-1090-1441-A).
Il relatore, tuttavia, nello svolgimento della propria relazione nell’ambito della discussione generale sul provvedimento ha segnalato come alla Commissione fosse stata sottoposta la questione relativa alla necessità di istituire un organismo nazionale indipendente per i diritti umani, in conformità a quanto previsto dalla risoluzione A/RES/48/134 votata dall’O.N.U. nel dicembre 1993[373], votata dall’Italia ma rimasta inattuata. Pertanto, in considerazione del prossimo ingresso dell’Italia nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU e dell’intenzione del nostro Paese di candidarsi al nuovo Consiglio dei diritti umani dell'ONU, sottoponeva all’Assemblea la valutazione sull’opportunità di prevedere nell’ambito del provvedimento in esame – anche attraverso un suo rinvio in Commissione - l’istituzione di tale organismo indipendente, anche alla luce del fatto che già era stata presentata alla Camera una proposta di legge in materia (si tratta dell’A.C. 2018, sul quale v. subito infra). Su proposta dell’on. Violante, Presidente della I Commissione, il 12 dicembre 2006 è stato quindi deliberato il rinvio in Commissione del provvedimento.
Il relatore ha quindi elaborato un nuovo testo unificato che prevedeva l’istituzione di un organismo indipendente in materia di tutela dei diritti umani, denominato Commissione nazionale per la promozione e la protezione dei diritti umani, composto dal Presidente e da otto componenti, che aveva al proprio interno una sezione specializzata, denominata Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, composta dal Presidente e da quattro componenti scelti dal Presidente stesso.
Tale testo, dopo ulteriori modifiche finalizzate principalmente a definire rigorosamente le funzioni attribuite alla Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani, è stato adottato come testo base dalla I Commissione, la quale, successivamente all’abbinamento della proposta A.C. 2018 (on. De Zulueta), il 17 gennaio 2007 ha conferito al relatore il mandato a riferire in senso favorevole all'Assemblea su un nuovo testo (A.C 626-1090-1441-2018-A/R), che presentava limitate innovazioni rispetto al testo da ultimo proposto dal relatore.
Nel corso dell’esame da parte dell’Assemblea il testo è stato oggetto di modifiche che hanno riguardato in misura prevalente gli aspetti strutturali della Commissione (riduzione del numero dei componenti della Commissione e fissazione di limiti alle loro indennità; istituzione di un ruolo del personale dell’ufficio della Commissione; affidamento delle funzioni di garanzia delle persone detenute alla Commissione e non ad una sua articolazione interna).
A seguito delle modifiche apportate dall’Assemblea, il testo approvato dalla Camera (A.S. 1463) si compone di tre capi:
§ il primo (artt. 1-8) reca l’istituzione della Commissione nazionale e dispone in ordine alle sue competenze ed ai suoi poteri nel campo della promozione e della protezione dei diritti umani,
§ il secondo (artt. 9-13) disciplina le funzioni esercitate dalla Commissione nella veste di garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale;
§ il terzo (art. 14-17) contiene le disposizioni relative agli obblighi e agli adempimenti cui la Commissione è tenuta, nonché la copertura finanziaria del provvedimento.
Più in dettaglio, la proposta – ricalcando parzialmente la disciplina vigente per le autorità indipendenti - prevede la costituzione di un organo collegiale, la Commissione, formato da un presidente nominato d'intesa tra i presidenti di Camera e Senatoe da altri quattro componenti eletti in numero di due da ciascuna Camera, con voto limitato, in modo da favorire il concorso dell’opposizione alla composizione dell’organismo (art. 1, co. 3). I componenti della Commissione devono essere scelti tra persone che assicurino indipendenza e idoneità alla funzione e devono essere in possesso di esperienza pluriennale e riconosciuta competenza nel campo della tutela dei diritti umani (art. 4). Della Commissione non possono far parte i magistrati in servizio (art. 1, co. 6; ultimo periodo).
Con una particolarità che non trova riscontro nella disciplina delle altre autorità indipendenti, si prevede inoltre che debba realizzarsi un equilibrio di genere tra i componenti della commissione, poiché in ogni Camera risultano eletti “l’uomo e la donna che riportano rispettivamente il maggior numero di voti” (art. 1, co. 4).
I componenti della Commissione, che restano in carica quattro anni e possono essere riconfermati per una sola volta, hanno diritto ad un’indennità il cui importo è rimesso all’autonomia della Commissione stessa, ma non può superare al trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzione di presidente di sezione della Corte di cassazione ed equiparati (art. 1, co. 7) . Per tutta la durata dell’incarico, non possono ricoprire cariche elettive o governative o altri uffici pubblici di qualsiasi natura né svolgere attività lavorativa, subordinata o autonoma, imprenditoriale o libero-professionale, né ricoprire incarichi per conto di un’associazione o di un partito o movimento politico (art. 5).
La disciplina dell’organizzazione interna della Commissione e delle sue modalità di funzionamento è demandata ad un apposito regolamento, che la Commissione adotta entro due mesi dalla sua costituzione (art. 2, co. 5). In particolare, si prevede che la Commissione possa svolgere le proprie attività attraverso apposite sezioni dedicate a particolari materie o a specifici ambiti di competenza (art. 2, co. 4).
Per quanto attiene alle garanzie dell’autonomia e dell’indipendenza dell’organismo, la Commissione è dotata di autonomia contabile e gestionale.
Le norme concernenti l’organizzazione dell’ufficio della Commissione nonché quelle dirette a disciplinare la gestione delle spese, anche in deroga alle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato, sono adottate con regolamento (art. 7, co. 7), su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione.
Sul versante più propriamente finanziario, la Commissione provvede all’autonoma gestione delle proprie spese nell’ambito di un fondo all’uopo iscritto in una apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze (art. 7, co. 5). Il rendiconto della gestione finanziaria è soggetto al controllo della Corte dei conti.
Quanto alle strutture di supporto della Commissione, l’art. 7 prevede l’istituzione di un ruolo, composto da non più di 100 unità, del personale dipendente dall’ufficio della Commissione. All’istituzione si provvede con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, su proposta della Commissione. Il decreto definisce altresì il trattamento giuridico ed economico del personale dipendente dalla Commissione, nell’ambito di uno specifico tetto di spesa. Nel rispetto del medesimo limite di spesa, la Commissione può avvalersi, per motivate esigenze, di dipendenti pubblici, collocati in posizione di fuori ruolo o equiparati, ovvero in aspettativa, in numero non superiore, complessivamente, a 20 unità e per non oltre il 20 per cento delle qualifiche dirigenziali.
Al regolamento di organizzazione della Commissione è altresì rimesso il compito di prevedere la destinazione di una quota del personale, non inferiore al 50 per cento, al supporto delle attività della Commissione nel campo della tutela dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
Il reclutamento del personale avviene in via ordinaria per pubblico concorso[374], ma in sede di prima applicazione si prevede che la Commissione provvede nella misura massima del 50 per cento dei posti previsti nel ruolo mediante apposita selezione nell’ambito del personale dipendente da pubbliche amministrazioni in possesso delle competenze e dei requisiti di professionalità ed esperienza necessari in relazione alle funzioni e alle caratteristiche di indipendenza e imparzialità della Commissione.
La Commissione può inoltre fare ricorso, qualora la natura tecnica o la delicatezza delle questioni lo richiedano, all’opera di esperti, che dovranno essere remunerati in base alle vigenti tariffe professionali, nonché avvalersi della collaborazione di università, centri di studio e di ricerca, organizzazioni non governative, organizzazioni sociali e professionali ed associazioni che operano nel campo della promozione e della tutela dei diritti umani (art. 8).
Quanto agli adempimenti attribuiti alla Commissione, essa è tenuta a presentare rapporto all’autorità giudiziaria nei casi in cui venga a conoscenza di fatti che possano integrare fattispecie di reato (art. 14) e a mantenere il segreto d’ufficio su quanto appreso nell’esercizio delle proprie funzioni (art. 15).
La Commissione deve inoltre presentare almeno annualmente una relazione al Parlamento sul complesso delle proprie attività, nella quale deve dare specificamente conto dell’attività svolta a tutela dei diritti dei detenuti e dei soggetti privati della libertà personale e promuovere la pubblicazione di un bollettino che dia pubblicità a atti, documenti e attività particolarmente significativi (art. 16).
Per quanto riguarda le funzioni svolte dalla Commissione nel campo della promozione e della protezione dei diritti umani (art. 2), esse attengono in particolare a:
§ promuovere la cultura dei diritti umani e la diffusione della conoscenza delle norme che regolano la materia e delle relative finalità, attraverso la realizzazione di progetti didattici e di ricerca e di percorsi informativi da realizzare in ambito scolastico;
§ effettuare un monitoraggio del rispetto dei diritti umani in Italia e contribuire a verificare l’attuazione delle convenzioni e degli accordi internazionali in materia di diritti umani ratificati dall’Italia;
§ formulare pareri, raccomandazioni e proposte al Governo e al Parlamento nelle materie connesse con la tutela dei diritti umani, eventualmente suggerendo al Governo l’adozione di specifiche misure normative ovvero sollecitando la firma o la ratifica delle convenzioni e degli accordi internazionali in materia di diritti umani;
§ formulare raccomandazioni e suggerimenti al Governo ai fini della definizione della posizione italiana nel corso di negoziati multilaterali o bilaterali che possono incidere sul livello di tutela dei diritti umani;
§ promuovere, nell’ambito delle categorie interessate, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, nonché verificarne la conformità alle leggi e ai regolamenti, anche attraverso l’esame di osservazioni di soggetti interessati a contribuire a garantirne la diffusione e il rispetto;
§ promuovere gli opportuni contatti con le autorità, le istituzioni e gli organismi pubblici, quali i difensori civici, cui la legge attribuisce, a livello centrale o locale, specifiche competenze in relazione alla tutela dei diritti umani.
L’innovazione più rilevante è peraltro rappresentata dalla possibilità per la Commissione di ricevere dai singoli interessati o dalle associazioni che li rappresentano segnalazioni relative a specifiche violazioni o limitazioni dei diritti umani e, qualora non sia già stata adita l’autorità giudiziaria, attivare uno specifico procedimento di accertamento, sanzione e denuncia (art. 2 lett. g) e art. 3).
La Commissione, una volta ricevuta la segnalazione e verificata la sussistenza delle condizioni per la sua procedibilità ed informate le parti interessate, può richiedere loro di fornire informazioni e di esibire documenti.
La risposta alle richieste costituisce un comportamento doveroso. Se, infatti, le parti rifiutano od omettono, senza giustificato motivo, di fornire le informazioni o di esibire i documenti richiesti dalla Commissione, esse sono punite con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 4.000 a euro 24.000, incrementata fino al doppio del massimo nel caso le informazioni o i documenti non risultino veritieri. Qualora gli inottemperanti siano soggetti pubblici, la Commissione può rivolgersi agli uffici sovraordinati ai quali è rimessa la valutazione in ordine alla responsabilità disciplinare del dipendente inadempiente.
In esito ad un procedimento nel quale le parti interessate hanno la possibilità di essere sentite, personalmente o per mezzo di procuratore speciale, e possono presentare memorie e documenti, la Commissione, quando verifica l’esistenza di comportamenti non conformi alle norme interne e internazionali in materia di diritti umani, richiede al soggetto interessato di agire in conformità, promovendo prioritariamente un tentativo di conciliazione o, in via subordinata, formulando specifiche raccomandazioni.
Qualora il soggetto interessato intenda disattendere la richiesta, deve comunicare il suo dissenso motivato nel termine di trenta giorni.
Nei casi in cui non sia comunicato il dissenso motivato o la Commissione ritenga insufficiente la motivazione del dissenso fornita dall’interessato:
§ quando si tratti di soggetti privati, la Commissione può rivolgersi, ove ne ricorrano i presupposti, all’autorità giudiziaria;
§ quando si tratti di pubbliche amministrazioni, la Commissione si rivolge agli uffici sovraordinati a quelli originariamente interessati. Se questi ultimi decidono di provvedere in conformità alla richiesta della Commissione, l’attivazione del procedimento disciplinare a carico del dipendente al quale risulta attribuibile l’inerzia è obbligatoria. Se, invece, gli uffici sovraordinati decidono di non accogliere la richiesta, la Commissione può richiedere all’autorità giudiziaria di annullare l’atto che reputa illegittimo ovvero di ordinare all’autorità interessata di tenere il comportamento dovuto.
Per quanto attiene alle funzioni relative alla tutela dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale[375], esse sono esercitate dalla Commissione sotto il coordinamento di un componente della Commissione all’uopo nominato dal Presidente (art. 9) e comportano l’attribuzione di poteri e l’adozione di procedimenti parzialmente diversi da quelli previsti in via generale per la tutela dei diritti umani.
In questo ambito, la Commissione, cooperando con gli analoghi organismi istituiti a livello territoriale, è quindi chiamata a esercitare una vigilanza diretta ad assicurare che la custodia dei detenuti, degli internati, dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali, alle leggi e ai regolamenti. In particolare, l’attività di verifica ha ad oggetto l’adeguatezza delle strutture edilizie a salvaguardare la dignità dei soggetti privati della libertà personale.
Per l’esercizio di tali funzioni alla Commissione è riconosciuto, in particolare, il potere di:
§ visitare, senza necessità di autorizzazione o di preavviso e senza limitazioni, le strutture destinate all’esecuzione di misure privative della libertà personale e di incontrare liberamente chiunque vi sia privato della libertà;
§ prendere visione, nel rispetto della normativa applicabile ai soggetti pubblici in materia di protezione dei dati personali, degli atti e dei documenti contenuti nel fascicolo della persona privata della libertà, ad eccezione di quelli coperti da segreto relativi alle indagini e al procedimento penale;
§ richiedere alle amministrazioni responsabili delle strutture informazioni e documenti. Nel caso in cui l’amministrazione responsabile non fornisca risposta nel termine di 30 giorni, la Commissione informa il magistrato di sorveglianza e può richiedergli di emettere ordine di esibizione dei documenti richiesti; nel caso in cui venga opposto il segreto di Stato, informa il magistrato di sorveglianza territorialmente competente, che valuta se richiedere l’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri per la conferma dell’esistenza del segreto.
La Commissione, che può agire anche sulla base di istanze o reclami fatti pervenire, senza vincoli di forma, dai soggetti comunque privati della libertà personale (art. 12), qualora verifichi l’esistenza di comportamenti non conformi alle norme costituzionali, legislative o regolamentari vigenti in materia, ovvero la fondatezza delle istanze e reclami ricevuti, richiede all’amministrazione interessata di agire in conformità, promovendo un tentativo di conciliazione e, in via subordinata, formulando specifiche raccomandazioni (art. 13).
Nel caso l’amministrazione intenda disattendere la richiesta, il procedimento è simile a quello seguito nel caso delle raccomandazioni formulate alle pubbliche amministrazioni per la tutela dei diritti umani. La peculiarità del procedimento speciale risiede nel fatto che, qualora anche gli uffici sovraordinati decidano di non accogliere la richiesta, la Commissione trasmette il reclamo:
§ al magistrato di sorveglianza, che decide come nei casi di reclami di detenuti ed internati, qualora si tratti di istituti penitenziari, ospedali psichiatrici giudiziari, istituti penali e comunità per minori e gli enti convenzionati con il Ministero della giustizia per l’esecuzione di misure privative della libertà personale che ospitano condannati che usufruiscono di misure alternative alla detenzione,
§ al prefetto, qualora si tratti di camere di sicurezza eventualmente esistenti presso le caserme dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza e presso i commissariati di pubblica sicurezza;
§ all’autorità giudiziaria competente, ai fini dell’annullamento dell’atto o dell’ordine all’amministrazione di tenere il comportamento dovuto, qualora si tratti di centri di permanenza temporanea.
Assetto dei ministeri
I commi da 404 a 416 della legge finanziaria per il 2007[376] hanno delineato un ampio programma di riorganizzazione dei ministeri, espressamente finalizzato al contenimento delle spese di funzionamento, da attuare attraverso l’adozione di regolamenti di delegificazione, emanati ai sensi dell’art. 17, co. 4-bis, della L. 400/1988[377].
Il comma 404 individua sette linee di intervento del programma da attuare con i regolamenti di delegificazione.
Innanzitutto (lettera a), si dovrà procedere ad una riorganizzazione delle articolazioni interne di ciascuna amministrazione volta alla riduzione del numero degli uffici di livello dirigenziale generale di almeno il 10 per cento, e degli uffici di livello dirigenziale non generale del 5 per cento; inoltre, si dovranno eliminare le duplicazioni organizzative eventualmente esistenti.
L’organizzazione interna dei ministeri è disciplinata da una pluralità di fonti normative. Le strutture di primo livello (dipartimenti o direzioni generali) sono stabilite direttamente dal D.Lgs. 300/1999[378], che fissa per ciascun ministero il numero massimo di dipartimenti o di direzioni generali, a seconda del modello organizzativo prescelto. Nell’ambito di tale struttura primaria, si provvede a definire il numero (nonché l’organizzazione, la dotazione organica e le funzioni) degli uffici di livello dirigenziale generale in cui sono articolati i dipartimenti o le direzioni generali, mediante regolamenti di delegificazione adottati con D.P.R. ex art. 17, co. 4-bis, L. 400/1988 (così dispone l’art. 4, co. 1, del D.Lgs. 300/1999). L’articolazione interna degli uffici di livello dirigenziale generale è demandata al ministro che provvede, con proprio decreto di natura non regolamentare, alla individuazione degli uffici di livello dirigenziale non generale e alla definizione dei relativi compiti (art. 4, co. 4, D.Lgs. 300/1999).
Detta riorganizzazione volta alla riduzione degli uffici dirigenziali, peraltro, dovrà essere coniugata con la possibilità di immissione, nel quinquennio 2007-2011, di nuovi dirigenti assunti tramite concorso per esami o mediante corso-concorso[379] nell’ambito di procedure autorizzative, in misura non inferiore al 10 per cento degli uffici dirigenziali.
Una seconda linea di intervento consiste (lettera c)) nella revisione delle strutture periferiche prevedendone, anche in questo caso, la loro riduzione. A questo proposito la disposizione indica due possibili percorsi: o l’accorpamento di tutti gli uffici periferici facenti capo ad una amministrazione in un unico ufficio regionale, oppure il trasferimento delle funzioni svolte da tali uffici all’interno delle prefetture – uffici territoriali del Governo.
Gli uffici territoriali del Governo, istituiti dall’art 11 del D.Lgs. 300/1999 in sostituzione delle prefetture, avrebbero dovuto assumere la titolarità di tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica dello Stato, ad eccezione di alcune espressamente indicate (affari esteri, giustizia, difesa, tesoro, finanze, pubblica istruzione, beni culturali, agenzie e, successivamente, anche comunicazioni). In seguito, tali uffici (con la nuova denominazione di prefetture – uffici territoriali del Governo) hanno mutato le loro funzioni, assumendo un ruolo di coordinamento degli uffici periferici dello Stato (D.Lgs. 29/2004). Anche il D.P.R. 287/2001, che individuava quali amministrazioni avrebbero dovuto trasferire agli UTG i compiti svolti dalle proprie strutture locali, è stato abrogato (D.P.R. 180/2006).
Le linee guida adottate con D.P.C.M. 13 aprile 2007in attuazione delle disposizioni in commento precisano che la scelta tra le due prospettate soluzioni deve avvenire, per ciascun ministero, avendo come dato di partenza la garanzia della qualità dei servizi assicurati all'utenza ed analizzando le opportunità di razionalizzazione e integrazione delle attività di autoamministrazione, nell’ottica di una possibile riduzione del numero degli uffici addetti ad attività strumentali, anche con l'istituzione di servizi comuni o di centri interservizi; va inoltre considerata la prospettiva del trasferimento di funzioni statali verso Regioni ed enti locali ex art. 118 Cost., e rafforzate le capacità di raccordo con le autonomie territoriali in attuazione del principio di leale collaborazione.
L’accorpamento delle strutture periferiche dovrà avvenire secondo una serie di criteri e modalità indicati dai commi in esame. Innanzitutto, deve risultare sostenibile e maggiormente funzionale sulla base dei princìpi di efficienza ed economicità. La valutazione della sostenibilità e della funzionalità dell’accorpamento dovrà essere operata congiuntamente dal ministro competente e dai ministri per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, dell’interno, dell’economia e delle finanze e per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali.
La legge finanziaria individua altresì alcuni settori specifici che devono formare oggetto di riorganizzazione. In particolare:
§ il Ministero degli affari esteri (lettera g)del comma in esame) che dovrà:
- avviare la ristrutturazione della rete diplomatica, consolare e degli istituti di cultura in considerazione del mutato contesto geopolitica, soprattutto in Europa
- unificare i servizi contabili degli uffici della rete diplomatica aventi sede nella stessa città estera;
§ le sedi periferiche del Ministero dell’interno (prefetture, questure, comandi dei vigili del fuoco: art. 1, co. 425 della legge finanziaria);
§ l’articolazione periferica del Ministero dell'economia e delle finanze e la ridefinizione delle competenze e delle strutture dei Dipartimenti centrali del medesimo Ministero (art. 1, co. 427 e 428).
La terza direttrice di intervento (lettera f)) prevede una generale riduzione degli organici delle amministrazioni ministeriali. A questa misura si accompagna un intervento di contenimento del personale con funzioni di supporto entro il 15% del totale delle risorse utilizzate da ciascuna amministrazione.
Si tratta di quei settori di personale (c.d. di back office) impegnati in attività di gestione “interna” dell’amministrazione, con una basso grado di differenziazione tra le diverse amministrazioni. In particolare, la lettera in esame ne individua cinque:
§ gestione delle risorse umane;
§ informatica;
§ manutenzione e logistica;
§ affari generali;
§ provveditorati e contabilità.
Gli altri criteri-guida per i regolamenti da emanare, indicati dal comma in esame, riguardano la riduzione e la riorganizzazione di particolari attività o strutture delle amministrazioni statali: la gestione del personale da realizzare in modo unitario anche attraverso lo sfruttamento degli strumenti di innovazione tecnologica e amministrativa (lettera b)); gli uffici con funzioni ispettive e di controllo (lettera d) e gli organismi di analisi, consulenza e di studio (lettera e)) (che hanno peraltro formato oggetto di interventi di riordino e soppressione anche ai sensi dell'art. 29 del D.L. 223/2006[380]).
Le sopra citate linee guida, sempre ai fini di una maggiore efficienza e razionalizzazione della spesa, menzionano quali criteri aggiuntivi, ove applicabili, quelli dettati dall'art. 20 della L. 59/1997[381] e in particolare:
§ l'accorpamento delle funzioni per settori omogenei, la soppressione degli organi che risultino superflui, la costituzione di centri interservizi dove ricollocare il personale degli organi soppressi e raggruppare le competenze diverse ma confluenti in un'unica procedura (art. 20, co. 4, lett. a));
§ l'ottimale utilizzazione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (art. 20, co. 4, lett. f));
§ l'avvalimento di uffici e strutture tecniche e amministrative pubbliche da parte di altre pubbliche amministrazioni, sulla base di accordi conclusi ai sensi dell'art. 15 della L. 241/1990, e successive modificazioni (art. 20, co. 4, lett. f-quinquies);
§ il trasferimento ad organi monocratici o ai dirigenti di funzioni anche decisionali, che non richiedano, in ragione della loro specificità, l'esercizio in forma collegiale, nonché la sostituzione degli organi collegiali con conferenze di servizi ((art. 20, co. 8, lett. a)).
I commi da 405 a 416 delineano il procedimento di adozione dei regolamenti di revisione degli assetti delle amministrazioni dello Stato secondo criteri individuati dal comma 404. Esso può essere sintetizzato come segue:
§ le direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione (emanate annualmente dai ministri entro dieci giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. 165/2001) provvedono a programmare la riallocazione del personale di supporto in vista della sua riduzione entro il 15% (comma 413);
§ il Presidente del Consiglio, previo parere del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro dell’interno, emana le linee guida per l’attuazione del riassetto delle amministrazioni (comma 412; le linee guida sono state adottate con D.P.C.M. 13 aprile 2007);
§ entro due mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame (entro il 28 febbraio 2007) ciascuna amministrazione trasmette al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri e al Ministero dell'economia e delle finanze gli schemi di regolamento accompagnati da una dettagliata relazione tecnica, che specifichi le riduzioni di spesa previste nel triennio e da un analitico piano operativo (comma 407);
§ l’esame degli schemi di regolamento da parte del Governo deve concludersi entro un mese dalla loro ricezione (quindi al massimo entro il 31 marzo 2007) (comma 407);
§ sempre entro il 31 marzo 2007 dovranno essere predisposti i piani di riallocazione del personale di supporto di cui si è detto sopra (comma 408);
§ i regolamenti prevedono la completa attuazione dei processi di riorganizzazione entro diciotto mesi dalla loro emanazione (comma 405);
§ dalla data di emanazione dei regolamenti sono abrogate le disposizioni regolatrici delle materie ivi disciplinate, la cui puntuale ricognizione è affidata ai medesimi regolamenti (comma 406).
È inoltre previsto un sistema di controllo e di sanzioni:
§ i ministri dell'economia e delle finanze e per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione verificano ogni sei mesi lo stato di attuazione delle disposizioni del presente articolo e ne trasmettono i risultati alle Camere con una relazione specifica (comma 409);
§ anche gli organi di controllo delle singole amministrazioni effettuano semestralmente un monitoraggio del quale trasmettono i risultati ai ministeri vigilanti e alla Corte dei conti. Inoltre, dopo due anni, verificano il rispetto delle disposizioni relative al personale utilizzato per lo svolgimento delle funzioni di supporto (comma 411);
§ le amministrazioni che non abbiano provveduto nei tempi previsti alla predisposizione degli schemi di regolamento non possono, per gli anni 2007 e 2008, procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipo di contratto (comma 410);
§ il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti nel piano operativo e nei programmi innanzi citati sono valutati ai fini della corresponsione ai dirigenti della retribuzione di risultato e della responsabilità dirigenziale (comma 414).
Il comma 415 istituisce una “Unità per la riorganizzazione”, composta dai ministri per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, dell'economia e delle finanze e dell'interno, con il duplice compito di coordinare le attività delle singole amministrazioni e di monitorare tali attività, al fine espresso di conseguire i risultati finanziari di cui al comma 416. Nell'esercizio delle relative funzioni l’Unità si avvale, nell'ambito delle attività istituzionali, senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, delle strutture già esistenti presso le competenti amministrazioni.
Il comma 416 pone gli obiettivi di contenimento della spesa da conseguire attraverso le riorganizzazioni amministrative prefigurate dal provvedimento in esame: si prospettano risparmi di spesa non inferiori a 7 milioni di euro per l'anno 2007, a 14 milioni di euro per l'anno 2008 ed a 20 milioni di euro per l'anno 2009.
In attuazione delle disposizioni sin qui illustrate, sono stati emanati sinora dieci regolamenti di riorganizzazione.
Si tratta dei seguenti:
§ D.P.R. 14 novembre 2007, n. 225 (Ministero dello sviluppo economico);
§ D.P.R. 14 novembre 2007, n. 253 (Ministero del commercio internazionale);
§ D.P.R. 19 novembre 2007, n. 254 (Ministero delle infrastrutture);
§ D.P.R. 19 novembre 2007, n. 264 (Ministero dell’università e della ricerca);
§ D.P.R. 26 novembre 2007, n. 233 (Ministero per i beni e le attività culturali);
§ D.P.R. 8 dicembre 2007, n. 271 (Ministero dei trasporti);
§ D.P.R. 19 dicembre 2007, n. 258 (Ministero degli affari esteri);
§ D.P.R. 21 dicembre 2007, n. 260 (Ministero della pubblica istruzione);
§ D.P.R. 9 gennaio 2008, n. 18 (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali);
§ D.P.R. 30 gennaio 2008, n. 43 (Ministero dell’economia e delle finanze).
Sono in corso di adozione i regolamenti di riorganizzazione del Ministeri dell’ambiente e della difesa.
Assetto dei ministeri
I commi 376 e 377 dell’articolo 1 della legge finanziaria per il 2008[382] hanno modificato la composizione del Governo, riducendo il numero dei ministeri e fissando un tetto al numero complessivo dei componenti (inclusi ministri senza portafoglio, vice ministri e sottosegretari)[383].
La nuova disciplina, che innova (senza tuttavia novellarla) quella recata dal D.Lgs. 300/1999[384], ha efficacia “a partire dal Governo successivo a quello in carica” alla data di entrata in vigore della legge finanziaria: essa dunque è destinata a trovare applicazione in occasione della formazione del primo Governo della XVI legislatura.
I commi in esame, peraltro, non individuano esplicitamente il numero, né la denominazione, né le competenze dei ministeri risultanti dalla loro applicazione, per cui risulta necessario ricavare tali elementi in via interpretativa.
Il primo periodo del comma 376 ridefinisce indirettamente il numero dei ministeri, mediante un richiamo alle relative disposizioni del D.Lgs. 300/1999 nella sua formulazione originaria, cioè in quella pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale n. 203 del 30 agosto 1999, antecedente alle modifiche apportate dal D.L. 217/2001 e dal successivo D.L. 181/2006.
In altre parole, la disposizione in esame fa sostanzialmente rivivere – limitatamente a questo solo aspetto (numero dei ministeri) – la disciplina dell’organizzazione del Governo di cui al testo originario del D.Lgs. 300/1999, ove si istituivano e disciplinavano dodici ministeri.
Si ricorda al riguardo che la delega conferita dalla L. 59/1997[385] per la riforma dell’organizzazione dei Ministeri – che diede origine al D.Lgs. 300/1999 – era espressamente intesa a razionalizzare l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Ministeri, anche attraverso il riordino, la soppressione e la fusione di Ministeri, nonché di amministrazioni centrali anche ad ordinamento autonomo.
Tra i princìpi e criteri direttivi della delega vi erano i seguenti: procedere alla razionalizzazione e redistribuzione delle competenze tra i Ministeri, in ogni caso riducendone il numero, anche con decorrenza differita all’inizio della nuova legislatura; eliminare le duplicazioni organizzative e funzionali, sia all’interno di ciascuna amministrazione, sia fra di esse, sia tra organi amministrativi e organi tecnici, con eventuale trasferimento, riallocazione o unificazione delle funzioni e degli uffici esistenti, e ridisegnare le strutture di primo livello, anche mediante istituzione di dipartimenti o di amministrazioni ad ordinamento autonomo o di agenzie e aziende, anche risultanti dalla aggregazione di uffici di diverse amministrazioni, sulla base di criteri di omogeneità, di complementarietà e di organicità (cfr art. 12, co. 1, lett. f) e g), della L. 59/1997).
Il D.Lgs. 300/1999, che prevedeva come si è detto dodici ministeri, non ha peraltro mai avuto applicazione nella sua formulazione originaria. Esso infatti avrebbe dovuto essere applicato a partire dalla XIV legislatura, allorché però fu emanato il D.L. 217/2001[386]. Tale decreto-legge, modificando il testo originario del D.Lgs. 300/1999, portò a quattordici il numero dei Ministeri.
Una ulteriore riforma è stata posta in essere all’inizio della XV legislatura, attraverso il D.L. 181/2006[387]: tale provvedimento ha portato a diciotto il numero dei Ministeri.
La tabella che segue pone a confronto le diverse composizioni del Governo secondo le formulazioni del D.Lgs. 300/1999 succedutesi nel tempo.
Art. 2, co. 1, del D.Lgs. 300/1999 |
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Testo originario |
Testo modificato |
Testo ulteriormente modificato dal D.L. 181/2006 |
1. A decorrere dalla prossima legislatura, i ministeri sono i seguenti: |
1. I ministeri sono i seguenti: |
1. I ministeri sono i seguenti: |
1) Ministero degli affari esteri |
1) Ministero degli affari esteri; |
1) Ministero degli affari esteri; |
2) Ministero dell’interno |
2) Ministero dell’interno; |
2) Ministero dell’interno; |
3) Ministero della giustizia |
3) Ministero della giustizia; |
3) Ministero della giustizia; |
4) Ministero della difesa |
4) Ministero della difesa; |
4) Ministero della difesa; |
5) Ministero dell’economia e delle finanze |
5) Ministero dell’economia e delle finanze; |
5) Ministero dell’economia e delle finanze; |
6) Ministero delle attività produttive |
6) Ministero delle attività produttive; |
6) Ministero dello sviluppo economico; |
|
7) Ministero del commercio internazionale; |
|
|
7) Ministero delle comunicazioni; |
8) Ministero delle comunicazioni; |
7) Ministero delle politiche agricole e forestali |
8) Ministero delle politiche agricole e forestali; |
9) Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali; |
8) Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio |
9) Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio; |
10) Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare; |
9) Ministero delle infrastrutture e dei trasporti |
10) Ministero delle infrastrutture e dei trasporti; |
11) Ministero delle infrastrutture; |
|
|
12) Ministero dei trasporti; |
10) Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali |
11) Ministero del lavoro e delle politiche sociali; |
13) Ministero del lavoro e della previdenza sociale; |
|
12) Ministero della salute; |
14) Ministero della salute; |
11) Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca |
13) Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca; |
15) Ministero della pubblica istruzione; |
|
|
16) Ministero dell’università e della ricerca; |
12) Ministero per i beni e le attività culturali. |
14) Ministero per i beni e le attività culturali. |
17) Ministero per i beni e le attività culturali; |
|
|
18) Ministero della solidarietà sociale. |
Il testo in commento riduce pertanto il numero dei ministeri a dodici: sei in meno rispetto al precedente esecutivo.
Il numero dei ministri, includendovi quelli senza portafoglio, potrà naturalmente essere superiore, fermo restando il limite massimo posto dal secondo periodo del comma 376, del quale si dirà nel prossimo paragrafo.
Il secondo periodo del comma 376 pone un limite (questa volta esplicito) anche al numero complessivo dei componenti del Governo “a qualsiasi titolo”, comprendendo in tale nozione allargata di componente del Governo i ministri senza portafoglio, i viceministri e i sottosegretari. Tale numero non potrà essere superiore a sessanta.
Considerando la carica di Presidente del Consiglio dei ministri e quella dei titolari dei dodici ministeri, se ne desume che il Governo non potrebbe contare più di quarantasette tra vicepresidenti del Consiglio (che non siano al contempo titolari di ministero), ministri senza portafoglio, viceministri ed altri sottosegretari di Stato.
Ai sensi del medesimo comma 376, il contingente governativo dovrà inoltre essere configurato “in coerenza” con il principio di cui all’articolo 51, primo comma, secondo periodo, della Costituzione, a mente del quale la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini ai fini dell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
Dalla formulazione dell’art. 51 Cost. non sembra peraltro discendere un puntuale vincolo giuridico (misurabile in termini di “quote”) in ordine alla rappresentanza dei due generi nella futura compagine governativa, quanto piuttosto l’obbligo di promuovere le “pari opportunità nell’accesso”; il modo in cui a tale principio si può dare applicazione all’atto della formazione del nuovo Governo parrebbe dunque sostanzialmente rimesso alle sensibilità e alle dinamiche dei diversi attori politico-istituzionali (principalmente, il Presidente del Consiglio incaricato e il Capo dello Stato ai quali spettano, rispettivamente, la proposta e l’atto di nomina dei membri del Governo).
Come si ricava da quanto sin qui detto, il testo in esame ripristina solo il numero, ma non anche la denominazione e la ripartizione delle attribuzioni fra i ministeri di cui all’originario D.Lgs. 300/1999.
Il comma 376, primo periodo, nulla dispone, infatti, quanto alla denominazione e alle attribuzioni dei ministeri risultanti dalla riduzione: in altre parole, non indica espressamente quali degli esistenti ministeri devono intendersi soppressi e quali altri dovranno esercitarne le competenze.
Soccorre a tale riguardo il successivo comma 377, ove si prevede che, a decorrere dalla reviviscenza (ai sensi e nei limiti di cui al comma precedente) del testo originario del D.Lgs. 300/1999[388], sono abrogate tutte le disposizioni non compatibili con la riduzione del numero dei ministeri, ivi comprese quelle recate dal D.L. 217/2001 e dal D.L. 181/2006 (i quali, come si è innanzi ricordato, hanno modificato il decreto legislativo istituendo nuovi ministeri e modificando l’assetto delle competenze).
Sembra dover intendersi che l’abrogazione avrà ad oggetto le disposizioni, introdotte successivamente al D.Lgs. 300/1999, che hanno disposto l’istituzione di nuovi ministeri, ma non necessariamente quelle che ne hanno modificato la denominazione o le competenze, salvo che tali modifiche risultino incompatibili con la prevista riduzione numerica.
Si ricorda, al riguardo, che il D.L. 217/2001 ha istituito:
§ il Ministero delle comunicazioni[389];
§ in luogo del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Ministero della salute,
e che il successivo D.L. 181/2006 ha istituito:
§ il Ministero del commercio internazionale;
§ il Ministero della solidarietà sociale;
§ in luogo del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero delle infrastrutture e il Ministero dei trasporti;
§ in luogo del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Ministero della pubblica istruzione e il Ministero dell’università e della ricerca.
In virtù dello stesso D.L. 181/2006,
§ la denominazione del Ministero delle politiche agricole e forestali muta in: Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali”;
§ la denominazione del Ministero delle attività produttive muta in: Ministero dello sviluppo economico;
§ la denominazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio muta in: Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare;
§ la denominazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali muta in Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
L’individuazione dell’esatta portata abrogativa del comma 377 deve altresì tener conto dell’ultimo inciso del comma, il quale fa comunque salve svariate disposizioni del D.L. 181/2006.
Si tratta dei seguenti commi dell’art. 1 del decreto-legge:
§ commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater, 2-quinquies, che attribuiscono al Ministero dello sviluppo economico le funzioni in materia di politiche di sviluppo e di coesione già attribuite dal D.Lgs. 300/1999 (art. 24, co. 1, lett. c)) al Ministero dell’economia e delle finanze e successivamente trasferite dal D.L. 63/2005[390] (art. 1) alla Presidenza del Consiglio dei ministri, con particolare riferimento alle aree depresse, incluse le funzioni in materia di strumenti di programmazione negoziata e di programmazione dell'utilizzo dei fondi strutturali comunitari, la gestione del Fondo per le aree sottoutilizzate e i relativi interventi[391];
§ commi 10-bis e 10-ter, che hanno disposto, in sede di prima applicazione del D.L. 181/2006 e al fine di garantire il funzionamento delle strutture trasferite, il mantenimento presso le singole amministrazioni, nell’ambito delle strutture trasferite, degli incarichi dirigenziali conferiti ad esterni, anche in deroga ai limiti numerici fissati dall’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 (co. 5-bis e 6);
§ commi 12 e 13-bis, che mutano rispettivamente in “Ministero dello sviluppo economico” la denominazione del Ministero delle attività produttive e in “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare” la denominazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio;
§ comma 19, lettera a), e 22, lettera a), che attribuiscono al Presidente del Consiglio dei ministri le funzioni di competenza statale in materia di sport già attribuite al Ministero per i beni e le attività culturali dagli artt. 52, co. 1, e 53 del D.Lgs. 300/1999[392]; e trasferiscono alla Presidenza del Consiglio le inerenti strutture organizzative del Ministero per i beni e le attività culturali, con le relative risorse finanziarie, umane e strumentali;
§ commi 19-bis e 19-quater, che attribuiscono alla Presidenza del Consiglio dei ministri le funzioni di competenza statale in materia di turismo (in precedenza attribuite al Ministero delle attività produttive dagli artt. 27 e 28 del D.Lgs. 300/1999), istituiscono presso la Presidenza del Consiglio il Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo, e dispongono il trasferimento delle inerenti risorse;
§ comma 22-bis (più volte modificato da successivi interventi normativi) che tra l’altro sopprime la Commissione di supporto al ministro per la funzione pubblica istituita presso il relativo Dipartimento dall’art. 3, co. 6-duodecies-6-quaterdecies, del D.L. 35/2005[393], prevedendo in suo luogo la costituzione con D.P.C.M., presso la Presidenza del Consiglio, di una Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione[394], e dispone che, con D.P.C.M., si provveda a riordinare le funzioni e le strutture della Presidenza del Consiglio in materia di semplificazione e qualità della regolazione;
§ comma 22-ter, che novella l’art. 9, co. 2, della L. 400/1988[395] in materia di attribuzione di compiti specifici a ministri senza portafoglio;
§ comma 25-bis, ove si precisa che il riordino operato non comporta alcuna revisione dei trattamenti economici dei dipendenti, che si rifletta in maggiori oneri per il bilancio dello Stato.
La formula abrogativa innominata alla quale ricorre il comma 377 rimette pressoché interamente all’interprete l’individuazione delle disposizioni recate dai due decreti-legge (e di quelle contenute in altre, non precisate, disposizioni legislative) che debbano intendersi abrogate: si tratta di un’operazione inevitabilmente caratterizzata da un margine di incertezza, oltre che da grande delicatezza in ragione della materia trattata, di diretta attuazione costituzionale (l’art. 95, co. 3°, Cost. rimette infatti alla legge la determinazione del numero, delle attribuzioni e dell’organizzazione dei ministeri).
Nei medesimi D.L. 217/2001 e 181/2006 l’istituzione di nuovi ministeri si è inoltre necessariamente accompagnata a una riassegnazione delle competenze tra ciascun ministero di nuova istituzione ed altri ministeri, nonché tra questi e la Presidenza del Consiglio dei ministri; la concreta determinazione dell’efficacia abrogativa del comma in esame dovrebbe pertanto implicare anche una ricostruzione “a ritroso” dell’assetto delle competenze, operazione interpretativa anch’essa, almeno a prima vista, non agevole.
Ciò premesso, sembra plausibile osservare che dovrebbero potersi annoverare, tra i dodici ministeri previsti, quelli elencati dall’originario D.Lgs. 300/1999 e non interessati dal riassetto operato dal D.L. 217/2001 e dal D.L. 181/2006, e quelli dei quali il D.L. 181/2006 ha modificato esclusivamente la denominazione o talune competenze.
Si tratta dei seguenti otto ministeri:
§ Ministero degli affari esteri;
§ Ministero dell’interno;
§ Ministero della giustizia;
§ Ministero della difesa;
§ Ministero dell’economia e delle finanze;
§ Ministero per i beni e le attività culturali;
§ Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
§ Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
Gli altri quattro ministeri dovrebbero risultare dal “riaccorpamento” dei residui ministeri in essere, consequenziale all’abrogazione innominata di cui al citato comma 377.
Dovrebbero risultarne coinvolti:
§ il Ministero della pubblica istruzione e il Ministero dell’università e della ricerca;
§ il Ministero delle infrastrutture e il Ministero dei trasporti;
§ il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, il Ministero della salute e il Ministero della solidarietà sociale;
§ il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero del commercio internazionale ed il Ministero delle comunicazioni.
Non sembra possibile, in quest’ultimo caso, il ripristino della precedente denominazione del ministero risultante (Ministero delle attività produttive), poiché il comma 377 in commento (come si è innanzi accennato) mantiene espressamente in vigore l’art. 1, co. 12, del D.L. 181/2006, che ha introdotto la nuova denominazione di “Ministero dello sviluppo economico”.
Va comunque ricordato che le disposizioni di cui ai commi 376 e 377 (in specie, la riduzione del numero dei ministeri e l’abrogazione delle disposizioni incompatibili) appaiono immediatamente efficaci, fermo restando il termine iniziale consistente nell’atto di formazione del nuovo governo (decreto presidenziale di nomina), indipendentemente dall’eventuale adozione di ulteriori disposizioni.
Si ricorda in proposito che pende tuttora il termine per l’esercizio della delega legislativa per il coordinamento delle disposizioni in materia di funzioni e organizzazione della Presidenza del Consiglio e dei ministeri, introdotta dall’art. 1 della L. 223/2006 (di conversione del D.L. 181/2006). Il termine scadrà il 18 luglio 2008.
In conseguenza dell’intervento previsto dai commi in esame, è da ritenere si renda altresì necessario un ulteriore riassetto dell’organizzazione interna dei ministeri coinvolti dal riordino (e, forse, della Presidenza del Consiglio), dopo quello già intervenuto in applicazione dell’art. 1, co. 404 ss., della legge finanziaria 2007 (sul quale si veda la scheda Il processo di riorganizzazione interna, pag. 315). Nel silenzio del testo, sembra anche in questo caso applicabile lo strumento regolamentare previsto in via generale dall’art. 17, co. 4-bis, della L. 400/1988.
Risulterà presumibilmente necessaria, infine, l’adozione di disposizioni volte a regolare la ricognizione delle strutture amministrative trasferite in esito alla ridefinizione del numero e delle attribuzioni dei ministeri, e il conseguente trasferimento delle risorse strumentali e finanziarie e del personale.
Efficienza della pubblica amministrazione
Il 2 giugno 2006 è entrato in vigore il regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi, approvato con D.P.R. 12 aprile 2006, n. 184.
Il regolamento, previsto dall’art. 23, co. 2, della L. 15/2005, disciplina le modalità di esercizio del diritto di accesso in conformità alla L. 241/1990[396] (recante norme generali in materia di azione amministrativa) nel testo modificato dalla citata L. 15/2005. Esso sostituisce la disciplina in materia già recata dal D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352.
Ai sensi dell’art. 14, co. 1, del regolamento medesimo, le amministrazioni interessate hanno un anno di tempo per adottare i provvedimenti generali organizzatori necessari al corretto esercizio di tale diritto.
Tra le disposizioni introdotte dal provvedimento si segnalano:
§ la disciplina della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, istituita presso la Presidenza del Consiglio dall’art. 27 della L. 241/1990 e competente a vigilare sul principio di piena conoscibilità dell'attività della pubblica amministrazione nel rispetto dei limiti stabiliti dalla legge, nonché a pronunciarsi sui ricorsi avverso il diniego dell’accesso opposto da parte di amministrazioni statali (art. 25, L. 241/2005);
§ l’applicazione delle disposizioni sulle modalità del diritto di accesso anche ai soggetti portatori di interessi diffusi o collettivi;
§ la possibilità di consultazione per via telematica;
§ la possibilità di esercizio del diritto in via informale, mediante richiesta anche verbale, ed anche per il tramite degli Uffici relazioni con il pubblico.
Successivamente, l’art. 1, co. 1346, della legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006) ha previsto l’emanazione di un regolamento di delegificazione con il quale provvedere al riordino della Commissione per l’accesso, al fine di assicurare un contenimento dei costi non inferiore al 20% delle spese sostenute nell’esercizio 2006, e una razionalizzazione delle funzioni svolte dalla Commissione, anche mediante soppressione di quelle che possono essere svolte da altri organi.
In attuazione di quanto disposto dal comma citato è stato emanato il D.P.R. 2 agosto 2007, n. 157, che ha abrogato alcune disposizioni della L. 241/1990 e ridefinito la disciplina dei compensi spettanti ai componenti della Commissione ed agli esperti operanti presso l’organo.
La prima Relazione della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi sulla trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione, relativa all’anno 2006, è stata trasmessa alle Camere, ai sensi dell’art. 27, co. 5, della L. 241/1990, il 3 aprile 2007 (doc. LXXVIII, n. 1).
Un’ulteriore novella alla L. 241/1990 ha avuto luogo ad opera dell’art. 13, co. 8-duodevicies, del D.L. 7/2007[397], mediante l’aggiunta di un nuovo comma (1-bis) all’art. 21-quinquies della legge, che disciplina in via generale l’istituto della revoca del provvedimento amministrativo e i suoi effetti.
La disposizione prevede la possibilità di revocare un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole, da parte dell’organo che lo ha emanato o di altro organo previsto dalla legge, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, mutamento della situazione di fatto o nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti: ha pertanto efficacia ex nunc. Qualora da essa derivi pregiudizio in danno dei soggetti direttamente interessati, la pubblica amministrazione ha l’obbligo di provvedere a un indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il nuovo comma 1-bis fissa i criteri per la determinazione dell’indennizzo nell’ipotesi in cui la revoca dell’atto amministrativo incida su preesistenti rapporti negoziali con privati. In tale ipotesi, l’indennizzo:
§ è parametrato al solo danno emergente (e non al “lucro cessante”);
§ tiene conto dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà all’interesse pubblico dell’atto amministrativo;
§ tiene conto altresì dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.
Interventi assai più ampi sulla disciplina generale dell’azione amministrativa erano previsti da un disegno di legge governativo finalizzato alla modernizzazione e all’efficienza delle amministrazioni pubbliche, che non ha peraltro concluso il suo iter parlamentare.
Il 24 gennaio 2007 il Governo, su iniziativa del ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, presentava alla Camera un disegno di legge in materia di Modernizzazione, efficienza delle Amministrazioni pubbliche e riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese (A.C. 2161).
Il disegno di legge reca misure di varia natura, finalizzate nel complesso:
§ alla riorganizzazione dell'azione amministrativa e alla riduzione e alla certezza dei tempi dei procedimenti e delle relative forme di tutela;
§ alla riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per l'insieme degli operatori economici.
A queste due finalità sono dedicati i due capi nei quali sono raccolti i 18 articoli dell’originario testo governativo.
Intendimento del Governo – precisa la relazione illustrativa – è quello di “creare un ambiente di infrastrutture burocratiche più favorevole allo svolgimento delle attività economiche e, al tempo stesso, […] garantire ai cittadini la qualità dei servizi resi, sia dalla pubblica amministrazione, sia dai soggetti che ad essa si sono sostituiti in settori di rilevante importanza per la vita quotidiana, come i gestori di servizi pubblici”.
L’esame in sede referente presso la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera, è iniziato nella seduta dell’8 marzo 2007, e si è svolto, congiuntamente con quello di alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare[398], nel corso di dieci sedute. Nella seduta del 3 aprile la Commissione adottava il disegno di legge del Governo come testo base; nella seduta del 14 giugno la Commissione ha deliberato di conferire il mandato al relatore a riferire in senso favorevole all'Assemblea sul testo modificato dagli emendamenti approvati.
L’esame in Assemblea ha inizio il 18 giugno 2007 con la discussione sulle linee generali. Ripreso dopo la pausa estiva, il 10 ottobre, con l’esame degli articoli, si concludeva il 24 ottobre con l’approvazione di un testo ulteriormente modificato e integrato.
La 1ª Commissione del Senato, alla quale il testo era stato assegnato in sede referente, dedicava al provvedimento (A.S. 1859) alcune sedute tra il dicembre 2007 e il gennaio 2008; la fine della legislatura non ha consentito l’ulteriore prosecuzione dell’iter.
Varie disposizioni, tra quelle contenute nel capo I, mirano ad un ulteriore intervento di revisione della citata L. 241/1990 (più volte in precedenza modificata), disciplinante l’azione amministrativa, in particolare in tema di conclusione del procedimento e di responsabilità della pubblica amministrazione. Sono altresì oggetto di intervento le disposizioni di tutela dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, in materia di silenzio assenso e di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica; nonché quelle relative alla dichiarazione d'inizio attività e al diritto d'accesso ai documenti amministrativi.
In particolare, l’articolo 1:
§ inserisce espressamente il principio di imparzialità tra i princìpi elencati nella L. 241/1990 sull’azione amministrativa;
§ sostituisce interamente l’art. 2 della L. 241/1990, che disciplina la conclusione del procedimento amministrativo, ridefinendo le modalità di determinazione dei termini per l’adozione dei provvedimenti e abbreviando la durata massima di tali termini; il termine ordinario è fissato in trenta giorni, salvi i diversi termini fissati da leggi o da appositi regolamenti (questi ultimi non potranno comunque prevedere termini superiori a 180 giorni);
§ inserisce un nuovo art. 2-bis che disciplina le conseguenze del ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento, ponendo a carico delle amministrazioni pubbliche l’obbligo di risarcire il danno ingiusto causato dall’inosservanza dei termini procedimentali e disponendo comunque, in caso di ritardo, la corresponsione di una somma di denaro a beneficio dell’istante (le controversie relative all’applicazione dell’articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo);
§ estende la disciplina di cui ai testé illustrati artt. 2 e 2-bis, nonché all’art. 3 della L. 241/1990 (sull’obbligo di motivazione dei provvedimenti) anche ai soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative;
§ attribuisce alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (di cui all’art. 10-bis della L. 241/1990) efficacia sospensiva (non interruttiva) dei termini per la conclusione del procedimento;
§ modifica la disciplina generale relativa all’acquisizione di pareri e valutazioni tecniche nell’ambito dell’istruttoria del procedimento amministrativo, contenuta negli artt. 16 e 17 della L. 241/1990, prevedendo in particolare che l’amministrazione richiedente debba procedere anche in assenza dei pareri facoltativi e delle valutazioni tecniche richieste quando siano decorsi infruttuosamente i termini per la loro emissione;
§ modifica in termini estensivi la disciplina della dichiarazione di inizio attività e quella del silenzio-assenso, di cui rispettivamente agli artt. 19 e 20 della L. 241/1990;
§ interviene sulla alla disciplina generale del diritto di accesso ai documenti amministrativi (recata dall'art. 25 della L. 241/1990), tra l’altro ribaltando il valore assegnato dalla normativa vigente all’inerzia dell’amministrazione di fronte a una richiesta di accesso: decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa infatti si intenderebbe accolta (e non più respinta).
Il successivo articolo 8 ridefinisce l'ambito di applicazione della L. 241/1990, quale disciplinato dall'art. 29 di questa, individuando le disposizioni applicabili anche
§ alle società a totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio di funzioni amministrative;
§ ai gestori pubblici o privati dei servizi di pubblica utilità;
§ alle amministrazioni regionali (partecipazione al procedimento, responsabile del procedimento, conclusione del procedimento, accesso, dichiarazione di inizio attività, silenzio assenso) in virtù dell’art. 117, co. 2°, lett. m), della Costituzione, in quanto volte a determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Gli articoli 2, 3 e 7 modificano il codice dell’amministrazione digitale[399]:
§ estendendone l’applicazione ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative;
§ facendo obbligo alle pubbliche amministrazioni di rendere disponibili gli elenchi della documentazione richiesta a corredo di ciascuna istanza, nonché (anche nei siti istituzionali) i casi in cui operano il silenzio-assenso e la dichiarazione di inizio di attività, e di predisporre i relativi moduli e formulari, e vietando ad esse (salvo eccezioni motivate) di richiedere ulteriori informazioni o documenti oltre a quelli così indicati.
L’articolo 4 mira a ridurre i tempi del procedimento di adozione del Programma statistico nazionale; l’articolo 5 reca disposizioni finalizzate all’attuazione dei sistemi di gestione del protocollo informatico da parte delle pubbliche amministrazioni. Il successivo articolo 11 reca misure per la digitalizzazione degli atti e dei documenti nei processi amministrativo, contabile e tributario, conferisce deleghe al Governo per adeguare al processo telematico la normativa in tema di comunicazioni e notificazioni e le modalità di conferimento della procura alle liti, e reca ulteriori misure in materia di notificazioni.
L’articolo 6 dà facoltà alle pubbliche amministrazioni, anche regionali e locali, di avviare, anche in deroga a disposizioni vigenti e sotto il controllo della Presidenza del Consiglio, programmi biennali di sperimentazione finalizzati alla riprogettazione e alla riorganizzazione dei processi di servizio.
L’articolo 9 prevede la non corresponsione del trattamento economico accessorio dei dirigenti pubblici in casi di inosservanze delle disposizioni della L. 241/1990 nel corso di procedimenti amministrativi.
L’articolo 10 reca disposizioni di varia natura, principalmente in materia di tutela amministrativa; tra queste si segnalano le modifiche alla disciplina del D.P.R. 1199/1971 in materia di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, volte a snellire il procedimento e ad avvicinarlo ai principi di tutela giurisdizionale attinenti alla garanzia del contraddittorio.
L’articolo 12, introdotto nel corso dell’esame alla Camera, reca “Disposizioni in materia di valutazione delle amministrazioni pubbliche”. Novellando la L. 936/1986[400], attuativa dell’articolo 99 della Costituzione che istituisce il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, vi introduce un nuovo articolo 16-bis, istitutivo di una Commissione indipendente per la valutazione dei risultati e della qualità dell’azione delle amministrazioni pubbliche.
Benché incardinata nel CNEL, la Commissione costituisce una struttura dotata di autonomia, e presenta caratteristiche analoghe a quelle delle Autorità indipendenti.
Il nuovo organismo si compone di cinque membri, nominati con D.P.R. per cinque anni, individuati tra persone di notoria indipendenza esperte in materia di qualità e organizzazione delle amministrazioni pubbliche o del settore privato, nonché di riconosciuta professionalità nelle discipline giuridico-economiche e gestionali. Dei cinque componenti uno, con funzioni di Presidente, è designato dai Presidenti delle due Camere, d’intesa fra loro, entro due elenchi di tre nomi designati, a maggioranza di due terzi, da ciascuna delle Commissioni competenti delle due Camere; uno, dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome; uno dalla delegazione degli enti locali nella Conferenza Stato-città ed autonomie locali; uno dal CNEL a maggioranza dei suoi componenti; uno dal Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti[401].
La Commissione svolge compiti di monitoraggio, valutazione e verifica della qualità dei servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni, prestando anche il proprio apporto all’omogeneizzazione dei sistemi di controllo interno delle diverse amministrazioni, in particolare attraverso l’individuazione dei requisiti dei componenti dei servizi di controllo e valutazione e l’elaborazione di linee guida e modelli per la valutazione del personale e dell’efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa. Svolge altresì attività di ricerca e di analisi. Può condurre, anche su segnalazione di soggetti pubblici e privati, indagini su casi di scarsa efficacia ed efficienza amministrativa, formulando segnalazioni e raccomandazioni alle amministrazioni interessate.
La Commissione può avvalersi delle attività degli organismi pubblici competenti nel settore (ISTAT, Ragioneria generale dello Stato, ARAN etc.), nonché dei risultati delle attività di valutazione effettuate da altri organismi pubblici (INVALSI; ANVUR, etc.). I risultati dell’attività di monitoraggio sono pubblici ed è previsto che la Commissione presenti annualmente una relazione al Parlamento, al Presidente del Consiglio e al CNEL.
Lo stesso articolo 12 reca una delega al Governo per il riordino del sistema dei controlli interni delle pubbliche amministrazioni, così come delineato dal D.Lgs. 286/1999, e modifica la disciplina dell’Ispettorato per la funzione pubblica, contenuta nell’art. 60 del D.Lgs. 165/2001[402], escludendo la diretta dipendenza dell’Ispettorato dal Ministro per la funzione pubblica e inserendo tra i compiti dell’organismo la vigilanza sul raggiungimento degli obiettivi strategici stabiliti negli atti di indirizzo e sull’attuazione dei processi di miglioramento della qualità dell’azione amministrativa.
Al fine di rendere più efficace l’attività della Commissione per la valutazione, il successivo articolo 22 pone a carico di tutte le amministrazioni pubbliche l’obbligo di promuovere conferenze annuali sul tema della valutazione del pubblico impiego, coordinandosi a tal fine con la Commissione. I dati e gli interventi delle conferenze sono resi disponibili sul sito internet della Commissione.
Gli articoli 13 e seguenti, compresi nel capo II del disegno di legge, recano misure di semplificazione riferite a specifici settori.
Si tratta in particolare dei seguenti:
§ l’edilizia privata (articolo 13, co. 1), con particolare riguardo al certificato di agibilità;
§ il sistema dei controlli amministrativi in materia ambientale (articolo 13, co. 2-6);
§ i libri fondiari (articolo 13, co. 7);
§ gli accertamenti medici per il conseguimento della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori (articolo 14);
§ l’applicazione del testo unico in materia di documentazione amministrativa (di cui al D.P.R. 445/2000) ai gestori di servizi bancari o assicurativi (articolo 15);
§ i procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell'atto costitutivo e dello statuto (articolo 16);
§ la validità della carta d’identità (portata a 10 anni) e la semplificazione e il riassetto delle disposizioni in materia anagrafica, rimessi a una delega legislativa (articolo 17);
§ il procedimento per le adozioni internazionali (articolo 18);
§ la disciplina delle sanzioni amministrative pecuniarie per gli operatori del settore del trasporto aereo (gestori aeroportuali, operatori aerei, manutentori aeronautici, prestatori di servizi), oggetto di una specifica delega al Governo (articolo 19);
§ i i contrassegni per la circolazione e la sosta dei veicoli di persone invalide (articolo 20);
§ la gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (articolo 21);
Efficienza della pubblica amministrazione
Nel corso dell’intero arco della XV legislatura si sono succeduti interventi ed iniziative di carattere normativo volti alla razionalizzazione e al contenimento delle spese per il funzionamento delle istituzioni pubbliche, e in special modo degli organi di rappresentanza, al potenziamento del sistema dei controlli, in particolare di quelli aventi ad oggetto l’attività degli enti territoriali e delle società a partecipazione pubblica (per specifici aspetti su questi temi v. in particolare le schede Interventi di razionalizzazione della spesa, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio, Trattamento economico dei parlamentari, pag. 62,Ordinamento degli enti locali - Interventi sui costi della politica negli enti locali, pag. 91.
Gli interventi e le iniziative adottati si sono peraltro inseriti all’interno di un più ampio dibattito, che nel corso della legislatura ha avuto particolare rilievo e ampiezza nell’opinione pubblica, relativo all’esigenza di individuare misure a carattere sistematico volte al contenimento di quelli che sono stati definiti, con espressione giornalistica, “costi della politica”[403].
Tale espressione non ha tuttavia un contenuto univoco, come dimostrato anche dall’eterogeneità dei contenuti delle proposte di legge e delle ricostruzioni operate in materia[404], costituendo piuttosto una formula riassuntiva con la quale si fa in sostanza riferimento ad una pluralità di questioni nelle quali si individuano forme di utilizzo non efficiente delle risorse pubbliche.
Nell’ambito del dibattito sui “costi della politica” si è quindi, in primo luogo, fatto riferimento al complesso delle spese riferibili, nei diversi livelli territoriali, al funzionamento delle istituzioni rappresentative nonché agli organi di direzione politica ed al personale che operi alle loro dirette dipendenze in funzioni di diretta collaborazione. In questo contesto, particolare rilievo ha assunto il dibattito circa la misura delle indennità, dei rimborsi e delle prestazioni di altro genere riconosciute ai componenti delle assemblee elettivi in ragione della carica e delle funzioni da questi ricoperte.
In un’altra accezione, l’espressione “costi della politica” è invece utilizzata per richiamare nel loro complesso le forme di finanziamento pubblico della politica, con particolare riferimento alla disciplina dei rimborsi delle spese elettorali sostenutedai partiti e movimenti politici e, più in generale, alle altre forme di finanziamento e di agevolazione delle quali beneficiano direttamente o indirettamente le forze politiche (contributi ai giornali e alle imprese radiofoniche di partito…).
Da ultimo, il dibattito sull’esigenza di contenimento dei “costi della politica” si è esteso, più in generale, all’individuazione di misure volte a perseguire un utilizzo efficiente delle risorse pubbliche da parte delle pubbliche amministrazioni, ai diversi livelli territoriali, nonché agli interventi di razionalizzazione delle spese sostenute da enti, agenzie e società costituiti o partecipati dalle pubbliche amministrazioni o dagli enti territoriali. La tematica dei “costi della politica”, intesi in questa ultima accezione, si intreccia peraltro con numerose altre problematiche oggetto di interventi e proposte nel corso della legislatura, riferibili, da un lato, alla disciplina dell’attività amministrativa e degli apparati burocratici pubblici e al rafforzamento del sistema dei controlli (v. scheda Responsabilità e controlli, pag. 346) e, dall’altro, all’eliminazione di sovrapposizioni tra gli ambiti di competenza dello Stato e degli enti territoriali e, più in generale, all’attuazione del federalismo fiscale (v. scheda Il federalismo fiscale, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio).
In questo quadro, nella seduta del 17 maggio 2007 la Commissione Affari Costituzionali della Camera avviava l’esame di quattro proposte di legge di iniziativa parlamentare in materia.
Due delle proposte (in particolare, l’A.C. 2104, presentato dagli onn. Caruso e Acerbo e l’A.C. 2179, presentato dagli onn. Donadi ed altri) disponevano esclusivamente in ordine alla misura dell’indennità spettante ai membri del Parlamento, mentre le altre due (l’A.C. 1942, presentato dall’on. Spini,e l’A.C. 2250, presentato dagli onn. D'Elia ed altri) recavano diverse misure riferite al contenimento dei costi delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, intervenendo in ambiti disciplinari che in molte circostanze sono stati successivamente oggetto di modifiche normative (le proposte recavano, in particolare, norme in materia di società partecipate, di responsabilità amministrativa e contabile, nonché misure volte al contenimento delle spese per gli enti locali e alla soppressione e razionalizzazione di enti ed organismi pubblici).
Nell'ambito dell'esame in sede referente di queste proposte, la I Commissione ha deliberato lo svolgimento di una indagine conoscitiva finalizzata “ad acquisire elementi istruttori necessari alla elaborazione di un testo unificato volto a contenere, razionalizzare e rendere trasparente la spesa nel settore e al tempo stesso a tutelare la fondamentale esigenza del migliore e più efficiente funzionamento delle istituzioni democratiche”[405].
Più in particolare, l’intento dell’indagine era quello di individuare principi di trasparenza e criteri condivisi dall'insieme delle istituzioni rappresentative dei diversi livelli territoriali che costituiscono la Repubblica, da trasfondere in una legge quadro che avesse come contenuto essenziale regole e procedure di coordinamento, nel rispetto delle sfere di autonomia riconosciute agli enti territoriali. I principi e criteri avrebbero dovuto in special modo riguardare la migliore regolazione e la massima trasparenza dei costi connessi all'esercizio delle funzioni istituzionali degli organi rappresentativi ed esecutivi e di taluni organismi amministrativi di particolare rilevanza, ivi compresi i vertici dei ministeri e delle società a partecipazione pubblica.
L’esigenza di salvaguardare gli ambiti di autonomia spettanti agli enti territoriali, oltre a quelli propri degli organi costituzionali, comporta sul piano della metodologia dell’indagine la necessità che all’individuazione dei contenuti del provvedimento da adottare si giunga a seguito di una fase di dialogo e di consultazione di tutte le istituzioni interessate.
Quanto al programma dell'indagine conoscitiva, si prevedeva una prima fase di impostazione della raccolta delle informazioni con l'audizione dei ministri competenti nelle materie oggetto dell’indagine, di rappresentanti degli organismi esponenziali degli enti territoriali[406], nonché della Corte dei Conti, del CNEL e dell'ISTAT.
Una volta conclusa questa fase e sulla base delle sue risultanze, che avrebbero dovuto riguardare anche aspetti di comparazione internazionale, si prevedeva lo svolgimento di alcune “grandi audizioni collettive” nelle quali, in diverse tornate, avrebbero potuto essere auditi rappresentanti degli organismi interessati, giuristi, economisti, sociologi, addetti al sistema della comunicazione ed altri esperti della materia.
In questo quadro, l'Ufficio di presidenza della I Commissione, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha in via preliminare incontrato il 30 maggio 2007 in una sede informale il Ministro per l'attuazione del programma di Governo, nonché rappresentanti istituzionali delle regioni e delle autonomie locali al fine di avviare un confronto sui temi di maggior rilievo oggetto dell'indagine conoscitiva[407].
Successivamente, nella prima audizione nell’ambito dell’indagine conoscitiva, il Ministro per l’attuazione del programma di Governo, Giulio Santagata, nel richiamare i provvedimenti fino ad allora adottati in materia dal Governo, manifestava l’intenzione dell’Esecutivo di muoversi lungo due direttrici di lavoro parallele, provvedendo, da un lato, alla stesura di un “libro bianco” che costituisse una base informativa completa e condivisa relativa ai diversi territoriali e, dall’altro, predisponendo un disegno di legge che affrontasse in modo complessivo il tema dei “costi della politica” nei suoi aspetti istituzionali ed amministrativi.
Più in particolare, si indicavano tre direttrici di intervento, riferite specificamente a:
§ contenimento dei costi e riorganizzazione della rappresentanza, con particolare riferimento agli enti territoriali;
§ razionalizzazione della pubblica amministrazione, in particolare, a livello centrale, anche al fine di eliminare diseconomie e sovrapposizioni di competenze;
§ rafforzamento della trasparenza delle pubbliche amministrazioni e della responsabilità degli amministratori.
Alla seconda seduta dell’indagine, che si è tenuta l’11 luglio 2007, sono stati invitati a partecipare i questori della Camera e sono quindi stati affrontati i temi connessi alle spese per il funzionamento della Camera e, più in generale, della rappresentanza parlamentare.
Nell’intervento svolto dal deputato questore, on. Albonetti, e nella relazione elaborata in materia dal Collegio dei questori e depositata agli atti dell’indagine[408] è stato fornito un ampio quadro di informazioni e di elementi di valutazione, anche a carattere comparato, inerenti alle spese per il funzionamento della Camera, la loro dinamica nel tempo e gli interventi di contenimento adottati nelle ultime legislature (per ulteriori approfondimenti v. anche il capitolo Parlamento e sistema dei partiti, nel dossier 1/1, Parte seconda.
Successivamente alla proroga al 30 aprile 2008 del termine per la conclusione dell'indagine, nella terza seduta dell’indagine conoscitiva ha avuto, infine, luogo l’audizione del Presidente della Corte dei conti, che si è concentrata sugli aspetti relativi all’efficienza della spesa pubblica ai diversi livelli istituzionali, tratteggiando – attraverso il richiamo di alcune delle analisi svolte nel tempo dalla Corte nei diversi ambiti istituzionali – un articolato quadro dei principali profili problematici emersi negli ultimi anni con riferimento alla spesa delle amministrazioni centrali e di quelle territoriali.
In estrema sintesi, il presidente della Corte dei conti ha evidenziato come a fronte dei processi istituzionali ed economici realizzatisi negli ultimi anni nel nostro Paese non si siano realizzati coerenti meccanismi di governo della spesa pubblica, ponendo le basi per una sua evoluzione sempre meno sostenibile. Per il Presidente della Corte, in sostanza, “il costo della politica […] sta quindi nel mancato riadeguamento delle strutture alle nuove esigenze, nel ritardo con cui si sono aggredite le cause strutturali degli squilibri, nelle scelte di governance, che, specie nelle realtà territoriali, sono state spesso condizionate da esigenze occupazionali e di spesa di breve periodo più che da necessità effettive, nelle scelte di gestione del debito, volte, troppo di frequente, a massimizzare il beneficio economico di breve periodo e scaricare sulle gestioni future oneri crescenti”[409].
Come si è ricordato, nella sua audizione nell’ambito dell’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, il Ministro per l’attuazione del programma di Governo aveva annunciato l’intenzione dell’esecutivo di affrontare la questione dei “costi della politica” non solo attraverso provvedimenti puntuali, riferiti a specifici aspetti della questione, ma anche con un provvedimento di carattere sistematico, da presentare alle Camere entro il mese di giugno 2007.
L’iniziativa normativa si inseriva peraltro nel quadro di un più ampio disegno di iniziative intraprese, ai diversi livelli territoriali, in ordine alla razionalizzazione delle spese sostenute, da realizzarsi anche attraverso l’eliminazione di possibili sovrapposizioni o duplicazioni di attività tra pubbliche amministrazioni centrali, Regioni ed enti locali e l’adozione di opportune procedure di coordinamento interistituzionale.
Già sul finire di maggio, infatti, in distinte riunioni le associazioni rappresentative delle Regioni[410], dei Consigli regionali[411] e degli enti locali[412] avevano assunto l’impegno di avviare un lavoro comune da parte di tutte le istituzioni presenti sul territorio nazionale per una razionalizzazione delle spese destinate al rispettivo funzionamento e alla pubblica amministrazione.
In questo quadro, dopo che una sessione straordinaria della Conferenza Unificata era stata dedicata all’esame delle iniziative da intraprendere in ordine al contenimento dei costi della politica[413], il 12 luglio 2007 rappresentanti del Governo[414] e delle autonomie territoriali[415] sottoscrivevano un Patto per il contenimento dei costi delle Istituzioni, nel quale i soggetti stipulanti si impegnavano ad intraprendere, secondo le rispettive competenze costituzionali, azioni di carattere normativo o amministrativo volte a rendere più efficace ed efficiente il funzionamento delle istituzioni e della pubblica amministrazione, ai fini del contenimento dei relativi costi.
Alcuni degli interventi indicati nel Patto avevano un carattere trasversale ed erano pertanto applicabili a tutti i livelli di governo (eliminazione delle duplicazioni di funzioni e soppressione degli enti che svolgono funzioni che possono essere esercitate da altri livelli istituzionali; misure volte ad incentivare la trasparenza nelle pubbliche amministrazioni e nelle società pubbliche; riordino e soppressione di enti pubblici e società controllate; immediata attivazione presso la Conferenza unificata di una Cabina di regia con il compito di monitorare le iniziative dei diversi livelli di governo), mentre altre misure erano specificamente indirizzate ai diversi livelli territoriali e si riferivano, in particolare, al contenimento delle spese della rappresentanza politica.
Anche in attuazione degli impegni contenuti nel Patto, il Consiglio dei ministri nella riunione del 13 luglio 2007, approvava in via preliminare uno schema di disegno di legge sul contenimento dei costi della politica e degli apparati amministrativi, trasmettendolo alla Conferenza unificata ai fini dell’acquisizione del suo parere.
Lo schema di disegno di legge, il cui testo è stato reso disponibile in rete, recava disposizioni in materia di:
§ razionalizzazione di enti ed organismi pubblici nonché delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni;
§ razionalizzazione delle spese delle pubbliche amministrazioni (con riferimento, in particolare, alla disciplina degli acquisti; alle spese per dotazioni strumentali, per telefonia mobile, per autovetture di servizio, per beni immobili e alle spese telefoniche; all’utilizzo della posta elettronica; alla limitazione del ricorso a contratti a tempo determinato);
§ riduzione dei costi degli enti locali (con interventi riferiti in particolare alla riduzione dei consigli circoscrizionali; all’esercizio associato di funzioni comunali; al numero dei consiglieri e dei componenti delle giunte degli enti locali ed alle indennità ad essi spettanti);
§ trasparenza e all’accountability delle pubbliche amministrazioni.
Il disegno di legge non è successivamente stato presentato alle Camere, ma i suoi contenuti sono in parte stati ripresi da specifiche disposizioni inserite nell’ambito del disegno di legge finanziaria 2008 e in parte sono confluiti – in forma più ampia e articolata - in un autonomo disegno di legge.
In questo quadro deve quindi leggersi l’affermazione, contenuta nella Nota di aggiornamento al Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2008-2011 (Doc. LVII, n. 2-bis), con la quale il Governo dichiarava di considerare collegato alla decisione di bilancio, in conformità alle risoluzioni parlamentari, anche un disegno di legge, in corso di preparazione, che interveniva sulla materia dei costi della politica e sulla razionalizzazione della Pubblica Amministrazione, per la parte non inclusa nel disegno di legge finanziaria.
Con riferimento alle disposizioni contenute nella legge finanziaria 2008 (L. 244/2007), facendo rinvio per i molteplici aspetti degli interventi alle specifiche schede di approfondimento (v. in particolare le schede Interventi di razionalizzazione della spesa e Il sistema degli acquisti della P.A. nel dossier relativo alla Commissione Bilancio,Trattamento economico dei parlamentari, pag. 62, Ordinamento degli enti locali - Interventi sui costi della politica, pag. 91), in questa sede si segnalano – per il loro carattere sistematico ed interistituzionale – i commi 33 e 34 dell’articolo 2, che contengono una disposizione di indirizzo diretta alla razionalizzazione dell’organizzazione amministrativa degli enti territoriali, e, più in particolare, alla soppressione o accorpamento di enti, agenzie, organismi che svolgano le medesime funzioni – o parte di esse – esercitate dagli enti territoriali.
Il comma 33 è indirizzato alle regioni che, in coordinamento con lo Stato, dovrebbero provvedere alla revisione dell’allocazione delle funzioni al fine, come detto, di eliminarne le duplicazioni, mentre il comma 34 è diretto agli enti locali, per quanto concerne enti ed organismi da essi istituiti. La norma di indirizzo, che richiama il principio di coordinamento della finanza pubblica e l’attuazione dell’articolo 118 della Costituzione[416], non è accompagnata da disposizioni sulla rilevazione di adempimenti specifici o comunque sul monitoraggio del comportamento delle regioni e degli enti locali a riguardo. Sono altresì assenti disposizioni su conseguenti sanzioni in caso di non osservanza.
In modo speculare, l’articolo 2, comma 634, lettera c) della medesima legge finanziaria 2008 dispone – nell’ambito di un più generale procedimento di soppressione o razionalizzazione degli enti pubblici statali (per il quale v. il capitolo Efficienza della Pubblica amministrazione, nel dossier 1/1, Parte seconda) - che lo Stato provveda sopprimere od accorpare enti, agenzie, organismi che svolgano le medesime funzioni, in tutto o in parte, esercitate da regioni ed enti locali su conferimento o delega dello Stato.
Disposizioni analoghe erano peraltro contenute già nella legge finanziaria 2007 (L. 296/2006)[417].
I commi 721-723 dell’art. 1 recavano, infatti, una disposizione di principio finalizzata al contenimento della spesa pubblica regionale riferita, in particolare, ai costi degli organismi politici e degli apparati amministrativi.
La norma fissava un termine di sei mesi entro affinché le regioni provvedessero ad adottare disposizioni, normative o amministrative, allo scopo di:
§ ridurre la spesa per gli organi rappresentativi attraverso la riduzione del numero dei loro componenti e la diminuzione dei compensi e delle indennità loro spettanti;
§ sopprimere gli enti inutili;
§ procedere alla fusione delle società partecipate;
§ ridimensionare le strutture organizzative.
Il comma 722 specificava che le norme dettate dal comma 721 costituiscono principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, e pertanto si applicano nei confronti di tutte le regioni, comprese quelle ad autonomia speciale, ai sensi degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost.
Il comma 723 collega alla disposizione un obiettivo di risparmio quantificato in un miglioramento dei saldi finanziari dei bilanci regionali del 10% rispetto ai saldi dell'anno precedente.
Anche in questo caso, peraltro, le disposizioni non prevedevano espressamente controlli o verifiche successive in ordine al rispetto dell’obiettivo del risparmio del 10%.
Il disegno di legge sui “costi della politica” è stato presentato alla Camera dei deputati il 15 novembre 2007 (A.C. 3254, Misure per la promozione della trasparenza), ma l’esame nel merito non è stato avviato prima dello scioglimento delle Camere.
Quanto alle specifiche misure recate dal provvedimento, che si compone di 6 articoli, esse mirano in particolare ad introdurre maggiori oneri di trasparenza per le amministrazioni pubbliche e le società da esse partecipate, intervenendo altresì in altre settori prevalentemente riconducibili al dibattito in materia di “costi della politica” (in particolare, sulla disciplina delle incompatibilità con le cariche elettive e di governo a livello europeo, nazionale, regionale e locale e sulla materia del finanziamento ai partiti e movimenti politici ed ai loro esponenti).
Più in particolare, l'articolo 1 introduce limiti al cumulo degli incarichi. Per gli amministratori di enti locali, nonché per chi detenga cariche negli organi di direzione o controllo e per i direttori generali o centrali di associazioni o enti partecipati o finanziati dallo Stato, dagli enti locali o da altre amministrazioni pubbliche ovvero che gestiscono servizi per loro conto si prevede l’incompatibilità della carica con l’esercizio di attività professionali o di lavoro autonomo e con lo svolgimento di funzioni di gestione in società o in attività imprenditoriali in settori connessi con la carica ricoperta. Analogamente, si introduce per i parlamentari nazionali, i membri italiani del Parlamento europeo e gli amministratori di enti locali il divieto di svolgere funzioni o incarichi negli organi di direzione o controllo ovvero di assumere incarichi di consulenza in enti di diritto pubblico, anche economici, nonché in imprese o società partecipate da amministrazioni pubbliche o infine in enti sottoposti a vigilanza da parte delle medesime amministrazioni pubbliche. Per tali ultimi soggetti, l’incompatibilità si estenda anche all’anno successivo alla cessazione dalla carica pubblica. La disposizione costituisce altresì, ai sensi dell’art. 122 Cost., un principio fondamentale in materia di incompatibilità per i componenti delle giunte e dei consigli regionali e si applica anche nelle regioni a statuto speciale, compatibilmente con le forme di autonomia previste dai rispettivi statuti.
L'articolo 2 interviene sulla disciplina del reclutamento del personale delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni, prevedendo che le relative assunzioni siano effettuate attraverso meccanismi che assicurino la trasparenza delle procedure e l'appropriata selezione dei candidati. In particolare, si stabilisce che le procedure debbano garantire:
§ la puntuale individuazione dei fabbisogni di personale e dei profili di competenza;
§ la sollecitazione pubblica delle candidature;
§ la pubblicità sul sito internet della società delle procedure di selezione.
Le assunzioni dovranno inoltre essere effettuate nel rispetto del principio delle pari opportunità tra uomini e donne, nonché tra i cittadini dell'Unione europea.
L'articolo 3 introduce un principio generale di pubblicità dei bilanci delle amministrazioni pubbliche, disponendo che i bilanci preventivi e consuntivi debbano essere pubblicati sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione e trasmessi in via telematica al CNEL. Quanto ai contenuti, si richiede che nei documenti di bilancio siano evidenziate le spese per il funzionamento degli organi, quelle per il personale e quelle per i servizi.
L'articolo 4, novellando la disciplina contenuta nel codice dell'amministrazione digitale[418], estende l'obbligo di pubblicazione sui siti internet delle amministrazioni pubbliche anche ad una serie di informazioni di cui non è richiesta la pubblicità ai sensi dalla legislazione vigente (si tratta, in particolare delle informazioni su: negoziazioni svolte e sugli esiti delle procedure nell'ambito dei bandi di gara e di concorso; bilanci preventivi e consuntivi; bandi di concorso per le assunzioni e stato delle procedure di reclutamento; graduatorie e criteri di selezione per gli incarichi; criteri per l'assegnazione di benefici e contributi; trattamento economico degli organi di indirizzo politico-amministrativo, dei dirigenti, dei consulenti e dei membri delle commissioni e dei collegi). Tali obblighi vengono estesi anche alle regioni e agli enti locali, nei limiti delle ordinarie dotazioni umane, strumentali e finanziarie, nonché alle società controllate dalla pubblica amministrazione, ai gestori e agli incaricati di pubblici servizi. Per l'adeguamento alle nuove disposizioni è previsto un termine di sei mesi dall'entrata in vigore della legge.
L'articolo 5 estende i divieti di finanziamento dei partiti politici, dei gruppi parlamentari e dei singoli esponenti politici previsti dalla legislazione vigente[419] anche alle società concessionarie di servizi pubblici, nonché ai soggetti da queste controllati ovvero ai soggetti che controllano le medesime società concessionarie.
L'articolo 6 prevede che le autorità di vigilanza, di regolazione e di garanzia dei mercati (ISVAP, CONSOB, Commissione di garanzia del diritto di sciopero, Autorità garante della concorrenza e del mercato, Garante per la protezione dei dati personali, COVIP, Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture) provvedano, nei limiti delle ordinarie dotazioni di risorse umane, strumentali e finanziarie, a adeguare entro sei mesi il proprio ordinamento alle disposizioni in materia di trasparenza introdotte dagli articoli 3 e 4 del provvedimento.
Efficienza della pubblica amministrazione
Nel corso della XV legislatura disposizioni legislative e pronunce giurisprudenziali sono intervenute sulla materia della responsabilità erariale, precisando i contorni delle fattispecie di responsabilità previste nel nostro ordinamento e modificandone parzialmente la disciplina.
La responsabilità amministrativa tutela le pubbliche amministrazioni, anche ad ordinamento autonomo, nei confronti dei danni ad esse arrecati dal funzionario o dall’impiegato all’interno del rapporto d’ufficio, obbligando il responsabile a risarcire il danno causato della sua condotta. A tale riguardo l’art. 82, primo comma, della legge di contabilità dello Stato del 1923[420] prevede che “l’impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo”. Analogamente, ai sensi dell’art. 18 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato[421] “l’impiegato delle amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo, è tenuto a risarcire alle amministrazioni stesse i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio”, salvi i casi in cui abbia agito per un ordine che era obbligato ad eseguire. In tal caso, è tuttavia responsabile il superiore che ha impartito l’ordine.
La giurisdizione in materia è storicamente attribuita alla Corte dei conti[422], che nella sua giurisprudenza ha delineato i confini di tale forma di responsabilità, cui si attribuisce comunemente natura contrattuale[423].
Quanto
all’ambito soggettivo di
applicazione,
La giurisprudenza della Corte dei conti,
confortata dalla Corte di cassazione, ha ritenuto sottoposti alla propria
giurisdizione anche soggetti estranei alla pubblica amministrazione, ma
inseriti in modo stabile nel relativo apparato organizzativo, come per esempio
i direttori dei lavori.
Per quanto concerne i presupposti della responsabilità amministrativa, affinché un soggetto possa essere chiamato a rispondere in tale sede occorre che lo stesso, con una condotta dolosa o gravemente colposa[426] collegata o inerente al rapporto esistente con l’amministrazione, abbia causato un danno pubblico risarcibile che si ponga come conseguenza diretta e immediata di detta condotta. Ai sensi del co. 4 dell’art. 1 della L. 20/1994, sussiste responsabilità amministrativa anche nei casi in cui il danno sia cagionato ad enti o amministrazioni diversi da quella di appartenenza.
La responsabilità è personale e non si trasferisce agli eredi se non in casi eccezionali (dolo ed arricchimento illecito e conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi)[427].
Il danno pubblico risarcibile è un danno patrimoniale, nel senso che presuppone un pregiudizio economico inteso come perdita, distruzione, sottrazione di beni o valori della p.a., ovvero come mancato guadagno. Anche il pregiudizio di un bene immateriale (ad esempio l’immagine e il prestigio dell’amministrazione) è considerato un danno risarcibile in quanto, pur non comportando una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale[428]. Secondo le regole generali, per essere risarcibile il danno deve essere certo, attuale ed effettivo.
Sin dall’art. 20 della L. 1483/1853[429] si prevedeva il potere della Corte dei conti di ridurre il danno che i pubblici ufficiali stipendiati erano tenuti a risarcire (c.d. potere riduttivo). La legge di contabilità di Stato del 1923 stabiliva, in proposito, che la Corte dei conti “valutate le singole responsabilità può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto” (art. 83, primo comma). L’art. 1 della L. 20/1994 ha poi precisato che, fermo restando il potere di riduzione, nel quantificare il danno il giudice deve, comunque, tenere conto dei vantaggi conseguiti dalla collettività amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dipendenti sottoposti al giudizio di responsabilità (in altri termini, se dalla condotta illecita del funzionario è derivata anche un’utilità, di ciò bisogna tener conto per determinare l’ammontare del danno).
Un primo intervento sulla disciplina della responsabilità amministrativa, volto a ridefinire i termini di prescrizione della relativa azione, era stato realizzato dall’articolo 1, comma 1343, della legge finanziaria per il 2007[430], che novellava l’art. 1, co. 2, della L. 20/1994[431].
Tale disposizione, tuttavia, è stata immediatamente abrogata dal D.L. 299/2006[432], pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 300 del 28 dicembre 2006 ed entrato in vigore il giorno stesso della pubblicazione.
Al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge, ossia il 28 dicembre 2006, la legge finanziaria 2007 – pur approvata dal Parlamento, promulgata dal Capo dello Stato e pubblicata nella Gazzetta ufficiale[433] – non era ancora efficace in quanto sarebbe entrata in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2007.
Il decreto-legge ha dunque inteso determinare un immediato effetto abrogativo, facendo sì che la disposizione relativa all’anticipazione del termine finale di prescrizione, contenuta nel comma 1343, non acquistasse efficacia nell’ordinamento giuridico.
Secondo quanto affermato dalla relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge di conversione del decreto-legge, l'inserimento di tale norma nell'ambito della legge finanziaria 2007 era stato frutto di un mero errore redazionale, al quale non si era potuto rimediare con immediatezza stante la “necessità di evitare che una doverosa correzione incidesse sui tempi parlamentari di approvazione della manovra finanziaria”.
L’art. 1 della L. 20/1994, oggetto della modifica introdotta dal comma, disciplina l’azione di responsabilità nei confronti dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica.
Ai sensi del comma 2 il diritto al risarcimento del danno erariale si prescrive in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso (ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta).
La modifica introdotta dal comma 1343 in esame faceva sì che il periodo di cinque anni decorresse non più dalla data in cui si è verificato il fatto, ma da quella in cui è stata realizzata la condotta produttiva di danno. Essendo quest’ultima data, nella generalità dei casi, antecedente alla prima, ne sarebbe conseguita una corrispondente anticipazione del termine finale di prescrizione.
Una innovazione destinata ad incidere sull’ambito di applicabilità delle regole della responsabilità di carattere erariale è stata invece introdotta, sul finire della XV legislatura, nel corso dell’esame parlamentare del D.L. 248/2007[434] (c.d. “decreto milleproroghe”).
L’articolo 16-bis del decreto, inserito nel corso dell’esame presso la Camera dei deputati, prevede che – relativamente alle società quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici inferiore al 50 per cento, nonché per le società da queste controllate – la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti sia regolata dalle norme del diritto civile. Parimenti, l’esame delle relative controversie è rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario (con implicita esclusione della giurisdizione della magistratura contabile per le ipotesi di danno erariale).
In base all’ultimo periodo dell’articolo tale nuova disciplina non si applicherà ai giudizi in corso al 1° marzo 2008, data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 248/2007[435].
La disposizione disciplina l’attribuzione delle competenze tra magistratura ordinaria e contabile con riferimento ad una specifica fattispecie di responsabilità di amministratori di enti pubblici, intervenendo in un ambito materiale che negli ultimi anni è stato oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali, che hanno fatto segnare un evoluzione degli orientamenti precedentemente seguiti.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, intervenute a regolare il riparto delle competenze tra le diverse giurisdizioni, avevano, infatti, precisato che “per effetto dell'evoluzione normativa, a far data dalla L. 241 del 1990, e del conseguente mutamento dei moduli organizzativi ed operativi della p.a., deve ritenersi superata, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice contabile, la tradizionale distinzione tra enti pubblici economici e non economici. Ne consegue che, in tema di responsabilità contabile degli amministratori di enti pubblici economici la giurisdizione spetta alla Corte dei conti, quand'anche l'ente operi attraverso l'impiego di strumenti privatistici”[436].
Nella sua relazione scritta in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008, che non tiene conto della modifica normativa sopra descritta, il Procuratore generale della Corte dei conti evidenziava quindi come “Il discrimine s’impernia oggi su di un baricentro rispetto al quale sono divenute recessive ed indifferenti, sia la qualità o veste formale (pubblica o privata) del soggetto che ha provocato il danno, sia la natura (pubblicistica o privatistica) degli strumenti adoperati nelle condotte causatrici del danno erariale, mentre assume rilievo unicamente la circostanza che il nocumento sia stato causato nell’ambito di una relazione giuridica latamente funzionale e finalisticamente intercorrente con una pubblica amministrazione”[437].
L’esame dei più recenti interventi normativi in materia di responsabilità amministrativa pare evidenziare come negli ultimi anni si sia realizzato un processo di tipizzazione delle fattispecie di responsabilità erariale, che si è andato consolidando nel corso della XV legislatura, ed in particolare con le previsioni della legge finanziaria 2008.
In diverse disposizioni recentemente approvate, in particolare nell’ambito delle leggi finanziarie, infatti, il legislatore ha stabilito a priori la condotta illecita da cui scaturisce la responsabilità erariale, affidando in sostanza al giudice contabile esclusivamente il compito di verificare l’integrazione della fattispecie nel caso concreto e l’individuazione dell’effettivo responsabile della violazione. In molti casi, inoltre, oltre alla tipizzazione della fattispecie, la norma speciale provvede anche ad individuare misure di carattere demolitorio per gli atti dannosi (prevedendone la nullità), nonché sanzioni pecuniarie che superano la tradizionale ottica risarcitoria della responsabilità amministrativa, prevedendo la predeterminazione della sanzione in un multiplo del danno arrecato o di un parametro altrimenti rilevante.
La tendenza alla tipizzazione delle fattispecie di responsabilità amministrativa è ricondotta dal Procuratore generale della Corte dei conti[438] alla volontà del legislatore di realizzare “un palese disegno di rafforzamento della «effettività» di tutela giudiziale che il legislatore affida alla Corte stessa, attraverso nuove misure di contrasto approntate in considerazione della particolare rilevanza finanziaria degli interessi pubblici da proteggere”.
Su un piano diverso, inoltre, tipizzazione le fattispecie di responsabilità potrebbe – come evidenziato anche dal Presidente della Corte dei conti, Lazzaro, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008[439] – rispondere all’esigenza di individuare adeguati strumenti per sanzionare la produzione di danni di ingente entità (come i danni alla salute, all’ambiente, alla fruizione ed all’integrità dei beni comuni e allo stesso ordinato vivere civile), rispetto ai quali gli ordinari rimedi giurisdizionali sembrano presentare evidenti limiti. In questa ottica, per il presidente della Corte dei conti poterebbe essere opportuna una complessiva rimeditazione da parte del legislatore che porti a “predeterminare congruamente l’entità massima del risarcimento da porre a carico dell’autore dell’illecito, a fronte di violazioni patrimoniali, ed individuare ipotesi tipicizzate di responsabilità sanzionatoria per la violazione di beni immateriali o comunque di beni che, al di là della loro qualificazione giuridica, appaiono di difficile ed incerta qualificazione”.
Con riferimento alle più rilevanti fattispecie di responsabilità che sono state oggetto di tipizzazione, si ricordano, in particolare:
§ l’art. 52, co. 5, del D.Lgs. 165/2001[440], che nello stabilire la nullità dell'assegnazione di un lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore al di fuori dei casi previsti dalla legge, assicura tuttavia a tale lavoratore la corresponsione della differenza di trattamento economico con la qualifica superiore e prevede che di tale maggiore onere risponda il dirigente che ha disposto l'assegnazione;
§ l’art. 30, co. 15, della L. 289/2002 (legge finanziaria 2003)[441], il quale prevede la nullità degli atti e dei contratti sulla base dei quali gli enti territoriali ricorrono all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell'articolo 119 della Costituzione, stabilendo che gli amministratori che hanno assunto la relativa delibera possano essere condannati ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte l'indennità di carica percepita al momento della violazione;
§ l’art. 1, commi 4, 9 e 10, del D.L. 168/2004[442],che tipizza fattispecie di responsabilità amministrativa per la violazione delle disposizioni ivi previste in tema di acquisti di beni e servizi, limiti massimi di spesa annua per studi ed incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all'amministrazione, per missioni all'estero, spese di rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni;
§ l’art. 1, co. 11 e 42, della L. 311/2004 (legge finanziaria 2005)[443], che identificano una fattispecie di illecito disciplinare e di responsabilità erariale nell’affidamento di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze a soggetti estranei all'amministrazione in assenza dei presupposti previsti dalle medesime disposizioni rispettivamente per le pubbliche amministrazioni e per gli enti locali superiori a 5.000 abitanti;
§ l’art. 1, co. 187, della L. 266/2005 (legge finanziaria 2006)[444], in base al quale comporta responsabilità amministrativa e disciplinarela violazione dei limiti ivi previsti per il ricorso a personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
Numerose disposizioni di questo genere sono inoltre contenute nella legge finanziaria 2008 (L. 244/2007[445]). Si tratta, in particolare:
§ dell’art. 3, co. 19, che prevede la nullità delle clausole compromissorie contenute nei contratti delle pubbliche amministrazioni aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero dei compromessi stipulati relativamente ai medesimi contratti, introducendo fattispecie tipizzate di illecito disciplinare e di responsabilità erariale per i responsabili dei relativi procedimenti;
§ dell’art. 3, co. 23, che introduce una nuova fattispecie di responsabilità amministrativa per di inosservanza di termini decadenziali per procedere ad accordi bonari a seguito dell’iscrizione di riserve sui documenti contabili nei contratti di appalto e nelle concessioni;
§ dell’art. 3, co. 44, che dispone che l’amministratore che abbia disposto il pagamento di trattamenti economici superiori al “tetto” previsto da tale disposizione per le pubbliche amministrazioni e il destinatario del pagamento siano tenuti al rimborso, a titolo di danno erariale, di una somma pari a dieci volte l’ammontare eccedente la cifra consentita;
§ dell’art. 3, co. 54, che prevede una specifica causa di illecito disciplinare e di responsabilità amministrativa per il caso in cui sia liquidato il corrispettivo per una collaborazione o un incarico esterno alla p.a. senza la preventiva pubblicazione nel sito web dei provvedimenti di affidamento degli incarichi, con l’indicazione dei soggetti beneficiari dei pagamenti, degli importi erogati e della ragione dell’affidamento degli incarichi;
§ dell’art. 3, co. 56, che dispone che il conferimento da parte di enti locali di incarichi esterni in violazione delle norme del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità amministrativa;
§ dell’art. 3, co. 59, che,nel prevedere la nullità dei contratti di assicurazione stipulati da parte di enti pubblici in favore dei rispettivi amministratori al fine di tenerli indenni dai rischi derivanti dall’espletamento dei compiti connessi con la carica da loro ricoperta e riferibili a casi di responsabilità amministrativa o contabile, stabilisce che gli amministratori che pongano in essere nuovi contratti o proroghino quelli attualmente in essere ed i beneficiari della copertura assicurata dai contratti stessi siano tenuti a risarcire – a titolo di responsabilità amministrativa – una somma pari a 10 volte l’ammontare dei premi complessivamente previsti dal contratto nullo (per questa disposizione v. comunque infra) .
Disposizioni analoghe sono inoltre previste in provvedimenti che sono stati esaminati nel corso della XV legislatura, senza tuttavia completare il proprio iter.
In particolare, si ricorda che l’art. 3 del disegno di legge governativo in materia di rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare nella pubblica amministrazione, così come approvato dal Senato (A.C. 2629), prevedeva che rispondessero a titolo di responsabilità amministrativa il soggetto preposto all’istruttoria del procedimento disciplinare, il soggetto titolare del relativo ufficio ovvero, qualora si trattasse di soggetti diversi, gli organismi competenti ad adottare o deliberare la sanzione disciplinare qualora per decadenza dei termini o per altri motivi attinenti alla regolarità del procedimento disciplinare si determinasse la mancata applicazione di una sanzione disciplinare conseguente alla condanna con sentenza penale irrevocabile.
In una
recentissima sentenza[446] le sezioni riunite della Corte dei conti
hanno ricostruito il descritto fenomeno, evidenziando appunto come negli ultimi
anni si sia venuto delineando un sistema tipizzato di fattispecie di
responsabilità sanzionatoria. Tale sistema è il risultato della previsione, sul
piano legislativo, di fattispecie
tipizzate di illeciti amministrativo-contabili, che si aggiungono alle
tradizionali fattispecie di responsabilità sanzionatoria già conosciute
dall'ordinamento e rientranti nella giurisdizione della Corte dei conti.
Secondo
In
sostanza, per
· una responsabilità amministrativa per danno, di tipo risarcitorio, che configura una responsabilità generica, nel senso che non è tipizzata né nei comportamenti, né nella quantificazione del debito. Tale responsabilità sorge ogniqualvolta vi sia un danno patrimoniale risarcibile, economicamente valutabile, attuale e concreto, sofferto dall'amministrazione pubblica, purché il comportamento omissivo o commissivo del soggetto cui il danno è ricollegabile sia connotato dall'elemento psicologico del dolo o della colpa grave;
· una responsabilità amministrativa a carattere sanzionatorio, che invece è tipizzata, in quanto, essendo di tipo sanzionatorio, le relative fattispecie devono necessariamente corrispondere al principio di stretta legalità di cui all’art. 25 Cost. Tali fattispecie sono tassative (non sono pertanto suscettibili di interpretazione analogica), e devono essere determinate e specifiche (nel senso che la legge deve molto puntualmente indicare ogni elemento dell'intera fattispecie sanzionatoria).
Analogamente, i giudici contabili avevano già in precedenza evidenziato[447] come le nuove forme di sanzioni previste dalla legislazione (si faceva riferimento, in particolare, all’art. 1, comma 593, della L. 296/2006) “stanno dando luogo ad un vero e proprio sistema sanzionatorio contabile, a carattere eminentemente «punitivo», nel quale campeggia la ricordata funzione di «deterrenza» della responsabilità amministrativo-contabile”. Tale scelta del legislatore sarebbe, peraltro, il frutto dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore stesso gode nel disciplinare il sistema della responsabilità amministrativo contabile, né “sul piano costituzionale si individuano principi e/o valori tali da limitare una siffatta discrezionalità alla misura necessariamente «risarcitoria» della responsabilità stessa”.
Quanto all’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione della responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, le Sezioni riunite nella sentenza del 27 dicembre 2007 ritengono – a fronte di posizioni di segno diverso assunte, sul piano giurisprudenziale, dalle sezioni regionali, che oscillavano tra il ritenere necessaria la “colpa grave” e il ritenere sufficiente una qualsiasi colpa, seppur lieve o “lievissima”, secondo i principi generali in materia di sanzioni amministrative – che si renda comunque necessario un comportamento omissivo o commissivo caratterizzato da dolo o colpa grave, in considerazionedel dato letterale dell'art. 1, co. 1, della L. 20/1994[448].
Come anticipato, l’articolo 3, comma 59, della legge finanziaria 2008 (L. 244/2007)prevede la nullità dei contratti di assicurazione stipulati da parte di enti pubblici in favore dei rispettivi amministratori al fine di tenerli indenni dai rischi derivanti dall’espletamento dei compiti connessi con la carica da loro ricoperta e riferibili alla responsabilità per danni causati allo Stato o a ad altri enti pubblici (c.d. responsabilità amministrativa) e alla responsabilità contabile.
La norma non incide peraltro sulla possibilità per i soggetti interessati di stipulare a proprio carico un’assicurazione per tali rischi.
Quanto alla possibilità di prevedere forme di copertura assicurativa a favore di amministratori o dipendenti pubblici, con oneri a carico delle Amministrazioni di appartenenza, estese non solo ai casi di responsabilità civile nei confronti di terzi, bensì anche al rischio costituito da eventuali condanne da parte della Corte dei conti, si tratta di questione che è stata oggetto nel tempo di grande attenzione da parte della magistratura contabile.
A tale riguardo, deve in primo luogo
richiamarsi
Esistono comunque disposizioni legislative a livello regionale che prevedono la stipula di polizze assicurative riferite anche a fattispecie di responsabilità amministrativa e contabile[450].
In
particolare, l’art. 1 della L.R. Emilia-Romagna 24/1997[451]
stabilisce che
Analoghe provvidenze, sempre con riferimento ai Consiglieri regionali, sono previste dalla L.R. Lazio 48/1998[452].
Il secondo periodo della disposizione reca invece una disciplina transitoria riferita ai contratti di assicurazione in corso alla data di entrata in vigore della legge finanziaria 2008, prevedendo che la loro efficacia cessa il 30 giugno 2008.
Non sembra, peraltro, che la norma transitoria escluda la responsabilità amministrativa per la stipula dei contratti di assicurazione già individuata in base alla ricordata giurisprudenza contabile.
È inoltre prevista una norma sanzionatoria per il caso di stipula di contratti di assicurazione in violazione della disposizione in esame. A tale riguardo, con la tipizzazione di una fattispecie di responsabilità erariale, si prevede che gli amministratori che pongano in essere nuovi contratti o proroghino quelli attualmente in essere ed i beneficiari della copertura assicurata dai contratti stessi siano tenuti a risarcire – a titolo di responsabilità amministrativa – una somma pari a 10 volte l’ammontare dei premi complessivamente previsti dal contratto nullo.
Nel corso della legislatura anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha contribuito a precisare i contorni e la disciplina delle fattispecie di responsabilità amministrativa previste nell’ordinamento.
In primo luogo, quanto al riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, con la sentenza n. 184/2007 la Corte ha ribadito che la disciplina della responsabilità amministrativa rientra tra le materie di competenza dello Stato, in quanto in tale ambito i profili sostanziali sono strettamente intrecciati con i poteri che la legge attribuisce al giudice chiamato ad accertarla (la Corte dei conti), ovvero fanno riferimento a situazioni soggettive riconducibili alla materia dell’ordinamento civile, che l’art. 117, secondo comma, lett. l), cost. attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato[453].
In questo quadro, la Corte riconosce peraltro alle regioni e alle province autonome la possibilità di prevedere per i propri dipendenti, nell’ambito della loro competenza in materia di disciplina dell’ordinamento dei propri uffici, obblighi la cui violazione sia fonte di responsabilità amministrativa, senza tuttavia poter incidere sul regime di quest’ultima.
Con la sentenza n. 183/2007, la Corte costituzionale ha, invece, precisato i termini di applicabilità della disciplina del c.d. “condono contabile”, previsto dall’art. 1, co. 231-233, della legge finanziaria 2006[454].
Le norme impugnate prevedono, in particolare, che i soggetti condannati in primo grado con sentenze pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti possano chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza e che la sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, deliberi in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determini la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo altresì il termine per il versamento.
La Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alle disposizioni della legge finanziaria 2006, evidenziando come nel tradizionale assetto della responsabilità amministrativa non è di per sé risarcibile l'intero danno cagionato all'Amministrazione, in quanto - come la giurisprudenza contabile ha sempre affermato – il danno costituisce soltanto il presupposto per il promuovimento da parte del pubblico ministero dell'azione di responsabilità amministrativa e contabile. Per determinare la risarcibilità del danno si richiede, invece, una valutazione discrezionale ed equitativa del giudice contabile, il quale, sulla base dell'intensità della colpa, intesa come grado di scostamento dalla regola che si doveva seguire nella fattispecie concreta, e di tutte le circostanze del caso, stabilisce quanta parte del danno subito dall'Amministrazione debba essere addossato al convenuto, e debba pertanto essere considerato risarcibile.
Per la Corte, tale ricostruzione sarebbe, in particolare, confermata dall’analisi delle disposizioni relative al c.d. potere riduttivo[455] riconosciuto al giudice contabile, che distinguono in modo chiaro il danno accertato secondo il principio di causalità materiale dal danno addossato al responsabile all’esito al giudizio di responsabilità.
La Corte inquadra quindi le norme censurate all’interno di questo contesto, evidenziando come esse in sostanza rimettano al giudice di appello il potere di valutare nel merito la congruità di una condanna entro il limite del trenta per cento del danno addebitato al responsabile nella sentenza di primo grado, dovendo comunque escludersi che a tale definizione agevolata si possa accedere in presenza di dolo del condannato o di particolare gravità della condotta[456].
Le leggi finanziarie 2007 e 2008 (L. 296/2006 e L. 244/2007) sono intervenute ad innovare, con diverse disposizioni, molti aspetti della disciplina dell’organizzazione della Corte dei conti e dei controlli da essa svolti “al fine di rendere più efficace quell’attività capillare e diffusa di controllo sulla gestione della pubblica finanza, che tutta l’opinione pubblica richiede sempre più insistentemente e di cui il Parlamento si è fatto interprete”[457].
L’art 3, comma 62, della legge finanziaria 2008 prevede una riorganizzazione degli uffici della Corte dei conti, da attuare a livello regolamentare, finalizzata a coordinare le nuove funzioni istituzionali attribuite in materia di controlli dai commi 43-66[458] dell’articolo 3 (per le quali v. in particolare la scheda Interventi di razionalizzazione della spesa, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio) con quelle già svolte dalla stessa.
In base alla disposizione, la riorganizzazione è inoltre tesa a rafforzare le attività della Corte riferite alla relazione annuale sul rendiconto generale dello Stato, ai controlli sulla gestione e al perseguimento delle priorità indicate dal Parlamento ai sensi dell’art. 3, co. 4, della L. 20/1994 (per il quale v. infra).
Ai fini della riorganizzazione degli uffici e servizi in attuazione della presente disposizione, si prevede che i regolamenti di organizzazione siano adottati dal Consiglio di Presidenza della Corte dei conti[459], su proposta del Presidente della Corte stessa, il quale a sua volta formula le proposte con il parere del segretario generale, definendo obiettivi e programmi da adottare.
Al riguardo si segnala che la disposizione sembra avere carattere innovativo per quanto riguarda la competenza ad adottare i regolamenti di organizzazione della Corte dei conti. A legislazione vigente, infatti, il regolamento di organizzazione delle funzioni di controllo e le sue successive modificazioni[460], il regolamento per l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici della Corte[461] ed il regolamento sull’autonomia finanziaria dell’Istituto[462] sono stati adottati dalle sezioni riunite della Corte, sentiti il consiglio di presidenza ed il consiglio di amministrazione. In proposito, si è osservato[463] come l’attuale assetto competenziale in materia regolamentare si ponga in diretta connessione alle riforme dell’ordinamento della Corte dei conti degli anni ’90 del secolo scorso[464], dal momento che fino a tale momento il potere organizzativo era attribuito al Presidente della Corte stessa, in attuazione dell’art. 98 del T.U. sulla Corte dei conti, il quale demandava al Presidente il compito di provvedere con regolamento “alla disciplina ed al servizio interno degli uffici e della segreteria della Corte, al personale subalterno, alle spese d'ufficio” e ad ogni altra disposizione esecutiva del testo unico.
Il successivo comma 63 prevede che nel triennio 2008-2010, il Presidente della Corte dei conti trasmetta entro il 30 giugno una relazione al Parlamento nella quale dia conto delle misure di riorganizzazione previste in attuazione del comma 62, evidenziando in tale ambito anche gli strumenti ritenuti necessari per assicurare la posizione di autonomia e di indipendenza della Corte nella sua funzione di organo ausiliario del Parlamento ai sensi dell’art. 100 della Costituzione[465].
Una serie di disposizioni contenute nelle leggi finanziarie 2007 e 2008 sono intervenute al fine di potenziare le attività di controllo esercitate dalla Corte dei conti anche attraverso la realizzazione di una maggiore integrazione tra i compiti svolti dalla Corte e le attività di altri organismi di controllo (in particolare, dei servizi di controllo interno) e un più stretto rapporto con il Parlamento[466].
In proposito, con una prima innovazione, l’articolo 1, comma 473, della legge finanziaria 2007 ha previsto che i programmi di controllo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria, svolti dalla Corte dei conti ai sensi dell'art. 3, co. 4, della L. 20/1994, e definiti annualmente dalla Corte stessa ai sensi dell'ultimo periodo del medesimo comma, siano stabiliti sulla base delle priorità previamente deliberate dalle Commissioni parlamentari competenti.
L’intervento del Parlamento nel procedimento di formazione del programma di controllo di gestione della Corte dei conti, introdotto dalla disposizione in esame, è stato accolto favorevolmente dalla magistratura contabile. Il presidente della Corte dei conti ha, infatti, manifestato apprezzamento per la disposizione, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario per il 2007, rimarcando come l’innovazione rappresenti il segnale di un’accresciuta attenzione per l’apporto ausiliario della Corte[467].
Nel 2007, peraltro, le Commissioni non hanno indicato alla Corte priorità per lo svolgimento dei controlli.
Successivamente, l’articolo 3, comma 65, della legge finanziaria 2008 ha recato una ulteriore modifica testuale all’articolo 3, comma 4 della L. 20/1994, prevedendo che, nella definizione annuale dei programmi e dei criteri di riferimento del controllo sulla gestione, in base alle priorità previamente deliberate dalle competenti Commissioni parlamentari, la Corte dei conti tenga conto anche – ai fini del referto per il coordinamento del sistema di finanza pubblica – delle relazioni degli organi che esercitano funzioni di controllo o vigilanza su amministrazioni, enti pubblici, autorità amministrative indipendenti o società a prevalente capitale pubblico.
Tra gli organi di controllo e vigilanza cui fa riferimento la disposizione in esame devono presumibilmente considerarsi i servizi di controllo interno istituiti nelle singole amministrazioni. Per quanto riguarda le autorità amministrative indipendenti si segnala a titolo puramente esemplificativo il servizio di controllo interno istituito presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (art. 25 del regolamento adottato con deliberazione 9 ottobre 2002).
L’articolo
3, comma 70, della legge finanziaria
2008, ha inoltre previsto che
§ anche con riferimento alle tematiche inerenti lo stato della spesa e l’efficienza delle pubbliche amministrazioni trattate nelle relazioni ministeriali previste dal comma 68 del medesimo articolo nell’ambito di una procedura volta a rafforzare il controllo parlamentare sull’efficienza e l’efficacia della spesa delle amministrazioni statali (sul punto v. scheda Rafforzamento del sistema dei controlli, nel dossier relativo alla Commissione Bilancio);
§ tenendo altresì conto della nuova classificazione del bilancio dello Stato per missioni e programmi e delle priorità indicate dal Parlamento, ai sensi delle disposizioni sopra richiamate, ai fini della predisposizione dei programmi e dei criteri per l’esercizio dell’attività di controllo successivo sulla gestione.
Su un profilo diverso interviene invece l’articolo 3, comma 64, della legge finanziaria 2008, chereca una norma volta a dare maggiore effettività all’attività svolta della Corte dei conti nell’esercizio del controllo su gestioni di spesa e di entrata, al fine indicato di razionalizzazione della spesa pubblica e vigilanza sulle entrate.
Si prevede, in particolare, che, ove un’amministrazione ritenga di non ottemperare ai rilievi svolti dalla Corte dei conti nell’esercizio del controllo su gestioni di spesa e di entrata, essa debba inviare un documento motivato alla Presidenza delle Camere, alla Presidenza del Consiglio e alla Presidenza della Corte dei conti.
Si tratta di una disposizione che si affianca a quella, attualmente vigente[468], in base alla quale le relazioni annuali della Corte sono inviate – oltre che al Parlamento e ai Consigli regionali - anche alle amministrazioni interessate, alle quali la Corte può altresì formulare, in qualsiasi momento, le proprie osservazioni. Entro sei mesi dalla ricezione della relazione[469], le amministrazioni comunicano alla Corte ed agli organi elettivi le misure adottate al riguardo.
Ulteriori interventi hanno riguardato la disciplina delle sezioni regionali della Corte dei conti. La legge finanziaria 2008 ha, infatti, introdotto modifiche alla legislazione vigente che hanno riguardato, da un lato, l’ampliamento del novero dei beneficiari delle attività di referto da esse svolte e, dall’altro, la composizione delle sezioni stesse.
La
generalizzazione dell’istituzione di sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti è avvenuta con la deliberazione del 16 giugno 2000, n. 14,
della stessa Corte, in ottemperanza alle disposizioni dell’art. 3, co. 2, del
D.Lgs. 286/1999[470].
L’art. 2, co. 1, della deliberazione n. 14 del
In precedenza esistevano già sezioni regionali di controllo nelle regioni a statuto speciale[473].
Quanto alle competenze loro attribuite, le sezioni regionali esercitano, ai sensi dell’articolo 3, co. 4, 5 e 6 della L. 20/1994, con la quale è stato introdotto il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, il controllo sulla gestione delle amministrazioni regionali e dei loro enti strumentali, nonché il controllo sulla gestione degli enti locali territoriali e i loro enti strumentali (e anche delle università e delle istituzioni pubbliche di autonomia aventi sede nella regione). Inoltre le sezioni regionali esercitano il controllo di legittimità sugli atti e il controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato aventi sede nella regione.
Il regolamento di auto-organizzazione della Corte prevede che il controllo comprenda anche la verifica della gestione dei cofinanziamenti regionali per interventi sostenuti con fondi comunitari. Il controllo sulla gestione affidato alle sezioni regionali include anche le verifiche sul funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione, come richiesto dal co. 4 dell’art. 3 della L. 20/1994.
Quanto al
primo profilo di intervento, l’articolo
3, comma 60, della legge finanziaria 2008, novellando la disciplina delle sezioni regionali della Corte dei conti
di cui all’articolo 7, comma 7, della L. 131/2003 (c.d. “legge
In questa ottica, il comma in esame introduce un ultimo periodo all’art. 7, co. 7, della “legge La Loggia”, prevedendo che la Corte dei conti dia conto anche dell’attività di controllo svolta nel periodo temporale di riferimento dalle sezioni regionali di controllo nell’ambito di due relazioni annuali al Parlamento previste dalla legislazione vigente.
Si tratta, in particolare:
§ della relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, trasmessa ai sensi dell’art. 3, co. 6, della L. 20/1994;
Ai
sensi della norma richiamata, la Corte dei conti riferisce, almeno annualmente,
al Parlamento ed ai consigli regionali sull'esito del controllo eseguito sulla
gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché
sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria,
verificando la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il
funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione. Le relazioni
della Corte sono altresì inviate alle amministrazioni interessate, alle quali
Si segnala inoltre che – a seguito delle modifiche apportate nel 2003 - l’art. 9 del regolamento di organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti[475]prevede che ai fini del coordinamento della finanza pubblica, la sezione delle autonomie, che costituisce “espressione delle sezioni regionali di controllo”, riferisca al Parlamento, almeno una volta l’anno, sugli andamenti complessivi della finanza regionale e locale per la verifica del rispetto degli equilibri di bilancio da parte di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno e ai vincoli che derivano dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, anche sulla base dell’attività svolta dalle sezioni regionali.
In attuazione
del richiamato art. 3, co. 6, della L. 20/1994, dell’art. 7, co. 7, della L.
§ della relazione sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e dell’attività degli enti locali, prevista dal quinto comma dell’art. 13 del D.L. 786/1981[477].
L’art. 13 del D.L. 786/1981 – disposizione espressamente fatta salva nell’ambito del riordino delle funzioni di controllo della Corte dei conti[478] - ha previsto che le province e i comuni con popolazione superiore a 8.000 abitanti debbano trasmettere alla Corte dei conti i propri conti consuntivi, nonché le relazioni dei revisori nominati dal consiglio comunale e ogni altro documento e informazione che questa richieda.
All’esito del controllo
In proposito, il Presidente della Corte dei conti[480] ha sottolineato come, in base a tale disposizione, “le Sezioni regionali vengono così coinvolte nell’opera della Corte, unitariamente intesa, volta a contribuire al coordinamento della finanza pubblica, secondo il costante insegnamento della Corte Costituzionale: coordinamento tanto più indispensabile quanto più l’ordinamento si orienta verso un sistema policentrico di spesa e di entrata”.
Quanto alle modifiche relative alla composizione delle sezioni, l’art. 3, comma 61, dellalegge finanziaria 2008 abroga il comma 9 dell’articolo 7 della L. 131/2003 (la cosiddetta “legge La Loggia”) eliminando la facoltà per le regioni, ivi prevista,di procedere all’integrazione della composizione delle sezioni regionali della Corte dei conti attraverso la nomina di due componenti.
La soppressione di tale disposizione comporta anche il venir meno della possibilità per le sezioni regionali di controllo di avvalersi di personale della Regione con oneri a carico dell’amministrazione di appartenenza, previsto nella fase di prima applicazione della L. 131/2003.
Il comma disciplina, inoltre, le modifiche alla situazione giuridica dei consiglieri attualmente in carica in conseguenza della soppressione della norma, distinguendo tra coloro che risultano essere stati nominati alla data del 1° ottobre 2007 e quelli nominati successivamente. I primi rimangono in carica fino alla fine del loro mandato, mentre i secondi decadono – dalla data di entrata in vigore del testo in esame – e non hanno più diritto alla corresponsione degli emolumenti in precedenza percepiti “a qualsiasi titolo”.
L’art. 7, co. 9, della L. 131/2003 prevedeva la possibilità di integrare la composizione delle sezioni regionali della Corte dei conti con due componenti designati:
- uno, dal Consiglio regionale;
- l’altro, dal Consiglio delle autonomie locali oppure, nelle Regioni ove tale organo, previsto dall’ultimo comma dell’art. 123 Cost., non sia stato ancora istituito, dal Presidente del Consiglio regionale su indicazione delle associazioni rappresentative dei comuni e delle province a livello regionale.
L’individuazione dell’organo (della regione e rappresentativo degli enti locali) competente a designare i componenti aggiuntivi delle sezioni regionali della Corte può qualificarsi come disposizione “recessiva” o “cedevole”: viene, infatti, espressamente previsto che essa operi “salvo diversa previsione dello statuto della regione”.
La disposizione individuava le categorie di soggetti tra le quali le regioni ed i Consigli delle autonomie locali dovevano scegliere i componenti aggiuntivi: questi dovevano essere selezionati tra persone che, per gli studi compiuti e le esperienze professionali acquisite, sono particolarmente esperte nelle materie aziendalistiche, economiche, finanziarie, giuridiche e contabili.
Lo status dei componenti era equiparato a tutti gli effetti, per la durata dell’incarico, a quello dei consiglieri della Corte dei conti, con oneri finanziari a carico della Regione. Era tuttavia previsto che l’integrazione dovesse avvenire senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (che in quanto tale sembrerebbe ampiamente comprensiva anche di quella non statale).
Per la nomina è prescritto il parere del consiglio di presidenza della Corte dei conti, su richiesta motivata della Presidenza del Consiglio dei ministri.
L’art. 7, co. 9, della L. 131/2003 prevedeva inoltre che ciascuna sezione regionale di controllo della Corte dei conti potesse avvalersi di personale delle regioni, previe intese con le regioni stesse. Erano peraltro posti limiti a tale possibilità, in quanto essa:
- era data in sede di prima applicazione;
- era connessa allo svolgimento delle funzioni di verifica sugli equilibri di bilancio degli enti territoriali e delle altre funzioni di verifica di cui all’art. 7, co. 7; alla realizzazione di forme di collaborazione tra regioni e sezioni regionali della Corte dei conti (art. 7, co. 8), nonché alla nomina dei componenti delle sezioni regionali designati dalle regioni (art. 7, co. 9);
- era limitata ad un contingente massimo di dieci unità di personale per ciascuna sezione regionale.
Ai sensi della disposizione abrogata, le sezioni regionali di controllo potevano avvalersi anche di segretari comunali e provinciali del ruolo unico previsto dal testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (co. 6, sesto periodo) sotto duplice condizioni, procedurale la prima e finanziaria la seconda:
- previe intese con l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali o con le sue sezioni regionali;
- con oneri a carico della Regione.
Nel corso della XV legislatura, la Corte Costituzionale ha fornito rilevanti indicazioni circa la compatibilità con il quadro costituzionale delineatosi a seguito della modifica del titolo V della Costituzione di disposizioni statali che introducono forme di controllo contabile sugli enti locali.
In particolare,
L’art.
1, commi 166-169, della legge finanziaria per il 2006[482] ha
introdotto una nuova forma di controllo della Corte dei Conti, imponendo la
trasmissione alla Corte di apposite relazioni
degli organi di revisione degli enti locali sul bilancio di previsione
dell’esercizio di competenza e sul rendiconto di esercizio ai fini di un
monitoraggio finalizzato in particolare a prevenire squilibri di bilancio. A
tal fine, si prevede che
Al
riguardo,
In questo contesto,
Pertanto, la Corte Costituzionale ritiene che, alla luce del fatto che il controllo sulla gestione finanziaria è complementare rispetto al controllo sulla gestione amministrativa, ed è utile per soddisfare l’esigenza degli equilibri di bilancio, la previsione da parte di una legge dello Stato del controllo in esame rientri nella competenza propria di quest’ultimo di dettare principi nella materia concorrente della “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica” (art. 117, terzo comma, Cost.).
Semplificazione e qualità delle norme
La presente scheda è dedicata agli organismi istituiti in ambito governativo al fine di perseguire le politiche di qualità della regolazione e di semplificazione. Si tratta del Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione e del relativo organo di supporto (l’Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione), nonché del Tavolo permanente per la semplificazione.
Il Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione e l’Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione sono stati istituiti con due decreti del Presidente del Consiglio dei ministri in data 12 settembre 2006.
L’istituzione del Comitato interministeriale è prevista dall’articolo 1 del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80.
A seguito delle modifiche apportate durante l’iter di conversione, che hanno portato alla soppressione di numerosi commi, il decreto si limita a prevedere che:
§ i componenti del Comitato siano individuati con DPCM[483];
§ alle sue riunioni possano partecipare altri componenti del Governo, esponenti di autorità regionali e locali e delle associazioni di categoria;
§ dall’istituzione e dal funzionamento del Comitato non derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica;
il Comitato:
In attuazione di tali previsioni, il DPCM istitutivo stabilisce la composizione del Comitato e ne definisce compiti e funzioni.
Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio, che può delegare le relative funzioni al Ministro per le riforme e l’innovazione nella pubblica amministrazione[484]; è composto, oltre che da quest’ultimo, dai Ministri per gli affari regionali e le autonomie locali, per le politiche europee, per l’attuazione del programma di Governo, dell’interno, dell’economia e delle finanze, dello sviluppo economico, nonché dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Segretario del Consiglio dei ministri. Ogni componente del Comitato può delegare la propria partecipazione ad un Vice Ministro o ad un Sottosegretario.
E’ inoltre previsto che alle riunioni del Comitato, in base agli argomenti da trattare, possano essere invitati altri Ministri, nonché esponenti del sistema delle autonomie, rappresentativi degli altri livelli di governo[485].
L’articolo 4 del DPCM indica nel dettaglio compiti e funzioni del Comitato, con previsioni di indubbio interesse.
Riguardo al piano, è stabilito che esso individui per ciascun obiettivo il soggetto o i soggetti responsabili e che il Comitato coordini l’attività di realizzazione degli obiettivi ivi previsti e ne verifichi periodicamente il loro stato di attuazione.
Particolarmente interessante appare il comma 3 dell’articolo 4, in base al quale devono essere sottoposte al Comitato, per un esame preventivo rispetto all’approvazione da parte del Consiglio dei ministri, le iniziative normative con prevalente finalità di semplificazione, ed in particolare il disegno di legge di semplificazione. Si individua inoltre nel Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, designato dal Presidente del Consiglio, e nel Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione i soggetti chiamati a rappresentare il Governo nei lavori parlamentari relativi al disegno di legge di semplificazione.
Di analogo interesse risulta il comma 4, che specifica i compiti del Comitato in relazione alle funzioni di indirizzo, coordinamento ed impulso delle amministrazioni dello Stato nelle politiche della semplificazione, del riassetto e della qualità della regolazione. In particolare, il Comitato:
§ può richiedere un approfondimento dell’esame delle iniziative normative del Governo in caso di proposte che non appaiano necessarie o giustificate relativamente al rapporto tra costi e benefici o alla coerenza con gli obiettivi del piano di azione annuale per la semplificazione;
§ individua e sostiene iniziative non normative di semplificazione, tramite progetti di innovazione tecnologica o amministrativa, di comunicazione e di formazione;
§ monitora l’efficacia delle misure di semplificazione introdotte e la loro effettiva applicazione e prospetta, ove necessario, interventi correttivi. E’ significativo che a tale monitoraggio si provveda con le opportune procedure di verifica di impatto;
§ convoca periodicamente il Tavolo permanente per la semplificazione;
§ individua altre forme e modalità stabili di consultazione con le organizzazioni rappresentative degli interessi della società civile e prevede, ove possibile in via elettronica, forme di pubblicizzazione di tale attività;
§ assicura il costante raccordo con gli altri soggetti istituzionali e con gli altri livelli di governo in tema di semplificazione e di qualità della regolazione
Al fine di favorire il raccordo con il sistema delle autonomie, il Tavolo è istituito presso la Conferenza unificata. E’ composto dai rappresentanti delle categorie produttive e delle associazioni di utenti e consumatori, nonché da rappresentanti dei Ministeri, della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, dell’ANCI, dell’UPI e dell’UNCEM. Il Tavolo, previsto dall’articolo 5 del DPCM istitutivo del Comitato interministeriale, è stato istituito con un ulteriore DPCM in data 8 marzo 2007.
E’ assicurato dall’Unità per la semplificazione, la cui istituzione è stata prevista dall’articolo 1, comma 22-bis[486], del decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233.
L’Unità è presieduta dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – Segretario del Consiglio dei ministri, che può delegare le relative funzioni al Segretario generale della Presidenza del Consiglio – Vice Presidente dell’Unità in coabitazione con il Capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio. Oltre a questi ultimi, fanno parte dell’Unità:
§ i Capi degli Uffici legislativi dei Ministri componenti il Comitato interministeriale;
§ i consiglieri giuridici del Sottosegretario alla presidenza del Consiglio – Segretario del Consiglio dei ministri e del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, in numero non superiore a quattro;
§ 19 esperti, nominati con ulteriore DPCM in data 12 settembre 2006 (il citato decreto-legge n. 181/2006 prevede la nomina di un numero di esperti non superiore a 20).
All’Unità sono affidati compiti di supporto all’attività del Comitato interministeriale. Giova sottolineare il suo ruolo di coordinamento tra le amministrazioni dello Stato, anche con riguardo alla ricognizione delle materie in cui sia costituzionalmente legittimo l’intervento in via regolamentare dello Stato. L’Unità, inoltre:
§ formula proposte per la definizione di indirizzi e criteri generali per il riordino normativo e la codificazione e sovrintende alle conseguenti iniziative delle singole amministrazioni;
§ definisce, d’intesa con il Dipartimento della funzione pubblica, un programma di misurazione e riduzione degli oneri amministrativi e verifica preventivamente l’impatto sulla semplificazione e sulla qualità della regolazione dei disegni di legge, dei decreti legislativi e dei regolamenti di iniziativa governativa;
§ promuove forme di raccordo con il Parlamento e con gli altri soggetti titolari di poteri normativi per il miglioramento del processo legislativo;
§ promuove forme di raccordo e partecipa alle iniziative per l’adozione di misure di semplificazione e di miglioramento della qualità della regolazione da parte degli organi costituzionali, delle autorità indipendenti, delle Regioni e degli enti locali. Partecipa, altresì, ad iniziative e programmi in materia di semplificazione e di qualità della regolazione dell’Unione europea, dell’OCSE e di altri organismi internazionali.
Si tratta di compiti che l’Unità è chiamata a svolgere anche in attuazione di altre disposizioni di legge.
In particolare:
§ il tema della codificazione e del riordino normativo è oggetto di diverse leggi (in particolare, le leggi n. 59/1997 e n. 50/1999); la legge 28 novembre 2005, n. 246, recante semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005, è intervenuta sull’articolo 20 della citata legge n. 59/1997, completando la disciplina in materia, ed ha delegato il Governo a provvedere al riassetto normativo in diversi settori dell’ordinamento;
§ la verifica preventiva dell’impatto sulla semplificazione si inscrive, come parte del tutto, nell’ambito dell’analisi dell’impatto della regolamentazione, disciplinata dall’articolo 14 della legge n. 246/2005 (vedi scheda AIR: relazione sullo stato di attuazione, pag. 394);
§ il raccordo con le Regioni e con l’Unione europea per il perseguimento di comuni obiettivi di qualità della legislazione sono già disciplinati dagli articoli 1 e 2 della citata legge n. 246/2005.
§ Innovativo appare invece il richiamo al raccordo con il Parlamento e con L’OCSE. Quest’ultima organizzazione svolge un importante ruolo di impulso alla semplificazione normativa, nell’ambito di una strategia volta a facilitare la competitività delle imprese.
Sia la previsione del raccordo con il Parlamento, sia la trasmissione a quest’ultimo del piano di azione per la semplificazione (vedi scheda Il piano d’azione per la semplificazione, pag. 386) coinvolgono le istituzioni parlamentari in un processo di importanza strategica, nel quale il Comitato per la legislazione potrebbe svolgere, nella XVI legislatura, un ruolo di regia nell’ambito della Camera.
Può essere utile in proposito ricordare le modalità di coinvolgimento del Parlamento nel programma di riordino delle norme legislative e regolamentari, adottato dal Consiglio dei ministri ai sensi dell’articolo 7 della L. 50/1999: la Camera dei deputati, chiamata a pronunziarsi in virtù della previsione legislativa (poi abrogata) dette vita a un complesso procedimento, che coinvolse tutte le Commissioni permanenti; queste espressero il parere ad una Commissione speciale costituita ad hoc (Commissione speciale per l'esame della relazione del Governo per il programma di riordino delle norme legislative e regolamentari, costituita con deliberazione dell’Assemblea del 28 luglio 1999), la quale riferì all’Assemblea ai fini dell’adozione di una risoluzione (che quest’ultima approvò il 19 ottobre 1999).
Semplificazione e qualità delle norme
Il 29 marzo 2007, in sede di Conferenza unificata, è stato siglato un Accordo tra Governo, Regioni e Autonomie locali in materia di semplificazione e miglioramento della qualità della regolamentazione, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 aprile 2007.
È stata così data attuazione al disposto dell’articolo 2 della legge 28 novembre 2005, n. 246, recante semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005, che ha introdotto, nell’ambito della legge 15 marzo 1997, n. 59, l’articolo 20-ter, prevedendo, per l’appunto, “in attuazione del principio di leale collaborazione”, la conclusione, in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, di accordi volti al “perseguimento delle comuni finalità di miglioramento della qualità normativa nell'ambito dei rispettivi ordinamenti, al fine, tra l'altro, di:
a) favorire il coordinamento dell'esercizio delle rispettive competenze normative e svolgere attività di interesse comune in tema di semplificazione, riassetto normativo e qualità della regolazione;
b) definire princìpi, criteri, metodi e strumenti omogenei per il perseguimento della qualità della regolazione statale e regionale, in armonia con i princìpi generali stabiliti dalla presente legge e dalle leggi annuali di semplificazione e riassetto normativo, con specifico riguardo ai processi di semplificazione, di riassetto e codificazione, di analisi e verifica dell'impatto della regolazione e di consultazione;
c) concordare, in particolare, forme e modalità omogenee di analisi e verifica dell'impatto della regolazione e di consultazione con le organizzazioni imprenditoriali per l'emanazione dei provvedimenti normativi statali e regionali;
d) valutare, con l'ausilio istruttorio anche dei gruppi di lavoro già esistenti tra regioni, la configurabilità di modelli procedimentali omogenei sul territorio nazionale per determinate attività private e valorizzare le attività dirette all'armonizzazione delle normative regionali”.
Le premesse dell’accordo danno conto con dovizia di particolari di tutti gli elementi utili ad un suo inquadramento nella cornice della vigente normativa, delle iniziative assunte in ambito OCSE e comunitario, degli obiettivi perseguiti e dei suoi limiti, riassumendo tutte le tappe procedurali che hanno condotto alla sua conclusione.
Si segnalano, in particolare, due capoversi delle premesse, dedicati rispettivamente all’analisi di impatto della regolamentazione, la cui generalizzata applicazione è considerata uno degli obiettivi qualificanti, ed al limite di contesto derivante dall’autonomia dei Consigli regionali.
Quest’ultimo capoverso, in particolare, afferma “che l’accordo non può in alcun modo incidere sull’autonomia dei Consigli regionali, garantita dagli statuti, ma che si pone come espressione dell’indirizzo politico in materia di qualità della regolamentazione, concordato fra il Governo e le Giunte regionali”. Trova così emersione un aspetto di sistema posto in luce dalle stesse Assemblee legislative regionali nelle fasi tecniche di predisposizione dell’accordo, alle quali sono state invitate a partecipare, anche in attuazione dell’impegno assunto dal Governo in relazione ad un ordine del giorno presentato, nell’ambito della discussione sulla legge di semplificazione 2005, dai deputati Fontanini e Siniscalchi, rispettivamente presidente e vicepresidente pro tempore del Comitato per la legislazione.
Il Governo, come già accennato, ha dato attuazione all’ordine del giorno citato invitando a partecipare ai lavori preparatori dell’accordo anche gli uffici dei Consigli regionali, contestualmente coinvolti da alcune Giunte regionali. In sede tecnica, i Consigli regionali hanno evidenziato come l’accordo involga in realtà spazi e funzioni delle Assemblee legislative e necessiti per la sua attuazione di una collaborazione di queste ultime con gli Esecutivi regionali: una eco di tale segnalazione si rintraccia nel citato capoverso delle premesse dell’accordo[487].
E’ da ritenere che un’analoga clausola di salvaguardia debba valere per le Assemblee legislative statali.
L’accordo si compone complessivamente di 17 articoli, riguardanti un insieme di strumenti volti a perseguire una migliore qualità della regolamentazione, elencati, dopo un richiamo dei principi di qualità della regolazione condivisi in ambito europeo[488], dall’articolo 1:
§ l’analisi tecnico-normativa (articolo 2);
§ l’analisi di impatto della regolamentazione ex ante (AIR) e la consultazione (articoli 3 e 4);
§ l’analisi di fattibilità (articolo 5);
§ la verifica di impatto della regolamentazione ex post (VIR) (Articolo 6);
§ l’impiego di clausole valutative (articolo 7);
§ la semplificazione normativa (articolo 8);
§ la misurazione e riduzione degli oneri amministrativi (articolo 9);
§ il drafting normativo (articolo 14).
L'insieme di strumenti sopra ricordato è di seguito illustrato secondo la seguente ripartizione espositiva:
§ esame degli effetti di una normativa;
§ semplificazione normativa;
§ riduzione degli oneri amministrativi;
§ drafting.
Si tratterà inoltre di ulteriori aspetti affrontati nell’accordo, attinenti ai suoi profili attuativi, con specifico riguardo alla formazione, ed all’accesso dei cittadini alle norme.
Si segnala che tutti questi temi costituiscono anche oggetto del piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione, elaborato dal Governo ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80 (vedi scheda Il piano d’azione per la semplificazione, pag. 386).
L'esame degli effetti può essere preventivo (dunque antecedente l'approvazione di una normativa) o successivo (sullo stato di attuazione e sugli effetti prodotti).
L'esame preventivo si articola in più momenti. Vi è un vaglio di carattere eminentemente giuridico, affidato all'analisi tecnico-normativa. Vi è un'analisi dell'impatto della regolamentazione proposta, in raffronto ad altre opzioni normative ipotizzabili. Vi è una verifica della fattibilità amministrativa. Per una maggiore conoscenza dei diversi settori da normare, vi è la consultazione dei soggetti interessati.
L'esame successivo risiede invece nella verifica (ex post) dell'impatto prodotto dalla regolamentazione. Possono, a tal fine, legislativamente prevedersi (con le cosiddette “clausole valutative”) obblighi di informazione (a carico degli esecutivi o di altri soggetti attuatori) sull'attuazione e sui risultati di una normativa.
La consultazione inerisce all'analisi di impatto della regolamentazione.
Già posta in evidenza nella guida approntata nel 1997 dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) sulla Regulatory Impact Analisys: Best Practices in OECD Countries, essa si inserisce nel processo di rilevazione preventiva dei possibili effetti di una proposta normativa, al fine di: rilevare le esigenze presso i soggetti portatori di interessi; approfondire le informazioni, onde meglio definire gli obiettivi, i costi e benefici, modalità e contenuti dell'intervento normativo.
L'accordo dà specifica menzione della consultazione all'articolo 4, ove si prevede che Stato e Regioni assicurino "adeguate forme di consultazione delle parti sociali e delle associazioni di categoria e dei consumatori", per i provvedimenti di maggior impatto sull'attività dei cittadini e delle imprese.
Stato e Regioni inoltre concordano modalità omogenee di consultazione.
E' da notare come la disposizione dell'accordo circoscriva la consultazione (oltre che ai maggiori provvedimenti) a soggetti rappresentativi di una platea di destinatari o interessati (escludendo, pare di intendere, singoli portatori di interessi o esperti).
Una possibile sede di consultazione cui ricorrere - esplicita l'accordo - è il Tavolo permanente per la semplificazione, previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 settembre 2006 sul coordinamento delle politiche di semplificazione e di qualità della regolamentazione (ed istituito con analogo decreto, dell'8 marzo 2007), il quale ha previsto che a comporre quel tavolo siano rappresentanti delle categorie produttive e delle associazioni di utenti e consumatori, nonché rappresentanti dei Ministeri, della Conferenza dei presidente delle regioni, dell'Associazione nazionale comuni italiani (ANCI), dell'Unione delle province d'Italia (UPI), dell'Unione nazionale comuni e comunità montani (UNCEM) (vedi scheda Organismi governativi per la semplificazione, pag. 367).
Pertiene al tentativo di standardizzare procedure di valutazione successive degli atti normativi la elaborazione di clausole valutative, oggetto dell'articolo 7 dell'accordo.
La clausola valutativa è definita dall’articolo 7 citato “uno strumento di valutazione ex post delle leggi consistente in uno specifico articolo dell’atto normativo, che conferisce un mandato esplicito al Governo ed alle Giunte regionali ad elaborare ed a comunicare all’organo legislativo le informazioni necessarie sia a conoscere i tempi, le modalità attuative e le eventuali difficoltà emerse in fase di implementazione, sia a valutare le conseguenze dell’atto sui destinatari e la collettività”.
Si tratta di un aspetto che è al centro dell’attenzione da diversi anni, in particolare, dei Consigli regionali, quattro dei quali (Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Toscana) hanno promosso, nel marzo 2002, il progetto CAPIRe, finalizzato a ridefinire modi e strumenti per rilanciare e dare maggiore efficacia alla funzione di controllo in seno alle Assemblee legislative, promuovendo l’adozione di clausole valutative[489]. Da marzo 2006 la Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali e delle Province Autonome ha deciso di farsi carico direttamente del progetto, allargandolo alle esperienze condotte in seno ad altre Assemblee regionali. Nel medesimo arco temporale, alcuni statuti[490] e, più recentemente, la legge finanziaria per il 2007 della Regione Lazio[491] hanno introdotto un esplicito riferimento all’inserimento nelle leggi di clausole valutative volte a facilitare le funzioni di controllo e valutazione dei Consigli regionali.
Sono ormai numerose le leggi che in diverse Regioni contengono clausole valutative, mentre l’elemento di novità dell’accordo sembra doversi rintracciare nell’estensione della loro applicazione alle leggi statali. Queste ultime già oggi, in qualche caso, contengono clausole valutative, per lo più volte a specificare, almeno parzialmente, i contenuti delle relazioni che il Governo è obbligato a trasmettere al Parlamento, senza però che quest’ultimo abbia sviluppato un’autonoma riflessione in materia.
Gli articoli 10 e 11 si connettono strettamente agli articoli 2-7, rispettivamente dettando i criteri e le modalità procedurali di AIR e VIR ed affrontando la decisiva questione delle strutture di supporto.
L’articolo 10 prevede, al comma 1, che i metodi di analisi ed i modelli di AIR, nonché i metodi relativi alla VIR siano adottati con atti della Conferenza unificata e siano sottoposti a revisione con cadenza semestrale. E’ una previsione diversa da quanto stabilisce l’articolo 14, comma 6, della legge n. 246/2005, il quale recita: “I metodi di analisi e i modelli di AIR, nonché i metodi relativi alla VIR, sono adottati con direttive del Presidente del Consiglio dei ministri e sono sottoposti a revisione, con cadenza non superiore al triennio”.
Il comma 2 dell’articolo 10 fa carico alle amministrazioni competenti a presentare l’iniziativa normativa (sembrerebbe da intendersi alle amministrazioni dello Stato) non soltanto di provvedere all’AIR ma anche alla periodica comunicazione dell’analisi stessa alla Conferenza unificata. Non risulta chiarissimo, almeno ad una prima lettura, il motivo ispiratore di questo obbligo di trasmissione.
Il comma 3 dell’articolo 10 riproduce esattamente il contenuto del primo periodo del comma 9 dell’articolo 14 della citata legge n. 246/2005, demandando alle amministrazioni l’individuazione dell’ufficio responsabile del coordinamento delle attività connesse all’effettuazione dell’AIR e della VIR.
L’articolo 11 sancisce l’impegno di Stato, Regioni e Province autonome “a costituire adeguate strutture di supporto o altri centri di responsabilità per la redazione di atti normativi e per l’espletamento di attività di analisi di impatto della regolamentazione ex ante (AIR), di analisi di fattibilità, di verifica dell’impatto della regolamentazione ex post (VIR) sui medesimi provvedimenti”. A tali strutture è demandato anche il compito di svolgere “attività di coordinamento dell’esercizio delle rispettive competenze normative” e di perseguire “attività di interesse comune in tema di semplificazione, riassetto normativo e qualità della regolazione”. Sia a livello statale sia a livello regionale sono da tempo funzionanti strutture dedicate alla redazione di atti normativi; per la parte relativa al supporto alla valutazione di impatto, la disposizione va letta in combinato disposto con il comma 3 dell’articolo 10.
Il tema della semplificazione normativa, nella visuale fatta propria, con qualche sovrapposizione e differenza, dall’accordo, è trattato, a livello statale, nell’articolo 107 della legge finanziaria per il 2001 e, da ultimo, nell’articolo 2, comma 584, della legge finanziaria per il 2008, nonché nell’articolo 14, commi 12-24, della citata legge n. 246 del 2005. A livello regionale, numerosi statuti fanno riferimento alle attività di semplificazione normativa, con specifico riguardo alla redazione di testi unici.
Al comma 1 dell’articolo 8, lo Stato, le Regioni e le Province autonome “si impegnano a ridurre progressivamente e costantemente il numero delle leggi vigenti, al fine di raggiungere equilibri ottimali fra regolazione e autoregolazione”. Il comma 2 esplicita le modalità per la realizzazione di tale impegno limitatamente alle Regioni, le quali “adottano testi unici e codici ovvero ricorrono alla delegificazione”. Si segnala, in proposito, che gli statuti regionali fanno esclusivo riferimento ai testi unici: l’adozione di codici costituirebbe una novità che dovrebbe essere disciplinata anche con opportune modifiche ed integrazioni statutarie.
Nulla viene detto, invece, circa la realizzazione dell’impegno da parte dello Stato, che si sta muovendo, sostanzialmente, con due approcci di tipo diverso:
a) un approccio di tipo settoriale, che negli ultimi anni ha portato all’approvazione di un certo numero di testi di riordino, di volta in volta ispirati alla filosofia del testo unico, del testo unico misto e del codice;
b) un approccio di tipo generale, che ha trovato la propria espressione normativa nell’articolo 14, commi 12-24, della legge n. 246 del 2005, con un meccanismo giornalisticamente definito “taglia-leggi” (vedi scheda Il “taglia-leggi”, pag. 401).
Sullo stesso ambito di attività incide l’articolo 8 dell’accordo, con due distinte previsioni, contenute rispettivamente ai commi 3 e 5:
- il comma 3 sancisce l’impegno dello Stato, delle regioni e delle province autonome “ad istituire una banca dati della normativa primaria e secondaria da costituirsi presso la Conferenza Stato-regioni, individuando all’uopo gli strumenti legislativi ed amministrativi necessari”, e “coordinando le loro azioni con le iniziative già in corso per l’istituzione di banche dati gestite d’intesa fra Parlamento e Consigli regionali”;
- il comma 5 sancisce l’impegno, in parte convergente con il precedente, in parte all’apparenza dissonante, “ad implementare le iniziative volte alla informatizzazione della legislazione vigente, tenendo conto del ruolo del Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie locali ed in coordinamento con quanto previsto dall’art. 107 della legge 23 dicembre 2000, n. 388”.
L'articolo 9 dell'accordo ha per oggetto la misurazione e riduzione degli oneri amministrativi.
Vi si formula l'impegno per lo Stato e le regioni di ridurre gli oneri amministrativi del 25 per cento entro il 2012.
E', questo, il primo atto in cui si 'recepisca' nell'ordinamento italiano tale impegno, già concordato, in sede di Unione europea, nella riunione del Consiglio dei ministri europeo, svoltosi a Lisbona l’8-9 marzo 2007.
Gli oneri amministrativi sono definibili come i costi sostenuti dalle imprese, dal terzo settore, dalle pubbliche amministrazioni e dai cittadini per soddisfare l’obbligo giuridico di fornire informazioni sulle proprie attività, alle autorità pubbliche o ai privati.
L’articolo 14 sancisce al comma 1 l’impegno dello Stato, delle regioni e delle province autonome “ad unificare i manuali statali e regionali in materia di drating di testi normativi, prevedendo, altresì, idonei sistemi di monitoraggio degli stessi mediante la creazione di un indice di qualità nonché l’utilizzo di formule standard riferite a fattispecie normative tipiche”.
Il comma 2 del medesimo articolo indica gli elementi di drafting e linguaggio normativo che devono essere considerati nell’opera di unificazione dei manuali.
L’articolo 15 sancisce l’impegno “ad adottare i piani di azione e le leggi in materia di qualità della regolamentazione nel rispetto dei principi dettati dall’accordo”.
L’impegno all’unificazione dei manuali di drafting fa seguito a quello analogo assunto dalle Assemblee legislative statali e regionali in occasione della già richiamata riunione interistituzionale dell’8 novembre 2004, in un ambito – quello della tecnica legislativa – tipicamente proprio degli organi parlamentari.
I due manuali attualmente in uso a livello statale ed a livello regionale hanno avuto distinte modalità di approvazione e sono frutto di diversi approcci.
A livello statale, le “Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi” costituiscono oggetto di tre identiche circolari emanate contestualmente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dalle Presidenze delle due Camere il 20 aprile 2001, in sostituzione di analoghe circolari adottate nel 1986. Il manuale nasce da una collaborazione ed un’intesa tra le istituzioni che esercitano il potere esecutivo e le istituzioni che esercitano il potere legislativo ed individua criteri comuni e condivisi.
Come sottolineato già nel titolo, le circolari si compongono di indicazioni dal carattere prescrittivo (regole) e di raccomandazioni concernenti struttura ed articolazione degli atti legislativi, nonché i rapporti tra atti normativi.
Peculiare caratteristica delle circolari statali è la loro sinteticità, se confrontate con l’analogo manuale in uso a livello regionale.
A quest’ultimo livello, la terza edizione del manuale recante “Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi” è il frutto di una approfondita attività svolta da un gruppo di lavoro istituito nel giugno 2006 dalla Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, in accordo con l’Osservatorio legislativo interregionale (cui partecipa personale non solo dei Consigli ma anche delle Giunte). Il manuale è stato poi adottato dalla Conferenza medesima il 18 febbraio 2008.
L’articolo 12 è dedicato al tema della formazione del personale, con specifico riguardo a quello operante nelle strutture tecnico-legislative. La formazione può essere articolata in due cicli: uno di base ed uno a carattere specialistico, incentrato sulle tecniche di analisi di impatto, che necessitano di adeguate professionalità da formare.
Gli ultimi due articoli concernono il monitoraggio sullo stato di attuazione dell’accordo, demandato ad un tavolo tecnico paritetico Stato-Regioni, con la partecipazione degli enti locali ed una clausola di invarianza della spesa.
Semplificazione e qualità delle norme
Il 28 giugno 2007 i Presidenti del Senato e della Camera e il Coordinatore della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome hanno siglato un protocollo di intesa volto ad istituire un comitato di raccordo tra il Parlamento e le Assemblee regionali.
Il comitato è costituito da tre deputati e tre senatori, designati dai Presidenti delle Camere, e da tre Presidenti dei Consigli regionali. Fa parte del comitato il Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali e possono essere invitati a partecipare tre deputati del Parlamento europeo designati dal Presidente tra i rappresentanti italiani.
La segreteria del comitato è assicurata congiuntamente dagli uffici delle Camere e dal Segretariato della Conferenza.
Il comitato svolge funzioni di consultazione e di approfondimento in merito ai rapporti tra i diversi livelli territoriali, al ruolo degli organi rappresentativi nei processi decisionali, all’organizzazione ed al funzionamento delle Assemblee, nonché con riguardo ai metodi della legislazione tra Stato e Regioni, riferendo, da un lato, ai Presidenti delle Camere, e, dall’altro, alla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee regionali.
La sigla del protocollo e l’istituzione del comitato segnano un salto di qualità nella collaborazione tra le Assemblee legislative, che si è andata intensificando anche a seguito delle riforme costituzionali del 1999 e del 2001, le quali hanno ridisegnato i ruoli dello Stato e delle Regioni e, all’interno delle Regioni, gli equilibri della forma di governo.
Di seguito si elencano le iniziative che il Comitato è chiamato a promuovere, tratteggiando la cornice entro la quale esse si innestano:
· iniziative di studio e approfondimento tra le amministrazioni delle Assemblee e gli istituti di ricerca scientifica, a partire dalla formazione del Rapporto annuale sulla legislazione.
L’elaborazione del Rapporto annuale sulla legislazione è stata promossa dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati fin dalla sua nascita nel 1998. Attorno al rapporto il Comitato ha intessuto e consolidato rapporti sempre più intensi e costanti con il sistema delle Assemblee regionali.
Il rapporto analizza, assumendo di anno in anno una diversa prospettiva, le dinamiche di interrelazione tra i diversi livelli di produzione normativa. Alla sua redazione partecipano gli uffici dei Consigli regionali, l’Osservatorio sulle fonti dell’Università di Firenze e l’Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie del CNR.
La presentazione del rapporto avviene in occasione di riunioni interistituzionali. Il Rapporto 2006 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea è stato presentato nell’ambito di una riunione interistituzionale, svoltasi presso la Sala della Lupa della Camera dei deputati il 22 gennaio 2007, la quale ha dato avvio ad una intensificazione dei rapporti tra tutte le Assemblee legislative.
In particolare, sulla base degli indirizzi concordati il 22 gennaio, si è dato vita dapprima a cinque commissioni di studio interregionali per la riforma dei regolamenti delle Assemblee e della connessa legislazione e si è poi siglato, il 28 giugno, il protocollo di intesa qui esaminato[492];
· la collaborazione e lo scambio di esperienze nel campo della innovazione delle procedure di Assemblea e della organizzazione delle strutture di supporto alle Assemblee, con specifico riguardo, tra l’altro, a:
- l’armonizzazione delle fonti dell’ordinamento regionale e l’equilibrio nei rapporti tra gli organi che compongono la forma di governo regionale;
- il rafforzamento dell’istituzione e dell’autonomia organizzativa e funzionale delle Assemblee legislative;
- lo sviluppo e l’integrazione delle funzioni legislative, di indirizzo e di controllo nell’ambito delle politiche complesse;
- lo sviluppo delle procedure relative ai rapporti tra i diversi livelli territoriali, con specifico riguardo alla partecipazione alla fase ascendente e discendente di formazione del diritto comunitario. In questo ambito, in particolare, rientrano l’attuazione della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari) e l’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, anche nella prospettiva di quanto stabilito dal protocollo allegato al Progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa;
- lo sviluppo degli strumenti di partecipazione, comunicazione e informazione tra le Assemblee legislative, i cittadini, le Comunità territoriali ed altre istituzioni;
- lo sviluppo e il coordinamento delle tecniche di buona legislazione.
L’ambito della collaborazione tra le Assemblee legislative qui richiamato investe molteplici profili, in una prospettiva finalizzata a rafforzare il ruolo delle Assemblee legislative e lo sviluppo degli strumenti di partecipazione in un sistema, ispirato al principio di sussidiarietà:
- che si dispiega su più livelli (comunitario, statale e regionale), ciascuno dei quali è titolare di una quota del processo decisionale;
- che ha visto, a livello regionale, a partire dalla metà degli anni Novanta e più intensamente con i successivi processi di riforma costituzionale (1999 e 2001), una forte dinamicità e responsabilizzazione delle Giunte e, frequentemente, una difficoltà dei Consigli nell’incidere sulle politiche regionali;
- nel quale le diverse funzioni delle Assemblee (funzioni legislative, di indirizzo e di controllo) necessitano di sempre maggiore integrazione nell’ambito di politiche complesse, nelle quali alla legge si affiancano altri strumenti.
Più nel dettaglio:
- l’armonizzazione delle fonti fa riferimento alla necessità di individuare, nell’ambito dell’ordinamento regionale, la fonte idonea alla disciplina dei diversi aspetti che concorrono a formare l’assetto istituzionale (a partire dalla forma di governo) in coordinamento con le altre fonti, promuovendo le necessarie connessioni tra statuti, leggi e regolamenti interni consiliari;
- “lo sviluppo e l’integrazione delle funzioni legislative, di indirizzo e di controllo nell’ambito delle politiche complesse” fa riferimento ad una visione integrata di tali funzioni, che concorrono a processi complessi, dei quali costituiscono parti integranti l’istruttoria legislativa, le attività di indirizzo ed infine il controllo sull’attuazione e la valutazione degli effetti delle leggi;
- il riferimento allo “ sviluppo e il coordinamento delle tecniche di buona legislazione” investe un campo di azione tipico delle Assemblee legislative e fa seguito all’impegno all’unificazione dei manuali di drafting in uso – rispettivamente – presso le istituzioni statali e regionali, già assunto dalle Assemblee legislative statali e regionali in occasione della riunione interistituzionale tenutasi l’8 novembre 2004.
I due manuali in materia di drafting attualmente in uso a livello statale ed a livello regionale hanno avuto distinte modalità di approvazione e sono frutto di diversi approcci.
A
livello statale, le “Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei
testi legislativi” costituiscono oggetto di tre identiche circolari emanate
contestualmente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dalle Presidenze
delle due Camere il 20 aprile
A livello regionale, la terza edizione del manuale recante “Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi” è il frutto di una approfondita attività svolta da un gruppo di lavoro istituito nel giugno 2006 dalla Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, in accordo con l’Osservatorio legislativo interregionale (cui partecipa personale non solo dei Consigli ma anche delle Giunte). Il manuale è stato poi adottato dalla Conferenza medesima il 18 febbraio 2008;
· la creazione di sistemi informativi comuni.
Si tratta di un tema che assume peculiare rilievo nell’ottica della collaborazione tra le Assemblee legislative, anche con specifico riguardo alla partecipazione ai processi normativi di derivazione comunitaria, sia in fase ascendente, sia in fase discendente;
· la informatizzazione degli strumenti per la consultazione, la ricerca e il riordino della legislazione vigente.
L’articolo 107 della legge 23 dicembre 2000,
n. 388 ha istituito presso
- facilitarne la ricerca e la consultazione gratuita da parte dei cittadini;
- fornire strumenti per l’attività di riordino normativo.
Da ultimo, l’articolo 2, comma 584 della legge n. 244/2007 (legge finanziaria per il 2008) reca alcune disposizioni tendenti a dare nuovo impulso alle attività di informatizzazione della normativa vigente.
A tal fine, per quanto riguarda il finanziamento del progetto, si stabilisce che:
- i fondi relativi ai precedenti esercizi finanziari, che, non essendo stati impegnati, hanno costituito avanzo di bilancio e sono confluiti, sulla base delle specifiche regole di contabilità della Presidenza del Consiglio, nel fondo di riserva previsto dall’articolo 12 del D.P.C.M. 9 dicembre 2002[493], per essere riutilizzati per altre finalità, rimangano destinati, in via prioritaria, al completamento delle attività di informatizzazione della normativa statale vigente e, in via residuale, alle restanti attività previste;
- tali fondi sono inoltre aumentati di 500.000 euro annui per ciascuno degli anni dal 2008 al 2010.
La disposizione in esame attribuisce ulteriori finalità al programma, rispetto a quelle originariamente previste, e più specificamente:
· il coordinamento dei programmi di informatizzazione e classificazione della normativa regionale;
· l'adeguamento agli standard dell'Unione europea per quanto riguarda le classificazioni in uso nelle banche dati normative pubbliche;
· l’adozione di linee guida per la promulgazione e pubblicazione telematica degli atti normativi nell’ottica del superamento dell’edizione a stampa della Gazzetta Ufficiale.
· Con un’ulteriore innovazione rispetto all’attuale disciplina, il comma 584 affida ad un responsabile, nominato d’intesa dal Presidente del Consiglio e dai Presidenti delle due Camere, il coordinamento dell’attuazione presso le amministrazioni pubbliche dei programmi di informatizzazione della legislazione vigente; il responsabile assicura anche il collegamento con le attività in corso per l’attuazione dell'art. 14 della L. 246/2005 (relative alla ricognizione delle disposizioni legislative statali vigenti, nell’ambito del cosiddetto “taglia-leggi”) (vedi scheda Il “taglia-leggi”, pag. 401), e con le attività delle amministrazioni statali centrali inerenti alla pubblicazione degli atti normativi e alla standardizzazione dei criteri per la classificazione dei dati legislativi.
All'attuazione dei programmi partecipano rappresentanti del CNIPA e, per quanto riguarda la normativa regionale, rappresentanti designati dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome. Il coordinatore riferisce al Parlamento annualmente, mediante una relazione, sullo stato di attuazione dei programmi;
· la trasmissione della documentazione tra le Assemblee legislative.
L’obiettivo indicato dal protocollo sembra riferirsi, oltre che all’invio (materiale o informatico) della documentazione, anche e soprattutto alla reciproca messa a disposizione di materiale documentale, che sta già trovando una prima implementazione a livello sperimentale attraverso l’accesso ai rispettivi siti internet ed alla creazione, nel sito della Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali, di un’area riservata cui possono accedere tutte le Assemblee;
· l’attività di formazione del personale.
Si tratta di un altro ambito di attività già sperimentato sia attraverso apporti formativi della Camera e del Senato al personale delle Regioni sia attraverso corsi di formazione organizzati dalla Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali a favore di più Assemblee legislative. Proprio la Conferenza potrebbe costituire, in prospettiva, il punto di snodo per iniziative di formazione condivise tra i Consigli regionali.
Il comitato paritetico si è insediato il 19 febbraio 2008, esprimendo l’auspicio che, a seguito del rinnovo dei componenti di designazione parlamentare, possa continuare il lavoro già intrapreso e che siano presi in considerazione i temi di cooperazione già elaborati, approfondendo lo studio e le prospettive di sinergia sulle problematiche relative:
- alla revisione dei regolamenti d’Assemblea;
- alla formazione degli atti normativi europei;
- alle procedure di bilancio ed al rafforzamento del controllo delle Assemblee sulla spesa pubblica;
- ai metodi della legislazione, con particolare riferimento alle grandi politiche pubbliche che attraversano i livelli territoriali.
Semplificazione e qualità delle norme
La qualità della regolazione è divenuta in diversi Paesi europei (per impulso dell'OCSE e quindi dell'Unione europea) oggetto di specifiche politiche pubbliche.
I principali strumenti sono:
· la semplificazione normativa;
· l'analisi di impatto della regolamentazione;
· la riduzione degli adempimenti amministrativi per i cittadini e le imprese (e più in generale la semplificazione amministrativa).
Essi hanno trovato in Italia un momento unitario nel Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione, approvato dal Governo il 15 giugno 2007 e trasmesso alle Camere il 20 luglio dello stesso anno.
Tale momento programmatorio è stato previsto dal decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, recante "Misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione" (convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80), che all'articolo 1, comma 2, statuisce che il Piano di azione ogni anno sia, sentito il Consiglio di Stato, approvato dal Consiglio dei ministri e trasmesso al Parlamento.
Il Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2008-2011, presentato dal Governo alle Camere il 29 giugno 2007, al paragrafo V. 5, dedicato al tema della semplificazione normativa e amministrativa, fa riferimento al piano come lo strumento “che definisce il collegamento tra obiettivi strategici, azioni necessarie al loro conseguimento e verifica dei risultati”.
A predisporre il Piano è il Comitato interministeriale per l'indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione (istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in data 12 settembre 2006) (vedi scheda Organismi governativi per la semplificazione, pag. 367).
Il Piano può considerarsi come un memorandum delle priorità del Governo in materia di semplificazione e qualità della regolazione: una tavola riassuntiva dei compiti attuativi che, in tempi ravvicinati (l’orizzonte temporale è il biennio 2007-2008), incombono sull’esecutivo. Le sue previsioni sono riconducibili a due preminenti temi: la riduzione degli oneri amministrativi; altre modalità di miglioramento qualitativo della regolamentazione.
Una specifica sezione del Piano concerne il miglioramento della regolamentazione, trattato in una poliedrica prospettiva:
· la riduzione dello stock di norme vigenti;
· la riduzione del flusso di nuove norme;
· il perfezionamento dell'analisi di impatto della regolamentazione;
· l’unificazione delle regole per la stesura dei testi normativi.
Non manca un cenno alla macchinosità procedurale (già nella fase endogovernativa di sua progettazione) propria della legge annuale di semplificazione. Per questa, è formulato l'intendimento di una revisione del procedimento di approvazione (dunque con modifica della legge n. 59 del 1997 - in particolare l'articolo 20 - che ha 'istituzionalizzato' quello strumento ai fini della semplificazione di procedimenti amministrativi).
Riduzione dello stock e del flusso di norme sono profili concettualmente distinti ma tra loro intrecciati, nell'approccio cui si ispira il Piano.
A rendere conto di questa connessione, può valere una 'duplicità' di previsione propria del dispositivo dell'articolo 14 della legge n. 246 del 2005, il quale: da un lato, prevede un meccanismo cosiddetto 'taglia-leggi' (di abrogazione generalizzata delle norme ricavabili dalle disposizioni legislative statali entrate in vigore prima del 1° gennaio 1970, "anche se modificate con provvedimenti successivi", le quali non siano ricomprese dal Governo, con appositi decreti legislativi, tra le norme da mantenere in vigore) (vedi scheda Il “taglia-leggi, pag. 401); dall'altro, investe la semplificazione e il riassetto (cui il Governo è del pari delegato) della materia di volta in volta oggetto di sfoltimento normativo.
Per quanto riguarda il flusso di nuove norme, il Piano sottolinea che "la 'pesantezza' dello strumento legislativo impone di considerarlo quale extrema ratio cui ricorrere solo quando tutti gli altri mezzi giuridici disponibili si siano rivelati insufficienti".
E' dunque affermato un criterio di residualità del ricorso all'ordinario processo normativo legislativo.
Medesimo criterio è palesato nella circolare del Presidente del Consiglio dei ministri dell'11 aprile 2007, che nell'indicare l'inflazione normativa quale disvalore, da contenere pertanto, evidenzia che a tal fine "è però necessario, ancor prima di eliminare la normativa superflua esistente, evitare il ricorso eccessivo e immediato alla produzione di nuove disposizioni, soprattutto di rango legislativo".
Come già accennato, tra gli strumenti volti a migliorare la qualità della regolamentazione figura l'analisi di impatto della regolamentazione (AIR nell’acronimo).
L'AIR consiste nella valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo, ricadenti sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull'organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni.
Introdotta nell'ordinamento italiano dalla legge n. 50 del 1999, attuata in via sperimentale sulla scorta di due direttive del Presidente del Consiglio (del 27 marzo 2000 e del 21 settembre 2001) e di una "Guida alla sperimentazione dell'analisi di impatto della regolamentazione", l'AIR ha avuto la sua prima attuazione nell'arco della XIV legislatura.
L’articolo 14, commi 1-11, della legge n.
246 del
L'intento del Piano è quello di "rendere tale strumento più agile e di facile utilizzo, ampliandone progressivamente l'applicazione che, nel medio termine, diventerà costante".
A tale fine, si prospetta una semplificazione dell'analisi di impatto, limitata all'illustrazione dei seguenti elementi: rispetto del principio "precauzionale" (ossia, pare di intendere, di ineludibilità e proporzionalità dell'intervento normativo); quadro regolatorio vigente; analisi dei problemi e delle esigenze; descrizione del settore di intervento e dei soggetti portatori di interessi nonché delle amministrazioni pubbliche coinvolte; indicazione dei principali "vantaggi e svantaggi" attesi dall'intervento normativo.
L'analisi di impatto della regolamentazione verrebbe in tal modo semplificata, con la soppressione di alcuni suoi (invero connotanti) profili, quali la comparazione delle opzioni ed il vaglio in termini di costi e benefici.
Posta l'inerenza ad altri momenti illustrativi (come la relazione del disegno di legge o l'analisi tecnico-normativa) di molti degli elementi sopra ricordati, l'analisi di impatto nella sua versione semplificata verrebbe ad avere, come contenuto specifico proprio, la 'catalogazione' dei soggetti portatori di interessi e la determinazione di una maggiore evidenza empirica (tratta da banche dati, indagini statistiche, rapporti ecc.) su cui si fondi la decisione.
Il Piano prevede la realizzazione di una “Carta della qualità della regolazione”, di raccolta e catalogazione del corpus delle disposizioni che regolano la materia della produzione normativa e della qualità della regolazione, da attuarsi entro il 31 marzo 2008.
L’obiettivo volto ad ottenere una elevata qualità della regolazione è supportato anche dalla ricerca di omogeneità nella tecnica di produzione normativa, ovvero dall’applicazione di regole uniformi di drafting.
A tale obiettivo, nell’ottica di una "unificazione dei manuali statali e regionali" in materia di drafting, si fa cenno nella parte del Piano riguardante l’analisi d’impatto e la redazione dei testi.
Esso si iscrive evidentemente nella cornice tracciata dal citato Accordo in sede di Conferenza unificata (vedi scheda L’accordo Stato-Regioni sulla semplificazione, pag. 372), il quale, all’articolo 14, sancisce al comma 1 l’impegno dello Stato, delle Regioni e delle Province autonome “ad unificare i manuali statali e regionali in materia di drafting di testi normativi, prevedendo, altresì, idonei sistemi di monitoraggio degli stessi mediante la creazione di un indice di qualità nonché l’utilizzo di formule standard riferite a fattispecie normative tipiche”.
L’impegno all’unificazione dei manuali di drafting sancito nell’Accordo e ripreso
dal Piano fa seguito a quello analogo assunto dalle Assemblee legislative statali
e regionali in occasione della riunione interistituzionale tenutasi l’8
novembre 2004 e rilanciato dal Protocollo di intesa siglato il 28 giugno
Ampia parte delle linee d'azione del Piano concerne la riduzione degli oneri amministrativi.
Anche per tale riguardo, scopo del Piano è la ricognizione degli obiettivi generali e settoriali che il Governo intende realizzare, indicandone i soggetti responsabili, le azioni necessarie, i tempi di conseguimento.
Quale atto programmatico il Piano non reca, salvo alcune eccezioni, "una indicazione dettagliata degli strumenti per conseguire i risultati. La scelta di tali strumenti è pertanto in gran parte lasciata ai singoli Ministeri in fase di direttiva ai propri uffici di gabinetto, legislativi e amministrativi, per l'attuazione del piano" (evidenzia il Consiglio di Stato nel suo parere).
La strategia del Governo annette rilevanza alla semplificazione (nell'intento di passare dalla semplificazione “annunciata” alla semplificazione “percepita”, mediante una lettura delle norme in una logica di risultato), ritenuta necessaria per alimentare la competitività del Paese. Ad essa concorrono lo Stato, le amministrazioni territoriali e i cittadini, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale cooperazione.
La politica di semplificazione si intreccia, nel disegno del Piano, con quelle di liberalizzazione delle attività economiche e di modernizzazione delle pubbliche amministrazioni.
In quella politica si iscrive la riduzione degli oneri amministrativi: definibili quali i costi sostenuti dalle imprese, dal terzo settore, dalle pubbliche amministrazioni e dai cittadini per soddisfare l’obbligo giuridico di fornire informazioni sulle proprie attività, alle autorità pubbliche o ai privati.
Il tema della riduzione degli oneri amministrativi ha riscosso attenzione nel Consiglio europeo riunitosi a Bruxelles l'8-9 marzo 2007.
Le conclusioni della Presidenza, rese al suo termine, così recitano:
“Il Consiglio europeo sottolinea che la riduzione degli oneri amministrativi costituisce una misura importante per stimolare l'economia europea, specialmente attraverso il suo impatto sulle piccole e medie imprese. È necessario un forte sforzo congiunto per ridurre in maniera significativa gli oneri amministrativi all'interno dell'Unione europea. Il Consiglio europeo concorda pertanto sulla necessità di ridurre del 25 per cento entro il 2012 gli oneri amministrativi derivanti dalla legislazione dell'Unione europea.
Tenendo
conto delle diverse posizioni iniziali e tradizioni, il Consiglio europeo
invita gli Stati membri a fissare i loro obiettivi nazionali con livello di
ambizione comparabile nei rispettivi ambiti di competenza entro il
Il Piano recepisce le indicazioni del Consiglio europeo, individuando l'obiettivo nazionale di riduzione degli oneri amministrativi.
Insieme, vi si individua una specifica azione volta alla misurazione degli oneri amministrativi (secondo la metodologia dello EU Standard Cost Model predisposto dagli organi comunitari).
Attraverso un programma pluriennale di misurazione degli oneri amministrativi, saranno individuate le aree prioritarie d’intervento e le conseguenti misure di riduzione.
Il Piano individua le aree prioritarie di misurazione per il 2007 (privacy; ambiente; paesaggio e beni culturali; fisco e dogane; sicurezza civile; codice della navigazione; previdenza e contributi) e pone l’obiettivo di riduzione degli oneri amministrativi entro il 2008.
Le sette materie indicate nel Piano, innanzi rammentate, sono parzialmente diverse rispetto a quelle individuate dalla Commissione europea nell’ambito del suo piano di riduzione degli oneri amministrativi (diritto societario; legislazione farmaceutica; ambiente di lavoro e rapporti di lavoro; legislazione fiscale; statistiche; agricoltura e sovvenzioni agricole; sicurezza alimentare; trasporti; pesca; servizi finanziari; ambiente; politica di coesione; appalti pubblici).
Il programma di misurazione degli oneri
secondo il Piano avrà ad oggetto la regolazione di origine statale e regionale
(quest’ultima in attuazione dell’Accordo tra lo Stato e gli enti territoriali
del 29 marzo
Il Piano fissa l’obiettivo di riduzione media degli oneri nelle aree prioritarie “in linea e con l’obiettivo non inferiore al 25% entro il 2012 di riduzione degli oneri amministrativi derivanti dalla regolazione di origine comunitaria”.
Il Piano d’azione prosegue con l’indicazione delle azioni e degli obiettivi di riduzione degli oneri amministrativi per le imprese e per i cittadini.
Esso mira a riannodare in un quadro unitario un insieme di linee di azione, connesse all’attuazione di leggi approvate, a disegni di legge d'iniziativa governativa presentati nel corso della legislatura (il cui esame non si è concluso), a delegificazione di norme vigenti.
Per il settore delle imprese sono previsti interventi in materia di:
· comunicazione unica per la nascita dell’impresa;
· semplificazione degli adempimenti per il rilascio del certificato di prevenzione incendi;
· abolizione e semplificazione degli adempimenti amministrativi per i nuovi impianti produttivi;
· semplificazione dei controlli sulle imprese con certificazione ambientale;
· semplificazione dei procedimenti in favore dell’imprenditoria femminile;
· semplificazione e razionalizzazione di adempimenti connessi alle registrazioni previste dalla normativa antiriciclaggio;
· semplificazione della procedura per il riconoscimento di agevolazioni fiscali in ordine alle spese per gli interventi a favore del patrimonio culturale.
La riduzione degli oneri amministrativi per i cittadini riguarda:
· comunicazione unica per il cittadino e semplificazione degli adempimenti anagrafici;
· semplificazione dei processi per gli immigrati e semplificazione delle procedure di concessione della cittadinanza italiana;
· semplificazione degli adempimenti connessi alla tutela della salute;
· continuità assistenziale e diffusione del protocollo di dimissione protetta;
· riduzione dei tempi per la risoluzione delle controversie in materia di danni causati da interventi clinici;
· semplificazione del regime di circolazione giuridica degli autoveicoli;
· riduzione degli oneri per i consumatori.
La parte IV del Piano d’azione, intitolata “Riduzione e certezza dei tempi”, è dedicata all’attività di snellimento dei procedimenti amministrativi e alla certezza dei tempi di conclusione.
L'intento era quello di creare le condizioni per l’applicazione del disegno di legge C. 2161, “Modernizzazione, efficienza delle amministrazioni pubbliche e riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese”, approvato dalla sola Camera dei deputati, che apporta modifiche a vari articoli della legge n. 241 del 1990 (recante le norme generali che regolano l’attività amministrativa).
La quinta sezione del Piano, relativa alla “Reingegnerizzazione dei processi” individua i seguenti ambiti, la cui rilevanza rende urgente un intervento di potenziamento nell’utilizzo delle tecnologie informatiche, seguito, ove necessario, anche da proposte di modifica della normativa vigente:
a) utilizzo esclusivo della posta elettronica nelle comunicazioni tra amministrazioni centrali;
b) accesso alle banche dati delle amministrazioni centrali ed eliminazione dei certificati;
c) processo telematico;
d) pagamenti elettronici
e) Conferenza di servizi telematica;
f) riorganizzazione dell’assistenza primaria attraverso la casa della salute;
g) fascicolo sanitario personale elettronico e servizi sanitari: prenotazione, prescrizione, referto on-line;
h) reingegnerizzazione dei processi gestionali delle pubbliche amministrazioni
Rilevante è la parte del Piano concernente la semplificazione entro le Regioni e gli enti locali. A tal riguardo, si mira a dare impulso alle pratiche di better regulation a livello regionale e degli enti locali, in termini di semplificazione normativa così come amministrativa (anche con individuazione di "livelli minimi di semplificazione" e di "livelli massimi di oneri burocratici" e correlativa individuazione di moduli procedimentali tipo), nonché di analisi di impatto e di migliore redazione dei testi (per la quale si fa cenno ad una "unificazione dei manuali statali e regionali" in materia di drafting).
Sono previsti interventi di supporto
all’attuazione del Piano d’azione nel suo complesso, tramite interventi di
comunicazione, volti a diffondere i risultati raggiunti; interventi di
consultazione, per raccogliere indicazioni sull’attuazione del Piano e definire
le modalità di consultazione per il Piano 2008; interventi per mettere a punto
modelli di formazione ed azioni di accompagnamento all’implementazione del
Piano, in collaborazione con il FORMEZ,
Semplificazione e qualità delle norme
Il 13 luglio 2007
Tale disposizione stabilisce che il Presidente del Consiglio presenti al Parlamento, entro il 30 aprile di ciascun anno, una relazione sullo stato di applicazione dell’AIR, sulla base dei dati e degli elementi informativi necessari forniti (entro il 31 marzo) da tutte le amministrazioni al Dipartimento Affari giuridici e legali della Presidenza del Consiglio (DAGL), chiamato ad un coordinamento generale in materia.
L’imposizione di questo adempimento si colloca in un contesto di riforma della disciplina sull’analisi di impatto, contenuta nell’articolo 14, commi 1-9, della citata legge n. 246/2005, in base ai quali:
§ l’AIR è definita come la “valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo ricadenti sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, mediante comparazione di opzioni alternative”, costituendo quindi “un supporto alle decisioni dell’organo politico di vertice dell’amministrazione in ordine all’opportunità dell’intervento normativo”;
§ sono soggetti all’AIR tutti gli schemi di atti normativi del Governo, salvo i casi di esclusione previsti dai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri cui la legge demanda la definizione nel dettaglio della normativa in materia;
§ all’analisi preventiva di impatto si affianca la verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR), la quale consiste “nella valutazione, anche periodica, del raggiungimento delle finalità e nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni”.
Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri sopra citati e delle direttive riguardanti i metodi relativi all’AIR ed alla VIR, la seconda non è ancora partita e la prima non è decollata.
La relazione trasmessa dal DAGL traccia un bilancio in chiaroscuro, che poggia sui seguenti elementi positivi:
§ tutte le Amministrazioni, ai sensi dell’articolo 14, comma 9, della legge n. 246 del 2005, “hanno provveduto ad individuare l’ufficio responsabile del coordinamento delle attività connesse all’effettuazione dell’AIR di rispettiva competenza, indicando quale referente istituzionale l’Ufficio Legislativo. In alcuni casi, all’interno dello stesso Ufficio Legislativo, sono stati individuati in maniera più specifica i funzionari, referenti per le attività relative all’AIR” (pag. 8);
§ nell’anno 2006 gli schemi di atto normativo trasmessi dalle Amministrazioni per l’esame da parte del Consiglio dei Ministri e corredati della relazione AIR rappresentano circa il 50% del totale degli schemi di atti normativi predisposti ed esaminati, a testimonianza di un uso diffuso, anche se ancora non del tutto sistematico, di questo strumento di analisi. In particolare, le tipologie di atto per le quali le Amministrazioni più frequentemente provvedono a redigere la relazione AIR sono i disegni di legge (soprattutto di ratifica di trattati e convenzioni internazionali), i decreti legislativi e gli atti regolamentari” (pag. 8).
La relazione (pagine 12-13) cita inoltre come punto di forza la sottolineatura dell’importanza dello svolgimento dell’AIR contenuta in una lettera indirizzata dal Presidente della Camera al Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, dove si segnala l’esigenza, manifestata dal Presidente del Comitato per la legislazione, di corredare gli atti normativi di origine governativa delle relazioni tecnico-normative e di analisi di impatto della regolazione.
Gli elementi di criticità, evidenziati con chiarezza nella relazione, sono così sintetizzabili:
§ le relazioni AIR sviluppano molto di più la parte descrittiva rispetto a quella più valutativa, tendendo a “configurarsi, nella sostanza, come un’ulteriore relazione di accompagnamento allo schema di provvedimento, in aggiunta alla relazione illustrativa ed a quella tecnico-normativa”. In termini ancora più netti, esse “richiamano un approccio complessivo che configura l’analisi e le relazioni AIR come ulteriore elemento a supporto e giustificazione a posteriori delle scelte effettuate, piuttosto che come espressione di una analitica valutazione preventiva in fase di progettazione normativa” (pag. 9);
§ questo tipo di approccio sembra derivare da due ordini di difficoltà denunciate dalle Amministrazioni, con riguardo, rispettivamente, alla tipologia o alla natura dell’atto normativo ed alla metodologia dell’AIR.
Dal primo punto di vista, non tutti gli atti normativi del Governo si prestano ad essere oggetto di AIR o per il loro carattere di urgenza, che impone tempi ristretti (decreti-legge), o per la presenza di deleghe magari concernenti numerosi settori (come nel caso della legge comunitaria), che spostano, “di fatto, l’esatta valutazione dell’impatto della regolazione al momento della predisposizione degli schemi attuativi della delega” (pag. 9).
Dal punto di vista metodologico, le Amministrazioni segnalano che “l’analisi economica relativa alla regolazione e, in particolare, l’analisi costi benefici, molto rilevante nell’AIR ai fini della valutazione degli impatti economici, richiede tempi e competenze professionali non sempre disponibili all’interno delle amministrazioni” stesse (pag. 9).
A partire da questi oggettivi elementi critici e dalle esigenze manifestate dalle Amministrazioni, con specifico riguardo alla definizione di una procedura di AIR semplificata, la relazione conferma la necessità di adottare “una strategia complessiva per la qualità della regolazione, di cui l’AIR rappresenta uno strumento imprescindibile, del quale va ulteriormente affinato e potenziato l’utilizzo” (pag. 11).
La strategia complessiva viene anticipata nel Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione, predisposto dal Governo ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80 (vedi scheda Il piano d’azione per la semplificazione, pag. 386). Esso, infatti, si fa carico del problema, con l’obiettivo di rendere lo strumento dell’AIR “più agile e di facile utilizzo, ampliandone progressivamente l’applicazione che, nel medio termine, diventerà costante”.
A tale fine, si prospetta una semplificazione dell'analisi di impatto, limitata all'illustrazione dei seguenti elementi: rispetto del principio "precauzionale" (ossia, pare di intendere, di ineludibilità e proporzionalità dell'intervento normativo); quadro regolatorio vigente; analisi dei problemi e delle esigenze; descrizione del settore di intervento e dei soggetti portatori di interessi nonché delle amministrazioni pubbliche coinvolte; indicazione dei principali "vantaggi e svantaggi" attesi dall'intervento normativo.
L'analisi di impatto della regolamentazione verrebbe in tal modo semplificata, con la soppressione di alcuni suoi (invero connotanti) profili, quali la comparazione delle opzioni ed il vaglio in termini di costi e benefici.
Posta l'inerenza ad altri momenti illustrativi (come la relazione del disegno di legge o l'analisi tecnico-normativa) di molti degli elementi sopra ricordati, l'analisi di impatto nella sua versione semplificata verrebbe ad avere, come contenuto specifico proprio, la 'catalogazione' dei soggetti portatori di interessi e la determinazione di una maggiore evidenza empirica (tratta da banche dati, indagini statistiche, rapporti ecc.) su cui si fondi la decisione.
Come già accennato, l’analisi di impatto della regolazione - ex ante (AIR) ed ex post (VIR) – costituisce un capitolo importante nell’ambito delle politiche volte a migliorare la qualità della regolazione, sia a livello comunitario, sia a livello nazionale.
Il livello comunitario
L’AIR costituisce, a livello comunitario come in diversi Stati membri, uno dei principali strumenti atti a migliorare la qualità della regolazione.
L’obiettivo di migliorare la qualità normativa costituisce, dal 2005, parte integrante della strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione: la semplificazione normativa, la qualità della legislazione e l’analisi di impatto della regolazione concorrono a creare, insieme alla semplificazione degli adempimenti amministrativi a carico dei cittadini e delle imprese, le basi per accrescere la competitività. Si tratta di temi che da tempo rappresentano obiettivi strategici della Commissione, nella prospettiva di una loro condivisione da parte di tutte le istituzioni comunitarie e degli Stati membri.
Con specifico riguardoall’analisi di impatto, si rammenta che
Vi si mettono a punto le modalità per
esaminare il potenziale impatto economico, sociale, ambientale, specie dei
provvedimenti che
L’analisi di impatto, così come strutturata nelle Linee Guida, si esplica in un iter logico che si snoda attraverso le seguenti sei fasi:
1) individuazione del problema economico, sociale, ambientale;
2) selezione degli obiettivi;
Gli obiettivi dell'intervento normativo sono da configurare sì che risultino:
- specifici, ovvero descritti in modo puntuale e dettagliato, talché non siano suscettibili di diverse interpretazioni;
- misurabili, attraverso l’attribuzione di un indicatore (qualitativo o quantitativo) che consenta di verificarne ex post il conseguimento;
- comprensibili, sì che tutti i soggetti coinvolti nella loro attuazione possano intenderli nella medesima accezione;
- realistici, ovvero realizzabili con gli ordinari strumenti tecnico-giuridici;
- determinati nel tempo, ovvero riferiti ad un preciso arco temporale.
3) individuazione delle opzioni legislative;
4) individuazione del possibile impatto economico, sociale e ambientale;
5) come comparare le diverse opzioni;
6) verifica e controllo del raggiungimento degli obiettivi.
Si segnala inoltre l’insediamento, nel novembre 2006, di un Comitato delle analisi d’impatto (Impact Assessment Board-IAB), composto da alti funzionari, sotto la diretta autorità del presidente della Commissione. Il Comitato ha in primis il compito di valutare la qualità delle analisi di impatto, fornendo, ove necessario, un sostegno metodologico ai servizi responsabili.
Le valutazioni del Comitato sono pubblicate sul sito web del Comitato stesso.
Nel 2007
Nell’aprile è stato redatto, da parte della Commissione, il Rapporto sulla valutazione del sistema delle analisi d’impatto[495] con l’intento di fare il punto sul metodo applicato nel periodo 2002-2006 e di studiare eventuali miglioramenti.
Successivamente, nel giugno,
Nella Nota si sottolinea come il sistema delle analisi d’impatto, nonostante si sia dimostrato efficace nel perseguire gli obiettivi, necessiti di ulteriori miglioramenti. In particolare:
§ l’ambito applicativo delle analisi d’impatto dovrebbe essere adattato a tutte le proposte con un impatto potenzialmente maggiore o a quelle che pongono particolari problemi in ordine al principio di sussidiarietà;
§ l’attività delle analisi d’impatto dovrebbe essere rafforzata e riorganizzata in modo da garantire la loro efficacia;
§ le metodologie per l’analisi dovrebbero essere implementate;
§ l’efficacia del controllo di qualità dovrebbe essere riesaminata insieme al Comitato delle analisi di impatto; dovrebbe essere chiarito il ruolo dei differenti attori implicati nel controllo di qualità; dovrebbero essere assicurate risorse adeguate.
Infine, nel gennaio 2008, la Commissione ha presentato e trasmesso al Consiglio europeo del 13-14 marzo 2008 il Secondo esame strategico del programma per legiferare meglio nell’Unione europea[498]nel quale, oltre a riferire in merito ai risultati già acquisiti nel campo della semplificazione legislativa ed all’operato del Comitato per la valutazione d’impatto, individua e propone gli ulteriori miglioramenti da apportare.
Nelle Conclusioni approvate dalla presidenza del Consiglio europeo viene evidenziato come il miglioramento della regolamentazione debba essere considerato altamente prioritario da ogni formazione del Consiglio nelle proprie attività normative. Pertanto il Consiglio concorda sulle seguenti iniziative:
§ una intensificazione degli sforzi volti a ridurre del 25%, entro il 2012, gli oneri amministrativi derivanti dalla normativa europea;
§ una rapida adozione delle proposte legislative ancora pendenti;
§ il proseguimento dell’attuazione del programma in materia di semplificazione;
§ un maggiore sviluppo della capacità delle istituzioni UE in materia di valutazione di impatto.
Il livello nazionale
Limitandosi agli sviluppi più recenti,come già accennato, gli strumenti per la qualità della regolazione in Italia trovano un momento unitario - quanto a determinazione di obiettivi e programmazione - nel Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione.
Per venire ad un rapidissimo excursus storico, nell’ordinamento statale italiano l’analisi di impatto della regolamentazione è stata introdotta con l’articolo 5 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (legge di semplificazione 1998).
Dopo una fase di sperimentazione, la legge 28 novembre 2005, n. 246 (articolo 14, commi 1-11) ha profondamente rivisitato la materia, introducendo, a fianco dell’analisi di impatto (valutazione preventiva da effettuare nella fase istruttoria), la verifica di impatto (VIR: verifica degli effetti concretamente prodotti dalla legge).
L’articolo 12 della legge di semplificazione per il 2001 (legge n. 229/2003) ha esteso alle autorità amministrative indipendenti, cui la normativa attribuisce funzioni di controllo, di vigilanza o regolatorie, l’obbligo di dotarsi, nei modi previsti dai rispettivi ordinamenti, di metodi di analisi dell’impatto della regolamentazione per l’emanazione di atti di propria competenza e, in particolare, di atti amministrativi generali, di programmazione o pianificazione, e, comunque di regolazione.
A completare il quadro normativo, sono stati emanati due decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, entrambi del 12 settembre 2006, riguardanti uno l’istituzione ed il funzionamento del Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione, l’altro l’Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione (vedi scheda Organismi governativi per la semplificazione, pag. 367).
Infine, l’AIR costituisce anche uno temi trattati nell’Accordo tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, le Province, i Comuni e le Comunità Montane in materia di semplificazione e miglioramento della qualità della regolamentazione (vedi scheda L’accordo Stato-Regioni sulla semplificazione, pag. 372).
L’articolo 3 dell’Accordo, tra l’altro, rimanda una disciplina generale dell’AIR nelle Regioni alle leggi regionali e ad “altri atti anche non normativi” e puntualizza, al comma 5, che “la realizzazione dell’AIR, in ogni caso, segue un principio di proporzionalità secondo cui il grado di approfondimento dell’analisi e, in particolare, la scelta della metodologia di valutazione economica da utilizzare, sono adattati al caso specifico oggetto di valutazione, sulla base di un giudizio di significatività dell’intervento proposto e di rilevanza degli effetti attesi”.
Semplificazione e qualità delle norme
Il meccanismo “taglia-leggi”
Il 14 dicembre 2007, a due giorni dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 14, comma 12, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (legge di semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), il Governo ha trasmesso al Parlamento la relazione ivi prevista (Doc. XXVII, n. 7). Essa costituisce il primo passo di una articolata procedura in tre tempi volta allo sfoltimento della normativa vigente, di seguito illustrata, provvedendo ad individuare le incongruenze e le antinomie normative relative ai diversi settori legislativi.
Il dispositivo dell'articolo 14, commi 12-24, della legge n. 246 del 2005 (istitutivo nel contempo di una Commissione bicamerale per la semplificazione normativa) reca una duplice, concorrente delega legislativa, avente ad oggetto:
§ l'individuazione delle disposizioni legislative statali (anteriori al 1970) delle quali si ritenga indispensabile la permanenza in vigore, così sottraendole all'abrogazione automatica e generalizzata, disposta dal medesimo articolo;
§ la semplificazione e il riassetto delle materie di volta in volta considerate.
Quanto al procedimento disegnato dalla citata legge n. 246, esso si articola in tre 'tempi':
§ la individuazione (entro il 16 dicembre 2007) delle disposizioni statali vigenti per settori legislativi e delle loro incongruenze o antinomie, da parte del Governo che ne trasmette relazione al Parlamento;
§ la individuazione con decreti legislativi (entro il 16 dicembre 2009) delle disposizioni legislative statali (anteriori al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi) ritenute indispensabili, da sottrarre pertanto all'effetto di abrogazione generalizzata statuito dal medesimo articolo 14 (effetto al quale sono sottratte, inoltre, alcune disposizioni direttamente indicate dalla medesima legge n. 246). Con i predetti decreti legislativi (emanati previo parere della Commissione bicamerale per la semplificazione della legislazione) si provvede altresì "alla semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto";
§ l'adozione di disposizioni integrative o correttive dei decreti legislativi sopra rammentati, entro due anni successivi alla data di loro entrata in vigore.
In ottemperanza alla prima delle fasi sopra ricordate - quella ricognitiva per settori normativi - il Governo (come già preannunziato nel suo Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione) ha trasmesso al Parlamento apposita relazione.
Essa è il Documento XXVII, n. 7 della XV legislatura.
Il suo contenuto può ripartirsi, in sede di commento, in quattro sezioni tematiche:
§ una sezione introduttiva, espositiva degli indirizzi seguiti e delle problematiche emerse nella raccolta delle disposizioni vigenti;
§ la raccolta degli estremi delle leggi ed atti aventi valore di legge, censiti dalle amministrazioni (i singoli Ministeri);
§ la raccolta degli estremi delle leggi ed atti aventi valore di legge, non censiti dalle amministrazioni, tuttavia rinvenibili nelle diverse banche dati esistenti;
§ una sezione finale esemplificativa delle antinomie e incongruenze normative, rilevabili attraverso l'opera di sistemazione delle disposizioni vigenti.
La legge n. 246 ha disposto un effetto abrogativo automatico e generalizzato (una sorta di ghigliottina, perciò correntemente indicato come 'taglia-leggi'), non già espresso e puntuale.
Esso investe le disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970 (anche se modificate con provvedimenti successivi).
A tale abrogazione automatica sono sottratti due insiemi di disposizioni:
§ disposizioni codicistiche o di testi unici; di disciplina degli organi costituzionali o aventi rilevanza costituzionale o dell'ordinamento delle magistrature; di esplicitazione dei principi fondamentali della legislazione dello Stato nelle materie di legislazione concorrente; di adempimento di accordi internazionali o di obblighi comunitari; in materia previdenziale e assistenziale; tributarie e di bilancio (questa la previsione dell'articolo 14, comma 17 della legge n. 246);
§ le disposizioni individuate nei decreti legislativi delegati, che le 'salvano' in quanto indispensabili, riconoscendo così per esse la non fondatezza di una, per così dire, 'presunzione di obsolescenza' basata su criterio temporale.
Affinché sia l'abrogazione automatica sia la sottrazione ad essa avvengano in modo ponderato, coerente, non casuale, primaria esigenza è una rilevazione dello stock di legislazione vigente.
Mira a darvi risposta l'opera di censimento normativo, oggetto della relazione giunta all'attenzione del Parlamento.
Essa preliminarmente rileva il grado di incertezza esistente circa il numero di leggi vigenti. Anche per questo, gli strumenti di riassetto normativo (previsti nelle diverse stagioni della semplificazione) hanno "fin qui prodotto frutti insoddisfacenti".
Invero, un progetto di informatizzazione e pubblicazione in rete della normativa (primaria e secondaria) vigente, da rendere così accessibile ai cittadini gratuitamente, è stato varato (con l'articolo 107 della legge n. 388 del 2000) ed è in stato di realizzazione. Le difficoltà tecniche (connesse soprattutto alla scarsa omogeneità dei testi normativi disponibili in formato elettronico) non hanno consentito che esso fosse ultimato prima della rilevazione da condursi ai fini del “taglia-leggi”; la legge finanziaria per il 2008 cerca di dare nuovo slancio al progetto, come illustrato in appendice alla presente scheda.
Di qui l'esigenza per il Governo di procedere ad un autonomo censimento, i cui risultati sono contenuti negli allegati I e II della relazione.
Vi sono censite le disposizioni poste dalle fonti primarie, con intento di esaustività (dunque anche se successive al 1970 e se ricadenti negli ambiti sottratti dalla legge n. 246 all'abrogazione automatica).
Il censimento - diretto dal Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione (vedi scheda Organismi governativi per la semplificazione, pag. 367); condotto per mezzo di un apposito Comitato tecnico, in collaborazione con il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione—CNIPA - è avvenuto attraverso due principali canali informativi.
Da un lato, ciascuna amministrazione (su base ministeriale) ha individuato le disposizioni legislative vigenti nel proprio settore, riportandone gli estremi in schede informatiche[499] confluite in un'apposita banca dati, denominata "Taglialeggiweb".
Questa banca dati differisce dalle altre banche dati giuridiche esistenti, poiché classifica solo gli atti normativi di rango primario, a prescindere dalla qualificazione formale (ugualmente evidenziata). Ad esempio, emanati come decreti del Presidente della Repubblica possono essere decreti legislativi delegati (fonti primarie) come regolamenti governativi (fonti secondarie). Ebbene, nella banca dati "Taglialeggiweb" sono stati inseriti solo i decreti del Presidente della Repubblica aventi valore di legge (decreti legislativi), escludendo dal censimento quelli aventi valore di fonti secondarie, inerenti procedure di nomina, ecc. Dunque per questi atti (come per altri, ad esempio i regi decreti), non la qualificazione formale bensì un vaglio contenutistico ha determinato l'inserimento o meno nella banca dati.
Altro canale informativo è stata l'analoga attività ricognitiva svolta da un gruppo di esperti, designati dal Comitato tecnico, sulla scorta delle banche dati giuridiche esistenti (pubbliche o private).
La duplicazione dell’attività di censimento della normativa (primaria) vigente è volta ad effettuare controlli incrociati, onde conferire maggiore attendibilità alla ricognizione complessiva.
Il primo canale informativo sopra ricordato (il censimento condotto dalle amministrazioni, inserito nella banca dati “Taglialeggiweb”) ha rilevato circa 9.000 atti.
Di questi, circa 3.000 sono quelli pubblicati nel periodo 1860-1969, ambito temporale d’applicazione della norma “taglia-leggi”.
Il secondo canale informativo (lo scrutinio operato sulle altre banche dati giuridiche dagli esperti designati dal Comitato tecnico) ha rilevato circa 12.000 ulteriori atti.
Di questi, circa 4.000 sono emanati nel periodo 1860-1969.
Sommando i due ordini di indicazioni, si ha un dato complessivo che ammonta a circa 21.000 atti, di cui 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969.
La discordanza tra i dati raccolti, rispettivamente, dalle amministrazioni e dagli esperti, si giustifica perché le singole amministrazioni hanno omesso l’indicazione di numerosi atti normativi primari considerati implicitamente abrogati, in quanto leggi-provvedimento o con effetti temporanei ormai esauriti.
Diverse di tali disposizioni, presumibilmente, non saranno fatte salve dai decreti delegati che il Governo è tenuto ad emanare onde sottrarre disposizioni normative anteriori al 1° gennaio 1970 all’abrogazione automatica, prevista dalla clausola 'taglia-leggi'.
L’elencazione dei 21.000 atti normativi censiti è contenuta in due specifici allegati alla Relazione, aventi rispettivamente ad oggetto i 9.000 atti censiti dalle pubbliche amministrazioni ed inseriti nella banca dati “Taglialeggiweb”, ed i 12.000 atti dell’archivio censito dagli esperti sulla base delle altre banche dati.
Sintesi statistiche sui dati ottenuti a seguito del complessivo processo di rilevazione sono indicate, infine, in appositi report, in cui si espone un quadro sintetico degli atti normativi di rango legislativo censiti, in termini quantitativi (report n. 1), per tipologia di atto (report n. 2: se si tratti di legge, decreto legislativo, ecc.), per materia, secondo il sistema di classificazione TESEO (report n. 4), per numero di amministrazioni che abbiano congiuntamente effettuato la segnalazione (report n. 8).
Sono state, inoltre, indicate numericamente (report n. 7) le più evidenti incongruenze ed antinomie normative rilevate dalle amministrazioni. Una loro elencazione (solo esemplificativa, non esaustiva) è nell'allegato III della relazione.
Di là dei dati del censimento delle disposizioni, rilevano alcuni indirizzi o profili problematici, tali da riverberarsi nelle successive fasi attuative del 'taglia-leggi'.
La ricognizione dello status quo della normazione statale di livello primario - si è ricordato - è finalizzata all’emanazione dei decreti delegati da parte del Governo (entro il 16 dicembre 2009).
"Una prima proiezione consente di prevedere che almeno un quarto dei circa 21.000 atti censiti potranno essere eliminati", si legge nella relazione.
I decreti delegati, destinati ad individuare le disposizioni di legge da mantenersi in vigore, potranno altresì operare un riassetto del corpus normativo primario.
In altri termini, essi possono limitarsi ad una indicazione puntuale delle disposizioni anteriori al 1° gennaio 1970 mantenute in vigore, oppure spingersi ad una razionalizzazione – mediante modifiche, abrogazioni, ecc. - delle disposizioni successive.
La seconda opzione è sostenuta dal Consiglio di Stato (parere n. 2024/2007), secondo cui “l’operazione di riassetto legislativo deve avvenire per materie, anche coordinando le leggi anteriori al 1970 con quelle successive; in uno stesso decreto legislativo può, quindi, essere riassettata la disciplina sia anteriore che successiva al 1° gennaio 1970”.
In tale ultima ipotesi, peraltro, il riordino dell’assetto normativo vigente deve essere condotto in stretta aderenza ai tempi, oggetti e principi direttivi espressi nella legge di delegazione, anche quando essi siano determinati per relationem, facendo riferimento ad altre disposizioni legislative.
La Corte costituzionale ha rilevato in altra occasione che qualora "la delega abbia ad oggetto il riassetto di norme preesistenti, questa finalità giustifica l'introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente soltanto se siano stabiliti principi e criteri direttivi volti a definire in tal senso l'oggetto della delega e a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato" (Corte costituzionale, sentenza n. 170/2007).
La norma 'taglia-leggi', per questo riguardo, rinvia espressamente ai principi e criteri direttivi sanciti dall’articolo 20, comma 5, della legge n. 59 del 1997 (tra i quali figurano la semplificazione dei procedimenti amministrativi, la regolazione uniforme di procedimenti amministrativi analoghi presso distinte amministrazioni, la riduzione dei termini per la loro conclusione, ecc.).
Di tali criteri direttivi, la relazione sottolinea le potenzialità, prospettandone un'estesa interpretazione.
Tra l'altro, "bisognerà scegliere se e in che campi operare riforme di settore nel senso della liberalizzazione; se e dove operare modifiche dell'assetto delle competenze (ad esempio, tramite l'attribuzione di funzioni ai comuni); se e dove incidere sui vari aspetti organizzativi e procedimentali", si legge nella relazione.
Per questo riguardo (si legge ancora), posta la complessità dell'opera di riordino, "potrebbe essere opportuna l'individuazione di priorità", per materie.
La relazione prospetta la precedenza alle materie già indicate nel Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione (vedi scheda Il piano d’azione per la semplificazione, pag. 386) - ossia privacy, ambiente e paesaggio, fisco e dogane, sicurezza civile, localizzazione di impianti industriali, previdenza e contributi, igiene e sicurezza sul lavoro - ovvero a quelle caratterizzate da maggiore stratificazione di fonti (soprattutto il pubblico impiego, ma anche, quali esempi, ordinamento militare, processo amministrativo, immigrazione, trasporti pubblici, servizi pubblici specie locali).
Riguardo ai rapporti con la normativa regionale, la relazione prospetta che gli emanandi decreti legislativi, nelle materie di legislazione concorrente tra Stato e regioni, "dovranno adeguatamente essere strutturati, eventualmente in due parti distinte, ciascuna armonica e sistematica: la prima parte contenente i principi della materia, la parte seconda contenente le norme di dettaglio (cedevoli)".
Le norme di dettaglio statali anteriori al 1970 - nelle materie concorrenti, per le quali il legislatore statale ha competenza a dettare solo i principi fondamentali - permangono in vigore (se così disposto dai decreti legislativi) ma solo fino all'entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia.
Di qui l'esigenza di organizzare in modo congruo il testo dei futuri decreti legislativi.
Altri profili di interesse, ed in parte problematici, cui la relazione fa rapido cenno (nelle battute conclusive della parte introduttiva) possono dirsi i seguenti.
"L'automaticità dell'effetto abrogativo per le norme ante 1970 non individuate come indispensabili può, però, eliminare, d'un tratto, il fondamento di molti poteri regolamentari oggi vigenti (tanto più che un'analisi sugli atti regolamentari non è stata compiuta). E' anche questa una questione che dovrà essere oggetto di specifica considerazione onde procedere al meglio alla fase inerente il riassetto".
Altro elemento: si è innanzi accennato come il procedimento 'taglia-leggi' preveda l'adozione di disposizioni integrative o correttive dei decreti legislativi emanati, entro due anni successivi alla data di loro entrata in vigore.
Rimane da chiarire quale possa essere il contenuto di tali disposizioni correttive o integrative. Particolarmente problematica sarebbe la loro configurazione ove essi mirassero a ripristinare disposizioni anteriori al 1970, della cui necessità ci si fosse resi conto dopo l'adozione dei decreti legislativi. Tale repêchage solleverebbe problemi applicativi di non lieve portata, per l'arco temporale tra intervenuta abrogazione ed eventuale successivo ripristino di una disposizione.
Infine, suscettibile di determinazione pare il rapporto tra delega 'taglia-leggi'e le eventuali deleghe di riassetto normativo settoriale che dovessero intercorrere (con propri principi e criteri direttivi) nell'arco temporale sino al dicembre 2009 (termine ultimo stabilito dalla legge n. 246 per l'adozione dei decreti legislativi sopra ricordati).
Come già accennato, completano la relazione 8 report:
§ il report 1 presenta un quadro sintetico degli atti normativi di rango legislativo censiti, in termini quantitativi. Come già accennato, appare significativo il dato numerico: gli atti segnalati dalle amministrazioni (complessivamente 9.201) risultano inferiori agli atti individuati dal confronto con altre banche dati (12.490), il che significa che i Ministeri utilizzano – almeno in modo espresso – un numero relativamente ridotto di atti;
§ il report 2 classifica gli atti censiti in base alle diverse tipologie. Sembrerebbe rintracciarsi qualche imprecisione, che non intacca assolutamente le cifre fornite. Non è chiaro, in particolare, perché il totale dei decreti legislativi del Capo provvisorio dello Stato, dei decreti legislativi luogotenenziali, dei decreti-legge luogotenenziali e dei regi decreti legge non combaci con il totale dei provvedimenti delle stesse tipologie emanati prima del 1970. Figurano tipologie di provvedimenti che possono risultare sia di rango legislativo, sia di rango regolamentare (regi decreti e decreti del Presidente della Repubblica emanati prima dell’entrata in vigore della legge 23 agosto 1988, n. 400, che ha posto ordine nella produzione normativa del Governo).
§ il report 3 riporta il numero degli inserimenti nella banca dati effettuati da ciascuna amministrazione. Appaiono evidenti le differenze, anche molto rilevanti, in ordine al numero di atti censiti dalle diverse amministrazioni. Se Finanze, Difesa, Giustizia e Presidenza del Consiglio hanno censito un numero ingente di atti, altre amministrazioni si sono limitate ad un numero molto inferiore. Si segnala, in particolare, il dato del Ministero dell’ambiente, che ha indicato 54 provvedimenti;
§ i report 4 e 5 riguardano, rispettivamente, gli atti normativi di rango legislativo vigenti censiti dalle amministrazioni (che vengono ripartiti per materia secondo le macro-aree dello schema di classificazione Teseo) e gli atti normativi di rango legislativo vigenti, emanati prima del 1970, individuati dal confronto con altre banche dati e ripartiti per materia in base alla classificazione secondo lo schema di “Normeinrete”. Si segnala che il ricorso a due distinti criteri di classificazione rende difficile una comparazione tra i due dati, che potrebbe risultare interessante;
§ il report 6 riporta il numero delle schede utilizzate per la banca dati Taglialeggiweb in cui le amministrazioni hanno segnalato come “di interesse” solo uno o più singoli articoli e non il contenuto dell’intero atto. Sembra significativo che molti atti normativi rivestono interesse per le amministrazioni limitatamente ad un solo articolo: è un dato ovviamente che va vagliato ma che sembra offrire ulteriori margini per uno sfoltimento normativo;
§ il report 7 indica il numero delle incongruenze ed antinomie segnalate dalle amministrazioni e si riferisce quindi al compito più difficile che esse devono svolgere. Va sottolineato l’impegno del Ministero della difesa, che è stato il primo a censire un numero peraltro notevole di atti ed è quello che ha individuato il maggior numero di incongruenze ed antinomie;
§ il report 8 dà conto di quanti atti siano stati segnalati da una sola amministrazione e di quanti siano stati segnalati da due o più (fino a 22) amministrazioni congiuntamente. La maggior parte degli atti (7.031) sono stati censiti da una sola amministrazione e quindi i provvedimenti a natura intersettoriale costituiscono una percentuale ridotta sul totale. Questo dato, incrociato con quello del report 6, dovrebbe facilitare il “disboscamento normativo”.
Come già accennato, tre distinti allegati contengono gli elenchi:
§ della legislazione statale censita dalle amministrazioni;
§ della legislazione statale non censita dalle amministrazioni e ricavata da banche dati;
§ delle incongruenze ed antinomie normative.
I primi due allegati sono divisi in cinque parti, ognuna delle quali comprendente i provvedimenti relativi ad una o più amministrazioni:
parte I Esteri, Beni culturali, Trasporti, Commercio internazionale, Lavoro;
parte II Difesa, Politiche agricole, Economia;
parte III Finanze;
parte IV Giustizia, Istruzione, Salute, Solidarietà sociale, Ambiente, Comunicazioni, Infrastrutture;
parte V Interno, Sviluppo economico, Università e ricerca, Presidenza del Consiglio.
L’articolo 2, comma 584, della legge finanziaria per il 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244) dà nuovo impulso alle attività di informatizzazione della normativa vigente, dettando disposizioni di carattere finanziario ed attribuendo ulteriori finalità al programma, rispetto a quelle originariamente previste, e più specificamente:
§ il coordinamento dei programmi di informatizzazione e classificazione della normativa regionale;
§ l'adeguamento agli standard dell'Unione europea per quanto riguarda le classificazioni in uso nelle banche dati normative pubbliche;
§ l’adozione di linee guida per la promulgazione e pubblicazione telematica degli atti normativi nell’ottica del superamento dell’edizione a stampa della Gazzetta Ufficiale.
L’articolo 107 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) ha istituito presso la Presidenza del Consiglio un fondo (con una dotazione di 5 miliardi di lire - 2,58 milioni di euro circa - per ciascuno degli anni dal 2001 al 2005) destinato al finanziamento di iniziative volte a promuovere l’informatizzazione e la classificazione della normativa vigente con un duplice obiettivo:
§ facilitarne la ricerca e la consultazione gratuita da parte dei cittadini;
§ fornire strumenti per l’attività di riordino normativo.
La definizione del programma, delle forme organizzative e delle modalità di funzionamento del fondo sono state demandate ad un decreto del Presidente del Consiglio, previa intesa con i Presidenti delle due Camere. Il decreto del Presidente del Consiglio che ha dato attuazione a tale previsione, adottato il 24 gennaio 2003, ha individuato i contenuti del programma ed ha istituito un Comitato guida, formato dai segretari generali delle tre istituzioni (Presidenza del Consiglio, Senato della Repubblica e Camera dei deputati).
Questi sono, nel dettaglio, gli obiettivi del programma:
§ compilazione del testo vigente delle leggi statali e degli altri atti normativi dello Stato;
§ messa a disposizione gratuita dei relativi testi con strumenti informatici e telematici (anche mediante la realizzazione di appositi portali e siti Internet);
§ classificazione della normativa vigente con l’intento di favorire la ricerca per via informatica e telematica e predisposizione di un apparato critico atto ad individuare i profili di incompatibilità e le abrogazioni implicite;
§ studio e applicazione di strumenti e procedure di ricerca della normativa vigente e di sistemi avanzati di trattamento informatico, di marcatura e di classificazione degli atti normativi, anche ai fini dell'istruttoria dell'attività di riordino normativo.
I compiti di esecuzione del programma sono attribuiti, nell'ambito delle rispettive competenze, al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi nonché al Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie ed alle altre strutture di cui si avvale il Ministro per l'innovazione e le tecnologie.
Il Comitato guida si è raccordato con altre istituzioni sia a livello centrale (CNIPA, Ministero della giustizia, Corte di cassazione, Dipartimento per gli affari regionali), sia a livello regionale (Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali), perseguendo l’obiettivo di creare un unico portale di accesso alle leggi statali e regionali e, in prospettiva, al diritto comunitario.
E’ stata prevista la costituzione di un sistema informativo sulla normativa statale vigente (progetto denominato “Normattiva”) di carattere primario e secondario.
L’attività del Comitato guida si è – per ora – concentrata sugli atti normativi primari e subprimari di fonte statale. Grazie ad un accordo stipulato con il CED della Corte di Cassazione, tutti gli atti pubblicati dall’inizio della XIV legislatura (30 maggio 2001), già in corso di conversione nel formato elettronico XML (secondo gli standard emanati con le circolari AIPA n. 35 del 6 novembre 2001, e n. 40 del 22 aprile 2002), saranno inseriti in un database che permetterà la ricerca degli atti sia nella loro versione “storica” sia nella versione derivante da novelle, annotati al fine di segnalare abrogazioni e modifiche implicite e pubblicati su un sito gestito dalle tre istituzioni responsabili del progetto. È stato poi avviato uno studio di fattibilità per il recupero degli atti precedenti (1861-2001) e per l’estensione all’intero stock pregresso delle procedure applicate sperimentalmente agli atti normativi pubblicati dal maggio 2001.
Con un’ulteriore innovazione rispetto all’attuale disciplina, il comma 584 affida ad un responsabile, nominato d’intesa dal Presidente del Consiglio e dai Presidenti delle due Camere, il coordinamento dell’attuazione presso le amministrazioni pubbliche dei programmi di informatizzazione della legislazione vigente; il responsabile assicura anche il collegamento con le attività in corso per l’attuazione dell'articolo 14 della legge n. 246/2005, e con le attività delle amministrazioni statali centrali inerenti alla pubblicazione degli atti normativi e alla standardizzazione dei criteri per la classificazione dei dati legislativi.
All'attuazione dei programmi partecipano rappresentanti del CNIPA e, per quanto riguarda la normativa regionale, rappresentanti designati dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome. Il coordinatore riferisce al Parlamento annualmente, mediante una relazione, sullo stato di attuazione dei programmi.
Forze di sicurezza e soccorso pubblico
Nel corso della legislatura è stata sollevata più volte la questione dell’adeguatezza delle dotazioni organiche delle forze di polizia e delle risorse economiche destinate alla sicurezza.
Il Ministro dell’interno Amato, durante l’indagine conoscitiva sulla sicurezza[500] (in proposito, si veda il capitolo Indagine conoscitiva sulla sicurezza, nel dossier 1/1, Parte seconda), ha fatto rilevare che nel corso degli anni si è registrato un aumento esponenziale dei fabbisogni di risorse legati allo svolgimento di funzioni pubbliche svolte dall’Amministrazione dell’interno; queste, pur rimanendo formalmente immutate, hanno richiesto nel tempo un sempre maggiore impiego di risorse umane. Al riguardo il Ministro ha citato le funzioni connesse all'immigrazione, fenomeno che negli ultimi dieci anni ha avuto una crescita sensibile, e, correlativamente, quelle relative al conferimento della cittadinanza. Inoltre, i compiti svolti in relazione alla normativa sulla tossicodipendenza[501] e le depenalizzazioni hanno fatto aumentare considerevolmente il carico di lavoro delle prefetture.
La Corte dei conti[502] ha segnalato le ingenti erogazioni di spesa conseguenti all’impiego di personale di polizia nel mantenimento dell’ordine pubblico negli stadi in occasione degli incontri di calcio.
La Corte dei conti ha evidenziato che, nell’anno 2006, per il complesso delle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica nelle manifestazioni sportive sono state movimentate complessivamente 1.056.681 unità, di cui 549.939 appartenenti alla Polizia di Stato, 403.328 all’Arma dei Carabinieri, 90.355 alla Guardia di finanza e 13.050 al Corpo forestale dello Stato.
Con specifico riferimento agli incontri di calcio nella stagione 2006/2007, sono stati impiegati per 2.444 incontri, 216.880 unità, di cui 138.568 della Polizia di Stato, 72.235 dell’Arma dei Carabinieri e 6.077 della Guardia di finanza, con un costo per lavoro straordinario di circa 11,8 milioni e per indennità di ordine pubblico, di circa 3,6 milioni. A questi costi devono essere aggiunte, per il personale fuori sede, le voci di spesa per il vitto e per l’alloggiamento degli operatori dei reparti mobili.
Si ricorda peraltro che in materia sono intervenute le misure del decreto-legge 8/2007[503], finalizzate al contenimento dei gravi fenomeni di violenza che si verificano, con sempre maggiore frequenza, nel corso dello svolgimento di competizioni sportive, con particolare riferimento al gioco del calcio (si veda la scheda Violenza negli stadi, nel dossier relativo alla Commissione Giustizia).
In attuazione di quest’ultimo provvedimento, con il decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2007, è stata disciplinata l’organizzazione e il servizio degli “steward” negli impianti sportivi. Tale misura si inscrive in una più generale tendenza che si sta sviluppando negli ultimi anni nel nostro ordinamento, volta a rafforzare la collaborazione di operatori della sicurezza privata alle attività delle istituzioni pubbliche cui sono affidate le funzioni di prevenzione e repressione degli illeciti. Le società organizzatrici delle competizioni sportive sono direttamente responsabili, attraverso propri addetti (“steward”) dei servizi di controllo dei titoli di accesso, di instradamento degli spettatori e di verifica del rispetto del regolamento d'uso dell'impianto.
Il Ministro dell’interno ha osservato[504] che una considerevole quota di personale appartenente al ruolo della pubblica sicurezza assolve funzioni amministrative e di supporto, le quali potrebbero essere svolte da personale civile, come peraltro stabilisce l’art. 36 della legge sull’ordinamento della pubblica sicurezza[505].
Si ricorda in proposito che la legge n. 288 del 1999[506] ha previsto alcune disposizioni per favorire il passaggio del personale della Polizia di Stato con maggiore anzianità nelle qualifiche che espletano compiti amministrativo-contabili.
Il 20 marzo 2007 è stato firmato da Viceministro Minniti, dal Sottosegretario Pajno e dalle organizzazioni sindacali un protocollo d'intesa per l'impiego del personale civile dell´amministrazione negli uffici della Polizia, in attuazione dell´art. 36 della legge 121/81.
Il protocollo prevede che un gruppo di studio definisca un quadro conoscitivo e prospettico della situazione, con l´indicazione di compiute ipotesi di soluzione. In particolare, tra l´altro, dovranno essere puntualmente individuate le funzioni amministrative, di competenza del personale civile, distinte da quelle prettamente operative. Al termine dei lavori del gruppo di studio, si prevede che le parti si incontrino nuovamente per l´esame delle indicazioni emerse, al fine di individuare criteri per la quantificazione e il miglior utilizzo del personale dell´amministrazione civile.
Il Ministro dell’interno ha anche segnalato il problema del personale di polizia che opera presso altre amministrazioni, a volte anche con mansioni non direttamente di polizia; oltre a sottrarre preziose risorse umane, tale circostanza comporta anche la permanenza dei relativi oneri stipendiali a carico del Ministero dell’interno[507].
Un’ulteriore questione riguarda il blocco delle assunzioni, che da molto tempo impedisce di coprire il turn over del personale con funzioni di polizia collocato in congedo[508] e di procedere ad una riduzione dell’età media degli agenti attualmente in servizio, che in alcuni reparti è molto elevata. In proposito è stata rilevata la necessità di reclutare nuovo personale in misura pari almeno al numero degli esodi.
Per quanto riguarda il reclutamento nelle carriere iniziali delle Forze di polizia, è stata ricordata[509] la sussistenza del vincolo posto dalla legge istitutiva dell’esercito professionale (legge n. 226 del 2004[510]) il cui art. 16 dispone che, a decorrere dal 1° gennaio 2006 e fino al 31 dicembre 2020, una quota dei posti messi annualmente a concorso per l’accesso a tali carriere è riservata ai volontari in ferma prefissata di un anno ovvero in riafferma annuale in servizio o in congedo.
Nel corso dell’indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza, è stato evidenziato[511] che le tre forze di polizia principali (cioè quelle a competenza generale: Polizia di Stato, Arma dei carabinieri e Guardia di finanza) sono mediamente il 10 per cento sotto organico.
La situazione degli organici delle forze polizia, come risulta dalla documentazione depositata agli atti della Commissione Affari costituzionali della Camera dai vertici delle singole forze dell’ordine è la seguente:
|
Organici |
Effettivi |
Polizia di Stato |
107.535 |
103.217 |
Polizia di Stato (con servizi sanitari e tecnici) |
117.193 |
109.007 |
Arma dei Carabinieri |
115.290 |
111.149 |
Totale Polizia di Stato e Carabinieri (esclusi sanitari e tecnici) |
222.825 |
214.366 |
Totale Polizia di Stato e Carabinieri (con sanitari e tecnici) |
232.483 |
220.156 |
Guardia di Finanza |
68.134 |
63.635 |
Corpo forestale dello Stato |
9.400 |
8.500 |
Polizia penitenziaria[512] |
45.109 |
41.867 |
Totale Forze di polizia (esclusi sanitari e tecnici) |
345.468 |
328.368 |
Totale Forze di Polizia (con sanitari e tecnici) |
355.126 |
334.158 |
Peraltro, il Rapporto intermedio sulla revisione della spesa pubblica[513] predisposto dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica, nel riportare le conclusioni principali di un Rapporto del Ministero dell’interno (Funzioni–Risorse, maggio 2007), ha evidenziato che “la situazione dell’Italia, per quanto riguarda il personale impegnato in attività di ordine pubblico e sicurezza, è caratterizzata negli ultimi anni da una sostanziale invarianza della dotazione organica e di risorse finanziarie stanziate. La carenza di personale, secondo quanto affermato nel citato documento del Ministero dell’interno, risulta peraltro aggravata dalle reiterate misure di blocco del turn over, che hanno di fatto comportato un ridimensionamento della forza effettiva. Facendo riferimento alle sole forze della Polizia di Stato e dei Carabinieri, il saldo negativo rispetto all’organico previsto dalla normativa vigente risulta pari nel 2006 a 8.500 unità che aumentano a circa 14.000 se si considerano anche le vacanze nei ruoli tecnici e sanitari.
Nel confronto con gli altri Paesi, particolarmente basso risulta poi l’apporto del personale civile impiegato nei ruoli amministrativi e di supporto che risulta pari a circa 10.000 unità contro le 40.000-50.000 unità degli altri Stati. Questa situazione porta l’Italia ad evidenziare, nel parallelo internazionale uno degli indici più bassi di personale impiegato nella Pubblica sicurezza: mentre per l’Italia la dotazione di personale risulta pari ad un agente ogni 259 abitanti, Francia e Regno Unito presentano rispettivamente un rapporto pari ad un agente ogni 246 e 231 abitanti; al contrario in Spagna il rapporto è più basso (1/272 abitanti)”.
La Commissione tecnica ha da parte sua rilevato che l’analisi da essa svolta sulla dotazione di risorse finanziarie, umane e tecniche del Ministero non è stata in grado di appurarne l’adeguatezza o inadeguatezza rispetto ai bisogni connessi all’espletamento dei compiti istituzionali e degli ulteriori compiti che di fatto vengono a gravare sul Ministero: infatti i confronti internazionali di fonte European Sourcebook ed Eurostat contrastano apparentemente con gli argomenti e le cifre riportati dal Ministero a sostegno di una sostanziale sottodotazione di risorse.
La Commissione tecnica si è pertanto posta come prossimo impegno la chiarificazione di questo punto. Parallelamente, la Commissione si è proposta di analizzare le possibilità di razionalizzazione della spesa, suscettibili di portare l’attività del Ministero a livelli qualitativi e quantitativi superiori, a parità di risorse impiegate, intervenendo sia sulle modalità di svolgimento delle attività del Ministero, sia sui rapporti con altri ministeri, che potrebbero essere rivisti al fine di ridurre le sovrapposizioni di competenze, aumentare l’efficienza della spesa e l’efficacia dei servizi prodotti.
La Commissione tecnica ha preannunciato lo sviluppo nel prossimo futuro di un’indagine sulla distribuzione territoriale delle risorse, con riferimento alle prefetture, alle Forze di pubblica sicurezza, ai Vigili del fuoco ed eventualmente ad altri settori di intervento.
Secondo la Commissione tecnica, il problema della non ottimale distribuzione delle risorse sul territorio si pone (oltre che per le prefetture) anche per le Forze dell’ordine. La Commissione intende acquisire i dati sulla distribuzione regionale delle Forze di polizia e porli in relazione con indicatori di fabbisogno (numero di reati, incidenti, ecc.) al fine di stabilire se l’attuale assegnazione di personale alle singole regioni rifletta i relativi bisogni.
Il caso italiano, afferma la Commissione, si presenta per altro particolarmente complesso per la presenza di due Forze di polizia a competenza generale (Polizia di Stato e Carabinieri), che praticamente svolgono le medesime funzioni (contrasto del crimine, controllo del territorio, indagini di polizia giudiziaria).
La distribuzione del personale sul territorio è strettamente connessa al numero e alla dislocazione delle caserme sul territorio. I presidi della Polizia di Stato e, soprattutto, dei Carabinieri sono molto numerosi (nel complesso quasi 8.000: 1.851 presidi della Polizia di Stato, di cui 360 Commissariati di pubblica sicurezza, e 6.140 presidi dell’Arma dei carabinieri, tra cui 4.632 stazioni). L’Arma dei carabinieri dispone di numerose stazioni nelle aree rurali con una consistenza numerica del personale molto limitata.
La Commissione tecnica sta inoltre definendo altri possibili temi sui quali concentrare la sua attenzione: la percentuale di personale di Polizia destinata a compiti di carattere amministrativo che potrebbero essere svolti da personale con diversa qualificazione e la possibilità di sostituire parte della spesa pubblica per la sicurezza con:
§ incentivi ai privati per l’installazione di impianti di allarme, telecamere e altri congegni di prevenzione;
§ incentivi agli enti locali per l’installazione di apparecchi di video-sorveglianza nelle città;
§ incentivi agli operatori economici per l’installazione di sistemi di telesorveglianza e l’utilizzo di guardie giurate.
Alcuni dei problemi ora illustrati sono stati affrontati con la legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006[514]).
In particolare, l’art. 1, comma 425, ha dettato norme per razionalizzare la presenza nel territorio degli uffici periferici del Ministero dell’interno (prefetture, questure e strutture periferiche del Corpo nazionale dei vigili del fuoco) tramite la revisione dei loro ambiti territoriali.
Il comma 425 demanda ad regolamento la determinazione di tali ambiti, con il rispetto di alcuni principi, quali:
§ la coerenza con la revisione dell’ordinamento degli enti locali prevista dal titolo V della Costituzione e con il conferimento di nuove funzioni agli stessi ai sensi dell’art. 118 Cost.;
§ la semplificazione amministrativa e la riduzione dei tempi e dei costi dei procedimenti;
§ la realizzazione di economie di scala e l’ottimale impiego delle risorse.
§ la correlazione tra la dimensione territoriale degli uffici e le attività economiche e sociali, la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, le realtà etnico-linguistiche;
§ la ponderazione dei precedenti criteri alla luce della “specificità dell’ambito territoriale di riferimento” e della “prossimità” dei servizi alla cittadinanza.
I commi da 430 a 434 hanno disposto la soppressione, a partire dal 1 dicembre 2007, delle Direzioni interregionali della Polizia di Stato[515], la razionalizzazione del complesso delle strutture preposte alla formazione e all’aggiornamento del personale della pubblica sicurezza, e dei presidi delle cosiddette “specialità” di polizia (stradale, ferroviaria, postale e delle comunicazioni, delle frontiere).
Il comma 435 ha previsto l’adozione di un piano per la riarticolazione e la ridislocazione dei presìdi delle Forze di polizia, per adeguarli ai nuovi contesti sociali, sopprimendo eventualmente le strutture che si rivelino non più necessarie. La norma ha lo scopo da un lato di ridurre le spese per le locazioni ed il funzionamento delle strutture, dall'altro di evitare dispersioni di risorse umane. Con tale riduzione si è inteso conseguire un risparmio di spesa di almeno il 5% entro il 2007 e di un ulteriore 5% entro il 2008.
Per quanto riguarda l’incremento di personale in relazione alle esigenze della sicurezza, il comma 513 ha autorizzato i Corpi di Polizia all’assunzione, entro il 30 marzo 2007, di un contingente complessivo di personale non superiore a 2.000 unità, tra le quali sono compresi i 1.316 agenti trattenuti in servizio ai sensi del decreto-legge 260/2006 (in merito al quale, si veda oltre).
Per il 2008 e il 2009 i corpi di Polizia sono stati autorizzati, per ciascun anno, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato per un limite complessivo di spesa pari al 20% di quella relativa alle cessazioni avvenute nell’anno precedente (comma 523). Per il 2008 e il 2009, tali corpi possono procedere, per ciascun anno, nel limite di un contingente di personale non dirigenziale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 40% di quella relativa alle cessazioni avvenute nell'anno precedente, alla stabilizzazione del rapporto di lavoro del personale precario (comma 526).
Con riferimento ai miglioramenti economici, il comma 549 ha previsto, per il personale statale in regime di diritto pubblico, un incremento di 374 milioni di euro per l’anno 2007 e di 1.032 milioni di euro a decorrere dall’anno 2008, nell’ambito dei quali sono specificamente destinati alle Forze armate e alle Forze di polizia 304 milioni di euro per l’anno 2007 e 805 milioni di euro a decorrere dall’anno 2008. Ha disposto, inoltre, lo stanziamento, per l’anno 2007, di ulteriori 40 milioni di euro e, a decorrere dall’anno 2008, di altri 80 milioni di euro, da destinare al trattamento economico accessorio del personale delle Forze armate e dei Corpi di Polizia
Anche la legge finanziaria per il 2008 (L. 244/2007[516]) ha dettato una serie di disposizioni in materia di sicurezza.
Quanto al personale di polizia prestato ad altre amministrazioni, l’art. 2, comma 91, ha disposto che, dal 1° febbraio 2008, il trattamento economico del personale appartenente alle Forze di polizia e ai Vigili del fuoco, che sia comandato presso altre amministrazioni, sia posto a carico delle amministrazioni utilizzatrici.
Per rafforzare gli organici delle forze dell’ordine, è stato previsto uno sblocco del turn over per assumere nuovi agenti per circa 4.500 unità: a tal fine l’art. 3, comma 89, ha autorizzato per il 2008 i Corpi di polizia ad effettuare assunzioni in deroga alla normativa vigente, entro un limite di spesa pari a 80 milioni di euro per il 2008 e a 140 milioni di euro a decorrere dall’anno 2009. Tali risorse possono essere destinate anche al reclutamento del personale proveniente dalle Forze armate. Il successivo comma 98 ha delineato le modalità di assunzione nelle carriere iniziali delle Forze di polizia disponendo che si provvede, prioritariamente, mediante l’assunzione dei volontari delle Forze armate utilmente collocati nelle rispettive graduatorie dei concorsi e, per i rimanenti posti, mediante concorsi riservati ai volontari in ferma prefissata di un anno, ovvero in rafferma annuale, di cui alla citata legge 226/2004.
L’art. 3, comma 126, ha previsto l’assorbimento di una quota di esuberi del Ministero della difesa, sia di personale civile che militare (al fine di impiegarli per ruoli tecnici), esuberi stimati in 25.000 unità. A tale scopo possono essere disposti trasferimenti anche temporanei di contingenti di marescialli dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica in esubero, da ricollocare, previa selezione in relazione alle effettive esigenze, prioritariamente in un ruolo speciale ad esaurimento del personale delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare.
Con riferimento ai miglioramenti economici previsti dal contratto del personale del comparto sicurezza siglato a luglio 2007, l’art. 3, comma 133, ha previsto un incremento delle risorse destinate, dalla legge finanziaria 2007, per il biennio 2006-2007 ai miglioramenti stipendiali per il personale statale in regime di diritto pubblico di 338 milioni di euro per l’anno 2008 e di 105 milioni di euro a decorrere dall’anno 2009, nell’ambito dei quali sono specificamente destinati alle Forze armate e alle Forze di polizia 181 milioni di euro per l’anno 2008 e 80 milioni di euro a decorrere dall’anno 2009. In aggiunta a quanto previsto dal comma 133, il comma 134 ha stanziato ulteriori 200 milioni da destinare al trattamento economico accessorio del personale delle Forze armate e dei Corpi di Polizia.
Quanto alle misure auspicate dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica con l’intento di sostituire parte della spesa pubblica per la sicurezza con incentivi agli operatori economici, i commi 228-232 dell’art. 1, hanno previsto la concessione di un credito di imposta per l’adozione di misure di prevenzione del rischio di atti illeciti, compresa l’istallazione di apparecchi di video sorveglianza per le piccole e medie imprese commerciali di vendita al dettaglio e all’ingrosso e quelle di somministrazione di alimenti e bevande.
I commi 233-237 dell’art. 1, hanno riconosciuto per i periodi di imposta 2008, 2009 e 2010, un credito di imposta per i titolari di tabaccherie, al fine di incentivare gli investimenti per la prevenzione di atti illeciti ai loro danni. Il credito di imposta è pari all’80% delle spese sostenute per l’installazione di impianti e attrezzature di sicurezza.
Si ricorda inoltre, che il decreto-legge 260/2006[517] (conv. L. 280/2006) ha autorizzato il Ministero dell’interno a trattenere ulteriormente in servizio, fino al 31 dicembre 2006, gli agenti ausiliari trattenuti frequentatori del 63° e 64° corso di allievo agente ausiliario di leva, i quali ne facessero domanda. Tali soggetti, come già ricordato, sono stati in seguito assunti a tempo indeterminato secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 513, della legge finanziaria per il 2007.
Il Rapporto intermedio sulla revisione della spesa pubblica contiene i dati sull’andamento delle spese del Ministero dell’interno dal 2002 al 2006, articolati in cinque aggregati, dei quali si è ritenuto utile riportare quello relativo alla pubblica sicurezza:
(milioni di euro)
|
2002 |
2003 |
2004 |
2005 |
2006 |
Personale |
5.128 |
5.234 |
5.466 |
5.747 |
6.157 |
Fitti e manutenzione Polizia e Carabinieri |
349 |
380 |
660 |
637 |
565 |
Utenze Polizia e Carabinieri |
173 |
200 |
260 |
214 |
217 |
Casermaggio Polizia e Carabinieri |
85 |
78 |
66 |
62 |
94 |
Missioni Polizia e Carabinieri |
84 |
116 |
108 |
121 |
92 |
Mezzi di trasporto |
74 |
80 |
79 |
84 |
93 |
Collaboratori giustizia |
88 |
65 |
65 |
68 |
60 |
DIA |
26 |
26 |
24 |
23 |
24 |
Contrasto immigrazione clandestina |
11 |
35 |
29 |
35 |
34 |
Famiglie delle vittime del dovere |
7 |
9 |
8 |
34 |
25 |
Progetti di investimento in informatica e telecomunicazioni |
28 |
33 |
34 |
52 |
217 |
Opere, infrastrutture e impianti Polizia, Carabinieri, GdF, VF |
349 |
342 |
475 |
406 |
445 |
Altre spese |
186 |
257 |
253 |
254 |
238 |
Totale |
6.588 |
6.854 |
7.526 |
7.738 |
8.262 |
Fin dall’inizio della legislatura il Ministro dell’interno, nell’esporre alle Camere le linee programmatiche del suo dicastero, ha evidenziato la carenza di mezzi e di risorse finanziarie a disposizione delle forze dell’ordine, a fronte di un consistente ampliamento delle funzioni attribuite[518]. Il Ministro ha denunciato la situazione debitoria dell’Amministrazione per quanto riguarda in particolare:
§ i canoni di locazione, consumi energetici ed altri costi dei casermaggi (in proposito il citato Rapporto sulla revisione della spesa pubblica ricorda che ricadono sul Ministero dell’interno anche gli oneri attinenti ai casermaggi dei Carabinieri, che sommati a quelli della Polizia, rappresentano un costo rilevante per il bilancio del ministero);
§ le spese per l’acquisto di carburante per i mezzi in dotazione alle Forze dell’ordine;
§ la vetustà di questi ultimi e la stringente necessità di un loro ammodernamento.
Ulteriori elementi di valutazione in merito a tali problematiche sono emersi nel corso dell’indagine conoscitiva sulla sicurezza[519].
Le misure di contenimento della spesa pubblica e in particolare i tagli degli stanziamenti per consumi intermedi disposti da recenti leggi finanziarie[520] hanno finito per determinare, secondo quanto ha rilevato la Corte dei conti nella relazione sul rendiconto per il 2006[521], una sottostima degli stanziamenti iniziali del Ministero dell’interno che si rinviene anche nel bilancio del 2007, nell’ambito del quale alcuni capitoli di spesa, sui quali gravano oneri per impegni assunti negli anni precedenti e che si estendono a più esercizi, non hanno sufficienti stanziamenti.
Tale situazione, secondo la Corte, comporta un apparente contenimento della spesa per il funzionamento dell’apparato ministeriale, determinando invece il formarsi e l’incrementarsi di oneri sommersi, ai quali, comunque, l’Amministrazione dovrà fare fronte nei successivi esercizi, in alcuni casi anche con aggravi per interessi per ritardati pagamenti.
L’Amministrazione ha comunicato alla Corte dei conti che l’ammontare di tali debiti è pari a 408 milioni di euro. Di questi, 188 milioni di euro si riferiscono al Dipartimento della pubblica sicurezza.
Nel citato Rapporto sulla revisione della spesa pubblica è contenuta una tabella in cui si riassumono i dati sull’esposizione debitoria del Ministero dell’interno a tutto il 2006; si riporta di seguito la situazione del Dipartimento della pubblica sicurezza con l’indicazione delle principali voci di spesa:
(milioni di euro)
Pubblica sicurezza |
188,3 |
di cui: Fitto locali caserme Polizia di Stato |
30,6 |
Riscaldamento caserme Polizia di Stato |
30,4 |
Riscaldamento caserme Carabinieri |
22,4 |
Manutenzione locali privati Carabinieri |
10,0 |
Canoni energia elettrica Carabinieri |
9,6 |
In questo quadro, la Corte dei conti ha riscontrato che, per fare fronte all’insufficienza di risorse, il Ministero dell’interno ha fatto ricorso ad un utilizzo improprio delle contabilità speciali, anche al fine di pagare i canoni di locazione spettanti ai privati proprietari degli immobili ed evitare gli ulteriori costi derivanti dal contenzioso.
La Corte dei conti ha approfondito in una specifica relazione al Parlamento la questione delle contabilità speciali del Ministero dell’interno[522].
Le contabilità speciali costituiscono un particolare sistema di decentramento delle attività di erogazione della spesa, che si realizza delegando un organo periferico a provvedere autonomamente alle necessità funzionali del proprio ufficio. Al Ministero dell'interno fanno capo le 103 contabilità speciali intestate ai Prefetti.
Il fenomeno dell'abituale ricorso da parte dell'Amministrazione alle anticipazioni di somme, attraverso le contabilità speciali delle prefetture, per effettuare spese in assenza della relativa copertura finanziaria ha riguardato la quasi totalità dei capitoli di bilancio dello stato di previsione della spesa del Ministero dell'interno gestiti dalle Prefetture in contabilità speciale, e in particolare quelli riguardanti il fitto dei locali (utilizzati dalle Forze di polizia, dai vigili del fuoco e dalle prefetture), il personale e oneri connessi[523].
La Corte ha osservato che il reintegro delle somme anticipate dovrebbe avvenire nel corso del medesimo esercizio finanziario in cui si è effettuata l’anticipazione, ovvero entro il 31 marzo dell'anno successivo tramite passaggio fondi.
I dirigenti rappresentanti del Dipartimento della Pubblica sicurezza hanno riferito alla Corte che, per quanto concerne il settore delle locazioni, il perseguimento di un interesse primario della collettività quale quello dell'ordine e della sicurezza pubblica ha comportato negli anni un potenziamento dei presidi della Polizia di Stato e dell'Arma dei Carabinieri, ed un conseguente adeguamento funzionale degli stabili utilizzati. Non potendosi ricorrere all'uso di stabili appartenenti al demanio civile, o perchè inesistenti o perchè inadeguati, l'Amministrazione ha dovuto ricorrere al mercato privato e ciò ha comportato un aumento della spesa. Inoltre, le spese per le locazioni sono ogni anno in fisiologica crescita a causa dei rinnovi contrattuali, degli aumenti ISTAT, della manutenzione ordinaria. L'Amministrazione, onde far fronte alle anzidette spese, ha fatto ogni anno richiesta di adeguamento degli stanziamenti ordinari di bilancio, ma questi non sono stati mai aumentati, anzi sono stati ridotti per le note esigenze di contenimento della spesa pubblica. Di conseguenza la spesa per il settore delle locazioni passive è aumentata progressivamente negli anni[524].
L’Amministrazione dell’interno, anche attraverso la rinegoziazione dei canoni di locazione e la riduzione del numero di nuove sedi da realizzare, ha provveduto a ridimensionare in qualche misura l’ingente debito che si era accumulato negli anni in particolare nel settore delle locazioni[525].
Le due leggi finanziarie approvate nella legislatura hanno previsto una serie di misure specifiche per il rafforzamento dei servizi di polizia.
L’art. 1, comma 435, della legge finanziaria per il 2007 (L. 296/2006), già citato nel precedente paragrafo, ha previsto una riorganizzazione dei presìdi territoriali delle Forze di polizia con l’intento di ridurre le spese per l’affitto, la manutenzione e i canoni di serviziorelativi.
Il comma 437 ha assicurato una migliore utilizzazione dei beni mobili e immobili sequestrati o confiscati affidati in uso alle Forze di polizia, stabilendo che tali beni possono essere impiegati per tutte le esigenze di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria definite dall'amministrazione assegnataria.
Fornendo una base normativaa quegli strumenti di collaborazione Stato-enti territoriali nel campo della sicurezza (i patti per la sicurezza) che erano già stati sperimentati a partire dal 1997, il comma 439 dell’art. 1 ha introdotto la possibilità per il Ministero dell’interno di stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali per la realizzazione di programmi di incremento dei servizi di polizia a tutela della sicurezza dei cittadini. In questo ambito è stata prevista la possibilità di contributi finanziari o logistici da parte degli enti locali per tali scopi (si veda in proposito la scheda I patti per la sicurezza, pag. 433). Nei patti per la sicurezza sottoscritti successivamente all’entrata in vigore della disposizione illustrata è stata in alcuni casi prevista l’utilizzazione dei fondi messi a disposizione dagli enti locali per interventi sugli immobili adibiti ad uso delle forze dell’ordine, per le spese di acquisto di carburante o per la manutenzione dei mezzi in dotazione alle forze di polizia.
E’ stato istituito per l’anno 2007, nello stato di previsione del Ministero dell’interno, un fondo di conto capitale con una dotazione di 100 milioni di euro, da destinare alle esigenze infrastrutturali e di investimento (comma 1332).
E’ stato inoltre rifinanziato (comma 1344), con 30 milioni di euro per il 2007 e con 50 milioni di euro per ciascun anno del biennio 2008 – 2009, il Fondo per le esigenze correnti connesse all'acquisizione di beni e servizi dell'amministrazione istituito nello stato di previsione del Ministero dell'interno dall’art. 1, comma 27, della legge 266/2005 (legge finanziaria 2006) con una dotazione, per l'anno 2006, di 100 milioni di euro.
La legge finanziaria per il 2008 (L. 244/2007) ha istituito per il 2008, presso il Ministero dell'interno, un fondo per l’ammodernamento degli automezzi e degli aeromobili della Forze di polizia e dei vigili del fuoco. La dotazione del fondo è di 190 milioni di euro, di cui 30 milioni per le necessità dei vigili del fuoco (art. 2, comma 97); dallo stanziamento sono escluse le spese per il personale e quelle per il ripianamento delle posizioni debitorie.
Per la Guardia di finanza (art. 1, comma 350) sono stati stanziati 13 milioni di euro per l’anno 2008, 40 milioni di euro per l’anno 2009 e 80 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2010 per le esigenze di funzionamento del Corpo, con particolare riferimento alle spese per prestazioni di lavoro straordinario, indennità di missione, acquisto di carburante per gli autoveicoli e manutenzione degli stessi. Analogamente, per le esigenze dei Carabinieri è stata autorizzata una spesa di 40 milioni di euro per l’anno 2008 (art. 2, comma 74).
Per rafforzare la legalità e migliorare le condizioni di vita nei territori in cui opera la criminalità organizzata di tipo mafioso, è stato istituito a decorrere dall’anno 2008, presso il Ministero dell’interno, il “Fondo per la legalità”, alimentato dai proventi derivanti dai beni mobili e dalle somme di denaro confiscate (art. 2, commi da 102 a 104). Con le risorse del fondo sono finanziati, anche parzialmente, progetti relativi al potenziamento delle risorse strumentali e delle strutture delle Forze di polizia, al risanamento di quartieri urbani degradati, alla prevenzione e al recupero di condizioni di disagio e di emarginazione, al recupero o alla realizzazione di strutture pubbliche e alla diffusione della cultura della legalità[526] (in proposito si veda anche il capitolo Criminalità organizzata, nel dossier 1/1, Parte seconda).
Per quanto riguarda i provvedimenti d’urgenza, si segnala il decreto-legge 81/2007[527] (conv. L. 127/2007), il cui art. 4-bis, comma 1, ha istituito nello stato di previsione del Ministero dell’interno un fondo per l’acquisizione di beni e servizi e per gli investimenti della Polizia di Stato, del Corpo dei vigili del fuoco, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di finanza, con una dotazione, per l’anno 2007, di 100 milioni di euro, di cui 20 milioni di euro destinati alle esigenze dei vigili del fuoco.
Forze di sicurezza e soccorso pubblico
Il 30 ottobre 2007 il Consiglio dei ministri ha approvato cinque disegni di legge in materia di sicurezza dei cittadini e di contrasto all’illegalità diffusa; l’insieme di norme in essi contenute costituisce quello che è stato denominato dai mezzi di informazione, il “pacchetto sicurezza”[528].
I provvedimenti, presentati alle Camere tra il 13 e il 30 novembre 2007, sono stati assegnati alle Commissioni competenti per l’esame in sede referente; il Governo ha manifestato l’intento di chiedere una corsia preferenziale per la loro rapida approvazione[529]; lo svolgimento della sessione annuale di bilancio e le vicende che hanno portato alla fine anticipata della legislatura hanno impedito il seguito dell’iter parlamentare.
In particolare, il disegno di legge A.C. 3278, Disposizioni in materia di sicurezza urbana, è stato proposto dal ministro dell’interno ed assegnato alle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera.
Il ministro dell’interno, intervenendo il 25 settembre 2007 presso la Commissione affari costituzionali del Senato[530], ha illustrato gli elementi principali dell’azione del Governo in materia di sicurezza pubblica, soffermandosi, in particolare, sulle misure per la prevenzione e la repressione dei fenomeni criminosi nelle aree urbane, che erano in corso di elaborazione e che sarebbero state inserite nel disegno di legge recante disposizioni in materia di sicurezza urbana.
Il provvedimento, che consta di 15 articoli, si prefigge l’obiettivo di contrastare con strumenti nuovi e norme più efficaci alcuni comportamenti diffusi e particolarmente odiosi della cosiddetta criminalità da strada, ponendosi in una linea di continuità con il disegno di legge di iniziativa governativa A.C. 5925 della XIII legislatura, divenuto poi la legge 26 marzo 2001, n. 128, “Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini”.
Il disegno di legge reca norme a tutela dei minori: a tale scopo introduce nel codice penale una nuova fattispecie di reato di impiego di minori nell’accattonaggio, che punisce con la reclusione fino a 3 anni chi si avvale per mendicare di una persona minore di 14 anni, oppure chi permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare. Viene inoltre prevista la pena accessoria della decadenza dalla potestà di genitore quando venga accertato un vero e proprio asservimento del minore di età che si configuri come riduzione in schiavitù e commercio di esseri umani.
Per quanto riguarda i minori delinquenti, al fine di contrastare la diffusione della partecipazione di giovanissimi ad azioni criminali gravi sono previste aggravanti per i maggiorenni che concorrono nel reato nel caso in cui esso viene compiuto con la partecipazione di un minore di 18 anni.
Si prevede, con modalità analoghe a quelle stabilite per le vittime della tratta di esseri umani, la possibilità di rilascio di uno speciale permesso di soggiorno per motivi umanitari agli stranieri o apolidi vittime di maltrattamenti in famiglia o di violenze sessuali in ambito domestico, quando ricorra un pericolo di vita per loro o per i loro familiari come conseguenza della scelta di sottrarsi alla violenza. In caso di necessità, il permesso di soggiorno è esteso ai figli minori della vittima della violenza familiare. È previsto l’inserimento delle vittime di violenze in un programma di assistenza ed integrazione sociale.
Viene aggravata la pena per i reati di danneggiamento e di deturpamento e imbrattamento di cose altrui nel caso in cui la condotta criminosa sia commessa su immobili sottoposti a risanamento edilizio o ambientale o su ogni altro immobile, quando comunque il fatto pregiudichi il decoro urbano.
Si prevede che la sospensione condizionale della pena sia sempre subordinata alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato oppure alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività.
In caso di occupazione abusiva di luogo pubblico, il sindaco (o il prefetto per le strade extraurbane) può disporre l’immediato ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti e la chiusura dell’esercizio fino all’adempimento dell’ordine. Le prescrizioni sono estese all’esercente che non adempie agli obblighi di pulizia e decoro degli spazi antistanti l’esercizio.
Alle città d’arte è assegnato un contributo straordinario, proporzionato alla consistenza del flusso di turisti e alla rilevanza del patrimonio culturale, finalizzato ad assicurare il mantenimento delle aree con valore storico, artistico e archeologico.
Viene estesa l’utilizzazione da parte della polizia municipale della banca dati Centro elaborazione dati (CED) interforze del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministro dell’interno prevedendo l’accesso diretto alla banca dati dei veicoli rinvenuti e a quella dei documenti di identità rubati o smarriti e la facoltà di immissione diretta dei dati (e non solo di consultazione di quelli esistenti).
I piani coordinati di controllo del territorio definiscono rapporti di reciproca collaborazione tra il personale della polizia municipale e gli organi di polizia dello Stato.
Si rimette a un successivo decreto la definizione di procedure più efficaci per assicurare l’immediato interessamento degli organi di polizia dello Stato nel caso di interventi nella flagranza dei reati.
Questo costituisce uno degli aspetti più qualificanti del provvedimento. Esso prevede che il sindaco concorra ad assicurare, nelle forme disciplinate dal ministro dell’interno, la cooperazione della polizia locale con le forze di polizia statali nell’ottica di una maggiore partecipazione del rappresentante della comunità locale alla tutela della sicurezza dei cittadini.
Sono integrati i poteri di ordinanza del sindaco, prevedendo l’adozione di provvedimenti contingibili e urgenti nei casi in cui si renda necessario prevenire ed eliminare gravi pericoli non solo per l’incolumità pubblica ma anche per la sicurezza urbana; essi sono comunicati al prefetto, il quale può predisporre gli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione.
Nel caso di provvedimenti adottati dal sindaco in materia di ordine e sicurezza che possono avere ripercussioni sulle popolazioni dei comuni limitrofi, il prefetto può indire una conferenza (diversa dalla conferenza di servizi) alla quale partecipano i sindaci, il presidente della provincia e altri soggetti pubblici e privati dell’ambito territoriale interessato.
Si estende l’applicazione della norma relativa al reato di possesso in occasione di manifestazioni sportive di armi improprie, petardi e altre attrezzature vietate a tutti i casi in cui il possesso dei tali oggetti, accertato durante lo svolgimento della manifestazione sportiva, ovvero nelle 24 ore precedenti o successive all’evento, sia correlato alla medesima manifestazione.
Viene perfezionato il sistema di prevenzione relativo all’uso e al porto delle armi inoffensive in quanto queste vengono sempre più usate con efficacia per commettere rapine.
Si prevede che il questore possa imporre alle persone condannate per delitti non colposi il divieto di detenere armi di qualsiasi tipo, comprese quelle a ridotta capacità di offensiva e i giocattoli riproducenti armi.
La versione del provvedimento approvata dal Consiglio dei ministri del 30 ottobre 2007 conteneva anche una serie di disposizioni relative all’esecuzione degli allontanamenti dei cittadini dell’Unione europea per motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza. Il Governo tuttavia decise di trasfonderle in uno specifico provvedimento d’urgenza, il decreto-legge 1 novembre 2007 n. 181[531] (per ulteriori dettagli al riguardo, vedi il capitolo Diritto di circolazione dei cittadini UE, nel dossier 1/1, Parte seconda).
Gli altri quattro disegni di legge facenti parte del “pacchetto sicurezza” sono di iniziativa del ministro della giustizia.
Composto di 7 articoli, reca disposizioni volte ad assicurare una compiuta valutazione della personalità dell’indagato da parte del giudice in sede cautelare e di concessione della sospensione condizionale della pena; delinea una disciplina processuale più rigorosa in materia cautelare ed elimina l’istituto del cosiddetto “patteggiamento in appello”, nell’ottica di assicurare la certezza della pena.
Per quanto riguarda l’esecuzione della pena, esclude, per i reati di maggiore allarme sociale, gli automatismi previsti per la sospensione dell’esecuzione stessa. Disegna un percorso processuale più rapido per i processi con imputati in stato di custodia cautelare, amplia le possibilità di ricorso all’incidente probatorio per l’acquisizione della testimonianza di minori e della persona offesa, nei procedimenti per i reati di maltrattamenti in famiglia e per altri gravi reati.
Per esigenze di snellimento e riduzione dei costi del procedimento, provvede ad ampliare il novero delle ipotesi in cui è possibile procedere alla distruzione delle merci in sequestro, anche prima della sentenza definitiva.
Sul piano sostanziale, interviene, da un lato, sull’istituto della prescrizione (come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251) e, dall’altro lato, sull’assetto normativo in tema di maltrattamenti in famiglia, di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime (con particolare riguardo ai fatti commessi da soggetti in stato di elevata ebbrezza alcolica o in stato di alterazione da sostanze stupefacenti), nonché in tema di riciclaggio e di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.
Con riferimento ai delitti a tutela della libertà personale, introduce, da un lato, una specifica aggravante in caso di violenza sessuale commessa dal coniuge o convivente, e, dall’altro lato, il nuovo reato di adescamento di minorenni, che mira a reprimere le forme di approfittamento della fiducia di un minore, realizzate attraverso la rete internet o altri mezzi di comunicazione, in funzione del compimento di delitti sessuali.
L’intervento normativo è volto, per un verso, a riordinare e razionalizzare l’intera disciplina vigente in tema di misure di prevenzione e, per altro verso, ad ottimizzare il funzionamento degli attuali uffici giudiziari, introducendo modifiche ordinamentali per quanto concerne gli uffici del giudice per le indagini preliminari dei tribunali aventi sede nei capoluoghi di distretto e negli uffici di procura nelle sedi particolarmente esposte all’azione della criminalità organizzata, nonché innovando la disciplina per la copertura delle sedi giudiziarie con più elevata quota di posti vacanti attraverso la previsione di una serie di incentivi economici e di carriera.
Viene conferita al Governo una delega per l’emanazione di un testo unico che unifichi e razionalizzi la disciplina delle misure di prevenzione patrimoniali e personali. Nell’esercizio della delega il Governo terrà conto, tra gli altri, di alcuni criteri qualificanti: le misure patrimoniali di prevenzione verranno applicate anche alle persone giuridiche e ai deceduti entro cinque anni dal decesso; gli imprenditori che non denuncino di essere assoggettati a pressioni da parte della criminalità organizzata potranno evitare il sequestro e la confisca di prevenzione a condizione che collaborino alla ricostruzione di fatti e di elementi di prova decisivi per le indagini; a quelli che fin dall’inizio collaboreranno con l’autorità giudiziaria verrà conferita una amministrazione di sostegno; sarà prevista la possibilità di confiscare anche beni localizzati in Paesi dell’Unione europea.
La disciplina su cui il provvedimento interviene, introdotta nel 2002, è stata oggetto di critiche sul piano giurisprudenziale e dottrinale in quanto il complessivo ridimensionamento dell’area penalmente rilevante ha comportato un ridimensionamento significativo delle esigenze di tutela anticipata di interessi patrimoniali; un’ulteriore spinta ad intervenire è venuta dal notevole contrasto giurisprudenziale che si è creato in sede comunitaria e internazionale.
Queste, in estrema sintesi, le modifiche proposte dal disegno di legge: eliminazione delle fattispecie contravvenzionali; eliminazione della procedibilità a querela; creazione di due fattispecie distinte di falso in bilancio, una per le società non quotate e una per le società quotate in borsa; riformulazione della fattispecie di falso nelle comunicazioni delle società di revisione; eliminazione della soglia di punibilità; previsione di un’aggravante specifica per i casi di falso in bilancio che arrechino grave nocumento ai risparmiatori e alla società civile.
Il 4 luglio 2006 il ministro dell’interno ha dichiarato, per conto del Governo italiano, a Berlino, l’intenzione dello Stato italiano di aderire agli Accordi di Prüm. Tale Convenzione, denominata “Schengen 2”, è stata firmata a Prüm (Germania) il 27 maggio 2005 tra sette Paesi dell’Unione europea (Belgio, Francia, Germania, Spagna, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria) ed è aperta all’adesione e ratifica di altri Paesi della medesima Unione europea.
Essa è volta a rafforzare la cooperazione transfrontaliera nella lotta ai fenomeni del terrorismo, della immigrazione clandestina, della criminalità internazionale e transnazionale. Le disposizioni in essa contenute rendono, infatti, possibile, lo scambio di informazioni concernenti dati informatici relativi a impronte digitali e dati genetici (DNA), con correlativa predisposizione di un livello adeguato di protezione dei dati medesimi da parte del Paese contraente destinatario.
Il Trattato di Prüm intende consentire – nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali – l’accesso automatizzato ad alcuni schedari nazionali degli Stati aderenti. Si tratta del reciproco accesso, lettura diretta ed on line ai dati dei registri di immatricolazione dei veicoli, nonché degli archivi d’analisi del DNA e dei dati dattiloscopici (impronte digitali), secondo specifiche modalità. In tale modo il servizio che effettua la consultazione riceverà in riscontro direttamente e per via informatica l’informazione sull’esistenza o meno del dato richiesto nello schedario del partner.
Inoltre, allo scopo di migliorare la cooperazione di polizia il Trattato prevede, oltre allo scambio di informazioni su potenziali terroristi:
§ la possibilità di istituire pattuglie comuni e di delegare competenze di forza pubblica a Forze di polizia appartenenti alle altre Parti contraenti, nonché l’assistenza in occasione di eventi di grande portata;
§ lo svolgimento di operazioni oltre frontiera su richiesta (o anche senza, in casi di urgenza) con la possibilità di esercitare alcuni poteri di polizia;
§ meccanismi di cooperazione in materia di attività di contrasto dei documenti falsi, di impiego di guardie armate a bordo degli aerei e in materia di espulsione.
Tra le varie banche dati dei Paesi dell’Unione aderenti al Trattato di Prüm che dovranno entrare in correlazione tra di loro vi è anche quella del DNA. L’Italia non possiede, allo stato, una banca dati del DNA; l’adesione al Trattato appare quindi in concreto condizionata, quanto agli effetti, all’approvazione della legge istitutiva di tale banca dati.
Pertanto con il disegno di legge si provvede all’autorizzazione all’adesione al Trattato di Prüm, con l’introduzione delle necessarie norme di adeguamento interno.
Il Parlamento da parte sua aveva chiesto al Governo di assumere iniziative volte a ratificare al più presto il trattato[532].
Il testo prevede l’istituzione della banca dati nazionale del DNA – con il controllo del Garante per la protezione dei dati personali e del Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie – e del Laboratorio centrale delle banche-dati presso i Ministeri dell’interno e della giustizia, al fine di facilitare l’identificazione degli autori di delitti.
Nella banca dati sono conservati i profili di DNA scaturiti dall’esame di reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali, ovvero prelevati da detenuti con condanna definitiva o in carcere per misure cautelari, arrestati in flagranza di reato e sottoposti a fermo di polizia. Di tali reperti è prevista la distruzione nel caso in cui la condanna non venga confermata.
Il disegno di legge delega inoltre il Governo a istituire i ruoli tecnici del Corpo di polizia penitenziaria in modo da garantire che all’interno dell’Amministrazione penitenziaria siano reclutate quelle unità di personale dotate delle specifiche cognizioni e competenze tecniche per la gestione ed il funzionamento del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA.
Sulla materia trattata dalla presente scheda, vedi anche il capitolo Indagine conoscitiva sulla sicurezza, nel dossier 1/1, Parte seconda e le schede I patti per la sicurezza, pag. 433 e Polizia locale e sicurezza sussidiaria, pag. 541).
Forze di sicurezza e soccorso pubblico
L’introduzione nel 1993 dell’elezione diretta dei sindaci, il decentramento amministrativo e il trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, attuato con la L. 59/1997[533] e il D.Lgs. 112/1998[534], e la riforma costituzionale del 2001, che ha modificato il Titolo V della Parte seconda della Costituzione, hanno portato alla rivendicazione, da parte degli enti locali, di un ruolo sempre maggiore nelle politiche della sicurezza urbana, in osservanza al principio di sussidiarietà e, dunque, all’opportunità di allocare funzioni e poteri pubblici ai livelli istituzionali più vicini al cittadino.
È stato evidenziato che, pur essendo riservata alla competenza statale la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, ad esclusione della polizia amministrativa locale, per raggiungere livelli di sicurezza adeguati, anche in considerazione dell’aumento di alcuni fenomeni (immigrazione clandestina, prostituzione, traffico di sostanze stupefacenti), è necessaria la collaborazione tra istituzioni centrali e locali nel campo della sicurezza[535].
I primi patti per la sicurezza sono stati stipulati nel 1997: essi prevedevano forme di collaborazione tra gli organismi statali e gli enti locali e territoriali nel campo della sicurezza e della tutela della legalità.
Nel 2006 risultavano essere stati attivati circa 400 strumenti pattizi con varia denominazione e in molti casi non riconducibili ad una logica unitaria. Pertanto, da quella data, essi non sono stati rinnovati automaticamente, come avveniva in precedenza: è stata invece avviata una fase nuova, caratterizzata dall’individuazione di alcuni principi guida dei patti di nuova generazione. Nel quadro di una visione generale unitaria, si è ritenuto che le politiche della sicurezza debbano tenere conto anche della specificità delle singole realtà territoriali e che gli obiettivi, le priorità e i modi di intervento debbano essere definiti attraverso una forte cooperazione con le istituzioni locali[536].
Preliminarmente si è data una base normativa a questi strumenti di collaborazione Stato-enti territoriali nel campo della sicurezza: il comma 439 dell’art. 1 della L. 296/2006 (legge finanziaria per il 2007) ha autorizzato i prefetti a stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari per incrementare i servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la tutela della sicurezza dei cittadini, accedendo alle risorse logistiche, strumentalio finanziarie che le regioni e gli enti locali intendono destinare nel loro territorio per questi scopi.
Le contribuzioni finanziarie provenienti dalle regioni o dagli enti locali in favore del Ministero dell’interno per queste finalità sono state espressamente escluse dall’applicazione dell’art. 1, comma 46, della L. 266/2005 (finanziaria 2006), che stabilisce un limite alle riassegnazioni di risorse alle singole amministrazioni[537].
La definizione di intese e accordi in sede locale che consentano di mobilitare in modo integrato le risorse disponibili sul territorio e di finalizzarle al raggiungimento di obiettivi specifici è stata indicata dal Governo[538] tra le misure che permettono di conseguire il più razionale impiego delle risorse umane, logistiche e tecnologiche e dei mezzi delle forze di polizia nell’espletamento dei compiti di ordine e sicurezza pubblica.
Sulla base delle previsione della legge finanziaria per il 2007, è stato stipulato, il 20 marzo 2007, un Patto per la sicurezza tra il Ministero dell’Interno e l’ANCI, che coinvolge tutti i comuni italiani e, nell’ambito di questo accordo cornice, un’intesa per la sicurezza delle aree urbane con i sindaci delle città sedi di aree metropolitane.
Il Patto con l’ANCI costituisce l’accordo quadro di riferimento per sviluppare con i comuni accordi locali, nel quadro di un rapporto di sussidiarietà tra gli organismi statali e gli enti locali e territoriali.
L’intesa con i sindaci delle “città metropolitane” stabilisce:
§ la definizione entro 60 giorni di patti per la sicurezza con ogni città, che prevedano risorse organizzative e finanziarie adeguate da parte di tutti i soggetti contraenti;
§ l’avvio, nello stesso periodo di tempo, di un gruppo di lavoro congiunto per definire le innovazioni legislative e normative che possano sostenere queste intese e consentire di realizzare nuovi strumenti per contrastare il disagio e il degrado nelle aree urbane.
Il Patto cornice per la sicurezza pone preliminarmente alcuni principi di carattere generale: la sicurezza è un diritto primario dei cittadini da garantire in via prioritaria e vi è l’esigenza che tale diritto sia assicurato nel modo migliore e più pieno non soltanto in relazione ai fenomeni di criminalità organizzata, ma anche in rapporto a quelli di criminalità diffusa incidenti sul territorio e, più in generale, a quelli dell’illegalità.
Il Patto ha fissato alcune linee di indirizzo per sviluppare gli accordi e le iniziative congiunte da realizzarsi in collaborazione tra gli enti locali e il Ministero dell’interno; tra le quali rilevano:
§ la promozione di un rapporto di collaborazione tra i prefetti e i sindaci per un più intenso ed integrato processo conoscitivo delle problematiche emergenti sul territorio;
§ l’attivazione di iniziative di prevenzione sociale mirate alla riqualificazione del tessuto urbano, al recupero del degrado ambientale e delle situazioni di disagio sociale;
§ iniziative per il reclutamento, la formazione e l’aggiornamento professionale del personale dei Corpi di polizia municipale e di altri operatori della sicurezza, nell’ottica di un innalzamento dei livelli di professionalità, creando così le condizioni per una integrazione tra gli operatori nel quadro delle iniziative in tema di “sicurezza diffusa”, con possibile organizzazione di “pattuglie miste”;
§ la realizzazione di forme di interoperabilità tra le sale operative delle Forze di Polizia e quelle delle polizie municipali e promozione della collaborazione dei rispettivi sistemi informativi;
§ la promozione e il potenziamento degli apparati di videosorveglianza.
Facendo ricorso alla disposizione della legge finanziaria per il 2007 sono stati definiti interventi concreti sul territorio (“missioni” specifiche[539]) attraverso protocolli e programmi congiunti, condivisi tra la prefettura, il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, il comune e la provincia. I patti per la sicurezza sono stipulati nell’ambito del comitato provinciale, che individua le priorità di intervento e interviene per realizzarle attraverso un apposito fondo speciale, allocato presso le prefetture ed alimentato dagli enti locali, che in tal modo partecipano ai costi del sistema di sicurezza[540].
Tali accordi prevedono l’impiego comune di uomini e mezzi, interventi mirati in campo urbanistico, la gestione di risorse finanziarie comuni, l’individuazione di aree di particolare rischio. Essi hanno durata generalmente annuale e sono oggetto di verifica ogni sei mesi.
Dalla fine del 2006 ad oggi sono stati sottoscritti 16 patti per la sicurezza tra il ministro dell’interno e i rappresentanti delle istituzioni locali (vedi tab. 1).
Tab. 1. I patti per la sicurezza
Patto per la sicurezza di Napoli e provincia |
3 novembre 2006 |
Patto per Roma sicura |
18 maggio 2007 |
Patto per Milano sicura |
18 maggio 2007 |
Patto per Torino sicura |
22 maggio 2007 |
Patto per Cagliari sicura |
11 giugno 2007 |
Patto per Catania sicura |
11 giugno 2007 |
Patto per Genova sicura |
14 giugno 2007 |
Patto per Bari sicura |
18 giugno 2007 |
Patto per Bologna sicura |
19 giugno 2007 |
Patto per Venezia sicura |
18 luglio 2007 |
Patto per Modena sicura |
18 luglio 2007 |
Patto per Firenze sicura |
19 luglio 2007 |
Patto per Prato sicura |
31 luglio 2007 |
Patto per la sicurezza di Vicenza |
13 novembre 2007 |
Patto per Asti sicura |
17 dicembre 2007 |
Patto per Perugia sicura |
10 marzo 2008 |
Fonte: Ministero dell’interno
Nello stesso periodo sono stati realizzati
anche due accordi con
I due accordi regionali si vanno ad aggiungere alle numerose intese stipulate tra il Governo e le Regioni.
Tali intese hanno assunto due forme: accordi o protocolli in materia di sicurezza tra il Ministero dell’interno e le Regioni (tab. 2) e accordi di programma-quadro “sicurezza per lo sviluppo” (tab. 3).
Tab. 2. Accordi in materia di sicurezza
Emilia Romagna |
2 maggio 2001 |
Lazio |
2 maggio 2002 |
Toscana |
5 novembre 2002 |
Veneto |
19 dicembre 2002 |
Marche |
14 ottobre 2003 |
Friuli-Venezia Giulia |
27 marzo 2007 |
Fonte: Ministero dell’interno
Tab. 3. Accordi di programma-quadro sicurezza per lo sviluppo
Sardegna |
4 aprile 2003 |
Campania |
25 luglio 2003 |
Calabria |
26 settembre 2003 |
Puglia |
29 settembre 2003 |
Sicilia |
30 settembre 2003 |
Lombardia |
28 maggio 2004 |
Molise (*) |
29 settembre 2004 |
Basilicata |
14 ottobre 2004 |
Fonte: Ministero dell’interno, Rete dei Nuclei di Valutazione e Verifica degli Investimenti pubblici
(*) L’accordo fa parte integrante del Programma pluriennale d’interventi per la ripresa produttiva nel territorio della regione Molise approvato dal CIPE con la delibera n. 32 del 29 settembre 2004.
I protocolli d’intesa (di cui fanno parte i citati accordi di Bari e Bologna del giugno 2007) hanno ad oggetto la sicurezza di singole città e sono stipulati dai prefetti e dai rappresentanti delle comunità locali (sindaci, presidenti di provincia, presidenti di regione). Dopo il primo protocollo relativo alla città di Modena del 1998 ne sono stati sottoscritti oltre 250.
Infine, si ricordano gli oltre 60 protocolli di legalità, strumenti di sicurezza partecipata utilizzati soprattutto nel Mezzogiorno, prevalentemente finalizzati a prevenire le ingerenza della criminalità organizzata nelle attività produttive.
L’utilizzazione del fondo speciale per l’attuazione dei progetti di sicurezza[541] per interventi sugli immobili adibiti ad uso delle forze dell’ordine, oppure per le spese di acquisto di carburante o per la manutenzione dei mezzi in dotazione alle forze di polizia non è stata da alcuni giudicata positivamente. Si è osservato[542] che interventi di questa natura non dovrebbero essere inseriti nei patti per la sicurezza sottoscritti a livello locale perché così facendo si depaupera il fondo speciale; le cui risorse non sono cospicue e se utilizzate per queste finalità non possono essere impegnate in quegli strumenti di collaborazione e coordinamento che costituiscono il pregio dei patti.
Dopo l’adozione nel 2007 dei nuovi patti per la sicurezza, secondo quanto risulta dal rapporto del Ministero dell’interno sull’andamento semestrale della criminalità e dell’azione di contrasto in Italia e nelle città per le quali sono stati stipulati i patti per la sicurezza[543] reso noto il 21 aprile 2008, i delitti nelle città sono diminuiti.
Un’analisi delle problematiche legate alla sicurezza nelle grandi città e degli strumenti adottati dagli enti locali per affrontarle, con particolare riferimento ai patti per la sicurezza, è contenuta nel Rapporto 2007 sulla situazione sociale del Paese del CENSIS (pagg. 629-640).
Anche le Regioni hanno adottato, dalla fine degli anni ‘90, iniziative legislative nel campo della sicurezza, in cui si evidenzia il ruolo di coordinamento delle politiche integrate per la sicurezza urbana poste in essere a livello comunale.
Tra le più recenti, si segnala quella della Regione Piemonte, che con la legge regionale 23/2007[544] ha inteso realizzare politiche locali per la sicurezza integrata delle città e del territorio regionale e per lo sviluppo di una cultura e di una pratica diffusa della legalità, con l’obiettivo di contrastare i fenomeni che generano sentimenti di insicurezza della popolazione e di aumentare la sicurezza reale.
La Regione riconosce le competenze proprie specifiche degli enti locali e dei soggetti pubblici e privati operanti nel campo sociale, in materia di sicurezza integrata, ne coordina gli interventi e promuove e sostiene accordi di partenariato ed i patti locali per la sicurezza integrata.
Gli interventi volti a realizzare patti locali per la sicurezza integrata riguardano tra l’altro:
§ la riqualificazione e la rivitalizzazione urbanistica di parti del territorio con interventi finalizzati alla dissuasione delle manifestazioni di microcriminalità diffusa;
§ il rafforzamento della prevenzione sociale nei confronti delle aree e dei soggetti a rischio;
§ la tutela delle piccole e medie imprese artigianali, commerciali e turistiche particolarmente a rischio criminalità;
§ il rafforzamento della vigilanza e della presenza sul territorio degli operatori addetti alla prevenzione sociale e alla sicurezza, per assicurare l’intervento tempestivo dei servizi di competenza degli enti locali.
La legge prevede la possibilità per gli operatori di polizia locale che espletano funzioni di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza di essere dotati di “presidi tattici”, ai fini della prevenzione e della tutela della propria incolumità personale.
Si ricordano inoltre le leggi della Regione Calabria 10 gennaio 2007 n. 5, Promozione del sistema integrato di sicurezza, della Regione Puglia 28 giugno 2007 n. 21, Istituzione della Commissione d’indagine per lo studio delle condizioni e per l’individuazione delle misure atte a favorire la sicurezza delle persone nella Regione Puglia, della Regione Sardegna 22 agosto 2007 n. 9, Norme in materia di polizia locale e politiche regionali per la sicurezza.
Sulla materia trattata dalla presente scheda, si vedano anche i capitoli Indagine conoscitiva sulla sicurezza, nel dossier 1/1, Parte seconda e le schede Il “pacchetto sicurezza”, pag. 426 e Polizia locale e sicurezza sussidiaria, pag. 541).
Per la giustizia penale è lo Stato, in rappresentanza degli interessi dei cittadini, che reagisce al crimine attivando il processo penale e, in caso di condanna, punendo il colpevole.
Nel processo – nonostante i significativi passi in avanti operati dal nuovo codice – la vittima ha uno spazio modesto: non ha la possibilità di esprimere i propri sentimenti o la propria volontà nei confronti dell’autore del reato e partecipa al processo solo in quanto persona offesa dal reato.
Con la persona offesa non va confusa quella danneggiata dal reato, la quale ha sofferto un danno patrimoniale o morale per il cui risarcimento ha diritto di azione e, quindi, di costituirsi parte civile (v. infra). Normalmente le due figure coincidono nella stessa persona fisica, ma possono essere anche persone diverse. Così, nel reato di omicidio, persona offesa è il deceduto, danneggiati sono i congiunti superstiti (i quali pertanto potranno costituirsi parte civile per le pretese risarcitorie).
Ai sensi degli articoli 90 e seguenti del codice di procedura penale la persona offesa dal reato è un soggetto processuale che svolge un ruolo di accusa privata, sussidiaria e accessoria rispetto a quella pubblica, spettante al pubblico ministero, che è l’intestatario istituzionale dell’interesse penalmente protetto. Tale ruolo si estrinseca in forme di adesione o di supporto dell’attività del P.M., oppure di controllo su essa.
In ogni fase del procedimento la persona offesa può presentare memorie (elaborati scritti riguardanti questioni processuali o di merito, rivolte al P.M. o al giudice) e indicare elementi di prova. Inoltre, durante le indagini preliminari la persona offesa:
§ può nominare un difensore (art. 101 c.p.p.);
§ può proporre istanza di procedimento (art. 341 c.p.p.);
§ può assistere agli atti c.d. garantiti compiuti dal P.M. (art. 360 c.p.p.);
§ deve ricevere l’informazione di garanzia rivolta alla persona sottoposta alle indagini (art. 369 c.p.p.);
§ può richiedere al P.M. di promuovere un incidente probatorio obbligandolo – laddove non intenda procedere in tal senso – a pronunciare un decreto motivato (art. 394 c.p.p.);
§ può partecipare (attraverso il proprio difensore) all’incidente probatorio (artt. 398 e 401 c.p.p.);
§ deve ricevere l’eventuale richiesta del P.M. di archiviazione per infondatezza della notizia di reato potendo opporvisi e chiedere la prosecuzione delle indagini preliminari indicando l’oggetto dell’investigazione e gli elementi di prova (artt. 408-410 c.p.p.);
§ può richiedere al procuratore generale di avocare il procedimento in caso di inerzia del P.M. (art. 413 c.p.p.).
Durante la fase del processo la persona offesa:
§ deve ricevere l’avviso dell’udienza preliminare (art. 419 c.p.p.);
§ può far valere in Cassazione la nullità (ex art. 419, co. 7) della sentenza di luogo a procedere (art. 428 c.p.p.);
§ deve ricevere la notifica del decreto che dispone il rinvio a giudizio dell’imputato (art. 429 c.p.p.) e del decreto che dispone il giudizio immediato (art. 456 c.p.p.);
§ può richiedere al P.M. di impugnare la sentenza obbligandolo – laddove non intenda procedere in tal senso – a pronunciare un decreto motivato (art. 572 c.p.p.).
Se la persona offesa/vittima del reato ha subito un danno suscettibile di riparazione economica può partecipare al processo penale come parte civile(artt. 76 e ss. c.p.p.).
La costituzione di parte civile ha carattere facoltativo, atteso che la pretesa può essere tutelata mediante l’esercizio dell’azione ordinaria di danno in sede civile, ed autonomo, dal momento che una sentenza assolutoria non incide sull’esito del giudizio civile.
La dichiarazione di costituzione di parte civile va fatta personalmente o a mezzo di un procuratore speciale e depositata nella cancelleria del giudice che inizierà il giudizio, o portata all'udienza preliminare (art. 78 c.p.p.). Quando siano presenti una o più parti lese, il giudice, al momento della sentenza, deve anche stabilire (se l'imputato è stato riconosciuto colpevole) il risarcimento dei danni.
In veste di parte civile la vittima del reato può curare solo la pretesa civilistica alle restituzioni o al risarcimento del danno. L’azione civile ha natura secondaria, atteso che l’oggetto principale del processo penale è rappresentato dall’accertamento della penale responsabilità dell’imputato. Con l’inserimento dell’azione civile nel processo penale l’ordinamento persegue esclusivamente esigenze di economia dei giudizi, intendendo evitare che, concluso l’accertamento penale, si instauri un ulteriore giudizio in sede civile.
Il codice di procedura penale dispone che la parte civile:
§ sta in giudizio col ministero di un difensore (art. 100 c.p.p.), presso il quale riceve le notificazioni (art. 154 cp.p.);
§ può fare richiesta o acconsentire all’esame, sempre che non debba essere sentita come testimone (art. 208 c.p.p.);
§ può chiedere che sulle cose appartenenti all'imputato o al responsabile civile sia mantenuto il sequestro a garanzia dei crediti (artt. 262 e 323 c.p.p.); può chiedere il sequestro conservativo (art. 316 c.p.p.);
§ partecipa alla discussione nell’ambito dell’udienza preliminare (art. 421 c.p.p.) e può ricorrere in Corte di cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere (art. 428 c.p.p.);
§ può non accettare il rito abbreviato; se però la costituzione di parte civile avviene dopo la conoscenza dell'ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, ciò vale da accettazione del rito (art. 441 c.p.p.);
§ nel giudizio direttissimo può presentare in dibattimento testimoni senza citazione (art. 451 c.p.p.);
§ nel rito ordinario, in dibattimento, può indicare i fatti che intende provare e chiedere l’ammissione delle prove (art. 493 c.p.p.); può esaminare le parti (art. 503 c.p.p.) e partecipare alla discussione finale illustrando le proprie conclusioni scritte che devono comprendere, quando sia richiesto il risarcimento dei danni, anche la determinazione del loro ammontare (art. 523 c.p.p.);
§ può chiedere al P.M. di proporre impugnazione a ogni effetto penale obbligandolo – laddove non intenda procedere in tal senso – a pronunciarsi con un decreto motivato (art. 572 c.p.p.);
§ può proporre impugnazione, contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio; può altresì proporre impugnazione contro la sentenza pronunciata a seguito di rito abbreviato, quando ha consentito al rito stesso (art. 576 c.p.p.).
Il diritto processuale penale riconosce un ulteriore spazio alla vittima nelle ipotesi – per ora limitate – nelle quali si prevede la mediazione penale.
La mediazione è un processo di risoluzione dei conflitti che coinvolge l’intervento di una terza parte neutrale, con l’intento di favorire accordi volontari tra le parti. In ambito penale, la mediazione avviene tra vittima e autore del reato: le due parti possono, con l’aiuto di un soggetto “terzo”, discutere e trovare una soluzione ai problemi che sorgono dalla commissione del reato. La mediazione tra autore e vittima introduce una modifica importante nel processo penale, restituendo alle parti il potere di discutere del fatto di reato e delle sue conseguenze e di trovare delle forme di riparazione adeguate. Ovviamente tutto ciò avviene nel rispetto delle garanzie processuali: l’accordo è sempre sottoposto ad una conferma del giudice che ne valuta la congruità.
Dalla mediazione, solitamente, ci si attende tre effetti: a) la responsabilizzazione dell’autore di reato; b) la soddisfazione della vittima; c) una deflazione del contenzioso giudiziario.
Nel nostro ordinamento, la più nota esperienza di mediazione in ambito penale non riguarda il processo penale ordinario, bensì il processo minorile. Nell’ambito della cd.“messa alla prova” (D.P.R. 448/1998[545], art. 28) si prevede, infatti, una specifica ipotesi di mediazione ed attività riparatoria delle conseguenze del reato[546].
L’art. 28 del D.P.R. 448/1988 prevede che il giudice, quando ritiene di dover procedere alla valutazione della personalità del minorenne all’esito della cd. messa alla prova, sentite le parti, può sospendere il processo per un massimo di tre anni (o di un anno)[547], periodo durante il quale la prescrizione è sospesa.
Con l’ordinanza che sospende il processo, il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento delle attività di osservazione, trattamento e sostegno; Se la messa alla prova dà esito positivo il giudice dichiara con sentenza estinto il reato; in caso contrario il procedimento penale riprende dal momento della sospensione (art. 29).
Con l’ordinanza di messa alla prova il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato (art. 28, comma 2).
È quindi previsto un progetto di intervento globale che prevede, o dovrebbe prevedere, le modalità di coinvolgimento del minorenne, della sua famiglia, e dell’ambiente che lo circonda, la partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e degli enti locali; se il giudice lo ritiene opportuno, tale progetto sarà comprensivo delle modalità di attuazione dirette alla riparazione del reato e alla riconciliazione con la vittima.
L’esito positivo della mediazione può far sì che il P.M. possa avanzare richiesta di risoluzione del procedimento attraverso una pronuncia di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, ovvero può rimandare al GUP la proposta dell’applicazione del perdono giudiziale o la proposta di applicazione di misure di riparazione (art. 28 o 32 del D.P.R. 488/88).
Tornando alla giustizia penale ordinaria, il codice di rito, così come modificato dalla L. 479/1999[548] (c.d. legge Carotti), attribuisce al giudice monocratico di tribunale in sede di udienza di comparizione a seguito di citazione diretta in giudizio il potere di tentare la conciliazione tra la vittima e l'autore del reato, per i reati perseguibili a querela (art. 555 c.p.p., terzo comma). Il tentativo consiste nella verifica, da parte del giudice, della possibilità della rimessione della querela da parte del querelante e nella conseguente accettazione della remissione da parte del querelato.
La più importante novità in materia di giustizia riparativa riguarda però l’emanazione del D.Lgs 28 agosto 2000, n. 274 sulle competenze penali del giudice di pace, che apre la via al tentativo di introdurre “a regime” nel nostro ordinamento un effettivo filtro conciliativo precontenzioso in materia penale come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti[549].
L’art. 29, co. 4, del D.Lgs 274/2000 stabilisce che, prima di aprire il dibattimento – quando il reato è perseguibile a querela – il giudice onorario debba promuovere, nell’udienza di comparizione, il tentativo di conciliazione[550] tra le parti al fine di pervenire alla remissione della querela o alla rinuncia al ricorso.
Per favorire il tentativo di conciliazione, il giudice può sospendere l’udienza e rinviarla fino a 2 mesi, allo scopo di permettere alle parti di valutare le proposte transattive formulate. In caso di necessità, il giudice di pace potrà avvalersi dell’attività di mediazione offerta dalle strutture territoriali di assistenza pubbliche o private.
In caso di esito positivo del tentativo, viene redatto apposito processo verbale di remissione di querela, o di rinuncia al ricorso (anche da parte delle altre persone offese che siano intervenute nel processo ex art. 28), che dovrà essere accettata dall’imputato; conseguentemente, il processo si concluderà per estinzione del reato ex art. 469 c.p.p. La conciliazione viene sancita con la sentenza di non doversi procedere(art. 529 c.p.p.). Se la conciliazione fallisce, si procede al giudizio e per evitare che le opinioni espresse dalle parti durante il tentativo di conciliazione possano costituire materiale probatorio, è stabilito che le dichiarazioni rese in tale sede non abbiano alcuna valenza processuale, non potendo essere in alcun modo utilizzabili ai fini della deliberazione, neppure attraverso il meccanismo delle contestazioni.
Poiché il giudice di pace “deve” tentare la conciliazione sugli aspetti riparatori e risarcitori conseguenti al reato, il suo intervento non può limitarsi soltanto a verificare la volontà della parte offesa di rimettere la querela (e quella del querelato di accettarla); ora, al giudice di pace (o a un suo delegato nel caso di ricorso a strutture pubbliche) viene infatti chiesto di promuovere, con la riconciliazione tra le parti, anche la riparazione e il risarcimento del danno.
Vittime dei reati
La legge 3 agosto 2004, n. 206[551], ha dettato norme in favore dei cittadini italiani vittime di atti di terrorismo e di stragi, compiute sul territorio nazionale o all’estero, e dei loro familiari superstiti. Tale legge si innesta sulla stratificata disciplina preesistente: l’art. 1, comma 2, infatti prevede in via generale che, per quanto non espressamente previsto dalla legge stessa, si applicano le disposizioni contenute nelle leggi 302/1990 e 407/1998 e l’art. 82 della L. 388/2000 (per il contenuto di queste disposizioni v. infra).
Le altre misure stabiliscono:
§ la ridefinizione a 200.000 euro dell’entità massima delle elargizioni, già disposte dalla normativa previgente, in favore di chiunque subisca una invalidità permanente (o dei familiari in caso di morte) a causa di atti di terrorismo;
§ la concessione, oltre all’elargizione, di uno speciale assegno vitalizio, non reversibile, di 1.033 euro mensili, soggetto alla perequazione automatica;
§ la rivalutazione delle percentuali di invalidità già riconosciute e indennizzate in base alla normativa preesistente, tenendo conto dell’eventuale intercorso aggravamento fisico e del riconoscimento del danno biologico e morale;
§ la prestazione, a carico dello Stato, dell’assistenza psicologica alle vittime e ai loro familiari;
§ alcuni benefìci che incidono sui trattamenti pensionistici (aumento figurativo di 10 anni dei versamenti contributivi utili ad aumentare l’anzianità pensionistica maturata, la misura della pensione e il trattamento di fine rapporto; equiparazione, per le vittime che hanno subìto danni più gravi, ai grandi invalidi di guerra e riconoscimento del diritto immediato alla pensione diretta; adeguamento costante, al trattamento in godimento dei lavoratori in attività, delle pensioni delle vittime);
§ il diritto al patrocinio legale gratuito, a carico dello Stato, nei procedimenti penali, civili, amministrativi e contabili per le vittime e i loro superstiti;
§ la garanzia di tempi certi per le procedure in sede amministrativa e giurisdizionale relative al riconoscimento e alla valutazione dell’invalidità e all’attribuzione di provvidenze alle vittime del terrorismo;
§ l’esenzione dell’imposta di bollo per i documenti necessari alla richiesta dei benefici e l’esenzione dell’indennità dalle imposte;
§ l’applicazione dei benefìci della L. 206/2004 a decorrere dal 1° gennaio 1961, per gli eventi verificatisi in Italia, e dal 1° gennaio 2003, per quelli all’estero[552].
L’articolata legislazione in materia, che registra numerosi interventi legislativi anche a livello regionale[553], ha origine con la determinazione di una serie di provvidenze a favore degli appartenenti alle forze dell’ordine e dei militari colpiti nell’adempimento del dovere.
Successivamente, la platea dei beneficiari si è andata estendendo, arrivando a comprendere le vittime del terrorismo e, più in generale, le vittime di azioni criminose.
Basata inizialmente su una disposizione del R.D.L. 261/1921[554] la disciplina generale in materia di vittime del dovere ha subìto nel tempo numerose integrazioni e modifiche dirette soprattutto a:
§ adeguare la misura dell’elargizione una tantum che, almeno inizialmente, costituiva la principale provvidenza;
§ estendere le categorie ammesse a fruire dei benefìci previsti dalla legge;
§ diversificare i tipi di provvidenze, affiancando alla elargizione una tantum la concessione di pensioni privilegiate, l’attribuzione del diritto all’assunzione obbligatoria e l’esenzione dal pagamento dei ticket sanitari;
§ ampliare le condizioni per la concessione dei benefìci, sia per ciò che riguarda gli eventi considerati (morte, invalidità permanente), sia per quanto concerne le circostanze in cui gli eventi si siano verificati, sia con riferimento alla data di decorrenza dei benefìci stessi.
La vigente disciplina di ordine generale fa principalmente capo alle leggi 466/1980[555], 302/1990[556], 407/1998[557], all’art. 82 della legge finanziaria 2001[558], oltre che alla L. 206/2004 (vedi sopra).
Le leggi 302/1990 e 407/1998 sono state
modificate in alcuni punti dal D.L. 13/2003[559]. Specificatamente
dedicata ai militari deceduti o feriti in servizio è
Il regolamento approvato con D.P.R. 510/1999[561]ha disciplinato in modo unitario e coordinato le modalità di attuazione delle citate leggi 466/1980, 302/1990 e 407/1998.
La legge 13 agosto 1980, n. 466, ha mirato ad una riorganizzazione della materia, prevedendo:
§ l’elevazione a 100 milioni della già prevista elargizione una tantum in favore delle famiglie degli appartenenti alle forze dell’ordine deceduti nel compimento del proprio dovere e l’estensione dei beneficiari anche ai vigili del fuoco e ai militari delle Forze armate in servizio di ordine pubblico o di soccorso (l’importo è stato portato a 150 milioni dalla legge 302/1990);
§ l’introduzione di una nuova elargizione, anch’essa una tantum, di 100 milioni di lire in caso di invalidità permanente dell’80% o comunque che comporti la cessazione dell’attività lavorativa in favore di una serie di soggetti (magistrati ordinari, forze dell’ordine, vigili del fuoco, militari) colpiti in occasione di azioni terroristiche, criminose o in attività di ordine pubblico;
§ la concessione della elargizione di cui sopra anche alle vittime del terrorismo: civili italiani o stranieri feriti o deceduti a seguito di azioni terroristiche (tale disposizione è stata abrogata e sostituita dalla legge 302/1990);
§ il riconoscimento del diritto all’assunzione obbligatoria, secondo le disposizioni sul collocamento, al coniuge superstite ed ai figli dei soggetti appartenenti alle categorie destinatarie delle provvidenze, con precedenza su ogni altra categoria prevista dalle leggi vigenti (tale disposizione è stata poi sostituita da una quota riservata sul numero di dipendenti dalla legge 68/1999, art. 18, relativa al collocamento obbligatorio dei disabili);
§ l’ulteriore precisazione della definizione di “vittime del dovere”, comprendendo nelle circostanze legittimanti la corresponsione dei benefìci – indicate nell’art. 1 della L. 629/1973 – anche gli eventi connessi all’espletamento delle funzioni di istituto, proprie delle categorie considerate, e, più specificamente, all’attività di soccorso ed alle operazioni di polizia preventiva e repressiva.
La legge
3 giugno 1981, n.
Essa dispone la concessione della pensione privilegiata ordinaria nonché dei benefìci, relativi anch’essi al trattamento pensionistico, previsti dagli articoli 15 e 16 della L. 9/1980[562], ai militari, di carriera o di leva, ed ai loro congiunti, che subiscano, per causa di servizio o durante il periodo di servizio, un evento dannoso che ne provochi la morte o che comporti una menomazione dell’integrità fisica ascrivibile ad una delle categorie di cui alla tabella A o alla tabella B, del testo unico sulle pensioni di guerra (L. 313/1968[563]).
Ai soggetti sopraindicati si applicano, inoltre, le norme sull’equo indennizzo, di cui alla L. 1094/1970[564].
Ai superstiti dei militari caduti nell’adempimento del dovere in servizio di ordine pubblico o di vigilanza ad infrastrutture civili e militari, ovvero in operazioni di soccorso, è corrisposta una speciale elargizione di 200.000 euro pari quella prevista per i superstiti delle vittime del terrorismo (tale importo è stato così fissato da ultimo con il D.L. 337/2003[565]).
L’art. 7 della legge stabilisce che i benefìci derivanti dall’applicazione della legge stessa decorrono dal 1° gennaio 1979; tale data non costituisce termine di decorrenza dei benefìci, bensì termine per l’applicazione della legge, nel senso che questa si applica solo per i fatti verificatisi da quella data in poi[566].
La legge
20 ottobre 1990, n.
§ viene mantenuta l’elargizione per le vittime del dovere di cui alla L. 466/1980 che è elevata a 150 milioni di lire;
§ viene superata la distinzione, in caso di atti di terrorismo o di criminalità organizzata, tra vittime “civili” e vittime appartenenti ad apparati dello Stato (forze dell’ordine, magistratura ecc.) prevedendo la concessione della elargizione per invalidità a “chiunque” abbia subito ferite per tali atti[567]. L’elargizione è elevata anch’essa fino ad un massimo di 150 milioni (elevato dalla legge 206/2004 a 200.000 euro), a chiunque subisca un’invalidità permanente in proporzione di 1,5 milioni per punto percentuale (ora 2.000 euro);
§ sono specificati i fatti per i quali sono disposti i benefici; si tratta, in particolare:
- di atti di terrorismo o eversione dell’ordine democratico;
- di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni mafiose;
- di operazioni di prevenzione o repressione dei fatti delittuosi previsti dai punti precedenti;
- di assistenza prestata ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, nel corso di operazioni di lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata;
§ viene chiarito che la corresponsione della elargizione spetta, in caso di decesso, anche ai superstiti, compresi:
- i componenti la famiglia della vittima;
- i soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della vittima negli ultimi tre anni precedenti l’evento;
- i conviventi more uxorio;
§ è introdotta la possibilità, per le vittime del terrorismo e della criminalità che abbiano riportato una invalidità pari ad almeno due terzi della capacità lavorativa e per i superstiti, di ottenere un assegno vitalizio, in luogo dell’elargizione in unica soluzione;
§ viene esteso il diritto all’assunzione obbligatoria presso le pubbliche amministrazioni anche ai coniugi superstiti, figli e genitori dei soggetti deceduti o resi permanentemente invalidi in misura non inferiore all’80% della capacità lavorativa (anche tale disposizione come quella analoga della legge 466/1980 è stata poi abrogata dalla L. 68/1999);
§ si stabilisce l’esenzione dal pagamento dei ticket sanitari per ogni tipo di prestazione conseguente agli eventi terroristici o di criminalità organizzata che legittimano la corresponsione dei benefìci.
È quindi intervenuta la legge 23 novembre 1998, n. 407, che – nel testo modificato dal citato D.L. 13/2003 – apporta, tra le altre, le seguenti innovazioni alla disciplina dei benefici per le vittime del terrorismo e della criminalità:
§ una nuova disciplina sul collocamento obbligatorio ai soggetti di cui all’art. 1 della L. 302/1990 (si tratta di coloro che hanno subito un’invalidità permanente a causa di atti di terrorismo) e ai superstiti dei deceduti;
§ corresponsione di un vitalizio, oltre alla elargizione una tantum, di 500 mila lire mensili a chiunque subisca un’invalidità permanente non inferiore a un quarto della capacità lavorativa e ai superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata;
§ attribuzione di due annualità della pensione di reversibilità ai congiunti degli invalidi di cui all’art. 1 della L. 302/1990, in caso di decesso di questi ultimi;
§ istituzione di borse di studio riservate agli invalidi di cui sopra e agli orfani e ai figli delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata;
§ riliquidazione degli importi già corrisposti a titolo di speciale elargizione sulla base della rivalutazione operata dalla L. 302/1990, che, si ricorda, aveva elevato l’importo a 150 milioni di lire[568].
Per le vittime dei reati di tipo mafioso la legge 22 dicembre 1999, n.
Un ulteriore assestamento alla disciplina è stato operato dall’art. 82 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001), che, tra l’altro:
§ riliquida gli importi già corrisposti a titolo di speciale elargizione di cui alla citata L. 466/1980 ai “superstiti di atti di terrorismo”, colpiti da grave invalidità permanente, tenendo conto dell’aumento (a 150 milioni) disposto dalla successiva L. 302/1990. Precisa inoltre a quali familiari delle vittime di atti di terrorismo – e in quale ordine – spettino le provvidenze ex L. 302/1990 in assenza dei familiari più prossimi in grado;
§ prevede che i benefìci previsti dalla L. 302/1990 e dalla L. 407/1998 si applichino a decorrere dal 1º gennaio 1967[569];
§ introduce un principio di ordine generale, in base al quale per la concessione di benefìci alle vittime della criminalità organizzata si applicano le norme vigenti in materia per le vittime del terrorismo, qualora più favorevoli;
§ attraverso due modifiche alla L. 407/1998, tende ad equiparare, dal punto di vista dei benefìci, le vittime della criminalità organizzata a quelle del terrorismo.
Il susseguirsi delle disposizioni sopra citate ha posto da tempo la questione del loro coordinamento: la legge di semplificazione 2005 (L. 246/2005[570]) ha pertanto previsto una delega al Governo (non ancora esercitata) per il riassetto delle disposizioni che disciplinano le provvidenze per le vittime del dovere, del servizio, del terrorismo, della criminalità organizzata e di ordigni bellici in tempo di pace.
A tale riguardo, si segnala che all’inizio del 2008 il Governo – nella risposta ad un atto di sindacato ispettivo[571] – ha evidenziato che in base alla delega il Ministero dell’interno sta predisponendo uno schema di provvedimento normativo, da sottoporre all’esame di un apposito tavolo tecnico interministeriale, già istituito, al fine di pervenire ad un testo concordato, che tenga conto anche delle modifiche normative da ultimo introdotte.
Oltre alla questione del coordinamento delle norme, è stata, inoltre, rilevata una progressiva differenziazione del trattamento tra le diverse categorie di beneficiari: ossia tra vittime del dovere, vittime della criminalità organizzata e vittime del terrorismo.
Inoltre, la individuazione della matrice esclusivamente di tipo terroristico o di criminalità organizzata degli eventi delittuosi che comportano benefici per le vittime, ha escluso dalla normativa predetta alcuni tragici episodi (quali il disastro aereo di Ustica o i delitti della cosiddetta “banda della Uno bianca”) non assimilati processualmente a nessuna delle due categorie.
Per far fronte alla differenziazione del trattamento dei beneficiari, è intervenuto il citato art. 82 della legge 388/2000 che:
§ al comma 1, assicurava a decorrere dal 1° gennaio 1990 l’applicazione dei benefici previsti per le vittime del terrorismo e della criminalità dalle leggi 302/1990 e 407/1998 alle vittime del dovere e ai loro superstiti (come definite dall’art. 3 della legge 466/1980);
§ al comma 6, prevedeva l’applicazione, in favore delle vittime della criminalità organizzata, delle norme in materia di vittime del terrorismo, qualora più favorevoli.
A tal proposito si ricorda il citato D.L. 337/2003 (art. 3) che interviene con una disposizione di interpretazione autentica secondo la quale l’estensione dei benefici prevista dal comma 1 dell’art. 82 riguarda anche gli eventi occorsi al di fuori del territorio nazionale e il personale appartenente agli organismi di informazione e sicurezza.
Nel frattempo è peraltro intervenuta la citata legge 206/2004 che ha introdotto nuovi benefici a esclusivo vantaggio delle vittime del terrorismo e non anche delle vittime del dovere e di quelle della criminalità organizzata. In particolare, le seconde venivano espressamente escluse dai benefici (si veda l’art. 1, co. 2, della legge 206, che fa salve tutte le norme precedenti in materia ad eccezione dell’art. 82, co. 6, della legge 388/2000, che, come si è visto sopra, contiene la clausola di maggior favore per le vittime della criminalità).
A fronte di questa situazione, una progressiva estensione di tutti i benefìci previsti per le vittime della criminalità e del terrorismo alle vittime del dovere è stata disposta dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006, articolo 1, commi 562-565), che allo scopo dispone uno stanziamento annuo di 10 milioni di euro.
Tale disposizione, inoltre, include tra le vittime del dovere, non solamente, le forze dell’ordine, i militari, i magistrati, i vigili del fuoco ecc., ma anche tutti gli altri dipendenti pubblici deceduti in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto e per cause di servizio espressamente indicate.
In attuazione della legge 266 è stato emanato il decreto del Presidente della Repubblica 243/2006[572] che, all’interno del limite di spesa annuo fissato dalla legge stessa, individua quali provvidenze previste per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata siano da attribuire anche alle vittime del dovere ed in particolare:
§ in relazione alla legge 302/1990:
- la liquidazione della speciale elargizione in favore degli invalidi nella misura originaria prevista di 1,5 milioni di lire (774,69 euro) per ogni punto percentuale;
- l’esenzione dal ticket sanitario;
§ in relazione alla legge 407/1998:
- elargizione dell’assegno vitalizio mensile per gli invalidi e per i superstiti nella misura originaria di 500 mila lire (258,23 euro);
- benefici in materia di assunzioni dirette;
§ in relazione alla legge 206/2004:
- la rivalutazione delle percentuali di invalidità;
- il riconoscimento al diritto all’assistenza psicologica a carico dello Stato;
- l’esenzione dell’imposta di bollo per i documenti necessari alla richiesta dei benefici e l’esenzione dell’indennità dalle imposte.
Per quanto riguarda le vittime di specifici atti criminosi non considerati di matrice terroristica o di criminalità organizzata sono stati adottati, a partire dagli anni ’90 una serie di provvedimenti ad hoc, quali:
§
§
§
Successivamente, l’art. 1, co. 272, della
citata legge finanziaria
Vittime dei reati
Nel corso della XV legislatura un rilevante numero di interventi ed iniziative normative ha interessato la materia delle provvidenze in favore delle vittime della criminalità.
Gli interventi, sviluppando linee di tendenza che si erano evidenziate già nel corso della XIV legislatura (v. scheda Il quadro normativo sulle vittime dei reati, pag. 445) si sono mossi, essenzialmente, lungo tre direttrici:
§ la modifica della disciplina di benefici previsti per le vittime del terrorismo dalla legislazione vigente (e, in particolare, dalla L. 206/2004[574]);
§ la ridefinizione dei parametri per l’individuazione delle vittime del terrorismo beneficiarie delle provvidenze previste dalla L. 206/2004;
§ l’estensione alle vittime della criminalità organizzata ed alle vittime del dovere dei benefici previsti per le vittime del terrorismo dalla L. 206/2004.
L’articolo 34, comma 3, del D.L. 159/2007[575] ha apportato tre modifiche testuali alla L. 206/2004, delle quali due incidono sul contenuto dei benefici riconosciuti alle vittime del terrorismo e una sulla definizione di atti di terrorismo rilevante ai fini di detto riconoscimento (per questa ultima novella v. infra il paragrafo relativo all’ampliamento delle categorie beneficiarie delle provvidenze per le vittime del terrorismo).
In particolare:
§ la lettera b) modifica il co. 1 dell’art. 2 della L. 206/2004, che disciplina il trattamento economico riservato a chi abbia subito un’invalidità permanente in conseguenza di atti di terrorismo, nonché alle vedove e agli orfani delle vittime, ai fini della liquidazione della pensione e dell’indennità di fine rapporto, o di altro trattamento equipollente. Il testo previgente richiamava a tal fine gli incrementi stipendiali previsti dall’art. 2 della L. 336/1970[576] a favore dei dipendenti pubblici ex combattenti o assimilati, mentre a seguito della modifica, si dispone, in luogo di ciò, che la retribuzione pensionabile sia rideterminata incrementando la medesima di una quota del 7,5 per cento;
§ la lettera c) provvede ad inserire il nuovo comma 1-bis all’art. 3 della L. 206/2004 al fine di prevedere un’indennità anche in favore dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti, a titolo di trattamento equipollente al trattamento di fine rapporto. Tale indennità spetta ai soggetti che abbiano subito un'invalidità permanente a causa di atti di terrorismo e che, pertanto, ai sensi del comma 1 dell’art. 3, beneficino dell’aumento figurativo di 10 anni di contribuzione utile ad aumentare, per una pari durata, l'anzianità pensionistica maturata, la misura della pensione, nonché il trattamento di fine rapporto o altro trattamento equipollente. Tali benefici operano altresì a favore dei familiari, anche superstiti, limitatamente al coniuge ed ai figli anche maggiorenni, ed in mancanza, ai genitori, siano essi dipendenti pubblici o privati o autonomi (anche sui loro trattamenti pensionistici diretti).
L’indennità riconosciuta ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti dal comma 1-bis è determinata ed erogata in unica soluzione nell'anno di decorrenza della pensione e viene calcolata applicando l'aliquota del 6,91% ad un importo pari a dieci volte la media dei redditi da lavoro autonomo ovvero libero professionale degli ultimi cinque anni di contribuzione, rivalutati all'indice annuo dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall'ISTAT, ai sensi dell'articolo 3, comma 5, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503[577], aumentata (la media in questione) del 7,5%.
Il comma 3-bis dell’art. 34 prevede inoltre che i nuovi benefici attribuiti abbiano la stessa decorrenza delle disposizioni di cui agli articoli 2 e 3 della L. 206/2004.
Il comma 3-quater del medesimo articolo reca invece una disposizione di carattere applicativo, disponendo che il pagamento dei benefici di cui alla L. 206/2004 sia effettuato dagli enti previdenziali privati gestori di forme pensionistiche obbligatorie, per la parte di propria competenza, in favore degli iscritti che ne abbiano diritto, e che il rimborso sia effettuato dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale (nei limiti di spesa di cui alla stessa L. 206/2004) previa rendicontazione degli oneri sostenuti.
A seguito delle modifiche apportate nel corso dell’esame parlamentare del decreto-legge, i commi da 2-bis a 2-septies dell’articolo 34introducono e disciplinano la concessione di un’onorificenza alle vittime del terrorismo, individuando come tali “i cittadini italiani […] colpiti dalla eversione armata per le loro idee e per il loro impegno morale”, appartengano essi o meno alle Forze dell’ordine, alla magistratura e ad altri organi dello Stato.
L’onorificenza di “vittima del terrorismo” è conferita dal Presidente della Repubblica alle vittime stesse (o, se decedute, alla vedova o ai figli ovvero, in mancanza, ai parenti o affini entro il secondo grado), con proprio decreto adottato su proposta del Ministro dell’interno. Il conferimento comporta la consegna di una “medaglia ricordo in oro”.
Il conferimento ha peraltro luogo su domanda degli interessati, presentata alla prefettura di residenza o al Ministero dell’interno anche per il tramite delle associazioni rappresentative delle vittime del terrorismo. Le domande e la relativa documentazione sono esenti da bollo e da altri diritti.
Le caratteristiche della medaglia e le condizioni previste per il conferimento dell’onorificenza sono definite con decreto del Ministro dell’interno, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge. Si dispone sin d’ora, peraltro, che il possesso dei requisiti di legge è provato (rectius: attestato) mediante autocertificazione dell’interessato, la cui sottoscrizione deve essere autenticata dal segretario comunale o da altro impiegato incaricato dal sindaco.
L’articolo 2, comma 106 della legge finanziaria 2008 (L. 244/2007[578])reca cinque novelle alla disciplina dei benefici riconosciuti alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice prevista dalla L. 206/2004, delle quali tre incidono sul contenuto dei benefici riconosciuti alle vittime del terrorismo e due sull’individuazione dei beneficiari di tali provvidenze (per queste ultime novelle v. infra il paragrafo relativo all’ampliamento delle categorie beneficiarie delle provvidenze per le vittime del terrorismo).
In particolare, la lett. a)del comma 106 stabilisceche la misura della pensione diretta spettante alle vittime che abbiano subito una invalidità permanente pari o superiore all'80 per cento della capacità lavorativa sia pari all'ultima retribuzione percepita integralmente dall'avente diritto e non semplicemente calcolata sulla base di tale parametro retributivo, come previsto nel testo previgente dell’art. 4, comma 2, della L. 206/2004[579].
La successiva lett. b),modificando il comma 3 dell’art. 5 della L. 206/2004, prevede che l’assegno vitalizio reversibile di 500.000 lire, soggetto a perequazione automatica, attribuito dall’art. 2 della L. 407/1998 alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata e ai loro superstiti, spetti anche ai figli maggiorenni superstiti, anche se non conviventi.
L’art. 2, co. 1, della L. 407/1988[580].prevede la concessione di un assegno vitalizio, non reversibile, di importo pari a 500.000 lire mensili, soggetto alla perequazione automatica, in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata di cui all’art. 1 della L. 302/1990[581] che abbiano subito una invalidità permanente non inferiore al 25 per cento della capacità lavorativa, nonché ai superstiti delle vittime di azioni terroristiche e della criminalità organizzata. Il comma 3 del medesimo art. 2[582] identifica le categorie di superstiti che possono beneficiare dell’assegno vitalizio. Si tratta, nell’ordine, di:
§ coniuge superstite e figli se a carico;
§ figli, in mancanza del coniuge superstite o se lo stesso non abbia diritto a pensione;
§ genitori;
§ fratelli e sorelle se conviventi a carico.
Il beneficio di cui alla lettera b) non produce effetti solo a partire dalla data di entrata in vigore della legge in esame, ma decorre dal 26 agosto 2004[583].
La lett. c)prevede che – come già avviene per i titolari di pensione diretta di guerra vitalizia[584] - l’erogazione dei medicinali di classe C agli invalidi vittime di atti di terrorismo e a loro familiari, anche superstiti, (coniuge, figli, e – in mancanza – genitori) sia posta a totale carico del Servizio sanitario nazionale, purché il medico di base accerti che essi siano effettivamente utili al paziente.
L’art. 1, co. 1270, della legge finanziaria 2007[585] ha introdotto nell’articolo 1 della L. 206/2004 il comma. 1-bis, estendendo i benefici previsti da tale legge. ai familiari delle vittime del disastro aereo di Ustica del 1980 e ai familiari delle vittime, nonché ai superstiti, della cosiddetta “banda della Uno bianca”.
Al riguardo si ricorda che le medesime categorie di vittime erano già state destinatarie di provvedimenti di estensione di benefici. In particolare, si ricordano:
§ la L. 340/1995[586], che ha disposto l’estensione dei benefìci previsti dalla L. 302/1990 ai componenti delle famiglie di coloro che hanno perso la vita nel disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980;
§ la L. 70/1998[587], che prevede l’estensione delle disposizioni di cui alla L. 302/1990 alle vittime della “banda della Uno bianca”.
§ l’art. 1, co. 272, della legge finanziaria 2006[588], che ha istituito una specifica indennità – entro il limite di spesa di 8 milioni di euro per l’anno 2006 – per gli eredi delle vittime del disastro aereo di Ustica.
L’art. 34, co. 3, lettera a), del D.L. 159/2007, convertito, con modificazioni, dalla L. 222/2007, ha integra l’art. 1, co. 1, della L. 206/2004, con un periodo ove si precisa che per “atti di terrorismo” devono intendersi, ai fini della legge medesima, anche “le azioni criminose compiute sul territorio nazionale in via ripetitiva, rivolte a soggetti indeterminati e poste in essere in luoghi pubblici e aperti al pubblico”.
Come emerge dal dibattito presso
L’art. 270-sexies c.p., introdotto dal c.d. “decreto Pisanu” (D.L. 144/2005)[590], definisce “condotte con finalità di terrorismo” quelle “che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.
Le lettere d) ed e) dell’articolo 2, comma 106, della legge finanziaria 2008 (L. 244/2007) recano norme volte ad estendere i benefici previsti dalla L. 206/2004 anche agli eventi terroristici accaduti all’estero a partire dal 1961, purché le vittime fossero cittadini italiani residenti in Italia al momento dell’evento.
Il termine del 1° gennaio 1961 è attualmente previsto dall’articolo 15, comma 1, della legge 206 esclusivamente per i fatti accaduti in Italia, mentre il comma 2 del medesimo articolo 15 prevede la corresponsione dei benefici per i cittadini italiani coinvolti in attentati all’estero avvenuti a decorrere dal 2003.
La lett. d) intende, dunque, superare tale dicotomia, inserendo un ulteriore periodo al comma 2 dell’articolo 15, nel quale si indica come termine iniziale per l’applicazione dei benefici della legge agli eventi avvenuti all’estero che abbiano coinvolto come vittime cittadini italiani residenti in Italia, lo stesso termine previsto per gli eventi verificatisi sul territorio nazionale (1° gennaio 1961).
Per i cittadini italiani non residenti in Italia al momento dell’evento per resta fermo, ai fini della titolarità del diritto all’erogazione dei benefici, il terminedel 1° gennaio 2003.
La lett. e) modifica, conseguentemente, la copertura finanziaria della L. 206/2004 recata dall’art. 16 della stessa legge al fine di escludere dal computo complessivo degli oneri derivanti dall’attuazione della legge quelli che conseguono alla modifica introdotta dalla lettera e)[591].
Con riferimento alle modifiche apportate dalle lettere d) ed e), si segnala che esse riprendono il contenuto dell’art. 1 della proposta di legge A.C. 616[592], come approvata dalla Camera dei deputati e trasmesso al Senato (A.S. 1213).
Con riferimento a tale proposta si ricorda che essa – nella sua formulazione iniziale – prevedeva l’integrale soppressione della dicotomia tra eventi verificatisi in Italia e all’estero, fissando come unico termine per il riconoscimento dei benefici quello del 1° gennaio 1961.
Come evidenziato dal relatore, on. Giovanardi, nel corso della discussione sul provvedimento nell’Assemblea della Camera[593], tuttavia, nel corso dell’esame in Commissione si è valutato che la determinazione del numero di cittadini italiani vittime di atti di terrorismo all'estero a partire dal 1961 avrebbe potuto dimostrarsi particolarmente difficile, specialmente con riferimento a Paesi che hanno conosciuto, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, situazioni interne di grave tensione (come nel caso dell'Argentina), e avrebbe potuto pertanto comportare rilevanti problemi ai fini della quantificazione della copertura necessaria per i benefici di cui sono destinatari. Per soddisfare queste esigenze, il testo licenziato dalla Commissione e successivamente approvato dalla Camera ha precisato che ai fini della corresponsione dei benefici fosse necessario che le vittime italiane risiedessero in Italia al momento dell'evento.
In correlazione a tale previsione, all'articolo 2 della proposta si prevedeva che il Governo, entro un anno dalla data in vigore della legge, presentasse al Parlamento una relazione concernente l'individuazione dei cittadini italiani vittime di atti di terrorismo e di stragi, compiuti fuori dal territorio nazionale, compresi i non residenti in Italia al momento di tali eventi, in modo da consentire una verifica circa il numero complessivo delle vittime e la possibilità per lo Stato italiano di attribuire gli stessi benefici anche alle vittime rimaste lese da tali atti di terrorismo non residenti in Italia.
Nella seduta del 9 maggio 2007,
Nella seduta del 5 giugno 2007, i due relatori sulle proposte di legge hanno quindi presentato un testo unificato, adottato dalla Commissione come testo base per il seguito dell'esame del provvedimento, che prevedeva l’estensione di tutti i benefici previsti dalla L. 206/2004 a:
§ le vittime della criminalità organizzata e i loro familiari superstiti;
§ le vittime del dovere e i loro familiari superstiti.
Nel presentare il testo unificato il relatore ha sottolineato come fosse stata operata la scelta di definire un intervento di portata limitata, in considerazione del fatto che il Governo sta già lavorando, sulla base di una specifica delega legislativa, ad un testo unico di riordino della disciplina in materia di benefici riconosciuti alle vittime della criminalità[594].
Per quanto attiene alla definizione dei soggetti equiparati alla vittime del terrorismo ai fini della concessione dei ricordati benefici, il testo unificato richiama le categorie già identificate dalla normativa vigente in materia di benefici.
Si tratta, in particolare:
§ delle vittime della criminalità organizzata, di cui all’art. 1 della L. 302/1990[595], ed ai loro familiari superstiti.
L’art. 1 della L. 302/1990 si riferisce da un lato alle vittime del terrorismo (co. 1), dall’altro, anche:
- a chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni di cui all’art. 416-bis c.p. ("Associazione di tipo mafioso") (co. 2);
- a chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di operazioni di prevenzione o repressione dei fatti delittuosi suddetti (co. 3);
- a chiunque, fuori dai casi di cui al comma 3, subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dell’assistenza prestata, e legalmente richiesta per iscritto ovvero verbalmente nei casi di flagranza di reato o di prestazione di soccorso, ad ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria o ad autorità, ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, nel corso di azioni od operazioni di prevenzione o repressione dei fatti delittuosi suddetti, svoltesi nel territorio dello Stato (co. 4).
§ delle vittime del dovere e dei loro familiari superstiti, come individuate dall’art. 1, co. 563 e 564, della legge finanziaria 2006[596].
Alla luce del combinato disposto dei citati co. 563 e 564, e dell’art. 3 della L. 466/1980[597], al quale rinvia il suddetto co. 563, si tratta dei seguenti soggetti:
- magistrati ordinari;
- militari dell’Arma dei carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza, del Corpo degli agenti di custodia; personale del Corpo forestale dello Stato; funzionari di pubblica sicurezza; personale del Corpo di polizia femminile;
- personale civile dell’Amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena;
- vigili del fuoco;
- appartenenti alle Forze armate dello Stato in servizio di ordine pubblico o di soccorso;
- in generale, altri dipendenti pubblici,
deceduti o che abbiano subito un’invalidità permanente in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi:
- nel contrasto ad ogni tipo di criminalità;
- nello svolgimento di servizi di ordine pubblico;
- nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari;
- in operazioni di soccorso;
- in attività di tutela della pubblica incolumità;
- a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi, necessariamente, caratteristiche di ostilità.
A tali soggetti il suddetto co. 564 equipara coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative;
A fronte di una sostanziale condivisione dei contenuti del provvedimento da parte dei diversi schieramenti politici, testimoniata anche dalla nomina di due relatori, uno appartenente alla maggioranza ed uno all’opposizione, l’iter legislativo ha dovuto tuttavia affrontare il nodo problematico del reperimento delle risorse necessarie alla copertura finanziaria del provvedimento.
La relazione tecnica richiesta al Governo,
ai sensi dell’articolo 79, co. 5, del Regolamento della Camera, al momento
dell’adozione del testo unificato quale testo base e successivamente trasmessa
alla I Commissione (Affari costituzionali) poneva, infatti, in luce l’esistenza
di problemi di copertura finanziaria del provvedimento[598].
Al riguardo, peraltro, nella seduta del 2 agosto 2007 il rappresentante del
Governo sottolineava come
Nella successiva seduta del 2 ottobre 2007, il sottosegretario di Stato per l’economia e finanze evidenziava come già nel decreto-legge n. 159 del 2007, approvato il 28 settembre dal Consiglio dei ministri (per il quale v. subito infra) fosse disposta una parziale estensione a favore delle vittime del dovere e della criminalità organizzata dei benefici attribuiti alle vittime del terrorismo, sottolineando come il Governo si riservasse di prevedere in futuro ulteriori interventi.
Successivamente, l’iter delle proposte in esame non è ulteriormente proseguito, mentre nuove disposizioni volte ad estendere in via progressiva i benefici previsti dalla L. 206/2004 sono state introdotte nel corso dell’esame parlamentare del d.d.l. finanziaria (anche per queste disposizioni v. subito infra).
L’articolo 34, comma 1, del D.L. 159/2007[599] estende alle vittime del dovere ed ai familiari superstiti, nonché alle vittime della criminalità organizzata ed ai familiari superstiti, le elargizioni che l’art. 5, co. 1 e 5, della L. 206/2004[600] prevede a favore delle vittime del terrorismo.
Si tratta, in particolare, dei seguenti benefici:
§ l’elargizione a favore di chi abbia subito un’invalidità permanente a causa di un atto di terrorismo, prevista dall’art. 1, co. 1, della L. 302/1990[601], e incrementata dall’art. 5, co. 1, della L. 206/2004; tale elargizione è pari nella misura massima a 200.000 euro ed è proporzionata alla percentuale di invalidità riportata, in ragione di 2.000 euro per ogni punto percentuale;
§ l’elargizione a favore dei componenti della famiglia di colui che, in conseguenza dell’atto di terrorismo, abbia perso la vita, prevista dall’art. 4, co. 1, della L. 302/1990 (e la riliquidazione in tal senso, disposta dall’art. 12, co. 3, della stessa legge, degli importi già corrisposti a titolo di speciale elargizione dalla L. 466/1980[602]), che l’art. 5, co. 5, della L. 206/2004 ha incrementato a 200.000 euro.
Come nel testo base adottato dalla I Commissione della Camera (per il quale v. supra), per la definizione dei soggetti equiparati alla vittime del terrorismo ai fini della concessione dei ricordati benefici, vengono richiamate le categorie già identificate dalla normativa vigente in materia di benefici, ed in particolare:
§ le vittime della criminalità organizzata, di cui all’art. 1 della suddetta L. 302/1990, ed ai loro familiari superstiti
§ le vittime del dovere e dei loro familiari superstiti, come individuate dall’art. 1, co. 563 e 564, della legge finanziaria 2006.
La disposizione prevede che ai beneficiari vadano compensate le somme già percepite.
L’onere finanziario dell’estensione è quantificato in 173 milioni di euro per l’anno 2007, 2,72 milioni per l’anno 2008 e 3,2 milioni annui a decorrere dal 2009.
Con una disposizione di natura meramente contabile, l’articolo 34-bis del c.d. decreto “miilleproroghe”[603], inserito nel corso dell’esame parlamentare, ha disposto il mantenimento in bilancio nel conto dei residui delle somme iscritte in bilancio in applicazione della disposizione in esame, nonché di quelle iscritte in applicazione dell'articolo 1, comma 562, della legge finanziaria per il 2006 e non impegnate alla data del 31 dicembre 2007, ai fini del loro utilizzo nell'esercizio successivo.
L’art. 2,
comma 105,della legge finanziaria 2008 (L. 244/2007), inserito nel corso
dell’esame presso
I benefici oggetto dell’estensione sono, in particolare:
la
concessione a decorrere dal 1° gennaio
Per gli effetti derivanti dall’estensione dei
benefici di cui al comma 3 dell’art. 5 della L. 206/2004, si segnala che il
comma 106 dell’articolo 2 della legge finanziaria
l’attribuzione, nel caso di morte dei soggetti che beneficiano dello speciale assegno vitalizio dell’art. 5, co. 3, di due annualità della pensione di reversibilità (comprensive della tredicesima mensilità) ai superstiti che hanno diritto a tale trattamento pensionistico di reversibilità; il beneficio in questione è limitato al coniuge ai figli minori, ai figli maggiorenni, ai genitori, ai fratelli e alle sorelle se conviventi e a carico (art. 5, co. 4); anche in questo caso l’attribuzione avviene a decorrere dal 1° gennaio 2008.
Vittime dei reati
Con il decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 204, il Governo ha dato attuazione alla direttiva 2004/80/CE relativa all'indennizzo delle vittime di reato; la direttiva, nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale, mira a tutelare i diritti delle vittime della criminalità nell'Unione e a facilitare il loro accesso alla giustizia[604] per ottenere un indennizzo, indipendentemente dal loro luogo di residenza.
Al riguardo, si ricorda che la direttiva del Consiglio 2004/80/CE, del 29 aprile 2004 - la cui adozione è stata sollecitata dal Consiglio europeo del 25 e 26 marzo 2004, anche in seguito all’attentato terroristico di Madrid dell'11 marzo 2004 – si propone di garantire alle vittime di un reato intenzionale violento un risarcimento equo ed adeguato per i danni subiti e ciò a prescindere dal luogo, all'interno dell'Unione europea, ma diverso da quello di residenza, in cui simili eventi si siano verificati.
La direttiva contiene disposizioni relative all'accesso al risarcimento in casi transfrontalieri, nonché una disposizione volta a garantire che gli Stati membri introducano le pertinenti disposizioni nazionali per assicurare un risarcimento appropriato alle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori.
In particolare, gli articoli da 1 a 3 della direttiva dispongono che la vittima del reato possa presentare domanda di indennizzo nello Stato di residenza, anche se il reato è stato commesso in un diverso Stato membro; spetterà comunque allo Stato ove il reato si è consumato corrispondere l’indennizzo. A tal fine, gli Stati, limitando allo stretto necessario le formalità amministrative, dovranno designare le autorità competenti per ricevere le domande - c.d. autorità di assistenza - e deciderne l’esito - c.d. autorità di decisione. L’autorità di assistenza ha il compito di informare gli interessati della possibilità di richiedere un indennizzo, di ricevere le domande e trasmetterle all’autorità di decisione (artt. 4-6), che può disporre l’audizione del richiedente (art. 9) al fine di pervenire alla decisione (art. 10).
L’indennizzo verrà quindi corrisposto in base alle normative nazionali. A tal fine, l’articolo 12 della direttiva impegna gli Stati membri a porre in essere – laddove non l’abbiano già fatto – sistemi di indennizzo delle vittime di reati internazionali violenti commessi nei rispettivi territori, mentre l’articolo 17 fa salve le normative nazionali già vigenti, che assicurino disposizioni più favorevoli a vantaggio delle vittime di reato.
Gli articoli da 13 a 16 della direttiva contengono disposizioni di attuazione, relative ai dati da comunicare alla Commissione, ai formulari per l’elaborazione delle domande di indennizzo ed alle strutture di coordinamento centrali.
Ai sensi dell’articolo 18, gli Stati membri avrebbero dovuto recepire la direttiva entro il 1º gennaio 2006 prevedendo, nelle rispettive normative nazionali, entro il 1º luglio 2005, un sistema di risarcimento delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei loro territori.
Come detto, in attuazione della delega conferitagli dalla legge comunitaria 2005[605], il Governo ha recepito la direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato, con l’emanazione del decreto legislativo n. 204 del 2007.
Il decreto legislativo disciplina due distinte ipotesi:
§ quella in cui una persona stabilmente residente in Italia sia vittima di un reato in un diverso Stato membro dell’Unione europea che, relativamente a quel tipo di reato, prevede forme di indennizzo (art. 1);
§ quella in cui una persona stabilmente residente in altro Stato membro della UE sia vittima di un reato nel territorio italiano, per il quale il nostro ordinamento riconosca qualche forma di indennizzo (art. 2).
In particolare, nell’ipotesi di cui all’articolo 1 (persona stabilmente residente in Italia vittima di un reato in un diverso Stato UE), la Procura generale della Repubblica presso la corte d’appello competente per territorio (in relazione alla residenza della vittima) è individuata come Autorità di assistenza e fornisce all’interessato tutte le informazioni necessarie ad attivare il suo diritto all’indennizzo: dà le notizie relative al sistema indennitario vigente nello Stato membro, fornisce i moduli per presentare la domanda, garantendo assistenza ed informazione per la compilazione e la documentazione richiesta, trasmette direttamente all’autorità competente dello Stato membro (Autorità di decisione) la domanda di risarcimento; in caso di necessità di ulteriori informazioni e di integrazione documentale, fornisce la necessaria assistenza garantendo – a richiesta dell’interessato - l’inoltro degli atti integrativi all’autorità straniera.
Inoltre, in caso di richiesta di audizione della vittima o di altre persone (testimoni o periti) da parte dell’autorità di decisione dello Stato membro, la Procura generale, come Autorità di assistenza, deve rendere possibile l’audizione (in particolare in videoconferenza) secondo le regole di procedura vigenti nel Paese del commesso reato.
Se, al contrario, l’autorità di decisione dello Stato membro richiede l’audizione per il tramite della Procura, questa provvede all’audizione trasmettendone poi il verbale.
L’articolo 2 disciplina l’opposta ipotesi (reato commesso nel territorio italiano che, secondo le leggi nazionali, dà diritto a qualche forma di elargizione, di cui sia rimasta vittima una persona stabilmente residente in altro Stato membro della UE) prevedendo che la domanda di elargizione possa essere avanzata tramite l’Autorità di assistenza dello Stato di residenza dell’interessato.
L’autorità italiana che, in base alla legislazione speciale, risulta competente per l’erogazione dell’elargizione (Autorità di decisione),comunica senza ritardo l’avvenuta ricezione della domanda, gli elementi informativi utili all’identificazione del funzionario o dell’organo che istruisce la pratica nonché un’indicazione sui tempi per la decisione.
Come nella situazione di cui all’art. 1 del provvedimento, anche in questo caso è prevista la possibilità per l’Autorità di decisione italiana di richiedere l’audizione della vittima, anche per tele-conferenza, sia chiedendo la collaborazione dell’autorità di assistenza straniera sia chiedendo di procedere essa stessa all’audizione.
L’esito della domanda dovrà essere comunicato senza ritardo dall’Autorità di decisione italiana all’interessato e all’Autorità di assistenza.
L’articolo 3 definisce il regime linguistico delle comunicazioni che intercorrono tra le rispettive autorità di assistenza e decisione: in attuazione delle previsioni dell’articolo 11 della direttiva 2004/80/CE, le informazioni trasmesse da un'autorità all'altra sono redatte:
§ nelle lingue ufficiali o in una delle lingue dello Stato membro dell'autorità a cui l'informazione è diretta, che corrisponda a una delle lingue delle istituzioni comunitarie; oppure
§ in un'altra lingua delle istituzioni comunitarie che tale Stato membro ha indicato di poter accettare.
Fanno eccezione i verbali delle audizioni della vittima del reato nonché il testo integrale delle decisioni sulla domanda d’indennizzo adottate dall'autorità di decisione italiana che sono sempre trasmesse all’autorità di assistenza straniera e all’interessato in lingua italiana;
L’articolo 4 dà attuazione all’art. 11, comma 4, della direttiva, che prevede che i moduli di domanda e l'eventuale altra documentazione relativa alla domanda d’indennizzo trasmessi tra le rispettive autorità nazionali siano esenti da autenticazione o da qualsiasi formalità equivalente. La disposizione, inoltre, precisa la gratuità dell’assistenza prestata dalla Procura generale della Repubblica come Autorità di assistenza sia nei confronti della vittima del reato che dell’Autorità di decisione di altro Stato membro dell’Unione europea.
L’articolo 5, ai sensi dell’art. 16 della direttiva, individua nel Ministero della giustizia il Punto centrale di contatto per l’Italia.
In base all’articolo 16 della direttiva spetta a tali autorità nazionali designate dagli Stati membri (che si riuniscono periodicamente) il compito di:
§ fornire assistenza alla Commissione europea per l’elaborazione e pubblicazione su Internet di un manuale contenente i dati forniti dagli Stati membri (elenco delle autorità di assistenza e decisione istituite o designate comprese, se del caso, informazioni relative alla competenza giurisdizionale speciale e territoriale di tali autorità; la notizie circa il regime linguistico da adottare per comunicazioni e informazioni, i moduli necessari per fare domanda di indennizzo);
§ promuovere la stretta collaborazione e lo scambio d'informazioni tra le autorità di assistenza e di decisione degli Stati membri;
§ fornire assistenza e cercare soluzioni a qualsiasi difficoltà possa sorgere nell'applicazione della procedura d’indennizzo.
L’articolo 6 precisa che le disposizioni del decreto legislativo si applicano alle procedure per l’erogazione di indennizzi per reati commessi successivamente al 30 giugno 2005.
Infine, l’articolo 7 stabilisce che lo svolgimento delle attività delle autorità nazionali di assistenza (Procure generali presso le corti d’appello) e di decisione (quelle individuate dalle stesse leggi speciali) nonché quelle del Ministero della giustizia come “Punto centrale di contatto” siano disciplinate da un regolamento interministeriale da emanare entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo. Lo stesso regolamento dovrà approvare i modelli dei formulari per la trasmissione delle domande di risarcimento e delle decisioni.
Servizi di informazione per la sicurezza
L’articolo 2 della L. 124/2007 elenca come segue le componenti del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica:
§ il Presidente del Consiglio dei ministri;
§ il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR);
§ l’Autorità delegata(ove istituita);
§ il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS);
§ i servizi di informazione per la sicurezza, ovvero:
§ l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE);
§ l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI).
Per un raffronto tra l’assetto organizzativo attuale e quello previgente, si vedano la tabella che segue e le tavole riportate in calce alla presente scheda.
|
L. 124/2007 |
L. 801/1977 |
Autorità nazionale di direzione |
Presidente del Consiglio dei ministri |
Presidente del Consiglio dei ministri |
Autorità delegata |
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Comitato interministeriale |
Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR) |
Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza (CIIS) |
Coordinamento |
Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) |
Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (CESIS) |
Strutture operative |
Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) |
Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI) |
Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI) |
Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE) |
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Organo di controllo del Parlamento |
Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica |
Comitato parlamentare di controllo (Co.pa.co.) |
L’articolo 1, con formulazione più dettagliata rispetto a quanto previsto dall’art. 1 della vigente L. 801/1977, elenca le funzioni attribuite in viaesclusiva al Presidente del Consiglio dei ministri:
§ sono confermati in capo al Presidente del Consiglio i compiti di alta direzione e di responsabilità generale della politica informativa per la sicurezza;
§ gli sono inoltre attribuite le competenze in materia di tutela del segreto di Stato, tra cui l’apposizione e la conferma dell’opposizione del segreto, la determinazione dei criteri per l’apposizione delle classifiche di segretezza e l’emanazione delle disposizioni relative al rilascio e alla revoca dei nulla osta di sicurezza;
§ inoltre, il Presidente del Consiglio provvede alla nomina e alla revoca dei dirigenti degli organismi informativi. Egli nomina e revoca, con proprio decreto:
- sentito il CISR, il direttore generale e, sentito questi, uno o più vice-direttori generali del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS);
- sentito il CISR, i direttori e, sentiti questi, i vice-direttori dei servizi di informazione per la sicurezza (AISE ed AISI); si ricorda che in precedenza i direttori di SISMI e SISDE erano nominati rispettivamente dal ministro della difesa e da quello dell’interno, su parere conforme del Comitato interministeriale;
§ è da ritenersi competenza esclusiva del Presidente del Consiglio dei ministri anche la nomina e revoca del dirigente preposto all’Ufficio centrale per la segretezza (UCSe), del quale si dirà tra breve;
§ con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri è infine determinato annualmente l’ammontare delle risorse finanziarie destinate ai servizi di informazione per la sicurezza e al DIS, di cui dà comunicazione al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.
Obiettivo fondamentale dell’azione del Presidente del Consiglio è la tutela dell’interesse e la difesa della Repubblica e delle istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento.
Al Presidente del Consiglio spetta infine il coordinamento delle politiche di informazione per la sicurezza e – sentito il sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR) – l’adozione delle disposizioni sull’organizzazione e il funzionamento del Sistema di informazione per la sicurezza.
Si riassume di seguito la posizione istituzionale del Presidente del Consiglio ai sensi della normativa previgente.
Al Presidente del Consiglio, quale massima autorità politica in materia di sicurezza, era attribuito il ruolo di alta direzione, di responsabilità politica e di coordinamento della politica informativa e di sicurezza in difesa dello Stato democratico e delle sue istituzioni (art. 1, co. 1°, L. 801/1977).
Al Presidente del Consiglio, pertanto, era conferito il potere di stabilire l’organizzazione e il funzionamento dei servizi di informazione, attraverso l’emanazione di direttive e disposizioni. Inoltre, controllava l’applicazione dei criteri relativi alla apposizione del segreto di Stato ed esercitava la tutela sul segreto di Stato (art. 1, L. 801/1977).
Tra gli altri poteri e compiti che spettavano al Presidente del Consiglio si ricordano:
§ la nomina e la revoca del segretario generale del Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (CESIS) e la determinazione della sua composizione (art. 3, co. 4° e 5°, L. 801/1977);
§ l’autorizzazione all’utilizzo, da parte dei Servizi, dei mezzi e delle infrastrutture dell’amministrazione dello Stato (art. 7, co. 3°, L. 801/1977);
§ la possibilità di consentire il ritardo – solo se strettamente necessario – della trasmissione da parte dei direttori dei servizi all’autorità giudiziaria di informazioni relative a reati (art. 9, co. 3°, L. 801/1977);
§ la determinazione del budget del CESIS, del SISMI e del SISDE (art. 19, co. 2°, L. 801/1977).
Il Presidente del Consiglio si avvaleva per l’esercizio delle sue funzioni di due organi collegiali: il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza (CIIS) e il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (CESIS).
Particolarmente innovativa è anche la disciplina della delega di alcune funzioni in materia da parte del Presidente del Consiglio ad altra autorità.
Ferma restando la responsabilità politica del Presidente del Consiglio, la normativa precedentemente in vigore consentiva che l’attività di coordinamento fosse da lui delegata ad un altro rappresentante del Governo, in genere ad un sottosegretario di Stato. L’art. 3 della L. 801/1977 prevedeva infatti espressamente che il CESIS – organo appunto di coordinamento – potesse essere presieduto da un sottosegretario su delega del Presidente del Consiglio. Non mancavano, tuttavia, casi di delega ad un ministro.
L’articolo 3 della legge 124/2007 attribuisce (comma 1) al Presidente del Consiglio la facoltà (“ove lo ritenga opportuno”) di delegare le funzioni in materia di servizi di informazione per la sicurezza soltanto ad una delle seguenti autorità (che la legge definisce “Autorità delegata”):
§ un ministro senza portafoglio;
§ un sottosegretario di Stato.
Sembra pertanto esclusa la possibilità di delegare un ministro titolare di un dicastero (ad esempio interno, esteri o difesa), al pari di un ministro senza portafoglio o di un sottosegretario che sia titolare anche di altre deleghe: quanto detto si desume dal comma 2, che vieta all’Autorità delegata l’esercizio di “funzioni di governo ulteriori” rispetto a quelle che formano oggetto della delega.
La delega è conferita con decreto del Presidente del Consiglio, per l’adozione del quale – in deroga all’art. 9, comma 1, della L. 400/1988[606] – non è richiesto il parere del Consiglio dei ministri.
Non possono formare oggetto di delega le funzioni (in precedenza elencate) che l’art. 1 attribuisce al Presidente del Consiglio in via esclusiva; dal suo canto, l’Autorità delegata non può esercitare se non le funzioni espressamente delegatele.
È inoltre previsto un rapporto particolarmente stretto, connotato in termini di sovra-ordinazione, fra Presidente del Consiglio e Autorità delegata, così configurato:
§ l’Autorità è tenuta a informare costantemente il Presidente del Consiglio sulle modalità di esercizio delle funzioni delegate;
§ al Presidente del Consiglio spetta un potere di direttiva (può dunque vincolare l’Autorità quanto al perseguimento di determinati risultati);
§ al Presidente del Consiglio è riconosciuto il potere di avocare a sé in qualsiasi momento, totalmente o parzialmente, le funzioni delegate.
L’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica è stata istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26 ottobre 2007, nella persona del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, on. Enrico Micheli, al quale sono state delegate tutte le funzioni spettanti al Presidente del Consiglio ai sensi della L. 124/2007, fatta eccezione per quelle espressamente riservate in via esclusiva al medesimo Presidente dall'art. 1, co. 1, della legge.
L’articolo 5 ha mutato la denominazione del Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza (CIIS), di cui all’art. 2 della L. 801/1977, in Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (CISR). Il CISR appare dotato di poteri più incisivi rispetto al precedente Comitato interministeriale.
La composizione del CISR vede la rappresentanza di cinque ministeri (interno, affari esteri, difesa, giustizia, economia) sostanzialmente corrispondenti ai sei che erano previsti dalla L. 801/1977. La presidenza spetta al Presidente del Consiglio dei ministri; ne fa parte altresì l’Autorità delegata – ove istituita – e il direttore generale del DIS in qualità di segretario.
La composizione può peraltro essere integrata su invito del Presidente del Consiglio, secondo le questioni da trattare, da:
§ altri componenti il Consiglio dei ministri;
§ i direttori dei servizi di informazione per la sicurezza;
§ altre autorità civili e militari,
i quali tutti partecipano senza diritto di voto.
Alle funzioniconsultive e di proposta, già previste dalla L. 801/1977, sono affiancate funzioni deliberative. In particolare, il CISR:
§ elabora gli indirizzi generali e gli obiettivi fondamentali da perseguire nel quadro della politica dell’informazione per la sicurezza (tale competenza va coordinata con i già menzionati compiti di alta direzione e responsabilità generale della politica informativa e della sicurezza spettanti al Presidente del Consiglio);
§ delibera sulla ripartizione delle risorse finanziarie tra il DIS e i servizi di informazione per la sicurezza e sui relativi bilanci preventivi e consuntivi.
Il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza (CESIS) di cui all’art. 3 della L. 801/1977, ossia l’organismo di coordinamento dei servizi e di collegamento tra questi e il Presidente del Consiglio, è stato sostituito, nel sistema delineato dalla legge 124/2007, da una diversa struttura, che si configura come un nuovo dipartimento della Presidenza del Consiglio, denominato Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS).
Il supporto tecnico necessario per l’esercizio delle funzioni in materia di sicurezza proprie del Presidente del Consiglio era fornito in precedenza dal Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (CESIS), organo collegiale posto alle sue dirette dipendenze.
Il CESIS non era un terzo servizio di sicurezza, ma aveva il ruolo di esecutore e di controllore dell’adempimento delle direttive del CIIS ed era il centro unificatore delle informazioni e delle situazioni raccolte dai due servizi, per una loro migliore utilizzazione.
I compiti fondamentali del Comitato consistevano nel procurare al Presidente del Consiglio tutti gli elementi necessari per coordinare l’attività dei servizi, analizzare le informazioni rese da loro e elaborare le relative situazioni. Inoltre, esso provvedeva a coordinare i rapporti con i servizi stranieri (art. 3, L. 801/77).
In particolare, il Comitato valutava le analisi compiute e le situazioni elaborate sulla base delle informazioni e situazioni trasmesse dal SISMI e dal SISDE; forniva al Presidente del Consiglio proposte per il coordinamento delle attività dei Servizi tra loro e con le altre Amministrazioni e per la composizione di eventuali divergenze di competenza tra i due Servizi; indicava i Servizi di informazione e di sicurezza degli altri Stati con i quali i due Servizi potevano stabilire contatti, coordinando i relativi rapporti; sottoponeva al Presidente del Consiglio proposte in ordine alla politica informativa e di sicurezza da attuarsi da parte dei due Servizi; diramava le direttive per l’utilizzazione dei dati informativi.
Il CESIS era presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Sottosegretario di Stato delegato. La sua composizione era fissata dal Presidente del Consiglio e, comunque, ne facevano parte i direttori dei due servizi (art. 3, L. 801/1977).
In luogo della meno articolata disciplina legislativa sul CESIS recata dalla L. 801/1977, l’articolo 4 della legge 124/2007 regola in modo dettagliato la struttura e le funzioni del Dipartimento.
Vertice del DIS è il direttore generale, diretto referente del Presidente del Consiglio e dell’Autorità delegata, che si avvalgono del DIS per l’esercizio delle loro competenze.
Il direttore generale è nominato con decreto del Presidente del Consiglio, sentito il CISR, tra i dirigenti di prima fascia o equiparati. L’incarico (salvo revoca) non può durare più di quattro anni e può essere rinnovato una sola volta. Il direttore generale svolge anche le funzioni di segretario del CISR.
Il Presidente del Consiglio nomina altresì, sentito il direttore generale, uno o più vice-direttori generali.
Primo tra i compiti del DIS è quello di coordinare il complesso delle attività informative e di assicurare l’unitarietà dell’azione dei servizi di informazione per la sicurezza (AISE ed AISI).
La funzione di coordinamento del DIS comprende l’attività di verifica dei risultati e di elaborazione di analisi globali da sottoporre al CISR, e di progetti di ricerca informativa sui quali decide il Presidente del Consiglio, sentito il CISR. Tali competenze comportano rapporti non solo con i due servizi, ma con altre strutture pubbliche e, in alcuni casi, anche private che operano nel settore della sicurezza. Infatti, il DIS ha il compito di raccogliere ed elaborare informazioni provenienti dai servizi, dalle Forze armate e di polizia, dalle altre amministrazioni dello Stato e da enti di ricerca, anche privati. Inoltre, il DIS deve garantire lo scambio di informazioni tra i servizi e le forze di polizia e – su disposizione del Presidente del Consiglio, sentito il CISR – può trasmettere informazioni ad amministrazioni pubbliche od enti interessati.
Nell’ambito di tali attività, una limitazione al potere di acquisire informazioni dalle Forze di polizia è prevista dal comma 4 dell’articolo 4, nell’ipotesi in cui tali informazioni si riferiscano a indagini di polizia giudiziaria coperte dal segreto ai sensi dell’art. 329 c.p. In questo caso, le informazioni richieste dal DIS possono essere acquisite solo con il nulla osta dell’autorità giudiziaria (che può comunque trasmettere atti e informazioni anche di propria iniziativa). Una disposizione del tutto analoga è riprodotta, con riguardo alla collaborazione fra servizi e forze di polizia, al comma 2 del successivo articolo 12. È tuttavia fatta salva la procedura prevista dall’articolo 14, la quale – con l’introduzione del nuovo art. 118-bis c.p.p. – consente al Presidente del Consiglio di acquisire dall’autorità giudiziaria atti ed informazioni indispensabili alle proprie funzioni in materia di sicurezza della Repubblica, anche in deroga al segreto previsto per gli atti di indagine.
Non è compreso tra i compiti del DIS quello di mantenere i rapporti con i servizi di informazione stranieri, come previsto dalla normativa previgente (art. 3, co. 2°, L. 801/1977). Tali compiti sono ora attribuiti direttamente ai due servizi di informazione per la sicurezza[607].
Il DIS, inoltre:
§ elabora, d’intesa con AISE ed AISI, il piano di acquisizione delle risorse umane e materiali strumentali all’attività dei servizi di informazione per la sicurezza, nonché (sentiti i servizi) lo schema di regolamento che determina e disciplina il contingente speciale del personale addetto al sistema di informazione per la sicurezza, entrambi da sottoporre all’approvazione del Presidente del Consiglio dei ministri; spetta ancora al DIS impartire gli indirizzi per la gestione unitaria del personale;
§ esercita il controllo sui due servizi di informazione per la sicurezza, verificando la conformità delle loro attività alle leggi, ai regolamenti e alle direttive e disposizioni del Presidente del Consiglio;
§ vigila sull’applicazione delle disposizioni in materia di tutela amministrativa del segreto;
§ cura le attività di promozione e diffusione della cultura della sicurezza e la comunicazione istituzionale.
A ciascuno di tali punti l’art. 4 della legge dedica specifiche disposizioni.
Mentre il successivo art. 21 (del quale si dirà più avanti) prevede e regola il contingente speciale del personale addetto al sistema di informazione per la sicurezza, lo stesso articolo 4, al comma 3, lettera i), e al comma 8, disciplina il controllo sui servizi prevedendo l’istituzione presso il DIS di un apposito ufficio ispettivo, formato da personale adeguatamente formato, del quale non è consentito il passaggio ai servizi operativi.
Agli ispettori è garantita piena autonomia e indipendenza di giudizio; essi possono essere autorizzati ad accedere a tutti gli atti conservati presso i servizi di informazione per la sicurezza e presso il DIS, e ad acquisire informazioni anche da enti pubblici e privati. È prevista la possibilità di effettuare inchieste interne su specifici episodi e comportamenti, che di norma non devono interferire su operazioni in corso.
L’art. 4 prevede che l’ordinamento e l’organizzazione del DIS e degli uffici istituiti nell’ambito del medesimo Dipartimento siano disciplinati con apposito regolamento, da adottare con le modalità di cui al successivo art. 43 (vedi infra).
Un’apposita struttura del DIS, denominata Ufficio centrale per la segretezza (UCSe) si occupa della tutela amministrativa del segreto (articolo 9) e tra l’altro delle classifiche di segretezza e del rilascio del NOS (nulla osta di sicurezza).
Il dirigente preposto all’UCSe è nominato e revocato dal Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dell’Autorità delegata, ove istituita, sentito il direttore generale del DIS.
Una struttura simile è identificabile nell’Ufficio centrale per la sicurezza (UCSi), in precedenza previsto dalla L. 801/1977 nell’ambito della segreteria generale del CESIS[608].
A tale ufficio erano affidate le funzioni di coordinamento degli organi delle pubbliche amministrazioni competenti, ciascuna nel proprio ambito, alla tutela del segreto, nonché la competenza al rilascio del cosiddetto NOS (nulla osta di sicurezza personale). Si tratta di una speciale abilitazione che autorizza il ministero, l’ente o l’impresa richiedente ad avvalersi di una persona in attività che comportano la trattazione di informazioni classificate[609].
Mentre delle classifiche di segretezza tratta il successivo art. 42 (vedi infra), i commi da 3 a 10 dell’art. 9 introducono una disciplina legislativa del NOS. Si tratta in parte di disposizioni già previste a livello amministrativo nel D.P.C.M. 3 febbraio 2006, che vengono qui elevate al rango di norme di legislazione primaria.
L’articolo 9 affida all’UCSe, tra l’altro, la conservazione e l’aggiornamento dell’elenco dei soggetti muniti di NOS[610].
Inoltre, il comma 3 del medesimo art. 9 ha introdotto un limite temporale alla durata del NOS: 5 anni per la classifica di “segretissimo” e 10 anni per le altre classifiche di segretezza (ma sono fatte salve le diverse disposizioni contenute in accordi internazionali ratificati dall’Italia)[611].
Il NOS è rilasciato previo accertamento dell’affidabilità del soggetto per il quale è fatta la richiesta in ordine sia alla fedeltà ai valori della Costituzione repubblicana, sia alla garanzia per la conservazione del segreto (riprendendo qui sostanzialmente quanto previsto dall’art. 16 del D.P.C.M. 3 febbraio 2006). A tal fine, le Forze armate, le Forze di polizia, le pubbliche amministrazioni e i soggetti erogatori dei servizi di pubblica utilità forniscono all’UCSe tutte le informazioni di interesse in loro possesso (comma 5)[612]. Il procedimento è disciplinato dal regolamento istitutivo dell’UCSe, e deve prevedere che i soggetti interessati siano informati degli accertamenti nei loro confronti e possano rifiutarli, rinunciando con ciò al NOS e all’esercizio delle funzioni che lo richiedono.
L’articolo 10 istituisce un’ulteriore struttura interna al DIS, denominata Ufficio centrale degli archivi (UCA), che sovrintende alla gestione degli archivi.
Sono previsti tre tipi di archivi:
§ l’archivio centrale del DIS;
§ gli archivi storici del DIS, che conservano la documentazione relativa alle attività e ai bilanci dei servizi di informazione per la sicurezza, nonché alle autorizzazioni concesse agli operatori a procedere a operazioni che comportano una condotta in astratto costituente reato (vedi infra);
§ gli archivi di AISE ed AISI, serventi all’attività corrente.
L’UCA gestisce direttamente i primi due archivi, ed esercita la vigilanza sulla sicurezza, sulla tenuta e sulla gestione degli archivi dei due servizi.
Presso il DIS è infine istituita (articolo 11) una Scuola di formazione, avente il compito di assicurare l’addestramento e la formazione di base e continuativa sia del personale del DIS sia di quello dei servizi di informazione per la sicurezza.
Al regolamento della Scuola è affidata la definizione delle modalità e dei periodi di frequenza, in relazione agli impieghi nel Sistema di informazione per la sicurezza ed alle precedenti esperienze lavorative.
La legge 124/2007 mantiene il sistema binario dei servizi di informazione in precedenza vigente, prevedendo l’istituzione di due strutture di intelligence distinte:
§ l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE), disciplinata dall’articolo 6;
§ l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), disciplinata dall’articolo 7, in relazione alle quali (denominate collettivamente servizi di informazione per la sicurezza) sono introdotte due fondamentali innovazioni.
In primo luogo, la distinzione di compiti tra le due agenzie non è più individuata in base all’interesse da tutelare (al SISMI spettava la tutela dell’interesse militare, al SISDE la tutela dell’interesse politico-istituzionale), bensì in base al luogo di attività (all’estero l’AISE; all’interno, l’AISI), come avviene prevalentemente nei Paesi che adottano il sistema binario.
In base alla normativa previgente, la suddivisione delle sfere di influenza dei due servizi di informazione non era individuata su base territoriale (un servizio operante all’estero e uno in patria) – come per lo più avviene nei Paesi che, come il nostro, adottano il modello basato su due organismi di intelligence – bensì in base all’interesse da tutelare: al SISMI spettava la difesa della sicurezza militare, oltre che compiti di controspionaggio (tutela dell’interesse militare, art. 4, co. 1°, L. 801/1977), al SISDE la difesa dello Stato democraticocontro ogni forma di eversione (tutela dell’interesse politico-istituzionale, art. 6, co. 1°, L. 801/1977).
Il SISMI e il SISDE dipendevano rispettivamente dal ministro della difesa e dal ministro dell’interno, che nominavano i direttori dei due servizi, su parere conforme del CIIS, ne stabilivano l’ordinamento e ne curavano l’attività, sulla base delle direttive del Presidente del Consiglio (art. 4 e 6, L. 801/1977).
La L. 801/1977 specificava l’obbligo di reciproca collaborazione e assistenza tra i due servizi (art. 7, 4° comma).
L’AISE opera al di fuori del territorio nazionale in difesa dell’indipendenza, integrità e sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti appunto dall’estero (rientrano tra le sue competenze anche le attività in materia di controproliferazione concernenti i materiali strategici), mentre l’AISI agisce sul territorio nazionale per difendere la Repubblica dalle minacce provenienti dall’interno, ivi comprese le attività eversive ed ogni forma di aggressione criminale o terroristica. I due servizi sono peraltro tenuti ad agire in cooperazione tra loro.
In secondo luogo, le due strutture operative, cessando di dipendere rispettivamente dai ministri della difesa e dall’interno, rispondono direttamente alPresidente del Consiglio dei ministri.
Tanto l’AISE che l’AISI devono peraltro informare tempestivamente e con continuità i ministri della difesa, degli affari esteri e dell’interno per i profili di rispettiva competenza.
L’organizzazione e il funzionamentodelle agenzie sono demandate ad un apposito regolamento (sulla natura e sulle modalità di adozione v. infra, art. 43).
Al Presidente del Consiglio spetta anche la nomina dei direttori dei due servizi, sentito il CISR; tali incarichi hanno la durata massima di quattro anni e sono rinnovabili solo per una volta. A loro volta i direttori delle agenzie affidano gli incarichi di livello dirigenziale e sono sentiti dal Presidente del Consiglio nella procedura di nomina di uno o più vice-direttori.
In precedenza, come detto, i direttori di SISMI e SISDE erano nominati rispettivamente dal ministro della difesa e da quello dell’interno, su parere conforme del CIIS.
Ciascun servizio, nella persona del direttore, riferisce al Presidente del Consiglio o all’autorità delegata, per il tramite del direttore generale del DIS; in casi di urgenza, peraltro, o in presenza di particolari circostanze, essi possono riferire direttamente al Presidente del Consiglio, informandone senza ritardo il direttore generale del DIS.
Entrambe le agenzie presentano al CISR un rapporto annuale sul proprio funzionamento ed organizzazione.
Ai sensi dell’articolo 8, nessun altro ente, organismo o ufficio può svolgere le funzioni attribuite a DIS, AISE ed AISI.
È inoltre espressamente esclusa l’appartenenza al Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica del Reparto Informazioni e Sicurezza dello Stato Maggiore Difesa (RIS), il quale peraltro si prevede agisca in stretto collegamento con l’AISE e svolga solo compiti di carattere tecnico-militare e di polizia militare, con particolare riferimento alle attività informative utili ai fini della tutela dei presìdi e delle attività delle Forze armate all’estero.
La regolazione dell’attività del RIS in collegamento con l’AISE è demandata ad un regolamento adottato con D.P.C.M., previa deliberazione del CISR, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge.
Con la legge sulla ristrutturazione dei vertici delle Forze Armate (L. 25/1997[613]) e, successivamente, con quanto sancito dal regolamento di attuazione (D.P.R. 556/1999[614]) i preesistenti SIOS (Servizi Informazioni Operative e Situazione) di Forza Armata sono stati sciolti e l’attività informativa é stata portata a livello interforze presso lo Stato maggiore della difesa. Il trasferimento di competenza é stato sancito dalla direttiva del Ministro della difesa n. 1/30863/14.1.8/97 in data 15 maggio 1997 e l’attività, dopo una fase sperimentale, ha assunto una definitiva configurazione il 1° settembre 2000 con la costituzione del II Reparto – Informazioni e sicurezza (RIS) dello Stato maggiore della difesa. Dal RIS dipendono il Centro intelligence interforze e la Scuola interforze intelligence/guerra elettronica[615].
Gli articoli da 12 a 16 recano disposizioni di diversa natura, concernenti i rapporti di collaborazione dei servizi di informazione per la sicurezza e del DIS con altre pubbliche amministrazioni e con l’autorità giudiziaria.
L’articolo 12 fa obbligo alle Forze armate e alle Forze di polizia, nonché ai singoli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza di fornire ogni possibile cooperazione, anche di tipo tecnico-operativo, al personale dei servizi di informazione per la sicurezza per lo svolgimento dei compiti a questi affidati. Come già detto, tale collaborazione è subordinata al nulla osta dell’autorità giudiziaria (che può comunque trasmettere atti e informazioni anche di propria iniziativa) nel caso in cui le informazioni richieste si riferiscano a indagini di polizia giudiziaria coperte da segreto ex art. 329 c.p.. È tuttavia fatta salva la procedura prevista dal successivo articolo 14 (su cui, vedi infra).
Analoga collaborazione è richiesta al Comitato di analisi strategica antiterrorismo istituito presso il Ministero dell’interno, nei riguardi del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica.
Il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, operante presso la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, è stato istituito con decreto del Ministro dell’interno del 6 maggio 2004 riguardante il “Piano nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica”. Esso costituisce un tavolo permanente di condivisione delle informazioni tra organismi di polizia giudiziaria e di intelligence, con la peculiare connotazione di strumento, a livello nazionale, di analisi e valutazione della minaccia terroristica interna ed internazionale.
L’articolo 13, le cui disposizioni sono estese al DIS, tratta della possibilità di richiedere la collaborazione di tutte le pubbliche amministrazioni e dei soggetti (anche privati) erogatori di servizi di pubblica utilità. I caratteri di tale collaborazione possono essere definiti con apposita convenzione. I servizi e il DIS possono stipulare – come precisa il testo – convenzioni anche con università ed enti di ricerca.
Particolare rilievo assume il comma 2 dell’articolo, ove si precisa che – sulla base di un apposito regolamento, tale collaborazione può includere anche l’accesso di DIS, AISE ed AISI agli archivi informatici di tutte le pubbliche amministrazioni e dei soggetti erogatori di servizi di pubblica utilità. La disposizione non definisce esplicitamente il rapporto fra tale facoltà e la disciplina generale posta a tutela della riservatezza dei dati personali, principalmente contenuta nel D.Lgs. 196/2003[616], ma prevede l’obbligatoria adozione di modalità tecniche che consentano la verifica, anche successiva, dell’accesso a dati personali (si veda anche infra, quanto disposto dal successivo art. 26).
Il comma 4 stabilisce che, per quanto in particolare attiene ai dati relativi alle comunicazioni, trova applicazione la disciplina recata dall’art. 4 del decreto-legge 144/2005[617], in base alla quale i direttori dei servizi di informazione per la sicurezza – su delega del Presidente del Consiglio – possono richiedere autorizzazione all’autorità giudiziaria per lo svolgimento di intercettazioni e controlli preventivi sulle comunicazioni, quando siano ritenute indispensabili per la prevenzione di attività terroristiche o di eversione dell’ordinamento costituzionale.
Il comma 3 apporta peraltro una rilevante innovazione a tale ultima disciplina, disponendo che ai sensi della medesima, le intercettazioni e i controlli preventivi sulle comunicazioni da parte dei servizi di informazione per la sicurezza possano essere autorizzate anche ai fini della prevenzione di attività della criminalità di tipo mafioso.
L’articolo 14 aggiunge un nuovo art. 118-bis al codice di procedura penale, ai sensi del quale il Presidente del Consiglio dei ministri, anche a mezzo del direttore generale del DIS ed anche in deroga al segreto sugli atti di indagine disposto dall’art. 329 c.p.p., può ottenere dall’autorità giudiziaria copie di atti di procedimenti penali e informazioni scritte sul loro contenuto, che ritenga indispensabili per lo svolgimento delle attività connesse alle esigenze del sistema di informazione per la sicurezza.
L’articolo riproduce l’impianto del vigente art. 118 c.p.p., che attribuisce tale facoltà al ministro dell’interno ai fini dell’attività di prevenzione dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza.
L’autorità giudiziaria può rigettare la richiesta con decreto motivato; altrimenti, provvede senza ritardo. Le copie e le informazioni acquisite sono coperte dal segreto di ufficio. L’autorità giudiziaria può anche trasmettere le copie e le informazioni di propria iniziativa, e può altresì consentire l’accesso diretto al registro delle notizie di reato.
Gli articoli 15 e 16, infine, introducendo nel codice di procedura penale due nuovi articoli (artt. 256-bis e 256-ter), recano una specifica procedura per i casi di acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria di atti, documenti o altre cose
§ presso le sedi dei servizi di informazione per la sicurezza o del DIS, ovvero
§ qualora il responsabile dell’ufficio detentore eccepisca il segreto di Stato.
La procedura introdotta ha il duplice scopo di far sì che l’autorità giudiziaria acquisisca solo gli atti e i documenti strettamente indispensabili ai fini dell’indagine, e di rimettere alle determinazioni del Presidente del Consiglio dei ministri le ipotesi in cui:
§ sorga fondato dubbio sulla piena corrispondenza tra i documenti, gli atti o le cose esibiti e quelli richiesti;
§ il documento provenga da un organismo informativo estero e sia stato trasmesso con vincolo di non divulgazione;
§ sia stato eccepito il segreto di Stato da parte del detentore.
L’articolo 43 definisce, in via generale, la proceduraper l’emanazione dei regolamenti di attuazione del provvedimento, stabilendo:
§ la forma (decreto del Presidente del Consiglio);
§ il termine di adozione (180 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento);
§ l’organo cui devono essere preventivamente sottoposti per il parere gli schemi dei regolamenti (Comitato parlamentare).
Sugli schemi inoltre si esprime, prima dell’adozione, il Comitato interministeriale per la sicurezza.
L’articolo 44 reca, al comma 1, l’abrogazione espressa della L. 801/1977 (salvo quanto previsto dal comma 2), nonché l’abrogazione innominata di “tutte le disposizioni interne e regolamentari in contrasto o comunque non compatibili con la presente legge”: fanno eccezione le disposizioni dei decreti attuativi riguardanti il contenzioso del personale in quiescenza dei servizi di sicurezza.
Ai sensi del comma 2, CESIS, SISMI e SISDE continuano ad assolvere i compiti loro affidati dalla L. 801/1977, fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti:
§ di disciplina dell’ordinamento e dell’organizzazione del DIS e degli uffici istituiti nell’ambito del medesimo Dipartimento, ai sensi dell’art. 4, comma 6, della legge;
§ di disciplina dell’organizzazione e funzionamento dell’AISE, ai sensi dell’art. 6, co. 10;
§ di disciplina dell’organizzazione e funzionamento dell’AISI, ai sensi dell’art. 7, co. 10;
§ di determinazione del contingente speciale del personale addetto al DIS e ai servizi, ai sensi dell’art. 21, co. 1;
§ di contabilità del DIS e dei servizi di informazione per la sicurezza, di cui all’art. 29, co. 3.
I regolamenti suddetti entrano in vigore contestualmente.
L’articolo 45 fissa un termine di 10 giorni dall’entrata in vigore della legge per la costituzione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica in luogo del Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, che cessa le proprie funzioni contestualmente. Entro il medesimo termine, è prevista l’integrazione (con due nuovi membri) del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.
Il 12 ottobre 2007, a seguito dell'entrata in vigore della legge 124/2007, il Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato ha assunto la denominazione di Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, insieme con le relative competenze.
In pari data, ai sensi degli articoli 30, comma 1, e 45, comma 1, della legge citata, la composizione del Comitato è stata integrata con la nomina del dep. Roberto Maroni e del sen. Giuseppe Caforio.
All’attuazione della legge si provvede – anche in sede di prima applicazione – nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente. A tale fine, nella nuova U.P.B. per le spese del Sistema di informazione per la sicurezza di cui all’art. 29 della legge confluiscono gli stanziamenti già iscritti, per analoghe esigenze, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze.
Il comma 3 dell’articolo dispone che le norme dettate dall’art. 28 della legge, relative all’utilizzo di intercettazioni di comunicazioni di servizio di appartenenti al DIS o ai servizi di informazione, trovino applicazione solo con riferimento alle acquisizioni probatorie successive all’entrata in vigore della legge.
L’articolo 46 dispone in merito all’entrata in vigore del provvedimento, che è fissata al 60° giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale[618], vale a dire al 12 ottobre 2007.
L’organizzazione dei servizi di
informazione
secondo la L. 801/1977
L’organizzazione dei servizi di
informazione
secondo la L. 124/2007
Servizi di informazione per la sicurezza
Gli articoli 17-20 della L. 124/2007, relativi alle garanzie funzionali, intendono colmare una lacuna presente nella L. 801/1977 con l’introduzione di una disciplina organica speciale, di rango primario, che tuteli penalmente il personale dei servizi di intelligence che, nel perseguimento delle finalità istituzionali, si trovi costretto a violare la legge penale.
Si ricorda al riguardo che l’articolo 9 della recente L. 146/2006[619], abrogando gran parte della precedente disciplina, ha introdotto una normativa pressoché unitaria delle garanzie funzionali attribuite ad ufficiali di polizia giudiziaria impegnati nelle cosiddette tecniche speciali di investigazione per il contrasto alla criminalità organizzata ed al terrorismo.
Le tecniche speciali di investigazione sono indagini nelle quali, in considerazione della specificità degli illeciti perseguiti, la polizia giudiziaria usufruisce di una scriminante della responsabilità in caso di comportamenti penalmente illeciti: ciò, per lo più, avviene per omissione o ritardo di atti d’ufficio, altrimenti doverosi, nonché per reati commessi durante operazioni sotto copertura cioè quelle attività in cui ufficiali di polizia giudiziaria si infiltrano sotto falsa identità in ambienti malavitosi.
L’art. 9 stabilisce che non sono punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza appartenenti alle strutture specializzate, alla Direzione investigativa antimafia ed all’antiterrorismo che – anche per interposta persona e nei limiti delle proprie competenze – nel corso di specifiche operazioni di polizia ed al solo fine di acquisire elementi di prova per una serie di delitti (terrorismo, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilizzo di provenienza illecita, tratta di persone e riduzione in schiavitù, prostituzione e pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico turismo sessuale, pornografia virtuale, delitti concernenti armi, munizioni ed esplosivi, delitti previsti dal testo unico 309/1990 sugli stupefacenti; specifici reati di immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione) danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego.
L’esecuzione delle operazioni è disposta, secondo l’appartenenza del personale di polizia giudiziaria, dagli organi di vertice ovvero, per loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale, d’intesa con la Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere in caso di indagini sui reati previsti dal testo unico sull’immigrazione (D.Lgs. 286/1998). L’organo che dispone l’esecuzione delle operazioni deve dare preventiva comunicazione al pubblico ministero competente per le indagini, indicando, se necessario o se richiesto, anche il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile dell’operazione, nonché il nominativo degli eventuali ausiliari impiegati (cui la causa di non punibilità è estesa). Il pubblico ministero deve comunque essere informato senza ritardo, a cura del medesimo organo, nel corso della operazione delle modalità e dei soggetti che vi partecipano, nonché dei risultati della stessa.
Può essere, inoltre, autorizzata l’utilizzazione temporanea di beni mobili ed immobili, di documenti di copertura, l’attivazione di siti nelle reti, la realizzazione e la gestione di aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi informatici, secondo le modalità stabilite con decreto del ministro dell’interno, di concerto con il ministro della giustizia e con gli altri ministri interessati. con il medesimo decreto sono stabilite altresì le forme e le modalità per il coordinamento, anche in ambito internazionale, a fini informativi e operativi tra gli organismi investigativi.
La stessa norma autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria, al fine di ottenere rilevanti elementi probatori o per individuare o catturare i responsabili dei gravi delitti sopracitati nonché dei reati di estorsione (art. 629 c.p.) e usura (art. 644 c.p.), ad omettere o ritardare atti di loro competenza, dandone immediato avviso al pubblico ministero, anche oralmente, e provvedendo a trasmettere un motivato rapporto entro le successive 48 ore. Analoga disposizione è prevista relativamente alla possibilità per il pubblico ministero, con decreto motivato, di ritardare l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, del fermo, dell’ordine di esecuzione di pene detentive o del sequestro. Nei casi di urgenza tale iniziativa può esser disposta oralmente salva la emissione del decreto entro le successive 48 ore. Il pubblico ministero è tenuto a comunicare tali provvedimenti al giudice del luogo in cui l’operazione deve concludersi dove si prevede che le cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere delitti siano in transito in entrata o uscita dal territorio dello Stato.
Le comunicazioni e i provvedimenti adottati per lo svolgimento delle attività di copertura devono essere trasmesse al procuratore generale presso la corte d’appello (o al Procuratore nazionale antimafia per i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, c.p.p.[620]).
L’art. 9 prevede, inoltre, la possibilità che l’autorità giudiziaria affidi materiali e beni sequestrati in custodia giudiziale con facoltà d’uso agli organi di polizia giudiziaria che ne facciano richiesta per lo svolgimento delle attività di contrasto al crimine organizzato o al terrorismo.
È, infine, individuato una nuovo illecito penale consistente nella divulgazione indebita dell’identità personale di polizia giudiziariache agisce in operazioni sottocopertura; il reato è punito con la reclusione da due a sei anni.
La L. 146/2006, abrogando a fini sistematici la precedente disciplina, ha lasciato tuttavia in vigore le disposizioni speciali sulle cause di non punibilità previste in specifici settori della lotta alla criminalità. Si tratta, in particolare delle seguenti disposizioni:
§ artt. 97 e 98 del testo unico 309/1990[621] (acquisto simulato di droga e ritardo-omissione da parte dell’autorità giudiziaria di atti di cattura, di arresto o di sequestro);
§ art. 7 del decreto legge 8/1991, convertito dalla legge 82/1991[622], sui sequestri di persona a scopo di estorsione (pagamento controllato del riscatto);
§ art. 14 della legge 269/1998[623] sullo sfruttamento sessuale dei minori (acquisto simulato di materiale pornografico, partecipazione ad iniziative volte al cosiddetto turismo sessuale);
§ art. 7-bis del decreto legge 144/2005, convertito dalla legge 155/2005 (attività sotto copertura, intercettazioni e controlli preventivi sulle comunicazioni, per la prevenzione e repressione delle attività terroristiche o di agevolazione del terrorismo condotte con i mezzi informatici).
In particolare, l’art. 9 della legge 146 contemplando anche l’acquisto simulato di droga tra le attività non punibili non appare coordinato con l’ancora vigente art. 97 del testo unico del 1990.
Deve essere, inoltre, rilevato come, pur essendo tutti i delitti indicati chiaramente attribuibili alla criminalità organizzata nelle sue varie forme e articolazioni, tra essi non è espressamente compreso il reato di associazione mafiosa di cui all’art. 416-bis c.p. (né l’associazione a delinquere “semplice” di cui all’art. 416 c.p.). Quindi, a rigore, l’art. 9 della legge 146/2006, che avrebbe anche solo potuto estendere al crimine organizzato transnazionale le cause di non punibilità già garantite dalla legge alla polizia giudiziaria, non sembra garantire l’impunità penale agli ufficiali di polizia giudiziaria impegnati “sottocopertura” in operazioni antimafia.
Ciò, nonostante la norma comprenda la Direzione Investigativa Antimafia tra il personale di polizia giudiziaria che gode della scriminante ed il comma 8 preveda che le comunicazioni e i provvedimenti adottati per lo svolgimento delle attività di copertura nelle indagini di mafia devono essere trasmesse al Procuratore nazionale antimafia.
La disciplina sulle garanzie funzionali degli appartenenti ai servizi informativi prevista dagli artt. 17-20 della legge 124/2007 sembra assumere, quindi, carattere di specialità, affiancandosi a quella “ordinaria” di cui al citato art. 9 della legge 146/2006, che concerne il personale appartenente alla polizia giudiziaria, nonché alle scriminanti generali dell’esercizio del diritto e dell’adempimento del dovere previste dal codice penale (v. infra).
L’articolo 17 introduce dunque una speciale causa di giustificazione del personale dei servizi impegnato in attività di intelligence.
La causa di giustificazione, “che priva la condotta della qualificazione come fatto penalmente rilevante” è stata preferita all’ipotesi della causa di non punibilità che “lascia impregiudicata la eventuale responsabilità civile del soggetto interessato”[624].
La norma, facendo comunque salvo quanto disposto dall’art. 51 del codice penale (che esclude la punibilità per fatto commesso nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità), introduce – in presenza di specifici presupposti – una speciale causa di giustificazione del personale degli organismi informativi, ovvero dell’AISE e dell’AISI (cfr. art. 2, co. 2, della legge): tale esimente opera nei casi in cui soggetti appartenenti ai servizi pongano in essere condotte – astrattamente previste dalla legge come reato – autorizzate e indispensabili agli obiettivi istituzionali dei servizi (comma 1).
Analoghe garanzie sono apprestate per i soggetti estranei ai servizi il cui intervento nell’azione risulti indispensabile, e che agiscano in concorso con uno o più dipendenti dei servizi di informazione per la sicurezza (comma 7).
Sono esclusi dalla scriminante speciale in discorso i delitti diretti a mettere in pericolo o ledere la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità delle persone (comma 2).
Sono, inoltre, escluse diverse altre fattispecie penali (comma 3):
§ attentato contro organi costituzionali e assemblee regionali (art. 289 del codice penale);
§ attentati contro i diritti politici del cittadino (art. 294 c.p.);
§ delitti contro l’amministrazione della giustizia (artt. 361 e seguenti c.p.).
Tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia è, invece, ammesso il favoreggiamento (sia personale che reale, artt. 378 e 379 c.p.), purché sia indispensabile alle finalità istituzionali dei servizi e sempre che non si concretizzi in false dichiarazioni all’autorità giudiziaria, in occultamento della prova di un delitto ovvero in una condotta diretta a sviare le indagini della magistratura (il cosiddetto “depistaggio”).
Ancora, la esimente in discorso non si applica alle seguenti tipologie di reato:
§ soppressione, falsificazione o sottrazione di atti o documenti concernenti la sicurezza dello Stato;
§ reati di sfruttamento della prostituzione.
L’autorizzazione che costituisce il presupposto della garanzia funzionale non può inoltre essere concessa in relazione alle condotte integranti reato per le quali non è opponibile il segreto di Stato (v. infra art. 39, co. 11); tale limitazione non riguarda però le condotte che integrano gli estremi dell’associazione con finalità terroristiche o eversive e dell’associazione mafiosa, che pertanto sembrano autorizzabili e, quindi, scriminabili (tali condotte rientrano infatti fra quelle contemplate dall’art. 39, ma sono espressamente “salvate” dalla norma in esame).
Ulteriori limiti all’ambito di applicazione delle garanzie funzionali sono indicati al comma 5, che vieta le attività nei confronti di sedi di partiti politici rappresentati in Parlamento o in consigli/assemblee regionali, di sedi di sindacati e nei confronti di giornalisti professionisti iscritti all’albo.
I presupposti per l’applicazione della scriminante sono i seguenti (comma 6):
§ le condotte devono essere messe in atto nell’esercizio di compiti istituzionali dei servizi e in attuazione di una operazione autorizzata e, comunque, effettuata secondo le norme organizzative interne;
§ devono essere indispensabili e proporzionalial raggiungimento degli obiettivi dell’operazione non raggiungibili in altro modo;
§ devono essere precedute da una obiettiva comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti;
§ le modalità di attuazione delle operazioni debbono comportare il minor danno possibile degli interessi lesi.
L’articolo 18 disciplina il procedimento di autorizzazione preventiva che costituisce il presupposto della causa di giustificazione.
Esso prevede che, secondo le condizioni e i limiti indicati nell’art. 17, spetta al Presidente del Consiglio – o all’Autorità delegata, se istituita – autorizzare le condotte astrattamente costituenti reato e, più in generale, le operazioni delle quali queste fanno parte (comma 1). Secondo quanto si desume dal dibattito parlamentare, si tratta di decisioni di natura eminentemente politica che, pertanto, sono ascritte al Presidente del Consiglio, in quanto massima autorità nazionale di sicurezza[625].
Il procedimento ha origine nella richiesta circostanziata avanzata in forma scritta dal direttore del servizio interessato e trasmessa al Presidente del Consiglio tramite il DIS. Il provvedimento di autorizzazione, inoltre, deve essere motivato (comma 2) e può essere modificato e revocato in qualsiasi momento, dal Presidente del Consiglio o dall’Autorità delegata (comma 3).
È previsto, inoltre, un procedimento abbreviato, da attivarsi in caso di assoluta urgenza e qualora l’Autorità delegata non sia istituita, che prevede l’autorizzazione da parte del direttore del servizio interessato e la comunicazione (informandone il DIS) al Presidente del Consiglio che ratifica il provvedimento qualora ne riscontri la regolarità (commi 4 e 5). Si prevede peraltro che la ratifica possa essere disposta anche dall’Autorità delegata, ove nel frattempo istituita e dotata di competenza in materia.
Qualora si verifichino attività senza autorizzazione o che eccedono i limiti posti nel provvedimenti di autorizzazione, il Presidente del Consiglio ne informa senza ritardo l’autorità giudiziaria e adotta le misure conseguenti (comma 6).
Tutta la documentazione relativa alle richieste di autorizzazione va conservata in un archivio segreto a cura del DIS e la rendicontazione delle relative spese è sottoposta ad un controllo specifico da parte del DIS medesimo (comma 7).
L’articolo 19 disciplina le modalità di opposizione della causa di giustificazione nell’ipotesi di avvio di un procedimento penale nei confronti di un addetto ai servizi informativi, ovvero di arresto in flagranza di reato o sottoposizione a misura cautelare personale dello stesso.
Se sono iniziate nei confronti di un membro dei servizi indagini preliminari, spetta al direttore dell’organismo interessato (AISE ed AISI), per il tramite del DIS, opporre all’autorità giudiziaria procedente l’esistenza della speciale causa di giustificazione (comma 1).
In tal caso, il magistrato è tenuto ad interpellare immediatamente il Presidente del Consiglio ai fini della conferma della sussistenza della autorizzazione. In questa fase tutti di documenti relativi all’opposizione devono restare separati da quelli riguardanti il fatto principale e mantenuti segreti (comma 2).
Qualora la causa di giustificazione venga opposta in una successiva fase procedurale, al momento dell’udienza preliminare o nel corso del giudizio, spetta al giudice procedente interpellare il Presidente del Consiglio (comma 3).
Il Presidente del Consiglio ha dieci giorni di tempo per confermare o meno la causa di giustificazione, durante i quali il giudizio è sospeso. Se l’esistenza della autorizzazione viene confermata, il Presidente del Consiglio ne dà comunicazione motivata sia all’autorità giudiziaria, sia al Comitato parlamentare di controllo (comma 4). In caso di mancata comunicazione entro i termini la conferma si intende negata (comma 5), e l’autorità giudiziaria può procedere.
Se interviene la conferma da parte del Presidente del Consiglio, l’autorità giudiziaria può: a) concludere il procedimento, attraverso pronuncia di non luogo a procedere o di assoluzione da parte del giudice (comma 6); b) sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale.
Sia in caso di conclusione del procedimento che di elevazione di conflitto di attribuzione, l’autorità giudiziaria è tenuta a garantire la segretezza degli atti (commi 6 e 7). La Corte costituzionale investita dall’eventuale conflitto di attribuzione ha pieno accesso agli atti del procedimento che ha condotto all’autorizzazione, e decide autonomamente le modalità di tutela della loro segretezza (comma 8).
Ai sensi dei commi 9-11, in caso di arresto in flagranza di reato o di esecuzione di misura cautelare, l’opposizione della causa di giustificazione –in questo caso da parte dello stesso appartenente ai servizi informativi (ovvero del collaboratore esterno) – comporta la sospensione dell’esecuzione del provvedimento. L’interessato è trattenuto negli uffici di polizia per il tempo necessario ai primi accertamenti e comunque non oltre le 24 ore (ma v. appresso); della vicenda è immediatamente informato il Procuratore della Repubblica, che oltre a richiedere, secondo la procedura consueta, la conferma dell’arresto o della cattura al giudice delle indagini preliminari (artt. 390 e seguenti, c.p.p.) procede alla verifica della sussistenza dell’autorizzazione secondo modalità in parte diverse da quelle viste sopra: chiede prima conferma al direttore generale del DIS (che deve rispondere entro 24 ore) dell’esistenza dell’autorizzazione e poi, “se necessario”, interpella per conferma il Presidente del Consiglio (mentre nella procedura generale la richiesta di conferma al Presidente del Consiglio è obbligatoria). La persona è trattenuta negli uffici della polizia giudiziaria sino a quando perviene la conferma del direttore del DIS e comunque non oltre ventiquattro ore dalla ricezione della richiesta da parte di quest’ultimo (pertanto, non sembrerebbe poter essere trattenuta in attesa della successiva conferma del Presidente del Consiglio, ove richiesta).
Anche in questo caso si prevede che, in caso di mancanza di espressa conferma nei termini previsti, l’autorità giudiziaria possa procedere.
Tuttavia, vi è una differenza nel valore attribuito al silenzio dei soggetti istituzionali coinvolti: solo quello del Presidente del Consiglio equivale a denegata conferma (comma 11); quello del direttore del DIS ha solo un valore “procedurale” (comma 10).
L’articolo 20, infine, configura come reato “proprio” (sanzionato con la reclusione da tre a dieci anni) l’azione dolosa con la quale l’addetto ai servizi informativi o il collaboratore esterno preordina illegittimamente le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione di condotte penalmente illecite.
L’articolo 21demanda la disciplina del personale dei due servizi di informazione per la sicurezza – AISE ed AISI – e del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) ad un regolamento che (comma 1), in deroga alle vigenti disposizioni di legge ma nel rispetto dei criteri contenuti nella legge, dovrà:
§ determinare il contingente speciale addetto alle suddette strutture;
§ disciplinarne l’ordinamento e il reclutamento garantendone l’unitarietà della gestione, nonché il relativo trattamento economico e previdenziale;
§ individuare il regime di pubblicità del regolamento stesso.
La procedura per l’adozione dei regolamenti è stabilita, in via generale, dall’art. 43 della legge.
Il comma 2 reca le linee generali della disciplina del personale cui il regolamento dovrà dare attuazione. Il regolamento dovrà prevedere le seguenti tipologie di personale:
§ dipendenti del ruolo unico degli organismi informativi (pari almeno al 50% del contingente di ciascun servizio e del DIS);
§ personale di diretta collaborazione dei direttori del DIS e dei servizi la cui permanenza è legata a quella dei direttori medesimi;
§ personale assunto per chiamata diretta a tempo determinato, che non può essere assunto se non in via eccezionale ed esclusivamente in casi di alta e particolare specializzazione;
§ esperti esterni in relazione a particolari profili professionali.
In particolare (lettera a)), il regolamento dovrà istituire un ruolo unico del personale dei servizi di informazione per la sicurezza e del DIS, suddiviso, secondo le funzioni svolte, in personale amministrativo, operativo e tecnico, e dovrà fissare la percentuale minima del personale del DIS e di ciascun servizio che dovrà essere costituita da dipendenti di tale ruolo (lettera i)).
La lettera b) prevede come principio generale per la scelta del personale il procedimento concorsuale, aperto anche a cittadini esterni alla pubblica amministrazione.
Conseguentemente, l’assunzione diretta è vietata, salvo casi di alta e particolare specializzazione debitamente documentata, per attività assolutamente necessarie all’operatività del DIS e dei servizi (lettera e)). In tali casi eccezionali potranno essere stipulati contratti a tempo determinato, nei limiti temporali che il regolamento dovrà individuare nel rispetto della normativa vigente (lettera c)).
In casi eccezionali, si potrà inoltre procedere al conferimento di incarichi ad esperti esterni, nei limiti e in relazione a particolari profili professionali, competenze e specializzazioni (lettera l)).
Ai sensi della lettera d), il regolamento deve anche individuare una quota di personale chiamato a svolgere funzioni di diretta collaborazione con il direttore generale del DIS e con i direttori dei servizi, la cui permanenza presso i rispettivi organismi è legata alla permanenza in carica dei medesimi direttori.
La lettera g) reca il divieto di affidare incarichi a tempo indeterminato a chi è cessato per qualunque ragione dal rapporto di dipendenza dal DIS e dai servizi.
Per il reclutamento del personale non si applicano (comma 3) le norme relative all’assunzione obbligatoria di disabili recate dalla legge 12 marzo 1999, n. 68[626] e all’assunzione attraverso selezione delle liste di collocamento del personale per il quale non è richiesto il titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo (art. 16, legge 28 febbraio 1987, n. 56[627]).
È mantenuto il divieto, già previsto dall’art. 8 della L. 801/1977[628], di collaborare o fare parte dei servizi per coloro che non diano sicuro affidamento di scrupolosa fedeltà alla Costituzione (comma 10).
Ai sensi del comma 4, le assunzioni effettuate in violazione dei divieti previsti dalla legge 124/2007 sono nulle, ferma restando la responsabilità personale, patrimoniale e disciplinare di chi le ha disposte.
Il regolamento dovrà anche disciplinare il trattamento giuridico, economico e previdenziale del personale indicando, tra l’altro:
§ i criteri per la progressione in carriera (comma 2, lettera h));
§ i criteri e le modalità relativi al trattamento giuridico ed economico del personale che rientra nell’amministrazione di provenienza al fine del riconoscimento delle professionalità acquisite e degli avanzamenti di carriera conseguiti (comma 2, lettera m));
§ i criteri e le modalità per il trasferimento del personale del ruolo unico ad altra amministrazione (comma 2, lettera n));
§ la consistenza numerica, le condizioni e le modalità del passaggio del personale della segreteria generale del CESIS, del SISMI e del SISDE nel ruolo unico (comma 5);
§ i casi di cessazione dei rapporti di dipendenza, di ruolo o non di ruolo (comma 8);
§ il trattamento economico (commi 6 e 7): definito nei limiti delle risorse finanziarie previste a legislazione vigente, esso dovrà essere strutturato in quattro voci, al di fuori delle quali è vietata la corresponsione di qualsiasi ulteriore trattamento economico accessorio:
- lo stipendio;
- l’indennità integrativa speciale;
- gli assegni familiari;
- una indennità di funzione, da determinarsi in rapporto al grado, alla qualifica, al profilo e alle funzioni svolte.
§ le incompatibilità preclusive del rapporto con il DIS e i servizi, in relazione a determinate condizioni personali, a incarichi ricoperti e ad attività svolte, prevedendo specifici obblighi di dichiarazione e, in caso di violazione, le conseguenti sanzioni (comma 9);
§ le ipotesi di incompatibilità derivanti da rapporti di parentela, affinità, convivenza o cointeressenza economica con dipendenti del DIS o dei servizi (comma 2, lettera f)).
Si prevede poi, al comma 11, una serie di cause di incompatibilità che precludono qualsiasi rapporto anche saltuario con gli organismi di informazione: si tratta dei membri del Parlamento, componenti degli organi elettivi delle regioni e degli enti locali, magistrati, ministri di confessioni religiose, giornalisti professionisti. A queste categorie, già previste dall’art. 7, co. 1°, della L. 801/1977, si aggiungono i membri del Parlamento europeo, i membri del Governo, i membri delle giunte regionali, provinciali e comunali, i dipendenti degli organi costituzionali e i giornalisti pubblicisti, che si vanno ad aggiungere ai professionisti.
Infine (comma 12), tutto il personale è tenuto alla conservazione del segreto, anche dopo la cessazione della propria attività presso i servizi.
L’articolo 22 reca disposizioni in materia di ricorsi amministrativi aventi ad oggetto controversie relative al rapporto di lavoro: a tali ricorsi si applica lo speciale procedimento previsto dall’art. 23-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034[629], che, tra l’altro, prevede il dimezzamento dei termini processuali, salvo quelli per la proposizione del ricorso.
Ai sensi dei commi 2 e seguenti del suddetto art. 23-bis, “i termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso. Salva l’applicazione dell’articolo 26, quarto comma, il tribunale amministrativo regionale chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio ovvero disposta l’integrazione dello stesso ai sensi dell’articolo 21, se ritiene ad un primo esame che il ricorso evidenzi l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza. In caso di rigetto dell’istanza cautelare da parte del tribunale amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato riformi l’ordinanza di primo grado, la pronunzia di appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell’udienza di merito. In tale ipotesi, il termine di trenta giorni decorre dalla data di ricevimento dell’ordinanza da parte della segreteria del tribunale amministrativo regionale che ne dà avviso alle parti. Nel giudizio di cui al comma 3 le parti possono depositare documenti entro il termine di quindici giorni dal deposito o dal ricevimento delle ordinanze di cui al medesimo comma e possono depositare memorie entro i successivi dieci giorni. Con le ordinanze di cui al comma 3, in caso di estrema gravità ed urgenza, il tribunale amministrativo regionale o il Consiglio di Stato possono disporre le opportune misure cautelari, enunciando i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso. Nei giudizi di cui al comma 1, il dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dalla data dell’udienza, mediante deposito in segreteria. Il termine per la proposizione dell’appello avverso la sentenza del tribunale amministrativo regionale pronunciata nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza. La parte può, al fine di ottenere la sospensione dell’esecuzione della sentenza, proporre appello nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione del dispositivo, con riserva dei motivi, da proporre entro trenta giorni dalla notificazione ed entro centoventi giorni dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata”.
L’articolo 23esclude che il personale del DIS e dei servizi possa rivestire la qualifica non solo di ufficiale o agente di polizia giudiziaria (come in precedenza già previsto dall’art. 9, co. 1°, della L. 801/1977), ma anche di ufficiale o agente di pubblica sicurezza. Tali qualifiche, se rivestite nelle amministrazioni di appartenenza, sono sospese durante l’attività presso il DIS o i servizi.
Tuttavia, in caso di necessità, ad appartenenti al suddetto personale può essere attribuita (per non più di un anno, rinnovabile) la sola qualifica di ufficiale o agente di pubblica sicurezza. Detta attribuzione spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del direttore generale del DIS ed è comunicata al Ministro dell’interno (commi 2-5).
La polizia giudiziaria svolge ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria. In particolare le sue funzioni (art. 55 c.p.p.) consistono nel prendere, anche di propria iniziativa, notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale.
Secondo l’art. 57 c.p.p., sono ufficiali di polizia giudiziaria:
§ i dirigenti, i commissari, gli ispettori, i sovrintendenti e gli altri appartenenti alla polizia di Stato ai quali l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità;
§ gli ufficiali superiori e inferiori e i sottufficiali dei carabinieri, della guardia di finanza, degli agenti di polizia penitenziaria e del corpo forestale dello Stato nonché gli altri appartenenti alle predette forze di polizia ai quali l’ordinamento delle rispettive amministrazioni riconosce tale qualità;
§ il sindaco dei comuni ove non abbia sede un ufficio della polizia di Stato ovvero un comando dell’arma dei carabinieri o della guardia di finanza.
Sono, invece, agenti di polizia giudiziaria:
§ il personale della polizia di Stato al quale l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità;
§ i carabinieri, le guardie di finanza, gli agenti di polizia penitenziaria, le guardie forestali e, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza, le guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio.
Sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55 c.p.p..
Gli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza svolgono funzioni prevalentemente inerenti alla prevenzione dei reati (mantenimento dell’ordine pubblico, tutela dell’incolumità delle persone, raccolta di prove di reati) e procedono alla scoperta e all’arresto dei delinquenti, ai sensi dell’art. 34 del regio decreto 31 agosto 1907, n. 690[630]. A differenza della polizia giudiziaria, la qualifica di agente e di ufficiale di pubblica sicurezza è attribuita a tutto il personale delle forze di polizia (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato, Corpo delle guardie penitenziarie), ai sensi degli artt. 17 e 18 del suddetto R.D. 690/1907. Successivamente, i provvedimenti di organizzazione di ciascun corpo hanno disciplinato l’attribuzione di tali qualifiche: la legge 1 aprile 1981, n. 121[631] per la Polizia di Stato (art. 39); il decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 198[632] per l’Arma dei Carabinieri (artt. 3 e 13); il decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 199[633] per la Guardia di finanza (artt. 4 e 76); la legge 15 dicembre 1990, n. 395[634] per la Polizia penitenziaria (art. 14). Anche al personale che svolge servizio di polizia municipale può essere attribuita, a determinate condizioni la qualifica di agente di pubblica sicurezza[635]. Tali qualifiche possono, inoltre, essere attribuite con legge agli appartenenti ad altre strutture dello Stato (si veda ad esempio l’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza al personale degli Enti parco nazionali, in virtù dell’art. 1, comma 117, della legge 27 dicembre 2006, n. 296[636]).
L’art. 23 ha inoltre riformulato alcune disposizioni contenute nell’art. 9 della L. 801/1977. In particolare si prevede che, in deroga alle disposizioni ordinarie, il personale ha l’obbligo di denunciare fatti costituenti reato ai rispettivi direttori, i quali, senza ritardo, informano il Presidente del Consiglio dei Ministri, o l’Autorità delegata. A loro volta, spetta ai direttori dei servizi e al direttore generale del DIS fornire alla polizia giudiziaria le informazioni e gli elementi di prova relativamente a fatti configurabili come reato, con la possibilità di ritardare tali comunicazioni su autorizzazione del Presidente del Consiglio, quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza.
L’ultimo comma dell’art. 9 della L. 801/1977, relativo al principio di cooperazione da parte degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria nei confronti degli agenti dei servizi è stato riformulato nell’art. 12 della legge 124/2007, che prevede, più in generale, la collaborazione delle forze armate e delle forze di polizia con i servizi (vedi supra).
L’articolo 24dispone in materia di identità di copertura, prevedendo la competenza del direttore generale del DIS (su proposta dei direttori dei servizi e previa comunicazione al Presidente del Consiglio o all’Autorità delegata) in materia di autorizzazione all’uso di documenti di identificazione (passaporti, carte d’identità) da parte del personale dei servizi informativi contenenti indicazioni diverse da quelle reali. Parimenti può essere autorizzato temporaneamente l’utilizzo di altri documenti e certificati di copertura.
In ogni caso i documenti di copertura non possono attestare la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza.
La norma prevede, a tutela della segretezza dell’identità degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria che agiscono sotto copertura, che sia le procedure di rilascio dei documenti sia il periodo di validità siano attestati in un registro riservato conservato presso il DIS e presso l’agenzia cui appartiene il soggetto con l’identità di copertura. Dopo l’uso, il documento è conservato presso il DIS.
Le modalità di rilascio e la durata dei documenti di copertura dovrà essere definita con apposito regolamento emanato dal Presidente del Consiglio.
L’articolo 25prevede la possibilità che attività economiche simulate (sia nella forme di impresa individuale, sia di società di qualsiasi natura) siano esercitate da personale dei servizi (si tratta naturalmente di attività connesse allo svolgimento dei compiti di intelligence). L’operazione va autorizzata dal direttore generale del DIS, su proposta dei direttori dei servizi e previa comunicazione al Presidente del Consiglio o all’autorità delegata. La norma prevede una specifica rendicontazione ai fini dell’imputazione all’apposito capitolo dei fondi riservati. L’individuazione delle modalità di svolgimento delle attività simulate è demandata ad apposito regolamento.
L’articolo 26contiene una disposizione volta a evitare la costituzione di archivi illegali e a tutelare la riservatezza dei dati e delle informazioni raccolti e trattati da parte dei servizi di intelligence. Si prevede, infatti, che la raccolta e il trattamento di tali dati debbano essere finalizzati esclusivamente al perseguimento degli scopi istituzionali dei servizi.
A presidio di tale principio vengono introdotte alcune disposizioni specifiche. In primo luogo, sia il DIS, tramite l’ufficio ispettivo, sia i direttori dei servizi, sono responsabili del rispetto di tale principio. Inoltre, viene introdotta una sanzione penale per il personale che violi la riservatezza delle informazioni: il solo fatto di istituire o utilizzare schedari informativi al di fuori degli scopi di servizi comporta la pena della reclusione da tre a dieci anni, fatte salve le pene più severe previste se il fatto costituisce più grave reato. Infine, viene posto il divieto per DIS, AISE ed AISI di costituire archivi diversi da quelli ufficialmente comunicati al Comitato parlamentare, ai sensi dell’art. 33 della legge.
Specifici obblighi di riservatezza sono posti a carico della magistratura che debba assumere dichiarazioni di un membro dei servizi informativi. L’articolo 27 stabilisce, infatti, in caso di procedimento penale, l’obbligo di rigorose cautele a tutela dell’interessato compresa, se possibile, la sua audizione a porte chiuse (riferimento all’applicazione degli artt. 472 e 473 c.p.p. e dell’art. 128 c.p.c.) o l’eventuale utilizzo del collegamento audiovisivo a distanza. In tale ultimo caso, sono applicabili, in quanto compatibili, le relative norme contenute nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale (art. 146-bis).
L’art. 472 c.p.p. stabilisce, infatti, che il giudice dispone che il dibattimento (o alcuni atti di esso) si svolgano a porte chiuse quando la pubblicità può nuocere al buon costume ovvero, se vi è richiesta dell’autorità competente, quando la pubblicità può comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato. Analoga possibilità è prevista su richiesta dell’interessato, in caso di assunzione di prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione. Il giudice dispone altresì che il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte chiuse quando la pubblicità può nuocere alla pubblica igiene, quando avvengono da parte del pubblico manifestazioni che turbano il regolare svolgimento delle udienze ovvero quando è necessario salvaguardare la sicurezza di testimoni o di imputati (commi da 1 a 3).
Ai sensi del seguente art. 473 c.p.p., una volta che il giudice, sentite le parti, dispone, con ordinanza pronunciata in pubblica udienza, che il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte chiuse, non possono per alcun motivo essere ammesse nell’aula di udienza persone diverse da quelle che hanno il diritto o il dovere di intervenire. La presenza di giornalisti è ammessa dal giudice solo in specifici casi ed i testimoni, i periti e i consulenti tecnici, fatta eccezione per quelli che sia necessario trattenere, rimangono per il tempo strettamente necessario nell’aula di udienza.
Analogamente, anche le udienze del processo civile possono svolgersi a porte chiuse, secondo quanto previsto dall’art. 128 c.p.c., se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume.
La disciplina di attuazione del codice di procedura penale, applicabile all’ascolto a distanza (art. 146-bis) dell’addetto ai servizi informativi, riguarda principalmente le modalità del collegamento audiovisivo con il luogo ove si trova l’ascoltato; l’equiparazione del luogo dove l’agente dei servizi si collega all’aula di udienza (in caso di ascolto in sede dibattimentale); l’assistenza dell’ausiliario del giudice (o di un ufficiale di polizia giudiziaria) presente nel luogo ove si trova l’imputato, che ne attesta l’identità e che redige apposito verbale di documentazione dell’atto.
Non solo nel corso del giudizio, ma anche nella fase delle indagini, l’autorità giudiziaria è tenuta ad adottare tutte le cautele necessarie a tutela del personale dei servizi che deve essere esaminato, o che partecipa in altro modo ad un atto di indagine.
Infatti, il pubblico ministero provvede sempre a secretare gli atti cui partecipano gli addetti ai servizi o del DIS fino alla chiusura delle indagini preliminari, anche in deroga all’art. 329, comma 3, c.p.p., a meno che la divulgazione del segreto sia indispensabile al proseguimento delle indagini o per altri rilevanti motivi.
L’art. 329 c.p.p. dispone, in via generale, che gli atti d’indagine sono segreti fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (comma 1). Una volta che si è verificata una delle due condizioni di cui sopra persiste la possibilità da parte del pubblico ministero di disporre l’obbligo del segreto a determinate condizioni; egli può, infatti, stabilire con decreto motivato (comma 3):
§ l’obbligo del segreto per singoli atti, quando l’imputato lo consente o quando la conoscenza dell’atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone;
§ il divieto di pubblicare il contenuto di singoli atti o notizie specifiche relative a determinate operazioni.
Una forma particolare di tutela è contenuta nell’articolo 28 (che introduce il nuovo art. 270-bis c.p.p.): essa riguarda le eventuali intercettazioni di comunicazioni tra operatori dei servizi e introduce un procedimento – volto ad accertare la sussistenza del segreto di Stato in dette comunicazioni – analogo a quello che disciplina l’opposizione del segreto di Stato in sede di deposizione davanti all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 202 c.p.p., come riformulato dal successivo art. 40 della legge. Anche nel caso delle intercettazioni, la conferma dell’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio determina la impossibilità di utilizzo delle notizie coperte dal segreto, fermo restando il ricorso alla Corte costituzionale.
Il procedimento prevede che, una volta terminate le intercettazioni, l’autorità giudiziaria trasmette al Presidente del Consiglio le informazioni di cui intende avvalersi nel processo al fine di verificare se siano coperte da segreto di Stato. Nel frattempo tali informazioni non possono essere utilizzate se non in caso di pericolo di inquinamento delle prove o pericolo di fuga, o al fine di prevenire o interrompere la commissione di un delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Mentre, peraltro, la procedura di cui all’art. 40 (come all’art. 41) prevede che il Presidente del Consiglio ha 30 giorni di tempo per confermare il segreto, l’art. 28 ne concede 60 per l’opposizione dello stesso.
Le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni costituiscono una tipica attività che trova la sua naturale collocazione temporale nel corso delle indagini preliminari e, all’interno del codice di rito penale, in quanto mezzo di ricerca della prova, negli articoli da 266 a 271 c.p.p., norme di chiusura del titolo III del libro III.
Per quel che riguarda gli aspetti esecutivi delle operazioni, il legislatore ha voluto che il decreto del PM che dispone l’intercettazione ne indicasse le modalità (precisando, ad es., le utenze telefoniche da controllare) e la durata. Quest’ultima in ogni caso non può essere superiore a 15 giorni, salvo motivata proroga con decreto del GIP per ulteriori periodi successivi di 15 giorni ciascuno, purché permangano i requisiti richiesti ab origine (art. 267, terzo comma, c.p.p.).
Relativamente alla copertura della spese per il funzionamento (articolo 29) si prevede un sistema mutuato dalla L. 801/1977 (in particolare, dall’art. 19): i fondi destinati agli organismi informativi sono allocati in una apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero dell’economia. La ripartizione di detti fondi avviene successivamente, all’inizio dell’esercizio finanziario, quando il Presidente del Consiglio, previa deliberazione del CISR e con il parere dei responsabili degli organismi, suddivide lo stanziamento tra DIS, AISE ed AISI e stabilisce le somme da destinare ai fondi ordinari e a quelli riservati.
Della ripartizione, nonché delle eventuali variazioni intervenute nel corso dell’anno, viene data comunicazione al Comitato parlamentare per la sicurezza.
I servizi e il DIS sono dotati di una certa autonomia contabile, in quanto è previsto che la contabilità interna sia disciplinata da un regolamento ad hoc anche in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato (ma nel rispetto dei principi fondamentali da esse stabiliti).
Il regolamento è emanato con decreto del Presidente del Consiglio, previa deliberazione del CISR e sentito il Presidente della Corte dei conti, sulla base di una serie di disposizioni generali, espressamente indicate e che si possono sintetizzare come segue:
§ i documenti contabili fondamentali sono il bilancio preventivo (che comprende le spese riservate) e il bilancio consuntivo (delle sole spese ordinarie) che sono unici per tutti gli organismi informativi (comma 3, lettera a));
§ i bilanci sono predisposti dai responsabili degli organismi e approvati con decreto del Presidente del Consiglio, previa deliberazione del CISR (comma 3, lettera b));
§ la contabilità degli organismi informativi è sottoposta al controllo di un ufficio della Corte dei Conti distaccato presso il DIS, per quanto riguarda il controllo successivo sulla legittimità e regolarità di gestione, e a quello di una speciale sezione distaccata dell’ufficio centrale del bilancio della Presidenza del Consiglio, relativamente al controllo preventivo di legittimità sulle spese ordinarie. I componenti degli uffici della Corte dei conti e dell’Ufficio bilancio di cui sopra sono tenuti al rispetto del segreto (comma 3, lettere c), d) ed e));
§ per quanto riguarda le spese riservate viene presentato un rendiconto a parte, trimestrale, e una relazione finale, annuale, entrambi al Presidente del Consiglio (comma 3, lettera f));
§ il consuntivo delle spese ordinarie, cui è allegata la relazione della Corte dei conti, e una relazione semestrale sulle linee essenziali della gestione delle spese riservate sono trasmesse al Comitato parlamentare di controllo (comma 3, lettera g)).
Inoltre, un regolamento apposito dovrà definire sia le procedure per la stipula dei contratti di appalti di lavori e fornitura di beni e servizi (nel rispetto delle norme di cui all’art. 17 del D.Lgs. 1 aprile 2006, n. 163[637]) sia le tipologie di lavori che possono essere effettuati in economia o a trattativa privata. Tale regolamento andrà a sostituire quello attualmente previsto dal comma 8 del medesimo art. 17, che è abrogato.
L’art. 17 del codice degli appalti introduce una deroga alle disposizioni relative alla pubblicità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici nel caso di opere che esigono particolari misure di sicurezza o di segretezza, e introduce una serie di condizioni per tali lavori (obbligo di motivare le particolari ragioni di sicurezza, eseguibilità dei contratti da parte operatori in possesso, oltre che dei requisiti previsti dal codice, dell’abilitazione di sicurezza, affidamento dei contratti previo esperimento di gara informale). Il comma 8 dell’art. 17 recava l’autorizzazione ad emanare un regolamento per l’acquisizione di beni, servizi, lavori e opere in economia ovvero a trattativa privata, da parte dei servizi di informazione (il regolamento è adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Comitato interministeriale per i servizi di informazione e sicurezza, previa intesa con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentito il Consiglio di Stato che si pronuncia entro quarantacinque giorni dalla richiesta).
Ai sensi del comma 6, dall’attuazione della legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Servizi di informazione per la sicurezza
Gli articoli 30-38della L. 124/2007 ridefiniscono significativamente i poteri del Comitato parlamentare di controllo (cd. COPACO), al quale viene attribuita la specifica denominazione di Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblicain luogo di quella generica (comitato parlamentare) indicata dall’art. 11 della L. 801/1977.
In precedenza, l’art. 11 della L. 801/1977 prevedeva, ai commi 2 e seguenti, che un Comitato parlamentare costituito da quattro deputati e quattro senatori nominati dai Presidenti dei due rami del Parlamento sulla base del criterio di proporzionalità, esercitasse il controllo sull’applicazione dei principi stabiliti dalla legge stessa. A tale fine il Comitato parlamentare poteva chiedere al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza informazioni sulle linee essenziali delle strutture e dell’attività dei Servizi e formulare proposte e rilievi. Il Presidente del Consiglio dei Ministri poteva opporre al Comitato parlamentare, indicandone con sintetica motivazione le ragioni essenziali, l’esigenza di tutela del segreto in ordine alle informazioni che a suo giudizio eccedessero i limiti suddetti. In questo caso, il Comitato parlamentare ove avesse ritenuto, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, che l’opposizione del segreto non fosse fondata, ne riferiva a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni politiche. Al Comitato la legge non attribuiva alcun potere autoritativo di acquisizione documentale o di ispezione e verifica diretta per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali.
I componenti del Comitato parlamentare erano vincolati al segreto relativamente alle informazioni acquisite e alle proposte e ai rilievi formulati. Gli atti del Comitato erano coperti dal segreto.
Ove necessario, il Comitato poteva formulare proposte e rilievi, di cui poteva dare conto alle Camere, ove lo avesse ritenuto opportuno, mediante apposite relazioni. Per la presentazione di tali relazioni non era prevista una cadenza predeterminata. Le Camere potevano deliberare di discutere le relazioni del Comitato, approvando eventualmente - in esito al dibattito - atti di indirizzo al Governo.
Ai sensi dell’art. 16 della L. 801, di ogni caso di conferma dell’opposizione del segreto di Stato all’autorità giudiziaria il Presidente del Consiglio dei Ministri era tenuto a dare comunicazione, indicandone con sintetica motivazione le ragioni essenziali, al Comitato. Questo, qualora avesse ritenuto a maggioranza assoluta dei suoi componenti infondata la opposizione del segreto, ne riferiva a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni politiche.
L’articolo 30fissa il numero dei componenti del Comitato parlamentare, elevandolo a cinque deputati e cinque senatori. Questi sono designati, entro venti giorni dall’inizio di ogni legislatura, rispettivamente dai Presidenti di Camera e Senato. È mantenuto il riferimento al criterio di proporzionalità per la loro nomina. Si richiede inoltre espressamente che venga garantita la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni.
Viene sancito il principio, che del resto è stato fin dall’inizio applicato in via di prassi parlamentare, secondo cui il Presidente del Comitato è eletto tra i componenti appartenenti all’opposizione. Per la sua elezione è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti, con eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati. Per la designazione degli altri due componenti dell’ufficio di presidenza, vige il principio del voto limitato (commi 3-6).
Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l’attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell’esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni (comma 2).
Il Comitato è, in sintesi, l’organo di controllo parlamentare della legittimità e della correttezza costituzionale dell’attività degli organismi informativi.
La legge 124/2007 disciplina in dettaglio i suoi poteri, che risultano notevolmente rafforzati rispetto alla disciplina previgente.
Le motivazioni di tale incremento di poteri sono evidenziate nella relazione illustrativa della proposta di legge originariamente presentata dal presidente e dai membri appartenenti alla Camera del COPACO (A.C. 2070), il cui testo coincideva in larga misura, per la parte relativa alle modalità di esercizio del controllo parlamentare, con quello della L. 124/2007.
La relazione sottolineava che, secondo la normativa allora vigente, dettata dalla L. 801/1977, “la capacità di reale controllo da parte del COPACO è rimessa, in ultima analisi, alla buona volontà e alla leale collaborazione degli stessi soggetti controllati: a parte la relazione semestrale presentata al Parlamento, non esistono altre comunicazioni periodiche che debbano essere obbligatoriamente fornite al COPACO da parte del Governo, dei servizi o delle forze armate e di polizia.
Le richieste che il COPACO può indirizzare al Governo (e che quest’ultimo è politicamente tenuto a soddisfare) possono riguardare solo aspetti limitati e generali della politica di informazione e sicurezza. Quanto ai direttori dei servizi, questi ultimi, quando sono ascoltati in audizione, non sono giuridicamente obbligati a dire tutta la verità.
Nell’attuale contesto normativo, l’operato degli organismi di intelligence può, dunque, sfuggire tanto alla reale guida dell’Esecutivo, quanto all’effettivo controllo democratico del Parlamento”.
Al Comitato sono riconosciuti poteri che si avvicinano a quelli attribuiti alle Commissioni parlamentari d’inchiesta, limitatamente alla possibilità di procedere ad audizioni, effettuare ispezioni o sopralluoghi, acquisire documentazione ed elementi informativi ritenuti di interesse. Fermo restando che alle sole commissioni di inchiesta è concesso di agire con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria (art. 82 Cost.), l’articolo 31 ricalca in più punti disposizioni contenute in alcune leggi istitutive di commissioni di inchiesta. Il potere di controllo del Comitato (alla cui definizione è dedicato l’intero art. 31) si esplica nella convocazione, per lo svolgimento periodico di audizioni, del Presidente del Consiglio, dei membri del Comitato interministeriale (CISR), del direttore generale del Dipartimento (DIS), dei direttori dei servizi (AISE ed AISI) (comma 1).
È inoltre ammessa, in casi eccezionali, con adeguate motivazioni, la possibilità di sentire i dipendenti del Sistema di informazione per la sicurezza. Stante la straordinarietà di tali audizioni, la relativa delibera deve essere comunicata al Presidente del Consiglio, il quale, sotto la propria responsabilità, può opporsi per giustificati motivi allo svolgimento dell’audizione (comma 2).
Il Comitato può inoltre ascoltare ogni altra persona non appartenente al Sistema di informazione per la sicurezza che ritenga in possesso di elementi utili per l’esercizio del controllo parlamentare (comma 3).
Tutti i soggetti auditi sono tenuti a riferire, con lealtà e completezza, le informazioni in loro possesso concernenti le materie di interesse del Comitato (comma 4).
Quanto alla richiesta di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria, nonché di atti e documenti relativi a indagini e inchieste parlamentari, il Comitato ha la possibilità di ottenere tali atti dall’autorità giudiziaria anche in deroga all’obbligo del segreto delle indagini preliminari (art. 329 c.p.p.). L’autorità giudiziaria può ritardare, soltanto per ragioni di natura istruttoria, la trasmissione di copia degli atti e dei documenti richiesti. A tal fine deve peraltro emettere un decreto motivato, che ha efficacia per sei mesi e può essere rinnovato, ma perde efficacia dopo la chiusura delle indagini preliminari. Quando tali ragioni vengono meno, l’autorità giudiziaria provvede senza ritardo a trasmettere quanto richiesto (commi 5 e 6).
Nello svolgimento della propria attività conoscitiva, il Comitato può acquisire dai componenti del Sistema di informazione per la sicurezza informazioni di interesse e copie di atti e documenti da essi prodotti o custoditi. Quando ritiene che la rivelazione di informazioni o di atti possa mettere in pericolo la sicurezza della Repubblica, i rapporti con Stati stranieri o recare danno ai servizi stessi, il destinatario della richiesta può opporre al Comitato l’esigenza di riservatezza. Nel caso in cui il Comitato rilevi l’infondatezza di tale richiesta, spetta al Presidente del Consiglio valutare la scelta di non trasmettere le informazioni richieste. In caso di dissenso con quest’ultimo, il Comitato riferisce alle Camere per le conseguenti valutazioni. La tutela della riservatezza non può essere invocata in relazione a fatti per i quali non è opponibile il segreto di Stato.
È esclusa, inoltre, l’opponibilità dell’esigenza di riservatezza, nei casi in cui il Comitato, esprimendosi all’unanimità, abbia disposto indagini sulla rispondenza ai compiti istituzionali dei comportamenti di appartenenti ai servizi di informazione. In tali casi non è opponibile al Comitato neppure il segreto di Stato.
Il Comitato, qualora ritenga infondata la decisione del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero non riceva alcuna comunicazione nel termine prescritto, ne riferisce a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni (commi 7-10).
Il Comitato può accedere per sopralluoghi (anche per controlli sulla documentazione di spesa relativa ad operazioni concluse dai servizi) agli uffici del Sistema di informazione per la sicurezza. Di tali operazioni deve essere informato preventivamente il Presidente del Consiglio, che può soltanto differire l’accesso per motivi contingenti (commi 13-15).
È esclusal’opponibilità al Comitato del segreto istruttorio, d’ufficio, bancario o professionale e del segreto funzionale apposto da Commissioni parlamentari d’inchiesta a propri atti e documenti (commi 11 e 12).
Per quanto riguarda le funzioni consultive (articolo 32), il Comitato si esprime su tutti gli schemi di decreto e regolamento in materia di intelligence e, in particolare, su quelli concernenti l’organizzazione e lo stato del contingente del personale dei due servizi di informazione e del DIS. Il parere, che deve essere reso entro il termine perentorio di un mese ed è prorogabile per un termine non superiore a 15 giorni, è obbligatorio ma non vincolante.
Non è invece previsto il parere del Comitato sulle nomine dei direttori e dei vicedirettori del DIS e dei servizi di informazione per la sicurezza, ma soltanto un’informativa preventiva al Comitato da parte del Presidente del Consiglio.
Il Comitato diviene destinatario diretto di una serie di comunicazioni obbligatorie e di una relazione semestrale da parte del Governo (articolo 33). Analogamente a quanto già previsto dalla legislazione previgente (L. 801/1977, art. 11, co. 1°), la relazione ha per oggetto l’attività dei servizi di sicurezza e contiene una analisi della situazione e dei pericoli per la sicurezza della Repubblica. Destinatario della relazione non è tuttavia il Parlamento (come in precedenza disponeva la L. 801/1977), ma direttamente il Comitato parlamentare. Sembra quindi da ritenere, anche in considerazione delle informazioni che l’art. 33 richiede formino oggetto della relazione, che quest’ultima abbia carattere riservato.
L’art. 33 stabilisce innovativamente che la relazione semestrale deve contenere elementi informativi anche su:
§ l’andamento della gestione finanziaria del DIS e dei servizi di sicurezza nello stesso semestre (comma 7. Sul punto si richiama l’art. 29, co. 3, lett. g) della legge, in cui si dispone che al Comitato deve essere trasmesso a fini conoscitivi il consuntivo della gestione finanziaria delle spese ordinarie del DIS e dei servizi di sicurezza e, nella relazione semestrale, una informativa sulle singole linee essenziali della gestione finanziaria delle spese riservate);
§ il riepilogo per tipologie di spesa delle previsioni iscritte nel bilancio di DIS, AISE ed AISI, ed i relativi stati di utilizzo (comma 8);
§ i criteri di acquisizione dei dati personali raccolti dai servizi di informazione per la sicurezza per il perseguimento dei loro fini (comma 9);
§ le linee essenziali delle attività svolte mediante l’impiego di identità di copertura (comma 11);
§ la consistenza dell’organico e il reclutamento di personale effettuato nel semestre di riferimento; i casi di chiamata diretta nominativa con indicazione dei criteri adottati e le prove selettive sostenute (comma 12).
Per quanto riguarda le comunicazioni obbligatorie del Presidente del Consiglio nei confronti del Comitato, quest’ultimo deve essere informato:
§ delle operazioni dei servizi di informazione per la sicurezza per le quali sia stata concessa l’autorizzazione (di cui all’art. 18 della legge) a compiere legittimamente, a difesa della sicurezza nazionale, condotte astrattamente configurabili come reato o a richiedere all’Autorità giudiziaria l’autorizzazione ad effettuare intercettazioni e controlli preventivi sulle comunicazioni ai fini dell’attività informativa e di sicurezza contro il terrorismo internazionale (comma 4);
§ delle richieste di secretazione delle comunicazioni di servizio di appartenenti al DIS e ai servizi di informazione per la sicurezza che siano state acquisite tramite intercettazioni dall’A.G.O. e le determinazioni adottate al riguardo (comma 5);
§ dell’istituzione degli archivi del DIS e dei servizi di informazione per la sicurezza (comma 6. Si ricorda che ai sensi dell’art. 26, comma 4, è vietata l’istituzione di archivi la cui esistenza non sia comunicata al Comitato parlamentare).
Altri obblighi informativi nei confronti del Comitato sono posti a capo del DIS (che, ai sensi del comma 2, deve comunicare tutti i regolamenti e le direttive del Presidente del Consiglio dei ministri che riguardano le materie di competenza del Comitato, nonché i decreti e i regolamenti concernenti l’organizzazione e lo stato del personale), nonché dei Ministri dell’interno, della difesa e degli affari esteri (che, ai sensi del comma 3, trasmettono i regolamenti da essi emanati con riferimento alle attività del Sistema di informazione per la sicurezza).
L’attività informativa del Comitato si estrinseca in una relazione annuale alle Camere sulla propria attività[638], nella quale esso può avanzare proposte o segnalazioni sulle questioni di competenza. Il Comitato può altresì trasmettere al Parlamento nel corso dell’anno informative o relazioni urgenti (articolo 35). Inoltre, in caso di accertamento di violazioni delle norme che disciplinano l’attività di intelligence, il Comitato riferisce ai Presidenti delle Camere e informa il Presidente del Consiglio (articolo 34).
L’ampliamento dei poteri del Comitato parlamentare comporta il rafforzamento dell’esigenza di riservatezza e di segretezza degli atti del Comitato per i quali non sia stata autorizzata la divulgazione. L’articolo 36 estende dunque l’obbligo del segreto anche ai funzionari e al personale addetti al Comitato e a tutte le persone che collaborano con esso. La violazione dell’obbligo di segreto è sanzionata penalmente (ai sensi dell’art. 326 c.p., salvo che il fatto non costituisca più grave reato). Analogamente è sanzionata la diffusione anche parziale di atti e documenti. Per le violazioni commesse da parlamentari le pene di cui all’art. 326 c.p. sono aumentate da un terzo alla metà.
L’art. 326 c.p. (Violazione del segreto di ufficio) si applica ai pubblici ufficiali e alle persone incaricate di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della loro qualità, rivelino notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevolino in qualsiasi modo la conoscenza, prevedendo in questi casi la reclusione da sei mesi a tre anni.
L’applicazione delle sanzioni sulla violazione del segreto è espressamente estesa a tutti i soggetti, che siano anche esterni al Comitato e che non rientrino nelle categorie di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, i quali diffondano anche parzialmente atti o documenti dei quali non sia stata autorizzata la divulgazione.
Tale ultima previsione è contenuta con formulazioni analoghe – anche se non identiche – nelle leggi istitutive di alcune Commissioni di inchiesta. Si ricorda per tutte quella relativa alla Commissione antimafia (legge 27 ottobre 2006, n. 277, art. 5, comma 3) e quella concernente la Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti (legge 20 ottobre 2006, n. 271, art. 5, comma 2). Tali disposizioni prevedono l’applicazione delle pene di cui all’art. 326 c.p. “a chiunque diffonda in tutto o in parte, anche per riassunto o informazione, atti o documenti del procedimento di inchiesta dei quali sia stata vietata la divulgazione”.
Il presidente del Comitato, anche su richiesta di uno dei suoi componenti, denuncia i casi di violazione del segreto all’autorità giudiziaria.
Nei confronti dei componenti il Comitato, è prevista, in aggiunta alla denuncia dell’autorità giudiziaria, la possibilità di attivare un procedimento di accertamento endoparlamentare, mediante la nomina, da parte del Presidente della Camera di appartenenza, di una commissione di indagine paritariamente composta da parlamentari della maggioranza e dell’opposizione. La commissione di indagine procede ai sensi del regolamento della Camera di appartenenza e riferisce le sue conclusioni al Presidente. Qualora essa ritenga che vi sia stata violazione del segreto da parte del parlamentare interessato, il Presidente della Camera di appartenenza procede a sostituirlo (nel rispetto dei principi di rappresentanza proporzionale dei gruppi e paritaria di maggioranza e opposizioni), dandone previa comunicazione al Presidente dell’altro ramo del Parlamento.
L’articolo 37 disciplina l’organizzazione internadel Comitato, prevedendo l’adozione di un regolamento interno (in precedenza questo non esisteva e il Comitato esercitava le proprie funzioni applicando il regolamento del ramo del Parlamento al quale apparteneva il Presidente in carica).
Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha approvato, nella seduta del 22 novembre 2007, il proprio regolamento interno[639].
È inoltre disposta, come ipotesi ordinaria, la segretazione delle sedute e degli atti del Comitato, lasciando comunque impregiudicata per il Comitato la facoltà di decidere diversamente al riguardo.
Il Comitato può avvalersi delle collaborazioni esterne ritenute necessarie, previa mera comunicazione ai Presidenti delle Camere e nei limiti delle risorse finanziarie assegnate al Comitato. È espressamente vietato l’utilizzo di collaboratori che facciano o abbiano fatto parte del Sistema di informazione per la sicurezza e di soggetti che collaborino o abbiano collaborato con organismi informativi di Stati stranieri.
Ai sensi dell’articolo 38, in aggiunta alle relazioni semestrali al Comitato, di cui all’art. 33 della legge, entro il mese di febbraio di ogni anno il Governo trasmette al Parlamento una relazione scritta, riferita all’anno precedente, sulla politica dell’informazione per la sicurezza e sui risultati ottenuti.
Si tratta della medesima relazione che, ai sensi dell’art. 11, co. 1°, della L. 801/1977, il Governo era tenuto a presentare semestralmente al Parlamento.
La relazione al Parlamento serve a garantire la sussistenza di un circuito pubblico che, contrariamente a quanto accade per le relazioni semestrali al Comitato, non sia coperto da riservatezza[640].
Nel febbraio 2008 il governo ha presentato al Parlamento la prima relazione secondo la nuova disciplina dettata dalla legge 127, tale relazione “inaugura il nuovo corso rivestendo carattere temporalmente transitorio posto che, pur se formalmente riferito al 2007, si concentra sulla seconda metà dell’anno in una logica di continuità espositiva con l’ultima relazione redatta ai sensi della precedente disciplina e riferita al primo semestre 2007”[641].
L’articolo 45 fissa un termine di 10 giorni dall’entrata in vigore della legge per l’integrazione (con due nuovi membri) del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.
Il 12 ottobre 2007, a seguito dell'entrata in vigore della legge 124/2007, il Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato ha assunto la denominazione di Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, insieme con le relative competenze.
In pari data, ai sensi degli articoli 30, comma 1, e 45, comma 1, della legge citata, la composizione del Comitato è stata integrata con la nomina del dep. Roberto Maroni e del sen. Giuseppe Caforio.
Servizi di informazione per la sicurezza
L’articolo 39 della L. 124/2007 ridefinisce la disciplina del segreto di Stato.
Per quanto riguarda il perimetro della nozione di segreto di Stato, viene ridotto quello in precedenza tracciato dall’art. 12 della L. 801/1977. L’art. 39, infatti, limita il ricorso alla copertura del segreto di Stato soltanto agli atti la cui conoscenza potrebbe danneggiare:
§ l’integrità della Repubblica (l’art. 12 della L. 801/1977 faceva invece riferimento all’integrità dello Stato democratico), anche in relazione ad accordi internazionali;
§ la difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a fondamento della Repubblica;
§ l’indipendenza dello Stato, rispetto ad altri Stati e in relazione con essi;
§ la preparazione e la difesa militare dello Stato.
Rispetto al regime precedentemente vigente, è eliminato dunque il segreto per gli atti la cui diffusione sia idonea a recare danno al “libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali”.
Si specifica che l’obbligo di segretezza deve essere fatto valere nei confronti di chiunque, prevedendo che gli atti coperti dal segreto di Stato possono essere posti a conoscenza esclusivamente di coloro che sono chiamati a svolgere rispetto ad essi funzioni essenziali: in sostanza degli operatori degli organismi di sicurezza e, tra questi, solamente di quelli investiti di un compito specifico che implichi la conoscenza di tali atti (comma 2). Il segreto di Stato si estende anche agli atti la cui conoscenza possa danneggiare in modo grave le finalità in precedenza illustrate (comma 3).
La responsabilità e la competenza per l’apposizione del segreto di Stato spetta al Presidente del Consiglio, il quale, con proprio regolamento, stabilisce i criteri per l’individuazione degli atti suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato (comma 5).
Il regolamento è stato adottato con il DPCM 8 aprile 2008[642] che reca in allegato un elenco esemplificativo delle materie le cui notizie, documenti, atti, attività luoghi o cose attinenti sono suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato, fermo restando che la valutazione in concreto di ogni singolo caso sulla base dei principi generali desumibili dalla legge.
Le materie sono le seguenti:
§ la tutela di interessi economici, finanziari, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari ed ambientali;
§ la tutela della sovranità popolare, dell'unità ed indivisibilità della Repubblica;
§ la tutela da qualsiasi forma di eversione o di terrorismo, nonché di spionaggio, proveniente dall'esterno o dall'interno del territorio nazionale e le relative misure ed apparati di prevenzione e contrasto, nonché la cooperazione in ambito internazionale ai fini di sicurezza, con particolare riferimento al contrasto del terrorismo, della criminalità organizzata e dello spionaggio;
§ le sedi e gli apparati predisposti per la tutela e la operatività di Organi istituzionali in situazioni di emergenza;
§ le misure di qualsiasi tipo intese a proteggere personalità nazionali ed estere la cui tutela assume rilevanza per gli interessi di cui all'art. 3 del regolamento;
§ i compiti, le attribuzioni, la programmazione, la pianificazione, la costituzione, la dislocazione, l'impiego, gli organici e le strutture del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), dell'Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE), dell'Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI) e delle amministrazioni aventi quali compiti istituzionali l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica, nonché la difesa civile e la protezione civile, nonché di altre amministrazioni ed enti nei casi in cui le rispettive attività attengono agli interessi di cui all'articolo 3, comma 1, lettere a), b), c) e d) del presente regolamento;
§ i dati di riconoscimento autentici o di copertura, nonché le posizioni documentali degli appartenenti al DIS, all'AISE ed all'AISI e quelli di copertura degli stessi Organismi;
§ l'addestramento e la preparazione professionale di tipo specialistico per lo svolgimento delle attività istituzionali, nonché le aree ed i settori di impiego, le operazioni e le attività informative, le modalità e le tecniche operative del DIS, dell'AISE e dell'AISI, oltre che delle amministrazioni aventi come compito istituzionale l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica, la difesa civile e la protezione civile;
§ le relazioni con Organi informativi di altri Stati;
§ le infrastrutture ed i poli operativi e logistici, l'assetto ed il funzionamento degli impianti, dei sistemi e delle reti di telecomunicazione, radiogoniometriche, radar e cripto nonché di elaborazione dati, appartenenti al DIS, all'AISE ed all'AISI, nonché appartenenti ad altre amministrazioni aventi quali compiti istituzionali l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica, la difesa civile e la protezione civile;
§ l'armamento, l'equipaggiamento, i veicoli, i mezzi e i materiali speciali in dotazione al personale appartenente al DIS, all'AISE ed all'AISI, nonché alle amministrazioni aventi quali compiti istituzionali l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica, la difesa civile e la protezione civile;
§ il materiale o gli avvenimenti interessanti l'efficienza bellica dello Stato ovvero le operazioni militari in progetto o in atto;
§ l'ordinamento e la dislocazione delle Forze armate, sia in pace sia in guerra;
§ l'efficienza, l'impiego e la preparazione delle Forze armate;
§ i metodi e gli impianti di comunicazione ed i sistemi di ricetrasmissione ed elaborazione dei segnali per le Forze armate;
§ i mezzi e l'organizzazione dei trasporti, nonché le dotazioni, le scorte e le commesse di materiale delle Forze armate;
§ gli stabilimenti civili di produzione bellica e gli impianti civili per produzione di energia ed altre infrastrutture critiche;
§ la mobilitazione militare e civile.
Il regolamento contiene, inoltre, altre disposizioni di attuazione della legge 124 tra cui norme in materia di apposizione e conservazione del segreto di Stato e di diritto di accesso.
Il regolamento è stato esaminato dal Comitato parlamentare per la sicurezza che ha reso parere favorevole con diverse condizioni e osservazioni nella seduta del 24 gennaio 2008.
Con una significativa innovazione, l’articolo 30 della legge 124 introduce un limite temporaleal vincolo di segretezza(che secondo la disciplina previgente non era soggetto ad alcun termine di durata): esso viene a cessare ordinariamente decorsi quindici anni dalla apposizione o dalla opposizione. Il Presidente del Consiglio può, con provvedimento motivato che deve essere trasmesso senza ritardo al Comitato, disporre una o più proroghe del vincolo. La durata complessiva del vincolo del segreto di Stato non può essere superiore a trenta anni. A prescindere dal decorso di tali termini, il Presidente del Consiglio dispone la cessazione anticipata del vincolo, quando sono venute meno le esigenze che ne determinarono l’apposizione (commi 7-9).
Quando, in base ad accordi internazionali, la sussistenza del segreto incide anche su interessi di Stati esteri o di organizzazioni internazionali, il provvedimento con cui è disposta la cessazione del vincolo, salvo che ricorrano ragioni di eccezionale gravità, e a condizioni di reciprocità, è adottato previa intesa con le autorità estere o internazionali competenti (comma 10).
È espressamente escluso che possano essere oggetto di segreto di Stato (oltre ai fatti eversivi dell’ordine costituzionale, come già prevedeva l’art. 12, comma secondo, della L. 801/1977) i fatti di terrorismo, quelli costituenti i reati di strage previsti dagli artt. 285 e 422 c.p. e i reati di mafia di cui agli artt. 416-bis (Associazione di tipo mafioso) e 416-ter (Scambio elettorale politico-mafioso) c.p.
L’articolo 40, comma 1, sostituisce l’art. 202 c.p.p. relativo al segreto di Stato opposto dai pubblici ufficiali, dai pubblici impiegati e dagli incaricati di pubblico servizio nel corso di un procedimento penale.
È confermata l’attuale formulazione del comma 1 dell’art. 202 c.p.p., che sancisce l’obbligo per i soggetti citati chiamati a testimoniare di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato.
Nel caso di opposizione del segreto di Stato da parte del testimone, nelle more della decisione di conferma o meno di esso da parte del Presidente del Consiglio, il comma 2 dell’art. 202 c.p.p., come sostituito dalla legge 124/2007, stabilisce che l’autorità giudiziaria deve sospendere ogni iniziativa volta ad acquisire elementi relativi all’oggetto del segreto.
È stato dimezzato – da 60 a 30 giorni – il termine a disposizione del Presidente del Consiglio dei ministri per confermare il segreto (comma 4 dell’art. 202 c.p.p. come sostituito).
Inoltre, recependo un principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale, si stabilisce che l’opposizione del segreto, motivatamente confermata dal Presidente del Consiglio, impedisce al giudice di acquisire ed utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto (comma 5 dell’art. 202 c.p.p. come sostituito), ma non preclude all’autorità giudiziaria di procedere in base a elementi autonomi e indipendenti dagli atti, documenti e cose coperte dal segreto (comma 6 dell’art. 202 c.p.p. come sostituito)[643].
Viene esplicitato che l’autorità giudiziaria di fronte al provvedimento di conferma dell’opposizione del segreto di Stato può sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. L’eventuale risoluzione del conflitto in favore dell’autorità giudiziaria preclude l’opposizione del segreto nel corso del procedimento per il medesimo oggetto (comma 7 dell’art. 202 c.p.p. come sostituito). Viceversa, qualora il conflitto sia risolto nel senso della sussistenza del segreto di Stato, l’autorità giudiziaria non può né acquisire né utilizzare, direttamente o indirettamente, atti o documenti sui quali è stato opposto il segreto di Stato.
Il comma 1 dell’art. 40 ha introdotto infine un rilevante elemento di novità sancendo il principio secondo cui in nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale: la Corte ha dunque pieno accesso a tutta la documentazione coperta dal segreto. Essa deve peraltro dettare disposizioni interne volte a garantire la segretezza degli atti (comma 8 dell’art. 202 c.p.p. come sostituito).
A proposito del conflitto di attribuzioni, si ricorda che la legge riconosce la facoltà di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato a tutti gli “organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata” (legge 87/1953, art. 37, comma primo).
Gli organi giurisdizionali rientrano pienamente tra quelli legittimati ad essere parte – attiva e passiva – nei conflitti di attribuzione. Tra questi organi la Corte costituzionale per costante giurisprudenza ha compreso il pubblico ministero, in quanto titolare diretto ed esclusivo dell’attività di indagine finalizzata all’esercizio obbligatorio dell’azione penale, come previsto dall’art. 112 (sent. 110/1998).
Per quanto riguarda la materia del segreto di Stato, viene riconosciuta la legittimazione ad agire non soltanto del Presidente del Consiglio – “in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato” (ord. 404/2005, sent. 410 e 110/1998, ord. 426/97, sent. 86/1977) – ma anche al Procuratore della Repubblica (ord. 404/2005).
Il comma 2 dell’art. 40 modifica l’art. 204 (Esclusione del segreto), primo comma, primo periodo, c.p.p., secondo cui non possono essere oggetto del segreto previsto dagli artt. 201, 202 e 203 c.p.p. fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale (come già ricordato, una disposizione analoga era contenuta nell’art. 12 della L. 801/1977).
In armonia con quanto disposto dall’art. 39, co. 11, della legge, la modifica introdotta dal comma 2 estende la preclusione dell’opposizione del segreto di Stato anche alle seguenti ulteriori ipotesi:
§ reati di strage previsti dagli artt. 285 e 422 c.p.;
§ associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p.
§ scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416-ter.
Il comma 3 dell’art. 40 inserisce quattro nuovi commi dopo il comma 1 dell’art. 204 c.p.p..
Il comma 1-bis esclude dal vincolo di segretezza gli atti connessi ad operazioni effettuate dal personale dei servizi di informazione per la sicurezza per le quali non sia stata riscontrata la sussistenza della speciale causa di giustificazione di cui all’art. 18 della legge (che comporta l’autorizzazione a compiere legittimamente condotte astrattamente configurabili come reati).
Inoltre, il segreto di Stato non può essere opposto o confermato a esclusiva tutela della classifica di segretezza o in ragione esclusiva della natura del documento, atto o cosa oggetto della classifica.
Si stabilisce anche in questa sede che in nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale.
Per quanto riguarda la tutela della classifica, si dispone che il Presidente del Consiglio dei ministri, qualora non confermi il segreto, provvede a declassificare, i documenti prima di metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria competente (comma 1-quinquies dell’art. 204 c.p.p.).
L’art. 40, comma 4, ha apportato due modifiche all’art. 66 delle norme di attuazione del c.p.p.[644].
In primo luogo, è stato sostituito il secondo comma, il quale attualmente:
§ prevede che l’atto del Presidente del Consiglio dei ministri debba essere motivato;
§ in conseguenza delle modifiche all’art. 204 c.p.p. apportate dall’art. 40, comma 3, c.p.p. prevede che la valutazione del Presidente del Consiglio debba investire la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 204, commi 1, 1-bis e 1-ter;
§ dimezza – da 60 a 30 giorni – il termine a disposizione del Presidente del Consiglio per l’eventuale conferma del segreto.
Il testo dell’art. 66, secondo comma, delle norme di attuazione del c.p.p. prevedeva che, quando gli perveniva comunicazione del provvedimento dell’autorità giudiziaria che aveva rigettato l’eccezione di segretezza, il Presidente del Consiglio dei ministri confermava il segreto se riteneva che non ricorressero i presupposti di cui all’art. 204, comma 1, c.p.p. perché il fatto, la notizia o il documento coperto da segreto di Stato non concerneva il reato per cui si procedeva. In mancanza, decorsi sessanta giorni dalla notificazione della comunicazione, il giudice disponeva il sequestro del documento o l’esame del soggetto interessato.
In secondo luogo, è stato abrogato il terzo comma, il quale, per il caso di conferma dell’opposizione da parte del Presidente del Consiglio ai sensi del comma 2, rinviava alla procedura di cui all’art. 16 della L. 801/1977.
Quest’ultima disposizione prevedeva la comunicazione motivata al Comitato parlamentare che, qualora ritenesse, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, infondata la opposizione del segreto, ne riferiva a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni politiche).
L’abrogazione del terzo comma dell’art. 66 delle norme di attuazione del c.p.p è conseguenza dell’abrogazione dell’intera L. 801/1977 disposta dalla legge 124/2007 (in caso contrario, sarebbe rimasto in piedi un rinvio ad un articolo di legge non più esistente). Tuttavia, da un punto di vista sostanziale, la disciplina non cambia, in quanto la procedura in precedenza contenuta nell’abrogato art. 16 della L. 801/1977 è stata trasfusa nell’art. 40, comma 5, della legge 124/2007. Quest’ultimo contiene due piccole modifiche, laddove non prevede più che le motivazioni che il Presidente del Consiglio trasmette al Comitato parlamentare possano essere sintetiche e laddove non richiede più che la delibera con la quale il Comitato parlamentare dichiara l’infondatezza dell’opposizione del segreto da parte del Presidente del Consiglio debba essere adottata a maggioranza assoluta dei componenti.
L’articolo 41 introduce una norma di carattere generale che prevede la possibilità di eccepire nel processo penale il segreto di Stato da parte di soggetti diversi dai testimoni (indagati, imputati, parti che sono esaminate ma non in qualità di testimoni, parti civili, ecc.).
Con tale disposizione, dunque, il legislatore verrebbe a disciplinare una fattispecie che, al momento, non è espressamente contemplata da alcuna disposizione di legge (si ricorda, infatti, che l’art. 202 c.p.p. si riferisce esclusivamente al segreto di Stato opposto dal testimone).
Secondo parte degli interpreti, sussisterebbe sul punto una vera e propria lacuna, che può arrecare un danno a tutti quegli indagati o imputati la cui innocenza potrebbe essere provata solo sulla base di atti, documenti o informazioni coperti dal segreto di Stato. Tali soggetti si troverebbero nella scomoda situazione di dover scegliere tra il non esercitare il proprio diritto alla difesa o esercitarlo, violando però l’obbligo del segreto.
Secondo la giurisprudenza, invece, non vi sarebbe sul punto alcuna lacuna. Ed infatti, la Corte di cassazione ha affermato in passato che “Il contenuto dell’art. 352 c.p.p. [attualmente art. 202 c.p.p.] è diretto a tutelare il teste che, interrogato su fatti rispetto ai quali abbia obbligo di astenersi in quanto coperti dal segreto di Stato, è suscettibile di essere incriminato per il delitto di cui all’art. 372 c.p. [che, sotto la rubrica ‘Falsa testimonianza’ sanziona anche il fatto di chi tace ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato] sotto il profilo della reticenza: in tal senso, infatti, nel presupposto della necessità di tutelare il segreto, è prevista la possibilità di interpello del Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di conferma della fondatezza della dichiarazione, la declaratoria di non doversi procedere nell’azione penale per il suddetto motivo.
Tale previsione, pertanto, non è applicabile nei confronti di colui che sia interrogato formalmente e sostanzialmente in qualità di imputato, avendo questi ampia libertà di articolare la propria difesa, anche rifiutandosi di rispondere, senza con ciò incorrere nel rischio di incriminazione alcuna – ai sensi dell’art. 372 c.p. – essendogli solo vietato di commettere il delitto di calunnia. L’art. 24 Cost. definisce inviolabile il diritto di difesa: lo stesso, di conseguenza, non può essere limitato non solo sotto il profilo processuale formale, ma neppure sotto quello sostanziale. Di conseguenza, l’imputato ha il diritto di rendere tutte le dichiarazioni idonee a provare la propria innocenza, dovendosi in tale direzione ritenere compresi eventuali altri doveri quali quello eventualmente derivante dall’esistenza del segreto di Stato. Non esiste contrasto tra i principi di cui agli art. 24 e 54 cost., sotto il profilo enunciato, essendo espressamente prevista – art. 51 comma 1 c.p. – la non punibilità di chi abbia eventualmente posto in essere una condotta illecita nell’esercizio di un diritto” (Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 1987, in Cass. pen. 1988, 1897).
L’art. 41 esprime un bilanciamento degli interessi in gioco che è analogo a quello codificato nell’art. 202 c.p.p. (come modificato dall’art. 40).
L’autorità giudiziaria, se è stato opposto il segreto di Stato, ne informa il Presidente del Consiglio, nella sua qualità di Autorità nazionale per la sicurezza, per le eventuali deliberazioni di sua competenza (comma 1). Qualora ritenga essenziale per la definizione del processo la conoscenza degli atti sui quali è stato opposto il segreto, l’autorità giudiziaria chiede al Presidente del Consiglio la conferma dell’esistenza del segreto di Stato, sospendendo ogni iniziativa volta ad acquisire la notizia oggetto del segreto (comma 2).
I commi da 3 a 8 dell’art. 41 riproducono i commi da 3 a 8 dell’art. 202 c.p.p. come sostituito dall’art. 40, comma 1, della legge.
L’autorità giudiziaria, a fronte della conferma del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio, può sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato innanzi alla Corte costituzionale, alla quale tale segreto non può essere opposto.
Analogamente a quanto disposto dall’art. 40, comma 5, il Presidente del Consiglio dei ministri è tenuto a dare comunicazione di ogni caso di conferma dell’opposizione del segreto di Stato al Comitato parlamentare, indicandone le ragioni essenziali. Il Comitato, se ritiene infondata l’opposizione del segreto di Stato, ne riferisce a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni (comma 9).
L’articolo 42reca un’articolata disciplina delle classifiche di segretezza, comprendente i livelli e i criteri di classificazione, le relative competenze e modalità procedurali, i termini e le procedure per la revisione e la declassificazione.
Si è ritenuto opportuno disciplinare legislativamente il sistema delle classifiche di segretezza, finora affidato a un sistema di norme secondarie[645]. Tra le novità di maggior rilievo si segnala la previsione di un sistema di declassificazione automatica: in assenza di provvedimenti limitativi, quando sono trascorsi cinque anni, si passa dalla classifica superiore alla inferiore; decorsi altri cinque anni, viene comunque meno il vincolo di segretezza.
Con provvedimento motivato, l’autorità che ha posto la classifica può disporre la proroga della durata. Qualora la proroga sia ultraquindicennale, è necessario un provvedimento del Presidente del Consiglio.
La responsabilità dell’apposizione della classifica di segretezza (e della sua eventuale elevazione) dipende dalla natura dell’oggetto da secretare: se si tratta di un documento, la classifica è apposta dall’autorità che lo ha formato; nel caso di una notizia, dall’autorità che l’ha acquisita per prima; nel caso di una cosa, dall’autorità che ne è responsabile; per i documenti, atti, notizie o cose acquisiti dall’estero, dall’autorità che li ha acquisiti. Le classifiche sono effettuate comunque sulla base dei criteri ordinariamente seguiti nelle relazioni internazionali.
In ogni caso, l’individuazione dei soggetti abilitati alla classificazione di segretezza spetta al Presidente del Consiglio che vi provvede con un regolamento nel quale sono definite anche le modalità di accesso nei luoghi militari e negli altri luoghi di interesse per la sicurezza della Repubblica e gli uffici della pubblica amministrazione collegati all’esercizio delle funzioni di informazione per la sicurezza.
Il Presidente del Consiglio, inoltre, verifica il rispetto delle norme in materia di classifica di segretezza.
L’art. 42 mantiene le quattro classifiche di sicurezza già previste (riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo[646]), demandando ad un regolamento del Presidente del Consiglio (vedi supra) la definizione dell’ambito dei singoli livelli di segretezza e i criteri per l’individuazione delle materie oggetto di classifica.
L’autorità giudiziaria dispone, su richiesta, dei documenti classificati per i quali non sia opposto il segreto di Stato. Gli atti sono conservati nel rispetto delle esigenze di tutela della riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia.
Ai sensi del comma 9, chiunque illegittimamente distrugge documenti del DIS o dei servizi, in ogni stadio della declassificazione, nonché quelli privi di ogni vincolo per decorso dei termini, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Il segreto di Stato nella legge n. 801 del 1997
Ai sensi dell’art. 12 della L. 801/1977, erano coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione fosse idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato.
La legge escludeva categoricamente la possibilità che fatti eversivi dell’ordine costituzionale potessero essere oggetto di segreto di Stato (art. 12, comma 2, L. 801/1977). Tale previsione era confermata dall’art. 204 c.p.p. nella formulazione previgente: “Non possono essere oggetto del segreto previsto dagli articoli 201, 202 e 203 fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale. Se viene opposto il segreto, la natura del reato è definita dal giudice. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari su richiesta di parte”[647].
La tutela della sicurezza mediante il ricorso al segreto di Stato si esercita essenzialmente nelle seguenti forme:
§ l’apposizione formale del segreto di Stato sugli atti, i documenti, le notizie ecc. riservati;
§ l’opposizione di tale segreto in sede processuale, da parte degli appartenenti ai servizi;
§ le sanzioni penali per le violazioni del segreto di Stato.
Nei primi due casi, un ruolo centrale è affidato al Presidente del Consiglio che, in quanto responsabile della politica generale relativa alla sicurezza, è anche la massima autorità in materia di segreto di Stato (egli “esercita la tutela del segreto di Stato”, art. 1, comma 2, L. 801/1977).
L’apposizione del segreto consiste nell’atto di individuazione pratica dei documenti, dei fatti, delle notizie od altro che, se conosciuti, possono compromettere la sicurezza dello Stato e quindi devono rimanere segreti. L’apposizione del segreto è disciplinata da fonti secondarie quali il D.P.C.M. 3 febbraio 2006[648] e il D.P.C.M. 11 aprile 2003[649].
Relativamente all’attuazione della tutela del segreto di Stato, attraverso, tra l’altro, l’emanazione degli atti di segretazione, si sottolinea che ciascun ministro è responsabile della tutela del segreto nell’ambito della propria amministrazione, sulla base delle direttive impartite dal Presidente del Consiglio[650].
La L. 801/1977 (art. 1, comma 1) attribuiva al Presidente del Consiglio il “controllo della applicazione dei criteri relativi alla apposizione del segreto di Stato e alla individuazione degli organi a ciò competenti”. Non veniva specificato a chi spettasse la definizione dei criteri stessi. Tuttavia, si può desumere che tale compito rientrasse nell’ambito della potestà regolamentare del Presidente del Consiglio su tutte le attività attinenti alla politica informativa e di sicurezza, come stabilito dallo stesso art. 1, L. 801/1977, e, più in generale, gli spettasse quale massima autorità in materia di tutela del segreto di Stato.
L’apposizione del segreto di Stato nei casi in cui ricorrevano le condizioni non era soggetta ad alcun termine di durata: l’atto restava coperto dal segreto di Stato fino a quando questo non veniva rimosso.
L’atto di opposizione è il provvedimento, spettante in ultima istanza al Presidente del Consiglio, che attesta nei confronti dell’autorità giudiziaria l’apposizione del segreto di Stato su un documento.
L’opposizione del segreto di Stato è disciplinata dagli artt. 202 e 256 c.p.p..
In particolare, per quanto riguarda la testimonianza, ai sensi dell’art. 202 (già art. 352) c.p.p. (Segreto di Stato), nel testo previgente, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio avevano l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato (comma 1, mantenuto nella medesima formulazione dalla L. 124/2007). Se il testimone opponeva un segreto di Stato, il giudice ne informava il Presidente del Consiglio dei Ministri[651], chiedendo che ne fosse data conferma (comma 2), e a questo punto si davano due ipotesi:
§ il Presidente del Consiglio confermava il segreto: da ciò derivava che se la prova era reputata essenziale per la definizione del processo, il giudice dichiarava non doversi procedere per la esistenza di un segreto di Stato (comma 3)[652];
§ il Presidente del Consiglio non confermava, entro 60 giorni dalla richiesta, l’opposizione del segreto: da ciò derivava che il giudice ordinava al testimone di deporre (comma 4).
Nel caso di conferma del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio, la L. 801/1977 prevedeva un ulteriore obbligo da parte di quest’ultimo che ne doveva dare comunicazione, con indicazione delle motivazioni, alle Camere (art. 17). Come è già stato ricordato, analoga comunicazione veniva fatta al Comitato parlamentare di controllo (art. 16). Se il Comitato riteneva, a maggioranza assoluta dei suoi membri, che l’opposizione del segreto fosse infondata, ne riferiva a ciascuna delle Camere. In ogni caso, le conseguenze di tale atto erano esclusivamente politiche e non rilevavano in ordine al procedimento che aveva originato l’opposizione del segreto.
Il Presidente del Consiglio, inoltre, poteva opporre motivatamente il segreto di Stato direttamente nei confronti del Comitato, in occasione di richieste di informazioni da parte del Comitato stesso. Anche in questo caso, il Comitato poteva decidere di riferire in proposito alle Camere (art. 11, L. 801/1977).
Nel ridisciplinare il segreto di Stato, il legislatore aveva tenuto conto di alcune indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale 86/1977. La pronuncia della Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale degli artt. 342 e 352 c.p.p. allora vigenti nella parte in cui prevedevano che l’autorità giudiziaria informasse il Ministro di grazia e giustizia e non il Presidente del Consiglio dell’opposizione del segreto di Stato e nella parte in cui non prevedono che il Presidente del Consiglio debba fornire, entro un termine ragionevole, una risposta fondata sulle ragioni essenziali dell’eventuale conferma del segreto.
Oltre alla individuazione nella massima autorità politica dell’organo deputato ad adottare le decisioni definitive in materia di sicurezza e, quindi, anche in materia di segreto di Stato, la Corte fissò altri princìpi fondamentali, quali la necessità di circoscrivere rigorosamente le materie suscettibili di essere secretate, l’esclusione da queste dei fatti eversivi dell’ordine pubblico, l’obbligo di motivazione dell’opposizione del segreto, la responsabilità dell’esecutivo nei confronti del Parlamento che deve essere in grado di controllare le attività relative alla sicurezza[653].
Per quanto riguarda la tutela penale del segreto di Stato rilevano gli artt. 255-263 c.p.. In particolare, è previsto il reato di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, punito con la reclusione da tre a dieci anni (art. 256 c.p.). Se il reato avviene a scopo di spionaggio politico o militare la pena minima è elevata a quindici anni di carcere (art. 257 c.p.).
La rivelazione di segreti di Stato è punita con la reclusione non inferiore a cinque anni (art. 261 c.p.).
Nell’ambito dei controlli statali sugli enti
locali, disciplinati dal titolo VI della parte prima del testo unico sugli enti locali (T.U.E.L.) approvato con decreto
legislativo 267/2000[654],
una disciplina particolare (contenuta negli articoli da
Lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali a seguito di infiltrazioni da parte della criminalità mafiosa rappresenta una fattispecie di recente introduzione nel nostro ordinamento giuridico, essendo stata disciplinata per la prima volta dal D.L. 164/1991[655] che inserì nella L. 55/1990[656] l’art. 15-bis. Il decreto-legge e l’art. 15-bis sono quindi stati abrogati dal T.U.E.L. che ora regola organicamente la materia del controllo sugli organi degli enti locali.
L’articolo 143 del D.Lgs. 267/2000 prevede lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso.
Tale misura viene adottata qualora emergano elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento nei riguardi degli amministratori stessi, che compromettano la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni, nonché il regolare funzionamento dei servizi, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica. Lo scioglimento del consiglio comporta la cessazione dalla carica di consigliere, di sindaco e di componente di giunta e di ogni altro incarico comunque connesso alle cariche ricoperte (comma 1).
Lo scioglimento del consiglio è disposto con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, che viene trasmessa alle Camere (comma 2). La responsabilità dell’avvio del procedimento è del prefetto della provincia interessata con la predisposizione di una relazione. La relazione tiene conto anche degli elementi acquisiti da prefetto con i poteri a lui delegati dal ministro dell’interno ai sensi dell’art. 2, comma 2-quater, del D.L. 345/1991[657].
L’art. 2, comma 2-quater, del D.L. 345/1991 ha trasferito al Ministro dell’interno i compiti dell’Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa previsti dal D.L. 629/1982, che ha istituito tale organismo[658]. La medesima disposizione dà al Ministro dell’interno la facoltà di delegare tali compiti ai prefetti.
Se il prefetto, nel corso dell’attività istruttoria, dispone accertamenti su fatti oggetto di procedimento penale, può chiedere informazioni al procuratore della Repubblica competente. Quest’ultimo, a meno che non ritenga che le informazioni debbano rimanere segrete per esigenze del procedimento, le comunica al prefetto in deroga all’obbligo di tenere segreti gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (segreto investigativo o di indagine: art. 329 del codice di procedura penale).
Il decreto di scioglimento esplica i suoi effetti per un periodo da dodici a diciotto mesi, prorogabili fino ad un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali, al fine di assicurare il buon andamento delle amministrazioni e il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati (comma 3).
La proroga non può essere disposta nei 50 giorni che precedono le elezioni dei consigli interessati (comma 4).
Nelle more dell’emanazione del provvedimento di scioglimento, il prefetto, qualora ravvisi motivi di urgenza, dispone la sospensione degli organi. L’attività corrente è assicurata da un commissario nominato dal prefetto stesso (comma 5). La sospensione non può avere durata superiore a 60 giorni.
Nel caso in cui in una medesima realtà siano presenti sia fenomeni di infiltrazione mafiosa, sia elementi perturbativi del regolare funzionamento degli organi di tipo diverso (indicati dall’art. 141 del testo unico), il procedimento di scioglimento per mafia prevale e si applica anche in queste situazioni (comma 6).
L’articolo 144 dispone che con il decreto di scioglimento sia nominata una commissione straordinaria per la gestione dell’ente. Essa è composta di tre membri, scelti tra funzionari dello Stato, in servizio o in quiescenza, e tra magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa in quiescenza. La commissione rimane in carica fino allo svolgimento del primo turno elettorale utile.
Un comitato istituito presso il Ministero dell’interno ha il compito di sostenere e monitorare l’attività delle commissioni straordinarie. Le modalità di organizzazione e funzionamento delle commissioni straordinarie e del comitato sono definite con regolamento ministeriale.
L’articolo 145 reca una serie di disposizioni relative alle modalità di gestione straordinaria degli enti colpiti dal provvedimento di scioglimento, quali:
§ l’assegnazione in via temporanea, in posizione di comando o distacco, di personale amministrativo e tecnico di amministrazioni ed enti pubblici, previa intesa con gli stessi, anche in deroga alle norme vigenti;
§ l’adozione da parte della commissione straordinaria di un piano di priorità degli interventi relativi a servizi ed opere pubbliche indifferibili;
§ l’eventuale revoca, da parte della commissione, previa verifica della loro regolarità, degli appalti di lavori pubblici e di pubbliche forniture e degli affidamenti delle concessioni di servizi pubblici locali;
§ la partecipazione, in forma consultiva, all’attività della commissione delle realtà locali (partiti politici, associazioni di volontariato ecc.) e delle strutture associative degli enti locali (ANCI, UPI).
Le facoltà di cui ai primi due punti sono estese alle amministrazioni comunali e provinciali i cui organi siano rinnovati al termine del periodo di scioglimento, per tutta la durata del mandato elettivo.
L’articolo 145-bis (inserito dall’art. 6, co. 1-bis, del D.L. 80/2004), ha introdotto disposizioni speciali per la gestione finanziaria dei comuni con popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i cui organi siano stati sciolti a causa di fenomeni d’infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso.
Per tali enti, l’articolo definisce una procedura speciale finalizzata alla gestione e al risanamento finanziario dei predetti comuni, che prevede l’erogazione, da parte del Ministero dell’interno, di un’anticipazione straordinaria, subordinata all’approvazione di un piano di risanamento predisposto con le stesse modalità previste per gli enti in stato di dissesto finanziario.
L’articolo 146 delimita l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui sopra individuando gli enti locali interessati (comma 1). Essi sono:
§ i comuni;
§ le province;
§ le città metropolitane;
§ le comunità montane;
§ le comunità isolane;
§ le unioni di comuni;
§ i consorzi di comuni e province;
§ le aziende sanitarie locali ed ospedaliere;
§ le aziende speciali dei comuni e delle province;
§ i consigli circoscrizionali.
Infine, il comma 2 dell’art. 146 prevede la presentazione di una relazione annuale al Parlamento da parte del Ministro dell’interno sull’attività svolta da ciascuna gestione straordinaria.
L’ultima relazione, relativa all’anno 2004, è stata trasmessa alla Presidenza delle Camere dal ministro dell’interno pro tempore Pisanu in data 5 maggio 2006 (Doc. LXXXVIII, n. 1).
Il 13 dicembre 2006
Seduta |
Soggetti auditi |
30 gennaio 2007 |
dott. Giovanni Balsamo, direttore della Direzione centrale delle autonomie del Ministero dell'interno; dott. Luigi De Sena, Prefetto di Reggio Calabria, dott. Pietro Grasso, Procuratore nazionale della Direzione nazionale antimafia, dott. Alessandro Pansa, prefetto di Napoli Generale di Divisione Cosimo Sasso, Direttore della direzione investigativa antimafia |
31 gennaio 2007 |
dott. Giosuè Marino, prefetto di Palermo |
15 febbraio 2007 |
Rappresentanti dell'ANCI e della Lega delle autonomie locali |
29 marzo 2007 |
Rappresentanti dell'Associazione sindacale dei funzionari prefettizi (SINPREF) |
17 ottobre 2007 |
Prof. Marcello Clarich, ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza della LUISS; Prof. Marco Dugato, ordinario di diritto amministrativo presso l'Università IUAV di Venezia; Prof. Alberto Stagno d'Alcontres, ordinario di diritto commerciale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Palermo . |
Sono state successivamente abbinate cinque
ulteriori proposte di legge (A.C. 2014,
on. Lumia ed altri, A.C. 2072, on.
D'Alia, A.C. 2129, on. Forgione ed
altri; A.C. 2175, on. D'Ippolito
Vitale; A.C. 2223, on. Tuccillo),
tre delle quali (A.C.
Il 10 ottobre 2007 i due relatori sul provvedimento hanno presentato un testo unificato, che “rappresenta il frutto di una intesa raggiunta mediante una serie di incontri informali con alcuni componenti della Commissione «antimafia» e con il rappresentante del Governo”[660] e che nella medesima seduta è stato adottato quale testo base per il seguito dell’esame.
Il 14 novembre 2007
Il testo elaborato dalla I Commissione procede da un lato una riscrittura pressoché integrale degli articoli del testo unico sugli enti locali in materia di scioglimento dei consigli comunali e provinciali (vengono infatti completamente sostituiti gli articoli 143, 144, 145 e 146 del D.Lgs. 267/2000, mentre non è modificato l’articolo 145-bis del testo unico, che si occupa più limitatamente della gestione finanziaria dei comuni con popolazione inferiore a 20.000 abitanti i cui organi siano stati sciolti[661]) e, dall’altro, introduce una serie di disposizioni, rivolte in particolare ad assicurare più efficaci sanzioni nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, specialmente nei casi di rapporti con la criminalità organizzata di tipo mafioso.
Il comma 1 del nuovo testo dell’articolo 143 precisa che gli elementi da cui emergono i collegamenti o i condizionamenti di tipo mafioso, che determinano lo scioglimento dei consigli degli enti locali, debbano essere “concreti, univoci e rilevanti”, introducendo altresì una maggiore specificazione della fattispecie del condizionamento attraverso la distinzione della fattispecie della alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi, da quello della compromissione del buon andamento o dell'imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali.
Sotto quest’ultimo profilo il testo risultante dall’esame degli emendamenti riprende sostanzialmente il contenuto della circolare del Ministero dell’interno n. 7102/M/6 del 25 giugno 1991, relativa alla applicazione delle disposizioni in materia di scioglimento attualmente vigenti, che fu richiamata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 103 del 1993 quale parametro interpretativo rilevante a garantire obiettività e coerenza nell'esercizio del potere straordinario di scioglimento degli organi elettivi conferito all'autorità amministrativa. Al riguardo, la circolare evidenziava, infatti, come il condizionamento debba tradursi in uno “stato di fatto nel quale il processo di formazione della volontà degli amministrazioni subisca alterazioni per effetto dell’interferenza di fattori, esterni al quadro degli interessi locali, riconducibili alla criminalità organizzata”.
Una rilevante innovazione è stata introdotta dal testo elaborato dalla I Commissione con riferimento al campo di applicazione della disciplina dello scioglimento, in ragione dell’esigenza - rappresentata nel corso dell’esame parlamentare - di prevedere misure per far fronte a collegamenti con la criminalità organizzata di carattere mafioso riferiti alle società partecipate dagli enti locali, anche in considerazione della loro crescente rilevanza economica e dell’ammontare delle risorse da esse gestite.
Con riferimento a tale tematica, cui è stato dedicato un particolare approfondimento nell’ambito dell’indagine conoscitiva[662], il provvedimento in esame (art. 146, co. 2-2-ter, del t.u.e.l. nel testo riformulato)introduce un duplice regime:
§
nel caso in cui sia stato disposto lo scioglimento,
§ nel caso in cui non sia stato disposto lo scioglimento, il Ministro dell’interno – sentito, a seconda dei casi, il Sindaco o il Presidente della Provincia – può procedere allo scioglimento degli organi amministrativi e di controllo della società e alla nomina di due commissari,che restano in carica un anno e svolgono rispettivamente le funzioni di detti organi.
Quanto ai poteri riconosciuti alla Commissione straordinaria e ai commissari, essi possono essere autorizzati, ove ritenuto opportuno, a disporre:
§ il recesso dell’ente pubblico dalla società anche al di fuori dei casi previsti dalla normativa civilistica;
§ la decadenza dagli atti di affidamento dei servizi ed il recesso senza indennizzo dai contratti stipulati;
§ lo scioglimento della società e di eventuali patti parasociali, in deroga alla disciplina civilistica.
La nuova formulazione dell’articolo 143 del t.u.e.l. introduce in primo luogo una disciplina di rango legislativo del procedimento di accertamento dei presupposti richiesti dalla legge per lo scioglimento dei consigli degli enti locali, il quale attualmente non era invece oggetto della disposizioni del t.u.e.l.
Al riguardo, il provvedimento dispone che il prefetto debba procedere alla verifica della sussistenza degli elementi richiesti per lo scioglimento di norma attraverso l'accesso presso l'ente interessato in virtù dei poteri di accesso e di accertamento di cui è titolare per delega del Ministro dell'interno in materia di contrasto alla criminalità organizzata[663]. In tale ipotesi, che era prevista dalla legislazione vigente, ma non era indicata quale passaggio ordinario per procedere allo scioglimento del consiglio dell’ente locale, il prefetto nomina quindi una commissione di indagine, composta di tre membri scelti tra funzionari delle pubbliche amministrazioni (la c.d. commissione di accesso), la quale dovrà svolgere i propri accertamenti entro tre mesi (prorogabili per una sola volta per un periodo massimo di ulteriori tre mesi) e consegnare le proprie conclusioni al prefetto.
Il provvedimento disciplina in modo più puntuale rispetto alla normativa vigente anche la fase del procedimento di scioglimento di competenza del prefetto. Sono infatti individuati in modo analitico:
§ i termini per la conclusione della fase del procedimento (il prefetto, decorsi 45 giorni dal momento in cui la commissione di accesso ha rassegnato le proprie conclusioni, ovvero quando abbia altrimenti acquisito gli elementi in ordine alle infiltrazioni o ai condizionamenti mafiosi, deve trasmettere al Ministro dell’interno una relazione in ordine ala sussistenza degli elementi richiesti per lo scioglimento);
§ la fase dell’istruttoria della relazione in ordine alla sussistenza degli elementi richiesti per lo scioglimento (in particolare, si prevede che la relazione sia inviata dopo aver sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica integrato con la partecipazione del procuratore della Repubblica competente per territorio)
§ il contenuto della relazione formulata dal prefetto (essa deve in particolare indicare gli elementi che sono alla base della proposta, eventualmente precisando se essi si riferiscono anche ai dirigenti e ai dipendenti dell’ente locale, e gli appalti, i contratti o servizi interessati da condizionamenti, infiltrazioni o condotte antigiuridiche).
Ulteriori specificazioni sono apportante anche alla disciplina del decreto di scioglimento, adottato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno.Anche in questo caso, il provvedimento fissa termini procedimentali (il decreto deve interventre entro tre mesi dalla trasmissione della relazione prefettizia) e precisa i contenuti degli atti endoprocedimentali (indicando in modo analitico il contenuto della proposta di scioglimento formulata dal Ministro dell’interno). Viene inoltre regolata in modo specifico l’eventualità che non sussistano i presupposti per la proposta di scioglimento. In tal caso si prevede (art. 143, co. 7, del t.u.e.l. nella nuova formulazione) che il procedimento debba comunque concludersi, entro tre mesi dalla trasmissione della relazione prefettizia, con un provvedimento espresso, di competenza del Ministro dell’interno, che dia conto degli esiti dell’attività di accertamento.
Innovazioni sono introdotte anche con riferimento alla pubblicità degli atti endoprocedimentali, prevedendosi (art. 143, co. 9, del t.u.e.l. nella nuova formulazione) che nella Gazzetta Ufficiale sia pubblicato non solo il decreto di scioglimento, ma anche la proposta del ministro dell’interno e la relazione prefettizia, salva diversa decisione del Consiglio dei ministri, che può mantenere la riservatezza integrale o parziale di detti documenti nei casi strettamente necessari. Forme di pubblicità da stabilire con decreto del Ministero dell’interno sono previste anche per i provvedimenti emessi in caso di insussistenza dei presupposti per la proposta di scioglimento (art. 143, co. 7, del t.u.e.l. nella nuova formulazione).
Il testo risultante dagli emendamenti approvati dalla I Commissione non innova circa la durata del periodo di efficacia del decreto di scioglimento, che – in base alla legislazione vigente – è attualmente pari a 12-18 mesi ed è prorogabile a 24 mesi.
Si introduce, tuttavia, una disciplina speciale per lo svolgimento delle elezioni per il rinnovo dei consigli degli enti locali al termine del periodo di commissariamento (art. 143, co. 10, del t.u.e.l. come riformulato dal provvedimento in esame), al fine di garantire che esse si tengano immediatamente dopo la scadenza del periodo di durata dello scioglimento, evitando che la gestione commissariale possa di fatto prolungarsi oltre i termini previsti dal decreto di scioglimento.
La data delle elezioni è quindi fissata con decreto del prefetto, di intesa con il Presidente della Corte di Appello, nella prima domenica successiva alla cessazione dell’efficacia del decreto di scioglimento, salvo un rinvio alla prima domenica utile qualora la data risultasse coincidere con il giorno di Pasqua o rientrasse nei periodi compresi tra il 1° agosto e il 15 settembre o tra il 15 dicembre ed il 15 gennaio.
Attualmente, invece, per effetto di quanto disposto dall’art. 2 della L. 182/1991[664] , se la data di scadenza della gestione commissariale si verifica entro il 24 febbraio, le elezioni dei consigli comunali e provinciali sciolti si svolgono nel turno annuale ordinario dello stesso anno, che si tiene in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno, mentre in caso contrario esse slittano al turno ordinario dell’anno successivo.
Nel corso del dibattito svolto nell’ambito della I Commissione, si è da più parti sottolineato come l’attuale disciplina legislativa in materia di scioglimento dei consigli degli enti locali non prevede adeguate misure sanzionatorie nei casi in cui si riscontrino collegamenti tra la criminalità organizzata e singoli consiglieri comunali o provinciali, senza che emergano elementi tali da far ritenere sia stata condizionata l'attività dell'organo rappresentativo.
Al riguardo, il testo risultante dagli emendamenti approvati dalla I Commissione (art. 143, co. 8, come riformulato) prevede che qualora dalla relazione prefettizia in ordine alla sussistenza degli elementi richiesti per lo scioglimento emergano elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti tra singoli amministratori e la criminalità organizzata di tipo mafioso, il Ministro dell’interno trasmetta la relazione all’autorità giudiziaria ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione previste indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso.
L’eventuale applicazione della misura di prevenzione avrebbe effetti particolarmente rilevanti sui diritti di elettorato passivo del destinatario della misura stessa, tenuto conto che il t.u.e.l. (artt. 58 e 59) prevede:
§ l’incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali, l’impossibilità di ricoprire cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente di aziende speciali e istituzioni, presidente e componente degli organi delle comunità montane, nonché la decadenza dalla carica per coloro nei confronti dei quali il tribunale ha applicato, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione in relazione alla partecipazione ad associazioni di carattere mafioso;
§ la sospensione di diritto dalle medesime cariche per coloro nei confronti dei quali il tribunale ha applicato, con provvedimento non definitivo, una misura di prevenzione in relazione alla partecipazione ad associazioni di carattere mafioso.
Il testo elaborato dalla I Commissione introduce una importante misura preventiva nei confronti degli amministratori locali che con le loro condotte abbiano determinato lo scioglimento del consiglio dell’ente locale.
Il provvedimento prevede infatti (art. 143, co. 11, nel testo riformulato) che tali soggetti non possano essere candidati nel primo turno elettorale successivo allo scioglimento nelle elezioni per il rinnovo dei consigli regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali che si svolgono nella regione in cui si trova l’ente il cui consiglio sia stato sciolto.
L’incandidabilità deve essere dichiarata con un provvedimento definitivo di carattere giurisdizionale. Ai fini di tale dichiarazione, il Ministro dell’interno trasmette la proposta di scioglimento al Tribunale competente, che decide relativamente agli amministratori in essa indicati, applicando – in quanto compatibili – le norme previste per i procedimenti in camera di consiglio in sede civile (articolo 737 e seguenti del codice di procedura civile).
Un rilevante elemento di novità introdotto dal testo elaborato dalla I Commissione è rappresentato dall’estensione dei rimedi contro i collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso e contro i suoi condizionamenti anche a carico di segretari comunali e provinciali, direttori generali, dirigenti e dipendenti dell’ente locale.
Come è stato evidenziato più volte nel corso dell’esame del provvedimento, infatti, l’attuale disciplina dello scioglimento è antecedente alle grandi riforme realizzatesi nel campo del pubblico impiego nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, che hanno portato all’introduzione anche nell’ordinamento degli enti locali del principio di separazione dei poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, attribuiti agli organi di governo, dai poteri di gestione amministrativa, finanziaria e contabile, di competenza della dirigenza.
Nel nuovo assetto dei rapporti tra politica e dirigenza che ne è risultato, sono quindi ipotizzabili forme di condizionamento da parte della criminalità mafiosa che non si indirizzino tanto agli organi consiliari o alle giunte degli enti locali quanto piuttosto ai dirigenti degli enti stessi, ai quali la legge attribuisce una ampia sfera di autonomia decisionale. Di qui l’esigenza, segnalata da diverse delle proposte di legge presentate e più volte emersa nel corso dell’esame del provvedimento, di introdurre misure specificamente destinate a far fronte al manifestarsi di fenomeni di infiltrazione e di condizionamento riferite ai vertici amministrativi e, più in generale, ai dipendenti degli enti locali.
In questa ottica il testo elaborato dalla I Commissione della Camera prevede in primo luogo (art. 143, co. 2, del t.u.e.l. come riformulato dal provvedimento in esame) che gli accertamenti effettuati dal prefetto in ordine alla sussistenza degli elementi circa collegamenti e condizionamenti da parte della criminalità mafiosa debba essere effettuato anche con riferimento a segretari comunali e provinciali, direttori generali, dirigenti e dipendenti dell’ente locale.
Qualora, anche in esito ai controlli effettuati, la relazione prefettizia evidenzi la sussistenza di elementi concreti, univoci e rilevanti circa collegamenti e condizionamenti nei confronti di dette categorie di soggetti, il Ministro dell’interno, con decreto adottato su proposta del Prefetto, prende ogni provvedimento utile a far cessare la situazione in atto, nonché a ripristinare la normale vita amministrativa dell’ente, ivi incluse la sospensione dall’impiego, la sua destinazione ad altro ufficio o ad altra mansione, con obbligo di attivazione del procedimento disciplinare (art. 143, co. 5, del t.u.e.l. come riformulato dal provvedimento in esame)
Accanto a tali misure, che possono essere disposte dal Ministro anche nei casi in cui non sia disposto lo scioglimento, il provvedimento introduce una serie di ulteriori disposizioni in materia di responsabilità dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ed in particolare di quelli degli enti locali, al fine di rendere maggiormente certe ed efficaci le sanzioni di carattere disciplinare.
In particolare, si prevede:
§ l’attribuzione al prefetto di un generale potere di vigilanza circa l’adozione dei provvedimenti di sospensione dei dipendenti degli enti locali nei casi in cui nei loro confronti sussista una delle situazioni che sono causa di incandidabilità o di sospensione di diritto dalla carica per gli amministratori degli enti locali; nei casi in cui si verifichi una inerzia o un ritardo nell’adozione di tali provvedimenti, il prefetto - previa diffida – adotta di propria iniziativa il provvedimento di sospensione o avvia il procedimento disciplinare (art. 94 del t.u.e.l. come riformulato dal provvedimento in esame);
§ un ampliamento del numero delle fattispecie nelle quali le pubbliche amministrazioni possono procedere al trasferimento di ufficio o di sede di un dipendente rinviato a giudizio (art. 3 della L. 97/2001[665], come riformulato dal provvedimento in esame); in particolare si prevede che tale trasferimento possa avvenire anche nei casi di: peculato d’uso; delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio; associazione di tipo mafioso o per delitti commessi in presenza delle circostanze aggravanti legate al concorso a tali associazioni; delitti connessi alla produzione o al traffico di droghe, ovvero alla fabbricazione, importazione, esportazione, vendita di armi o esplosivi;
§ una modifica alla disciplina generale dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale (art. 5 della L. 97/2001, come riformulato dal provvedimento in esame)[666], che:
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§ l’introduzione della sanzione del licenziamento immediato senza preavvisoper il dipendente pubblico nei confronti del quale sia accertata la sussistenza di collegamenti diretti o indiretti con la criminalità di tipo mafioso, ovvero di forme di condizionamento del dipendente stesso tale da compromettere il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione di appartenenza. i licenziamento consegue ad un procedimento disciplinare che – anche in deroga a diverse previsioni dei contratti collettivi di lavoro – non è sospeso in presenza di un procedimento penale a carico del dipendente per i medesimi fatti (art. 55 del D.Lgs. 165/2001[667], come riformulato dal provvedimento in esame).
Il testo elaborato dalla I Commissione della Camera introduce innovazioni alla disciplina della composizione della commissione straordinaria incaricata della gestione dell’ente interessato dallo scioglimento, prevedendo una più puntuale disciplina dei requisiti per la nomina a commissario.
Rispetto alla normativa attualmente vigente, si prevede (art. 144, co. 1 e 2, del t.u.e.l. come riformulati dal provvedimento in esame):
§ che i commissari debbano essere scelto solo tra i funzionari dello Stato e non anche tra i magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa in quiescenza; viene, inoltre, introdotta una preferenza per l’utilizzo di funzionari in servizio, prevedendo che il ricorso a funzionari in quiescenza debba avvenire solo in via subordinata;
§ che nella scelta debba tenersi conto:
- delle attitudini, delle capacità e delle esperienze professionali dei funzionari da nominare;
- dell’insussistenza in capo al soggetto da nominare di situazioni che determinino l’incandidabilità, l’ineleggibilità o ostino al mantenimento di cariche pubbliche;
- dell’insussistenza della qualità di indagato, imputato o condannato, anche con sentenza non definitiva, per taluni dei delitti che determinano tale incandidabilità nonché della pendenza di un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione in relazione alla partecipazione ad associazioni di carattere mafioso;
- degli esiti dei controlli effettuati dalla Corte dei conti.
Il provvedimento in esame (art. 145 del t.u.e.l. nel testo riformulato) reca modifiche alla vigente disciplina della gestione dell’ente locale da parte della commissione straordinaria, con particolare riferimento al settore degli appalti e dei lavori pubblici e alla gestione del personale dell’ente.
Quanto al primo aspetto, il testo elaborato dalla I Commissione – innovando parzialmente rispetto alla legislazione vigente – pone in capo alla commissione straordinaria il compito di riesaminare i procedimenti in materia di aggiudicazione di appalti di lavori, servizi o forniture, ovvero relativi all'affidamento in concessione di servizi pubblici locali, nonché al rilascio di permessi di costruire, di autorizzazioni amministrative in genere e di incarichi professionali rispetto ai quali la relazione prefettizia abbia riscontrato la sussistenza di situazioni di infiltrazione o di condizionamento di tipo mafioso. Ove risulti sussistere il condizionamento, la commissione straordinaria per rimuovere le situazioni di infiltrazione o di condizionamento, può disporre l'annullamento d'ufficio o la revoca di provvedimenti adottati ed il recesso da contratti conclusi.
Alla commissione straordinaria è inoltre consentita l’acquisizione di informazioni antimafia sul conto degli affidatari di incarichi per l'esecuzione di lavori, servizi, forniture e di prestazioni professionali.
Con riferimento al personale, il testo elaborato dalla I Commissione prevede che entro 60 giorni dal suo insediamento la commissione straordinaria proceda – contestualmente all’adozione del piano di priorità degli interventi – alla riorganizzazione del personale dell'ente alla luce di quanto indicato al riguardo dalla relazione prefettizia e dei provvedimenti eventualmente adottati dal Ministro dell’interno.
Il testo prevede inoltre che tali poteri di gestione straordinaria possano essere esercitati solo nella fase della gestione commissariale e non anche – come attualmente avviene – da parte delle amministrazioni comunali nella prima consiliature successiva allo scioglimento. Al riguardo il testo elaborato dalla Commissione prevede, peraltro, che nei 2 anni successivi al termine della gestione straordinaria, gli enti locali possano richiedere che le procedure in materia di appalti, di acquisizione di beni e servizi e i concorsi per l’assunzione di personale siano svolti da un apposito Nucleo per il supporto tecnico alle amministrazioni locali, da istituire presso il Ministero dell’interno.
Si prevede infine (articolo 145, comma 6, del t.u.e.l. nel testo riformulato) un generale potere di vigilanza sull’operato della commissione straordinaria da parte del prefetto, il quale – ove riscontri gravi irregolarità – può proporre al Ministro dell’interno la sostituzione della commissione o di singoli componenti della stessa.
Il testo elaborato dalla I Commissione reca infine una novella all’art. 1-septies D.L. 629/1982[668] in materia di rilascio di comunicazioni ed informazioni antimafia.
Al riguardo, si prevede che - in presenza di una informativa (c.d. “atipica”) da parte del Ministro dell’interno o dei prefetti in ordine a collegamenti con la criminalità mafiosa - le amministrazioni destinatarie dell’informativa siano tenute a non adottare provvedimenti relativi a licenze, autorizzazioni, concessioni in determinati settori “sensibili” (armi ed esplosivi, svolgimento di attività economiche, titoli abilitativi alla conduzione di mezzi ed al trasporto di persone o cose) e a non concludere contratti né stabilire concessioni od erogazioni.
In proposito si ricorda come la giurisprudenza amministrativa distingue tre tipi di informazioni prefettizie “antimafia”:
§ quelle ricognitive di cause di per sé interdittive, di cui all'art. 4 comma 4, d.lg. 8 agosto 1994 n. 490;
§ quelle relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del prefetto;
§ quelle supplementari (o atipiche) la cui efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione autonoma e discrezionale dell'amministrazione destinataria dell'informativa prevista dall'art. 1 septies, D.L. 629/1982[669].
In particolare, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha precisato che le informative prefettizie atipiche sono atti non vincolanti che lasciano spazio alla discrezionalità dell'amministrazione aggiudicatrice, che può valutare l’incidenza delle informative nella specifica procedura[670], dovendo comunque fornire una ampia motivazione nei casi nei quali, nonostante l’informativa atipica, decida di instaurare o proseguire il rapporto con l’impresa.
La norma fa divieto al Ministro dell’interno e ai prefetti di adottare procedimenti diversi da quelli previsti dal medesimo articolo in esame.
Criminalità organizzata
Nella seduta del 13 giugno 2006 la Commissione Affari Costituzionali della Camera avviava l’esame di cinque proposte di legge (A.C. 40, on. Boato; A.C. 326, on. Lumia; A.C. 571, on. Forgione; A.C. 688, on. Angela Napoli, A.C. 890 on. Lucchese ed altri) che prevedevano l’istituzione, per la durata della XV legislatura, di una Commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari.
Il testo risultante a seguito dell’esame della Commissione, che si concludeva nella seduta del 14 giugno 2006, era successivamente oggetto di limitate modifiche nel corso dell’esame da parte dell’Assemblea della Camera, che lo approvava nella seduta del 5 luglio 2007.
Il testo approvato dalla Camera (A.S. 762) si presentava in larga parte analogo alla legge istitutiva della c.d. Commissione antimafia approvata nella XIV legislatura[671]. A tale testo erano state apportate alcune significative integrazioni, relative in particolare ai seguenti aspetti:
§ integrazione dei compiti della Commissione;
§ previsione di una specifica procedura aggravata per l’adozione, da parte della Commissione d’inchiesta, di provvedimenti limitativi delle libertà costituzionalmente garantite;
§ previsione di un limite massimo per le spese annualmente sostenibili dalla Commissione.
Detto testo era poi oggetto di ulteriori modifiche da parte della 1ª Commissione del Senato, che, al di là di alcuni ritocchi di carattere formale, riguardavano alcune delle novità che distinguevano il testo approvato dalla Camera dalle leggi istitutive delle precedenti Commissioni “antimafia”.
I principali interventi riguardavano:
§ la disciplina dei provvedimenti attinenti la libertà personale e la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione;
§ la limitazione della possibilità dell’autorità giudiziaria di ritardare la trasmissione di copia di atti e documenti richiesti dalla Commissione;
§ il regime delle collaborazioni con la Commissione.
Il testo elaborato dalla 1ª Commissione non era oggetto di ulteriori modifiche da parte dell’Assemblea del Senato, che lo approvava il 19 luglio 2006.
Nella seconda lettura presso la Camera, che si concludeva il 27 luglio 2006 al testo approvato dal Senato (A.C. 40-326-571-688-890-B) venivano apportate due ulteriori modificazioni riferite a due delle questioni già oggetto delle innovazioni introdotte da quel ramo del Parlamento (la disciplina della limitazione dei poteri della Commissione in materia di libertà personale e di segretezza delle comunicazioni e la limitazione del potere dell’autorità giudiziaria di ritardare la trasmissione di copia di atti e documenti richiesti dalla Commissione).
La 1ª Commissione del Senato procedeva quindi all’esame del testo approvato dalla Camera (A.S. 762-B) dapprima[672] in sede referente e successivamente[673] in sede deliberante. In quella sede, rispetto al testo approvato in seconda lettura dalla Camera veniva apportata una sola modifica, riferita alla definizione dei poteri della Commissione d’inchiesta, che tendeva a reintrodurre nel testo una precisazione attinente ai limiti che incontra la Commissione con riguardo alla libertà e alla segretezza della corrispondenza (al riguardo v. infra).
Il testo approvato dalla Commissione Affari costituzionali del Senato il 5 ottobre 2006 (A.C. 40-326-571-688-890-D) veniva definitivamente approvato, senza ulteriori modifiche, dall’Assemblea della Camera nella seduta del 18 ottobre 2006.
Come già anticipato, Il testo della L. 277/2006 coincide in larga misura con quello della legge istitutiva della Commissione “antimafia” approvata nella XIV legislatura (L. 386/2001), differenziandosi da detto provvedimento per taluni aspetti riferiti in particolare ai compiti e ai poteri della Commissione, alla sua composizione e alla fissazione di un limite alle spese per il suo funzionamento.
Con riferimento alle competenze della Commissione, la L. 277/2006 prevede che essa – oltre ad adempiere ai compiti affidati dalle leggi istitutive alle Commissioni “antimafia” costituite nelle passate legislature – debba altresì:
§ verificare l’attuazione delle disposizioni relative al regime carcerario previsto per le persone imputate o condannate per delitti di mafia dall’articolo 41-bis delle norme sull’ordinamento penitenziario[674];
§ accertare e valutare le tendenze e i mutamenti in atto nell’ambito della criminalità di tipo mafioso anche con riferimento a processi di internazionalizzazione e cooperazione con altre organizzazioni criminali in attività illecite rivolte contro la proprietà intellettuale e la sicurezza dello Stato, avendo particolare riguardo – in tale ultimo campo – al ruolo della criminalità nella promozione e nello sfruttamento dei flussi migratori illegali;
§ esaminare l’impatto negativo derivante al sistema produttivo dalle attività delle associazioni mafiose, con particolare riferimento all’alterazione della libera concorrenza, dell’accesso ai sistemi bancario e finanziario, della trasparenza della gestione delle risorse pubbliche destinate allo sviluppo imprenditoriale;
§ verificare l’adeguatezza delle strutture preposte al contrasto e alla prevenzione della criminalità e al controllo del territorio;
§ svolgere un monitoraggio sui tentativi di condizionamento e di infiltrazione da parte della criminalità di tipo mafioso negli enti locali e proporre misure per prevenire e contrastare tali tentativi, anche alla luce di una verifica dell’efficacia delle disposizioni legislative vigenti, con particolare riferimento a quelle in materia di scioglimento dei consigli degli enti locali e di rimozione degli amministratori di tali enti.
Conformemente alla precedente legge istitutiva, la L. 277 ha inoltre affidato alla Commissione i seguenti compiti:
§ verificare l’attuazione della disposizioni di legge adottate contro la criminalità organizzata e la mafia e, in particolare, quelle riguardanti le persone che collaborano con la giustizia e le persone che prestano testimonianza, e promuovere iniziative legislative e amministrative necessarie per rafforzarne l’efficacia;
§ accertare la congruità della legislazione vigente, anche riguardante il riciclaggio, formulando le proposte di carattere legislativo e amministrativo ritenute necessarie per rendere più coordinata e incisiva le iniziative contro la mafia;
§ accertare le modalità di difesa del sistema degli appalti e delle opere pubbliche dai condizionamenti di tipo mafioso;
§ verificare l’adeguatezza delle norme sulle misure di prevenzione patrimoniale, sulla confisca dei beni e sul loro uso sociale e produttivo, proponendo le misure idonee a renderle più efficaci;
§ riferire al Parlamento al termine dei suoi lavori, nonché ogni volta che lo ritenga opportuno e comunque annualmente.
Con riferimento ai poteri della Commissione, la legge istitutiva introduce una limitazione rispetto ai poteri astrattamente riconosciuti alle Commissioni di inchiesta dall’articolo 82 Cost., in base al quale esse procedono alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria.
Diversamente da quanto previsto dalle leggi istitutive delle Commissioni “antimafia” approvate nelle scorse legislature, infatti, l’articolo 1, co. 2, secondo periodo, della L. 277/2006 precisa infatti che la Commissione non può adottare provvedimenti con riguardo alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e delle altre forme di comunicazione, né limitazioni della libertà personale, ad eccezione dell’accompagnamento coattivo di cui all’articolo 133 del codice di procedura penale[675].
Detta innovazione è stata oggetto di numerose modifiche ed affinamenti nel corso dell’esame parlamentare del provvedimento.
Inizialmente, infatti, il progetto di legge approvato in prima lettura dalla Camera recava – all’articolo 4 – una procedura aggravata per l’adozione, da parte della Commissione d’inchiesta, di provvedimenti limitativi delle libertà costituzionalmente garantite. In particolare, si richiedeva che l’adozione, da parte della Commissione, delle “deliberazioni aventi ad oggetto i provvedimenti incidenti sui diritti di libertà costituzionalmente garantiti” avvenisse “a maggioranza dei due terzi dei componenti, con atto motivato e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
Il Senato, esaminando il progetto di legge approvato dalla Camera in prima lettura, aveva introdotto all’articolo 1, comma 2, il divieto per l’istituenda Commissione “antimafia” di “adottare provvedimenti attinenti la libertà personale e la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”. Il Senato aveva contestualmente soppresso il successivo articolo 4.
Il testo deliberato dalla Camera in seconda lettura riformulava il comma 2 dell’articolo 1 prevedendo che “la Commissione non può adottare provvedimenti attinenti alla libertà personale, fatto salvo l’accompagnamento coattivo di cui all’articolo 133 del codice di procedura penale, o aventi ad oggetto intercettazioni delle comunicazioni”.
Il testo approvato definitivamente è il frutto di una ulteriore modifica introdotta dal Senato, che, individua il divieto con una formula più ampia di quella delle “intercettazioni delle comunicazioni”, che riprende quella usata dall’art. 15 della Costituzione (per cui, ad es. il divieto potrebbe estendersi al sequestro di documenti classificabili come corrispondenza).
Modifiche di minore rilievo sono inoltre apportate con riferimento alle disposizioni relative alle audizioni e le testimonianze contenute nell’articolo 3 della L. 277. Rispetto alla precedente legge istitutiva, infatti, si estende l’applicabilità alle audizioni davanti alla Commissione “antimafia” anche delle disposizioni recate in materia di delitti contro l'amministrazione della giustizia dagli articoli da 367 a 371 e da 373 a 384-bis del codice penale e si precisa – con il richiamo dell’art. 203 c.p.p. – che anche il personale dipendente dai servizi di sicurezza non è tenuto a rivelare alla Commissione i nomi dei propri informatori.
Una ulteriore innovazione è inoltre prevista con riferimento alla disciplina della trasmissione di atti e documenti da parte dell’autorità giudiziaria, contenuta nell’articolo 4 della L. 277. Come nelle precedenti leggi istitutive delle Commissioni “antimafia”, infatti, è prevista la facoltà per l’autorità giudiziaria di ritardare per ragioni di natura istruttoria la trasmissione degli atti e documenti richiesti con un decreto motivato che ha efficacia per sei mesi ed è rinnovabile. Il comma 4, quarto periodo, dell’articolo 4 precisa, tuttavia, che il decreto perde la propria efficacia e non può essere rinnovato una volta che siano chiuse le indagini preliminari.
Con riferimento alla composizione della Commissione, il testo dell’art. 2 della L. 277/2006 – nel riprendere sostanzialmente i contenuti delle analoghe disposizioni contenute nelle precedenti leggi istitutive – introduce una precisazione in base alla quale la nomina dei componenti da parte dei Presidenti delle due Camere deve tener conto della specificità dei compiti assegnati alla Commissione “antimafia”.
Quanto all’organizzazione interna, la principale innovazione introdotta è rappresentata dalla fissazione di un “tetto” alle spese della Commissione bicamerale, che – come di consueto – sono poste paritariamente a carico dei bilanci interni della Camera e del Senato. In base al comma 5 dell’articolo 6 della L. 277, infatti, “le spese per il funzionamento della Commissione sono stabilite nel limite massimo di 150.000 euro per l’anno 2006 e di 300.000 euro per ciascuno degli anni successivi”.
Il “tetto” presenta tuttavia elementi di flessibilità, dal momento che si prevede che i Presidenti delle due Camere, di intesa tra loro, possano autorizzare ogni anno un incremento delle spese in misura non superiore al 30 per cento dell’importo massimo previsto (e, quindi, in misura pari rispettivamente 45.000 e 90.000 euro) qualora il Presidente della Commissione formuli una richiesta in tal senso per esigenze motivate connesse allo svolgimento dell’inchiesta.
Analoghe disposizioni di contenimento delle spese sono state introdotte nel corso della XV legislatura anche nelle leggi e nelle delibere istitutive di commissioni di inchiesta parlamentare.
Per la Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, l’art. 6, co. 6, della L. 271/2006 dispone, infatti, che “Le spese per il funzionamento della Commissione sono stabilite nel limite massimo di 75.000 euro per l'anno 2006 e di 150.000 euro per ciascuno degli anni successivi […]”. E’ inoltre previsto il medesimo meccanismo di flessibilità del “tetto” previsto per la Commissione “antimafia”.
Con riferimento alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali istituita alla Camera con deliberazione del 25 luglio 2007, si prevede che “le spese di funzionamento […] sono stabilite nel limite massimo di 40.000 euro per l'anno 2007 e di 100.000 euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009. Il Presidente della Camera può autorizzare un incremento delle spese di cui al precedente periodo, in misura non superiore al 30 per cento, a seguito di richiesta formulata dal presidente della Commissione per motivate esigenze connesse allo svolgimento dell'inchiesta” (art. 6, co. 6, della deliberazione).
Analoghe disposizioni sono infine contenute anche nelle deliberazioni istitutive di commissioni monocamerali di inchiesta approvate dal Senato nel corso della legislatura. Al riguardo, si vedano:
§ con riferimento alla Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, l’art. 8, co. 1, della deliberazione del Senato del 19 luglio 2006;
§ con riferimento alla Commissione parlamentare di inchiesta “sull’uranio impoverito”, l’art. 8, co. 1, della deliberazione del Senato dell’11 ottobre 2006;
§ con riferimento alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette "morti bianche", l’art. 4, co. 2, della deliberazione del Senato del 18 ottobre 2006.
Per quanto attiene, invece, alle collaborazioni di cui può avvalersi la Commissione (articolo 6, co. 3, della l. 277/2006): alla consueta formula secondo la quale la Commissione può avvalersi dell’opera di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e di tutte le collaborazioni che ritenga necessarie, viene aggiunto il periodo “di soggetti interni ed esterni all’Amministrazione dello Stato autorizzati, ove occorra, dagli organi a ciò deputati e dai Ministri competenti”. Viene quindi omesso il riferimento, tradizionalmente presente, all’ “opportuno coordinamento con le strutture giudiziarie e di polizia”, ai fini del quale, secondo il testo della legge previgente (L. 386/2001), la Commissione poteva avvalersi anche dell’apporto di almeno un magistrato e un dirigente dell’Amministrazione dell’interno, autorizzati, con il loro consenso, rispettivamente dal Consiglio superiore della magistratura e dal Ministro dell’interno.
Altre iniziative in materia di sicurezza
L’A.S. 356,
sen. Barbolini ed altri, recante Disposizioni
per il coordinamento in materia di sicurezza pubblica e polizia amministrativa
locale, e per la realizzazione di politiche integrate per la sicurezza (al
quale
Si
ricorda che nel corso della XIV legislatura,
L’esame parlamentare si è rivelato, in tale occasione, lungo e complesso, per l’esigenza di individuare quali ambiti di competenza legislativa statale siano residuati in materia dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, alla luce della quale la “polizia amministrativa locale” è da intendersi ricompresa tra le materie di piena competenza regionale. Prima della riforma costituzionale, infatti, la “polizia locale, urbana e rurale” costituiva materia di competenza legislativa regionale concorrente; il vigente art. 117 Cost. co. 2°, lett. h), menziona invece la “polizia amministrativa locale”, proprio al fine di sottrarla alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordine pubblico e sicurezza”. Peraltro, pur non potendo più dettare norme di principio in materia di polizia amministrativa locale, il legislatore statale conserva la possibilità di intervenire sulle funzioni di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza che – attualmente in via ausiliaria e non istituzionale – sono attribuite al personale appartenente alla polizia locale. Ciò in forza della potestà legislativa esclusiva di cui lo Stato gode in materia di “giurisdizione, norme processuali e ordinamento penale”, ai sensi dell’art. 117, co. 2°, lett. l), Cost., oltre che – come si è detto – in materia di ordine pubblico e sicurezza.
La prima parte del d.d.l. è dedicata all’individuazione e definizione delle politiche integrate per la sicurezza: azioni volte ad integrare le politiche locali in materia (finalizzate al conseguimento della civile ed ordinata convivenza nelle città attraverso l’esercizio delle competenze proprie degli enti territoriali) con le politiche di contrasto della criminalità e con quelle relative all’ordine pubblico. Tali azioni si intendono realizzate attraverso strumenti collaborativi (patti, accordi e contratti) e attraverso l’istituzione di nuovi organismi, le Conferenze regionali e provinciali per la sicurezza, composti dai rappresentanti degli enti locali di volta in volta interessati alle tematiche trattate e dai rappresentanti delle autorità di pubblica sicurezza direttamente coinvolti. I sindaci divengono figure centrali nello sviluppo delle politiche integrate, poiché a loro spetta la promozione degli accordi e un diffuso diritto ad essere informati sulle risorse di polizia statale destinate al loro territorio.
La seconda parte si riferisce più direttamente al coordinamento tra polizie locali e statali e a tal fine definisce in maniera dettagliata le funzioni della polizia locale, intervenendo su una materia ancora completamente disciplinata dalla L. 65/1986[676]. In tal senso, il d.d.l. individua la funzione unitaria di polizia locale con l’insieme delle funzioni effettivamente svolte, sia quelle di competenza statale (funzioni di agente di polizia giudiziaria, di polizia di sicurezza, nonché di polizia stradale), che quelle di polizia amministrativa che derivano dalle competenze proprie dei comuni e delle province (regolate sul piano degli assetti organizzativi delle regioni). L’insieme di tali competenze si concretizza nella qualifica giuridica di agente o ufficiale di polizia locale, attribuita dal sindaco o dal presidente della provincia, e nella conseguente sostanziale equiparazione dell’attività della polizia locale con quella degli operatori di polizia statale (con conseguente equiparazione in materia previdenziale ed assicurativa, e fra l’altro, possibilità di accesso alle banche dati del Ministero dell’interno nonché patente di servizio). Il d.d.l. reca altresì disposizioni sull’utilizzazione degli istituti di vigilanza privata da parte degli enti locali ad integrazione delle funzioni di polizia locale.
Per alcuni riferimenti al tema, si vedano anche i capitoli Indagine conoscitiva sulla sicurezza, nel dossier 1/1, Parte seconda e le schede Il “pacchetto sicurezza”, pag. 426 e I patti per la sicurezza”, pag. 433).
La disciplina organica delle attività di sicurezza esperibili da soggetti privati (vigilanza privata, investigazioni private, ricerca e raccolta di informazioni, recupero stragiudiziale di crediti per conto terzi, trasporto e scorta valori, servizi di custodia e di sicurezza secondaria), attività complessivamente definite di “sicurezza sussidiaria”, è stata oggetto nelle passate legislature di iniziative parlamentari e governative, finalizzate all’aggiornamento normativo del settore, tuttora disciplinato dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza[677]. Il processo di revisione normativa del settore è stato accelerato da recenti sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, che ha sanzionato l’Italia, ritenendo la normativa recante l’ordinamento della vigilanza privata in contrasto con il Trattato CE e con i principi in esso contenuti concernenti, rispettivamente, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi.
In particolare, con sentenza del 18 luglio
2007, nella causa C-465/05, procedura di infrazione n. 2001/5171,
Successivamente
con sentenza 13 dicembre 2007, nella causa C-465/05, procedura di infrazione
n.2000/4196,
Il D.L. 59/2008[678], approvato dal Consiglio dei ministri il 1° aprile 2008 e in corso di conversione, assicura l’attuazione di alcuni obblighi comunitari inderogabili sanando alcune procedure di infrazione pendenti nei confronti dell’Italia, fra cui quelle relative al recupero stragiudiziale dei crediti e alla regolamentazione dei servizi di sicurezza privati.
In particolare, l’art. 4 del D.L. 59/2008 modifica ed integra le norme in materia di vigilanza privata contenute nel T.U.L.P.S.uniformandole ai richiami dei dispositivi delle sentenze della Corte di giustizia, stabilendo che:
§ la licenza abilitativa del questore allo svolgimento di attività di recupero stragiudiziale dei crediti sia valida senza limiti territoriali, prevedendo anche procedure alternative di adempimento degli obblighi di informazione del cliente e di esibizione degli atti agli organi di controllo;
§ gli accertamenti riguardanti l’assenza di precedenti penali e di polizia sia estesa anche nei confronti di coloro che esercitano poteri di rappresentanza, direzione e amministrazione dell’impresa;
§ le modalità di rilascio della licenza per l’attività di vigilanza privata da parte di un’impresa legalmente autorizzata a svolgere la stessa attività presso un altro Stato membro siano disciplinate alle medesime condizioni delle imprese ed istituti stabiliti in Italia, tenuto però conto degli adempimenti già assolti nello Stato di stabilimento, se non attestati dallo Stato rilasciante, verificati dal prefetto. Prevede altresì che il ministro dell’interno sia autorizzato a sottoscrivere accordi di collaborazione e di reciproco riconoscimento dei requisiti necessari per lo svolgimento dell’attività, nonché dei provvedimenti amministrativi previsti dai rispettivi ordinamenti. Tale disposizione è estesa anche alle guardie particolari giurate;
§ gli istituti di vigilanza privata non siano più sottoposti all’obbligo di vidimazione autorizzativa da parte del prefetto della tabella delle operazioni e del relativo tariffario;
§ il rilascio della licenza non possa essere negato dal prefetto in ragione del numero o dell’importanza degli istituti già esistenti;
§ i requisiti minimi professionali delle guardie particolari giurate siano individuati con decreto del ministro dell’interno, da adottarsi con le modalità determinate nel regolamento d’attuazione del testo unico, sentite le regioni;
§ le guardie particolari giurate, nell’esercizio delle funzioni di custodia e vigilanza dei beni mobili ed immobili cui sono destinate, rivestano la qualità di incaricati di un pubblico servizio, rispondendo in tal modo all’esigenza di assicurare a tale figure professionali una difesa penale adeguata.
[1] Em. Maroni 3. 119 e 3. 251 della Commissione.
[2] Em. 3. 253 della Commissione.
[3] Em. 3. 250 della Commissione.
[4] Il ministro è ritornato sul punto nel corso dell’esame in sede referente (seduta del 3 ottobre 2007).
[5] Si vedano le relazioni illustrative delle pdl A.C. 553, 1524 e 2586.
[6] Si veda in questo senso la relazione illustrativa della pdl A.C. 2586 e l’intervento del relatore on. Bocchino nella seduta del 12 giugno 2007 della I Commissione.
[7] Si veda l’intervento del Presidente della I Commissione on. Violante il 4 ottobre 2007.
[8] Em. 2. 250 (nuova formulazione, approvato nella sua prima parte) e 3. 255, entrambi della Commissione.
[9] Il testo di riforma della Parte II della Costituzione approvato nella XIV legislatura prevedeva in un apposito articolo (art. 98-bis Cost.) la figura delle Autorità indipendenti, limitandone l’ambito di intervento allo svolgimento di attività di garanzia o di vigilanza su diritti di libertà garantiti dalla Costituzione e su materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato; era affidata al Capo dello Stato la nomina dei relativi presidenti.
[10] Anche la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato (sul versante della ripartizione di competenze tra Stato e Regioni) il possibile verificarsi, in determinati ambiti di disciplina legislativa, di una inscindibile “concorrenza di competenze” (cosa diversa dalla “competenza concorrente”) tra Stato e Regioni, spesso non risolvibile neppure ricorrendo a criteri di prevalenza (cfr., tra le altre, C.Cost., sentt. 50/2005 e 151/2005).
[11] On. Violante, Presidente della I Commissione (I Commissione, seduta del 9 ottobre 2007).
[12] On. Bocchino, relatore (I Commissione, seduta del 9 ottobre 2007).
[13] Una disposizione di ordine generale è peraltro recata dall’art. 14, co. 4, della L. 400/1988, che prevede un doppio parere parlamentare sugli schemi di decreti delegati, che il Governo deve richiedere in tutti i casi in cui il termine finale per l’esercizio della delega ecceda i due anni.
[14] Quest’ultimo limite, che sembra fare riferimento all’ipotesi di autorizzazione al Governo all’esercizio della potestà regolamentare mediante regolamenti di delegificazione, non è previsto dall’art. 15 della L 400/1988.
[15] Con la clausola di miglior trattamento “il legislatore costituzionale del 2001 ha [...] perseguito [...] l'obbiettivo di evitare che il rafforzamento del sistema delle autonomie delle Regioni ordinarie, attuato dalla riforma del titolo V, potesse determinare un divario rispetto a quelle Regioni che godono di forme e condizioni particolari di autonomia” (così, da ultimo, C. cost., sent. 370/2006).
[16] L. 21 dicembre 2005, n. 270, Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
[17] Con il “metodo del quoziente intero e dei maggiori resti”.
[18] La coalizione deve inoltre comprendere almeno una lista che abbia raggiunto almeno il 2% del totale dei voti validi o, a determinate condizioni, una lista rappresentativa di minoranze linguistiche riconosciute.
[19] È inoltre ammessa alla ripartizione la lista che ha ottenuto il risultato migliore tra quelle che non hanno raggiunto la soglia del 2%.
[20] 20% per le coalizioni; 8% per le liste non coalizzate; 3% per le liste facenti parte di una coalizione ammessa alla ripartizione.
[21] Senato della Repubblica - 1ª Commissione. Resoconto stenografico della 17ª seduta (2ª pomeridiana) di mercoledì 12 luglio 2006, pag. 8 e segg. Nello stesso senso v. anche l'audizione del Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, Vannino Chiti, sulle linee programmatiche del suo dicastero, svoltasi presso la I Commissione della Camera dei deputati nella seduta di martedì 18 luglio 2006.
[22] Come evidenziato dal Ministro Chiti nell’audizione sugli indirizzi programmatici del Governo in materia di riforme istituzionali svoltasi presso la I Commissione della Camera, infatti, nella visione del Governo il tema della riforma elettorale avrebbe dovuto essere affrontato nel corso della seconda parte della legislatura, a partire, indicativamente, dal 2009 (Camera dei deputati - I Commissione. Resoconto stenografico della seduta di martedì 18 luglio 2006 pag. 6).
[23] La crisi si aprì a seguito della mancata approvazione da parte del Senato, il 21 febbraio 2007, della risoluzione che approvava le comunicazioni del Governo sulle proprie linee di politica estera.
[24] Sia alla Camera che al Senato l’audizione ebbe luogo il 23 aprile 2007.
[25] L’ipotesi descritta nel testo è espressa con maggior ampiezza precisione nell’audizione presso il Senato (pag. 6 e segg. del resoconto)
[26] Quanto al valore della soglia si ipotizzava una sua definizione progressiva che avrebbe dovuto portare gradualmente ad un innalzamento della soglia.(al riguardo, si ipotizzava il 5 per cento nella XVII legislatura). Si evidenziava altresì la possibilità di prevedere una deroga a tale soglia qualora essa fosse superata di due punti percentuali in almeno 3 circoscrizioni elettorali.
[27] il premio, peraltro, non sarebbe scattato in caso di maggioranze diverse tra le due Camere.
[28] Si tratta, in particolare, dell’A.S. 129 (sen. Cutrufo), volto a introdurre nell’attuale sistema elettorale il voto di preferenza; dell’A.S. 313 (sen. Tomassini), ispirato al modello elettorale tedesco; dell’A.S. 904 (sen. Casson ed altri), che propone il ritorno alla disciplina elettorale previgente, attraverso l’abrogazione della L. 270/2005.
[29] V. in particolare R. D’Alimonte Una riforma elettorale come si può in Il mulino n. 6/2006 pag. 1183-1187.
[30] Nel complesso tra il dicembre 2006 ed il maggio 2007 sono state dedicate all’esame dei provvedimenti in materia elettorale solo tre sedute, una delle quali (quella del 6 marzo 2007) ha avuto esclusivamente ad oggetto l’esame della richiesta di intesa, formulata dalla Presidenza della Camera, in ordine alla trattazione dei progetti di legge in materia elettorale ed in materia di riforma del bicameralismo (per questa vicenda v. il capitoloIniziative di riforma del sistema elettorale, nel dossier 1/1, Parte seconda).
[31] Senato della Repubblica - 1ª Commissione. Resoconto sommario della 113ª seduta (pomeridiana) di mercoledì 16 maggio 2007.
[32] Le elezioni amministrative per il 2007, che riguardavano l'elezione dei Presidenti e dei consigli di 7 province e dei Sindaci e dei consigli di 856 comuni, si tennero il 27 e 28 maggio 2007. Il turno di ballottaggio ebbe invece luogo nei giorni di domenica 10 e lunedì 11 giugno.
[33] Ai sensi dell’art. 77 del regolamento di quel ramo del Parlamento.
[34] Per il dibattito v. Senato della Repubblica – Resoconto stenografico della 160 e della 163a seduta pubblica (antimeridiana) di martedì 5 e giovedì 7 giugno 2007.
[35] Lo schema è stato oggetto di illustrazione da parte del relatore nella seduta del 4 luglio 2007, ma, non essendo stato formalmente presentato, non risulta, allegato al resoconto della seduta.
[36] Al momento della presentazione dell’ultima proposta di testo-base parte del relatore (15 gennaio 2008), le proposte di legge abbinate erano 29 (27 d’iniziativa parlamentare e 2 d’iniziativa popolare), oltre a 5 petizioni popolari.
[37] A partire dalla seduta del 24 ottobre 2007.
[38] Senato della Repubblica – 1a Commissione. Resoconto sommario della 166ª seduta di mercoledì 24 ottobre 2007.
[39] La proposta è formulata in uno scritto, dal titolo Un sistema elettorale semplice, per un nuovo bipolarismo. Un po’ tedesco, un po’ spagnolo, un po’ italiano, pubblicato in diversi siti web (v. ad es. http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/sistema_elettorale.1194882027.pdf.
[40] La proposta è pubblicata in allegato al resoconto della seduta dell’11 dicembre 2007: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/framfe.jsp?tipodoc=SommComm&leg=15&id=294925.
[41] Si tratta della soluzione prevista nel sistema elettorale tedesco nella sua formulazione originaria, del 1949.
[42] il doppio volto venne introdotto nel sistema tedesco nel 1953.
[43] L.Cost. 30 maggio 2003, n. 1, Modifica dell'articolo 51 della Costituzione.
[44] http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=15&id=297435.
[45] I tre quesiti sono stati formulati dal costituzionalista prof. Giovanni Guzzetta, presidente del comitato promotore. Il comitato, che ha eletto domicilio presso il Patto Segni, via Veneto n. 169, Roma, è coordinato da Mario Segni. Fra gli aderenti al comitato promotore sono numerosi gli esponenti politici, sia di maggioranza, sia di opposizione (cfr. http://www.referendumelettorale.org/cgi-bin/adon.cgi?act=doc&doc=1).
[46] L. 21 dicembre 2005, n. 270, Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
[47] D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati.
[48] D.Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica.
[49] L. 25 maggio 1970, n. 352, Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo.
[50] Fa eccezione la regione Valle d’Aosta, che è costituita in unico collegio uninominale.
[51] Resterebbe peraltro in vigore la specifica disciplina prevista per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute, presentate esclusivamente in una delle circoscrizioni comprese in regioni il cui statuto speciale prevede una particolare tutela di tali minoranze linguistiche.
[52] Com’è noto, il premio di maggioranza è attribuito a condizione che il beneficiario non abbia già ottenuto almeno 340 seggi in virtù del riparto proporzionale, e consiste nell’attribuzione di un ulteriore numero di seggi pari alla differenza fra 340 ed il numero di seggi assegnati in base alla ripartizione proporzionale.
[53] Cfr. http://www.referendumelettorale.org/cgi-bin/adon.cgi?act=doc&doc=2
[54] Fanno eccezione le regioni Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Molise, per le quali vigono disposizioni particolari.
[55] Il premio è attribuito a condizione che il beneficiario non abbia già conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore, e consiste nell’attribuzione del numero di seggi ulteriore, necessario per raggiungere tale percentuale.
[56] L’opzione ha luogo entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione. Mancando l’opzione, si procede per sorteggio (art. 85, D.P.R. 361/1957).
[57] Cfr. http://www.referendumelettorale.org/cgi-bin/adon.cgi?act=doc&doc=2
[58] In tal senso v. già la sentenza n. 29 del 1987.
[59] Il riferimento alla doverosità dell’adempimento è da ricondursi alla circostanza che i poteri del Governo erano in quella fase limitati al disbrigo degli affari correnti.
[60] I tre decreti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 31 del 6 febbraio 2008.
[61] Decreto del Presidente della Repubblica 6 febbraio 2008, n. 19, Scioglimento del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, pubblicato nella Supplemento Ordinario n. 31 alla Gazzetta Ufficiale n. 31 del 6 febbraio 2008.
[62] Decreto del Presidente della Repubblica 6 febbraio 2008, n. 20, Convocazione dei comizi per le elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, pubblicato nella Supplemento Ordinario n. 31 alla Gazzetta Ufficiale n. 31 del 6 febbraio 2008.
[63] Parere 24 febbraio 1973, n. 6.
[64] Richiamati in via generale per la disciplina dei referendum abrogativi dall’art. 40 della medesima L. 352.
[65] Si trattava, in particolare, delle consultazioni in materia di rappresentanze sindacali aziendali e di rappresentatività sindacale nel pubblico impiego.
[66] L. 7 agosto 1987, n. 332, Deroghe alla legge 25 maggio 1970, n. 352, in materia di referendum.
[67] C. 2516 (Franco Russo ed altri).
[68] D.Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica.
[69] C. 1451, (Formisano), C. 2242, (Martusciello), C. 2314, (Antonio Russo), C. 2564, (Mazzoni), C. 2680, (Costantini), C. 2681, (Costantini), C. 2799, (Franco Russo). Dopo l’adozione del testo base sono state abbinate le proposte di legge C. 2563, (Mantini), C. 2916, (D'Antona) e C. 3017, (Consiglio regionale della Toscana).
[70] L. 19 marzo 1990, n. 55, Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale (art. 15).
[71] D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (art. 58).
[72] S. 1076, sen. (Formisano ed altri).
[73] Mediante una novella all’art. 5 del testo unico delle elezioni del Senato (D.Lgs. 533/1993), il testo base estende ai senatori le cause di incandidabilità e le nuove ipotesi di ineleggibilità da esso introdotte.
[74] Emendamento 1.50, presentato il 26 settembre 2007.
[75] Emendamento 1.70, presentato il 7 novembre 2007. L’esame degli emendamenti, rinviato per consentire lo svolgimento dell’audizione di esperti, non si è svolto prima dello scioglimento delle Camere.
[76] Secondo quanto osservato da parte del relatore, la soglia dei due anni di pena minima distingue i reati che hanno pericolosità sociale, nel senso che quelli non socialmente pericolosi sono puniti con pene edittali minime inferiori e per essi è ammessa la sospensione condizionale della pena.
[77] Questi gli studiosi auditi:
§ Annibale Marini, Presidente emerito della Corte costituzionale;
§ Nicolò Zanon, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Milano;
§ Carlo Mezzanotte, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza della Libera Università per gli Studi Sociali «Guido Carli» di Roma;
§ Fulco Lanchester, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi «La Sapienza» di Roma;
§ Claudio De Fiores, Professore associato di diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza della Seconda università degli studi di Napoli;
§ Beniamino Caravita di Toritto, Professore ordinario di diritto pubblico presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi «La Sapienza» di Roma;
§ Massimo Luciani, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi «La Sapienza» di Roma.
[78] L. 20 luglio 2004, n. 215, Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi (c.d. “legge Frattini”).
[79] L. 13 febbraio 1953, n. 60, Incompatibilità parlamentari.
[80] L. 2 luglio 2004, n. 165, Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione.
[81] Emendamenti 9.70 e 10.070, presentati il 7 novembre 2007, non sottoposti a votazione.
[82] Si tratta delle proposte C. 199 (Zeller ed altri), C. 768 (Marras), C. 2170 (Palomba ed altri), cui sono state successivamente abbinate le p.d.l. C. 3221 (Cassola ed altri) e C. 3234 (Cicu ed altri).
[83] L. 24 gennaio 1979, n. 18, Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia.
[84] In generale, più piccole (quanto al numero dei seggi assegnati) e più disomogenee (come popolazione residente) sono le circoscrizioni, maggiore è il grado di incidenza sul princìpio proporzionalistico nel rapporto tra voti e seggi ottenuti.
[85] Il testo presenta numerose analogie con quello della proposta di legge C. 2170 (Palomba ed altri).
[86] A.C. 220 (p.d.l. costituzionale, poi disabbinata e non più esaminata), A.C. 1355, 1664, 2211, 3354 e 3957 per l’esame delle quali la Commissione ha costituito un comitato ristretto che ha elaborato un testo unificato. In seguito sono state abbinate altre cinque proposte (A.C. 4309, 5628, 5960, 6020 e 7423).
[87] Nel corso dell’esame si è svolta, il 20 maggio 1998, un’audizione di una rappresentanza di parlamentari italiani al Parlamento europeo, i quali hanno portato elementi utili per il proseguimento del dibattito.
[88] A.S. 340, 363, 911, 1913, 1929, 2068, 2419, 2494, 2551.
[89] Senato, 1a Commissione affari costituzionali, seduta dell’11 febbraio 2004.
[90] Il Ministro degli Affari esteri, con lettera del 9 marzo 2004, aveva segnalato al presidente della 1a Commissione del Senato l’esigenza di accelerare l’iter del provvedimento al suo esame al fine di consentirne la promulgazione entro il 31 marzo 2004, ultima data utile per garantire dal 1° maggio l’entrata in vigore della decisione del Consiglio dell’Unione Europea del 2002 sull’elezione dei rappresentanti al Parlamento Europeo; il Ministro aveva sottolineato che il mancato recepimento della decisione da parte dell’Italia entro il 31 marzo avrebbe reso impossibile, per tutti gli Stati membri dell’Unione, l’applicazione delle modifiche all’Atto Elettorale alle elezioni del Parlamento europeo di giugno 2004, ponendo l’Italia in una posizione di estrema difficoltà.
[91] Senato, Assemblea, seduta antimeridiana del 17 marzo 2004.
[92] L. 27 marzo 2004, n. 78, Disposizioni concernenti i membri del Parlamento europeo eletti in Italia, in attuazione della decisione 2002/772/CE, del Consiglio, originata dagli articoli 1, 2, 3 5 e 11 dell’A.S. 2791.
[93] L. 8 aprile 2004, n. 90, Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004, originata dall’A.S. 2791-bis, risultante dallo stralcio degli articoli 4, 6, 7, 8, 9, 10 del S. 2791 deliberato dall’Assemblea nella seduta del 17 marzo 2004.
[94] Cfr. intervento del relatore nella seduta antimeridiana del 6 aprile 2004.
[95] Legge 31 ottobre 1965, n. 1261, Determinazione dell’indennità spettante ai membri del Parlamento.
[96] Legge 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[97] Le cariche pubbliche elencate in allegato
sono le seguenti: componente del Governo nazionale, Giunta regionale, Provincia
autonoma o Commissione europea; titolari di incarichi che
[98] Legge 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).
[99] Legge 8 aprile 1952, n. 212, Revisione del trattamento economico dei dipendenti statali.
[100]Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
[101]Legge 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[102]Legge 23 dicembre 1998, n. 448, Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo.
[103]Per quanto riguarda i ministri e i sottosegretari non parlamentari,
[104] Legge 13 agosto 1979 n. 384, Trattamento dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia.
[105] Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.
[106] Legge 25 maggio 1970, n. 352, Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo.
[107] Benché nel corso della XIV legislatura la Camera avesse avviato l’esame di quattro proposte di legge (A.C. 1852 ed abb.) volte a modificare la L. 352/1970 per adeguarne la disciplina al nuovo testo dell’art. 132, co. 2°, Cost., l’iter parlamentare delle proposte di legge non è giunto a conclusione.
[108] Ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum del 12 aprile 2006; deliberazione del Consiglio dei ministri del 7 luglio 2006 e decreto del Presidente della Repubblica 10 luglio 2006.
[109] L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 4, Statuto speciale per la Valle d'Aosta. L’art. 1, co. 2°, recita: “Il territorio della Valle d'Aosta comprende le circoscrizioni dei Comuni ad esso appartenenti alla data della entrata in vigore della presente legge”.
[110] D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
[111] L. 28 dicembre 2001, n. 448, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002).
[112] D.L. 30 settembre 2003, n. 269, Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici (conv. L. 24 novembre 2003, n. 326).
[113] D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79, Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica.
[114] D.Lgs. 23 maggio 2000, n. 164, Attuazione della direttiva n. 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell’articolo 41 della legge 17 maggio 1999, n. 144.
[115] L. 15 dicembre 2004, n. 308, Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione.
[116] La L. 11 febbraio 1994, n. 109, Legge quadro in materia di lavori pubblici, è confluita nel nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163). Le disposizioni dell’art. 24 co. 6, relative ai lavori in economia, sono ora comprese nell’art. 125 del Codice.
[117] Il regolamento di cui al D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 è il Regolamento di attuazione della L. 11 febbraio 1994, n. 109. Anche le disposizioni dell’art. 143 del D.P.R. 554 sono confluite nell’art. 125 del Codice.
[118] Si ricorda che le società di capitali, disciplinate dagli artt. 2325 ss. del codice civile, sono:
§ le società per azioni;
§ le società a responsabilità limitata;
§ le società in accomandita per azioni.
[119]Al disegno di legge governativo sono stati abbinati i progetti S. 104 (Vitali ed altri); S. 1020 (Vitali ed altri); S. 1196 (Del Pennino ed altri); S.1265 (Sinisi e Fuda); S. 1281 (Ripamonti); S. 1520 (Di Lello Finuoli ed altri).
[120]L’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato le materie relative alla legislazione elettorale, agli organi di governo e alle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane.
[121]L. 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
[122]L. 8 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali, abrogata dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
[123]L. 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[124]Tra i punti significativi dell’accordo si segnalano:
§ riduzione del numero dei ministeri con ritorno all’originario testo del dlgs 300/99;
§ ripristino del numero dei consiglieri regionali, in linea con quanto previsto dalla legge 108/68 in proporzione al numero degli abitanti, nel rispetto dell’autonomia delle assemblee regionali;
§ riduzione del numero dei consiglieri provinciali e comunali;
§ riduzione e razionalizzazione delle circoscrizioni municipali e razionalizzazione dei compensi dei componenti di tali organismi;
§ riduzione del numero dei comuni montani, attraverso la formulazione di nuovi criteri di montanità, e dei componenti degli organi delle comunità montane;
§ riduzione del numero degli assessori regionali, provinciali e comunali in rapporto al numero dei consiglieri;
§ riduzione dei componenti e dei compensi degli amministratori delle società pubbliche statali;
§ eliminazione delle duplicazioni di enti e associazioni di comuni che operano nello stesso territorio;
§ riordino e/o soppressione di enti pubblici;
§ trasparenza delle cariche e degli emolumenti;
§
attivazione, presso
[125]L’esame del provvedimento non è iniziato.
[126]A.C. 1942 e abbinati.
[127] D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria, conv. con mod. in L. 28 febbraio 2008, n. 31.
[128]
[129]S. 226, (Manzione), S. 1022 (Collino e Storace), S. 1053 (Cutrufo), S.1100 (Bianco), S. 1162 (Stiffoni ed altri), S. 1189 (Magda Negri).
[130]L. 25 marzo 1993, n. 81, Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale.
[131]A.C. 5904-6875-7371-7374-7514-7574.
[132]Si osserva peraltro che la legge statale che detta le disposizioni di principio, in attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione (legge 2 luglio 2004, n. 165), prevede la non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia (articolo 2, comma 1, lettera f)). A titolo esemplificativo, si ricorda che la legge della Regione Abruzzo 30 dicembre 2004 n. 51 (art. 1, comma 3), stabilisce che non può essere candidato Presidente della Giunta chi ha già ricoperto tale carica per due mandati consecutivi.
[133]Sottosegretario all’interno, Pajno.
[134]Camera dei Deputati, Assemblea, seduta del 6 luglio 2006, Interrogazioni a risposta immediata, (Iniziative normative concernenti l’ineleggibilità alla carica di sindaco di coloro che hanno ricoperto due mandati consecutivi - n. 3-00088).
[135]Nella stessa sentenza
Tutti questi principi invocati operano su piani diversi e distinti rispetto a quelli prospettati, e non interferiscono nella situazione costruita nella specie del legislatore ordinario, alla cui discrezionalità, ragionevolmente esercitata, è rimesso il loro bilanciamento e riequilibrio”.
[136]Camera dei deputati, seduta del 9 ottobre 2006, Allegato B, Interrogazione a risposta scritta Amici n. 4-00314 (sulla questione del terzo mandato dei sindaci e sul procedimento di decadenza dei sindaci rieletti al terzo mandato).
[137]Si tratta, più specificamente, dei Comuni di:
§ Casalbore;
§ Veggiano
§ Castelletto Monferrato
§ Sgurgola
§ Alfano
§ Novedrate
§ Pescorocchiano
§ Monteu da Po
§ Liberi
§ Torralba
§ Favrià
§ Guardialfiera
§ Castiadas
§ San Marzano di S. Giuseppe
§ Santo Stefano del Sole
§ Sirignano
§ Dragoni
§ Mugnano del Cardinale
§ Varapodio
§ Taurianova (unico con popolazione superiore a 15.000 abitanti).
[138]Avente ad oggetto “Sindaci eletti al terzo mandato in violazione dell’art. 51 del T.U.O.E.L Iniziative esperibili a tutela della legalità violata”.
[139] Il quarto comma dell’art. 19 stabilisce che il prefetto: “Invia appositi Commissari presso le amministrazioni degli enti locali territoriali e istituzionali, per compiere in caso di ritardo o di omissione da parte degli organi ordinari, previamente e tempestivamente invitati a provvedere, atti obbligatori per legge o per reggerle, per il periodo di tempo strettamente necessario, qualora non possano, per qualsiasi ragione, funzionare”.
Il R.D. 383/1934 risulta abrogato dall’art. 274 del D.Lgs. 267/2000 (TUEL).
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’art. 19 del R. D. n. 383/1934 deve considerarsi vigente, dal momento che attribuisce al Prefetto uno degli strumenti (potere di commissariamento) con cui il Ministero dell’Interno esercita la funzione di vigilanza sugli enti locali in relazione alla “garanzia della regolare costituzione degli organi elettivi degli enti locali e del loro funzionamento” (art. 14, commi 1 e 2 lett. a), del D.Lgs. n. 300/1999), e che il potere di commissariamento in esso contemplato opera in un ambito diverso da quello proprio dell’art. 141 del D.Lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, sentenza n. 5309/2007, citata).
[140] L. 6 marzo 1998, n. 40, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
[141] La riforma del Titolo V della Costituzione ha attribuito alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie “diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea” (art. 117, co. 2, lett. a) e “immigrazione” (art. 117, co. 2, lett. b); l’art. 118, co. 3, demanda alla legge statale la disciplina delle “forme di coordinamento fra Stato e regioni” in materia di immigrazione, oltre che di ordine pubblico e sicurezza.
[142] L. 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo.
[143] D.P.R. 6 febbraio 2004, n. 100, Regolamento recante modalità di coordinamento delle attività del gruppo tecnico presso il Ministero dell’interno con la apposita struttura della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di immigrazione.
[144] D.P.C.M. 19 maggio 2004, Modifica al D.P.C.M. 23 luglio 2002, riguardante l’ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[145] Approvati rispettivamente con il D.P.R. 5 agosto 1998 (documento programmatico 1998-2000), il D.P.R. 30 marzo 2001 (documento programmatico 2001-2003) e il D.P.R. 13 maggio 2005 (documento programmatico 2004-2006).
[146]Relazione sui risultati conseguiti attraverso provvedimenti attuativi del documento programmatico riferito al triennio 1998-2000 relativo alla politica dell’immigrazione degli stranieri nel territorio dello Stato, (articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), presentata dal Ministro dell’interno, trasmessa il 24 marzo 2000 (doc. CLVII, n. 1).
[147] La relazione, curata dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Ministero dell’interno, è allegata alla Relazione al Parlamento sull’attività delle Forze di Polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata, trasmessa alle Camere il 3 agosto 2007 (doc. CCXII, n. 1).
[148] Ministero degli affari esteri, Decreto 12 luglio 2000, Definizione delle tipologie dei visti d’ingresso e dei requisiti per il loro ottenimento.
[149] L’esigenza di una progressiva armonizzazione delle diverse politiche nazionali dei visti ha condotto in sede europea all’adozione del Regolamento n. 539 del 15 marzo 2001, che determina la lista degli Stati i cui cittadini sono soggetti all’obbligo del visto. Esso sostituisce il precedente Regolamento (CE) n. 574/99.
[150] Ministero dell’Interno, Direttiva 1° marzo 2000, Definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato.
[151] Cassazione civile, Sez. Unite, sent. 25 marzo 2005, n. 6426.
[152] L. 28 maggio 2007, n. 68, disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio.
[153] La disposizione è finalizzata ad evitare la procedura di infrazione (n. 2006/2126) avviata dalla Commissione europea per la non conformità al diritto comunitario delle norme italiane.
[154] Da segnalare che l’art. 2, comma 7, del D.L. 195/2002 ha esteso anche ai cittadini italiani la sottoposizione ai rilievi dattiloscopici, da effettuare all’atto della consegna della carta d’identità elettronica.
[155] Da segnalare che il D.L. 272/2006, nell’ambito di una ampia riforma del testo unico sulla droga, all’art. 4-ter sostituisce l’art. 75 del DPR 309 del 1990, inserendo al comma 8 la previsione per cui lo straniero che incorre in condotte integranti illeciti amministrativi (ossia acquista o detiene sostanze stupefacenti al di sotto dei limiti quantitativi per i quali scatta la sanzione penale) è segnalato dalla polizia al questore per le valutazioni di competenza in sede di rinnovo di permesso.
[156] D.L. 27 luglio 2005, n. 144, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, convertito dalla L. 31 luglio 2005, n. 155.
[157] D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 3, Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo.
[158] Corte dei conti, L'attività di gestione integrata dei flussi di immigrazione, 8 febbraio 2008, p. 39.
[159]Disposizioni specifiche in merito alla durata sono previste per i lettori e i professori universitari, per i ricercatori, per gli infermieri professionali.
[160] D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, Disposizioni volte a dare attuazione ad obblighi comunitari ed internazionali (convertito dalla L. 6 aprile 2007, n. 469).
[161] D.Lgs. 9 gennaio 2008, n. 17, Attuazione della direttiva 2005/71/CE relativa ad una procedura specificamente concepita per l'ammissione di cittadini di Paesi terzi a fini di ricerca scientifica.
[162] D.Lgs. 10 agosto 2007, n. 154, Attuazione della direttiva 2004/114/CE, relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato.
[163] D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.
[164] L. 30 luglio 2002, n. 189, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo.
[165] Tali requisiti sono indicati essenzialmente nell’art. 4 del testo unico e consistono principalmente nel passaporto (o altro documento valido per l’espatrio) e nel visto d’ingresso (ove richiesto): vedi scheda Immigrazione – Permesso di soggiorno e lavoro, pag. 117. Sono inoltre respinti gli stranieri espulsi che rientrano prima della scadenza del periodo di divieto di 10 anni e coloro che sono stati espulsi da un altro Paese dell’area Schenghen (art. 4, co. 6, T.U.).
[166] Si ricorda che già ai sensi dell’art. 1 della L. 1 aprile 1981 n. 121, Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, il Ministero dell’interno è responsabile dell’ordine e della sicurezza pubblica ed è autorità nazionale di pubblica sicurezza. Ha l’alta direzione dei servizi di ordine e sicurezza pubblica e coordina in materia i compiti e le attività delle forze di polizia.
[167] Il Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica è un organo ausiliario di consulenza del ministro dell’interno per l’esercizio delle sue attribuzioni di alta direzione e di coordinamento in materia di ordine e sicurezza pubblica. Il Comitato, disciplinato dagli artt.18 e 19 della legge 1° aprile 1981, n. 121, esamina ogni questione di carattere generale relativa alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e all’ordinamento ed organizzazione delle forze di polizia. E’ presieduto dal ministro dell’interno ed è composto da un Sottosegretario di Stato per l’interno, designato dal ministro. dal capo della polizia, dal comandante generale dell’Arma dei carabinieri, dal comandante generale del Corpo della guardia di finanza, dal direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria e dal dirigente generale capo del Corpo forestale dello Stato Dato l’interesse degli argomenti posti all’ordine del giorno, il ministro dell’interno può chiamare a partecipare alle riunioni del Comitato, dirigenti generali del Ministero, l’ispettore generale del Corpo delle capitanerie di porto, altri rappresentanti dell’amministrazione dello Stato e delle forze armate.
[168] D.L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. L. 12 novembre 2004, n. 271).
[169] Così dispone l’art. 100, co. 3, del testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), al quale il testo unico in materia di immigrazione fa rinvio. Il co. 2 dello stesso art. 100 prevede che, se i beni appartengono a terzi, i proprietari sono convocati dall’autorità giudiziaria procedente per svolgere, anche con l’assistenza di un difensore, le loro deduzioni e per chiedere l’acquisizione di elementi utili ai fini della restituzione, secondo le norme del codice di procedura penale in quanto compatibili.
[170] In proposito occorre rilevare che la giurisprudenza di merito ha interpretato in senso restrittivo tale disposizione. L’accertamento dell’esistenza delle cause ostative all’espulsione non possono basarsi sulle dichiarazioni dell’interessato bensì su dati oggettivi quali la vigenza del provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale vengono fissate misure straordinarie di accoglienza per esigenze umanitarie ai sensi dell’art. 20 T.U. (Cass. civ. Sez. I, sent. 25 febbraio 2004, n. 3732) ovvero il riconoscimento dello status di rifugiato da parte dell’apposita Commissione (Cass. pen. Sez. I, sent. del 17 dicembre 2004, n. 2239).
[171] La Corte costituzionale, sentenza 12-27 luglio 2000, n. 376 ha dichiarato l’illegittimità di questa disposizione nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio.
[172] D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (conv. con mod. in L. 21 febbraio 2006, n. 49), Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi.
[173] D.L.. 4 aprile 2002, n. 51, Disposizioni urgenti recanti misure di contrasto all’immigrazione clandestina e garanzie per soggetti colpiti da provvedimenti di accompagnamento alla frontiera (conv. con mod. in L. 7 giugno 2002, n. 106).
[174] In particolare, il secondo co. dell’art. 13 Cost. vieta qualsiasi restrizione della libertà personale “se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
[175] Tale motivazione si legge nel Comunicato della Presidenza del Consiglio relativo al Consiglio dei ministri che ha approvato il decreto-legge (28 marzo 2002) ed è ribadita nella relazione illustrativa del d.d.l. di conversione A.C. 2608.
[176] L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. con mod. in L. 12 novembre 2004, n. 271).
[177] Secondo quanto sostenuto nella relazione illustrativa del d.d.l di conversione (A.S. 3107), il significativo aggravio del carico di lavoro determinato dalla introduzione della udienza di convalida dell’accompagnamento alla frontiera ha indotto il Governo a una complessiva rimeditazione della competenza sulla convalida e ad optare per la scelta di sollevare il Tribunale da tale incombenza, attribuendo l’intera materia al giudice di pace (anche con riguardo alla convalida del trattenimento nei centri di permanenza temporanea ed al ricorso avverso il decreto di espulsione, su cui si v. infra).
[178] Commissione per le verifiche e le strategie dei centri per gli immigrati, Rapporto conclusivo, 31 gennaio 2007, p. 25.
[179] I provvedimenti sono stati adottati con due direttive del Ministro dell’interno del 24 aprile 2007.
[180] Direttiva del Ministro dell’interno e del Ministro della giustizia 24 luglio 2007.
[181] L. 22 maggio 1975, n. 152, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico.
[182] Il citato art. 18 della L. 152/1975 ha esteso a tali categorie di soggetti la disciplina di cui alla L. 575/1965, recante disposizioni contro la mafia.
[183] Si tratta dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II (delitti di comune pericolo mediante violenza) e dagli artt. 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 285 (Devastazione, saccheggio e strage), 286 (Guerra civile), 306 (Banda armata: formazione e partecipazione), 438 (Epidemia), 439 (Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari), 605 (Sequestro di persona) e 630 (Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione) del codice penale.
[184] L. 20 giugno 1952, n. 645, Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione.
[185] L. 2 ottobre 1967, n. 895, Disposizioni per il controllo delle armi.
[186] L. 14 ottobre 1974, n. 497, Nuove norme contro la criminalità.
[187]Si tratta delle seguenti fattispecie:
1) delitti di cui agli artt. 285, 286, 416-bis e 422 c.p.;
2) delitti consumati o tentati di cui agli artt. 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 c.p.;
3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;
4) delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli artt. 270, terzo comma e 306, secondo comma, c.p.;
5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall’art. 2, comma terzo, della L. 110/1975;
6) delitti di cui agli artt. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, co. 2, e 74 del T.U. sugli stupefacenti (D.P.R. 309/1990), e successive modificazioni;
7) delitto di cui all’art. 416 c.p. nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza;
7-bis) delitti previsti dagli artt. 600, 600-bis, co. 1, 600-ter, co. 1, 601, 602, 609-bis nelle ipotesi aggravate previste dall’art. 609-ter, 609-quater, 609-octies c.p..
[188] L’art. 211 c.p. stabilisce che le misure di sicurezza sono aggiuntive alla pena: se la pena è detentiva sono eseguite dopo che la pena è scontata o in ogni caso estinta; se la pena non è detentiva, le misure di sicurezza sono eseguite dopo che la sentenza di condanna è diventata irrevocabile.
[189] L’art. 380 c.p.p. prevede l’arresto obbligatorio di chiunque è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. L’arresto in flagranza è facoltativo (art. 381 c.p.p.) per i delitti non colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero di delitti colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
[190] D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
[191] La disposizione ricalca da vicino la disciplina generale delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi introdotte nell’ordinamento penale italiano dalla L. 689/1981 che ha dato la facoltà al giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, di sostituire pene brevi di due anni, un anno e sei mesi, rispettivamente con la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria (art. 53).
[192] Ratificato dall’Italia con la L. 30 settembre 1993, n. 388, Ratifica ed esecuzione: a) del protocollo di adesione del Governo della Repubblica italiana all’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica del Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, con due dichiarazioni comuni; b) dell’accordo di adesione della Repubblica italiana alla convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione del summenzionato accordo di Schengen, con allegate due dichiarazioni unilaterali dell’Italia e della Francia, nonché la convenzione, il relativo atto finale, con annessi l’atto finale, il processo verbale e la dichiarazione comune dei ministri e Segretari di Stato firmati in occasione della firma della citata convenzione del 1990, e la dichiarazione comune relativa agli articoli 2 e 3 dell’accordo di adesione summenzionato; c) dell’accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese relativo agli articoli 2 e 3 dell’accordo di cui alla lettera b); tutti atti firmati a Parigi il 27 novembre 1990.
[193] D.Lgs. 10 gennaio 2005, n. 12, Attuazione della direttiva 2001/40/CE relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, emanato in attuazione della delega recata nella L. 31 ottobre 2003, n. 306, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2003 (Allegato A). L’attuazione della direttiva è avvenuto con ritardo. Il termine per il recepimento era, infatti, fissato, al 2 dicembre 2002. Il 6 marzo 2003 la Commissione europea ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora per il mancato recepimento della direttiva 2001/40/CE. La direttiva 2001/40/CE figurava nell’allegato A della legge comunitaria per il 2001 (L. 1° marzo 2002, n. 39).
[194] D.Lgs. 25 gennaio 2007, n. 24, Attuazione della direttiva 2003/110/CE, relativa all’assistenza durante il transito nell’ambito di provvedimenti di espulsione per via aerea.
[195] D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 144, Attuazione della direttiva 2004/82/CE concernente l’obbligo per i vettori aerei di comunicare i dati relativi alle persone trasportate.
[196] D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero.
[197]In tale fattispecie, il permesso di soggiorno è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole.
[198] D.P.C.M. 9 dicembre 1999, n. 535, Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri, a norma dell’articolo 33, commi 2 e 2-bis, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
[199] A questo proposito, si ricorda che nel giugno del 2004 è stato
istituito l’Ufficio per l’integrazione degli alunni stranieri presso
[200] D.M. 10 novembre 2000, Accesso di studenti ai corsi universitari per l’anno accademico 2000-2001
[201] DM 19 dicembre 2001, Fissazione del numero massimo di visti di ingresso per l’accesso all’istruzione universitaria degli studenti stranieri. Anno accademico 2001-2002 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 16 aprile 2002, n. 89).
[202] D.M. 11 ottobre 2006, Fissazione del numero massimo di visti di ingresso per l’accesso all’istruzione universitaria e di alta formazione artistica, musicale e coreutica degli studenti stranieri, per l’anno accademico 2006/2007.
[203] D.L. 14 settembre 2004, n. 241, Disposizioni urgenti in materia di immigrazione (conv. con mod. in L. 12 novembre 2004, n. 271).
[204] D.Lgs. 10 agosto 2007, n. 154, Attuazione della direttiva 2004/114/CE, relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato.
[205] D.Lgs. 9 gennaio 2008, n. 17, Attuazione della direttiva 2005/71/CE relativa ad una procedura specificamente concepita per l’ammissione di cittadini di Paesi terzi a fini di ricerca scientifica.
[206] Secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati nel 2006, al 31 dicembre 2004, risultano dislocate nel territorio nazionale 1.870 strutture di accoglienza per extracomunitari, di cui 1.393 strutture residenziali, con una disponibilità di 26.970 posti letto, e 477 non residenziali; si veda Ministero dell’interno, Dipartimento affari interni e territoriali, Problematiche ed iniziative relative all’immigrazione extracomunitaria in Italia. Anno 2004, gennaio 2006, p. 7.
[207]
[208] L. 23 dicembre 2000 n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001).
[209] L. 2 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)., art. 1, co. 1267.
[210] L. 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008), Art. 2, co. 536.
[211] Entrambi gli articoli si riferiscono ai comportamenti discriminatori compiuti non solamente nei riguardi di cittadini stranieri non comunitari – destinatari della gran parte delle disposizioni del testo unico – ma anche di cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia.
[212] In tema giova menzionare l’art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro il quale, aggiungendo un secondo comma all’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n, 300 (Statuto dei lavoratori), ha previsto la nullità di patti o atti diretti “a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”.
[213] L. 13 ottobre 1975, n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.
[214] D.L. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. in L. 25 giugno 1993, n. 205, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa.
[215] D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
[216] Si veda Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità, Decreto 16 dicembre 2005, Istituzione dell’elenco delle associazioni ed enti legittimati ad agire in giudizio in nome, per conto o a sostegno del soggetto passivo di discriminazione basata su motivi razziali o etnici di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215.
[217] D.P.C.M., 11 dicembre 2003, Costituzione e organizzazione interna dell’ufficio per promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni, di cui all’art. 29 della legge comunitaria 1° marzo 2002, n. 39.
[218] Decreto del ministro dell’interno 30 gennaio 2004, Istituzione del Comitato contro la discriminazione e l’antisemitismo.
[219] D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
[220] D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131.
[221] D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
[222] Per un esame più dettagliato si rinvia al dossier del Servizio studi Modifiche alla disciplina dell’immigrazione ed alle norme sulla condizione dello straniero. A.C. 776 e abb. (Progetti di legge n. 248 – 21 settembre 2007).
[223] A tale proposito, nel documento vengono citati i Principi fondamentali comuni su Immigrazione e Integrazione adottati dal Consiglio europeo nel 2004 e la Comunicazione della Commissione europea Un’agenda comune per l’integrazione COM(2005)389.
[224] Istituita con decreto ministeriale 15 dicembre 2006.
[225] L. 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[226] L. 18 aprile 2005, n. 62, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea – Legge comunitaria 2004.
[227] D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
[228] Schema di parere proposto dalla relatrice sull’atto del Governo n. 18, 1ª Commissione (Affari costituzionali) del Senato, seduta del 26 ottobre 2006. Come anticipato, la Commissione non ha reso il parere.
[229] Ai sensi dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, le categorie di persone considerate “pericolose” sono le seguenti: 1) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi; 2) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; 3) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
[230] Cfr. la legge 31 maggio 1965, n. 575, Disposizioni contro la mafia.
[231] Cass. civ. Sez. I, sent. 7 febbraio 2001, n. 1714.
[232] Ministero dell'interno. Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione-Direzione centrale per le politiche dell'immigrazione e dell'asilo, Circolare n. 2768 del 25 ottobre 2005.
[233] DPR 394/1999, art. 6, co. 1, lett. c).
[234] D.Lgs. 7.4.2003 n. 85. Attuazione della direttiva 2001/55/CE relativa alla concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati ed alla cooperazione in àmbito comunitario
[235] D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394, Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
[236] Ministero dell'interno. Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione-Direzione centrale per le politiche dell'immigrazione e dell'asilo, Circolare 15 febbraio 2007. Si veda anche la successiva Circolare del 15 novembre 2007.
[237] L. 18 aprile 2005, n. 62, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea – Legge comunitaria 2004.
[238] La norma richiamata richiede un reddito annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di un solo familiare, al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di due o tre familiari, al triplo dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il ricongiungimento di quattro o più familiari. Ai fini della determinazione del reddito si tiene conto anche del reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il richiedente. Per il ricongiungimento di due o più figli di età inferiore agli anni quattordici è richiesto, in ogni caso, un reddito minimo non superiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno sociale.
[239] Ai sensi della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, le categorie di persone considerate “pericolose” sono le seguenti: 1) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi; 2) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; 3) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
[240] Cfr. la legge 31 maggio 1965, n. 575, Disposizioni contro la mafia.
[241] D.L. 27 luglio 2005, n. 144 (conv., con mod., dalla L.31 luglio 2005, n. 155), Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale.
[242] L. 24 luglio 1954, n. 722, Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951.
[243] Legge 23 dicembre 1992, n. 523, Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, con processo verbale, fatta a Dublino il 15 giugno 1990.
[244] Non è inclusa la figura del partner non sposato avente con il beneficiario una relazione stabile, che la direttiva considera tra i familiari se la legislazione o la prassi dello Stato membro equipara le coppie non sposate a quelle sposate nel quadro della legislazione sugli stranieri, considerato che l’ordinamento italiano non reca tale equiparazione.
[245] Il testo non fa propria la facoltà, offerta agli Stati membri dall’art. 5, par. 3 della direttiva, di non riconoscere lo status di rifugiato quando il rischio di persecuzioni sia basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal Paese di origine.
[246] Il testo non esercita la facoltà, che l’art. 8 attribuisce agli Stati membri, di negare la protezione internazionale, se in una parte del territorio del Paese di origine il richiedente non abbia fondati motivi di temere di esser perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi e se è ragionevole attendere dal richiedente che si stabilisca in quella parte del Paese.
[247] Si tratta di una serie di delitti caratterizzati da particolare rilevanza, per i quali l’art. 407 c.p.p. eleva da 18 mesi a due anni la durata massima delle indagini preliminari.
[248] Il testo non esercita la facoltà, che l’art. 17, par. 3, della direttiva attribuisce agli Stati membri, di escludere dal beneficio uno straniero che, prima di essere ammesso nello Stato membro, abbia commesso reati punibili con la reclusione e abbia lasciato il Paese d’origine soltanto al fine di evitare le sanzioni risultanti da tali reati.
[249] Il D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 5, ha recepito la direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare degli stranieri.
[250] Si segnala al riguardo che l’ambito dei familiari per i quali si può richiedere il ricongiungimento ex art. 29 è più ampio rispetto a quello definito dal decreto in esame: oltre al coniuge e ai figli minori a carico, sono compresi anche gli altri figli minori e i figli maggiorenni a carico qualora permanentemente non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione del loro stato di salute, nonché i genitori a carico che non dispongano di un adeguato sostegno familiare nel Paese di origine o di provenienza.
[251] La direttiva richiede un periodo di validità che non sia non inferiore, rispettivamente, a tre anni e ad un anno.
[252] Si rileva che l’art. 26 della direttiva non parrebbe evidenziare la possibilità di un trattamento differenziato tra i due status, sotto questo specifico profilo.
[253] D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
[254] L’obbligo scolastico e l’accesso all’istruzione superiore degli stranieri è regolato dagli artt. 38 e 39 del TU.
[255] L. 4 maggio 1983, n. 184, Diritto del minore ad una famiglia.
[256] Si vedano in proposito anche gli art. 5, co. 1, e 15 del D.Lgs. 25/2008.
[257] L. 16 aprile 1987, n. 183, Coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee ed adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari. Ai sensi dell’art. 6 della legge, eroga alle amministrazioni pubbliche ed agli operatori pubblici e privati interessati la quota di finanziamento a carico del bilancio dello Stato per l’attuazione dei programmi di politica comunitaria.
[258] In precedenza la legge demandava al regolamento di esecuzione la individuazione del numero delle commissioni (stabilite nel numero di sette ai sensi dell’art. 12, co. 1, D.P.R. 303/2004).
[259] D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 140, Attuazione della direttiva 2003/9/CE che stabilisce norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.
[260] Non viene considerata una quarta eccezione al diritto di permanenza, prevista in via facoltativa dalla direttiva, relativa alla reiterazione delle domande di asilo in quanto questa particolare fattispecie di domanda (la cui attuazione non è obbligatoria) non è recepita dal decreto legislativo.
[261] Il patrocinio a spese dello Stato nel processo è garantito per tutte le persone meno abbienti ed è regolato dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, artt. 74 e seguenti.
[262] L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
[263] Art. 1, lett. F) della Convenzione di Ginevra ratificata dalla legge 24 luglio 1954, n. 722.
[264] Si rileva che tale ultima condizione (richiesta all’autorità nazionale per accedere alla strutture) è assente nel testo della direttiva (art. 21). Inoltre, l’articolo in esame non estende i poteri conferiti all’ACNUR di accesso e consulenza anche alle organizzazioni operanti per conto dell’ACNUR come, invece, previsto dal medesimo articolo della direttiva.
[265] In precedenza la presentazione presso la questura poteva avvenire unicamente se nel luogo di ingresso nel territorio nazionale non vi fosse un ufficio di frontiera, art. 2, co.1, D.P.R. 303/2004.
[266] L’articolo 23 della direttiva indica una rosa molto più ampia, anche se di natura facoltativa, di casi per i quali attivare la procedura prioritaria.
[267] L’art. 12 della legge comunitaria comprendeva anche l’ipotesi del richiedente originario di un Paese terzo sicuro, ossia di un Paese inserito nell’elenco a cura di ciascun Paese membro. Tale ipotesi non è considerata nel decreto legislativo in quanto non è stato recepito, come accennato sopra, il concetto di Paese terzo sicuro.
[268] L’esplicitazione che tra i gravi motivi debbano essere compresi le discriminazioni e repressioni di comportamenti è stata aggiunta nel corso dell’esame del Senato dopo una lunga discussione, sia in sede referente, sia in Assemblea. In origine l’emendamento (Em. 12.14 del sen Silvestri) includeva tra i gravi motivi suscettibili di portare all’accoglienza della domanda di asilo la discriminazione e la repressione di orientamenti e di pratiche sessuali. Alla riformulazione definitiva del testo si è giunti principalmente a seguito della considerazione che il testo originario poteva essere giudicato incostituzionale, in quanto privilegiante una tipologia di comportamenti (e di discriminazioni) rispetto ad altre.
[269] L. 23 agosto 1988 n. 400, Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[270] Il 28 settembre 2000, il Consiglio dell’Unione Europea ha istituito il Fondo Europeo per i Rifugiati (Decisione del Consiglio Europeo n. 2000/596/CE, cd. “Decisione FER”), per sostenere le azioni degli Stati membri dell’Unione in merito alle condizioni di accoglienza, integrazione e rimpatrio volontario di richiedenti asilo, rifugiati e profughi. La Decisione introduce un nuovo sistema di gestione degli interventi, che affida a ciascuno Stato membro il compito di individuare, sulla base della situazione esistente nei singoli Paesi, le carenze nel campo dell’accoglienza, dell’integrazione e del rimpatrio volontario e le azioni da intraprendere per far fronte alle specifiche esigenze riscontrate a livello nazionale, attraverso la predisposizione di un apposito programma di attuazione FER. Le risorse finanziarie del FER vengono ripartite fra gli Stati membri, ai quali viene affidata la responsabilità dell’attuazione delle azioni che beneficiano del sostegno comunitario e quindi la selezione, la sorveglianza, il controllo e la valutazione dei singoli progetti. In Italia, l’Autorità Responsabile è il Ministero dell’Interno.
[271] Corte dei conti, Relazione concernente l’indagine di controllo sulla «Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione. Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina, Programma di controllo 2004, 11 marzo 2005, pag. 78-79.
[272] D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 140, Attuazione della direttiva 2003/9/CE che stabilisce norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.
[273] A.C. 3847 (on. Buffo ed altri); A.C. 3857 (on. Mascia ed altri); A.C. 3883 (on. Piscitello).
[274] D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
[275] D.Lgs. 28 febbraio 2008, n. 32, Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, recante attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
[276] L. 18 aprile 2005, n. 62, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea – Legge comunitaria 2004.
[277] Lo schema di decreto correttivo presentato alle Camere precisava che le risorse dovessero essere “derivanti da fonti lecite e dimostrabili”; il parere della I Commissione della Camera invitava il Governo a valutare l’opportunità di sopprimere la disposizione.
[278] D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente.
[279] D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale.
[280] L. 22 maggio 1975, n. 152, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico.
[281] Il citato art. 18 della L. 152/1975 ha esteso a tali categorie di soggetti la disciplina di cui alla L. 575/1965, recante disposizioni contro la mafia.
[282] Si tratta dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II (delitti di comune pericolo mediante violenza) e dagli artt. 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 285 (Devastazione, saccheggio e strage), 286 (Guerra civile), 306 (Banda armata: formazione e partecipazione), 438 (Epidemia), 439 (Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari), 605 (Sequestro di persona) e 630 (Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione) del codice penale.
[283] L. 20 giugno 1952, n. 645, Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione.
[284] L. 2 ottobre 1967, n. 895, Disposizioni per il controllo delle armi.
[285] L. 14 ottobre 1974, n. 497, Nuove norme contro la criminalità.
[286] L. 22 aprile 2005, n. 69, Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri.
[287] Legge 27 dicembre 1956, n. 1423, Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità.
[288] Legge 31 maggio 1965, n. 575, Disposizioni contro la mafia.
[289] La specificazione è mutuata da quella inserita nel corso dell’esame in sede referente del ddl di conversione del DL 249/2007 (Art. 4, co. 1, A.C. 3325-A).
[290] L’introduzione del “doppio binario” è stata operata inizialmente dal DL 181/2007 e confermata, con diverse modifiche, dal DL 249/2007 e, infine, dallo schema di D.Lgs. correttivo del D.Lgs. 30.
[291] Al riguardo, si segnala che in base al testo del co. 7-bis dell’art. 20 del D.Lgs 30/2007, inserito dal D.L. 181/2007, successivamente decaduto, il provvedimento di allontanamento disposto dal prefetto doveva in ogni caso essere motivato, a differenza di quello adottato dal ministro dell’interno, che poteva essere apodittico per motivi attinenti alla sicurezza dello Stato.
[292] L’obbligo della traduzione del provvedimento di allontanamento era già contenuto, pur con una diversa formulazione, nel D.Lgs. 30. Sia il D.L. 249/2007, sia lo schema di D.Lgs. correttivo presentato alle Camere, prevedevano, invece, una sintesi del suo contenuto. Il ripristino della traduzione integrale in luogo della sintesi è stato operato nell’esame in sede referente del D.L. 249 (A.C. 3325-A, art. 4, co. 4).
[293] Quest’ultimo termine è stato introdotto per la prima volta dal D.L. 181/2007, nel testo emendato dal Senato (art. 20, co. 7-bis D.Lgs. 30/2007).
[294] Viene così ampliata la durata del divieto di allontanamento, fissata a 3 anni dal D.Lgs. 30 nella sua formulazione originaria. L’estensione a 10 anni (per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato o per motivi imperativi di pubblica sicurezza) e a 5 (per motivi di pubblica sicurezza) appare nel D.L. 181/2007 nel testo modificato dal Senato e confermato nel D.L. 249/2007 nel testo del Senato (10 anni per motivi di prevenzione di terrorismo, 5 negli altri casi). La formulazione definitiva è quella contenuta nello schema di D.Lgs. correttivo.
[295] Sia il D.L. 181 nel testo approvato dal Senato, sia il decreto correttivo prevedevano una pena generalizzata di al massimo tre anni. Alla attuale riformulazione si è giunti sulla scorta del parere della I Commissione (Affari costituzionali) della Camera sullo schema di correttivo e del testo approvato in sede referente del ddl di conversione del D.L. 249.
[296]In tal senso dispone anche l’art. 21, co. 2, del D.Lgs. 30/2007.
[297] L. 16 aprile 1987, n. 183, Coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee ed adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari.
[298] Attualmente la legge n. 91/1992 richiede invece come requisito la residenza senza interruzioni fino al diciottesimo anno di età.
[299]Il periodo per l’acquisto della cittadinanza è elevato a tre anni nel caso in cui il coniuge straniero risieda all’estero.
[300]Ministro dell’interno, decreto 23 aprile 2007, Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, pubblicato nella G.U. 15 giugno 2007, n. 137.
[301] Il termine per la conclusione del procedimento amministrativo per la concessione della cittadinanza è fissato in 730 giorni (due anni). Pertanto, il numero complessivo annuo degli esiti (concessioni più reiezioni) delle richieste di acquisto della cittadinanza di ciascun anno non corrisponde al numero delle istanze presentate nello stesso anno. Tenendo conto di ciò, non è stato riportato quest’ultimo dato.
[302]Camera dei deputati, Commissione Affari costituzionali, seduta dell’8 marzo 2007.
[303]Commissione Affari costituzionali, seduta del 21 marzo 2007.
[304]Si veda l’intervento presso
[305]Sul punto si veda il medesimo intervento del Sottosegretario all’interno Lucidi nella seduta dell’8 marzo 2007.
[306] Decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri.
[307] Legge 17 luglio 2006, n. 233, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, recante disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri. Delega al Governo per il coordinamento delle disposizioni in materia di funzioni e organizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri.
[308] Legge 25 febbraio 1992, n. 215, Azioni positive per l’imprenditoria femminile.
[309] D.P.C.M. 15 giugno 2006, Delega di funzioni del Presidente del Consiglio dei Ministri in materia di diritti e pari opportunità al Ministro senza portafoglio, On. dott.ssa Barbara Pollastrini.
[310] L. 19 marzo 1999, n. 80, Finanziamento delle attività del Comitato interministeriale dei diritti dell’uomo.
[311] D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.
[312]
[313] Decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale.
[314] Legge 4 agosto 2006, n. 248, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale.
[315] In materia di accesso agli uffici pubblici, l’azione di sostegno alla promozione e al rispetto del principio delle pari opportunità ha trovato spazio fra l’altro nella Circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per l’attuazione del programma di governo Linee di indirizzo per la redazione degli schemi di provvedimento attuativi dell’articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (G.U. 8 gennaio 2007, n. 5). Il documento sollecita l’introduzione del principio dell’equilibrata rappresentanza di genere in relazione alla rimodulazione di composizione e funzionamento di Comitati e Commissioni di cui all’art. 29 “ricordando alle amministrazioni vigilanti che la norma trova applicazione anche nei confronti delle amministrazioni non statali. Infine, s’invitano le amministrazioni a inserire nell’ambito dei provvedimenti di riordino una disposizione che preveda che, nella composizione degli organismi riorganizzati, si tenga conto del principio di pari opportunità tra uomini e donne”.
[316] Decreto del Presidente della Repubblica 14 maggio 2007, n. 115, Regolamento per il riordino della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248.
[317] Decreto Legislativo 31 luglio 2003, n.226, Trasformazione della Commissione nazionale per la parità in Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 13 della legge 6 luglio 2002, n. 137.
[318] Decreto Presidente della Repubblica 14 maggio 2007, n. 101 Regolamento per il riordino della Commissione per l’imprenditoria femminile, operante presso il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità, a norma dell’art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248.
[319] Legge 1 marzo 2006, n. 67, Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni.
[320] È stato pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n. 284 del 6 dicembre
2007, l’avviso relativo al finanziamento di progetti finalizzati a rafforzare
la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, che si avvalgono delle
risorse stanziate dal citato articolo 1, comma 1261, della legge finanziaria
per il 2007. Il decreto del Ministro per i diritti e le pari opportunità del 16
maggio
[321]Legge 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[322]D. Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59.
[323]Si ricorda che il bilancio di genere è un criterio di rendicontazione volto a integrare una prospettiva di genere nella lettura dei documenti di programmazione economica che declinano le politiche pubbliche, tenendo conto della differenza di genere in tutte le fasi della programmazione, dalla fissazione degli obiettivi politici e finanziari, al monitoraggio e valutazione di risultato e di impatto delle azioni. L’integrazione della prospettiva di genere nella programmazione di bilancio pone dunque l’accento sull’analisi dell’impatto delle politiche pubbliche sulle donne e sugli uomini, nel presupposto implicito che esse non siano neutre. In tal senso il bilancio di genere è comunemente considerato come uno degli strumenti che consentono di allocare le risorse pubbliche secondo criteri di promozione delle pari opportunità uomo-donna.
[324]Decreto Legislativo 6 novembre 2007, n. 196, Attuazione della direttiva 2004/113/CE che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura.
[325] Nella seduta del 24 luglio 2007 il relatore evidenziava come al testo base fossero stato presentati circa settecentonovanta emendamenti ed articoli aggiuntivi, dei quali oltre quattrocento meramente soppressivi di articoli, commi o lettere.
[326] L’art. 4 del Codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. 196/2003) ricomprende tra i dati sensibili, che possono essere trattati soltanto con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante, i dati personali idonei a rivelare le convinzioni religiose e l'adesione ad associazioni od organizzazioni a carattere religioso.
L’art. 26 del Codice stabilisce che possono essere oggetto di trattamento anche senza consenso e senza autorizzazione del Garante i dati sensibili relativi agli aderenti alle confessioni religiose e ai soggetti che, con riferimento a finalità di natura esclusivamente religiosa, hanno contatti regolari con le medesime confessioni, effettuato dai relativi organi, ovvero da enti civilmente riconosciuti, sempre che i dati non siano diffusi o comunicati fuori delle medesime confessioni. Queste ultime devono determinare idonee garanzie per i trattamenti effettuati, nel rispetto dei princìpi indicati al riguardo con autorizzazione del Garante.
Ai sensi dell’art. 72 del Codice, si considerano di rilevante interesse pubblico le finalità relative allo svolgimento dei rapporti istituzionali con enti di culto, confessioni religiose e comunità religiose. Ciò ai fini degli articoli 20 e 21 del Codice stesso, che consentono il trattamento dei dati sensibili e di quelli giudiziari esclusivamente per le finalità di rilevante interesse pubblico.
[327] L. 13 ottobre 1975, n. 654, Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.
[328] L. 24 febbraio 2006, n. 85, Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione.
[329] D.L. 26 aprile 1993, n. 122, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 giugno 1993, n. 205.
[330]D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione norme sulla condizione dello straniero.
[331] La disposizione è stata introdotta dal relatore nel testo unificato da lui elaborato.
[332] L. 27 maggio 1991, n. 176, Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989.
[333] Nel testo dell’A.C. 36 e dell’A.C. 134 la disposizione – contenuta nell’art. 12 - si riferiva alle sole scuole pubbliche. Il campo di applicazione della disposizione è inoltre stato esteso anche ai docenti e al personale amministrativo ausiliario.
[334] L. 10 marzo 2000, n. 62, Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione.
[335] R.D. 28 febbraio 1930 n. 289, Norme per l'attuazione della L. 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato.
[336] In dottrina si rileva come la qualifica di “ministro di culto” sia propria dell'ordinamento statuale e rappresenti in sostanza una norma “in bianco” con la quale si fa riferimento a quanti nell'ambito delle diverse confessioni rivestano una posizione differenziata rispetto a quella del semplice fedele.
[337]Sul punto v. ad esempio l’intervento di Mario Scialoja, componente della Consulta per l’Islam italiano, nell’audizione di mercoledì 10 gennaio 2007, il quale evidenziava come “nell'Islam, come d'altra parte nell'ebraismo, la figura del ministro di culto non esiste. Nell'Islam non esistono riti religiosi o liturgie, come nel cristianesimo e anche in altre religioni; il ministro del culto, da noi, è l'imam, che è un laico qualsiasi. Spesso, nelle varie comunità sparse per l'Italia, è il proprietario del piccolo ristorante, il titolare della piccola impresa, il proprietario di un negozio che organizza una sala di preghiera nel proprio retrobottega o in un sottosuolo affittato o da qualche altra parte. Quindi, parlare solamente di ministri di culto e dei diritti e dei doveri che questi hanno potrebbe, nel caso dell'Islam, creare delle difficoltà, da parte non certamente dell'autorità governativa o della magistratura, ma delle autorità locali”.
[338] Tale ultima precisazione è stata inserita nel testo unificato del relatore.
[339]D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
[340]Al riguardo, si ricorda che l’art. 15 del c.d. “statuto dei lavoratori” (L. 300/1970), come modificato da ultimo con il D.Lgs. 216/2003 prevede la nullità patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni persona. Per la previsione del risarcimento del danno, anche non patrimoniale v. l’art. 4 dello stesso D.Lgs. 216/2003.
[341]In materia, la norma fondamentale è l’art. 6 della L. 2 aprile 1958 n. 339, Per la tutela del rapporto di lavoro domestico, che impone al datore di lavoro di “lasciare al lavoratore il tempo necessario per adempiere agli obblighi civili ed ai doveri essenziali del suo culto”.
[342]Sul punto v. l’art. 3 del D.Lgs. 216/2003.
[343]Al riguardo si ricorda, in particolare, che l’art. 3 della L. 11 maggio 1990 n. 108, Disciplina dei licenziamenti individuali, dispone la nullità del licenziamento determinato da ragioni discriminatorie, indipendentemente dalla motivazione addotta. Per la nullità dei patti e degli atti discriminatori v. le norme richiamate supra.
[344] Un divieto di indagini è previsto all’art. 8 dello statuto dei lavoratori (L. 300/1970). Come già ricordato, le convinzioni religiose rientrano tra i dati sensibili di cui all’art. 4 del Codice in materia di protezione dei dati personali, che possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante. Come già osservato, tale disposizione non si applica ai dati relativi agli aderenti alle confessioni religiose e ai soggetti che con riferimento a finalità di natura esclusivamente religiosa hanno contatti regolari con le medesime confessioni, che siano trattati dai relativi organi o enti civilmente riconosciuti, sempre che i dati non siano diffusi o comunicati fuori delle medesime confessioni (art. 26, D.Lgs. 196/2003).
[345] D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell'atto costitutivo e dello statuto (n. 17 dell'allegato 1 della L. 15 marzo 1997, n. 59).
[346] D.P.R. 13 settembre 2005 n. 296, Regolamento concernente i criteri e le modalità di concessione in uso e in locazione dei beni immobili appartenenti allo Stato.
[347] D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.
[348] L. 23 dicembre 1999 n. 488, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge finanziaria 2000).
[349]L. 22 dicembre 1973, n. 903, Istituzione del Fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica e nuova disciplina dei relativi trattamenti pensionistici.
[350]L. 20 maggio 1985, n. 222, Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi.
[351]Al riguardo, si ricorda che l’art. 3, commi 5-8, della legge finanziaria 2008 (L. 244/2007) hanno previsto che anche per l’esercizio finanziario 2008, trovi applicazione la misura relativa alla destinazione del cinque per mille dell’imposta sul reddito, innovandone parzialmente la disciplina rispetto a quanto già disposto per l’esercizio 2007 dai commi 1234-1237 della legge finanziaria 2007 (L.. 296/2006). In particolare, anche a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 248/2007, si prevede che le risorse siano destinante a:
§ sostegno:
- delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS);
- delle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionale, regionale e provinciale;
- delle associazioni riconosciute che senza scopo di lucro operano in via esclusiva o prevalente nei settori indicati dall'articolo 10, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460;
- delle fondazioni nazionali di carattere culturale;
- delle associazioni sportive dilettantistiche riconosciute ai fini sportivi dal CONI a norma di legge.
§ finanziamento aglienti della ricerca scientifica e dell’università e agli enti della ricerca sanitaria.
[352]Attualmente l’art. 10, co. 1, lett. i) ed l), del T.U.I.R. (Testo unico sull’imposta dei redditi, approvato con il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) prevede la deducibilità delle erogazioni liberali in denaro – fino ad un massimo di 1.032,91 euro – a favore dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero della Chiesa cattolica italiana, nonché delle erogazioni liberali a favore di alcune confessioni religiose che hanno stipulato intese con lo Stato italiano (Avventisti, Assemblee di Dio, Tavola valdese).
[353]Si tratta, in particolare, dell’art. 11 di entrambe le proposte di legge.
[354] Si tratta di una disposizione già contenuta in alcune intese. (v. ad esempio, nell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche (art. 14, co. 4, L. 8 marzo 1989, n. 101, Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l'Unione delle Comunità ebraiche italiane). in ogni caso, già a legislazione vigente si ritiene che l’atto di matrimonio possa contenere tali dichiarazioni.
[355] Tali proposte prevedevano quale unico requisito per la presentazione dell’istanza che la confessione fosse dotata di un proprio statuto e che questo non fosse in contrasto con l’ordinamento giuridico. La richiesta, da presentare al Presidente del Consiglio, doveva peraltro essere accompagnata della stessa documentazione richiesta per il riconoscimento della personalità giuridica alle confessioni prive di intesa.
[356] L. 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[357] La norma, dunque, è diretta sia alle confessioni che hanno stipulato intese, sia a quelle che non lo hanno fatto.
[358] L. 27 maggio 1929, n. 810, Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929.
[359] Entrambi ratificati dalla L. 25 marzo 1985, n. 121, Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede.
In proposito, giova ricordare che il secondo comma dell’art. 7 Cost., nell’affidare la regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica ai Patti lateranensi, stabiliva che per apportare modificazioni a tali Patti non era necessario il procedimento di revisione costituzionale, qualora esse fossero accettate da entrambe le parti interessate.
[360]Sulla base di questi principi la Corte ha quindi dichiarato incostituzionali le norme che disciplinavano i requisiti per l'eleggibilità alla carica di consigliere di una Comunità israelitica.
[361] L. 24 giugno 1929, n. 1159, Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi.
[362] R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, Norme per l’attuazione della legge n. 1159/1929, sui culti ammessi nello Stato e per coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato.
[363] L. 15 maggio 1997, n. 127, Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo. Gli atti per i quali rimane obbligatorio il parere del Consiglio di Stato sono:
§ gli atti normativi del Governo e dei singoli ministri, ai sensi dell’articolo 17 della L. 400/1988;
§ i testi unici ;
§ i ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica;
§ gli schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministri.
[364]Una precedente intesa contenente modifiche all’Intesa a suo tempo approvata era stata firmata il 27 maggio 2005. Nella XIV legislatura l'iter parlamentare del disegno di legge governativo presentato conseguentemente all'approvazione dell'intesa (XIV legislatura, A.C. 5983) è stato avviato, ma non ha avuto conclusione. Nella XV legislatura il testo di tale disegno di legge è stato riproposto in una proposta di legge di iniziativa parlamentare (XV legislatura, A.C. 2308, on. Boato).
[365]Una precedente intesa contenente modifiche all’Intesa a suo tempo approvata era stata firmata il 23 aprile 2004. Nella XIV legislatura l'iter parlamentare del disegno di legge governativo presentato conseguentemente all'approvazione dell'intesa (XIV legislatura, A.C. 5085) è stato avviato, ma non ha avuto conclusione. Nella XV legislatura il testo di tale disegno di legge è stato riproposto in una proposta di legge di iniziativa parlamentare (XV legislatura, A.C. 2307, on. Boato).
[366]Una precedente intesa era stata firmata il 20 marzo 2000. Il Governo ha quindi presentato alla Camera il relativo disegno di legge di approvazione (XIII legislatura, A.C. 7024), ma l’iter si è interrotto con la conclusione della XIII legislatura.
[367]Una precedente intesa era stata firmata il 20 marzo 2000. Il Governo ha quindi presentato alla Camera il relativo disegno di legge di approvazione (XIII legislatura, A.C. 7023), ma l’iter si è interrotto con la conclusione della XIII legislatura.
[368]Presidenza del Consiglio, Servizio per i rapporti con le confessioni religiose e per le relazioni istituzionali. Nel sito istituzionale è possibile consultare anche il testo delle intese sottoscritte.
[369]Come in precedenza ricordato, il parere del Consiglio di Stato in materia non è obbligatorio, pur essendo sempre riservata all’Amministrazione la facoltà di richiederlo.
[370]Presidenza del Consiglio, Servizio per i rapporti con le confessioni religiose e per le relazioni istituzionali.
[371]Cfr. Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 1 dicembre 2004, Svolgimento dell’interrogazione a risposta immediata n. 3-03938 (Iniziative volte alla stipula di intese con le comunità islamiche), intervento del Ministro per i rapporti con il Parlamento, on. Giovanardi.
[372]L’art. 4 della legge 11 dicembre 1984, n. 839, Norme sulla Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana e sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, ha fatto obbligo al Servizio del contenzioso diplomatico presso il Ministero degli affari esteri anche di provvedere alla comunicazione alle Presidenze delle Camere di “tutti gli atti internazionali ai quali la Repubblica si obbliga nella relazioni estere, trattati, convenzioni, scambi di note, accordi ed altri atti comunque denominati”.
[373]La risoluzione è pubblicata nel sito dell’O.N.U.: v. http://www.un.org/Depts/dhl/res/resa48.htm
[374]Fanno eccezione le assunzioni relative a lavoratori da inquadrare nei livelli retributivo-funzionali per i quali non è richiesto il titolo di studio superiore a quello della scuola dell'obbligo.
[375] Come chiarito dall’articolo 11 dell’A.S. 1463 la competenza della Commissione si estende tra l’altro alle camere di sicurezza eventualmente esistenti presso le caserme dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza e presso i commissariati di pubblica sicurezza; agli ospedali psichiatrici giudiziari; alle comunità per minori; agli enti convenzionati con il Ministero della giustizia per l’esecuzione di misure privative della libertà personale che ospitano condannati che usufruiscono di misure alternative alla detenzione; ai Centri di permanenza temporanea e assistenza previsti dall’art. 14 del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina sull’immigrazione (D.Lgs. 286/1998).
[376] L. 27 dicembre 2006, n. 296.
[377] L. 23 agosto 1988 n. 400, Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’art. 17, co. 4-bis, così recita: “L'organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate, con regolamenti emanati ai sensi del comma 2 [regolamenti di delegificazione], su proposta del Ministro competente d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il Ministro del tesoro, nel rispetto dei princìpi posti dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l'osservanza dei criteri che seguono:
a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i Ministri ed i Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell'organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l'amministrazione;
b) individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali;
c) previsione di strumenti di verifica periodica dell'organizzazione e dei risultati;
d) indicazione e revisione periodica della consistenza delle piante organiche;
e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell'ambito degli uffici dirigenziali generali”.
[378] D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59.
[379] Ai sensi dei co. 2, 3 e 4 dell’art. 28 del D.Lgs. 165/2001.
[380] D.L. 4 luglio 2006, n. 223, Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248.
[381] L. 15 marzo 1997, n. 59. L’art. 20 definisce i contenuti dell’annuale disegno di legge per la semplificazione e il riassetto normativo, tra l’altro individuando i princìpi e criteri direttivi di ordine generale per l’esercizio delle deleghe legislative e per l’adozione dei regolamenti di delegificazione da esso di volta in volta recati.
[382] L. 24 dicembre 2007, n. 244.
[383] Il testo dei due commi è il seguente:
“376. A partire dal Governo successivo a quello in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, il numero dei Ministeri è stabilito dalle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, nel testo pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 203 del 30 agosto 1999. Il numero totale dei componenti del Governo a qualsiasi titolo, ivi compresi ministri senza portafoglio, vice ministri e sottosegretari, non può essere superiore a sessanta e la composizione del Governo deve essere coerente con il principio stabilito dal secondo periodo del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione.
377. A far data dall’applicazione, ai sensi del comma 376, del decreto legislativo n. 300 del 1999 sono abrogate le disposizioni non compatibili con la riduzione dei Ministeri di cui al citato comma 376, ivi comprese quelle di cui al decreto-legge 12 giugno 2001, n. 217, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2001, n. 317, e successive modificazioni, e al decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, e successive modificazioni, fatte comunque salve le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater, 2-quinquies, 10-bis, 10-ter, 12, 13-bis, 19, lettera a), 19-bis, 19-quater, 22, lettera a), 22-bis, 22-ter e 25-bis, del medesimo decreto-legge n. 181 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 233 del 2006, e successive modificazioni”.
[384] D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59.
[385] Legge 15 marzo 1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa (c.d. Bassanini 1), art. 11, co. 1, lett. a).
[386] D.L. 12 giugno 2001, n. 217, Modificazioni al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, nonché alla legge 23 agosto 1988, n. 400, in materia di organizzazione del Governo, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2001, n. 317.
[387] D.L. 18 maggio 2006, n. 181, Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2006, n. 233.
[388] Cioè (è da ritenere) a decorrere dalla data del decreto di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri.
[389] Per la precisione, il D.L. 217/2001 ha previsto il mantenimento in vita del Ministero delle comunicazioni, la cui soppressione era prevista dal D.Lgs. 300/1999.
[390] D.L. 26 aprile 2005, n. 63, Disposizioni urgenti per lo sviluppo e la coesione territoriale, nonché per la tutela del diritto d'autore, e altre misure urgenti, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 25 giugno 2005, n. 109.
[391] Il comma 2 citato trasferisce inoltre alla Presidenza del Consiglio la segreteria del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), il Nucleo di consulenza per l’attuazione delle linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità (NARS) e l’Unità tecnica - finanza di progetto (UTPF) di cui all’art. 7 della L. 17 maggio 1999, n. 144, già operanti presso il Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione del Ministero dell’economia e delle finanze.
[392] Il combinato disposto degli articoli richiamati attribuiva al Ministero per i beni e le attività culturali le competenze spettanti allo Stato in materia di sport, fatta eccezione per quelle spettanti ad altre amministrazioni statali ai sensi dello stesso D.Lgs. 300/1999 e per quelle spettanti alle regioni e agli enti locali.
[393] D.L. 14 marzo 2005, n. 35, Disposizioni urgenti nell’àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale, conv. con mod. dalla L. 14 maggio 2005, n. 80.
[394] L’Unità è stata costituita con D.P.C.M. 12 settembre 2006.
[395] Legge 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
[396] L. 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
[397] D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese, conv. con mod. dalla L. 2 aprile 2007, n. 40.
[398] A.C. 590 (on. Lucchese), A.C. 1505 (on. Pedica ed altri), A.C. 1588 (on. Nicola Rossi ed altri), A.C. 1688 (on. La Loggia e Ferrigno), A.C. 2080 (on. Turci ed altri).
[399] D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82.
[400]L. 30 dicembre 1986 n. 936, Norme sul Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro.
[401]Il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti è stato istituito con la L. 30 luglio 1998, n. 281, confluita nel Codice del consumo (D. Lgs. n. 206/2005) ed è composto dai rappresentanti delle associazioni dei consumatori maggiormente rappresentative sul territorio nazionale e riconosciute secondo i criteri stabiliti dall’art. 137 del Codice del consumo, nonché da un rappresentante delle Regioni designato dalla Conferenza unificata. Esso ha sede presso il Ministero dello sviluppo economico ed è presieduto dal ministro o da un suo delegato.
[402]D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
[403]L’espressione “costi della politica” è peraltro divenuta di uso comune anche nelle sedi tecniche (una sezione della memoria del Procuratore generale presso la Corte dei conti in sede di giudizio sul rendiconto generale dello Stato per il 2006 è per l’appunto intitolata “costi della politica”) e istituzionali (due delle proposte di legge esaminate dalla I Commissione della Camera nel corso della legislatura – per le quali v. infra - richiamano nel titolo rispettivamente i “costi della politica” e i “costi impropri della politica”).
[404]Si vedano, ad esempio, le misure indicate dal Rapporto conclusivo sull’attuazione del programma di Governo nella sezione relativa a ”Riduzione della spesa pubblica/Costi della politica” (pagg. 57-59 del documento).
[405] V. il Programma dell’indagine conoscitiva, deliberata dalla I Commissione nella seduta del 29 maggio 2007.
[406]Conferenza delle regioni e delle province autonome, Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, A.N.C.I., U.P.I., U.N.C.E.M.
[407]Al riguardo v. il resoconto della seduta della I Commissione del 29 maggio 2007.
[408]La relazione è pubblicata in allegato al resoconto stenografico della seduta.
[409]Camera dei deputati – I Commissione. Resoconto stenografico della seduta di martedì 20 novembre 2007, pag. 3-4.
[410]Un ordine del giorno che contiene alcune prime proposte sul miglioramento della Pubblica Amministrazione e per la riduzione di costi e sovrapposizioni è stato approvato il 31 maggio 2007 dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome.
[411]Un ordine del giorno sui “costi della politica è stato approvato il 30 maggio 2007 dall’Assemblea plenaria della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee regionali (il testo dell’ordine del giorno è pubblicato nei comunicati stampa disponibili nel sito www.parlamentiregionali.it).
[412]Il 30 maggio A.N.C.I. ed U.P.I. avevano espresso la propria disponibilità a fornire il proprio contributo, evidenziando la necessità di pervenire ad un patto tra tutte le istituzioni interessate.
[413]V. il comunicato stampa della riunione del 31 maggio 2007.
[414]Il Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme Istituzionali, il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali e il Ministro per l’attuazione del programma di Governo, Santagata, e il Sottosegretario di Stato all'interno, Pajno.
[415]Rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome, della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, dell'U.P.I. (che nell'occasione era delegata a rappresentare anche l'A.N.C.I. assente a seguito della sospensione con i rapporti con il Governo), e dell'U.N.C.E.M.
[416]L’articolo 118 della Costituzione statuisce il principio secondo cui le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni e ogni diversa allocazione – anche per assicurarne l’esercizio unitario - deve ispirarsi ai principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza.
[417]L. 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).
[418]D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell'amministrazione digitale.
[419]Ai sensi dell’art. 7, co. 1, della L. 2 maggio 1974, n. 195, Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici, sono vietati finanziamenti e contributi da parte di organi della pubblica amministrazione, di enti pubblici, di società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20 per cento o di società controllate da queste ultime.
[420] R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato.
[421] D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato.
[422] Art. 83, R.D. 2440/1923 e art. 52, R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti.
[423] In tal senso C. Cost., sentenza 12 gennaio 1993, n. 24.
[424] Corte di cassazione, ordinanza a SS.UU., n. 19.667 del 22 dicembre 2003.
[425] Corte di cassazione, sentenza a SS.UU., n. 3.899 del 26 febbraio 2004.
[426] Art. 1, comma
[427] Art. 1, comma
[428] In tal senso si veda, ad esempio, Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 25 giugno 1997, n. 5668.
[429]L. 23 marzo 1853, n. 1483, Riordinamento dell'amministrazione centrale e della contabilità generale dello Stato.
[430]L. 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).
[431] L. 14 gennaio 1994, n. 20, Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti.
[432] D.L. 27 dicembre 2006, n. 299, Abrogazione del comma 1343 dell'articolo 1 della L. 27 dicembre 2006, n. 296, recante disposizioni in materia di decorrenza del termine di prescrizione per la responsabilità amministrativa. Il decreto-legge è stato convertito in legge, senza modificazioni, dalla L. 23 febbraio 2007, n. 16.
[433] La legge finanziaria per il 2007 è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 299 del 27 dicembre 2006, supplemento ordinario n. 244. Nella seduta del 21 dicembre 2006 la Camera dei deputati aveva votato la fiducia posta dal Governo sull'approvazione in via definitiva, senza emendamenti ed articoli aggiuntivi, dell'articolo unico del relativo disegno di legge, già approvato dalla Camera e modificato dal Senato.
[434]D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria., convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 2008. n. 31.
[435]Ai sensi dell’art. 1, co. 2, della L. 31/2008 detta legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta nel S.O. alla Gazzetta Ufficiale n. 51 del 29 febbraio 2008).
[436]Cass. Sez. Un. 11 luglio 2007, n. 15.458. Con un revirement rispetto agli orientamenti precedentemente seguiti, Cass. S.U. 22 dicembre 2003, n. 19.667, aveva chiarito che un ente pubblico non economico svolge attività amministrativa non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall'ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un'attività disciplinata in tutto od in parte dal diritto privato.
[437]La relazione è pubblicata nel sito istituzionale della Corte dei conti all’indirizzo: http://www.corteconti.it/Ricerca-e-1/Gli-Atti-d/Procura/Documenti/Procura-Ge/Anno-2008/scritto-definitivo_2.doc_cvt.htm.
[438]V. la relazione scritta in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008 pubblicata nel sito istituzionale della Corte dei conti.
[439]La relazione è pubblicata nel sito istituzionale della Corte dei conti all’indirizzo:
http://www.corteconti.it/il-Preside/Discorsi--/TESTO-PRESIDENTE4-25-gennaio--per-stampa.doc_cvt.htm.
[440]D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
[441]L. 27 dicembre 2002, n. 289, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003).
[442]D.L. 12 luglio 2004, n. 168, Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2004, n. 191.
[443]L. 30 dicembre 2004, n. 311, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005).
[444]L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[445]L. 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[446]Corte dei conti Sezioni Riunite, sentenza n. 12/2007/QM del 27 dicembre 2007.
[447]Corte dei conti Sezione Giurisdizionale Regionale dell’Umbria, sentenza n. 128/EL/2007.
[448]Il primo periodo di tale disposizione prevede, infatti, che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.
[449] In tal senso si sono pronunciate anche altre sentenze della Corte dei conti: si vedano, in particolare, Sezione Giurisdizionale Regionale dell’Umbria n. 553/EL/2002 del 10 dicembre 2002 e Sezione Giurisdizionale Regionale del Friuli-Venezia Giulia n. 423/EL/2002 del 28 ottobre 2003.
[450] Disposizioni riferite genericamente a forme di
assicurazione per i Consiglieri regionali contro i rischi conseguenti
all’espletamento del mandato sono previste inoltre nelle regioni Piemonte (art. 1, comma
[451] L.R. 26 luglio 1997, n. 24, Disposizioni integrative della legge regionale 14 aprile 1995, n. 42, e successive modificazioni.
[452] L.R. 5 novembre 1998, n. 48, Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 2 maggio 1995, n. 19. “Disposizioni in materia di indennità dei Consiglieri regionali”. Copertura assicurativa rischi derivanti dall’espletamento compiti istituzionali. La legge ha al riguardo introdotto l’art. 9-bis nella L.R. 19/1995.
[453]In questo senso v. già la sentenza n. 345/2004, Considerato in diritto, n. 7, richiamata dalla sentenza in esame.
[454]L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[455]Art. 82 e 83 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato.
[456]Nello stesso senso v. anche C. Cost. ordinanza n. 392/2007 ed ordinanza n. 123/2008.
[457]Così il Presidente della Corte dei conti nella relazione scritta in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008.
[458]Il rinvio dovrebbe peraltro intendersi più correttamente riferito ai
commi 43-
[459]Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti è stato istituito dall’art. 10 della L. 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati. Modifiche alla sua composizione sono state apportate, dall’art. 18 della L. 205/2000 e dall’art. 1 del D.Lgs. 62/2006. Il Consiglio, cui la legge ha attribuito la competenza per i giudizi disciplinari e per i provvedimenti attinenti e conseguenti che riguardano le funzioni dei magistrati della Corte dei conti, è composto dal Presidente della Corte (che lo presiede), dal procuratore generale della Corte dei conti, dal presidente aggiunto dalla Corte dei conti o, in sua assenza, dal presidente di sezione più anziano, da 4 componenti nominati dai Presidenti delle due Camere, di intesa tra loro, tra i professori universitari ordinari di materie giuridiche o gli avvocati con 15 anni di esercizio professionale e da 10 magistrati. Con Deliberazione n. 8/08/2008 del 16 gennaio 2008, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 6 febbraio 2008, n. 31, il Consiglio di Presidenza ha approvato un nuovo regolamento interno per il proprio funzionamento.
[460]Regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti. (Deliberazione n. 14/DEL/2000), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 156 del 6 luglio 2000, successivamente modificato dalla Deliberazione n. 2/DEL/2003 e dalla Deliberazione n. 1/DEL/2004.
[461]Regolamento per l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici amministrativi e degli altri uffici con compiti strumentali e di supporto alle attribuzioni della Corte dei conti (Deliberazione n. 22/01/DEL).
[462]Regolamento concernente la disciplina dell’autonomia finanziaria della Corte dei conti. (Deliberazione n. 1/DEL/2001).
[463]In proposito v. G. Carbone Corte dei conti in Enciclopedia del diritto, Aggiornamento IV, Milano, 2000 p. 499.
[464]V. in particolare l’art. 4 della L. 20/1994 e l’art. 3, co. 2, del D.Lgs. 286/1999.
[465]Ai sensi del secondo comma dell’art. 100 della Costituzione, “la Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito”. Il successivo terzo comma rimette alla legge il compito di assicurare l'indipendenza della Corte dei conti e del Consiglio di Stato e dei loro componenti nei confronti del Governo.
[466]A tale riguardo, nella relazione scritta in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008 il Presidente della Corte ha sottolineato come “negli anni recenti, si sono attuate innovazioni importanti che hanno rafforzato e intensificato il rapporto diretto con le assemblee parlamentari lucidamente prescritto dai costituenti”.
[467] Relazione del Presidente pro tempore della Corte dei conti, Francesco Staderini, sullo stato dei controlli e della giurisdizione al 1° gennaio 2007, 1° febbraio 2007. V. http://www.corteconti.it/il-Preside/Il-Preside/Relazione-/Relazione.doc_cvt.htm.
[468]Art. 3, co. 6, della L. 20/1994.
[469]Detto termine è stato inserito dall’art. 1, co. 172, della L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[470]D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 286, Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell'articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59.
[471] Articolazioni decentrate della sezione di controllo sugli atti di governo e sulle amministrazioni dello Stato in sede regionale, avevano sede presso ogni capoluogo di regione a statuto ordinario, ed esercitavano il controllo preventivo, successivo e sulla gestione delle amministrazioni dello Stato avente sede nella corrispondente regione.
[472] Questi ultimi erano stati istituiti con deliberazione della Corte 13 giugno 1997, n. 1/97, in forza della quale “la Corte dei conti esercita le funzioni di controllo successivo sulla gestione delle regioni, delle amministrazioni pubbliche non statali e degli enti pubblici regionali, nonché sulla gestione dei comuni, delle province e delle altre istituzioni di autonomia operanti nel territorio di ciascuna regione mediante collegi operanti in sede regionale, mediante il modello organizzativo di sezioni”.
[473] Due in Trentino Alto Adige, con sede in Trento e Bolzano; una sezione di controllo per il Friuli Venezia Giulia con sede in Trieste; una in Sicilia con sede a Palermo; una in Sardegna con sede a Cagliari.
[474] L. 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3.
[475]Regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti. (Deliberazione n. 14/DEL/2000), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 156 del 6 luglio 2000, successivamente modificato dalla Deliberazione n. 2/DEL/2003.
[476]La più recente relazione, riferita agli anni 2005-2006 (Doc. CI, n. 2), è stata trasmessa alla Presidenza il 2 luglio 2007.
[477]D.L. 22 dicembre 1981 n. 786, Disposizioni in materia di finanza locale, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 1982, n. 51.
[478]Art. 3, co. 7, della L. 20/1994.
[479]La più recente relazione, riferita agli anni 2005-2006 (Doc. XLVI-bis, n. 2), è stata trasmessa alla Presidenza il 2 luglio 2007.
[480]Nella più volte richiamata relazione scritta in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2008.
[481]Già in precedenza, con la sentenza n. 417 del 2005, la Corte Costituzionale aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale di una disposizione (art. 1, co. 5, del D.L. 12 luglio 2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2004, n. 191) la quale prevedeva che gli organismi degli enti locali competenti in materia di controlli di gestione dovessero fornire le proprie conclusioni, oltre che agli amministratori ed ai responsabili dei servizi, anche alla Corte dei conti. In quella sede la Corte evidenziò come tale obbligo non fosse di per sé idoneo a pregiudicare l'autonomia delle regioni e degli enti locali, in quanto esso doveva considerarsi «espressione di un coordinamento meramente informativo»
[482] L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[483] Il decreto-legge (articolo 1, comma 1) si limita a prevedere che il Comitato sia presieduto dal Presidente del Consiglio o dal Ministro per la funzione pubblica, da lui delegato.
[484] Il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione coordina sia il Dipartimento della funzione pubblica sia il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie.
[485] Il decreto-legge fa invece riferimento, in modo da considerare sostanzialmente analogo, ad esponenti di autorità regionali e locali. Manca nel DPCM il riferimento ad esponenti delle associazioni di categoria, pure contenuto nel decreto-legge. Il DPCM rimanda però ad un ulteriore DPCM l’istituzione di un Tavolo permanente per la semplificazione, cui prendono parte tali ultimi esponenti (cfr. infra).
[486]Per un refuso, nell’articolo 3 del DPCM viene richiamato l’articolo 22-bis anziché l’articolo 1, comma 22-bis, correttamente indicato nel preambolo del decreto.
[487]
[488]Vengono richiamati i principi di necessità, proporzionalità, sussidiarietà, trasparenza, responsabilità, accessibilità e semplicità delle norme.
[489]Contenuti, missione, attività e prime attuazioni legislative del progetto sono consultabili sul sito www.capire.org, che si occupa anche di alcune esperienze straniere.
[490]Si segnalano, in particolare: l’articolo 53, comma 2, dello statuto dell’Emilia-Romagna (“Clausole valutative eventualmente inserite nei testi di legge dettano i tempi e le modalità con cui le funzioni di controllo e valutazione devono essere espletate, indicando anche gli oneri informativi posti a carico dei soggetti attuatori”); l’articolo 45, comma 2, dello statuto della Toscana (“La legge regionale sulla normazione disciplina l’inserimento nelle leggi, ai fini di valutarne gli effetti prodotti, di clausole volte a definire i tempi e le modalità di raccolta delle informazioni necessarie”); l’articolo 61, comma 1, dello statuto dell’Umbria (“Il Consiglio regionale valuta gli effetti delle politiche regionali, verificandone i risultati, ed esercita il controllo sul processo di attuazione delle leggi anche mediante l’inserimento nei testi legislativi di apposite clausole valutative”); l’articolo 26, comma 2, dello statuto dell’Abruzzo (“Le leggi, per l’espletamento delle funzioni di controllo e valutazione, possono prevedere clausole valutative che disciplinano dati e informazioni che i soggetti attuatori sono tenuti a fornire”).
[491]La legge finanziaria del Lazio per il 2007 appare di particolare interesse per il contesto nel quale è inserita la previsione relativa alle clausole valutative: l’articolo 7 è infatti intitolato “Codice etico, trasparenza e correttezza amministrativa” e prevede, tra l’altro, che il Consiglio regionale, su proposta della Giunta, entro il 31 marzo 2007 “prevede modalità di monitoraggio e controllo delle attività finanziate con fondi pubblici regionali, statali e comunitari anche attraverso l’inserimento di clausole valutative nei provvedimenti legislativi di carattere regionale”.
[492]Le cinque commissioni di studio hanno elaborato altrettanti documenti sulla cui base sono state elaborate dodici linee di indirizzo adottate dall’Assemblea dei Presidenti delle Assemblee delle Regioni e delle Province autonome il 29-30 ottobre 2007, in occasione della presentazione del Rapporto sulla legislazione 2007.
[493]D.P.C.M. 9 dicembre 2002, Disciplina dell'autonomia finanziaria e contabile della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’art. 10 prevede che le disponibilità non impegnate e i maggiori o minori accertamenti di entrata costituiscono l'avanzo di esercizio; il Segretario generale dispone con proprio decreto il trasferimento dell'avanzo di esercizio al fondo di riserva di cui all’art. 12. Ai sensi di quest’ultima disposizione, le risorse del fondo sono destinate, nel corso dell'esercizio finanziario, all'aumento degli stanziamenti di altri capitoli di spesa nonché allo stanziamento di fondi su capitoli di nuova istituzione.
[494] Il comma 10 dell’articolo 14 ha previsto che il Presidente del Consiglio presenti al parlamento, entro il 30 aprile di ciascun anno, una relazione sullo stato di applicazione dell’AIR. La prima relazione è stata presentata il 31 luglio 2007.
[495] The Evaluation Partnership, Evaluation of the Commission’s Impact Assessment System. Final Report. – April 2007.
[496]Consiglio europeo di Bruxelles (8-9 marzo 2007), Conclusioni della Presidenza.
[497] Commissione europea, Better Regulation and enhanced Impact Assessment, 28 giugno 2007 SEC(2007) 926.
[498] Com(2008) 32def.
[499] Le schede inviate da ciascuna amministrazione sono state ordinate sia per dicastero recensore sia per aree tematiche, avvalendosi per questo secondo riguardo del sistema di catalogazione TESEO, in uso presso il Senato della Repubblica (sistema che individua 43 macro-aree tematiche: ad es., ‘diritto’, ‘difesa nazionale’, ‘finanza pubblica’, etc., in cui inserire gli atti normativi catalogati). Le informazioni richieste nella scheda sono: identificazione degli atti o degli articoli estratti di interesse per l’amministrazione; catalogazione per materie secondo il sistema di classificazione TESEO; indicazione sintetica delle leggi di novella; indicazione di altre amministrazioni cointeressate; rilevazione delle più evidenti incongruenze ed antinomie.
[500] Cfr. l’intervento del Ministro dell’interno nell’audizione del 30
maggio 2007 presso
[501] Il Ministro ha inteso fare riferimento all’art. 75 del testo unico sulle tossicodipendenze (D.P.R. 309/1990), il quale attribuisce al prefetto il compito di svolgere colloqui con i tossicodipendenti per valutare le sanzioni amministrative da irrogare (sospensione della patente di guida, del porto d’armi, del passaporto) e la loro durata e per eventualmente formulare l'invito a seguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo.
[502] Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato relativo all’esercizio finanziario 2006, volume II, tomo II.
[503]D.L. 8 febbraio 2007, n. 8 (conv. con modificazioni dalla L. 4 aprile 2007, n. 41), Misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche, nonchè norme a sostegno della diffusione dello sport e della partecipazione gratuita dei minori alle manifestazioni sportive.
[504]Senato della Repubblica, Commissione Affari costituzionali, seduta del 25 settembre 2007, Comunicazioni del ministro dell’interno Amato in materia di sicurezza pubblica.
[505]L. 1 aprile 1981, n. 121, Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza. L’art. 36 stabilisce che all'espletamento delle funzioni di carattere amministrativo, contabile e patrimoniale, nonché delle mansioni esecutive non di carattere tecnico ed operaie si provvede con personale appartenente ai ruoli dell'Amministrazione civile dell'interno.
[506]L. 17 agosto 1999, n. 288, Disposizioni per l'espletamento di compiti amministrativo-contabili da parte dell'Amministrazione civile del Ministero dell'interno, in attuazione dell'articolo 36 della L. 1° aprile 1981, n. 121.
[507]Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 7 novembre 2007, Svolgimento dell’interrogazione a risposta immediata n. 3-01401, Carenza di mezzi e risorse a disposizione delle forze dell'ordine.
[508]Cfr. Camera dei deputati, Commissione Affari costituzionali, Indagine conoscitiva sulla sicurezza, intervento del Capo della Polizia, A. Manganelli, 26 luglio 2007 e del Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, G. Siazzu, seduta del 17 luglio 2007.
[509]Senato della Repubblica, Commissione Affari costituzionali, seduta del 25 settembre 2007, Comunicazioni del ministro dell’interno Amato in materia di sicurezza pubblica.
[510]L. 23 agosto 2004, n. 226, Sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata, nonché delega al Governo per il conseguente coordinamento con la normativa di settore.
[511]Cfr. Camera dei deputati, Commissione Affari costituzionali, Indagine conoscitiva sulla sicurezza, intervento del Viceministro dell’interno Minniti, seduta del 30 maggio 2007, del Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, G. Siazzu, seduta del 17 luglio 2007, del Capo della Polizia, A. Manganelli, 26 luglio 2007 e del Comandante generale della Guardia di finanza, C. D’Arrigo, seduta del 30 luglio 2007.
[512]I dati sulla Polizia penitenziaria sono stati ricavati dalla relazione del Ministro della giustizia presentata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2007.
[513]Ministero dell’economia e delle finanze, Commissione tecnica per la finanza pubblica, Rapporto intermedio sulla revisione della spesa pubblica (c.d. Spending Review), presentato il 13 dicembre 2007.
[514]L. 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).
[515]Le Direzioni interregionali erano state previste dal D.P.R. 208/2001 per realizzare un decentramento delle funzioni amministrative e gestionali, peraltro non realizzato compiutamente. Sul medesimo tema sono intervenuti anche i commi da 92 a 96 dell’art. 2 della legge finanziaria per il 2008.
[516]L. 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[517]D.L. 27 settembre 2006, n. 260, (conv. con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2006, n. 280), Misure urgenti per la funzionalità dell'Amministrazione della pubblica sicurezza.
[518]Camera dei deputati, Commissione Affari costituzionali, seduta del 20 giugno 2006, Audizione del ministro dell'interno, onorevole Giuliano Amato, sulle linee programmatiche del suo dicastero (proseguita nelle sedute del 27 giugno e dell’11 luglio 2006).
Senato, Commissione Affari costituzionali, seduta del 27 giugno 2006, Comunicazioni del ministro dell'interno, onorevole Giuliano Amato, sugli indirizzi programmatici del suo dicastero, (proseguita nella seduta dell’11 luglio 2006).
[519]Cfr. Camera dei deputati, Commissione Affari costituzionali, Indagine conoscitiva sulla sicurezza, intervento del Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, G. Siazzu, seduta del 17 luglio 2007, del Capo della Polizia, A. Manganelli, 26 luglio 2007 e del Comandante generale della Guardia di finanza, C. D’Arrigo, seduta del 30 luglio 2007.
[520]Il comma 5, dell’art. 1, della legge 311/2004 (legge finanziaria per il 2005), per il triennio 2005/2007, ha previsto che la spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato, non deve superare il 2% rispetto alle corrispondenti previsioni aggiornate del precedente anno.
Il successivo comma 8 ha imposto di contenere nel limite del 2%, rispetto agli stanziamenti dell’esercizio finanziario 2004, come decurtati del 40% dal D.L. 168/2004, gli incrementi delle previsioni di spesa per l’esercizio 2005 riguardanti i consumi intermedi, andando ad incidere sulle spese destinate al funzionamento ed agli investimenti. Una ulteriore riduzione alle dotazioni iniziali delle unità previsionali di base (UPB) per consumi intermedi non aventi natura obbligatoria è stata disposta dal comma 295.
Inoltre, con riferimento al triennio 2005/2007, il comma 9 dell’art. 1 ha limitato le riassegnazioni di entrate e l’utilizzo dei Fondi di riserva per spese obbligatorie e d’ordine e per spese impreviste, disponendo il limite del 2% al loro incremento, rispetto al dato finale del precedente esercizio.
[521]Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2006, volume II, tomo II.
[522]Corte dei conti, Relazione concernente l’indagine sulle contabilità speciali del Ministero dell’interno, approvata il 12 gennaio 2007 e trasmessa alle Camere il 22 maggio 2007. Le conclusioni del documento sulle contabilità speciali del Ministero dell’interno sono state riprese dalla Corte dei conti nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2006, volume II, tomo II, cit..
[523]Corte dei conti, Relazione contabilità speciali Ministero dell’interno, cit., pag. 10.
[524]Corte dei conti, Relazione contabilità speciali Ministero dell’interno, cit., pag. 11.
[525]Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2005, volume II, tomo II.
[526]Per quanto concerne le altre iniziative per contrastare fenomeni di esclusione sociale, i commi 340-342 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2007 hanno introdotto nel nostro ordinamento la disciplina delle c.d. Zone Franche urbane, da individuare nelle città caratterizzate da fenomeni di degrado urbano e sociale (con particolare riferimento alle città del Mezzogiorno e al centro storico di Napoli), nelle quali applicare benefici di carattere fiscale e contributivo.
La disciplina, che ha carattere sperimentale, non ha trovato finora applicazione anche a causa di osservazioni sollevate dalla Commissione europea circa la compatibilità comunitaria del regime di aiuti ivi previsto, ed è stata integralmente riformulata dall’art. 2, commi 561-563, della legge finanziaria per il 2008.
[527]D.L. 2 luglio 2007, n. 81, (conv., con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2007, n. 127), Disposizioni urgenti in materia finanziaria.
[528]Tale espressione è utilizzata anche nella scheda informativa del Governo Le misure legislative per la sicurezza, 30 ottobre 2007. Il Governo ha optato per una struttura articolata ritenendo che la concentrazione di un gran numero di interventi su materie eterogenee in un unico provvedimento avrebbe comportato un percorso parlamentare inevitabilmente più lento.
[529]Si veda in questo senso il comunicato del Consiglio dei ministri del 30 ottobre 2007.
[530]Senato, Commissione Affari costituzionali, 25 settembre 2007, Comunicazioni del ministro dell’interno in materia di sicurezza pubblica.
[531]D.L. 1o novembre 2007, n. 181, Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza, non convertito in legge.
[532] Cfr. Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, Risoluzione relativa all’adesione dell’Italia al Trattato di Prüm, approvata il 18 luglio 2007. La risoluzione impegna il Governo a prendere entro il 30 settembre 2007 le opportune iniziative volte a ratificare il Trattato di Prüm.
[533]L. 15 marzo 1997 n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa.
[534]D.Lgs. 31 marzo 1998 n. 112, Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59.
[535]In questo senso si veda anche la relazione illustrativa del disegno di legge governativo C. 3278, Disposizioni in materia di sicurezza urbana (in merito al quale si veda la scheda Il pacchetto sicurezza, pag. 426).
[536]Così il viceministro dell’interno Minniti, nell’audizione del 30 maggio 2007
presso
[537]Le somme corrisposte da un terzo ad una amministrazione vengono fatte affluire al Ministero dell’economia e poi, da questo Ministero, riassegnate all’amministrazione cui sono dovute. Ai fini del contenimento della spesa, l’art. 1, comma 46 della legge finanziaria per il 2006 ha disposto che tali risorse non vengono riassegnate integralmente, ma soltanto nei limiti stabiliti dal ministro dell’economia: l’ammontare complessivo delle riassegnazioni non può superare, a decorrere dal 2006, l’importo complessivo delle riassegnazioni effettuate, per ciascuna amministrazione, nell’anno 2005.
[538] Camera dei deputati, Commissione affari costituzionali, seduta dell’8 febbraio 2007, intervento del Viceministro dell’interno Minniti.
[539]A Roma ad esempio, l’amministrazione comunale ha chiesto la mission specifica del controllo dei campi nomadi; a Milano si è affrontato il tema del controllo del territorio, soprattutto in relazione al problema dello spaccio di stupefacenti. Un’altra mission riguarda il controllo degli accessi alle città, ai fini del quale si sta realizzando un sistema di videosorveglianza nelle grandi metropoli urbane (cfr. l’intervento del viceministro Minniti del 30 maggio 2007, cit.).
[540]Cfr. il viceministro dell’interno Minniti, nell’audizione del 30 maggio 2007, cit..
[541]Come accennato, tutti i patti per la sicurezza prevedono
l’istituzione, presso
[542]Marta Vincenzi, Sindaco di Genova, nell’audizione del 4 dicembre
2007 presso
[543]Il rapporto del Ministero dell’interno, cui si rinvia, contiene dati dettagliati sull’andamento della delittuosità nelle città di Asti, Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova; Milano, Modena, Napoli, Prato, Roma, Torino e Venezia.
[544]Regione Piemonte, L.R. 10 dicembre 2007, n. 23, Disposizioni relative alle politiche regionali in materia di sicurezza integrata.
[545]D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni.
[546]Peraltro, nel processo minorile l’art. 10 del D.P.R. 448/1988 preclude alla vittima del reato la possibilità di esercitare l'azione civile “per le restituzioni e per il risarcimento del danno cagionato dal reato”, tramite la costituzione di parte civile. L’attuazione dell'attività di mediazione penale si è connotata, quindi, come possibile strumento di intervento a favore anche della vittima del reato, come percorso relazionale attraverso cui preparare, motivare e configurare la successiva definizione dell'attività riparatoria. In questo senso resta distinto il concetto di mediazione da quello di riparazione.
[547]La sospensione può essere al massimo triennale in caso si proceda per delitti per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, il processo può essere sospeso per un periodo non superiore a un anno.
[548] Legge 16 dicembre 1999, n. 479 Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense.
[549]L’art. 2, comma 2 del D.Lgs 274/2000 prevede, come principio generale, che il giudice di pace debba favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti.
[550]Analogo tentativo di conciliazione deve essere compiuto dal giudice di pace nella prima udienza di comparizione del processo civile (art. 320 c.p.c.).
[551]L. 3 agosto 2004, n. 206, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice.
[552] La L. 20 febbraio 2006, n. 91, derogando espressamente all’art. 15
della legge
[553]Per la normativa regionale in materia di vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e del dovere v. il dossier n. 157/1 della XV legislatura.
[554] Il R.D.L. 13 marzo 1921, n. 261, contenente provvedimenti a favore del corpo degli agenti di investigazione (istituito col R.D. 14 agosto 1919, n. 1422), prevedeva (art. 14) l’istituzione di “un fondo di lire 500.000 nel bilancio del Ministero dell’interno per elargizioni non inferiori alle lire ottomila alle famiglie dei funzionari di pubblica sicurezza, ufficiali della Regia guardia e Reali carabinieri vittime del dovere”.
[555] L. 13 agosto 1980, n. 466, Speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche.
[556] L. 20 ottobre 1990, n. 302, Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[557] L. 23 novembre 1998, n. 407, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[558]L. 23 dicembre 2000, n. 388, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001).
[559] D.L. 4 febbraio 2003, n. 13, Disposizioni urgenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 aprile 2003, n. 56.
[560]L. 3 giugno 1981, n. 308, Norme in favore dei militari di leva e di carriera appartenenti alle Forze armate, ai Corpi armati ed ai Corpi militarmente ordinati, infortunati o caduti in servizio e dei loro superstiti.
[561] D.P.R. 28 luglio 1999, n. 510, Regolamento recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[562] L. 26 gennaio 1980, n. 9, Adeguamento delle pensioni dei mutilati ed invalidi per servizio alla nuova normativa prevista per le pensioni di guerra dalla legge 29 novembre 1977, n. 875, e dal D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915.
[563] L. 18 marzo 1968, n. 313, Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra.
[564] L. 23 dicembre 1970, n. 1094, Estensione dell’equo indennizzo al personale militare.
[565] D.L. 28 novembre 2003, n. 337, Disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all'estero, convertito dalla L. 24 dicembre 2003, n. 369.
[566] Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 7 febbraio 1990, n. 67.
[567]
[568] L’art. 12-sexies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, conv. con mod. in L. 7 agosto 1992, n. 356), al co. 4-ter (introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45), destina alle elargizioni di cui alla L. 302/1990 una quota dei beni confiscati nell’ambito di procedimenti contro la criminalità organizzata.
[569] Il co. 1 dell’art. 5 della L. 407/1998 prevedeva in precedenza come data di riferimento quella del 1° gennaio 1969.
[570] Legge 28 novembre 2005, n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005 (art. 3). Il termine per l’esercizio della delega, inizialmente fissato al 16 dicembre 2006 e stato prorogato al 16 dicembre 2008 con la L. 228/2006.
[571]Senato della Repubblica - Assemblea. Resoconto stenografico della 278a seduta pubblica (pomeridiana) di giovedì 17 gennaio 2008 pag. 19 e segg. Risposta del Sottosegretario di Stato per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, all’interrogazione 3-00648 su provvedimenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità.
[572] D.P.R. 7 luglio 2006, n. 243, Regolamento concernente termini e modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere ed ai soggetti equiparati, ai fini della progressiva estensione dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo, a norma dell'articolo 1, comma 565, della L. 23 dicembre 2005, n. 266.
[573] Si veda in proposito anche il Decreto del Ministro dell’interno, 17
marzo 2006, Modalità per l'erogazione dei
benefici previsti dall'articolo 1, comma 272, della legge 23 dicembre 2005, n.
[574]L. 3 agosto 2004, n. 206, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice.
[575]D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 novembre 2007, n. 222.
[576] L. 24 maggio 1970, n. 336, Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed Enti pubblici ex combattenti ed assimilati.
[577]Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della L. 23 ottobre 1992, n. 421.
[578]L. 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).
[579]La circolare INPS n. 122 del 24 ottobre 2007 precisava al riguardo che la pensione dovrà essere calcolata, utilizzando quale retribuzione pensionabile l’ultima retribuzione integralmente percepita dal lavoratore al momento dell’evento terroristico, rapportata a settimana.
[580]L. 23 novembre 1998, n. 407, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[581]L. 20 ottobre 1990, n. 302, Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[582]Attraverso un rinvio all’art. 6 della L. 13 agosto 1980, n. 466, Speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche.
[583]La data del 26 agosto 2004 è quella dell’entrata in vigore della L. 206/2004, che è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 187 dell’11 agosto 2004.
[584]Ai sensi dell’art. 1 della L. 19 luglio 2000, n. 203, Erogabilità a carico del Servizio sanitario nazionale dei farmaci di classe C) a favore dei titolari di pensioni di guerra diretta.
[585]L. 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).
[586]L. 8 agosto 1995 n. 340, Estensione dei benefici di cui agli articoli 4 e 5 della legge 20 ottobre 1990, n. 302, ai familiari delle vittime del disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980.
[587]L. 31 marzo 1998, n. 70, Benefìci per le vittime della cosiddetta «banda della Uno bianca».
[588]L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[589] Cfr. Senato, 5ª Commissione, seduta pomeridiana del 19 ottobre 2007, intervento della sen. Rubinato sull’emendamento 34.12.
[590]D.L. 27 luglio 2005, n. 144, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, convertito, con modificazioni, dalla L. 31 luglio 2005, n. 155.
[591]Tali oneri, quantificati in 3,57 mln. di euro per il 2008, 417 mila euro per il 2009 e 488 mila euro per il 2010 trovano invece copertura a valere sulle risorse stanziate nella Tabella A, voce Ministero dell’economia e delle finanze, del d.d.l. finanziaria.
[592]A.C. 616, Modifica
dell'articolo 15 della legge 3 agosto 2004, n.
[593]Camera dei deputati – Resoconto stenografico dell’Assemblea. Seduta n. 82 del 5 dicembre 2006.
[594]Camera dei deputati - XV Legislatura - I Commissione - Resoconto di martedì 5 giugno 2007.
[595]L. 20 ottobre 1990, n. 302, Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[596]L. 23 dicembre 2005, n. 266, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006).
[597] L. 13 agosto 1980, n. 466, Speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche .
[598]In tal senso v. anche gli interventi del Sottosegretario di Stato per la giustizia, Scotti, e del Sottosegretario di Stato per l’interno, Rosato, nelle sedute della I Commissione (Affari costituzionali) della Camera del 1° e 2 agosto 2007.
[599]D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 novembre 2007, n. 222.
[600] Legge 3 agosto 2004, n. 206, Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tali matrici.
[601] Legge 20 ottobre 1990, n. 302, Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
[602] Legge 13 agosto 1980, n. 466, Speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche.
[603]D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31.
[604]L’elaborazione di norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità era stata sollecitata già nel Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 , cui era seguita la decisione quadro del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima del procedimento penale. In particolare, la decisione quadro mira a garantire alle vittime una migliore tutela giuridica e una migliore difesa dei loro interessi, indipendentemente dallo Stato membro in cui si trovino. Inoltre, la decisione quadro prevede disposizioni volte a fornire assistenza alle vittime prima e dopo il procedimento penale al fine di attenuare le conseguenze del reato.
[605]Legge 25 gennaio 2006, n. 29, Disposizioni
per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee – Legge comunitaria 2005.
[606] Legge 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri.
[607]Cfr. art. 4, comma 3, lettera a), della legge 124/2007.
[608] L’UCSi, in precedenza denominato Ufficio sicurezza (USI), prima della riforma del 1977 dipendeva dal SID, il Servizio di informazioni militare. Con il D.P.C.M. 31 gennaio 1978 l’ufficio è stato trasferito presso il CESIS. La struttura e il funzionamento dell’UCSi erano definite da due circolari riservate del Presidente del Consiglio, emanate in data 23 novembre 1979 e 5 gennaio 1980.
[609] Le procedure di rilascio del nulla osta di sicurezza personale sono state revisionate con il D.P.C.M. 7 giugno 2005, Disposizioni in materia di rilascio del nulla osta di sicurezza personale che tiene conto delle misure adottate in ambito europeo (si veda in proposito la Relazione sulla politica informativa e della sicurezza – 2° semestre 2005, pag. 16). Gran parte delle disposizioni ivi contenute sono confluite nel D.P.C.M. 3 febbraio 2006, Norme unificate per la protezione e la tutela delle informazioni classificate, una sorta di “testo unico” delle disposizioni in materia di tutela amministrativa del segreto.
[610] In precedenza, la tenuta dei registri dei NOS era compiuta a livello decentrato: ciascuna amministrazione pubblica che tratta informazioni classificate aveva il compito di aggiornare il registro dei NOS del proprio personale abilitato (art. 11, co. 10, lett. e), D.P.C.M. 3 febbraio 2006).
[611] A differenza dell’Abilitazione temporanea che aveva una durata massima – non superiore a sei mesi dalla data di rilascio, prorogabile una sola volta (art. 18, comma 3) – il D.P.C.M. 3 febbraio 2006 non indicava la durata del NOS che, presumibilmente, era fissata caso per caso.
[612] L’art. 20, co. 5 del D.P.C.M. 3 febbraio 2006 poneva tale obbligo in capo a Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza.
[613] L. 18 febbraio 1997, n. 25, Attribuzioni del Ministro della difesa, ristrutturazione dei vertici delle Forze armate e dell’Amministrazione della difesa.
[614] D.P.R. 25 ottobre 1999, n. 556, Regolamento di attuazione dell’articolo 10 della legge 18 febbraio 1997, n. 25, concernente le attribuzioni dei vertici militari.
[615] Si veda La difesa. Libro bianco 2002.
[616] D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali.
[617] D.L. 27 luglio 2005, n. 144, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, L. 31 luglio 2005, n. 155.
[618] Avvenuta il 13 agosto 2007.
[619] Legge 16 marzo 2006, n. 146, Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale.
[620] Si tratta dell’associazione mafiosa e reati connessi, del sequestro di persona a scopo di estorsione, della riduzione in schiavitù e della tratta di persone, dei reati associativi finalizzati al traffico di droga ed al contrabbando di sigarette.
[621] D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
[622] D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia.
[623] L. 3 agosto 1998, n. 269, Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù.
[624] Camera dei deputati, I Commissione, seduta del 9 gennaio 2007, intervento del relatore, p. 5.
[625] Camera dei deputati, I Commissione, seduta del 9 gennaio 2007, intervento del relatore, p. 5.
[626] Norme per il diritto al lavoro dei disabili.
[627] Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro.
[628] L’art. 8 della L. 801/1977 stabiliva che: “Non possono appartenere in modo organico o saltuario al Comitato di cui all’articolo 3 e ai Servizi di cui agli articoli 4 e 6, persone che, per comportamenti od azioni eversive nei confronti delle istituzioni democratiche, non diano sicuro affidamento di scrupolosa fedeltà ai valori della Costituzione repubblicana e antifascista”.
[629] Istituzione dei tribunali amministrativi regionali.
[630] Testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza.
[631] Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza.
[632] Attuazione dell’art. 3 della L. 6 marzo 1992, n. 216, in materia di riordino dei ruoli e modifica delle norme di reclutamento, stato ed avanzamento del personale non direttivo e non dirigente dell’Arma dei carabinieri.
[633] Attuazione dell’art. 3 della L. 6 marzo 1992, n. 216, in materia di nuovo inquadramento del personale non direttivo e non dirigente del Corpo della Guardia di finanza.
[634] Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria.
[635] Legge 7 marzo 1986, n. 65, Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale.
[636] Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007).
[637] Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
[638] Anche se non previsto dalla legislazione vigente, non è infrequente l’invio di relazioni alle Camere da parte del Comitato.
[639] Pubblicato nel Bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari, 22 novembre 2007, n. 260.
[640] Si veda, a tal proposito, la seduta della Camera dei deputati del 14 febbraio 2007.
[641] Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Relazione sulla politica informativa e della sicurezza, relativa all’anno 2007, trasmessa alla Presidenza il 29 febbraio (Doc. XXXIII, n. 4, annunciato il 9 aprile 2008).
[642] D.P.C.M. 8 aprile 2008, Criteri per l'individuazione delle notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti, delle attività, delle cose e dei luoghi suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato.
[643] Tale disposizione recepisce un principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale: “l’opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei ministri non ha l’effetto di impedire che il pubblico ministero indaghi sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso, ed eserciti se del caso l’azione penale, ma ha l’effetto di inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto. Tale divieto riguarda l’utilizzazione degli atti e documenti coperti da segreto sia in via diretta, ai fini cioè di fondare su di essi l’esercizio dell’azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine, le cui eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dall’illegittimità della loro origine” (sent. 110/1998).
[644] D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271.
[645] Tale motivazione emerge dalla relazione illustrativa che accompagna la p.d.l. presentata da componenti del COPACO (A.C. 2070).
[646] D.P.C.M. 3 febbraio 2006, Norme unificate per la protezione e la tutela delle informazioni classificate, art. 5.
[647] Per i reati aventi come scopo l’eversione dell’ordinamento costituzionale si vedano gli artt. 270, 270-bis, 272, 280, 283, 284, 289-bis c.p. (reati di associazione sovversiva, terrorismo etc.). Un altro caso di non opponibilità del segreto di Stato è stato introdotto relativamente alle informazioni riguardanti l’uso delle mine antipersona, dalla legge 29 ottobre 1997 n. 374, Norme per la messa al bando delle mine antipersona (art. 10). Si ricorda peraltro che l’art. 3, co. 2, della legge 30 giugno 1994, n. 430, istitutiva della Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia ha previsto che “in nessun caso per i fatti di mafia, camorra e di altre associazioni criminali similari, costituendo essi fatti eversivi dell’ordine costituzionale, può essere opposto il segreto di Stato”.
[648] Norme unificate per la protezione e la tutela delle informazioni classificate.
[649] Norme di sicurezza per la tutela delle informazioni UE classificate, di attuazione della Dec. 29 novembre 2001 della Commissione delle Comunità europee.
[650] Si veda in proposito la Relazione sulla politica informativa e della sicurezza e sui risultati ottenuti (semestre 22 novembre 1977 – 22 maggio 1978).
[651] Si osserva che l’art. 202 c.p.p. (già art. 352) nella formulazione introdotta in origine dalla L. 801/1977 (art. 15) prevedeva che il giudice interpellasse il Presidente del Consiglio solamente nel caso ritenesse infondata la dichiarazione di segretezza. Alla formulazione illustrata si è giunti a seguito della riforma del c.p.p. operata con il D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447.
[652] Con la sentenza 110/1998, la Corte costituzionale ha stabilito che l’apposizione del segreto di Stato non inibisce in modo assoluto all’autorità giudiziaria la conoscenza dei fatti ai quali il segreto si riferisce, precludendo qualsiasi indagine anche se fondata su elementi di conoscenza altrimenti acquisiti, ma ha solo l’effetto di impedire l’acquisizione e l’utilizzazione di elementi di conoscenza e di prova coperti da segreto. Il divieto riguarda l’utilizzazione di atti e documenti coperti da segreto, sia in via diretta, al fine di fondare su di essi l’esercizio dell’azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine. Inoltre, ha aggiunto la Corte, i rapporti tra potere esecutivo e autorità giudiziaria devono essere improntati al principio di legalità e devono essere ispirati a correttezza e lealtà, nel senso dell’effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti.
[653] Tra le sentenze della Corte costituzionale in materia di segreto di Stato possono dunque ricordarsi le seguenti: 82/1976, 86/1977, 110/1998 (preceduta dall’ordinanza 426/1997), 410/1998 (preceduta dall’ordinanza 266/1998), 344/2000, 487/2000 (preceduta dalle ordinanze 320 e 321/1999), 295/2002. Si vedano anche le ordinanze 209/2003 e 404/2005.
[654] D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
[655]D.L. 31 maggio 1991, n. 164, Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente e a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 luglio 1991, n. 221.
[656]L. 19 marzo 1990, n. 55, Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale.
[657] D.L. 29 ottobre 1991, n. 345, conv. con mod. dalla L. 30 dicembre 1991, n. 410, Disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la criminalità organizzata.
[658] D.L. 6 settembre 1982, n. 629, conv. con mod. dalla L. 12 ottobre 1982, n. 726, Misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa.
[659]Le proposte A.C. 2014 e 2129 sono sottoscritte da componenti della Commissione parlamentare «antimafia».
[660]Camera dei deputati - XV legislatura. Resoconto della seduta della I Commissione (Affari costituzionali) di mercoledì 10 ottobre 2007. Intervento del relatore, on. Marone.
[661]Per una analisi più approfondita di queste disposizioni v. supra.
[662]V. l’audizione dei proff. Clarich, Dugato e Stagno d’Alcontres svolta nella seduta di mercoledì 17 ottobre 2007.
[663]Art. 2, co. 2-quater, del D.L. 29 ottobre 191, n. 345, Disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la criminalità organizzata, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 dicembre 1991, n. 410.
[664] L. 7 giugno 1991, n. 182, Norme per lo svolgimento delle elezioni dei consigli provinciali, comunali e circoscrizionali.
[665]L. 27 marzo 2001, n. 97, Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
[666]Per questi temi v. anche il capitolo Efficienza della pubblica amministrazione, nel dossier 1/1, Parte seconda.
[667]D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
[668]D.L. 6 settembre 1982, n. 629, Misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa.
[669]In questo senso v. da ultimo Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 3 maggio 2007, n. 1948. Il costante indirizzo è stato, infine richiamato anche in più recenti pronunce (v. ad es. Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 28 marzo 2008, n. 1310).
[670]Al riguardo, v. Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 1 marzo 2001, n. 1148.
[671]L. 19 ottobre 2001, n. 386, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare.
[672]A partire dalla seduta n. 26 (pomeridiana) del 19 settembre 2006.
[673]Il progetto veniva nuovamente assegnato alla 1ª Commissione in sede deliberante il 3 ottobre 2006.
[674]L. 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
[675]La norma richiamata prevede che il giudice possa ordinare l'accompagnamento coattivo del testimone, del perito, del consulente tecnico, dell'interprete o del custode di cose sequestrate, quando questi regolarmente citati o convocati, omettano senza un legittimo impedimento di comparire nel luogo, giorno e ora stabiliti. In tal caso, il giudice può altresì condannarli, con ordinanza, al pagamento di una ammenda da euro 51 a euro 516 nonché al pagamento delle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa.
[676]Legge 7 marzo 1986, n. 65, Legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale.
[677]Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T.U.L.P.S.) approvato con R.D. 773/1931 (artt. da
[678]D.L. 8 aprile 2008, n. 59, Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee.