Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento giustizia
Titolo: Disposizioni in materia di impedimento a comparire nelle udienze - AA.C. 889, 2964, 2982, 3005, 3013 e 3028 (Testo a fronte e documentazione) - 2^ edizione
Riferimenti:
AC N. 3013/XVI   AC N. 3028/XVI
AC N. 889/XVI   AC N. 2964/XVI
AC N. 2982/XVI   AC N. 3005/XVI
Serie: Progetti di legge    Numero: 256
Data: 14/12/2009
Descrittori:
CODICE E CODIFICAZIONI   DIRITTO PROCESSUALE PENALE
IMPUTATI E INDIZIATI DI REATO   UDIENZE PENALI
Organi della Camera: II-Giustizia

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Disposizioni in materia di impedimento a comparire nelle udienze

AA.C. 889, 2964, 2982, 3005, 3013 e 3028

Testo a fronte e documentazione

 

 

 

 

 

 

n. 256

seconda edizione

 

 

14 dicembre 2009

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Giustizia

* st_giustizia@camera.it

 

 

 

 

 

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File: gi0303.doc

 


INDICE

 

Testo a fronte

Raffronto tra l’art. 420-ter vigente e il testo delle proposte di legge  3

Normativa di riferimento

§      Costituzione della Repubblica Italiana (artt. 3, 24, 67, 68, 96, 111 e 138)11

§      Codice penale (art. 159)16

§      Codice di procedura penale (artt. 392, 419, 420-ter, 467 e 486)18

§      L. 23 agosto 1988, n. 400. Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri (artt. 5, 6 e 12)24

§      D.P.C.M. 10 novembre 1993. Regolamento interno del Consiglio dei Ministri29

§      D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 303. Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell'articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59 (art. 2, 3 e 4)39

§      L. 23 luglio 2008 n. 124. Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato (art. 1)42

Giurisprudenza

Corte costituzionale

§      Sentenza 8 marzo-14 marzo 1984, n. 67  47

§      Sentenza 28 ottobre-3 dicembre 1987, n. 431  50

§      Sentenza 26 aprile-30 aprile 1999, n. 148  61

§      Sentenza 20 gennaio-4 febbraio 2000, n. 24  75

§      Sentenza 4 luglio-6 luglio 2001, n. 225  79

§      Sentenza 3 luglio-22 luglio 2003, n. 263  90

§      Sentenza del 13 gennaio-20 gennaio 2004, n. 24  101

§      Sentenza 13 gennaio–20 gennaio 2004, n. 25  118

§      Sentenza 13 luglio- 28 luglio 2004, n. 284  122

§      Sentenza 12 dicembre-15 dicembre 2005, n. 451  134

§      Sentenza 22 ottobre-24 ottobre 2007, n. 349  148

§      Sentenza 7 ottobre-19 ottobre 2009, n. 262  168

Corte di Cassazione

§      Cass. pen. Sez. VI, (ud. 09-02-2004) 09-03-2004, n. 10773  207

§      Cass. pen. Sez. IV, (ud. 04-10-2007) 31-10-2007, n. 40309  227

§      Cass. pen. Sez. III, (ud. 17-10-2007) 28-01-2008, n. 4071  231

§      Cass. pen. Sez. I, (ud. 04-02-2009) 11-02-2009, n. 5956  234

 

 


Testo a fronte

 


Raffronto tra l’art. 420-ter vigente e il testo delle proposte di legge

 

Normativa vigente

AC 889
(Consolo)

AC 2964
(Biancofiore e Bertolini)

AC 2982
(La Loggia)

AC 3005
(Costa e Brigandì)

AC 3028
(Palomba)

AC 3013
(Vietti) (*)

Codice di procedura penale

 

 

 

 

 

(*)

Art. 420-ter.

 

 

 

 

 

Art. 1.

Impedimento a comparire dell'imputato o del difensore.

identico

identico

Identico

identico

Identico

(Norma transitoria e temporanea in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri a comparire nelle udienze penali).

 

1. Nelle more della definitiva approvazione e promulgazione della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e delle modalità di partecipazione dello stesso ai processi penali e, comunque, non oltre dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, salvi i casi previsti dall'articolo 96 della Costituzione, al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei ministri il sereno svolgimento delle funzioni attribuitegli dalla Costituzione e dalla legge, costituisce suo legittimo impedimento, ai sensi dell'articolo 420-ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali quale imputato, parte offesa o testimone il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, nonché delle attività preparatorie e consequenziali.

2. Quando ricorrono le ipotesi di cui al comma 1, il giudice, su richiesta del Presidente del Consiglio dei ministri, rinvia il processo ad altra udienza.

3. Nei casi previsti dal presente articolo, la prescrizione dei reati rimane sospesa per tutta la durata del rinvio, secondo quanto previsto dall'articolo

159, primo comma, numero 3), del codice penale, e si applica il terzo comma del medesimo articolo 159 del codice penale. Il giudice può provvedere all'assunzione delle prove urgenti a norma degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale.

4. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge.

 

 

 

 

 

 

 

Art. 2.

(Entrata in vigore).

      1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione ne lla Gazzetta Ufficiale.

1. Quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta all'udienza e risulta che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d'ufficio, rinvia ad una nuova udienza e dispone che sia rinnovato l'avviso all'imputato, a norma dell'articolo 419, comma 1.

identico

identico

Identico

identico

identico

 

 

1-bis. L'esercizio della funzione di governo da parte del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri costituisce, ad esclusione dei procedimenti per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, legittimo impedimento a comparire nelle udienze.

1-bis. È legittimo impedimento a comparire nelle udienze ogni atto proprio delle funzioni attribuite al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri e agli altri membri del Governo, ai membri del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati per il tempo preparatorio, contestuale e successivo necessario al compimento del medesimo atto; il giudice, tempestivamente avvisato, ne prende atto e provvede a norma dei commi 1 e 3.

1-bis. Costituisce assoluta impossibilità di comparire per l'imputato, a norma del comma 1, lo svolgimento di attività inerenti alle funzioni istituzionali o politiche di Presidente del Consiglio dei ministri, di Ministro, di Sottosegretario di Stato o di parlamentare. In tal caso, il giudice deve rinviare ad una nuova udienza. Ove gli uffici di appartenenza attestino che l'impedimento è continuativo in relazione alle funzioni svolte, il giudice deve rinviare l'udienza per il periodo indicato. Il rinvio non può essere superiore a sei mesi. Il corso della prescrizione rimane sospeso per l'intera durata dell'impedimento.

identico

2. Con le medesime modalità di cui al comma 1 il giudice provvede quando appare probabile che l'assenza dell'imputato sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore. Tale probabilità è liberamente valutata dal giudice e non può formare oggetto di discussione successiva né motivo di impugnazione.

identico

identico

identico

identico

identico

3. Quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta alle successive udienze e ricorrono le condizioni previste dal comma 1, il giudice rinvia anche d'ufficio l'udienza, fissa con ordinanza la data della nuova udienza e ne dispone la notificazione all'imputato.

identico

3. Quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta alle successive udienze e ricorrono le condizioni previste dai commi 1 e 1-bis, il giudice rinvia anche d'ufficio l'udienza, fissa con ordinanza la data della nuova udienza e ne dispone la notificazione all'imputato.

3. Quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta alle successive udienze e ricorrono le condizioni previste dai commi 1 e 1-bis, il giudice rinvia anche d'ufficio l'udienza, fissa con ordinanza la data della nuova udienza e ne dispone la notificazione all'imputato.

identico

identico

4. In ogni caso la lettura dell'ordinanza che fissa la nuova udienza sostituisce la citazione e gli avvisi per tutti coloro che sono o devono considerarsi presenti.

identico

identico

identico

identico

identico

5. Il giudice provvede a norma del comma 1 nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l'assenza stessa è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato. Tale disposizione non si applica se l'imputato è assistito da due difensori e l'impedimento riguarda uno dei medesimi ovvero quando il difensore impedito ha designato un sostituto o quando l'imputato chiede che si proceda in assenza del difensore impedito.

identico

identico

identico

identico

identico

 

5-bis. L'esercizio dell'attività parlamentare costituisce legittimo impedimento a comparire.

 

 

 

5-bis. Quando il legittimo impedimento a comparire nell’udienza, motivato dallo svolgimento delle rispettive funzioni, è addotto da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di un Ministro o di un Sottosegretario di Stato che partecipano al giudizio in qualità di imputato o di difensore, il giudice rinvia il dibattimento ad altra udienza. Nella richiesta di rinvio per legittimo impedimento, il soggetto di cui al primo periodo indica i giorni, contenuti nell’arco di un mese, per i quali non sussiste impedimento. In mancanza di tale indicazione, il giudice dichiara l’insussistenza del legittimo impedimento. Il giudice dichiara altresì l’insussistenza del legittimo impedimento, qualora il soggetto di cui al primo periodo non sia presente all’udienza fissata in uno dei giorni previamente indicati ai sensi del secondo periodo. Con l’ordinanza che dispone il rinvio per legittimo impedimento, il giudice dichiara la sospensione del termine di prescrizione sino alla data di rinvio dell’udienza. L’ordinanza di rinvio è letta in udienza e vale quale notifica anche per le parti non presenti.


 

SIWEB

Giurisprudenza

 


Corte costituzionale

 


 

Sentenza 8 marzo-14 marzo 1984, n. 67

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma primo, 2 periodo, legge 7 maggio 1981, n. 180 (Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace) promosso con ordinanza emessa il 6 luglio 1982 dal Tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di Carnevale Salvatore, iscritta al n. 614 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53 del 1983. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 1983 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento penale a carico del militare Carnevale Salvatore, imputato del reato di cui all'art. 148, n. 2, c.p.m.p. (diserzione), il Tribunale militare di Torino ha sollevato d'ufficio " la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma primo, 2 periodo, della legge 7 maggio 1981, n. 180, in relazione all'art. 108, comma secondo, Cost.". Nell'ordinanza si lamenta che, pur se il menzionato articolo preveda la "costituzione dell'organo di autogoverno della magistratura militare", a garanzia dell'indipendenza della stessa, il legislatore non avesse ancora provveduto, alla data del giudizio de quo, a dare attuazione alla legge, nonostante che questa disponga espressamente un periodo transitorio della "durata di non più di un anno dalla data di (sua) entrata in vigore".

 

Considerato in diritto

 

La legge 7 maggio 1981, n. 180 ("Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace") é stata emanata nell'intento di dare attuazione al dettato costituzionale (art. 108, secondo comma), il quale testualmente prescrive che "la legge assicura la indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia". A tal fine il legislatore, assumendo come modello il Consiglio superiore della magistratura, ha previsto - con la legge e l'articolo testé indicati - l'istituzione di apposito organo collegiale, che ha appunto denominato "di autogoverno della magistratura militare", del quale peraltro ha omesso di stabilire la composizione. In via transitoria, tuttavia, per le nomine, trasferimenti e conferimenti di funzioni, da adottarsi in ogni caso con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della difesa, risulta disposto che, se "immediatamente necessari per l'attuazione " della legge, si provvedesse "sentito il Procuratore generale militare", e che successivamente - ma, comunque, "per la durata di non più di un anno dalla data di entrata in vigore della ...legge" - si provvedesse "sentito un comitato composto dal Procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione, dal Presidente e dal Procuratore generale e dai Presidenti delle sezioni distaccate della Corte militare di appello".

 

Ora, essendo ampiamente ed inutilmente trascorso ben più di un anno dall'entrata in vigore della legge in parola, non può dirsi che sia priva di ogni validità la doglianza del giudice a quo per tal fatto - indipendentemente dalla questione se trattasi di termine ordinatorio o perentorio - , specie considerando la formulazione particolarmente energica ("non più di un anno") ed il carattere di urgenza attribuito alla legge, di cui deve ritenersi che non senza ragione venne disposta l'entrata in vigore "il giorno successivo a quello della sua pubblicazione". E si deve conseguentemente affermare che il legislatore é tenuto, attuando l'art. 15 della legge n. 180 del 1981, ad assolvere senza ulteriori indugi l'impegno di creare l'organo che effettivamente assicuri l'indipendenza della giurisdizione militare. Non può tuttavia non rilevarsi che nella specie, oscillando la censura fra la richiesta di caducazione della disciplina transitoria (cui conseguirebbe la ripristinazione dell'anteriore e pieno assoggettamento all'esecutivo) e la richiesta di devoluzione alla competenza del Consiglio superiore della magistratura (che comporterebbe una modifica della composizione di tale organo, quale stabilita dalla stessa Costituzione), la questione va, allo stato, dichiarata inammissibile per l'evidente incertezza che dalla prospettazione deriva sul petitum.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, 2 periodo, della legge 7 maggio 1981, n. 180 ("modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace"), sollevata in riferimento all'art. 108, cpv., Cost. dal Tribunale militare di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 1984.

 

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE  -Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  -Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

 

Depositata in cancelleria il 14 marzo 1984.


 

Sentenza 28 ottobre-3 dicembre 1987, n. 431

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici

 

Dott. Francesco SAJA , Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, (Disposizioni per la formazione del bilancio, annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 1986 -), promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 21 novembre 1986 dal Pretore di Taranto nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Larato Giuseppe ed altri e l'I.N.P.S. ed altro, iscritta al n. 23 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12/prima serie speciale dell'anno 1987;

 

2) ordinanza emessa il 28 novembre 1986 dal Pretore di Campobasso nei procedimenti civili riuniti vertenti tra D'Errico Nicola ed altri e l'I.N.P.S., iscritta al n. 31 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12/prima serie speciale dell'anno 1987;

 

3) ordinanza emessa il 10 gennaio 1987 dal Pretore di Lecce nel procedimento civile vertente tra Perrone Francesco ed altri e l'I.N.P.S., iscritta al n. 63 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13/prima serie speciale dell'anno 1987;

 

4) ordinanza emessa il 22 gennaio 1987 dal Pretore di Macerata nel procedimento civile vertente tra Olivelli Oscar ed altri e il Ministero del Tesoro ed altro, iscritta al n. 115 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15/prima serie speciale dell'anno 1987;

 

5) n. 2 ordinanze emesse il 16 gennaio 1987 dal Pretore di Venezia nei procedimenti civili vertenti tra Mongarli Alberto ed altri e l'I.N.P.S. ed altro e tra Carraro Luciano ed altri e l'I.N.P.S., iscritte ai nn. 130 e 131 del registro ordinanze 1987 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18/prima serie speciale dell'anno 1987;

 

6) ordinanza emessa il 13 marzo 1987 dal Pretore di Trapani nel procedimento civile vertente tra Camassa Paolo ed altri e l'I.N.P.S., iscritta al n. 174 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22/prima serie speciale dell'anno 1987.

 

Visti gli atti di costituzione di Larato Giuseppe ed altri, di Tomassini Lucio, di Olivelli Oscar ed altri, di Biancon Claudio, di Carraro Luciano e dell'I.N.P.S., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

Udito nell'udienza pubblica del 13 ottobre 1987 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino;

 

Uditi gli avv.ti Giuseppe Larato e Salvatore Orestano per Larato Giuseppe ed altri, Giovanni Motzo e Alessandro Pace per Tomassini Lucio, Guido Bianchini e Ranieri Felici per Olivelli Oscar ed altri, Francesco Paolo Rossi e Mario Scorza per Biancon Claudio, Aldo Bartoli per l'I.N.P.S. e l'Avvocato dello Stato Luigi Siconolfi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza (n. 23/1987 R.O.) emessa il 21 novembre 1986 dal Pretore di Taranto, nei procedimenti riuniti vertenti tra Larato Giuseppe ed altri e I.N.P.S. ed altro é stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 31 n. 8 della legge 28 febbraio 1986 n. 41 nella parte in cui i contributi di malattia vengono determinati senza rapporto alla spesa sanitaria e con violazione del principio di proporzionalità rispetto alla capacità contributiva, come indicato dall'art. 53 della Costituzione.

 

Il Pretore rileva che ancorché alla imposizione di cui trattasi si attribuisca una connotazione di tipo social-solidaristica essa non può tuttavia sottrarsi al rispetto del principio costituzionale dettato, appunto, da tale articolo, secondo cui il concorso del cittadino alla spesa pubblica deve essere commisurato alla capacità contributiva del singolo: capacità contributiva che, sicuramente, non può essere desunta da elementi presuntivi.

 

L'inosservanza da parte della norma impugnata dei criteri di proporzionalità e progressività comporterebbe inoltre una ingiustificata disparità di trattamento fra i cittadini.

 

2. - Con ordinanza (n. 31/1987 R.O.) emessa il 28 novembre 1986 nei procedimenti civili riuniti promossi da D'Errico Nicola ed altri (tutti liberi professionisti) e l'I.N.P.S. il Pretore di Campobasso ha sollevato questione di legittimità costituzionale: 1) dell'art. 31 l. 28 febbraio 1986 n. 41 nella parte in cui ha introdotto e stabilito, ancorché in testo legislativo concernente la formazione del bilancio annuale dello Stato, il 'contributo dovuto, per le prestazioni del Servizio sanitario nazionale, dagli esercenti attività commerciali e loro rispettivi familiari coadiutori, dagli artigiani, dai liberi professionisti, dai lavoratori dipendenti, dai pensionati, dai coltivatori diretti, dai mezzadri, dai coloni e dai rispettivi concedenti, dai componenti attivi dei nuclei familiari degli stessi e da coloro che siano a tanto obbligati ai sensi dell'art. 63 legge 23 dicembre 1978, n. 833, e succ. modif., 'contributo avente sostanziale natura di imposizione tributaria, in contrasto con l'art. 81 Cost. ; 2) dell'art. 31, commi 8ø, 9ø, 12ø, 14ø e 15ø della legge 28 febbraio 1986, n. 41, nella parte in cui é previsto, come termine di raffronto per il calcolo del contributo dovuto, per le prestazioni del Servizio sanitario nazionale, dalle categorie di persone negli anzidetti commi specificati, il 'reddito complessivo ai fini IRPEF per l'anno precedente, anziché il 'reddito complessivo ai fini IRPEF per l'anno precedente, definitivamente accertato, in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.

 

Presupposto di entrambe le questioni prospettate é la dedotta natura fiscale del contributo di cui all'art. 31 l. n. 41 del 1986: la natura e la sostanza di un'incisione fiscale discenderebbero dal fatto che la misura percentuale di esso é ragguagliata sulla stessa entità presa di base per il calcolo della imposizione tributaria (reddito complessivo ai fini IRPEF).

 

La prima questione si fonda sul rilievo che, ai sensi della legge 5 agosto 1978 n. 468 (art. 11), la legge finanziaria n. 41 del 1986 (come tutte le precedenti) sia una legge di formazione del bilancio dello Stato, come tale non abilitata ex art. 81 Cost. ad introdurre nuove imposte.

 

Con la seconda questione si prospetta la lesione dei precetti di cui agli artt. 3 e 53 Cost. da parte dell'ottavo comma dell'art. 31 l. n. 41/1986 essendo stato preso come riferimento il reddito dichiarato (ai fini IRPEF per l'anno precedente) anziché quello definitivamente accertato. Tale riferimento costituirebbe entità incerta e potenzialmente mutevole, lasciata all'indiscriminata scelta dell'interessato e, come tale, fonte di ingiustificate sperequazioni fra cittadini con esborsi non proporzionali alle effettive capacità contributive di ciascuno.

 

3. - L'art. 31 l. n. 41 del 1986 é stato oggetto di censure di incostituzionalità pure da parte dei Pretori di Lecce (ord. n. 63/87 emessa il 10 gennaio 1987), Trapani (ord. n. 174/87 emessa il 13 marzo 1987) - che hanno impugnato in particolare i commi 8, 10 e 14 in riferimento agli artt. 3, 35 e 53 Cost. -, Venezia (ordd. nn. 130, 131/87 emesse il 16 gennaio 1987), che ha impugnato i commi 8, 9, 14 in riferimento ai parametri 3 e 53 Cost., e Macerata (ord. n. 115/8/7) in riferimento al solo art. 53 Cost.

 

I giudizi a quibus vertono tutti su ricorsi di liberi professionisti e (ord. n. 130/87) altri pubblici impiegati diretti ad ottenere l'accertamento dell'obbligo del versamento del contributo di malattia.

 

I giudici remittenti rilevano innanzitutto la natura di imposta del contributo in parola.

 

In particolare per il Pretore di Lecce solo tale natura tributaria darebbe spiegazione dell'innovazione introdotta dall'art. 31 che ha ancorato la base imponibile per la partecipazione contributiva non più al solo reddito da lavoro, ma al reddito complessivo da dichiararsi ai fini IRPEF. Innovazione questa irrazionale in un sistema basato ancora su di una sorta di assicurazione obbligatoria generalizzata (vedi Corte Cost. n. 167/1986).

 

Il Pretore di Venezia rileva ancora che nelle leggi finanziarie non si rinviene alcuna distinzione fra la spesa sanitaria coperta dalla contribuzione e quella non coperta mentre viene indicato il dato complessivo della spesa medesima: la mancanza di alcun riferimento alle entrate contributive escluderebbe una loro finalizzazione specifica diversa da quella delle entrate aventi natura di imposta.

 

Infine, secondo il Pretore di Macerata per la larghissima serie di interventi del Servizio sanitario nazionale, che vanno dalla prevenzione delle malattie e degli infortuni sui luoghi di lavoro fino alla salvaguardia della salubrità dell'ambiente, dall'igiene degli alimenti fino al controllo della produzione ed immissione in commercio dei prodotti farmaceutici, in difesa cioè di interessi appartenenti alla collettività indifferenziata dei residenti, si sarebbe verificato uno sfociamento della natura specifica e personale del rapporto tra ente erogatore e singolo assistito.

 

Globalmente dai giudici a quibus, affermata la natura fiscale del contributo di malattia, l'art. 31 l. 28 febbraio 1986 n. 41 si assume in contrasto con gli artt. 3, 35 e 53 Cost.:

 

a) nella parte in cui (ottavo comma) prevede che i percettori di redditi dominicali agrari, di fabbricati e di capitale siano obbligati al pagamento del contributo soltanto per la parte eccedente i 4 milioni, a differenza dei percettori di reddito da lavoro dipendente o autonomo obbligati per l'intero reddito;

 

b) nella parte in cui crea disparità di trattamento tra reddito dei lavoratori dipendenti pubblici e privati sottoposti ad aliquota del 10,95% di cui l'1,35% a loro carico (e con fiscalizzazione del 4% per i datori di lavoro) e redditi di artigiani, esercenti attività commerciali e liberi professionisti gravati da un'aliquota del 7,5%; nonché tra questi ultimi e quelli dei dipendenti degli enti previsti dall'art. 3, primo comma, lett. d, d.l. n. 663 del 1979 conv. in l. n. 33 del 1980 (es. sindacati e partiti politici) per i quali l'aliquota é stata ridotta per gli anni 1986 e 1987 di una percentuale rispettivamente pari al 4% e al 2%;

 

c) nella parte in cui, irrazionalmente e in violazione del principio della progressività, prevede l'esclusione dall'imposizione in relazione ai redditi superiori a 100 milioni e la riduzione della stessa dal 7,5% al 4% per i redditi tra 40 e 100 milioni;

 

d) nella parte in cui (decimo comma) prevede soltanto per i lavoratori autonomi un minimale di contribuzione ovvero impone comunque ai liberi professionisti e soltanto a questi il pagamento della somma annua di L. 648.000 a prescindere dall'effettivo espletamento dell'attività lavorativa e senza consentire in merito prova contraria.

 

4. - Nei giudizi di cui alle ordinanze nn. 23, 115 e 130/1987 si sono costituiti rispettivamente Larato Giuseppe ed altri, Olivelli Oscar ed altri e Biancon Claudio associandosi ai dubbi di incostituzionalità espressi dai relativi remittenti e insistendo per una dichiarazione di fondatezza delle sollevate questioni.

 

In tutti i giudizi (ad eccezione di quello di cui all'ord. 174/1987) si é costituito l'I.N.P.S. concludendo per l'inammissibilità e comunque per l'infondatezza delle questioni.

 

L'Istituto rileva come i Pretori, ritenendo di dover qualificare il contributo di malattia come un tributo in senso formale, avrebbero dovuto limitarsi a dichiarare la propria incompetenza per materia.

 

Inoltre i giudici remittenti avrebbero trascurato di considerare che la più gran parte del gettito é assicurata dai contributi derivanti dal lavoro dipendente, pacificamente acquisiti con il meccanismo assicurativo e non con quello che si asserisce tributario.

 

Il contributo in parola si differenzierebbe dalla imposta e dalla tassa avendo una destinazione specifica ed essendo pagato indipendentemente dall'utilizzazione del servizio.

 

Relativamente alla questione sollevata dal Pretore di Campobasso, secondo cui l'art. 31, ottavo comma, riferendosi al reddito dichiarato e non a quello accertato contrasterebbe con l'art. 3 Cost., l'I.N.P.S. deduce l'erroneità di tale interpretazione della norma giacché la legge non può che riferirsi al reddito reale e cioè, in caso di contestazione, a quello definitivamente accertato.

 

5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto in tutti i giudizi concludendo per l'infondatezza della questione.

 

In primo luogo viene richiamato il principio sancito dall'art. 2 Cost. (al quale la riforma sanitaria si ispirerebbe), secondo cui é richiesto ai cittadini l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, in funzione del riconoscimento dei diritti inviolabili.

 

Per l'Avvocatura con l'impugnato art. 31 non vi sarebbe più distinzione tra le varie categorie di assistiti ravvisandosi invece un diverso trattamento tra redditi di lavoro dipendente ed altri redditi: non già, quindi diversa contribuzione per le varie categorie di assistiti, ma più correttamente differenze tra redditi. Fra questi i giudici remittenti, nel confrontare il contributo dovuto dai liberi professionisti (7,5%) con quello dovuto dai lavoratori dipendenti (1,35%), avrebbero inoltre trascurato di considerare la globalità del contributo (pari al 10,95%) dovuto dai lavoratori dipendenti, aliquota questa che, anche se in parte a carico del datore di lavoro, certamente influisce, a parere dell'Avvocatura, sul costo del lavoro e in definitiva sulla retribuzione.

 

Non trascurabile ancora sarebbe la circostanza secondo cui il lavoratore dipendente subisce il prelievo all'atto stesso della maturazione del reddito, mediante ritenuta alla fonte, laddove il lavoratore autonomo corrisponde l'aliquota di propria pertinenza sul reddito dell'anno precedente, con conseguenti benefici economici rilevanti.

 

Quanto alla assunta natura fiscale del contributo, l'Avvocatura osserva che tale prestazione pecuniaria obbligatoria non é dovuta dalla generalità dei cittadini bensì dagli assistiti in genere, strettamente finalizzata oltretutto a contribuire, insieme con lo Stato, al finanziamento della spesa sanitaria. Ciò renderebbe arbitraria ogni illazione circa il venir meno del modello di tipo assicurativo nel campo dell'assistenza malattia.

 

In ogni caso, anche ad ammettere la natura di tributo del prelievo di cui all'art. 31, il rispetto dei principi sanciti dall'art. 53 Cost. andrebbe valutato non con riferimento ad ogni singola imposta ma piuttosto con riguardo all'intero sistema tributario.

 

Quanto al presunto contrasto della l. n. 41 del 1986, quale legge di approvazione del bilancio, con l'art. 81 Cost. (v. ord. n. 31/1987), viene osservato come il giudice remittente sia incorso in errore trattandosi in realtà di legge finanziaria ex art. 11 l. n. 468 del 1978, per la quale non valgono i limiti posti dal citato art. 81 Cost.

 

La censura secondo cui la norma impugnata farebbe riferimento al reddito dichiarato anziché a quello definitivamente accertato (v. sempre ord. n. 31/1987) sarebbe ancora frutto di erronea interpretazione non trovando sostegno in alcun dato normativo.

 

Ulteriori memorie sono state prodotte in prossimità dell'udienza con la conferma ed esplicazione di quanto già dedotto.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le ordinanze di rimessione hanno per oggetto questioni identiche: i giudizi relativi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

 

2. - La legge 28 febbraio 1986, n. 41 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1986) - così dispone in ordine ai contributi dovuti per le prestazioni del servizio sanitario nazionale:

 

a) nei confronti dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, la quota contributiva é fissata nella misura del 10,95% della retribuzione imponibile, con aliquota del 9,60% a carico dei datori di lavoro (5,60% per i soggetti contemplati nell'art. 3, lett. d del decreto-legge 30 dicembre 1979,n. 633) e 1,35% a carico dei lavoratori (art. 31, n. 1);

 

b) nell'esplicazione di lavoro autonomo degli artigiani, esercenti attività commerciali, liberi professionisti (e, a tal titolo, pure lavoratori dipendenti e pensionati) la quota é dovuta nella misura del 7,5% del reddito complessivo ai fini dell'IRPEF per l'anno precedente a quello cui il contributo si riferisce, ricomprendendovi anche i redditi dominicali ed agrari, di fabbricati e di capitale, per la parte eccedente i quattro milioni di lire (art. 31, n. 8);

 

c) a identica contribuzione sono assoggettati i coltivatori diretti, mezzadri, coloni e rispettivi concedenti, con una riduzione del 50 per cento per i redditi da aziende situate in zone svantaggiate (art. 31, n. 9);

 

d) l'onere annuo per i soggetti di cui ai punti b) e c) non può essere inferiore, comunque, rispettivamente a L. 648.000 e a L. 324.000 (art. 31, n. 10);

 

e) alla aliquota del 7,5% restano assoggettati, inoltre, i cittadini non altrimenti considerati, cosiddetti non mutuati per non essere stati in origine soggetti ad iscrizione ad alcun istituto mutualistico (art. 31, n. 11).

 

I prelievi sovraelencati si applicano sulla quota degli imponibili complessivi assoggettabili a contribuzione non superiore a L. 40 milioni annue, mentre per importo eccedente, e fino al limite di L. 100 milioni, é dovuto un contributo di solidarietà nella misura del 4 per cento, ripartibile - quanto ai lavoratori dipendenti - per il 3,80 nei confronti del datore di lavoro e lo 0,20 per il lavoratore (art. 31: nn. 13, 14, 15).

 

3. - La normativa riportata é sospettata di illegittimità costituzionale dai giudici a quibus: ordinanze del Pretore di Taranto (n. 23), del Pretore di Campobasso (n. 31), del Pretore di Lecce (n. 63), del Pretore di Macerata (n. 115), del Pretore di Venezia (nn. 130 e 131), del Pretore di Trapani (n. 174), tutte del 1987.

 

Si assumono violati i criteri di cui all'art. 53 Cost. poiché, a parte il riferimento non al reddito accertato bensì a quello (presuntivo) dell'anno precedente, contrasterebbe con essi l'esenzione per i redditi dominicali, di fabbricati e da capitale al di sotto dei quattro milioni; resterebbe, poi, ingiustificata la minore aliquota oltre i quaranta milioni di reddito e addirittura l'esenzione oltre i cento.

 

Sicuramente privo di legittimità sarebbe l'obbligo di contribuzione prescritta, non inferiore, comunque, ad annue L. 648.000; il che avrebbe comportato, altresì, potendosi trattare di reddito non prodotto, la violazione dell'art. 35, nelle garanzie di tutela del lavoro.

 

Nelle norme sussisterebbe, inoltre, disomogeneità, ex art. 3 Cost., per disparità di trattamento tra lavoro autonomo e dipendente, nonché diffusa incoerenza nei sensi già descritti.

 

Per il Pretore di Campobasso (ord. n. 31) la norma avrebbe violato, infine, anche l'art. 81 Cost.: la legge attiene alla formazione del bilancio sicché imponendo il tributo de quo, avrebbe infranto l'esplicito divieto del disposto anzidetto (terzo comma).

 

4.1. - L'ordinanza del Pretore di Taranto (n. 23) non reca cenno alcuno della fattispecie di causa, sicché essa, mancando i termini della rilevanza, va dichiarata inammissibile.

 

4.2. - Una inammissibilità delle questioni é prospettata in limine dalla difesa dell'I.N.P.S.: i Pretori rimettenti, configurando l'onere contributivo quale obbligazione di natura tributaria, sarebbero stati incompetenti, per materia, a conoscerne.

 

L'eccezione non ha pregio, in quanto le questioni s'incentrano, per loro cospicua parte, sulla verifica, positiva o negativa che possa risultare, della natura, appunto, del contributo, della quale si dubita.

 

5.1. - Il Pretore di Campobasso (ord. n. 31) ritiene che la normativa avrebbe violato, s'é detto, l'art. 81 e i divieti ivi contenuti. Ma la censura é infondata.

 

Le disposizioni di cui trattasi, indipendentemente dai caratteri della contribuzione (di ciò si tratterà in appresso: infra, n. 5.2) concernono - quale parte della legge finanziaria per il 1986 - le disposizioni per la formazione del bilancio, emanate giusta l'art. 11 della Novella sulla contabilità generale (legge n. 468 del 5 agosto 1978) e non l'approvazione del bilancio stesso. É ben noto, al proposito, che la legge finanziaria e quella corrispondente di bilancio derivano da un comune processo decisionale, mantenendo - tuttavia - una differente natura con limiti diversi, proprio per effetto dell'art. 81 Cost. (sentenza n. 35 del 1985).

 

5.2. - Come detto (supra, n. 3) le ordinanze ravvisano contrasto della normativa con l'art. 53 Cost.

 

Ma per ciò potersi conseguenzialmente dimostrare, andrebbe in apice riconosciuto al contributo un connotato tributario certo.

 

La Corte ha avuto, tuttavia, già modo di considerare che la fiscalizzazione degli oneri, enunciata dall'art. 53, quarto comma lett. f della legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale e base di partenza d'ogni ricostruzione relativa, rappresenta solo un'aspirazione tendenziale di fondo, nel processo di rifondazione sanitaria per i fini di tutela della salute, graduale nella sua attuazione (sent. n. 167 del 1986).

 

Se ciò ebbe a riconoscersi in ordine al complesso di disposizioni anteriori, l'art. 31 legge n. 41, sopravvenuto ora, non sembra, da solo, aver modificato tutta la sistematica cui si ricollega e nella quale permangono, tuttora, pregnanti connotazioni di carattere assicurativo.

 

Infatti, premessa la gradualità, conclamata appunto dall'art. 53 legge n. 833, di prestazioni (da unificare) e di correlate contribuzioni (da adeguare), nel quadro dei provvedimenti di prelievo via via seguiti nel tempo (ne reca ampio cenno la precedente sentenza n. 167) l'art. 31 risulta aver disposto solo in ordine al meccanismo di prelievo riferendolo al reddito complessivo, desumibile, ovviamente proprio perché complessivo, dai corrispondenti calcoli ai fini dell'IRPEF: non si rinviene alcunché, dunque, di mutato in radice, sino a questo momento, nelle caratterizzazioni originarie della contribuzione riferita, ora, al reddito complessivo, ma correlata sempre - per lo meno negli auspici - (così l'ordine del giorno della V Commissione permanente del Senato, accolto dal Governo nella seduta del 14 febbraio 1986) al costo del servizio.

 

Aggiungasi che riferimenti di tal sorta al reddito complessivo non sono nuovi nell'ordinamento, ai fini di derivarne conseguenze a riguardo di benefici diversi (pensioni, assegni familiari ecc.). Per rimanere in tema più consono e specifico di incidenza sulla spesa sanitaria vanno ricordate le quote fisse (TICKET) da versarsi per le prestazioni e le relative esenzioni dall'esborso, costituente un evidente prelievo contributivo (stessa legge finanziaria n. 41, art. 28).

 

Conclusivamente, il riferimento alla onnicomprensività del reddito e alle procedure relative, non é di per sé sufficiente per deflettere da quanto già considerato in passato sul punto: la questione va dichiarata non fondata senza che occorra scendere a ulteriori verifiche in tale direzione.

 

5.3. - I giudici a quibus, ad eccezione del Pretore di Macerata, riportano identiche censure all'articolato (supra, n. 3), nella prospettazione, ancora, di un contrasto con l'art. 3 Cost.

 

Motivo di disarmonia sarebbe fornito, intanto, da un riferimento ad entità incerta e mutevole, quale il reddito dell'anno precedente in luogo di quanto definitivamente accertato: ma le argomentazioni non trovano alcun favorevole riscontro nel sistema IRPEF, poiché la soglia ultima dei prelievi trova finalizzazione in prosieguo negli accertamenti definitivi, migliorativi o peggiorativi che possano poi risultare.

 

Quanto, piuttosto, ad una denunciata disparità di trattamento ingenerata dalle norme specifiche, più che tendersi a un tertium comparationis, favorevole ai ricorrenti, viene prospettata, in realtà, una disarticolazione normativa, attraverso cui inferire, in buona sostanza, che le norme adottate sarebbero prive della univoca omogeneità di ripartizione degli oneri.

 

Traspare, in altri termini, dalle ordinanze una complessa censura, analogamente a quanto già considerato dalla Corte nella precedente sentenza n. 167: incoerenza di fondo, in concreto incidente negativamente sulla interezza del sistema, nel frammentario atteggiarsi delle disposizioni che difetterebbero, così, di organica razionalità.

 

Orbene in punto, sempre con la sentenza n. 167, ha considerato la Corte che il sistema trova base di avvio nel disposto, già ricordato, dell'art. 53 della legge n. 833: per effetto di questo, il piano sanitario nazionale é tenuto a stabilire le norme generali erogatrici delle prestazioni (coevamente le fasi graduali di unificazione delle stesse), correlate necessariamente al corrispondente adeguamento delle contribuzioni assicurative; normativa riprodotta, ancora, per le modalità e i tempi, nel successivo art. 57.

 

Sennonché a tutt’oggi risultano sì parzialmente identificati taluni dati positivi sul versante della spesa (l. 23 ottobre 1985, n. 595 e successive integrazioni e modifiche), ma non é stato ancora concretato sul piano positivo il completo processo di allineamento sovrariferito, superandosi la fase transitoria di trapasso dal chiuso sistema mutualistico, rivolto a categorie determinate, all'altro, aperto e generale, indirizzato a tutti i cittadini sulla base di un'equa ripartizione degli oneri.

 

Invero, il mutamento in assoluto di cui é cenno si radica nelle premesse non più di una mera eliminazione della malattia, bensì di tutela del bene - intangibile - della salute: ottica assolutamente diversa questa, rispetto al passato, che viene a impingere nei fondamentali diritti di ognuno, imponendone altresì i correlati doveri poiché vi resta coinvolto l'interesse della collettività.

 

La messe di questa imponente trasformazione costituzionalmente protetta (art. 32) e degli adempimenti conseguenti giustificava la gradualità nelle risoluzioni relative, onde consentirsi il fruire delle necessarie esperienze per i fini di definitive sicure scelte.

 

Ma il frutto di tali esperienze, nel processo di espansione dai ristretti campi mutualistici all'area solidaristica globale, deve avere séguito, ora, in un rapporto adeguativo certo, omogeneo e concreto tra prestazioni e contribuzioni, come imposto dalla riforma. Né possono sottacersi le evidenti implicazioni anche pratiche poiché, nel tempo, le iniziali ragioni di transitorietà rischiano di rivestire forme e connotati di una vischiosità normativa a connotazione meramente storica, dimentica di una realtà che coinvolge, si vuol qui ribadire, nei diritti e inscindibili doveri per la fruibilità del servizio sanitario nazionale, la collettività intera.

 

La Corte avverte, in tal senso, le preoccupazioni e le perplessità che la normativa impugnata desta per una caratterizzazione ancor oggi di incertezza e di disarmonia: ritiene, tuttavia, di escludere, allo stato, la normativa medesima da una declaratoria di illegittimità costituzionale, in quanto il sistema pur frammentizzato risulti - nei suoi pregressi collegamenti l'ultimo e definitivo anello di congiunzione per la attuazione della disciplina (cfr. sentenza n. 89 del 1984). La giustificazione del contingente non può, peraltro, portare a consentire interventi legislativi di tal sorta, non ispirati a chiara, puntuale certezza nella sistemazione delle prestazioni e dei relativi oneri.

 

Per i valori costituzionali, qui tracciati, al sacrificio contributivo, che é di tutti, deve corrispondere un servizio sicuro a tutti assicurato. Esso va prospettato e realizzato efficiente nella sue tecniche, sano nella sua amministrazione improntata a correttezza ed economicità, senza dispendi inconferenti.

 

Nei delineati sensi la questione va dichiarata non fondata.

 

6. - I Pretori di Lecce e di Trapani (ordd. nn. 63 e 174) ravvisano illegittimità del comma 10 dell'art. 31, là dove per gli onerati dal prelievo é prescritta una contribuzione comunque non inferiore (indipendentemente, cioè, dall'effettivo reddito) a L. 648.000 annue.

 

La Corte é chiamata a decidere se la disposizione contrasti con il principio d'uguaglianza (art. 3) (quanto al successivo art. 35, pur evocato, ne sono noti i contorni d'ispirazione generale).

 

Il disposto sembra riposare, col presumere in via assoluta una realtà di reddito eventualmente minore o addirittura inesistente, su di una situazione sovente fittizia, se si ha riguardo particolarmente a quei soggetti - giovani agli inizi di attività professionale - pressoché privi di cespiti.

 

In ogni caso, in un meccanismo, modellato sul reddito complessivo denunziato ai fini dell'IRPEF, quanto descritto può portare a prelievi difformi, per uno stesso soggetto, a seconda del reddito effettivamente prodotto (per l'obbligo tributario) e del reddito presunto (per la contribuzione sanitaria). Ne risulta palmare e incoerente la disorganica enunciazione.

 

La questione va accolta per la parte in cui la norma non consente - a fronte della forza probante, imposta in astratto dalla norma - la prova contraria.

 

Per effetto conseguenziale ( ex art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87) l'identico provvedimento va adottato a riguardo della contribuzione (pure contenuta nel comma 10 dell'art. 31) stabilita comunque in non meno di L. 324.000 annue per i coltivatori diretti, mezzadri e coloni e rispettivi concedenti, nonché per ciascun componente attivo del rispettivo nucleo familiare.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi:

 

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 31, n. 8 legge 28 febbraio 1986, n. 41 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1986) - sollevata dal Pretore di Taranto, in relazione all'art. 53 Cost., con l'ordinanza n. 23, in epigrafe;

 

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 31 legge predetta, sollevata dal Pretore di Campobasso, in relazione all'art. 81 Cost., con l'ordinanza n. 31, in epigrafe;

 

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 31 nn. 8, 9, 11, 12, 13, 14, 15 legge predetta, sollevata, in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., con le ordinanze dei Pretori di Campobasso (n. 31), Lecce (n. 63), Macerata (n. 115), Venezia (n. 130 e n. 131), Trapani (n. 174), in epigrafe;

 

4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, n. 10 della legge 28 febbraio 1986, n. 41 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1986) - nella parte in cui, per il contributo dovuto dai soggetti di cui al precedente comma 8, fissato comunque in somma annua non inferiore a L. 648.000, non consente prova contraria, ai fini del contributo, del minor reddito effettivo, determinato ai sensi del precedente comma 8;

 

5) dichiara, per effetto dell'art. 27 l. 11 marzo 1983, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, n. 10 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, specificata al punto 4 del presente dispositivo, nella parte in cui, per il contributo dovuto dai soggetti di cui al precedente comma 9, fissato comunque in somma annua non inferiore a L. 324.000 non consente prova contraria, ai fini del contributo, del minor reddito effettivo, determinato ai sensi del precedente comma 8.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 ottobre 1987.

 

Il Presidente: SAJA

Il Redattore: BORZELLINO

 

Depositata in cancelleria il 3 dicembre 1987

Il direttore della cancelleria: MINELLI

 


 

Sentenza 26 aprile-30 aprile 1999, n. 148

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

- Dott.  Renato GRANATA     Presidente

- Prof.  Giuliano           VASSALLI     Giudice

- Prof.  Francesco        GUIZZI                       "

- Prof.  Cesare MIRABELLI               "

- Prof. Fernando          SANTOSUOSSO                  "

- Avv. Massimo          VARI              "

- Dott.  Cesare RUPERTO                  "

- Dott.  Riccardo          CHIEPPA                   "

- Prof.  Gustavo           ZAGREBELSKY                    "

- Prof.  Valerio ONIDA                       "

- Prof.  Carlo   MEZZANOTTE                     "

- Avv.  Fernanda         CONTRI                     "

- Prof.  Piero Alberto   CAPOTOSTI              "

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanze emesse il 19 febbraio 1997 dal Giudice istruttore del Tribunale di Lecce, il 24 gennaio 1997 dalla Corte d'appello di Torino, il 16 gennaio 1997 dalla Corte d'appello di Reggio Calabria, il 25 febbraio 1997 dal Tribunale di Latina, il 21 marzo 1997 dalla Corte d'appello di Cagliari, il 27 febbraio 1997 (n. 4 ordinanze) dal Tribunale di Lamezia Terme, il 26 maggio 1997 dal Giudice istruttore del Tribunale di Torino, il 26 gennaio 1997 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il 27 febbraio 1997 dal Tribunale di Potenza, il 22 aprile 1997 (n. 2 ordinanze) dalla Corte d'appello di Firenze, il 21 ottobre 1997 e l'11 aprile 1997 dal Tribunale di Bari, il 20 gennaio 1998 dal Tribunale di Lagonegro, il 13 febbraio 1998 dal Tribunale di Potenza, il 19 febbraio 1998 dal Tribunale di Udine, rispettivamente iscritte ai nn. 189, 191, 292, 414, 417, da 423 a 426, 571, 573, 735, 788, 789 e 889 del registro ordinanze 1997 e ai nn. 154, 225, 408 e 414 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16, 17, 23, 28, 38, 44 e 47, prima serie speciale, dell'anno 1997 e nn. 2, 12, 14 e 24, prima serie speciale, dell'anno 1998.

 

Visti gli atti di costituzione di Martelli Lorenzo ed altra, Cauli Giovannino e Siciliani Teresa nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 13 ottobre 1998 il Giudice relatore Riccardo Chieppa;

 

uditi gli avvocati Ercole Romano per Martelli Lorenzo ed altra, Giorgio Piras jr. per Cauli Giovannino, Costantino Ventura per Siciliani Teresa e l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Il Giudice istruttore del Tribunale di Lecce, nel corso di un procedimento civile avente ad oggetto il risarcimento dei danni da occupazione appropriativa, con ordinanza del 19 febbraio 1997 (R.O. n. 189 del 1997), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) - recte: dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 - che testualmente prevede che "in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1 (quelli cioé relativi alla indennità di esproprio), con esclusione della riduzione del 40%. In tal caso, l’importo del risarcimento é altresì aumentato del 10%. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato".

 

La norma impugnata, osserva il rimettente, ha avuto origine dalla sentenza della Corte costituzionale n. 369 del 1996, con la quale é stata dichiarata la illegittimità costituzionale del comma 6 dell’art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, come sostituito dall’art. 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, nella parte in cui applicava al risarcimento del danno da occupazione appropriativa i criteri di determinazione stabiliti per l’indennizzo in caso di espropriazione per pubblica utilità. Con la predetta sentenza si é ritenuta, infatti, abnorme la riduzione della riparazione in favore del proprietario, in caso di c.d. "accessione invertita", fino alla coincidenza con l’indennità di esproprio, pur considerando astrattamente possibile, in tale ipotesi, la quantificazione del danno risarcibile in misura inferiore a quello reale, ai fini di un "equilibrato componimento" tra l’interesse della pubblica amministrazione alla conservazione dell’opera di pubblica utilità e al contenimento della relativa spesa e quello del privato alla riparazione per l’illecito subito.

 

Ma, ad avviso del giudice a quo, siffatto "equilibrato componimento" non deve comprendere anche l’interesse della p.a. a contenere la spesa per il risarcimento, nè le esigenze di finanza pubblica. Ciò posto, il rimettente ravvisa il contrasto della norma censurata con l’art. 42, terzo comma, della Costituzione, rilevando che l’indennizzo di cui alla predetta norma costituzionale, previsto in caso di espropriazione, presuppone una procedura legittima, mentre il risarcimento del danno non potrebbe che essere integrale in quanto correlato ad un’attività illecita.

 

La norma de qua recherebbe, inoltre, vulnus all’art. 3 della Costituzione, riconoscendo in linea di principio al privato il diritto all’integrale risarcimento, salvo che per le occupazioni illegittime "intervenute" anteriormente alla data del 30 settembre 1996, locuzione tra l’altro ambigua, potendosi considerare come "intervenute" sia le occupazioni materialmente eseguite attraverso l’apprensione del bene, entro il 30 settembre 1996, quanto le sole occupazioni divenute illegittime entro la stessa data per scadenza del termine. In ogni caso, la entità del risarcimento previsto dalla norma censurata sarebbe eccessivamente diminuita rispetto al risarcimento ordinario e maggiorata in misura esigua rispetto all’indennità di esproprio. Ed infatti, la esclusione della possibilità di riduzione del 40% non avrebbe creato una situazione di favore per il danneggiato, ma solo parificato la situazione della occupazione appropriativa a quella della cessione volontaria del bene di cui all’art. 5-bis cpv. del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, evitando un trattamento addirittura deteriore per chi sia sottoposto alla prima. D’altra parte, nella ipotesi in esame, ancorando la liquidazione del danno al criterio utilizzato per le indennità di esproprio, si finirebbe per negare l’applicazione del valore di mercato del bene oggetto dell’occupazione, sia pure ridotto attraverso un’applicazione aggiornata della legge per il risanamento di Napoli, in quanto tale criterio funge da parametro per la liquidazione dell’indennità solo nei casi di edificabilità legale ed effettiva, i quali non costituirebbero la maggioranza, mentre nelle altre ipotesi, ai sensi dell’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, si fa riferimento al valore agricolo.

 

Irrisoria, sarebbe, poi, la maggiorazione del 10%, la quale, mediata aritmeticamente col reddito dominicale rivalutato, ammonta al 5% circa del valore reale del bene.

 

La norma impugnata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 28 della Costituzione, risolvendosi in un sostanziale esonero da responsabilità contabile dei pubblici funzionari ai quali non potrebbe addebitarsi a titolo di colpa grave - apparendo eccezionali le ipotesi di dolo - la causazione di un danno aggiuntivo alla p.a. in termini reali del 5% circa, bilanciato dal soddisfacimento dell’interesse alla conservazione dell’opera pubblica.

 

2.- Analoghe questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate, sia pure in riferimento a parametri parzialmente differenti, sulla base di argomentazioni non dissimili da quelle già riferite. Alcune di esse introducono, inoltre, peculiari rilievi.

 

2.1.- In particolare, la Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 24 gennaio 1997 (R.O. n. 191 del 1997), ha impugnato il citato comma 7-bis, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione, sottolineando la quasi totale identità tra tale norma e quella dichiarata costituzionalmente illegittima con la citata sentenza n. 369 del 1996, rispetto alla quale la prima prevede solo una differenza contenuta nella misura del 10% in più della indennità dovuta in conseguenza di esproprio per pubblica utilità, per l’ipotesi, radicalmente diversa, di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, misura ritenuta dal giudice a quo del tutto inadeguata a tutelare il diritto di proprietà.

 

2.2.- Alle predette ordinanze del Giudice istruttore di Lecce e della Corte d’appello di Torino si é richiamata la Corte d’appello di Firenze, che, con due ordinanze emesse il 22 aprile 1997 (R.O. n. 788 e n. 789 del 1997), ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale del comma 7-bis citato in riferimento agli artt. 3, primo comma, 42, secondo comma, 28 e 97 della Costituzione.

 

2.3.- Alla denunciata violazione dei predetti parametri di cui agli artt. 42, secondo comma, e 3, primo comma, della Costituzione, anche la Corte d’appello di Reggio Calabria, che ha sollevato la questione con ordinanza del 16 gennaio 1997 (R.O. n. 292 del 1997), ha aggiunto il rilievo di incostituzionalità in riferimento all’art. 97, primo comma, della Costituzione, per violazione dei principi del buon andamento e della legalità dell’azione amministrativa.

 

Il giudice a quo, ravvisa, inoltre, nella norma in questione, un profilo di irragionevolezza intrinseca, con i conseguenti riflessi sul piano della violazione dell’art. 3 della Costituzione, rappresentato dall’assunzione di un limite temporale, il 30 settembre 1996, alla operatività della disciplina di cui si tratta, che determinerebbe, altresì, una disparità di trattamento rispetto alle occupazioni illegittime successive a tale data, le quali, in mancanza di una nuova disciplina, sarebbero soggette all’integrale ristoro. In tal modo, tra l’altro, il legislatore dimostrerebbe l’intento di regolare in termini diversi gli effetti economici dell’accessione invertita a seconda delle disponibilità di bilancio alla fine di ciascun esercizio finanziario, ciò che, se può avere una sua logica in relazione alla indennità di esproprio, sarebbe, invece, irrazionale in una prospettiva meramente risarcitoria, tanto più ove si consideri che la procedura espropriativa é assistita da specifiche garanzie per il privato, ovviamente carenti nel caso di occupazione acquisitiva.

 

La Corte d’appello di Reggio Calabria ravvisa, ancora, nella norma de qua un profilo di irragionevolezza estrinseca per la disparità di trattamento cui essa darebbe luogo rispetto alla disciplina delle occupazioni illegittime destinate al soddisfacimento di esigenze abitative, di cui all’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458, in relazione alle quali la tutela risarcitoria é garantita integralmente.

 

Infine, la Corte rimettente segnala la disparità di trattamento della fattispecie in esame rispetto a quella di occupazione ab initio illegittima da parte della p.a. in quanto non assistita neppure dalla dichiarazione di pubblica utilità, o a quella di occupazione inizialmente presidiata da dichiarazione di pubblica utilità, poi venuta meno perchè illegittima, ipotesi ritenuta estranea alla nuova previsione normativa, e nella quale il privato potrebbe legittimamente aspirare all’integrale risarcimento del danno.

 

2.4.- Il Tribunale di Latina, con ordinanza del 25 febbraio 1997 (R.O. n. 414 del 1997), ha ritenuto la non manifesta infondatezza, in riferimento agli artt. 3 e 42 della Costituzione, della questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione sottolineando, in particolare, che l’intervento normativo di cui si tratta non appare, come richiesto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 369 del 1996, ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione dovuta in caso di occupazione illegittima della p.a., in quanto la liquidazione del danno effettuata con attribuzione del solo valore mediato del suolo aumentato del 10% sarebbe l’effetto di una preponderante valutazione del concorso dell’interesse pubblico, già tenuto presente nella determinazione dell’effetto acquisitivo della proprietà e, pertanto, meritevole solo di una ridotta considerazione in sede di risarcimento del danno.

 

La norma impugnata, inoltre, osserva il giudice a quo, avendo vigore solo per situazioni già determinatesi alla data del 30 settembre 1996 - termine, peraltro, che appare al rimettente incomprensibile in quanto non correlato neppure alla data di emanazione della legge - si atteggerebbe come una tipica sanatoria finanziaria.

 

2.5. - Numerosi parametri ulteriori sono stati invocati dalla Corte di appello di Cagliari nel sottoporre a scrutinio di costituzionalità, con ordinanza del 21 marzo 1997 (R.O. n. 417 del 1997), la norma di cui si tratta.

 

Ed infatti, essa ha ritenuto violati, oltre agli artt. 3 (invocato anche sotto il profilo della disparità di trattamento tra le situazioni non definite con sentenza passata in giudicato, cui si applica la nuova disciplina, e quelle ormai non più contestabili, che sfuggono alla stessa), 28, 42 e 97 della Costituzione, per le ragioni già evidenziate, l’art. 10, primo comma, della Costituzione, in quanto la grave limitazione alla risarcibilità delle occupazioni illegittime si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, e con gli artt. 7, 8 e 17 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che sanciscono il diritto di ogni persona al rispetto della sua proprietà.

 

E, se é vero che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 369 del 1996, ha affermato che la regola generale della integrale riparazione del danno non gode di copertura costituzionale, il collegio a quo ritiene che la riduzione della entità del risarcimento del danno da fatto illecito costituisca una palese violazione della effettività della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24, primo comma, della Costituzione, a differenza della limitazione di responsabilità in campo contrattuale, che va a costituire parte integrante della disciplina legale del rapporto contrattuale.

 

La Corte rimettente denuncia ancora il contrasto con l’art. 53 della Costituzione, atteso che la limitazione del risarcimento al 55% del valore venale del bene finisce per porre una notevole parte del costo dell’opera pubblica a carico del proprietario dell’area sulla quale l’opera deve essere costruita, in violazione del principio costituzionale della commisurazione del concorso di ciascuno alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva.

 

La norma esaminata violerebbe, inoltre, gli artt. 71, primo comma, e 72, primo comma, della Costituzione, essendo inserita in una legge che raccoglie in soli tre articoli un coacervo eterogeneo di norme, con il risultato di evitare la presentazione di emendamenti, anche attraverso il sistema della fiducia, all’epoca posta su ognuno dei tre articoli, in tal modo impedendo che ciascun parlamentare potesse manifestare la propria opinione in ognuno degli articoli.

 

Infine, si sospetta il vulnus all’art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione, in quanto la norma impugnata limiterebbe la pienezza della tutela giurisdizionale nei confronti di atti della p.a.

 

2.6.- Anche il Tribunale di Lamezia Terme, con quattro ordinanze emesse in data 27 febbraio 1997 (R.O. nn. 423-426 del 1997) ha invocato i parametri di cui agli 3, 28, 42, secondo e terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, adducendo argomentazioni analoghe a quelle già riferite.

 

2.7.- Le medesime censure riferite agli artt. 3, primo comma, 42 secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione sono state proposte dal Tribunale di Potenza nei confronti dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992) e dal Giudice istruttore del Tribunale di Torino (R.O. n. 571 del 1997), da quest’ultimo con la esclusione, per quanto riguarda gli artt. 3 e 97, della limitazione al primo comma.

 

In particolare, il Tribunale di Potenza ha posto in evidenza (R.O. n. 735 del 1997 e n. 408 del 1998) la disparità di trattamento che la norma impugnata determinerebbe tra le ipotesi di espropriazione legittima dei suoli agricoli o non edificabili - rispetto ai quali l’indennizzo viene commisurato, ai sensi del comma 4 dell’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto n. 359 del 1992, al valore agricolo medio, e, quindi, secondo un criterio prossimo a quello venale - ed i casi di occupazione illegittima degli stessi, in cui l’ammontare del risarcimento dovuto sarebbe quantificato ad un livello inferiore al valore venale del bene.

 

2.8.- Il Tribunale di Bari, con due ordinanze emesse rispettivamente l’11 aprile e il 21 ottobre 1997 (R.O. nn. 154 e 889 del 1997), ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del comma 7-bis, in riferimento ai soli artt. 3, primo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione, come il Tribunale di Udine (ordinanza del 19 febbraio 1998, R.O. n. 414 del 1998) ed il Tribunale di Lagonegro (che ha impugnato l'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996), con la esclusione da parte di quest’ultimo, per quanto riguarda l’art. 3 della Costituzione, della limitazione al primo comma (ordinanza del 20 gennaio 1998, R.O. n. 225 del 1998).

 

2.9. - Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere (R.O. n. 573 del 1998) ha impugnato la norma di cui all'art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333 del 1992, in riferimento agli artt. 3 e 42, terzo comma, della Costituzione, sottolineando, in particolare, il rischio di ricorso ad una forma anomala di espropriazione svincolata dall’osservanza di garanzie procedimentali.

 

3.- In tutti i giudizi introdotti con le ordinanze alle quali si é fatto sopra riferimento, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che in alcuni casi (R.O. n. 571 e n. 573 del 1997) ha concluso per la inammissibilità delle questioni per l’assenza di ogni scrutinio sulla natura edificatoria dei suoli occupati. Nel giudizio introdotto con ordinanza n. 292 del 1997, l’inammissibilità é fatta valere sotto il profilo della inapplicabilità alla fattispecie, relativa a danni da occupazione appropriativa, di terreni privati trasformati da un Iacp per la costruzione di alloggi popolari, della norma denunciata, in quanto la regula iuris del caso concreto va individuata nella legge n. 458 del 1988.

 

Nel giudizio introdotto con la ordinanza n. 191 l’autorità intervenuta ha concluso per la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza a causa della non esplicitata correlazione tra l’accessione invertita e l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità verificatosi nella fattispecie.

 

Nel merito, l’Avvocatura ha concluso per la infondatezza delle questioni sollevate. Al riguardo, la predetta autorità ha ritenuto apprezzabile e congrua la differenza, stabilita dalla norma impugnata, della entità del ristoro patrimoniale previsto in caso di accessione invertita - tra l’altro non avulso dalla stima di mercato del bene - rispetto alla ipotesi di indennità di espropriazione, ponendo l’accento anche sulla destinazione delle opere realizzate al soddisfacimento di interessi pubblici.

 

Quanto alla individuazione della data del 30 settembre 1996, coincidente con quella di presentazione alle Camere del disegno di legge collegato alla finanziaria per il 1997, essa sarebbe frutto di una scelta legislativa non arbitraria, la quale troverebbe, infatti, giustificazione nella esigenza di non sconvolgere le linee generali della manovra finanziaria, a quella data già delineata per il risanamento del deficit pubblico cui lo Stato si era impegnato nei confronti degli altri Paesi dell’Unione Europea.

 

L’Avvocatura ha infine sottolineato che la conservata qualificazione di illecito alla occupazione acquisitiva dà luogo comunque alla personale responsabilità del funzionario, anche se limitata.

 

4.- Nei giudizi introdotti con le ordinanze R.O. nn. 191, 417 e 889 del 1997, si sono costituite le parti private, che hanno concluso per l’accoglimento delle questioni sollevate, con argomentazioni adesive a quelle contenute nelle citate ordinanze.

 

5.- Nell’imminenza della data fissata per la udienza pubblica, ciascuna delle dette parti ha depositato una memoria, con la quale ribadisce le proprie conclusioni in ordine alla illegittimità costituzionale della normativa impugnata.

 

In particolare, la parte privata nel giudizio che ha dato luogo alla ordinanza R.O. n. 191 ha sottolineato la distinzione tra il caso di occupazioni illegittime, pur se originate da causa di pubblica utilità, e quelle in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno retroattivamente per effetto di annullamento giurisdizionale (come nel caso di specie). In tale seconda ipotesi, si verificherebbe un ripristino del diritto di proprietà nel regime giuridico suo proprio, e non vi sarebbe spazio per un regime solo compensativo, e non risarcitorio, del danno.

 

Nella memoria della parte costituita nel giudizio introdotto con ordinanza R.O. n. 417 del 1997, si fa richiamo a tutti i parametri già invocati, e, con particolare riferimento alla censura per violazione dell’art. 72 della Costituzione, si osserva che il quarto comma di tale articolo impone la procedura normale (non seguita per la emanazione della normativa impugnata), per i disegni di legge di delegazione legislativa, e che la legge n. 662 del 1996 contiene appunto numerose deleghe al Governo.

 

La parte privata nel giudizio introdotto con la ordinanza R.O. n. 889 del 1997, ha posto l’accento, in particolare, sulla non ragionevolezza della riduzione della consistenza economica del diritto risarcitorio operata dalla legge n. 662 del 1996, oltre che della limitazione di essa alle sole occupazioni illegittime intervenute anteriormente al 30 settembre 1996.

 

Anche l’Avvocatura generale dello Stato ha presentato una memoria, con la quale ha ribadito le conclusioni già rassegnate, insistendo, altresì, per la inammissibilità delle questioni di cui alle ordinanze R.O. nn. 191, 571 e 573 del 1997; la prima perchè non inscrivibile in una fattispecie di occupazione appropriativa, atteso l’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità; le altre due, in quanto la n. 571 del 1997 non contiene neppure un accenno alla natura dei terreni, e la n. 573 fa riferimento all’occupazione in un terreno destinato a verde pubblico attrezzato o verde di rispetto, ciò che farebbe propendere per la natura non edificatoria dell’area.

 

Considerato in diritto

 

1.- Le questioni sottoposte all’esame della Corte riguardano l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), il quale prevede che "in caso di occupazione illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1" (quella, cioé, prevista per la espropriazione dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40%) con esclusione della riduzione del 40 per cento, che "in tal caso l’importo del risarcimento é altresì aumentato del 10 per cento", e che tale disposizione si applica anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato. Si assume la illegittimità costituzionale della disposizione denunciata per violazione:

 

a) dell’art. 3 della Costituzione (invocato, in alcune ordinanze, limitatamente al primo comma, in altre nel suo complesso), sotto i diversi profili:

 

a.1) del deteriore trattamento riservato a chi subisce danno da occupazione appropriativa, che non ottiene l’integrale ristoro dello stesso, rispetto a tutti gli altri soggetti ai quali viene arrecato danno da fatto illecito altrui e che, ai sensi dell’art. 2043 cod.civ., hanno diritto al risarcimento integrale del danno stesso;

 

a.2) della sostanziale identità di trattamento di situazioni diversificate, quali quella del soggetto sottoposto ad una legittima procedura espropriativa, e di quello illegittimamente privato della proprietà del suolo in virtù di c.d. occupazione acquisitiva da parte della p.a.: identità sostanziale di trattamento che risulta dalla circostanza che, nel secondo caso, l’indennità viene aumentata del solo 10 per cento, mentre la esclusione della decurtazione del 40 per cento, decurtazione prevista nei casi di espropriazione, viene in tali ipotesi ottenuta ugualmente attraverso la cessione volontaria dei beni, che non é possibile in caso di occupazione acquisitiva;

 

a.3) della irragionevole disparità di trattamento tra i proprietari assoggettati alla occupazione illegittima entro il 30 settembre 1996, cui si applicano, per il risarcimento del danno, criteri sostanzialmente uguali a quelli previsti in caso di espropriazione, e quelli che subiscono tale occupazione in epoca successiva a quella data, i quali hanno diritto all’integrale risarcimento; nonchè tra coloro che non hanno visto ancora definiti i relativi rapporti al momento della entrata in vigore della disciplina di cui si tratta, che é ad essi applicabile, ed i titolari di situazioni ormai definite con sentenza passata in giudicato, che sfuggono alla disciplina stessa;

 

a.4) della irragionevole disparità di trattamento cui dà luogo la disciplina censurata rispetto a quella prevista per le occupazioni appropriative destinate al soddisfacimento di esigenze abitative, di cui all’art. 3 della legge n. 458 del 1988 (come ampliato nella sua sfera oggettiva dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale n. 486 del 1991), che prevede l’integrale risarcimento del danno subito (rilievo svolto dalla sola Corte d’appello di Reggio Calabria con ordinanza R.O. n. 292 del 1977);

 

a.5) della irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi di occupazione ab initio illegittima, in quanto non assistita da dichiarazione di pubblica utilità ovvero presidiata da dichiarazione poi venuta meno perchè illegittima, ipotesi estranee alla previsione normativa censurata, e nelle quali, pertanto, il privato potrebbe legittimamente aspirare all’integrale risarcimento del danno (rilievo svolto dalla sola Corte d’appello di Reggio Calabria con l’ordinanza sopra citata);

 

a.6) della irragionevolezza della scelta del legislatore, che avrebbe ridotto in misura eccessiva, nelle ipotesi di occupazione illegittima della p.a., il risarcimento rispetto al ristoro integrale del danno, ed in misura esigua rispetto all’indennità di esproprio, per una preponderante valutazione del concorso dell’interesse pubblico, già considerato ampiamente ai fini della determinazione dell’effetto estintivo-acquisitivo della proprietà, e che, pertanto, in sede di liquidazione del danno, avrebbe dovuto essere oggetto di una minore valutazione;

 

a.7) della disparità di trattamento che la norma determinerebbe tra le ipotesi di espropriazione legittima dei suoli agricoli o non edificabili - rispetto ai quali l’indennizzo viene commisurato, ai sensi del comma 4 dell’art. 5-bis del d.l. n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, al valore agricolo medio, e, quindi, secondo un criterio prossimo a quello del valore venale - ed i casi di occupazione illegittima degli stessi, in cui l’ammontare del risarcimento dovuto sarebbe quantificato ad un livello inferiore al valore venale del bene (rilievo svolto dal Tribunale di Potenza con le ordinanze nn. 735 del 1997 e 408 del 1998).

 

b) dell’art. 42 della Costituzione (invocato da alcuni giudici limitatamente al secondo ovvero al terzo comma, da altri nel suo complesso), in quanto la esigua misura riconosciuta per il risarcimento non costituirebbe adeguata tutela del diritto di proprietà, ed inoltre perchè l’indennizzo previsto dalla Costituzione in caso di esproprio presuppone una procedura legittima laddove un comportamento illegittimo sarebbe sempre fonte dell’obbligazione di ripristinare lo status quo ante, direttamente o per equivalente; infine, in quanto la norma impugnata creerebbe il rischio di ricorso ad una forma anomala di espropriazione, svincolata dall’osservanza di garanzie procedurali (rilievo del Tribunale di S. Maria Capua Vetere);

 

c) dell’art. 10, primo comma, della Costituzione, per il contrasto con gli artt. 7, 8 e 17, secondo comma, della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e con l’art. 13 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, che sanciscono il diritto di ogni persona al rispetto dei suoi beni (censura proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con ord. R.O. n. 417 del 1977);

 

d) dell’art. 24, primo comma, della Costituzione, per il contrasto con il principio della effettività della tutela giurisdizionale, che non sarebbe garantito dalla riduzione della entità del risarcimento da fatto illecito consistente nella occupazione illegittima di un suolo ad opera della p.a. (censura proposta dalla sola Corte d’appello di Cagliari, con l’ordinanza sopra indicata);

 

e) dell’art. 28 della Costituzione, per il sostanziale esonero da responsabilità per il pubblico funzionario in caso di occupazione illegittima, non potendo la causazione di un danno aggiuntivo limitato per la p.a., tra l’altro bilanciata dal soddisfacimento dell’interesse alla conservazione dell’opera pubblica, essergli addebitata a titolo di colpa grave e configurandosi i casi di dolo come ipotesi eccezionali (censura proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con ord. R.O. n. 417 del 1997, dalla Corte d’appello di Firenze con ordinanze R.O. nn. 788 e 789 del 1997, e dal Tribunale di Lamezia Terme con le ordinanze R.O. nn. 423-426 del 1997);

 

f) dell’art. 53 della Costituzione, in quanto porrebbe una notevole parte del costo dell’opera pubblica realizzata a seguito di occupazione illegittima a carico del proprietario dell’area occupata, in contrasto con il principio secondo il quale il concorso di ciascuno alla sfera pubblica é commisurato alla sua capacità contributiva (censura proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con l’ordinanza sopra menzionata);

 

g) degli artt. 71, primo comma, e 72, primo comma, della Costituzione (invocati dalla Corte d’appello di Cagliari) in quanto la norma in questione, essendo inserita in una legge che raccoglie in soli tre articoli (ciascuno dei quali consistente in una lunghissima serie di commi) disposizioni del tutto eterogenee, sarebbe stata approvata, avuto anche riguardo alla circostanza che sulla legge di cui si tratta venne posta all’epoca la questione di fiducia, senza che ciascun parlamentare potesse liberamente manifestare, su ognuno degli articoli, la propria opinione e volontà;

 

h) dell’art. 97 della Costituzione (invocato da alcuni giudici con riferimento al solo primo comma, da altri nel suo complesso), in quanto la limitazione del risarcimento del danno arrecato dalla p.a. contrasterebbe con le finalità di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (censura proposta dalla Corte di appello di Reggio Calabria con ord. R.O. n. 292 del 1997, da quella di Cagliari con ord. R.O. n. 417 del 1997, da quella di Firenze con le ordinanze R.O. nn. 788 e 789 del 1997, dal Tribunale di Lamezia Terme con le ordinanze R.O. nn. 423 - 426 del 1997, da quello di Potenza con le ordinanze R.O. nn. 735 del 1997 e 408 del 1998, dal Giudice istruttore del Tribunale di Torino con ordinanza R.O. n. 571 del 1997);

 

i) dell’art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione, per la limitazione della tutela giurisdizione nei confronti degli atti della p.a. (censura proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con ordinanza R.O. n. 417 del 1997).

 

2.- I giudizi devono essere riuniti in quanto riguardano la medesima disposizione di legge e propongono questioni in buona parte coincidenti o connesse per cui si impone una trattazione unitaria delle censure dedotte.

 

3.- Preliminarmente, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato.

 

Al riguardo, va osservato che quelle proposte in relazione alle ordinanze R.O. nn. 292, 571 e 573 del 1997, per mancanza di rilevanza, sono prive di fondamento, in quanto le ordinanze di rimessione contengono una motivazione tutt’altro che implausibile sulla rilevanza delle questioni, che si impernia sulla considerazione che i giudici a quibus debbono fare applicazione della norma denunciata, di cui é evidente l’incidenza, in quanto il relativo giudizio riguarda il risarcimento e la liquidazione del danno per occupazione appropriativa.

 

Ciò é sufficiente per respingere le eccezioni anzidette, non potendosi procedere in questa sede ad un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul giudizio di rilevanza espresso dall’ordinanza di rimessione in modo, come appena chiarito, non implausibile (v. per tutte, sentenza n. 286 del 1997), e con motivazione tutt’altro che carente (v. ordinanza n. 62 del 1997).

 

E’ invece fondata l’eccezione di inammissibilità proposta sempre dall’Avvocatura generale dello Stato in riferimento all’ordinanza R.O. n. 191 del 1997 sotto il profilo che la fattispecie sarebbe palesemente non inscrivibile tra le occupazioni appropriative, atteso il pacifico intervenuto annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità. Infatti - secondo un indirizzo giurisprudenziale di legittimità (Cass., sez. I, n. 6515 del 16 luglio 1997; n. 7998) - le norme sul risarcimento in caso di occupazione appropriativa si applicano alle sole occupazioni illegittime dei suoli per causa di pubblica utilità, per cui in mancanza di valida dichiarazione di pubblica utilità (cui viene equiparata la dichiarazione annullata perchè illegittima) si é al di fuori delle ipotesi contemplate per il risarcimento dalla norma denunciata. La questione é, pertanto, manifestamente inammissibile sulla base degli stessi elementi contenuti nella ordinanza di rimessione.

 

4.- Passando all'esame del merito delle questioni sollevate nelle altre ordinanze, giova premettere che con sentenza n. 369 del 1996 questa Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale del comma 6 dell’art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, come sostituito dall’art. 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui applica al "risarcimento del danno" i criteri di determinazione stabiliti per "il prezzo, l’entità dell’indenizzo".

 

Il legislatore, con la norma denunciata, é intervenuto modificando il precedente criterio applicato alle occupazioni acquisitive ed in particolare ha escluso, in caso di occupazioni illegittime dei suoli per causa di pubblica utilità, la decurtazione del 40 per cento prevista per l’indennità di esproprio, aumentando inoltre l’importo del risarcimento del 10 per cento, e con previsione di applicabilità alle occupazioni illegittime di suoli intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, anche in relazione ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato.

 

5.- Le questioni proposte sono prive di fondamento per una serie di ordini di considerazioni.

 

Innanzitutto la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale (sentenze n. 369 del 1996; n. 132 del 1985).

 

In casi eccezionali il legislatore può ritenere equa e conveniente una limitazione al risarcimento del danno: nel caso delle occupazioni appropriative "sussistono in astratto gli estremi giustificativi di un intervento normativo ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione dovuta dalla pubblica amministrazione al proprietario dell’immobile che sia venuto ad essere così incorporato nell’opera pubblica" (sentenza n. 369 del 1996).

 

L’eccezionalità del caso appare giustificata nella fattispecie soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunciata, che rimane inserita in un testo normativo con le caratteristiche, da un lato, della dichiarata temporaneità, collegata alla emanazione di una nuova disciplina organica per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, dall’altro, della finalità egualmente temporanea e di emergenza, rivolta a regolare situazioni passate.

 

6.- Alla stregua dei criteri riconfermati dalla citata sentenza n. 369 del 1996, deve ritenersi ragionevole la riduzione imposta dalla norma denunciata, essendosi realizzato un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco, con l’eliminazione della ingiustificata coincidenza della entità dell'indennizzo per l’illecito della pubblica amministrazione con quello relativo al caso di legittima procedura ablatoria.

 

La valutazione dell’incremento (non irrisorio, nè meramente apparente) a favore del privato danneggiato, risultante nella norma denunciata - nei termini sottolineati - rispetto alla previsione largamente riduttiva della precedente norma colpita da dichiarazione di illegittimità costituzionale, vale ad escludere quella irragionevolezza ritenuta nella precedente formulazione normativa, e fondata essenzialmente sulla predetta coincidenza (ora eliminata con apprezzabile differenziazione) di indennità in caso di illecito e di procedura legittima dell’amministrazione.

 

Ciò soprattutto assume un significato, come sopra evidenziato, in correlazione alla natura e al carattere eccezionale e temporaneo della disposizione denunciata.

 

Nè la limitazione temporale della operatività del regime risarcitorio in questione alle occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità intervenute anteriormente al 30 settembre 1996 - limitazione contenuta nell'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 - può ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza e con quello di uguaglianza, ove si consideri la coincidenza di detta data con quella di presentazione in Parlamento del disegno di legge collegato alla finanziaria per il 1997 (dal quale sarebbe scaturita la citata legge n. 662 del 1996), e la esigenza, che se ne inferisce, di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica, già predisposta, in vista - come sottolineato dall'Avvocatura generale dello Stato - degli impegni assunti in sede comunitaria.

 

Nemmeno può condividersi il rilievo in ordine alla disparità di trattamento cui darebbe luogo la disposta applicazione del regime risarcitorio di cui si tratta anche ai giudizi pendenti. Al riguardo, la Corte ha ripetutamente affermato che il legislatore può, salvo il limite previsto in materia penale dall'art. 25 della Costituzione, nell'introdurre una nuova disciplina, prevederne la efficacia retroattiva, anche ove questa incida sfavorevolmente su posizioni di diritto soggettivo perfetto, purchè non risultino violati specifici canoni costituzionali, primo fra i quali quello della ragionevolezza (v., tra le altre, sentenze nn. 283 e 39 del 1993). Nella fattispecie, non confligge con tale principio l'attribuzione di carattere retroattivo al criterio risarcitorio previsto per l'occupazione acquisitiva dalla norma impugnata, non potendo costituire limite invalicabile della discrezionalità legislativa l'aspettativa dei titolari delle aree occupate a vedersi liquidato il danno secondo un criterio più favorevole di quello ragionevolmente adottato dal legislatore nell'attuale momento storico (v. sentenza n. 283 del 1993); ciò in special modo quando si tratti di normativa diretta a sostituire una disciplina dichiarata incostituzionale ed a regolare i rapporti pregressi in aderenza ai principi enunciati dalla Corte.

 

Quanto alla lamentata disparità di trattamento rispetto ad altri casi relativi a suoli agricoli o ad occupazioni destinate al soddisfacimento di esigenze abitative, é sufficiente rilevare che sotto il profilo costituzionale non é preclusa la possibilità di diversi regimi espropriativi e di calcolo dell'indennizzo in relazione alle differenti categorie di beni espropriati e alle diverse finalità dell'intervento pubblico, che può esigere un diverso bilanciamento dei contrapposti interessi pubblici e privati.

 

7.- Le osservazioni che precedono danno ragione della infondatezza delle censure sollevate in riferimento all'art. 3 della Costituzione nelle diverse prospettazioni sopra riportate, e all'art. 42 della Costituzione, (rispetto al quale la denunciata violazione dell'art. 10 della Costituzione nulla aggiunge).

 

8.- Deve escludersi, poi, che si possa profilare un contrasto con l’art. 53 della Costituzione in quanto il richiamo a detto precetto costituzionale risulta inconferente, poichè alla determinazione dell’indennizzo anche nel caso di occupazione acquisitiva non può riconoscersi alcun connotato tributario, per cui resta estraneo il principio della capacità contributiva (cfr. ordinanza n. 395 del 1996).

 

9.- Quanto alla asserita violazione degli articoli 71, primo comma, e 72, primo comma, della Costituzione, va rilevato che la censura nulla aggiunge ai profili già decisi nel senso dell'infondatezza dalla sentenza n. 391 del 1995.

 

10.- Deve, altresì, essere esclusa la pertinenza del richiamo agli artt. 24 e 113 della Costituzione essendo estranea la norma a profili di tutela giurisdizionale, per la quale non sussiste alcuna limitazione o restrizione rispetto ai generali mezzi di ricorso.

 

11.- Egualmente deve essere escluso che dalla norma denunciata possano derivare esoneri o limitazioni di responsabilità per i pubblici funzionari, i quali continueranno a rispondere secondo le regole ordinarie per i danni che abbiano arrecato alla pubblica amministrazione con il loro comportamento negligente che abbia determinato l’illegittimità della procedura espropriativa, danno che non si esaurisce solo nelle somme maggiori che l’amministrazione é tenuta a corrispondere per gli indennizzi, ma anche per i ritardi nel compimento dell’opera pubblica e per l’aggravio di lavoro che il contenzioso arreca quasi sempre alla pubblica amministrazione. Del resto la vastità del fenomeno delle occupazioni acquisitive e la abnorme frequenza di mancata conclusione regolare delle procedure espropriative in alcune zone e regioni deve indurre gli organi titolari delle azioni di responsabilità, nelle diverse sedi, a verificare la sussistenza di ipotesi di dolo.

 

Ciò induce a ritenere infondati, oltre ai profili relativi all’art. 28 della Costituzione, anche quelli riferiti all'art. 97 della Costituzione, in quanto non sono certamente l’entità dell’indennizzo, o la responsabilità conseguente, ad incidere sul buon andamento dell’amministrazione. Questo non deriva, se non in misura marginale, dall'affermazione di responsabilità patrimoniale più o meno estesa a carico dei funzionari, ma piuttosto dai sistemi di controlli sulla legalità dell’azione dei singoli organi, dall’esercizio dei poteri disciplinari di fronte alla colpevole negligenza nel condurre le procedure di espropriazione e nell’esercizio dei poteri-doveri di denuncia e di rapporto rispetto a comportamenti a carattere doloso, profili che nulla hanno in comune con la norma denunciata.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevate in riferimento agli artt. 42, terzo comma, 3 e 28 della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale di Lecce; agli artt. 3, primo comma, 42, secondo comma, 28 e 97 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Firenze; agli artt. 42, secondo comma, 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Reggio Calabria; agli artt. 3 e 42 della Costituzione, dal Tribunale di Latina; agli artt. 3, 28, 42, 97, 10, primo comma, 24, primo comma, 53, 71, primo comma, 72, primo comma, 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Cagliari; agli artt. 3, 28, 42, secondo e terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Lamezia Terme; agli artt. 3, primo comma, 42, secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Potenza; agli artt. 3, 42, secondo comma, e 97 della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale di Torino; agli artt. 3, primo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione, dai Tribunali di Bari e Udine; agli art. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Lagonegro; agli artt. 3 e 42, terzo comma, della Costituzione dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con le ordinanze indicate in epigrafe;

 

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del predetto art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 aprile 1999.

 

Renato GRANATA, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30 aprile 1999.

 


 

Sentenza 20 gennaio-4 febbraio 2000, n. 24

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

- Prof. Giuliano VASSALLI Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI  Giudice

- Prof. Cesare MIRABELLI  "

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO  "

- Avv.  Massimo VARI  "

- Dott. Cesare RUPERTO  "

- Dott. Riccardo CHIEPPA  "

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY  "

- Prof. Valerio ONIDA  "

- Prof. Carlo MEZZANOTTE  "

- Avv. Fernanda CONTRI  "

- Prof. Guido NEPPI MODONA  "

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI  "

- Prof. Annibale MARINI "

 

ha pronunciato la seguente  

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 25 aprile 1998 dal Tribunale di Mistretta nel procedimento civile vertente tra Bono Rosario e il Comune di Tusa, iscritta al n. 486 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1998.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 13 ottobre 1999 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di un procedimento civile avente ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni da c.d. accessione invertita, il Tribunale di Mistretta, con ordinanza del 25 aprile 1998 (R.O. n. 486 del 1998), ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 938 cod. civ. (in realtà, tertium comparationis) e 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nella parte in cui, nel disciplinare gli effetti della occupazione illegittima da parte della pubblica amministrazione, prevede in favore del soggetto privato del suolo di sua proprietà un risarcimento di entità pressoché pari al valore venale dimezzato del bene, e, perciò "manifestamente sperequato" rispetto a quello disciplinato dal predetto art. 938 cod. civ. che, nei rapporti tra privati, riconosce al proprietario sacrificato, in una situazione analoga, il diritto alla corresponsione di una somma pari al doppio del valore del suolo occupato, oltre al risarcimento del danno.

 

Il Tribunale rimettente osserva che il diritto vivente, al fine di giustificare l’istituto dell’accessione invertita in favore della p.a., ha rinvenuto nell’ordinamento un principio generale in base al quale regola per la composizione del conflitto tra costruttore e proprietario del fondo è l’attribuzione della proprietà sia del suolo che della costruzione al soggetto portatore dell’interesse ritenuto prevalente, secondo una valutazione di ordine economico-sociale correlata al livello di sviluppo della società civile. Il fondamento positivo del citato principio generale viene ravvisato nell’art. 938 cod. civ., che ammette l’inversione della ordinaria regola dell’accessione, che privilegia, invece, il proprietario del fondo. Peraltro, mentre nell’ipotesi, prevista dalla predetta norma codicistica, di rapporto tra costruttore privato e proprietario del fondo, le conseguenze economiche a carico del primo sono quelle della corresponsione del doppio del valore del suolo occupato e del risarcimento del danno, ingiustificatamente discriminatoria nei confronti del proprietario del fondo occupato da un soggetto pubblico costruttore di un’opera di pubblica utilità sarebbe la previsione di cui alla norma impugnata, che pone a carico della p.a. l’obbligo di corrispondere una somma pari alla indennità di esproprio (senza l’abbattimento del quaranta per cento), maggiorata del 10 per cento, equivalente, cioè, a circa la metà del valore venale del fondo occupato (circa un quarto, rileva il Collegio, della somma dovuta dal suo omologo costruttore privato).

 

Né la circostanza dell’avvenuta dichiarazione di pubblica utilità dell’opera di cui si tratta costituirebbe elemento idoneo a giustificare la rilevata disparità di trattamento, in quanto, ad avviso del Tribunale rimettente, solo la ritualità del procedimento ablatorio attualizzerebbe la funzione sociale della proprietà, legittimandone il sacrificio a condizioni non necessariamente corrispondenti al controvalore del bene ablato, purché eque e tali da non rendere irrisorio il ristoro del pregiudizio subito dal proprietario.

 

2.- Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione, rimarcando le differenze esistenti tra le due vicende acquisitive poste a confronto dal Collegio rimettente. Ed infatti, si osserva nella memoria dell’Avvocatura, ai sensi dell’art. 938 cod. civ., la proprietà della porzione occupata del suolo si acquista in capo al costruttore di buona fede solo per effetto di una pronuncia giudiziale, mentre, nella elaborazione giurisprudenziale della figura della occupazione acquisitiva, estinzione della proprietà e corrispondente acquisto del suolo in capo alla p.a. sono effetto immediato della trasformazione fisica ed irreversibile del fondo. Del resto, differente è la natura degli interessi in conflitto nei due casi: entrambi privati nella ipotesi dell’art. 938 cod. civ., individuale e pubblico - e, quindi, anche del proprietario spogliato - nella occupazione acquisitiva.

 

Considerato in diritto

 

1.- La questione di legittimità costituzionale, sottoposta in via incidentale all'esame della Corte, riguarda l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui, nel disciplinare gli effetti della c.d. accessione invertita, prevede la corresponsione in favore del soggetto privato della proprietà del suolo ad opera della p.a. per effetto della costruzione sullo stesso di un’opera di pubblica utilità, di una somma corrispondente alla indennità di esproprio (senza abbattimento del 40%), maggiorata del 10%, pressoché pari al valore venale dimezzato del bene.

 

La questione è proposta dall’ordinanza di remissione sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Costituzione per la irragionevole discriminazione rispetto alla previsione di cui all’art. 938 cod. civ., che, con riferimento alla analoga situazione del proprietario del fondo occupato da un costruttore privato, dispone la corresponsione in favore del primo di una somma pari al doppio del valore della superficie occupata, oltre al risarcimento del danno.

 

2.- La questione è priva di fondamento, in quanto il termine di comparazione, invocato per sostenere la irragionevole discriminazione e sperequazione, non è suscettibile di essere utilizzato, trattandosi di ipotesi di accessione completamente diverse sia sotto il profilo dei soggetti che dei presupposti di applicabilità e della natura delle norme.

 

Infatti, l’art. 938 cod. civ. regola l'occupazione di porzione di fondo contiguo, quale modo di acquisto della proprietà, nel rapporto tra soggetti privati in posizione paritaria, caratterizzata dalla natura privata altresì dell’edificio realizzato (in parte su suolo del costruttore ed in parte sul fondo attiguo), ed insieme dalla posizione di buona fede (ignoranza di costruire sul suolo altrui) dello stesso costruttore, di fronte alla inerzia (mancanza di opposizione entro un termine a pena di decadenza) del proprietario per un periodo di tre mesi dall’inizio della costruzione. L’attribuzione della proprietà al costruttore avviene non automaticamente, per il semplice fatto della esistenza dei requisiti materiali previsti dalla legge, ma ope iudicis, sulla base di una domanda e per effetto di una decisione del giudice civile non assolutamente vincolata, ma secondo una valutazione delle circostanze dello sconfinamento e dell’opportunità del trasferimento secondo una ponderazione degli interessi (ambedue privati) in gioco.

 

Invece, elemento essenziale, nella ipotesi contemplata dalla norma denunciata, è la occupazione di suoli per causa di pubblica utilità, rimanendo irrilevanti sia la circostanza dell'avvenuto sconfinamento in buona fede nel fondo altrui, sia l'esistenza di una contigua proprietà preesistente del costruttore. Si tratta, quindi, di attività della pubblica amministrazione (o di un suo concessionario) destinata alla realizzazione dell’opera pubblica, che, con la irreversibile trasformazione del suolo occupato, determina l'acquisto della proprietà da parte della stessa amministrazione, senza necessità di intervento del giudice civile.

 

In tale ipotesi non si ha una mera apprensione senza titolo da parte di un soggetto privato di un bene parimenti privato, ma una occupazione, ancorché illegittima, della pubblica amministrazione, sostenuta da valida dichiarazione di pubblica utilità, di modo che in mancanza di tale dichiarazione (cui viene equiparata la dichiarazione annullata) si è al di fuori dell’ambito della norma denunciata, secondo un indirizzo giurisprudenziale di legittimità.

 

La stessa norma inoltre, a differenza di quella assunta come tertium comparationis, avente carattere permanente, risulta inserita in un testo di dichiarata temporaneità, collegata alla emanazione di una nuova disciplina organica per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, ed ha finalità egualmente temporanee e di emergenza rivolte a regolare situazioni passate (occupazioni anteriori al 30 settembre 1996: sentenza n. 148 del 1999).

 

Infine, si è in presenza di una diversa finalità dell’intervento, nella specie pubblico, con contrapposizione tra interessi pubblici relativi all’opera di pubblica utilità e privati dei proprietari del suolo, che può giustificare un diverso bilanciamento degli stessi interessi (sentenza n. 148 del 1999), mentre la disciplina dell’art. 938 cod. civ. è destinata ad operare nell’ambito esclusivo di rapporti tra privati.

 

3.- Pertanto, la norma invocata come termine di comparazione (art. 938 cod. civ.) risulta palesemente disomogenea rispetto a quella denunciata, trattandosi di previsioni del tutto diversificate - come sopra sottolineato - per di più con finalità profondamente distinte ed autonome, che nell’art. 938 cod. civ. si riconducono alla tutela in via permanente, attraverso una valutazione e una sentenza del giudice civile, del generale interesse allo sviluppo e mantenimento delle costruzioni di privati, nonché alla protezione della buona fede del costruttore privato di fronte al comportamento inerte del proprietario del fondo, comunque garantito sul piano economico. Invece, lo scopo della norma denunciata è quello di assicurare sempre, nella scelta del legislatore, in presenza di determinati presupposti, una prevalente tutela del pubblico interesse alla conservazione dell’opera pubblica realizzata, con una previsione risarcitoria ragionevolmente limitata, rivolta a regolare situazioni passate.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Mistretta con la ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 gennaio 2000.

 

Giuliano VASSALLI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 4 febbraio 2000.


 

 

Sentenza 4 luglio-6 luglio 2001, n. 225

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Cesare RUPERTO Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO Giudice

- Massimo VARI ”

- Riccardo CHIEPPA ”

- Gustavo ZAGREBELSKY ”

- Valerio ONIDA ”

- Carlo MEZZANOTTE ”

- Fernanda CONTRI ”

- Guido NEPPI MODONA ”

- Piero Alberto CAPOTOSTI ”

- Annibale MARINI ”

- Franco BILE ”

- Giovanni Maria FLICK ”

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle ordinanze emesse dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano il 17 e 20 settembre 1999, in due procedimenti penali a carico dell’on. Cesare Previti, e delle successive ordinanze (in particolare di quelle adottate nelle udienze del 22 settembre 1999, 5 ottobre 1999 e 6 ottobre 1999), in quanto non considerano assoluto impedimento il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea, promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 10 maggio 2000, depositato in cancelleria il 17 successivo ed iscritto al n. 21 del registro conflitti 2000.

 

 Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica nonché l’atto di intervento dell’on. Cesare Previti;

 

 udito nell’udienza pubblica del 20 febbraio 2001 il Giudice relatore Valerio Onida;

 

 uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Camera dei deputati, Stefano Grassi per il Senato della Repubblica e Claudio Chiola per l’on. Cesare Previti.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ricorso depositato il 19 novembre 1999, la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, in ragione e per l’annullamento delle ordinanze in data 17 settembre 1999 (nel procedimento n. 3384/98 R.G. GIP), 20 settembre 1999 (nel procedimento n. 5634/97 R.G. GIP), nonché di tutti gli atti consequenziali – impugnati “anche in quanto autonomamente viziati” – e in particolare delle conformi decisioni di rigetto di richieste di rinvio avanzate dalla difesa dell’on. Previti adottate nelle udienze del 22 settembre 1999, 5 ottobre 1999 e 6 ottobre 1999 e di tutte le altre decisioni di eguale contenuto che eventualmente nelle more siano state adottate, chiedendo che la Corte statuisca che non spetta all’autorità giudiziaria non considerare assoluto impedimento alla partecipazione del deputato alle udienze penali il diritto-dovere di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea.

Nelle menzionate ordinanze, il Giudice, dopo aver preso atto dei numerosi rinvii dell’udienza preliminare dovuti (anche) all’impedimento a comparire dell’imputato on. Previti per impegni parlamentari, aveva osservato che la quotidianità dei lavori parlamentari impediva il sollecito svolgimento dell’udienza e, quindi, l’effettività della giurisdizione. Sul rilievo che l’attività parlamentare e quella giurisdizionale hanno pari valore costituzionale (ai sensi dell’art. 67 della Costituzione per la prima e degli artt. 68, 101, 102, 104 e 112 della Costituzione per la seconda), il Giudice, dovendo fare applicazione degli artt. 420, 485 e 486 cod. proc. pen., nel riconoscere che la “assoluta impossibilità a comparire” non ricorre solo quando vi sia un “impedimento materiale superiore a qualsiasi sforzo umano o l’impossibilità oggettiva”, ma anche quando vi siano norme che identifichino una “priorità di impegni” nei cui confronti l’esercizio della funzione giurisdizionale risulti soccombente, aveva ritenuto, da un lato, che non era possibile distinguere tra i diversi impegni parlamentari per discriminare quelli prevalenti e quelli subvalenti rispetto all’esigenza di celebrare il processo e, dall’altro, che gli impegni parlamentari invocati nella specie non costituivano un impedimento assoluto a comparire in udienza, non integrando una priorità tale da rendere soccombente il principio dell’indefettibilità e dell’effettività della giurisdizione.

La difesa della Camera osserva che, attraverso le ordinanze impugnate, si sarebbe affermato un univoco indirizzo in tema di rilevanza dell’impedimento parlamentare nel procedimento penale, che risulterebbe lesivo delle attribuzioni costituzionali della Camera stessa.

In particolare la Camera – affermata la propria legittimazione attiva al ricorso e quella passiva del Giudice per le indagini preliminari in funzione di giudice dell’udienza preliminare – motiva la sussistenza dell’interesse a ricorrere in relazione alle affermazioni delle ordinanze, le quali negherebbero che l’esigenza di partecipazione alle attività parlamentari, pur in presenza di votazioni in assemblea, giustifichi un rinvio delle udienze, e con ciò determinerebbero il completo sacrificio di uno dei valori costituzionali in campo.

Sull’interesse a ricorrere non inciderebbe il fatto che, nonostante le decisioni di rigetto delle richieste di rinvio, l’on. Previti abbia preso comunque parte alle votazioni. Si tratterebbe difatti di determinazione strettamente personale ed estrinseca del deputato – e quindi di un soggetto estraneo al rapporto tra gli organi in conflitto –, che ha sacrificato il proprio diritto di difesa al diritto-dovere di partecipazione ai lavori parlamentari.

Nel merito, la ricorrente Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i suoi componenti, impedimento assoluto a comparire in udienza non già la necessità di partecipare a qualsivoglia attività parlamentare, ma solo la necessità di partecipare a votazioni in assemblea, per le quali non sussisterebbe alcuna possibilità di delega né di spostamento o altro rimedio all’assenza del parlamentare, a differenza di ciò che accadrebbe per altre attività parlamentari.

Ad avviso della ricorrente, il mancato riconoscimento giudiziale dell’assoluto impedimento a comparire all’udienza penale del deputato impegnato in una votazione assembleare, determinando un grave ostacolo alla partecipazione ad essa del deputato, comprimerebbe in primo luogo l’indipendenza e l’autonomia della Camera, violando gli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione, i quali garantiscono quell’indipendenza e quell’autonomia sia sotto il profilo del potere della Camera di disciplinare con autonomo regolamento la propria organizzazione e il funzionamento dei propri lavori, con particolare riferimento alla funzione legislativa, sia per quanto attiene alla posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera, riconosciuta dalla Costituzione quale strumento di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia dell’istituzione di appartenenza.

Gli atti impugnati porrebbero inoltre a rischio la funzionalità dell’assemblea, compromettendo la formazione dei quorum strutturali e funzionali richiesti per la validità delle deliberazioni. La ricorrente denuncia, al riguardo, la violazione dell'art. 64, terzo comma, della Costituzione, che stabilisce il quorum strutturale e quello funzionale per la validità delle deliberazioni della Camera, nonché delle altre norme della Costituzione e di leggi costituzionali (artt. 64, primo comma, 73, secondo comma, 79, primo comma, 83, terzo comma, 90, secondo comma, 138, primo e terzo comma, della Costituzione; artt. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, 9, comma 3, e 10, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1) che richiedono per talune deliberazioni o votazioni maggioranze speciali, assolute o qualificate. Essendo la partecipazione dei parlamentari alle sedute parlamentari preordinate alle votazioni, nonché alle votazioni medesime, indispensabile, nei termini quantitativi imposti dalla Costituzione, per la validità degli atti deliberativi, ogni impedimento a tale partecipazione si risolverebbe in impedimento alla funzionalità del Parlamento, e dunque nella (pur potenziale) compromissione delle attribuzioni del potere legislativo.

La Camera lamenta inoltre la coartazione (ab extrinseco) della libertà di espletamento del mandato parlamentare, denunciando la violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione, anche in riferimento ai parametri sopra invocati. Sulla premessa che le prerogative che la Costituzione riconosce ai singoli deputati non sono loro guarentigie personali ma strumenti funzionali all’integrità della posizione costituzionale delle istituzioni di appartenenza, la ricorrente sostiene che, ogni volta che viene leso il libero esercizio del mandato parlamentare, garantito dall'art. 67 della Costituzione in una con l'art. 68, si ledono perciò l'autonomia e l'indipendenza della Camera di appartenenza, che in tanto possono sussistere, in quanto i singoli componenti siano tutelati nella loro libertà di esercitare il mandato parlamentare senza impedimenti. Nella specie, con atti giurisdizionali sarebbe stata incisa la libertà di esercizio del mandato parlamentare del singolo deputato, giacché questi sarebbe stato pesantemente condizionato nella sua scelta di adempiere o meno i doveri (e di esercitare i diritti) del suo ufficio, in presenza della contrapposta esigenza (essa pure costituzionalmente protetta) di esercitare il diritto di difesa. La violazione della libertà del mandato (imputabile alla volontà di un potere esterno a quello legislativo) avrebbe per conseguenza la lesione delle prerogative della Camera dei deputati, alla cui tutela quella libertà è strettamente funzionale, anche considerando che il condizionamento del libero mandato determina un'alterazione profonda del libero giuoco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull'altrettanto libero rapporto delle forze.

Infine, la Camera lamenta l’assenza, negli atti impugnati, di un bilanciamento fra le esigenze di efficienza del processo e quelle dell’autonomia, indipendenza e funzionalità delle istituzioni parlamentari, con violazione altresì dell’art. 3 della Costituzione e del principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. Le ordinanze impugnate, pur movendo dall’esatta premessa di un contrasto tra valori costituzionali – la speditezza del processo, da un lato, e la libera esplicazione del mandato parlamentare e la funzionalità delle assemblee rappresentative, dall’altro – avrebbero provveduto in realtà alla salvaguardia d'uno solo di essi, sacrificando integralmente l'altro, mentre il modello disegnato dalla giurisprudenza costituzionale sarebbe diverso, occorrendo, come è stato precisato dalla sentenza n. 379 del 1996 di questa Corte, un “equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione ... e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare ...”. Secondo la ricorrente il bilanciamento sarebbe possibile, assegnando all'impedimento parlamentare una funzione giustificativa della modificazione dei tempi della funzione giurisdizionale solo quando è in giuoco la superiore esigenza della validità delle deliberazioni della Camera, che può essere assicurata esclusivamente dal raggiungimento dei quorum prescritti dalla Costituzione. Gli atti impugnati, invece, risponderebbero ad una logica opposta, quella del sacrificio integrale dell'autonomia parlamentare e dei valori connessi alla rappresentanza, a totale beneficio di quelli connessi alla giurisdizione.

In senso contrario non potrebbe invocarsi la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 353 del 1996 e n. 10 del 1997) con cui sono state dichiarate costituzionalmente illegittime, in nome del principio della funzionalità del processo, norme che consentivano atti che, pur essendo esercizio del diritto di difesa, diventavano in realtà abusivi ed ingiustificati perché miranti al solo scopo di rinviare nel tempo il completamento dell'iter processuale; e ciò in quanto nella vicenda da cui è sorto il conflitto il parlamentare non sarebbe dominus delle cause di impedimento, che derivano invece dall'oggettiva esistenza di un calendario dei lavori parlamentari ch’egli è tenuto a rispettare e che non ha certo deciso da sé.

Né sarebbe possibile argomentare la superiorità delle esigenze del processo su quelle della funzione parlamentare dall'intervenuta modifica dell'art. 68 della Costituzione: l’eliminazione dell'autorizzazione a procedere, nel determinare il venir meno di un ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione giurisdizionale, significa che la mera sottoposizione a procedimento penale non è, di per sé, fonte di alcun impedimento o pregiudizio per il parlamentare e per il rigoroso rispetto dei suoi doveri, ma non proverebbe che si sia voluto tutelare la funzione giurisdizionale a totale scapito di quella rappresentativa.

In conclusione, tra l'ipotesi del sacrificio integrale della giurisdizione e l'ipotesi del sacrificio integrale della rappresentanza vi sarebbe quella intermedia del bilanciamento-contemperamento. La tutela dell'essenza stessa del sistema parlamentare (che sta nella validità delle deliberazioni delle Camere) è possibile senza che per questo si rinunci all'esercizio della giurisdizione, che può (anche sollecitamente) proseguire, con il solo limite (tutt'altro che gravoso) del rispetto dell'attività di votazione in assemblea programmata dalla Camera.

La soluzione di considerare l’impedimento parlamentare assoluto ed insuperabile solo nel caso in cui attenga alla partecipazione a votazioni dell’assemblea, e non anche quando attenga a diverse attività dei deputati, viene fatta derivare dalla ricorrente anche dalla applicazione del principio di leale collaborazione nei rapporti fra poteri dello Stato (sentenze n. 379 del 1992 e n. 403 del 1994). Non tutte le sedute dell’assemblea – ricorda la ricorrente – sono dedicate a votazioni, poiché molte sono destinate ad altre attività (discussione di progetti di legge; dibattiti di vario contenuto; svolgimento dl interrogazioni ed interpellanze, ecc.). La previsione dell'assolutezza dell'impedimento parlamentare in riferimento alle sedute destinate a votazioni non comprometterebbe dunque la funzionalità del processo né lederebbe le prerogative dell'autorità giudiziaria; inoltre rappresenterebbe una soluzione certa, fondata su un criterio automatico ed oggettivo. La soluzione opposta, lasciando al giudice penale il potere discrezionale di valutare, di volta in volta, l'assolutezza dell'impedimento del parlamentare, offrirebbe invece minori garanzie per la certezza non solo della situazione soggettiva del singolo deputato, ma della funzionalità e dell'autonomia della Camera.

 

2.– Questa Corte, con ordinanza n. 102 del 2000, ha dichiarato ammissibile il predetto conflitto di attribuzione proposto dalla Camera dei deputati, estendendo la notifica del ricorso, oltre che al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con funzioni di giudice dell’udienza preliminare, anche al Senato della Repubblica, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

 

3.– Il ricorso è stato successivamente notificato e regolarmente depositato con la prova delle avvenute notifiche.

 

4.– Degli organi ai quali, secondo quanto disposto nell’anzidetta ordinanza, il ricorso per conflitto è stato notificato a cura della Camera, si è costituito innanzi a questa Corte il Senato della Repubblica.

Il Senato, con riserva di illustrazione in successiva memoria, ha concluso chiedendo che la Corte riconosca la fondatezza dei principi affermati nel ricorso della Camera dei deputati in relazione alla considerazione come assoluto impedimento, alla partecipazione di un parlamentare alle udienze penali, del diritto-dovere dello stesso parlamentare di assolvere al proprio mandato partecipando alle sedute dell’organo parlamentare di cui è membro.

 

5.– Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto l’on. Cesare Previti, chiedendo che vengano annullate “le impugnate ordinanze del G.U.P. dott. Rossato nelle quali si è apoditticamente imposta la regola della prevalenza delle esigenze processuali sull’esigenza di esercitare le funzioni parlamentari, dettando altresì quale criterio di risoluzione del conflitto quello della cooperazione tra Giudice e parlamentare al quale ultimo potrebbe fare carico l’esibizione del calendario dei lavori parlamentari, quale base per il Giudice per fissare la scansione temporale delle udienze”; ed in subordine sollecitando la Corte a sollevare dinanzi a se stessa questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 24 maggio 1999, n. 145, inserito dalla legge di conversione 22 luglio 1999, n. 234.

 

6.– In prossimità dell’udienza, la Camera dei deputati ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Il conflitto sollevato sarebbe attuale e concreto, non ipotetico e astratto. Il fatto che, nella specie, il deputato interessato abbia preso parte alle votazioni fissate in concomitanza con l’udienza, non avrebbe alcun rilievo, perché non eliminerebbe l’oggettiva incertezza circa le condizioni in presenza delle quali gli impegni parlamentari giustificano l’allegazione di un impedimento. Il conflitto – si osserva – serve a ristabilire il corretto ordine delle attribuzioni, al di là della sorte dei singoli atti che lo hanno pregiudicato.

La Camera esclude che con la proposizione del conflitto sia stato censurato un semplice errore in iudicando, perché quello che la ricorrente – priva di strumenti processuali ordinari per tutelare le proprie attribuzioni – contesta è la titolarità, in capo al giudice, del potere di negare che l’impegno in votazioni in assemblea sia valida causa di giustificazione dell’assenza, all’udienza penale, del parlamentare interessato, ossia la spettanza, non solo a quel giudice, ma a qualunque giudice, del potere di condizionare il libero esercizio del mandato parlamentare negando che l’impegno in votazioni in assemblea costituisca impedimento assoluto alla partecipazione all’udienza penale.

Nel merito, la Camera ribadisce che, ferma la pariordinazione qualitativa di tutte le attività parlamentari, sarebbe necessario considerare assoluto e insuperabile solo l’impedimento derivante dalla partecipazione a votazioni in assemblea, attività tipizzata e specificamente qualificata.

 

7.– Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Senato della Repubblica articola la propria posizione, aderendo in linea di principio alle censure mosse dalla Camera ai provvedimenti del Giudice dell’udienza preliminare di Milano, in particolare insistendo sull’esigenza di coordinamento fra corretto e indipendente esercizio della funzione giurisdizionale e corretto e indipendente esercizio delle funzioni parlamentari, e sul principio di leale collaborazione.

Nel merito, il Senato osserva che la lamentata interferenza con la sfera di autonomia parlamentare garantita dalla Costituzione sussiste ove la statuizione del Giudice dell’udienza preliminare si risolva nella perentoria affermazione che il coordinamento tra i valori costituzionali confliggenti non è né necessario né possibile, e quindi nella negazione di ogni possibile esigenza di coordinamento fra i poteri che debbono organizzare l’esercizio delle rispettive funzioni. Premesso che l’autonomia del Parlamento si esprime in modo unitario, rendendo indispensabile la garanzia per i parlamentari di poter essere presenti non solo alle sedute nelle quali siano previste votazioni dell’assemblea, ma anche a tutte le altre attività nelle quali il parlamentare può svolgere il proprio mandato, il Senato ritiene che il non considerare le esigenze di fissazione del calendario delle sedute parlamentari come espressione della posizione di autonomia costituzionale delle Camere abbia inciso sul funzionamento interno degli organi parlamentari, abbia condizionato il libero svolgimento del mandato parlamentare, impedendo all’imputato qualunque possibilità di contemperare l’esercizio del proprio diritto di difesa con l’esercizio delle proprie funzioni parlamentari, e così ostacolato la Camera di cui fa parte l’indagato in relazione alla formazione dei quorum strutturali e funzionali dei suoi organi.

Le attribuzioni costituzionali del Parlamento non sono estranee rispetto alle funzioni che il giudice è chiamato a svolgere. Il principio di leale collaborazione – afferma la difesa del Senato richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 231 del 1975, n. 379 del 1992 e n. 403 del 1994) – impone a tutti i poteri dello Stato di svolgere le proprie funzioni valorizzando anche interessi che la Costituzione affida ad altri poteri, nell’esercizio delle autonomie costituzionali loro riconosciute. Il dovere di collaborare lealmente si pone come principio generale cui necessariamente deve ispirarsi l’esercizio di funzioni costituzionalmente riconosciute, tanto più che la flessibilità che discende dall’applicazione del metodo collaborativo non potrebbe certamente condurre a deroghe o impedimenti dell’esercizio di una delle funzioni interferenti e, in specie, della funzione giurisdizionale. Nel caso di specie, è la stessa disciplina del processo penale che, nel consentire di valutare l’assolutezza o meno dell’impedimento a comparire dell’indagato, costituirebbe indicazione positiva nel senso del necessario coordinamento tra l’organo giurisdizionale e l’organo la cui attività può giustificare l’impedimento in questione.

Il Giudice aveva la possibilità di utilizzare l’art. 486 cod. proc. pen. come strumento capace di stabilire un coordinamento con le autonomie parlamentari. Invece non ha ritenuto possibile tale coordinamento, basandosi su una semplice valutazione quantitativa del numero dei casi in cui il rinvio dell’attività processuale era già stato accordato. Ciò che viene contestato nel presente conflitto è proprio l’affermazione secondo cui la norma processuale non avrebbe consentito di attivare una forma di collaborazione per evitare la lesione della posizione di autonomia dell’organo parlamentare. Solo in questa parte le ordinanze impugnate sarebbero illegittime sul piano costituzionale; mentre non spetterebbe al Senato sostenere la correttezza o meno della valutazione che in concreto è stata fatta delle istanze di rinvio.

Il ricorso della Camera non mirerebbe alla correzione di un’erronea applicazione da parte del giudice ordinario della norma processuale. In esso infatti non è richiesto un mero controllo sul contenuto dell’attività giurisdizionale, bensì l’accertamento dell’interferenza nelle attribuzioni costituzionali del potere ricorrente.

Né – conclude il Senato – ci sarebbe in tal modo una sovrapposizione con le ulteriori istanze del giudizio comune, sia perché l’organo ricorrente ha a disposizione il solo rimedio del conflitto, sia perché l’atto giurisdizionale è suscettibile di sindacato solo in relazione alle concrete potenzialità lesive di attribuzioni altrui, la lesione operata dal giudice ordinario ben potendo essere sanzionata non necessariamente con l’annullamento dei dispositivi delle ordinanze impugnate dalla Camera dei deputati, ma anche e soltanto con la cancellazione delle argomentazioni e delle affermazioni lesive dell’autonomia degli organi parlamentari.

 

8.– In prossimità dell’udienza ha depositato una memoria illustrativa anche l’interveniente on. Previti.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il ricorso per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato è proposto dalla Camera dei deputati in riferimento ad alcune ordinanze del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, adottate in due diversi procedimenti, che hanno respinto istanze di rinvio dell’udienza motivate da impegni parlamentari di un imputato, membro della Camera stessa. Da tali atti, secondo la ricorrente, emergerebbe un “unitario indirizzo” in tema di rilevanza dell’impedimento parlamentare nel procedimento penale, che sarebbe lesivo delle attribuzioni costituzionali della medesima Camera dei deputati. Lesiva, in particolare, sarebbe l’affermazione secondo cui, pur muovendosi dall’esatta premessa del pari rango costituzionale rivestito dalle esigenze di sollecito svolgimento del giudizio e da quelle del libero e corretto assolvimento delle funzioni delle Camere, si negherebbe poi che le esigenze di partecipazione alle attività parlamentari giustifichino il rinvio dell’udienza, con ciò determinando il completo sacrificio di uno degli interessi costituzionali in campo.

L’accennato indirizzo emergente dalle ordinanze del Giudice dell’udienza preliminare, secondo la ricorrente, contrasterebbe in particolare, in primo luogo, con le norme costituzionali (artt. 64, 68 e 72 Cost.) le quali garantirebbero l'indipendenza e l'autonomia della Camera sia sotto il profilo del potere di disciplinare la propria organizzazione ed il funzionamento dei propri lavori, sia sotto il profilo della posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera. In secondo luogo, essendo la partecipazione dei deputati alle votazioni, nei limiti dei quorum strutturali e funzionali stabiliti, requisito per la validità delle deliberazioni parlamentari, gli atti impugnati, ponendo un impedimento a tale partecipazione, comporterebbero un potenziale impedimento alla funzionalità della Camera, in violazione delle norme costituzionali che stabiliscono detto requisito. In terzo luogo essi, condizionando la scelta del deputato, che sarebbe costretto a sacrificare, alternativamente, il suo diritto-dovere di partecipazione all'attività parlamentare o il suo diritto di difesa nel giudizio, violerebbero la libertà del mandato parlamentare (art. 67 della Costituzione), a sua volta funzionale alla tutela delle prerogative della stessa Camera. Infine, gli atti impugnati ometterebbero di realizzare un bilanciamento fra le esigenze di efficienza del processo e quelle di indipendenza, autonomia e funzionalità delle istituzioni parlamentari, con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione e del principio di leale collaborazione.

Il corretto bilanciamento fra le opposte esigenze, con maggiori garanzie anche per la certezza giuridica, si avrebbe invece considerando, per gli imputati membri del Parlamento, impedimento assoluto a comparire in udienza non già la necessità di partecipare a qualsiasi attività parlamentare, bensì solo la necessità di prendere parte a votazioni in assemblea, attività per la quale non sussisterebbe alcuna possibilità di delega né di spostamento, o altro rimedio all'assenza del parlamentare. Ed è questo, appunto, che chiede la ricorrente nelle sue conclusioni: che questa Corte dichiari che non spetta al giudice "stabilire che non costituisce impedimento assoluto della partecipazione del deputato alle udienze penali il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea".

 

2.- Deve preliminarmente essere dichiarato inammissibile, sciogliendo in tal senso la riserva formulata dalla Corte nell'udienza pubblica del 20 febbraio 2001, l'intervento spiegato in giudizio dal deputato Previti.

Le posizioni giuridiche protette dell'interveniente nella sua qualità di imputato nei procedimenti penali sopra ricordati e di destinatario delle ordinanze impugnate, e i correlati diritti di impugnazione e di difesa, restano sempre suscettibili di essere fatti valere con gli ordinari strumenti processuali: né su di essi potrebbero fondarsi domande proposte con lo strumento del conflitto di attribuzioni, come ritenuto da questa Corte allorché dichiarò in limine inammissibili, per questa ragione, due ricorsi per conflitto promossi dallo stesso on. Previti nei confronti del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano, in relazione ad asseriti abusi di potere di cui egli si riteneva vittima (ordinanza n. 101 del 2000). In ogni caso, tali diritti inerenti alla qualità di imputato non sono direttamente coinvolti, né sono suscettibili di essere pregiudicati, nel presente giudizio per conflitto, nel quale la Corte è chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni costituzionali della Camera dei deputati ad opera delle ordinanze medesime. Pertanto non sussistono le ragioni di salvaguardia del diritto di agire in giudizio che hanno condotto la Corte, in un caso recente, ad ammettere l'intervento, in un conflitto fra Regione e Stato, sorto in relazione ad un atto dell'autorità giudiziaria penale, della parte civile costituita nel relativo procedimento, in quanto l'esito del conflitto era suscettibile di condizionare la stessa possibilità che il giudizio comune avesse luogo (sentenza n. 76 del 2001).

Nemmeno può ammettersi l'intervento sotto il diverso profilo, ora prospettato dall'on. Previti, che esso sarebbe volto a difendere "l'esercizio delle attribuzioni del singolo parlamentare", attribuzioni le quali fonderebbero un'autonoma legittimazione al conflitto, parallela a quella della Camera, e sarebbero a loro volta pregiudicate dagli atti impugnati. Infatti, anche a volere accedere, in astratto, a tale prospettazione, una domanda rivolta a difendere le attribuzioni rivendicate, avrebbe comunque dovuto essere introdotta – questa sì – attraverso un autonomo ricorso per conflitto fra poteri, non potendosi ammettere la proposizione di un conflitto attraverso la via dell'intervento volontario in altro giudizio, promosso dalla Camera dei deputati per la lamentata lesione delle attribuzioni costituzionali di quest'ultima.

 

3.- Il ricorso è fondato nei termini e nei limiti di cui appresso.

Si deve premettere che, nella specie, non viene in rilievo una prerogativa o una immunità dei membri del Parlamento, il cui riconoscimento da parte della Costituzione comporti un limite od una deroga rispetto al normale svolgimento della attività giurisdizionale e all'applicazione delle comuni regole sostanziali e processuali che concernono la posizione dell'imputato nel processo penale; né è in discussione quel confine fra area della legalità ordinaria e della giustiziabilità dei diritti, da un lato, e area dell'autonomia dell'ordinamento parlamentare come garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza del Parlamento, dall'altro lato, che in altra occasione ha condotto la Corte ad affermare l'esistenza di limiti all'intervento del potere giudiziario riguardo ad attività e a procedure interamente riconducibili a quell'ordinamento (sentenza n. 379 del 1996).

La posizione dell'imputato, che sia membro del Parlamento, di fronte alla giurisdizione penale – dopo l'abrogazione dell'originario secondo comma dell'art. 68 della Costituzione, ad opera della legge costituzionale n. 3 del 1993 – non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite, sul piano sostanziale, dall'art. 68, primo comma, Cost., attraverso la insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e, sul piano procedimentale, dal secondo e dal terzo comma del medesimo art. 68, che condiziona all'autorizzazione della Camera di appartenenza l'adozione di misure restrittive della libertà personale (nell'accezione di cui all'art. 13, primo e secondo comma, della Costituzione) o della libertà e della segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni (nell'area cioè garantita dall'art. 15 della Costituzione).

Al di fuori di queste tassative ipotesi, trovano applicazione, nei confronti dell'imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali. Fra queste, le regole che sanciscono il diritto dell'imputato di partecipare alle udienze, e la correlativa previsione del rinvio dell'udienza in caso di impossibilità assoluta per l'imputato di essere presente per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento (art. 486, commi 1 e 2, cui si richiama a sua volta l'art. 420, comma 4, del codice di procedura penale; e vedi, ora, art. 420-ter e art. 484 del codice di procedura penale).

 

4.- Non è compito di questa Corte, ma dei competenti organi della giurisdizione, stabilire i corretti criteri interpretativi e applicativi delle regole processuali: nemmeno, quindi, stabilire se e in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti non già da materiale impossibilità, ma dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l'imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dover essere equiparati, secondo il dettato dell'art. 486 del codice di procedura penale, a cause di forza maggiore.

Nella specie, è peraltro lo stesso giudice autore delle ordinanze impugnate ad affermare espressamente (nell'ordinanza del 17 settembre 1999) che l'impedimento suscettibile di dare luogo ad assoluta impossibilità di comparire può derivare anche "da norme che delineino una priorità di impegni tale da far ritenere soccombente quello derivante dall'esercizio della funzione giurisdizionale". Egli ammette bensì che "all'attività parlamentare sia attribuita speciale rilevanza e il suo esercizio non debba trovare ostacoli"; ma, invocando la "non minore rilevanza" attribuita dalla Costituzione alla attività giurisdizionale, conclude che "la soluzione giuridica" non dovrebbe essere "quella di dare prevalenza all'attività parlamentare a scapito delle esigenze di celebrazione del processo", bensì, al contrario, quella di considerare "prioritario" – s'intende, anche rispetto alle esigenze dell'attività parlamentare – il valore dell'effettività della giurisdizione, e pertanto di negare il carattere di assolutezza dell'impedimento dedotto. Ciò dopo che, come ricordano le stesse ordinanze, più volte era stato disposto il rinvio dell'udienza chiesto per impedimento parlamentare dell'imputato, impedimento che dunque era stato, implicitamente, riconosciuto come non solo legittimo, ma assoluto.

E' dunque la stessa impostazione data dal giudice alle ordinanze impugnate, anche in relazione ai precedenti, che pone in essere le condizioni da cui origina il presente conflitto, mettendo in rapporto le esigenze costituzionali, rispettivamente, dell'attività parlamentare e di quella giurisdizionale, confliggenti fra di loro. Di ciò, appunto, si duole la ricorrente Camera dei deputati: che il giudice, mettendo a raffronto i due ordini di esigenze, abbia omesso di contemperarle e abbia dato invece, in concreto, esclusiva prevalenza a quelle del giudizio, sacrificando quelle (pur, in linea di principio, non disconosciute) dell'attività parlamentare. Di qui l'odierno conflitto, nella forma tipica del conflitto da menomazione o da interferenza.

 

5.- Il quesito cui questa Corte è chiamata a rispondere è dunque se il giudice, nell'esercizio delle attribuzioni che gli sono proprie ai fini della conduzione del procedimento attraverso l'applicazione delle comuni regole processuali, abbia tuttavia leso le attribuzioni costituzionali della Camera ricorrente.

Per risolvere il conflitto, non v'è luogo ad individuare regole speciali, derogatorie del diritto comune: nemmeno, quindi, la regola che la ricorrente vorrebbe invece vedere affermata da questa Corte, secondo cui il solo impedimento derivante dalla necessità per l'imputato membro della Camera di prendere parte a votazioni in assemblea dovrebbe essere riconosciuto senz'altro come assoluto. Regola che, peraltro, pur non essendo priva in sé di una certa razionalità, date le caratteristiche delle votazioni assembleari nel quadro delle attività delle Camere, non solo acquisterebbe pur sempre una impropria valenza derogatoria del diritto comune, ma potrebbe d'altra parte, a sua volta, manifestarsi inadeguata a garantire l'interesse del Parlamento: sia per la netta (e quanto meno discutibile) distinzione che verrebbe così introdotta fra diversi aspetti dell'attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali; sia per la impossibilità di escludere che l'esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori (punto, questo, su cui ha insistito particolarmente la difesa dell'interveniente Senato della Repubblica).

In concreto, nell'applicare, com'era suo compito, le comuni regole processuali sugli impedimenti a comparire, il giudice non poteva però, contraddicendo le proprie stesse premesse circa la parità di rango costituzionale degli interessi confliggenti, e mutando radicalmente indirizzo rispetto alla sua stessa condotta precedente, disconoscere in senso assoluto la rilevanza dell'impedimento in questione, per invocare esclusivamente l'interesse del procedimento giudiziario.

Tale è invece, in sostanza, il contenuto delle ordinanze impugnate. Così facendo, il giudice ha leso le attribuzioni dell'istituzione parlamentare, il cui rispetto esige che ogni altro potere, allorquando agisce nel campo suo proprio e nell'esercizio delle sue competenze, tenga conto non solo delle esigenze della attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell'applicazione delle regole comuni: così, come nella specie, ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell'udienza.

Il vizio dei provvedimenti in questione, sotto questo riguardo, è dimostrato, in particolare, dalla circostanza che il Giudice dell'udienza preliminare, dopo avere emanato le due motivate ordinanze (relative a due diversi procedimenti) in data 17 e 20 settembre 1999, ha ripetutamente confermato lo stesso deliberato, senza nuova autonoma motivazione, in occasione di udienze e di istanze di rinvio successive, così mostrando che le sue decisioni non si sono sostanziate in un apprezzamento specifico della situazione, in relazione alle istanze via via presentate, ma sono piuttosto il frutto di una presa di posizione generale, fondata sull'affermata prevalenza delle esigenze del giudizio su quelle dell'attività parlamentare.

 

6.- Né, d'altra parte, potrebbe dirsi che tale prevalenza dovesse necessariamente discendere, nella specie, dalla necessità di condurre a compimento, in tempi ragionevoli, i procedimenti giudiziari. La ricorrente Camera dei deputati, e per parte sua l'interveniente Senato della Repubblica, sia pure riferendosi alla disciplina, parzialmente differenziata, dei rispettivi regolamenti e alle rispettive prassi, pur esse parzialmente difformi, hanno ampiamente dimostrato che – come d'altronde è noto ed è facilmente accertabile, data la pubblicità degli atti e dei lavori parlamentari – l'attività delle Camere si svolge con ritmi bensì intensi, ma non tali, di per sé, da risultare a priori incompatibili con altri impegni dei componenti delle Camere.

E' pur vero che, a loro volta, procedimenti giudiziari lunghi e complessi, come quelli da cui trae origine il presente giudizio, debbono – anche in relazione all'interesse, costituzionalmente tutelato, alla durata ragionevole del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) – rispettare esigenze temporali stringenti, specie quando molte siano le parti e molti i possibili impedimenti delle stesse. E' anche in relazione a tali esigenze che il legislatore del codice di rito, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha configurato le norme sugli impedimenti dell'imputato.

Ma è altrettanto evidente che, in linea di principio, non sarebbe impossibile adattare i calendari delle udienze, preventivamente stabiliti e discussi con le parti, in modo da tener conto di prospettati impegni parlamentari concomitanti dell’imputato. E’ ben noto infatti che vi sono giorni della settimana (di massima, almeno il lunedì e il sabato, oltre naturalmente la domenica) e periodi dell'anno in cui non vengono programmate riunioni degli organi parlamentari. Così che udienze preliminari svoltesi (come nella specie) in uno dei procedimenti nel corso di quasi un anno e, nell’altro, nel corso di oltre un anno, con un totale, per ciascuno, di una ventina di convocazioni, sarebbero suscettibili di una organizzazione dei tempi, anche attraverso la consultazione dei calendari parlamentari, tale da evitare, almeno di norma, la concomitanza con i lavori della Camera, e quindi l'insorgere di quelli che lo stesso giudice procedente ha per lungo tempo considerato come impedimenti assoluti alla presenza dell'imputato in udienza, e da ultimo invece ha negato essere tali. Né il giudice ha dimostrato che altra via non vi fosse, per evitare la temuta "situazione di sostanziale stallo" dei procedimenti, se non quella di ignorare sistematicamente, da un certo momento in poi, gli impedimenti parlamentari dell'imputato.

Alla constatazione dell'avvenuta lesione delle attribuzioni della ricorrente, e alla correlativa dichiarazione in ordine a ciò che non spettava al Giudice dell'udienza preliminare, consegue necessariamente l'annullamento dei provvedimenti impugnati.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara, in accoglimento del ricorso in epigrafe, proposto dalla Camera dei deputati, che non spettava al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell'udienza preliminare, nell'apprezzare i caratteri e la rilevanza degli impedimenti addotti dalla difesa dell'imputato per chiedere il rinvio dell'udienza, affermare che l'interesse della Camera dei deputati allo svolgimento delle attività parlamentari, e quindi all'esercizio dei diritti-doveri inerenti alla funzione parlamentare, dovesse essere sacrificato all'interesse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario; e conseguentemente

 

b) annulla le impugnate ordinanze in data 17 settembre, 20 settembre, 22 settembre, 5 ottobre e 6 ottobre 1999 del predetto Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2001.

 

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2001.


 

Sentenza 3 luglio-22 luglio 2003, n. 263

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Riccardo CHIEPPA Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’ordinanza emessa dalla Corte di assise di Reggio Calabria il 16 novembre 1998, in un procedimento penale a carico dell’on. Amedeo Gennaro Matacena, promosso con ricorso della Camera dei deputati notificato il 20 giugno 2001, depositato in cancelleria il 3 luglio successivo ed iscritto al n. 20 del registro conflitti 2001.

 

Visti gli atti di costituzione della Corte di assise di Reggio Calabria e del Senato della Repubblica;

 

udito nell’udienza pubblica del 19 novembre 2002 il Giudice relatore Valerio Onida;

 

uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Camera dei deputati, Giovanni Pitruzzella per la Corte di assise di Reggio Calabria e Stefano Grassi per il Senato della Repubblica.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ricorso depositato il 14 dicembre 2000, la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria, chiedendo alla Corte:

a) di dichiarare che non spetta a quel Giudice stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione del deputato alle udienze penali, epperciò causa di giustificazione della sua assenza, il diritto-dovere di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea;

b) di annullare, per l’effetto, l’ordinanza 16 novembre 1998, con cui lo stesso Giudice aveva rigettato la richiesta della difesa dell’on. Matacena di giustificare l’assenza dell’imputato all’udienza in ragione dell’impedimento parlamentare (attestato da un telegramma del Presidente della Camera dei deputati), disponendo procedersi e dichiarando la contumacia dell’imputato.

Nella menzionata ordinanza, la Corte d’assise faceva leva sul fatto che l’on. Matacena aveva giustificato la propria assenza "adducendo la concomitanza di lavori parlamentari", ma non aveva specificato se "parteciperà a detti lavori o se la sua presenza per eventuali votazioni o interpellazioni prenotate sia oggi indispensabile in Parlamento".

La Camera dei deputati ritiene che sussistano i requisiti soggettivi ed oggettivi del conflitto. In particolare, essa esclude che il ricorso intenda censurare non già la carenza del potere del giudice, ma un semplice error in iudicando: ciò che è in contestazione è proprio la titolarità, in capo al giudice, del potere di negare che l’impegno in votazioni in assemblea sia valida causa di giustificazione dell’assenza, all’udienza penale, del parlamentare interessato.

Sussisterebbe anche l’interesse a ricorrere della Camera, che si collega alle affermazioni dell’ordinanza impugnata, là dove si presuppone, erroneamente, che vi siano votazioni per le quali la presenza del parlamentare è indispensabile e votazioni per le quali tale presenza indispensabile non è.

Nella specie, dai resoconti parlamentari risulterebbe che, nella giornata del 16 novembre 1998, la Camera dei deputati ha iniziato la propria seduta alle ore 12.05, con votazioni elettroniche, alle quali il deputato Matacena ha partecipato, in ordine ai disegni di legge n. 5267 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) e 5349 (Conversione in legge del decreto-legge n. 335 del 1998: lavoro straordinario).

L’ordinanza impugnata avrebbe avuto come effetto quello di anteporre le esigenze processuali alla funzione parlamentare. In concreto, i valori collegati alla funzione parlamentare sono stati posti su un gradino inferiore rispetto a quelli attinenti alla funzione giurisdizionale. Di qui l’interesse della Camera ad ottenere una pronuncia della Corte che ristabilisca il corretto rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo, in riferimento ai valori costituzionali che detti poteri rappresentano.

Su questo interesse non inciderebbe il fatto che l’on. Matacena abbia preso parte alle votazioni fissate in concomitanza con l’udienza innanzi alla Corte di assise di Reggio Calabria, trattandosi di determinazione strettamente personale del deputato, che ha sacrificato il proprio diritto di difesa al diritto-dovere di partecipazione ai lavori parlamentari; determinazione estrinseca rispetto alla concreta lesività dell’atto impugnato e che non elimina l’oggettiva incertezza circa le condizioni alle quali gli impegni parlamentari giustificano l’allegazione di un impedimento.

Nel merito, la ricorrente Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i suoi componenti, impedimento assoluto a comparire in udienza, e quindi causa di giustificazione dell’assenza, non già la necessità di partecipare a qualsivoglia lavoro parlamentare, bensì soltanto quella di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea. L’attività di votazione infatti non è delegabile ad altro parlamentare, e va esercitata personalmente. Né sarebbe possibile che il deputato chieda od ottenga lo spostamento della votazione, onde conservare la possibilità di partecipare, non essendovi possibilità di rimedio all’assenza. Diverso è invece il regime delle altre attività parlamentari. Ove infatti il deputato intenda partecipare ad una discussione, ovvero sia programmato un suo intervento su un determinato provvedimento, ma sia contemporaneamente convocato dal giudice penale per un procedimento nei propri confronti, egli può ben chiedere lo spostamento ad altra data dell’esame del provvedimento, e la prassi consolidata è nel senso che – ove possibile – il rinvio venga concesso.

In primo luogo, il mancato riconoscimento giudiziale dell’assoluto impedimento a comparire all’udienza penale del deputato impegnato in una votazione assembleare, determinando un grave ostacolo alla partecipazione ad essa del deputato, comprimerebbe l’indipendenza e l’autonomia della Camera, violando gli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione, i quali garantiscono quell’indipendenza e quell’autonomia sia sotto il profilo del potere della Camera di disciplinare con autonomo regolamento la propria organizzazione e il funzionamento dei propri lavori, con particolare riferimento alla funzione legislativa, sia per quanto attiene alla posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera, riconosciuta dalla Costituzione quale strumento di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia dell’istituzione di appartenenza.

L’atto impugnato porrebbe inoltre a rischio la funzionalità dell’Assemblea, compromettendo la formazione dei quorum strutturali e funzionali richiesti per la validità delle deliberazioni. La ricorrente denuncia, al riguardo, la violazione delle seguenti disposizioni della Costituzione: dell'art. 64, terzo comma, anche in riferimento agli artt. 64, primo comma, 73, secondo comma, 79, primo comma, 83, terzo comma, 90, secondo comma, 138, primo e terzo comma; nonché dell’art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; dell’art. 3 della 1egge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2; degli artt. 9, comma 3, e 10, comma 3, della 1egge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1. Essendo la partecipazione dei parlamentari alle sedute preordinate alle votazioni, nonché alle votazioni medesime, indispensabile, nei termini quantitativi imposti dalla Costituzione, per la validità degli atti deliberativi, ogni impedimento a tale partecipazione si risolve in impedimento alla funzionalità del Parlamento, e dunque nella (pur potenziale) compromissione delle attribuzioni del potere legislativo. Né si potrebbe opporre che la lesione delle prerogative parlamentari deriverebbe, comunque, dalla scelta del singolo deputato. Ad avviso della ricorrente, perché tale obiezione fosse fondata, infatti, occorrerebbe che detta scelta fosse effettivamente libera, potendo il deputato optare, senza condizionamenti di sorta, per la partecipazione o meno alla votazione parlamentare. Ma detta scelta non sarebbe affatto libera, né priva di condizionamenti, in quanto il deputato sottoposto a procedimento penale esercita, partecipando alle udienze, il proprio diritto costituzionale alla difesa in giudizio; l’adempimento del dovere di partecipazione alle votazioni (funzionale al valido esercizio delle attribuzioni della Camera), confliggerebbe quindi, in questo caso, con un primario diritto costituzionale.

La Camera lamenta inoltre la coartazione (ab extrinseco) della libertà dell’espletamento del mandato parlamentare, denunciando la violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione, anche in riferimento ai parametri sopra invocati. Sulla premessa che le prerogative che la Costituzione riconosce ai singoli deputati non sono loro guarentigie personali ma strumenti funzionali all’integrità della posizione costituzionale delle istituzioni di appartenenza, la ricorrente sostiene che, ogni volta che viene leso il libero esercizio del mandato parlamentare, garantito dall'art. 67 della Costituzione in una con l'art. 68, si ledono perciò l'autonomia e l'indipendenza della Camera di appartenenza, che in tanto possono sussistere, in quanto i singoli componenti siano tutelati nella loro libertà di esercitare il mandato parlamentare senza impedimenti.

Infine, l’ordinanza della Corte d’assise sacrificherebbe integralmente, nel conflitto tra valori di pari rango costituzionale, in violazione dell’art. 3 Cost., quelli dell’autonomia, indipendenza e funzionalità delle istituzioni parlamentari, rispetto a quello dell’efficienza del processo, senza consentire di raggiungere, attraverso il bilanciamento delle contrapposte esigenze ed il rispetto del principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato, un punto di equilibrio, reso possibile dal non quotidiano espletamento delle votazioni, idoneo a garantire la certezza del diritto.

L’ordinanza della Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria provvederebbe in realtà alla salvaguardia d'uno solo degli interessi in conflitto, sacrificando integralmente l'altro, mentre il modello disegnato dalla giurisprudenza costituzionale sarebbe diverso, occorrendo, come è stato precisato dalla sentenza n. 379 del 1996, un "equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione ... e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare ...".

 

2.– Questa Corte, con ordinanza n. 178 del 2001, ha dichiarato ammissibile il predetto conflitto di attribuzione proposto dalla Camera dei deputati, estendendo la notifica del ricorso, oltre che alla Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria, anche al Senato della Repubblica, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

Il ricorso è stato successivamente notificato e regolarmente depositato con la prova delle avvenute notifiche.

 

3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria, concludendo per l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ovvero per difetto della materia del conflitto e, nel merito, per la non fondatezza del medesimo.

In relazione alla carenza di interesse a ricorrere, la Corte di assise resistente rileva che tra gli accadimenti assunti dalla Camera come lesivi delle proprie attribuzioni costituzionali e la proposizione del conflitto sono trascorsi circa due anni. Sebbene l’esperimento del ricorso non sia sottoposto al alcun termine di decadenza, tuttavia ciò non potrebbe in alcun modo tradursi nella perenne precarietà degli atti dei pubblici poteri, sussistendo interessi di primaria importanza che spingono verso una qualche delimitazione della sfera temporale nel cui ambito può essere proposto il ricorso.

In ogni caso, ad avviso della Corte d’assise, l’interesse a ricorrere per la Camera dei deputati, ove pure fosse stato sussistente al momento della proposizione del conflitto, sarebbe ormai indubbiamente venuto meno, giacché, a seguito delle ultime elezioni politiche che hanno portato al rinnovamento della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, l’on. Matacena non ricopre più la carica di deputato. La sopravvenuta estraneità dell’on. Matacena alla Camera oggi ricorrente renderebbe del tutto indipendenti le vicende del primo da quelle della seconda e ciò determinerebbe la sopravvenuta carenza di interesse.

La resistente ritiene in conclusione che l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici – particolarmente forte là dove essa riguarda i rapporti apicali nell’ordinamento costituzionale – e l’esigenza di evitare che la possibilità di sollevare il conflitto si presti a strumentalizzazioni, spingerebbero a considerare il conflitto tempestivamente proposto anche a distanza di molto tempo dagli accadimenti denunciati solo ove sussistano delle ragioni giustificatrici: ragioni che invece palesemente non sarebbero sussistenti nel caso di specie.

Inoltre, ad avviso della resistente, che richiama in proposito l’ordinanza n. 101 del 2000 di questa Corte, il ricorso sarebbe inammissibile perché farebbe assolutamente difetto la materia del conflitto, non potendo costituire oggetto di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato il modo in cui l’autorità giurisdizionale conforma il concreto atteggiarsi del diritto di difesa nei procedimenti che si svolgono dinanzi a sé.

Sempre in via preliminare, la Corte di assise di Reggio Calabria deduce che la mancanza di interesse della Camera ricorrente alla risoluzione del conflitto risiederebbe anche nel fatto che l’on. Matacena avrebbe regolarmente partecipato ai lavori parlamentari svoltisi in data 16 novembre 1998, preferendo adempiere al suo mandato rappresentativo anziché presenziare all’udienza del processo che lo vedeva coinvolto in qualità di imputato. Non sussisterebbe quindi in alcun modo la necessità di ripristinare un assetto di attribuzioni vulnerato dal cattivo esercizio del potere giurisdizionale: anche se la valutazione operata dal giudice dovesse ritenersi erronea, essa non si tradurrebbe comunque in una lesione dell’attività della Camera, ma rimarrebbe mero error in iudicando, contro il quale l’unico soggetto eventualmente leso (il deputato-imputato on. Matacena) avrebbe a disposizione i consueti rimedi endoprocessuali.

Osserva la Corte d’assise resistente che il ricorso della Camera dei deputati, ove accolto, avrebbe l’effetto non già di ripristinare il corretto svolgimento della funzione che in forza delle norme costituzionali esercita l’odierna ricorrente, bensì quello di ribaltare la posizione processuale dell’imputato. Si tratterebbe di una finalità del tutto estranea allo strumento del conflitto, che peraltro porrebbe il deputato sottoposto a procedimento penale in una condizione di vero e proprio privilegio, potendo costui usufruire di un rimedio ulteriore per reagire ai provvedimenti giurisdizionali che lo riguardano rispetto a quelli a disposizione dei comuni imputati.

Nel merito, la difesa della Corte d’assise condivide la tesi, sostenuta dalla Camera ricorrente, secondo cui l’impedimento parlamentare deve essere considerato assoluto ed insuperabile solo nel caso in cui attenga alla partecipazione a votazioni dell’Assemblea, e non anche quando attenga a diverse attività dei deputati. Ma proprio applicando la regola proposta dalla ricorrente al caso in questione, si dovrebbe concludere che la Corte d’assise abbia correttamente esercitato il proprio potere. All’udienza del 16 novembre 1998, infatti, la difesa dell’on. Matacena chiedeva di giustificare l’assenza dell’imputato all’udienza medesima, motivando detta richiesta sulla base di un telegramma proveniente dalla Presidenza della Camera dei deputati, nel quale si faceva riferimento a semplici e generici lavori parlamentari previsti per quello stesso giorno.

Né d’altra parte potrebbe essere fatta valere la circostanza che in effetti in data 16 novembre 1998 si sono svolte concrete attività di votazione: sia perché "il presente giudizio non può che prendere in considerazione le modalità con le quali è stato esercitato il potere da parte della Corte d’assise, e dunque il modo in cui è stato calibrato il potere stesso in relazione agli elementi che il giudice poteva utilizzare nel momento in cui il potere è stato esercitato", sia perché l’onere di provare la sussistenza delle circostanze che costituiscono valida causa di giustificazione dell’assenza incombe sull’imputato, non potendo addossarsi alla Corte d’assise l’onere di verificare se, per caso, tra i generici "lavori parlamentari" indicati nel telegramma proveniente dalla Presidenza della Camera vi fossero anche votazioni.

 

4.– Si è costituito innanzi a questa Corte anche il Senato della Repubblica, il quale ha concluso chiedendo che la Corte riconosca la fondatezza dei principi affermati nel ricorso della Camera dei deputati, in particolare del principio di leale collaborazione fra i poteri titolari della funzione giurisdizionale e i poteri titolari della funzione parlamentare, nelle ipotesi in cui la presenza fisica di un singolo parlamentare sia necessaria al corretto esercizio di entrambe le funzioni, e, conseguentemente, dichiari l’annullamento dell’ordinanza 16 novembre 1998 della Corte di assise di primo grado di Reggio Calabria.

In particolare, il Senato afferma il proprio interesse alla definizione del presente giudizio per conflitto di attribuzione. Sostiene al riguardo che la Corte di assise, a fronte della richiesta di rinvio dell’udienza presentata dalla difesa dell’on. Matacena, avvalorata da un telegramma del Presidente della Camera dei deputati attestante la concomitanza di lavori parlamentari, si è limitata, dopo una brevissima camera di consiglio, a rilevare l’assenza di qualunque specificazione in ordine sia alla effettiva partecipazione del deputato ai lavori della Camera di appartenenza sia al carattere di "indispensabilità" di quella partecipazione. In tal modo, però, il giudice di Reggio Calabria avrebbe direttamente e unilateralmente negato la posizione di autonomia costituzionale della Camera di appartenenza del parlamentare inquisito, determinando una grave e indebita interferenza sul corretto esercizio delle funzioni degli organi parlamentari, almeno da tre diversi punti di vista: per l’erroneo presupposto che si possano e si debbano distinguere attività degli organi parlamentari in cui la presenza dei componenti l’organo sia "indispensabile" rispetto ad attività in cui tale presenza "indispensabile" non sia; per l’assoluta prevalenza data ai valori costituzionali collegati con l’esercizio della funzione giurisdizionale rispetto ai valori attinenti alla funzione parlamentare, con integrale sacrificio dei secondi; per la mancata ricerca del necessario coordinamento con gli organi della Camera dei deputati (e, in particolare, con la Presidenza che si era appositamente attivata inviando il telegramma), al fine di acquisire le ulteriori informazioni e specificazioni ritenute assenti nell’istanza di rinvio presentata dalla difesa del deputato.

 

5.– In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica.

 

5.1.– Replicando alle eccezioni sollevate dalla Corte di assise nell’atto di costituzione, la Camera dei deputati esclude che il ricorso presenti alcun profilo di inammissibilità.

Quanto alla pretesa tardività del ricorso, si osserva che nei conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato vi è (al contrario di quanto accade per i conflitti tra Stato e Regione) completa assenza di un termine di decadenza per la promozione del conflitto. Ciò significa che il conflitto può essere proposto quando il soggetto leso lo ritiene opportuno, senza che il fluire del tempo possa minimamente condizionare tale decisione.

La decisione della Camera dei deputati in ordine al quando, pertanto, non sarebbe sindacabile né censurabile, ma costituirebbe esercizio di quella discrezionalità che i Costituenti hanno, consapevolmente, inteso conferire ai protagonisti dei (possibili) conflitti interorganici.

Né potrebbe sostenersi che l’interesse al ricorso abbia perduto la propria attualità, in ragione della perdita della qualità di deputato dell’on. Matacena, non riconfermato alle elezioni politiche del 13 maggio 2001. Infatti, il conflitto è strumento funzionalizzato alla tutela delle attribuzioni dei poteri dello Stato, non certo dei singoli loro componenti, sicché le vicende personali di costoro non inciderebbero minimamente sul vulnus inferto alle loro prerogative, né sull’interesse a restaurare il corretto rapporto tra i poteri.

La Camera esclude altresì che il conflitto sia stato impiegato per contestare il modo in cui l’autorità giurisdizionale ha conformato il diritto di difesa nel singolo procedimento giurisdizionale. Al riguardo, la ricorrente osserva che la Corte, con la sentenza n. 225 del 2001, avrebbe definitivamente chiarito che, mentre per quanto riguarda un singolo parlamentare, "le posizioni giuridiche protette nella sua qualità di imputato … e i correlati diritti di impugnazione e di difesa, restano sempre suscettibili di essere fatti valere con gli ordinari strumenti processuali", le prerogative della Camera di appartenenza, invece, possono essere salvaguardate solo con lo strumento del ricorso per conflitto di attribuzione.

Priva di rilievo sarebbe infine l’eccezione che fa leva sul fatto che "l’on. Matacena ha regolarmente partecipato ai lavori parlamentari svoltisi in data 16 novembre 1998". Anche nella fattispecie scrutinata con la sentenza n. 225 del 2001, invero, il parlamentare destinatario del provvedimento giudiziale impugnato dalla Camera aveva partecipato ai lavori parlamentari anziché all’udienza penale, ma tale scelta è stata considerata irrilevante.

Nel merito, la Camera ricorrente richiama la sentenza n. 225 del 2001 ed afferma che tale pronuncia "costituisce un puntuale precedente in termini, dal quale l’esigenza di accoglimento del ricorso esce decisivamente rafforzata". Ribadisce inoltre che la Corte di assise avrebbe operato una distinzione tra votazioni meritevoli e votazioni non meritevoli di determinare un impedimento assoluto. L’ordinanza da cui è sorto il conflitto avrebbe infatti inteso richiedere al parlamentare di provare se alla Camera si tenessero votazioni (ovvero, fossero previste non meglio precisate "interpellazioni") alle quali fosse indispensabile che il parlamentare medesimo partecipasse, con ciò dando per scontato che potessero e possano darsene di altre, per le quali tale indispensabilità non ricorra. Il che sarebbe non soltanto errato, ma anche lesivo delle prerogative costituzionali della ricorrente Camera dei deputati.

In ogni caso, alla luce della sentenza n. 225 del 2001, il giudice è tenuto a valutare l’assolutezza o meno dell’impedimento derivante dai lavori parlamentari quale che sia il contenuto di questi, poiché è arduo operare una netta "distinzione … fra diversi aspetti dell’attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali". Fermo restando, dunque, che per la ricorrente Camera dei deputati solo la previsione di votazioni dovrebbe determinare sempre l’insorgenza di un impedimento assoluto a partecipare ad udienze giudiziarie, sarebbe comunque (ed almeno) dovere del giudice procedente valutare sempre la natura dell’impedimento, tanto più che il generale dovere di leale cooperazione tra soggetti istituzionali avrebbe dovuto indurre il giudice procedente ad accertare quali lavori parlamentari fossero previsti, in concreto, per il 16 novembre 1998.

 

5.2.– Anche il Senato della Repubblica replica alle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Corte d’assise, escludendo in particolare che la Camera, attraverso l’atto introduttivo del presente giudizio, abbia utilizzato il conflitto di attribuzione semplicemente per richiedere alla Corte di correggere l’erronea applicazione da parte del giudice ordinario delle norme processuali sul legittimo impedimento a comparire alle udienze, giacché con il ricorso della Camera si chiede in realtà l’accertamento dell’interferenza nelle attribuzioni costituzionali del potere ricorrente derivata dall’ordinanza della Corte di assise di Reggio Calabria. Del resto, anche questa Corte, nella sentenza n. 225 del 2001, avrebbe pienamente condiviso questa impostazione, sindacando l’atto emanato dal potere giurisdizionale solo attraverso elementi di carattere estrinseco, relativi non al merito della decisione adottata, ma piuttosto al corretto esercizio del potere spettante all’autorità giudiziaria, secondo lo schema tipico dei conflitti da menomazione o da interferenza. Le censure mosse dal giudice costituzionale alle ordinanze annullate nella richiamata pronuncia risultano chiaramente finalizzate, in via esclusiva, ad accertare la sussistenza della lamentata compressione della sfera di potere delle due Camere e non hanno affatto lo scopo di sanzionare un errore di interpretazione della legge.

Nel merito – richiamati i principi che questa Corte ha enunciato nella sentenza n. 225 del 2001 – il Senato della Repubblica sostiene che la Corte di assise, anziché seguire un equilibrato uso degli strumenti di leale coordinamento, che permettono di stabilire una corretta relazione tra le sfere di autonomia costituzionale della giurisdizione e del Parlamento, avrebbe provocato direttamente la lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera ricorrente.

In primo luogo, perché la scarna motivazione della decisione di non giustificare l’assenza del deputato Matacena all’udienza presupporrebbe erroneamente una distinzione tra "attività parlamentari a presenza indispensabile" e "attività parlamentari a presenza non indispensabile".

In secondo luogo, perché il comportamento complessivo del giudice di Reggio Calabria non risulterebbe propriamente leale e collaborativo. In una breve camera di consiglio e con una formalistica, quasi laconica, motivazione dell’ordinanza, la Corte di assise si è limitata a considerare il dato meramente testuale della mancata specificazione del telegramma inviato dal Presidente della Camera. Sono elementi che renderebbero evidenti, da un lato, la sostanza di una decisione volta a salvaguardare interamente e pregiudizialmente i valori costituzionali collegati all’esercizio della giurisdizione e a sacrificare – altrettanto interamente e pregiudizialmente – i valori attinenti alle funzioni parlamentari; dall’altro, la totale negazione della stessa materiale possibilità di ricercare il necessario coordinamento con la posizione di autonomia costituzionale del Parlamento, attraverso, ad esempio, la diretta consultazione del calendario dei lavori della Camera (come noto, disponibile in rete), oppure l’attivazione di un contatto diretto con la Presidenza dell’organo che aveva inviato il telegramma.

Né, al riguardo, potrebbe sostenersi che l’onere di provare la sussistenza delle circostanze che costituiscono valida causa di giustificazione dell’assenza incombe sull’imputato e che dunque il giudice sarebbe tenuto a decidere esclusivamente sulla base di quanto risulti dagli atti di causa. Tale assunto – si osserva – può forse valere per le ipotesi in cui non vengano in questione interferenze tra la funzione giurisdizionale e le attribuzioni costituzionali di altri poteri dello Stato; ma non può certamente valere quando queste interferenze vi siano, giacché in queste ipotesi sul giudice incombe il preciso obbligo di assicurare (anche, evidentemente, con l’adozione di proprie autonome iniziative) il corretto e leale contemperamento di tutte le esigenze costituzionali.

Infine, la lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera ricorrente ad opera della Corte di assise di Reggio Calabria sarebbe resa palese dal fatto che il giudice non avrebbe mostrato di prendere in considerazione alcuna soluzione alternativa idonea a consentire il corretto bilanciamento tra le attribuzioni costituzionali in gioco, né avrebbe sentito il bisogno di motivare in alcun modo la propria decisione in ordine all’impraticabilità di una qualunque forma di contemperamento che fosse in grado di evitare il sacrificio totale delle esigenze parlamentari.

 

Considerato in diritto

 

1.– Il ricorso per conflitto di attribuzioni è stato proposto dalla Camera dei deputati, con atto depositato il 14 novembre 2000, contro la Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria, in relazione all’ordinanza da questa emessa il 16 novembre 1998 nell’ambito del processo nei confronti di Amedeo Gennaro Matacena, all’epoca componente della Camera dei deputati.

Alla prima udienza del processo, che in seguito è stato riunito con altro pendente nei confronti di diversi imputati, la difesa del deputato Matacena chiedeva di giustificare l’assenza del medesimo, producendo un telegramma del Presidente della Camera dei deputati in cui, in relazione al processo in questione, fissato presso la Corte d’assise di Reggio Calabria per lunedì 16 novembre 1998, si comunicava che in detta data erano "previsti lavori parlamentari". La Corte decideva nel modo seguente: "Ritenuto che l’imputato ha giustificato la propria assenza adducendo la concomitanza di lavori parlamentari, atteso che non appare specificato se esso Matacena parteciperà a detti lavori o se la sua presenza per eventuali votazioni o interpellazioni prenotate sia oggi indispensabile in Parlamento, (…) attesa la genericità delle giustificazioni addotte non le ritiene fondate, conseguentemente essendo stata la notifica del decreto che dispone il giudizio regolarmente effettuata, ed essendo il Matacena oggi assente non adducendo valide giustificazioni, ne dichiara la contumacia".

La Camera ricorrente, premesso di ritenere doversi considerare in ogni caso assoluto l’impedimento del parlamentare imputato solo nel caso – verificatosi nella specie – di concomitanza di votazioni in assemblea, lamenta in primo luogo la violazione degli articoli 64, 68 e 72 della Costituzione in relazione alla lesione della autonomia organizzativa della Camera stessa e della indipendenza dei suoi membri; in secondo luogo, la violazione dell’art. 64, terzo comma, della Costituzione anche in riferimento alle altre norme costituzionali che prescrivono speciali maggioranze per le deliberazioni delle Camere, a causa dell’impedimento alla funzionalità del Parlamento che discenderebbe dall’ostacolo frapposto alla partecipazione del parlamentare alle votazioni; in terzo luogo, la violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione per la lesione al libero esercizio del mandato parlamentare, che si tradurrebbe in lesione dell’autonomia e dell’indipendenza della Camera. Lamenta ancora, infine, la mancanza, nell’atto impugnato, di un bilanciamento fra le esigenze, entrambe di rilevanza costituzionale, della speditezza del processo e della libera esplicazione del mandato parlamentare nonché della funzionalità delle assemblee; e la violazione del principio di leale collaborazione.

La Camera chiede pertanto dichiararsi che "non spetta alla Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione del deputato alle udienze penali, e perciò causa di giustificazione della sua assenza, il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea", e conseguentemente annullarsi l’ordinanza impugnata.

 

2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 178 del 2001, ed è stato in seguito regolarmente notificato e depositato. Questa Corte ha disposto la notifica del ricorso anche al Senato della Repubblica, che si è a sua volta costituito chiedendo che la Corte riconosca la fondatezza dei principi affermati nel ricorso, in particolare del principio di leale collaborazione fra i poteri titolari della funzione giurisdizionale e i poteri titolari della funzione parlamentare, nella ipotesi in cui la presenza fisica di un singolo parlamentare sia necessaria al corretto esercizio di entrambe le funzioni, e che conseguentemente annulli l’ordinanza impugnata.

 

3.– Non possono essere accolte le eccezioni di inammissibilità del ricorso, avanzate dalla difesa della resistente Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria.

Non quella, in primo luogo, fondata sulla non attualità dell’interesse fatto valere dalla ricorrente in relazione al lungo tempo trascorso (circa due anni) dall’emissione dell’atto impugnato alla proposizione del ricorso, poiché, in assenza di un termine perentorio per la proposizione del conflitto di attribuzioni fra poteri, non può escludersi, in linea di principio, la sussistenza dell’interesse solo per il decorso del tempo.

Né può condividersi l’eccezione di carenza di interesse al ricorso in ragione della duplice circostanza che il deputato Matacena prese parte, nel giorno indicato, alla seduta della Camera e alle votazioni in essa indette, e che egli non è più, attualmente, membro della Camera, non essendo stato rieletto nella presente legislatura. Infatti, per quanto riguarda il primo aspetto, l’eventuale lesione delle attribuzioni della Camera può sussistere anche indipendentemente dalla effettiva partecipazione del deputato ai lavori dell’assemblea; quanto al secondo aspetto, la lesione delle attribuzioni della Camera, che si fosse verificata, non verrebbe meno per il solo fatto che, successivamente, il parlamentare non venga rieletto.

Nemmeno, infine, può condividersi la tesi secondo cui non vi sarebbe materia di un conflitto quando si controverta sul modo concreto in cui l’autorità giudiziaria ha conformato "il concreto atteggiarsi del diritto di difesa nei procedimenti che si svolgono" innanzi ad essa, poiché, se da un lato il singolo parlamentare può far valere nel processo le eventuali violazioni del suo diritto di difesa, non è escluso che una pronuncia dell’autorità giudiziaria, in ragione del suo specifico contenuto o della sua motivazione, risulti lesiva delle attribuzioni costituzionali del Parlamento, e come tale sia suscettibile di dar luogo ad un conflitto costituzionale.

 

4.– Nel merito, il ricorso è fondato nei termini di cui appresso.

I principi di ordine costituzionale che connotano la materia in questione sono stati individuati da questa Corte nella sentenza n. 225 del 2001, in termini che debbono qui essere interamente confermati.

Secondo tali principi, "la posizione dell’imputato, che sia membro del Parlamento, di fronte alla giurisdizione penale ( ... ) non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite" dall’art. 68, primo e secondo comma, della Costituzione, onde al di fuori delle ipotesi ivi stabilite "trovano applicazione, nei confronti dell’imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali". Non è compito di questa Corte, ma dei competenti organi della giurisdizione, interpretare e applicare le regole processuali, e nemmeno dunque "stabilire se e in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti ( … ) dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l’imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dover essere equiparati, secondo il dettato dell’art. 486 del codice di procedura penale, a cause di forza maggiore". Non v’è dunque luogo ad individuare "regole speciali, derogatorie del diritto comune", e nemmeno, quindi, la regola che la Camera dei deputati vorrebbe fosse introdotta, per cui costituirebbe impedimento assoluto solo quello derivante dalla necessità dell’imputato di prendere parte a votazioni in assemblea: il che significherebbe introdurre una distinzione "fra diversi aspetti dell’attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali", non potendosi inoltre "escludere che l’esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori".

Tuttavia l’autorità giudiziaria, come ogni altro potere, "allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze", deve tener conto "non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni", e così "ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza" (tutte le citazioni sono tratte dalla sentenza n. 225 del 2001). Pertanto il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda.

 

5.– Nella specie, la Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria non ha rispettato tali principi.

Di fronte alla allegazione di un impedimento, accompagnata da un telegramma del Presidente della Camera dei deputati, che attestava inequivocabilmente la concomitanza di "lavori parlamentari" nella stessa data, l’autorità giudicante (che si trovava a celebrare la prima udienza del processo) non ha operato alcuna valutazione in concreto atta a confrontare o bilanciare l’interesse del processo con l’interesse della Camera alla partecipazione del suo componente ai lavori in programma, o a rendere compatibili le due esigenze, ma si è limitata a osservare che non sarebbe stato specificato se il deputato avrebbe effettivamente partecipato ai lavori o se la sua presenza fosse "indispensabile in Parlamento".

Essa non ha dunque adeguatamente valutato, in correlazione con l’interesse del processo, quello a non privare l’assemblea parlamentare della partecipazione del suo componente, il cui diritto-dovere di prendere parte ai lavori sussiste, in linea di principio, rispetto ad ogni attività della Camera di appartenenza: con ciò ha leso le attribuzioni costituzionali della ricorrente.

Alla constatazione dell’avvenuta lesione consegue l’annullamento del provvedimento impugnato, fermo restando che spetterà alle competenti autorità giurisdizionali investite del processo (essendosi questo nel frattempo concluso in primo grado) valutare le eventuali conseguenze di tale annullamento sul piano processuale.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara, in accoglimento del ricorso in epigrafe, che non spettava alla Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria, senza una valutazione del caso concreto che tenesse conto, oltre che dell’interesse alla speditezza del processo, dell’interesse della Camera dei deputati alla partecipazione del suo componente allo svolgimento delle attività parlamentari, negare la validità dell’impedimento addotto a giustificazione dell’assenza dell’imputato componente della Camera medesima; e conseguentemente

 

b) annulla l’impugnata ordinanza 16 novembre 1998 della Corte d’assise di primo grado di Reggio Calabria.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2003.

 

 

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2003.


 

Sentenza del 13 gennaio-20 gennaio 2004, n. 24

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

-Riccardo CHIEPPA Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

 

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 30 giugno 2003 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Silvio Berlusconi iscritta al n. 633 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di costituzione di Silvio Berlusconi e della CIR spa nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 2003 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi gli avvocati Gaetano Pecorella e Niccolò Ghedini per Silvio Berlusconi, Giuliano Pisapia, Alessandro Pace e Roberto Mastroianni per la CIR spa e l’avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.— Nel corso di un processo penale in cui è imputato l’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 101, 112, 68, 90, 96, 24, 111 e 117 della Costituzione, dell’art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato).

Osserva innanzitutto il giudice a quo che la questione è rilevante perché, imponendo la norma impugnata la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio, il Tribunale è tenuto ad applicare tale norma e, in caso di dubbio sulla legittimità costituzionale della medesima, a sollevare questione davanti a questa Corte.

Ciò posto, il Tribunale rileva che occorre occuparsi sia della previsione generale del comma 1 sia di quella specifica del comma 2, allo scopo di valutare la natura della norma impugnata. A tal proposito, il Collegio afferma che la sospensione in esame non ha nulla a che vedere con le altre ipotesi di sospensione del processo penale previste nel nostro ordinamento (normalmente riferibili a situazioni oggettive di carattere endoprocessuale) che, anche nel caso in cui implichino qualità personali dell’imputato (art. 71 cod.proc.pen.), hanno riguardo ad una situazione obiettiva di incapacità del medesimo a stare in giudizio tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento. Né, d’altra parte, possono ravvisarsi analogie tra la norma impugnata e il regime derogatorio dell’assunzione della prova testimoniale dettato dall’art. 205 cod.proc.pen a favore dei soggetti cui si riferisce l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, poiché la suddetta norma del codice di rito si limita a stabilire un contemperamento degli interessi in gioco, ma non sottrae i soggetti da essa contemplati ai doveri comuni a tutti gli altri cittadini rispetto all’esercizio della funzione giurisdizionale. La disposizione impugnata, invece, collegando la non sottoposizione a processo penale e la connessa sospensione dei processi penali in corso all’assunzione ed alla durata della carica o della funzione, configura una ipotesi di non processabilità che non ha nulla a che vedere con cause e motivazioni endoprocessuali e che si atteggia, quindi, come una prerogativa in favore dei soggetti chiamati a ricoprire le cinque più alte cariche dello Stato. Poiché tale beneficio incide sull’esercizio dell’azione penale – che è da intendere non solo come esplicazione di attività di indagine o formulazione di un’accusa, bensì anche come possibilità di vagliare nel contraddittorio processuale la fondatezza dell’ipotesi accusatoria davanti ad un giudice terzo ed imparziale – il giudice remittente ravvisa innanzitutto una violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e dell’art. 112 della Costituzione.

Né va omesso di considerare che il principio di eguaglianza rientra tra i principi fondanti della Carta costituzionale, derogabile solo dalla stessa Costituzione o con modifiche costituzionali adottate ai sensi dell’art. 138 Cost., come risulta confermato dal fatto che tutte le prerogative riguardanti cariche o funzioni costituzionali sono regolate da fonti di tale rango (artt. 90, 96 e 68 Cost. ed art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso ai giudici costituzionali le immunità accordate ai parlamentari dall’art. 68, secondo comma, Cost., nel testo allora vigente). Conseguentemente, da questo punto di vista, l’impugnato art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003, in riferimento al comma 1 della stessa disposizione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. in relazione agli artt. 101 e 112 Cost. Né, ad avviso del Tribunale di Milano, è utilmente richiamabile, sotto il profilo della non necessità di una legge costituzionale per introdurre la prerogativa in questione, l’art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, riguardante i componenti del Consiglio superiore della magistratura. Tale norma infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato, non ha creato alcuna forma di immunità, ma – come precisato da questa Corte nella sentenza n. 148 del 1983 – ha solo previsto una speciale causa di non punibilità, rigorosamente circoscritta «alle manifestazioni di pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri costituzionalmente spettanti ai componenti il Consiglio superiore», la quale, da un lato, non è assimilabile alle immunità e prerogative previste dalla Costituzione e, dall’altro, ha un ambito di operatività che è diverso rispetto a quello delle scriminanti di diritto penale comune e che risulta «frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco». La norma impugnata, invece, non ha creato una scriminante speciale (di per sé compatibile con l’esercizio della giurisdizione), ma una causa di “non processabilità” o di sospensione dei processi in corso che, inevitabilmente, si pone in conflitto col carattere di obbligatorietà dell’azione penale.

Prosegue poi il Tribunale ravvisando un palese contrasto tra la norma impugnata e gli artt. 3, 68, 90 e 96 della Costituzione.

L’art. 1 della legge n. 140 del 2003, infatti, fa salva l’applicazione degli artt. 90 e 96 della Costituzione, con ciò indirettamente confermando di voler istituire una prerogativa ulteriore rispetto a quelle ivi previste, per di più priva di ogni collegamento funzionale con la carica rivestita e senza un limite temporale preciso e determinato. Nel disegno fissato dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., invece, le speciali forme di immunità e le particolari condizioni di procedibilità ivi regolate risultano strettamente connesse con l’esercizio delle funzioni di parlamentare, di Presidente del Consiglio, di Ministro e di Presidente della Repubblica, mentre la norma in questione non ha alcun collegamento con la funzione, imponendo, come si è detto, la sospensione di tutti i processi penali, per qualsiasi tipo di reato ed anche in riferimento a fatti antecedenti l’assunzione della carica. D’altra parte pare in sé irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa dell’imputato e dell’art. 111 Cost., che, in particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri possa essere sottoposto a giudizio, previa autorizzazione della Camera di appartenenza, per i reati funzionali e non possa – a tempo indeterminato e irrinunciabilmente – esserlo per i reati comuni.

Il giudice remittente, poi, passa ad analizzare – con riguardo alla tutela dei diritti della parte offesa costituitasi parte civile nel procedimento penale sospeso – ulteriori motivi di censura in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest’ultimo in rapporto con l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Da tale ultimo parametro, in particolare, si evince, alla luce della  giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la possibilità concreta di accedere agli organi di giustizia è da considerare fondamentale per l’effettiva tutela dei diritti, sicché «uno Stato non può, senza riserve o senza il controllo degli organi della Convenzione, sottrarre dalla competenza dei tribunali tutta una serie di azioni civili o esonerare da responsabilità delle categorie di persone», ancorché possano giustificarsi prerogative nei confronti dei parlamentari.

Ma la più evidente violazione dei diritti della parte civile costituita deriva dal fatto che, in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., la norma impugnata viene a creare un «impedimento indeterminato dell’esercizio dell’azione civile per effetto della disposizione di cui all’art. 75, comma 3, cod.proc.pen.». Tale ultima disposizione stabilisce che «se l’azione è proposta in sede civile contro l’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale … il processo civile è sospeso fino alla pronunzia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge». Poiché la norma impugnata non prevede alcuna eccezione alla suddetta regola, è palese che la parte civile si trova nell’impossibilità di trasferire la propria pretesa risarcitoria in sede civile. Né potrebbe ipotizzarsi una revoca della costituzione di parte civile (art. 82 cod.proc.pen.), in quanto la sospensione del processo imposta dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003 non consente lo svolgimento di alcuna attività processuale, ivi compresa la suddetta revoca.

Un ulteriore profilo di violazione degli artt. 24 e 111 Cost. sarebbe ravvisabile, infine, per effetto della mancata previsione, da parte della norma impugnata, di una clausola che faccia salvo il compimento degli atti urgenti di natura processuale – come, ad esempio, l’assunzione urgente di una prova in sede di incidente probatorio – non potendosi certamente fare ricorso all’art. 512 cod.proc.pen. che disciplina l’ipotesi di acquisizione in dibattimento di atti assunti in sede di indagine nel caso in cui, «per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione». La disciplina dell’incidente probatorio riguarda, invece, il caso in cui vi sia, per vari motivi, fondato timore di non poter più acquisire nella sede propria dibattimentale la prova necessaria. Sicché è del tutto evidente la diversità delle due situazioni.

Il giudice a quo solleva poi un’altra questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 110, quinto comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, che forma oggetto di separato procedimento.

2.— Si è costituito in giudizio l’on. Silvio Berlusconi che, con ampia ed articolata memoria, ha chiesto che tutte le proposte questioni vengano dichiarate non fondate.

In riferimento alla questione relativa all’art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003 la parte costituita sottolinea, preliminarmente, che il Presidente della quinta sezione penale della Corte di cassazione, chiamato ad esaminarne la posizione di imputato in altro procedimento (nel quale era stato prosciolto insieme ad altri coimputati, con provvedimento impugnato in Cassazione), in data 30 giugno 2003 ha disposto la separazione di tale posizione con conseguente sospensione del relativo processo e creazione di un separato fascicolo, «così dando atto dell’immediata applicabilità delle disposizioni della legge n. 140 del 2003», senza prospettare alcun dubbio di costituzionalità in merito alla norma oggi impugnata.

Ciò posto, l’on. Berlusconi rileva che la ratio della norma stessa è quella di salvaguardare le più alte cariche dello Stato, durante lo svolgimento del mandato, dagli inevitabili turbamenti conseguenti all’esercizio di ogni azione penale. Nel sistema costituzionale non è affatto necessario che tutto ciò che riguarda tali cariche sia regolato con legge costituzionale, né a tale ricostruzione ostano gli artt. 90 e 96 della Costituzione: l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (tranne che in caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione) e la valutazione politica circa l’opportunità che il Presidente del Consiglio ed i Ministri vengano sottoposti a processo penale per i c.d. reati ministeriali non confliggono con la sospensione dei processi per i reati comuni. Per questi ultimi, infatti, la Carta costituzionale nulla prevede, e ciò implica che al legislatore ordinario non è inibito di provvedere autonomamente al riguardo, tanto più che, nei casi in cui la Costituzione ha preteso che si provvedesse con legge costituzionale, lo ha espressamente stabilito (v., ad esempio, artt. 116 e 132 Cost.).

La memoria passa poi ad occuparsi direttamente del contenuto precettivo della norma impugnata per valutare in particolare se nel nostro ordinamento esista o meno l’istituto della sospensione del processo penale e se vi sia un collegamento (nel senso di una possibile violazione) tra detta sospensione ed il principio di obbligatorietà dell’azione penale richiamato dal Tribunale di Milano. A tal fine si osserva che il sistema conosce la sospensione del processo penale, finalizzata a vari obiettivi; è richiamata in proposito un’ampia serie di norme contenute nel codice di procedura penale del 1930 (artt. 18, 19 e 20), nel vigente codice di procedura penale (artt. 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477 e 479), nel codice penale (artt. 159 e 371-bis) e in numerose altre leggi particolari, come quelle in materia di condono tributario o di rimessione di una questione di legittimità costituzionale a questa Corte o di questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia delle Comunità europee. In tutti questi casi non c’è un termine preciso per la ripresa dell’attività processuale dopo la sospensione e, qualora vi sia sospensione anche della prescrizione, non sussistono particolari problemi per il protrarsi dei tempi del processo.

Si tratta di norme che disciplinano situazioni di «varia natura» che, tuttavia, in alcuni casi attribuiscono rilevanza determinante a scelte politiche prevalenti rispetto alla giurisdizione (art. 243 cod.pen.mil.guerra) e in altri casi a caratteristiche peculiari dei soggetti che si giovano della sospensione (v. decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e art. 71 cod.proc.pen.). Tra quest’ultimo tipo di norme la parte privata si sofferma, in particolare, sull’ipotesi di sospensione del processo disciplinata dall’art. 71 cod.proc.pen., richiamando le pronunce di questa Corte n. 281 del 1995, n. 354 del 1996, n. 19 del 1999 e n. 33 del 2003, desumendone, da un lato, che la sospensione del processo non costituisce violazione dell’art. 112 Cost. in quanto comporta una semplice sospensione dell’azione penale e, dall’altro, che neppure è configurabile il contrasto con il principio della ragionevole durata del processo in quanto «si verte in tema di ius singulare che comporta una eccezione» e, comunque, la sospensione della prescrizione garantisce l’esercizio della giurisdizione. Questi argomenti ben si attagliano al caso di specie, sicché anche per esso deve escludersi la contrarietà con gli indicati parametri costituzionali.

D’altra parte, il sistema processuale vigente prevede, oltre ai casi di sospensione, anche quelli nei quali il reato è perseguibile soltanto a richiesta del Ministro della giustizia (artt. 8, 9 e 10 cod.pen.), ovvero dietro sua autorizzazione (art. 313 cod.pen., positivamente scrutinato da questa Corte nella sentenza n. 22 del 1959), ovvero a querela di parte; inoltre questa Corte ha in più occasioni ribadito la legittimità costituzionale dell’art. 260 cod.pen.mil.pace che subordina la procedibilità di una serie di reati militari alla richiesta del comandante del corpo.

Il principio di eguaglianza richiamato dal Tribunale di Milano ha, quindi, il significato di vietare leggi ad personam allorquando le persone prese in considerazione siano effettivamente “eguali”, ma non quello di impedire le opportune diversificazioni. In tale ottica la parte privata osserva che vi sono numerose norme, sia di diritto penale sostanziale sia di diritto processuale penale, nelle quali rileva la condizione soggettiva del destinatario; tra queste ultime vengono ricordate, oltre all’art. 205 cod.proc.pen., l’art. 200 cod.proc.pen. sul segreto professionale e le norme sull’incompatibilità ad assumere l’ufficio di testimone.

Dopo aver esaminato l’aspetto relativo alla sospensione del processo, la difesa affronta il problema delle cause di immunità riconosciute dal nostro ordinamento, cercando innanzitutto di stabilire cosa si intenda effettivamente per immunità. Si richiamano, all’uopo, alcune specifiche disposizioni riguardanti il trattamento processuale dei funzionari e dei dipendenti consolari nonché le immunità in favore dei componenti il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Si passa poi a considerare l’art. 5 della legge n. 1 del 1981 relativa ai componenti del Consiglio superiore della magistratura, che ha introdotto una causa soggettiva di non punibilità «ben più pregnante ed incisiva sulla giurisdizione che non una sospensione» del processo, con annessa sospensione della prescrizione. Il giudice remittente avrebbe altresì dimenticato di tener presente tutta una serie di ipotesi nelle quali sussistono altre cause di immunità (si citano, in proposito, sentenze della Corte di cassazione sull’estradizione, sulle immunità diplomatiche e consolari, sui reati commessi da militari appartenenti alla NATO nel territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, nonché sui reati commessi da soggetti appartenenti ad enti centrali della Chiesa cattolica).

Fatte queste premesse generali, la parte privata richiama la distinzione dottrinale tra le immunità funzionali e quelle extrafunzionali, ricordando che queste ultime, in particolare, fanno sì che l’individuo che ne gode non possa essere assoggettato al processo penale per reati “comuni” commessi nel corso del proprio incarico o prima dello stesso. Terminato il mandato, però, si ha una reviviscenza della punibilità per i fatti extrafunzionali, sicché tale tipo di immunità non crea, in effetti, alcun tipo di limite al potere giurisdizionale. Si sarebbe perciò in presenza di una esenzione temporanea dalla giurisdizione, determinata da motivi di opportunità politica per cui il soggetto, «pur penalmente capace al momento della commissione dell’illecito, non lo è processualmente, per evitare un qualsiasi turbamento nel regolare svolgersi dell’attività»; concluso l’incarico, nulla può impedire l’avvio o la prosecuzione del processo penale per illeciti penali di carattere privato. I suddetti motivi di opportunità politica correlati all’attività del soggetto possono essere inerenti ai rapporti tra poteri dello Stato ovvero sul piano internazionale ai rapporti tra organi di Stati diversi che comportano una autolimitazione da parte dell’ordinamento della propria giurisdizione, la quale torna poi a riespandersi nella sua interezza al termine del mandato cui è connessa la prerogativa (si citano, al riguardo, un parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aja a proposito delle immunità dei componenti dell’ONU e la sentenza della medesima Corte del 14 febbraio 2002 sull’immunità di un Ministro degli esteri della Repubblica del Congo nei confronti del quale un giudice belga aveva emesso un ordine di arresto internazionale, c.d. caso Yerodia).

Dalla suddetta analisi si desume che «la possibilità di prevedere … immunità extrafunzionali con legge ordinaria appare … conclamata», ma tale osservazione non è l’unica a dimostrare l’erroneità del ragionamento seguito dal Tribunale di Milano, perché l’argomento principale attraverso il quale si perviene a questo risultato è rappresentato dalla profonda diversità che sussiste tra il tema della sospensione temporanea del processo e quello delle immunità. Se, infatti, si ha chiara tale differenza, tutta una serie di argomentazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione diventano ininfluenti, in quanto è proprio la suddetta diversità che spiega perché, mentre per le immunità è necessariamente richiesto un collegamento con la funzione esercitata al momento della commissione del fatto, ciò invece non è necessario per la sospensione. Inoltre, mentre l’immunità, sottraendo un soggetto all’esercizio della giurisdizione, deve essere, in alcuni casi, prevista da norme di rango costituzionale, ciò non è richiesto per la sospensione che, ove si accompagni a quella della prescrizione del reato, non incide sull’integrità del valore della giurisdizione, ma coinvolge altri beni costituzionalmente protetti e, precisamente, quello della funzionalità della carica di rilevanza costituzionale e quello della ragionevolezza dei tempi del processo.

Una volta escluso che la norma impugnata avrebbe dovuto avere rango di legge costituzionale, resta da valutare se essa violi, per il suo contenuto precettivo, uno dei parametri costituzionali richiamati dal giudice remittente.

Con riguardo all’art. 112 Cost., la parte privata osserva che in tema di condizioni di procedibilità al legislatore è concessa ampia discrezionalità, sicché il punto decisivo non è quello dei rapporti col principio di obbligatorietà dell’azione penale, quanto piuttosto quello di stabilire se la norma sia o meno ragionevole. Si richiamano, al riguardo, le sentenze n. 89 del 1982, n. 85 del 1998, n. 298 del 2000, e n. 223 del 2001 di questa Corte, dalle quali si deduce che è soltanto in caso di trattamento diverso di situazioni uguali che può affermarsi la sussistenza di un’irragionevolezza conseguente alla diversità di trattamento. La violazione del principio di eguaglianza presuppone, in altre parole, una valutazione in cui vi è un tertium comparationis alla stregua del quale si ravvisi la disparità; nel caso della norma impugnata, invece, le uniche situazioni similari con le quali sembrerebbe possibile un raffronto sono quelle di cui agli artt. 90 e 96 Cost., ma, al di là del fatto che esse si riferiscono a soggetti presi in considerazione anche dalla norma impugnata, le ipotesi rispettivamente disciplinate sono, in realtà, molto diverse e, quindi, inconfrontabili. Infatti, l’art. 96 Cost. stabilisce, a tutela della funzione ministeriale, che per i reati commessi nell’esercizio di tale funzione è competente un particolare organo giurisdizionale, senza dire nulla  in relazione alla procedibilità; analogamente, l’art. 90 Cost. prevede, a tutela della libertà della funzione del Presidente della Repubblica, l’impunità per gli atti compiuti nel relativo esercizio e i casi di deroga a tale impunità. La legge n. 140 del 2003, invece, si limita a dettare semplicemente una regola di procedura.

Tale regola che, per quanto fin qui si è detto, non contrasta con l’art. 3 Cost. dal punto di vista del principio di eguaglianza, neppure viola il suddetto parametro per quel che riguarda il principio di ragionevolezza. Al riguardo potrebbe sostenersi l’irragionevolezza in sé della normativa impugnata in conseguenza dell’impossibilità che essa determinerebbe in ordine alla formazione della prova, ma anche questa censura è destituita di fondamento in quanto l’utilizzazione del termine “processo” e non di quello “procedimento” ha proprio il significato tecnico di consentire l’assunzione delle prove nel corso delle indagini preliminari.

La memoria difensiva si sofferma, poi, sul particolare aspetto della questione riguardante la parte civile. Si sostiene, in proposito, che detta questione sarebbe stata impropriamente sollevata dal Tribunale di Milano in sede penale, nell’erronea convinzione che l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, imponendo l’immediata sospensione del processo, non consenta lo svolgimento di alcuna attività processuale. In realtà, anche trascurando la circostanza che, nella specie, la parte civile costituita non ha in effetti mai dichiarato di voler trasferire la propria domanda in sede civile – sicché la questione dovrebbe ritenersi inammissibile, in quanto del tutto ipotetica – resta il fatto che il dubbio di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere posto nella sede competente, ossia davanti al giudice civile, chiamato eventualmente a fare applicazione dell’art. 295 del codice di procedura civile. Del resto, sarebbe del tutto incongrua una sospensione ex lege del processo penale cui non faccia seguito la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile. In tal senso vanno letti l’art. 75, comma 3, cod.proc.pen. e l’art. 82 del medesimo codice (che consente la revoca della costituzione di parte civile) e ciò vale, di per sé, ad escludere qualsiasi violazione dell’art. 24 Cost. Tale lettura corrisponde al principio della separazione delle giurisdizioni che, in materia di rapporti tra giudizi diversi, ha sostituito, nel vigente codice di procedura penale, quello dell’unità della giurisdizione cui, invece, si ispirava il codice del 1930. Una conferma dell’esattezza di tale tesi è rinvenibile, secondo la parte privata, anche nella sentenza n. 354 del 1996 di questa Corte con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del citato art. 75, comma 3, cod.proc.pen., nella parte relativa alla mancata previsione dell’inapplicabilità della disciplina ivi stabilita per i rapporti tra azione civile e azione penale all’ipotesi di «accertato impedimento fisico permanente che non permetta all’imputato di comparire all’udienza, ove questi non consenta che il dibattimento prosegua in sua assenza». A tale conclusione la pronuncia è pervenuta al fine di impedire – in armonia con quanto deciso nella precedente sentenza n. 330 del 1994 – una stasi del processo «di durata indefinita ed indeterminabile» che avrebbe vulnerato il diritto di azione e difesa della parte civile. E’ del tutto evidente che l’ipotesi esaminata nella citata sentenza non è affatto assimilabile a quella disciplinata dalla norma attualmente impugnata. Infatti, anche a prescindere dal fatto che le cariche indicate dalla legge n. 140 del 2003, pur essendo alcune volte ipoteticamente reiterabili, hanno una durata predeterminata ex lege, va considerato che la disciplina censurata dalla Corte «non era quella attuale ma quella del codice del 1930», sicché non solo per essa non si ponevano problemi di ammissibilità rispetto alla proposizione delle relative questioni di legittimità costituzionale direttamente nel giudizio penale, ma soprattutto emergeva la necessità di superare la regola del divieto della translatio iudicii dalla sede penale a quella civile derivante dal principio dell’unità della giurisdizione. La disciplina attualmente vigente non è più ispirata, come si è detto, a tale principio; conseguentemente il problema allora denunciato non può più porsi in quanto la parte civile ha, di regola, la facoltà di trasferire la propria azione in sede civile.

 

3.— Si è costituita anche la CIR s.p.a., parte civile costituita nel giudizio a quo, sostenendo la piena condivisibilità delle argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e chiedendo che la norma denunciata venga dichiarata costituzionalmente illegittima.

Osserva la parte privata che l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, prevedendo l’automatica sospensione del processo a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, è in contrasto innanzitutto con l’art. 3 Cost. (in relazione agli artt. 101 e 112 Cost.), perché attribuisce una prerogativa incompatibile col principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, principio che può essere derogato solo con una legge costituzionale (sentenza n. 300 del 1984 di questa Corte). A tale conclusione induce, con assoluta evidenza, il fatto che nel nostro ordinamento di regola le prerogative o le immunità riguardanti cariche o funzioni istituzionali sono previste o direttamente dalla Carta costituzionale (artt. 68, 90 e 96 Cost.) ovvero in successive leggi costituzionali (es. legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, in materia di procedimenti per i reati di cui all’art. 96 Cost.).

Per altro verso, e sempre in relazione all’art. 3 Cost., la norma impugnata viola il principio di obbligatorietà dell’azione penale, poiché impedisce a tempo indeterminato che il processo penale venga condotto ad una definizione, in considerazione del fatto che l’attuale Presidente del Consiglio potrebbe continuare a ricoprire la carica per molti anni, ovvero essere eletto ad altra carica istituzionale tra quelle di cui alla norma in questione.

Fatte queste premesse, la memoria osserva che nel nostro sistema le immunità e le prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost., oltre ad essere disposte da norme di rango costituzionale, sono comunque collegate allo svolgimento delle funzioni, di modo che il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio ed i Ministri, fino all’entrata in vigore della legge in esame, erano, per i reati comuni, soggetti alla legge come tutti gli altri cittadini. Oggi, invece, i procedimenti eventualmente instaurati a carico del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri in merito a tali ultimi reati, sono tutti sospesi ope legis e senz’alcuna possibilità di controllo istituzionale, anche nell’ipotesi in cui si tratti di reati commessi prima dell’assunzione della carica, mentre per i reati c.d. funzionali continua ad avere vigore la disciplina che ne prevede la giustiziabilità, sia pure a certe condizioni. Ne consegue che, da questo punto di vista, la norma impugnata appare in contrasto con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Il carattere obbligatorio e non rinunziabile della sospensione sarebbe poi lesivo sia del diritto di difesa (art. 24 Cost.) sia del principio della ragionevole durata dei processi sancito dall’art. 111 Cost., il che è tanto più evidente in relazione alla mancanza di una specifica norma che garantisca la possibilità di assunzione al processo delle prove non rinviabili o di compimento degli atti urgenti, a differenza di quanto è espressamente stabilito dal codice di procedura penale in altri casi di sospensione (si citano gli artt. 3, comma 3; 41, comma 2; 47, comma 3; 70, commi 2 e 3; 71, comma 4, cod.proc.pen.).

Per quanto specificamente interessa la domanda avanzata dalla parte civile costituita, si rileva che la sospensione del processo penale, in mancanza di una norma che deroghi al disposto dell’art. 75, comma 3, cod.proc.pen., viene di fatto a paralizzare sine die ogni pretesa risarcitoria della suddetta parte nei confronti dell’imputato. Il processo penale è, infatti, sospeso, mentre la domanda eventualmente proposta in sede civile dovrebbe necessariamente comportare la sospensione anche di quest’ultimo  processo, poiché le eccezioni previste alla regola del citato art. 75, comma 3, sono tassative e non estensibili in via analogica.

La CIR s.p.a., infine, si associa alle considerazioni fatte dal Tribunale di Milano a proposito della violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento al principio relativo al diritto di accesso ad un tribunale, desumibile dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (secondo quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Golder del 21 febbraio 1975 e nella sentenza Cordova del 31 gennaio 2003).

 

4.— E’ altresì intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che vengano dichiarate inammissibili o comunque infondate entrambe le questioni proposte dal Tribunale di Milano.

Quanto alla questione relativa all’art. 1 della legge n. 140 del 2003, la difesa erariale osserva che il giudice a quo muove da un presupposto erroneo, ossia quello per cui detta norma avrebbe creato una nuova figura di immunità. Essa, invece, si limita a disporre la sospensione dei processi in corso, con conseguente sospensione dei termini di prescrizione dei reati, in linea con quanto stabilito per altre ipotesi di sospensione del processo penale – sia obbligatoria (v. art. 71 cod.proc.pen. e art. 3, comma 5, della stessa legge n. 140 del 2003) sia facoltativa (v. art. 486 cod.proc.pen.) – previste dal sistema. Ne consegue che non vi sarebbe lesione dell’art. 112 Cost., sia perché l’azione penale viene ugualmente esercitata nei confronti dei soggetti che ricoprono le alte cariche istituzionali indicate nella norma impugnata (anche se con sospensione del processo per la durata del mandato) sia perché il decorso del tempo non incide sulla pretesa punitiva dello Stato, in virtù dell’espresso richiamo dell’art. 159 cod.pen., in materia di sospensione del corso della prescrizione.

Escluso, quindi, che la norma de qua abbia a che fare con le immunità riservate alla regolamentazione costituzionale, l’Avvocatura dello Stato ritiene che essa non si ponga in contrasto neppure con gli altri principi costituzionali invocati dal giudice a quo. Si tratta di una disciplina che è stata dettata allo scopo di impedire che «vicende processuali di diritto comune possano intralciare l’operato dei vertici costituzionali democraticamente scelti per tutto – e solo – il tempo in cui essi svolgono la loro funzione». La ratio cui si è ispirato il legislatore non era, quindi, quella di proteggere i soggetti che ricoprono le alte cariche dello Stato, ma la loro funzione, sicché appare ultroneo ogni richiamo al principio di eguaglianza come principio fondante dell’ordinamento, visto che anche questa Corte ha ripetutamente affermato che la violazione di tale principio deriva dal trattamento eguale di situazioni diverse e non dalla previsione di trattamenti differenziati per alcune categorie di soggetti giustificata dal contemperamento del principio stesso con la tutela di altri principi costituzionali. Tale ultima evenienza è proprio quella che si riscontra nella fattispecie nella quale la tutela della posizione istituzionale del Presidente del Consiglio dà fondata ragione della deroga all’ordinario trattamento processuale.

Analogamente, poi, la difesa erariale ritiene infondata la presunta lesione del principio di ragionevolezza in riferimento a quanto disposto dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., sul principale rilievo che, in una logica di ponderazione e bilanciamento degli interessi in gioco, non è irrazionale che il Presidente del Consiglio continui ad essere perseguibile per i c.d. reati ministeriali e si veda invece sospesi i processi penali per i reati comuni. Infatti, mentre il perseguimento dei reati funzionali non può essere procrastinato, data «la rilevanza di carattere generale degli interessi incisi» e la loro «indubbia maggiore gravità dal punto di vista istituzionale», il perseguimento dei reati comuni ben può essere rinviato al momento della cessazione dell’esercizio delle funzioni protette, visto che la loro commissione comporta la lesione di «interessi cedevoli».

Ritiene inoltre la difesa pubblica che siano infondate tutte le doglianze riguardanti una presunta lesione degli artt. 24 e 111 Cost., sotto il duplice profilo del diritto di difesa dell’imputato (che non può rinunciare all’applicazione della sospensione) e del diritto della persona offesa dal reato ad un giudizio rapido ed efficace in merito alle sue pretese risarcitorie. Quanto al primo profilo, si osserva che l’obbligatorietà della protezione accordata dalla norma impugnata deriva dal fatto che essa ha rilevanza oggettiva, è finalizzata a tutelare l’interesse dell’ordinamento e non è stata concepita come un privilegio di cui la persona che ricopre la carica possa, a sua scelta, decidere di godere o meno. Quanto alla pretesa violazione dei diritti della persona offesa costituitasi parte civile nel processo penale sospeso, si osserva che nell’ipotesi di cui si tratta la parte offesa subisce un ritardo nella delibazione delle sue pretese del tutto analogo a quello che si verifica non solo nelle numerose altre ipotesi di sospensione del processo, ma anche in altre situazioni processuali, come ad esempio in quella relativa alla conclusione del procedimento penale con sentenza di patteggiamento nella quale, ai sensi dell’art. 445 cod.proc.pen., è impedito alla parte civile di giovarsi della suddetta sentenza in sede civile. D’altra parte, non appare conferente al riguardo il richiamo all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali atteso che la normativa denunciata è il frutto di un ponderato  – e, cioè, «ragionevole» – contemperamento dell’esigenza di definizione del processo in tempi rapidi  con quella di tutela di altri interessi ritenuti anch’essi di rilevanza primaria.

Quanto, infine, alla presunta mancanza di norme che facciano salva la possibilità di compimento degli atti urgenti, l’Avvocatura dello Stato rammenta che, a parte il rilievo per cui ciò costituirebbe solo un’ipotetica manchevolezza, detta questione non risulta adeguatamente precisata nell’ordinanza di rimessione, il che impone che la stessa debba ritenersi inammissibile.

 

5.— Nell’imminenza dell’udienza la CIR s.p.a. ha depositato memoria, in cui premette che il presente giudizio concerne soltanto la disciplina dell’improcedibilità concessa dalla legge n. 140 del 2003 al Presidente del Consiglio: non può quindi sostenersi la legittimità dell’art. 1, comma 1, sulla base della posizione dei titolari delle altre cariche, ferma l’estensibilità a queste ultime della eventuale dichiarazione d’incostituzionalità della norma (ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87).

In ragione del carattere rigido della Costituzione, nessuna fonte può modificarla surrettiziamente, qualora ne pregiudichi una o più norme: le limitazioni sostanziali o processuali della (altrimenti assoluta) responsabilità del funzionario – ex art. 28 Cost. – devono individuarsi in altre norme costituzionali (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, ministri, parlamentari, giudici costituzionali, titolari di organi giurisdizionali) perché ogni limitazione di tale responsabilità si risolve nella corrispondente restrizione del diritto di azione e di difesa. Inoltre la differenziazione delle discipline processuali con riferimento a fatti extrafunzionali viola il principio di eguaglianza (non sopprimibile nemmeno con una legge di revisione costituzionale). Pertanto l’art. 3, primo comma, Cost. non può essere derogato, senza che sulla validità della deroga vi sia verifica da parte di questa Corte. Non si può discutere della legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 140 come se l’illegittimità di questa norma dipendesse esclusivamente dal fatto che essa è contenuta in una legge ordinaria, anziché in una disposizione approvata ex art. 138 Cost.: la sottoponibilità al sindacato permarrebbe comunque, poiché le immunità valgono soltanto nei limiti delle previsioni costituzionali, e qualsiasi legge ordinaria che ne ampliasse l’ambito sarebbe incostituzionale.

Nel porre una disciplina di favore per i governanti in relazione a fatti extrafunzionali, si è determinata la violazione sia del principio di eguaglianza, sia di quello della responsabilità dei pubblici funzionari allorché agiscano al di fuori delle funzioni, sia infine del diritto di azione e di difesa. Infatti, esiste un istituto che adeguatamente mette al riparo i titolari delle più alte cariche pubbliche da eventuali impedimenti alla propria attività istituzionale, derivanti dalla pendenza di un processo penale, ancorché relativo a reati comuni, essendo imposto al giudice penale di valutare in concreto la sussistenza di impedimenti dell’imputato, tenendo conto degli interessi degli altri poteri.

La norma impugnata prevede una forma di immunità processuale prescindendo da ogni connessione funzionale fra la carica pubblica e gli atti posti in essere dal soggetto che la ricopre. Ciò in violazione dell’art. 3 Cost., che vieta al legislatore ordinario d’introdurre differenziazioni normative basate esclusivamente su elementi soggettivi. Per la tendenziale universalità del precetto di legge la norma deve dirigersi a tutti senza distinguere in base a categorie soggettive, ma soltanto oggettive (natura dell’atto, dei beni, etc.) in logico rapporto con la natura dell’attività e senza aver riguardo a connotati inerenti alle persone (prestigio, onore, dignità, etc.). Nella fattispecie, invece, un tale rapporto è del tutto assente (laddove si prevede la sospensione dei processi per illeciti compiuti prima dell’assunzione della carica). In essa, infatti, il munus publicum rappresenta non già il fondamento e il limite dell’immunità, bensì il mero presupposto di essa. Ciò che si tutela, dunque, non è la funzione, ma la persona, introducendo così un vero e proprio privilegio personale.

Negli artt. 68, 90 e 96 Cost. l’immunità ha il fondamento ed il limite nell’esercizio della funzione. Per effetto della censurata normativa il Presidente del Consiglio dei ministri già sottoposto, previa autorizzazione parlamentare, alla giurisdizione ordinaria per i reati funzionali, ne è viceversa sottratto ope legis per quelli comuni. Il che è contraddittorio, perché in base all’art. 96 Cost. l’autorizzazione a procedere può essere negata solo nei casi ivi previsti. Poiché l’unico soggetto sottoposto a processo, per «fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione», era l’on. Berlusconi, si è  in presenza di una legge personale di favore, definita da autorevole dottrina come lesiva dell’art. 3 Cost., in quanto volta ad estendere, oltre i casi previsti dalla Costituzione, le ipotesi di improcedibilità soggettiva e le garanzie costituzionali impedienti la immediata attuazione della legge. Infatti, tali improcedibilità e garanzie privano di concreta efficacia la legge rispetto a determinati cittadini e creano diseguaglianze formali tra i medesimi.

Quanto alla violazione degli artt. 101 e 112 Cost., ogni condizione di procedibilità in tanto può ritenersi legittima in quanto sia direttamente riconducibile ad un interesse costituzionalmente protetto, da bilanciare con quello ex art. 112 Cost., che, nella specie, non sussiste. Infatti, non ogni processo penale è tale da comportare necessariamente un «turbamento» per la carica, il cui prestigio sarebbe anzi ancor più gravemente compromesso, ove colui che la ricopre se ne servisse per sottrarsi alla giurisdizione; è interesse della collettività sapere se i titolari delle più alte cariche erano e sono al di sopra di ogni sospetto.

Paradossalmente, per tutelare la funzione, si «iberna» il processo a carico di chi la ricopre, impedendogli di chiedere l’assunzione di prove a suo favore, senza fare neppure salvo il compimento di eventuali atti urgenti e indifferibili e senza stabilire un termine massimo di durata della sospensione medesima, che potrebbe protrarsi indefinitamente.

La violazione degli artt. 24 e 111 Cost. con riguardo alla parte civile si radica nell’automatismo della paralisi sine die dell’azione civile e nella mancata previsione della rinunziabilità alla sospensione del processo penale, nonché di una deroga all’art. 75, comma 3, del codice di procedura penale.

La norma, inoltre, viola l’art. 117, primo comma, Cost. con riguardo alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, sia sotto il profilo del «diritto ad un tribunale» (ex artt. 13 e 14 della Convenzione che, rispettivamente, sanciscono il diritto a un ricorso effettivo davanti ad un giudice, nonché la garanzia del godimento dei diritti e delle libertà ivi assicurati) sia in riferimento al «diritto ad un processo equo».

Dopo una disamina di diritto comparato sulle immunità funzionali ed extrafunzionali proprie dei titolari della cariche omologhe a quella del Presidente del Consiglio dei ministri italiano, la parte privata contesta puntualmente le tesi difensive.

In particolare sarebbe l’esigenza di diversificare la disciplina delle situazioni (oggettive) differenti, in rapporto con quella di non collegare la differenziazione al soggetto, in quanto tale, a condurre alla definizione dell’eguaglianza come «pari trattamento di pari situazioni e diverso trattamento di situazioni diverse». Ne deriva, da un lato, che il legislatore non è libero di differenziare i soggetti fin dove la Costituzione non frappone limiti specifici e, dall’altro, che le differenziazioni normative possono essere eccezionalmente legittime, nei limiti in cui si riflettano sull’oggetto e sempre che sussista un nesso di assoluta necessità tra la differenziazione ed un fine costituzionalmente consentito e se sono ispirate a ragionevolezza: il che impone che si versi in ipotesi in cui siano le «situazioni di fatto» messe a confronto ad essere tra loro differenti. Al contrario, nel caso di specie, la situazione in cui si trovano i titolari delle cinque cariche è ontologicamente identica a quella di qualsiasi altro cittadino perseguito per reati comuni.

La memoria contesta poi la pertinenza degli esempi di «sospensione» richiamati ex adverso e cioè l’art. 18, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., gli artt. 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477 e 479 cod.proc.pen. (ipotesi di sospensione «endoprocessuale», ossia di temporanea stasi dell’iter processuale, giustificate da ragioni interne al processo che ne causano una sorta di quiescenza, in cui la momentanea sospensione si giustifica per assicurare il diritto di difesa e la terzietà-imparzialità del giudice, o per ottenere l’autorizzazione a procedere, o per garantire una sollecita definizione del processo).

Considerazioni analoghe valgono per tutti gli altri casi di «sospensione», singolarmente contestati, unitamente: 1) alla citazione dell’art. 205 cod.proc.pen. la cui ratio è di evitare che i soggetti ivi previsti non rendano in pubblico la loro deposizione, così limitandosi a disciplinarne le modalità di assunzione e non esimendoli dal relativo dovere; 2) al richiamo all’art. 5 della legge n. 1 del 1981, che non configura una causa di sospensione, bensì una causa di non punibilità specifica, avente per oggetto le sole manifestazioni di pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri propri dei componenti del C.S.M.; 3) al riferimento alla procedibilità «a richiesta» o dietro «autorizzazione» del Ministro della giustizia (artt. 8, 9, 10 e 313 cod.pen.), ovvero su querela della persona offesa: qui la condizione di procedibilità gioca a tutela del soggetto passivo del reato, e non già del soggetto attivo.

E’ inconferente anche la citazione delle immunità di cui alla Convenzione di Vienna, perché l’ordinamento consente – per il rispetto dell’eguaglianza degli Stati – trattamenti di privilegio in favore di determinati soggetti per la loro qualità di funzionari di altri Stati; ma ciò avviene per il principio di cui all’art. 10 Cost., che conferisce alle norme internazionali generalmente riconosciute  il livello di norme primarie: il rango costituzionale della norma di adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale (anche consuetudinario) giustifica la compressione del principio di eguaglianza e del diritto alla tutela giurisdizionale. Anche l’estradizione è una delle forme di collaborazione tra Stati in materia penale: la ratio della sospensione del processo in tal caso sta nel rispetto della sovranità degli altri Stati (l’estradizione opera esclusivamente per i reati per i quali è stata concessa).

 

Considerato in diritto

 

1.― Il Tribunale di Milano solleva questione di legittimità costituzionale del comma 2, in relazione al comma 1, dell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), il quale, fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, dispone la sospensione, dall’entrata in vigore della legge stessa, dei processi penali in corso nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente della Corte costituzionale), in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

Secondo il giudice remittente la norma censurata, nello stabilire per i processi suindicati la sospensione automatica, generalizzata e senza prefissione di un termine finale, viola l’art. 3 Cost., anzitutto con riguardo all’art. 112 Cost., che sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale; in secondo luogo con riferimento agli artt. 68, 90 e 96 Cost., in quanto attribuisce alle persone che ricoprono una delle menzionate alte cariche dello Stato una prerogativa non prevista dalle citate disposizioni della Costituzione, che verrebbero quindi ad essere illegittimamente modificate con legge ordinaria, in violazione anche dell’art. 138 Cost., disposizione questa che il remittente non indica nel dispositivo dell’ordinanza, ma cita in motivazione ed alla quale fa implicito ma chiaro riferimento in tutto l’iter argomentativo del provvedimento; infine viola gli artt. 24, 111 e 117 Cost., perché non consente l’esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato e delle parti civili, in contrasto anche con la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

 

2.― In via preliminare si osserva che l’astensione dei magistrati componenti del collegio presso il quale era incardinato il processo penale e che ha sollevato la presente questione incidentale non ha influenza sulla rilevanza e quindi sull’ammissibilità della medesima.

L’astensione, infatti, non comporta la regressione del giudizio ad una fase preprocessuale, tale da escludere l’immediata applicazione della norma da scrutinare.

E’ opportuno soggiungere che, secondo il principio affermato dall’indirizzo di gran lunga prevalente di questa Corte (v., ex plurimis, ordinanze n. 270 del 2003, n. 383 del 2002, n. 110 del 2000, sentenze n. 171 del 1996 e n. 300 del 1984), le vicende del giudizio a quo non incidono sullo svolgimento del processo costituzionale, caratterizzato dall’interesse generale alla risoluzione della prospettata questione. Né si può aderire alla tesi difensiva secondo la quale, non essendovi altri processi pendenti nei quali potrebbe ipotizzarsi l’applicazione della norma censurata, non sarebbe configurabile alcun interesse generale cui riferirsi. Non soltanto, infatti, non è provata tale situazione, ma la tesi non tiene conto del rilievo secondo cui la disposizione in oggetto (comma 2 dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003) ha carattere di transitorietà anche rispetto alla norma – non espressamente formulata ma necessariamente desumibile – la quale impone l’immediata sospensione di quei processi penali nei quali dovesse verificarsi in qualsiasi momento la coincidenza della qualità d’imputato con quella di titolare di una delle cinque alte cariche indicate nel comma 1 dello stesso art. 1.

La questione, pertanto, non riguarda soltanto il processo in cui è stata sollevata, ma ha valenza generale, sicché dev’essere esaminata nel merito.

 

3.― Per rispondere agli interrogativi posti dall’ordinanza di rimessione occorre, in primo luogo, definire quali siano la natura, la funzione e la portata della normativa impugnata.

Essa riguarda una sospensione del processo penale, istituto che si sostanzia nel temporaneo arresto del normale svolgimento del medesimo ed è oggetto non di una disciplina generale, bensì di specifiche regolamentazioni dettate con riguardo alla diversità dei presupposti e delle finalità perseguite.

Le sospensioni possono essere così raggruppate:

a) sospensioni per l’esistenza di una pregiudiziale (costituzionale, comunitaria, civile, amministrativa, tributaria etc.);

b) sospensioni dovute all’instaurazione di procedimenti incidentali finalizzati ad assicurare la terzietà del giudice o la serenità dello svolgimento del processo (ricusazione, rimessione);

c) sospensioni per il compimento di atti e comportamenti che possono influire sull’esito del processo in modo tale da rendere tale esito, nella valutazione del legislatore, preferibile rispetto a quelli prevedibili sulla base del normale svolgimento del processo stesso (come avviene per l’affidamento in prova dell’imputato nel processo minorile e per il compimento delle riparazioni, delle restituzioni e del risarcimento del danno nel processo davanti al giudice di pace);

d) sospensioni per ragioni soggettive, quali quella dipendente dalla condizione dell’imputato che per infermità di mente non è in grado di partecipare coscientemente al processo, e quella degli appartenenti a reparti mobilitati prevista dall’art. 243 del codice penale militare di guerra.

Se si prescinde da quest’ultima, peraltro prevista in un testo risalente (regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303), mai sottoposto a scrutinio di costituzionalità e soprattutto connesso ad una situazione eccezionale quale lo stato di guerra, le altre sospensioni soddisfano esigenze del processo e sono finalizzate a realizzare le condizioni perché esso abbia svolgimento ed esito regolari, anche se ciò può comportare la temporanea compressione dei diritti che vi sono coinvolti. Ciò vale anche per la sospensione stabilita per l’ipotesi dell’imputato incapace, perché la capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile, come questa Corte ha affermato fin dai primi anni della sua attività (cfr. sentenze n. 59 del 1959 e n. 354 del 1996).Da quanto fin qui esposto emerge che la sospensione, di solito prevista per situazioni oggettive del processo, è funzionale al suo regolare proseguimento.

Ciò non significa che quello delle sospensioni sia un sistema chiuso e che il legislatore non possa stabilire altre sospensioni finalizzate alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali, ma implica la necessità di identificare i presupposti di tali sospensioni e le finalità perseguite, eterogenee rispetto a quelle proprie del processo.

4.― La situazione cui si riconnette la sospensione disposta dalla norma censurata è costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato ed il bene che la misura in esame vuol tutelare deve essere ravvisato nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche.

Si tratta di un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale.

E’ un modo diverso, ma non opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma la tesi secondo la quale il legislatore, considerando che l’interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire, abbia voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento. Anche sotto questo aspetto la misura appare diretta alla protezione della funzione.

Occorre ora accertare e valutare come la norma incida sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti.

 

5.― La sospensione in esame è generale, automatica e di durata non determinata.

Ciascuna di siffatte caratteristiche esige una chiarificazione.

La sospensione concerne i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica, come risulta chiaro dalla espressa salvezza degli artt. 90 e 96 della Costituzione.

Essa è automatica nel senso che la norma la dispone in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti.

Infine la sospensione, predisposta com’è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall’imputato, subisce, per quanto concerne la durata, gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati. E non è fondata l’obiezione secondo la quale il protrarsi dell’arresto del processo sarebbe da attribuire ad accadimenti e non alla norma, perché è questa a consentire l’indefinito protrarsi della sospensione.

 

6.― Da quanto detto emerge anzitutto che la misura predisposta dalla normativa censurata crea un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale.

La constatazione di tale differenziazione non conduce di per sé all’affermazione del contrasto della norma con l’art. 3 della Costituzione. Il principio di eguaglianza comporta infatti che, se situazioni eguali esigono eguale disciplina, situazioni diverse possono implicare differenti normative. In tale seconda ipotesi, tuttavia, ha decisivo rilievo il livello che l’ordinamento attribuisce ai valori rispetto ai quali la connotazione di diversità può venire in considerazione.

Nel caso in esame sono fondamentali i valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione.

Alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali.

L’automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato, al quale è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.). Ed è appena il caso di osservare che, in considerazione dell’interesse generale sotteso alle questioni di legittimità costituzionale, è ininfluente l’atteggiamento difensivo assunto dall’imputato nella concretezza del giudizio.

Sacrificato è altresì il diritto della parte civile la quale, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dal comma 3 dell’art. 75 del codice di procedura penale.

 

7.― Si è affermato, per sostenere la legittimità costituzionale della legge, che nessun diritto è definitivamente sacrificato, nessun principio costituzionale è per sempre negletto.

La tesi non può essere accolta.

All’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo. Ancor prima che fosse espressamente sancito in Costituzione il principio della sua ragionevole durata (art. 111, secondo comma), questa Corte aveva ritenuto che una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza n. 354 del 1996) e che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell’efficienza del processo (sentenza n. 353 del 1996).

 

8.― La Corte ritiene che anche sotto altro profilo l’art. 3 Cost. sia violato dalla norma censurata.

Questa, infatti, accomuna in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti. Né vale invocare, come precedente e termine di comparazione, l’art. 205 cod.proc.pen. il quale disciplina un aspetto secondario dell’esercizio della giurisdizione, ossia i luoghi in cui i titolari delle cinque più alte cariche dello Stato possono essere ascoltati come testimoni.

Non è superfluo soggiungere che, mentre vengono fatti salvi gli artt. 90 e 96 Cost., nulla viene detto a proposito del secondo comma dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità accordata nel secondo comma dell’art. 68 Cost. ai membri delle due Camere. Ne consegue che si riscontrano nella norma impugnata anche gravi elementi di intrinseca irragionevolezza.

La questione è pertanto fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale.

 

9.― La disposizione direttamente impugnata si inserisce in un contesto normativo le cui articolazioni, per quanto riguarda i primi due commi – che si riferiscono, rispettivamente, alle due situazioni della non sottoponibilità a processo e della sospensione dei processi eventualmente già in corso – sono dirette alla medesima, sostanziale finalità, hanno lo stesso ambito soggettivo di applicazione ed entrano in contrasto con gli stessi precetti costituzionali. Pertanto, in via conseguenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve estendersi anche ai commi 1 e 3, non direttamente impugnati, dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003: al comma 1 per le ragioni appena dette, ed al comma 3, concernente la sospensione della prescrizione per il tempo di applicazione delle misure di cui ai primi due commi, perché lo stesso, caducati i precedenti, non ha alcuna autonomia applicativa.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separata decisione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 110, quinto comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato);

dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 3, della predetta legge n. 140 del 2003.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2004.

 


 

Sentenza 13 gennaio–20 gennaio 2004, n. 25

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai Signori:

-   Gustavo ZAGREBELSKY Presidente

-   Valerio ONIDA Giudice

-   Carlo MEZZANOTTE "

-   Guido NEPPI MODONA "

-   Piero Alberto CAPOTOSTI "

-   Annibale MARINI "

-   Franco BILE "

-   Giovanni Maria FLICK "

-   Francesco AMIRANTE "

-   Ugo DE SIERVO "

-   Romano VACCARELLA "

-   Paolo MADDALENA "

-   Alfio  FINOCCHIARO "

 

ha pronunciato la seguente

 

S E N T E N Z A

nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’articolo 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della legge 20 giugno 2003, n. 140, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”, limitatamente all’art. 1:

 

<<1. Non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’articolo 90 della Costituzione, il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei Ministri, salvo quanto previsto dall’articolo 96 della Costituzione, il Presidente della Corte costituzionale.

 

2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

 

3. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale>>; giudizio iscritto al n. 140 del registro referendum.

 

Vista l’ordinanza del 3 dicembre 2003 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;

 

udito nella camera di consiglio dell’8 gennaio 2004 il Giudice relatore Franco Bile;

 

udito l’avvocato Federico Sorrentino per i presentatori Antonio Di Pietro, Susanna Mazzoleni, Massimo Donadi, Silvana Mura, Beniamino Donnici, Salvatore Raiti e Vittorio Amedeo Marinelli.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352, con ordinanza pronunciata il 3 dicembre 2003 ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare, promossa da venticinque cittadini italiani, sul seguente quesito (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24 giugno 2003, serie generale, n. 144): «Volete voi che sia abrogata la legge 20 giugno 2003, n. 140, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 142 del 21 giugno 2003, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”, limitatamente all’art. 1:

“1. Non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’articolo 90 della Costituzione, il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei Ministri, salvo quanto previsto dall’articolo 96 della Costituzione, il Presidente della Corte costituzionale.

2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

3. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale” ?».

Il quesito è stato ammesso senza alcuna modificazione ed il referendum è stato denominato “Alte cariche dello Stato - non sottoposizione a processi penali e sospensione dei processi penali in corso fino alla cessazione delle cariche o delle funzioni  -  abrogazione”.

 

2. - Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale, il Presidente di questa Corte ha fissato, per la deliberazione in camera di consiglio sull’ammissibilità del referendum, la data dell’8 gennaio 2004, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta e al Presidente del Consiglio dei ministri, a norma dell’art. 33, secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352.

 

3. - I promotori del referendum si sono costituiti depositando memoria illustrativa, e concludendo per l’ammissibilità della richiesta referendaria.

A loro avviso, il quesito rispetta i limiti di cui all’art. 75, secondo comma, Cost., non riguardando leggi in materia tributaria e di bilancio, di amnistia e di indulto, né leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, ovvero leggi a queste strettamente collegate quanto ad ambito di operatività. D’altro canto, le disposizioni in oggetto non sono contenute in una legge qualificabile come “costituzionalmente vincolata” o “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Infine, sussistono i requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità del quesito.

 

Considerato in diritto

 

1. - La Corte è chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo dell’art. 1 della legge 20  giugno 2003, n. 140, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”.

La norma dispone nel comma 1 che il Presidente della Repubblica (salvo quanto previsto dall’art. 90 della Costituzione), il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri (salvo quanto previsto dall’art. 96 della Costituzione) e il Presidente della Corte costituzionale non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

Il comma 2 stabilisce che dalla data di entrata in vigore della legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

Infine il comma 3 - con norma palesemente accessoria - prevede che nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell’art. 159 del codice penale, in tema di sospensione del decorso dei termini di prescrizione.

 

2. - La richiesta referendaria - dichiarata conforme a legge dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione - è ammissibile.

 

2.1. - La disposizione oggetto del quesito, con riguardo a tutte le norme che contiene, è estranea alle leggi per le quali l’art. 75 della Costituzione preclude il ricorso al referendum abrogativo (leggi in materia tributaria e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali), né può considerarsi in alcun modo collegata all’ambito di operatività di tali leggi.

 

2.2. - La domanda referendaria presenta inoltre gli ulteriori requisiti che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, debbono ricorrere ai fini del positivo esito del giudizio di ammissibilità.

Da un lato infatti essa non riguarda leggi costituzionali o di revisione costituzionale; né leggi a contenuto costituzionalmente vincolato o costituzionalmente necessarie.

E dall’altro presenta i caratteri dell’omogeneità, della chiarezza e dell’univocità.

Sotto il primo profilo, la domanda è espressione di una matrice razionalmente unitaria, percepibile come tale dal votante, al quale propone un’alternativa netta tra l’espulsione dall’ordinamento e il mantenimento in esso del trattamento differenziato riservato dalla norma ai titolari delle cinque alte cariche o funzioni, con la loro non sottoponibilità a processi penali per i reati nella stessa norma indicati.

Quanto ai requisiti della chiarezza e univocità, il quesito riguarda un solo articolo di legge, nel quale si esaurisce l’intera disciplina della materia, e quindi si presenta come completo e del tutto coincidente con il ricordato intento referendario.

 

3. - Peraltro questa Corte, con sentenza n. 24 del 2004, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma oggetto del quesito.

La competenza a valutare, alla luce dell’art. 136 della Costituzione, gli effetti del sopravvenire di tale pronunzia all’ordinanza con cui l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del quesito referendario, non appartiene a questa Corte, essendo estranea all’oggetto del giudizio affidatole dall’art. 75 della Costituzione, come individuato dalla giurisprudenza costituzionale (v. sentenza n. 251 del 1975).

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione con ordinanza del 3 dicembre 2003.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.

 

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Franco BILE, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2004.

 


 

Sentenza 13 luglio- 28 luglio 2004, n. 284

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

- Gustavo ZAGREBELSKY

 

Giudici

- Valerio ONIDA Giudice

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

- Ugo DE SIERVO

- Romano VACCARELLA

- Alfio FINOCCHIARO

- Alfonso QUARANTA

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale di Taranto, prima sezione penale, che ha rigettato l’istanza presentata dalla difesa dell’on. Giancarlo Cito, di rinvio della udienza dibattimentale in ragione dell’impedimento parlamentare, e della sentenza n. 202/98 dello stesso Tribunale che ha definito il procedimento stesso; nonché delle sentenze n. 85/2000 della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, e n. 390/2001 della Corte di cassazione, quinta sezione penale, promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 26 aprile 2002, depositato in cancelleria il 2 maggio 2002 ed iscritto al n. 18 del registro conflitti 2002.

 

Udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;

 

udito l’avvocato Sergio Panunzio per la Camera dei deputati.

 

Ritenuto in fatto

 

 1. – Con ricorso depositato il 25 maggio 2001 la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Tribunale di Taranto, prima sezione penale, della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto e della Corte di cassazione, quinta sezione penale, chiedendo a questa Corte:

 a) di dichiarare che non spetta al Tribunale di Taranto, prima sezione penale, né alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, né alla Corte di cassazione, quinta sezione penale, negare che per il deputato Giancarlo Cito costituisca impedimento assoluto alla partecipazione all’udienza dibattimentale del 18 febbraio 1998 dinanzi al Tribunale di Taranto il diritto-dovere di assolvere il mandato parlamentare, partecipando alle votazioni dell’assemblea indette per lo stesso giorno;

 b) "in particolare, che non spetta alla Corte di cassazione, Vª sezione penale, il dichiarare riservato al bilanciamento del giudice penale, alla stregua delle risultanze processuali, il giudizio sulla spettanza del carattere di impedimento assoluto a partecipare all’udienza alla situazione dell’imputato parlamentare che sia impegnato in votazioni in assemblea concomitanti con l’udienza penale";

 c) di annullare, per l’effetto: l’ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale di Taranto, sezione Iª penale; la sentenza 18 febbraio-13 marzo 1998, n. 202, del medesimo Tribunale; la sentenza 21 ottobre 1999-10 marzo 2000, n. 85, della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto; la sentenza 15 febbraio-19 marzo 2001, n. 390, della Corte di cassazione, sezione Vª penale.

Il ricorso espone i fatti che hanno dato luogo al conflitto, nei termini che seguono.

Nel procedimento penale pendente nei confronti del deputato Giancarlo Cito, il Tribunale di Taranto, prima sezione penale, respingeva, con ordinanza adottata all’udienza dibattimentale del 18 febbraio 1998, un’istanza, presentata dal difensore del deputato il giorno precedente l’udienza, con la quale si chiedeva di considerare l’assenza dell’imputato dovuta a legittimo impedimento a comparire, in considerazione del suo diritto-dovere di partecipare all’attività parlamentare e in particolare alle votazioni in aula della Camera dei deputati nei giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio 1998, come comprovato dal calendario dei lavori parlamentari presentato al Tribunale. Quest’ultimo motivava la propria decisione affermando che l’istanza era tardiva e che, comunque, essendo la seduta per il giorno 18 febbraio fissata a partire dalle ore 16, l’imputato avrebbe potuto comparire nella mattinata e chiedere che il suo processo fosse trattato con precedenza.

L’ordinanza in questione, osserva la ricorrente, non teneva dunque in considerazione il fatto che il deputato fosse impegnato nelle votazioni in assemblea già dal giorno precedente l’udienza, cioè dal 17 febbraio, giorno in cui i lavori si erano protratti fino alle ore 23; né, aggiunge la Camera, il Tribunale, immediatamente dopo, aveva ritenuto di ritornare, revocandola, sulla propria decisione, allorché di dette ultime circostanze era stato informato con un fax inviato quello stesso giorno dall’imputato, il quale appunto comunicava l’ordine del giorno della seduta (con votazioni) del giorno 18 febbraio e riferiva di come egli si fosse trovato impegnato in votazioni sin dalla sera del giorno precedente.

Con sentenza del medesimo giorno 18 febbraio 1998, depositata il 13 marzo, il Tribunale di Taranto condannava l’imputato per il reato di diffamazione, rinviando espressamente, nella motivazione, alla propria ordinanza con cui era stata respinta l’istanza di rinvio dell’udienza.

In sede di gravame, la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, rigettava l’eccezione di nullità dell’ordinanza del 18 febbraio 1998 del Tribunale, da un lato ritenendo la stessa tardiva – ma facendo riferimento testuale non già all’istanza presentata dal difensore il giorno prima dell’udienza, bensì al fax trasmesso dall’imputato il giorno stesso dell’udienza – e dall’altro escludendo che l’impegno parlamentare rivestisse il carattere di impedimento assoluto a comparire, affermando che l’imputato sarebbe stato chiamato a votare in giorni diversi da quello in cui era fissata l’udienza, cioè nei giorni 17 e 20 febbraio; una affermazione, quest’ultima, si osserva nel ricorso, non sorretta da alcun dato obiettivo, tenuto conto che il calendario settimanale delle sedute era identico nei contenuti per tutti e quattro i giorni, e soprattutto che l’ordine del giorno della seduta decisiva, cioè del giorno 18, indicava che le votazioni si sarebbero svolte a partire dalle ore 16.20.

La Corte di cassazione, con sentenza del 15 febbraio 2001, confermava quindi il giudizio d’appello, compreso il rilievo di tardività dell’istanza: la Corte, oltre ad affermare che la pronuncia del giudice di merito si sottraeva a censure di legittimità, per avere argomentato al riguardo con "proposizioni logicamente e giuridicamente ineccepibili", aggiungeva sul punto che "l’indiscriminata valenza dell’impedimento di natura parlamentare paralizzerebbe la definizione del procedimento", che " il delicato equilibrio tra la funzione giurisdizionale e quella parlamentare trova contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della situazione processuale", e infine che "la definizione del processo in tempi ragionevoli non soddisfa solo l’interesse punitivo […] dello Stato e le legittime aspettative della persona offesa, ma anche l’interesse dello stesso imputato, ove questo non si proponga fini dilatori".

La ricorrente Camera dei deputati, affermata la propria legittimazione attiva al ricorso e quella passiva degli organi giurisdizionali, motiva circa l’ammissibilità, sul piano oggettivo, del conflitto: la materia del quale è data, nella specie, dalla esigenza di delimitare le attribuzioni costituzionali del potere giudiziario (di trattare e concludere i processi innanzi a esso pendenti) a fronte delle esigenze di funzionalità e delle prerogative di autonomia e indipendenza del potere legislativo, incise dalla pretesa del primo di disconoscere al deputato il carattere assoluto dell’impedimento a comparire a una udienza per adempiere alle proprie funzioni di parlamentare.

Quanto alla sussistenza dell’interesse a ricorrere, coincidente con l’interesse a una pronuncia che ristabilisca "gli equilibri messi in gioco, al di là del singolo caso, dal conflitto" (sentenza n. 129 del 1996), la Camera rileva che l’equilibrio tra i poteri è rotto appunto per la presa di posizione del potere giudiziario, che in tal modo produce uno squilibrio a tutto vantaggio dell’attività allo stesso affidata, laddove la pari dignità costituzionale delle funzioni imporrebbe la ricerca di un punto di equilibrio, tale da evitare l’integrale sacrificio delle esigenze di cui sono portatori l’uno o l’altro potere. Né potrebbe dirsi mancante l’interesse a ricorrere per l’esaurimento degli effetti dell’atto impugnato o perché la decisione di questa Corte in sede di conflitto potrebbe risultare priva di effetti giuridici rispetto al rapporto sottostante, o negarsi l’attualità e concretezza del conflitto sul rilievo che comunque, nel caso concreto, il deputato ha preso parte alle votazioni in assemblea: la vicenda del singolo parlamentare, infatti, è "estrinseca" rispetto agli atti impugnati e al loro contenuto, dovendosi sempre misurare le menomazioni che formano oggetto dei conflitti costituzionali alla luce della intrinseca entità delle pretese che li determinano, più che delle conseguenze concrete degli atti o dei comportamenti dei soggetti. Nel caso, dunque, si rivela una netta divergenza di vedute tra la Camera e gli organi giurisdizionali, nella contrapposizione tra un ordine del giorno delle sedute del periodo 17-20 febbraio 1998 da cui ha origine il dovere del parlamentare di prendere parte alle votazioni, e una serie di pronunce giurisdizionali che seppure variamente convergono nel negare a questi stessi impegni la qualità di impedimento assoluto a partecipare all’udienza processuale.

Da ultimo la Camera esclude che possa ravvisarsi la ragione di inammissibilità dei conflitti originati da decisioni giudiziarie consistente nella impossibilità di fare valere nella sede del conflitto costituzionale eventuali errores in iudicando, e dunque di trasformare impropriamente il conflitto di attribuzioni in una sorta di rimedio ulteriore nel processo: la Camera, infatti, non era parte del processo penale e, diversamente dal singolo parlamentare coinvolto, non aveva né ha alcuno strumento processuale comune attraverso il quale difendere le proprie prerogative.

Nel merito, la Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i propri componenti, impedimento assoluto a comparire all’udienza del processo penale l’esercizio della funzione parlamentare e "in particolare" l’esercizio del diritto di voto in assemblea o anche in commissione legislativa.

La ricorrente rileva che le decisioni dei giudici di merito per le quali è promosso conflitto non prendono posizione circa la questione di principio, del rilievo processuale della posizione dell’imputato che sia impegnato in attività parlamentare, benché comunque esse abbiano per effetto comune quello di negare la natura di impedimento assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in assemblea, ovvero di subordinarne il riconoscimento ad apprezzamenti del giudice, secondo considerazioni del singolo caso concreto; mentre è la pronuncia della Corte di cassazione che enuclea esplicitamente il principio secondo il quale spetta al giudice operare di volta in volta, in base appunto alla concreta situazione processuale, il contemperamento tra le esigenze della funzione giurisdizionale e di quella parlamentare: in questo modo, il riconoscimento o il disconoscimento dell’impedimento funzionale finiscono per derivare da considerazioni del singolo caso, che potrebbero di volta in volta mutare – ad esempio, ammettendo l’impedimento per attività parlamentari diverse dal voto e viceversa negandolo per l’esercizio del voto –, con una considerazione indistinta di equiordinazione, in linea di principio, di tutte le attività nelle quali si realizza la funzione parlamentare.

Ora, afferma la Camera, la pretesa della giurisdizione, di considerare tra loro fungibili le attività di un parlamentare e di rimettere al solo giudice l’apprezzamento di una di esse come impedimento assoluto, finisce per compromettere l’autonomia e la stessa funzionalità della Camera di appartenenza del parlamentare, menomando il libero esercizio del mandato rappresentativo, in violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.

La Camera sottolinea in particolare la necessità di riconoscere la peculiarità delle votazioni in assemblea, tutte le attività nelle quali si esplica il mandato essendo di pari dignità e oggetto di un dovere, secondo il regolamento (art. 48-bis), ma non potendosi legittimamente desumere da ciò il criterio di indifferenziata e indiscriminata devoluzione alla valutazione giudiziale di ciò che costituisce impedimento assoluto: il voto è un’attività personalissima, non delegabile, e sulla quale il singolo deputato non può influire quanto al momento del suo svolgimento, cosicché tra esso e le altre pur rilevanti attività parlamentari (discussioni, interventi programmati, atti di sindacato ispettivo) sussiste una differenza qualitativa. Nella prassi, il deputato che debba partecipare a un processo penale a suo carico in una data in cui sono fissati interventi o discussioni su un provvedimento legislativo può chiedere lo spostamento dell’esame ad altra data; oppure, la Presidenza della Camera può rinviare la discussione sulle linee generali o concedere al deputato facoltà di intervenire più ampiamente sull’art. 1 del testo in discussione, derogando alle norme sui tempi; mentre il rinvio dello svolgimento di interrogazioni e interpellanze è sempre possibile.

Ma tutto questo non vale per l’attività di votazione, che è indisponibile dal singolo deputato e i cui tempi non sono rinviabili a richiesta, ciò che dà la misura di come il voto sia atto funzionale, che attiene immediatamente alla funzione costituzionalmente assegnata alle Camere e la cui limitazione dunque rappresenta una incisione nel pieno e libero espletamento di quella stessa funzione, garantita nel suo svolgimento autonomo e senza condizionamenti esterni dagli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.

Sotto un ulteriore profilo, il mancato riconoscimento dell’impedimento comprometterebbe la stessa funzionalità della Camera, mettendo a rischio la formazione del quorum richiesto di volta in volta per la deliberazione parlamentare – ciò che può verificarsi anche per un singolo voto –, in violazione delle norme della Costituzione e di altre leggi costituzionali (artt. 64, primo e terzo comma; 73, secondo comma; 79, primo comma; 83, terzo comma; 90, secondo comma; 138, primo e terzo comma, della Costituzione; art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2; artt. 9, comma 3, e 10, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1) che richiedono per talune delibere o votazioni particolari maggioranze, assolute o qualificate, come ad esempio in tema di approvazione dei regolamenti, di dichiarazione di urgenza di una legge, di approvazione di amnistia e indulto, di elezione del Presidente della Repubblica, di elezione dei giudici costituzionali, di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, di autorizzazione a procedere per i reati dei ministri, di approvazione di leggi costituzionali.

Pertanto, ogni impedimento alla partecipazione anche di un solo parlamentare ai lavori della Camera si traduce in un impedimento alla funzionalità di essa, e così nella potenziale compromissione della funzione parlamentare: il deputato è posto nella condizione di dover scegliere tra partecipare all’udienza esercitando il proprio diritto fondamentale di difesa e partecipare alla votazione, e a subordinare la partecipazione ai lavori parlamentari a valutazioni imposte da un potere esterno.

La Camera lamenta poi la coartazione della libertà del mandato parlamentare, in violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione. Poiché le prerogative dei parlamentari sono poste non nell’interesse individuale dei singoli ma in funzione dell’integrità della posizione costituzionale della istituzione di appartenenza, ogni volta che sia leso il libero esercizio del mandato garantito dalle citate disposizioni costituzionali si ha una corrispondente violazione dell’autonomia delle Camere di appartenenza. Nel caso specifico, le determinazioni giurisdizionali hanno inciso sulla libertà di mandato del parlamentare, costretto alla scelta tra due differenti diritti, e ciò avrebbe determinato la lesione delle prerogative del Parlamento, anche tenendo conto che il condizionamento in discussione comporta una "alterazione del libero gioco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull’altrettanto libero rapporto delle forze".

Ancora, la Camera ricorrente lamenta la mancanza, nelle pronunce giurisdizionali oggetto del conflitto, di un adeguato bilanciamento tra le esigenze della giurisdizione (efficienza del processo) e quelle della funzionalità, dell’autonomia e dell’indipendenza dell’istituzione parlamentare: le decisioni, negando – direttamente, quelle dei giudici di merito, o indirettamente con l’affermazione di principio, quella della Corte di cassazione – il carattere di impedimento assoluto dell’attività di votazione, hanno sacrificato in toto le une a scapito delle altre, giacché non potrebbe realizzarsi alcun corretto bilanciamento tra le anzidette ragioni con l’imporre, come è avvenuto, al deputato di scegliere tra le due sedi, secondo un criterio dai connotati coercitivi del tutto inidoneo a raggiungere un ragionevole contemperamento tra i due ordini di interessi, i quali d’altra parte non si pongono neppure sul medesimo piano, dato che uno è un diritto soggettivo pieno e individuale, il diritto alla difesa, e l’altro è un diritto-dovere di carattere funzionale eccedente la dimensione del singolo.

Anche a riconoscere il fondamento costituzionale dell’esigenza di efficienza e celerità del processo, prosegue la Camera, non potrebbe per ciò solo giustificarsi il sacrificio della autonomia e indipendenza e perfino della stessa funzionalità del Parlamento, non potendosi considerare dilatorio l’opporre un impedimento che ha carattere oggettivo; e anche questo rilievo varrebbe a far considerare del tutto inadeguato il criterio di giudizio adottato dalla giurisdizione. Il calendario dei lavori parlamentari, e l’ordine del giorno che ne è espressione, costituiscono determinazioni che il parlamentare è tenuto a rispettare e non è abilitato a modificare, poiché in esse si traduce il contemperamento delle esigenze dei diversi soggetti costituzionali interessati all’organizzazione dei lavori delle Camere, a garanzia di ciascuno di essi e di tutti, maggioranza, opposizione, Governo; ed è dunque impropria, afferma la ricorrente, la pretesa di subordinare queste attività all’esercizio della giurisdizione penale, valendo semmai l’esigenza opposta.

Ad avviso della Camera, il criterio dovrebbe essere rovesciato rispetto a quello fatto proprio dai giudici: proprio considerando la partecipazione ai lavori parlamentari e in particolare le votazioni in assemblea come impedimento assoluto a comparire in udienza, non si sacrificherebbe la funzione giurisdizionale ma si perverrebbe a un equilibrato contemperamento, attraverso il semplice rinvio dell’udienza, che proporrà invariata la medesima situazione processuale anteriore, senza menomazione delle attribuzioni del potere giudiziario, laddove, argomentando nel modo dei giudici del caso di specie, il sacrificio delle attribuzioni parlamentari è il riflesso del carattere essenzialmente non riproducibile della seduta parlamentare, che riveste per definizione natura di evento politico nel quale entrano in gioco il momento storico e gli equilibri e i rapporti propri di quel momento.

Riconoscere come impedimento quello parlamentare, precisa la Camera, non espone d’altro canto a rischio la conclusione del processo, posto che l’assemblea si riunisce solo in determinati giorni della settimana e che non tutte le sedute di aula sono dedicate alle votazioni, con un rapporto che su base annuale può indicarsi come meno di un giorno su tre dedicato a votazioni.

Infine, la Camera ricorrente lamenta la violazione del principio di leale collaborazione tra poteri e del dovere di lealtà e correttezza, ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza costituzionale e valevole anche in relazione al potere giudiziario.

Le affermazioni che pervengono a rigettare l’istanza difensiva di rinvio sarebbero infatti incongrue: il Tribunale fa riferimento a una istanza presentata dal difensore il giorno prima dell’udienza, dunque non qualificabile come tardiva; la Corte d’appello fa invece riferimento a un fax dell’imputato, trasmesso lo stesso giorno dell’udienza, senza prendere in considerazione l’istanza difensiva del giorno precedente; pur avendo a disposizione il calendario settimanale dei lavori e l’ordine del giorno della seduta del 18 febbraio 1998, il Tribunale non ne deduce che l’imputato fosse impegnato nelle votazioni fino alle ore 23 del giorno precedente l’udienza, benché tale circostanza, risultante dai documenti trasmessi, fosse essenziale anche per rendere non praticabile la soluzione prospettata dal Tribunale, di presentarsi nella mattinata del giorno 18 febbraio per chiedere la trattazione del processo con precedenza sugli altri: proprio per sottolineare che l’impegno parlamentare copriva sia la sera del 17 che il primo pomeriggio del 18 febbraio, l’imputato aveva spedito un fax, ma il Tribunale non aveva ritenuto di riconsiderare la propria decisione adottata con l’ordinanza; dal suo canto, la Corte d’appello mostra di accorgersi dell’impegno delle votazioni per la sera del 17, ma sembra ritenere che le votazioni concernessero solo il giorno 20, nonostante che il calendario della settimana (17-20 febbraio) avesse un contenuto comune e soprattutto nonostante che l’ordine del giorno del 18 prevedesse espressamente votazioni in aula; infine, la Corte di cassazione sembrerebbe evocare potenziali utilizzazioni dilatorie dell’impedimento, quando risulta che nell’intero processo penale di cui si tratta l’impedimento venne fatto valere esclusivamente in una circostanza, cioè appunto per l’udienza del 18 febbraio 1998.

Quanto sopra esposto è il sintomo di un approccio non corretto e non equilibrato a fronte del delicato problema del bilanciamento che è richiesto in simili casi, e realizza, secondo la ricorrente, la violazione del principio di leale collaborazione, attraverso una arbitraria mancanza di considerazione per la posizione costituzionale del Parlamento, il sacrificio della cui funzionalità viene a essere realizzato senza alcun fondamento né ragionevole necessità.

 

2.– Questa Corte, con ordinanza n. 126 del 2002, ha dichiarato ammissibile il conflitto proposto dalla Camera.

Il ricorso è stato notificato e depositato con la prova delle avvenute notifiche.

 

3.– In prossimità dell’udienza la Camera dei deputati ha depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

La ricorrente anzitutto prende atto che con le sentenze n. 225 del 2001 e n. 263 del 2003 questa Corte ha accolto due conflitti analoghi, pur non facendo propria la tesi sostenuta, allora e nel presente giudizio, da essa Camera, e cioè che la necessità dell’imputato di partecipare a votazioni parlamentari, specie in Assemblea, costituirebbe sempre e comunque un "impedimento assoluto".

Osserva dunque che, sulla base di tali due sentenze, il giudice, allorquando debba valutare la fondatezza della giustificazione dell’assenza dal procedimento giudiziario del parlamentare a causa della concomitanza con lo svolgimento dei lavori parlamentari, è tenuto ad operare un bilanciamento, in base al principio di leale cooperazione fra i poteri dello Stato, fra due esigenze costituzionali, quella della speditezza del processo e quella dell’integrità funzionale del Parlamento, spettando poi alla Corte costituzionale, in caso di conflitto, valutare la correttezza, la congruità e la ragionevolezza del bilanciamento. Alla luce di tali principi, nel caso in esame, in tutti e tre i provvedimenti impugnati il bilanciamento sarebbe stato incongruo e inadeguato.

Quanto all’ordinanza del Tribunale di Taranto, infatti, essa avrebbe ritenuto tardiva l’istanza del parlamentare pervenuta il giorno prima dell’udienza del 18 febbraio 1998 – laddove nel conflitto definito con la sentenza n. 263 del 2003 viene ritenuta tempestiva una analoga istanza presentata dai difensori del parlamentare il giorno stesso dell’udienza – ed avrebbe ritenuto che l’on. Cito, impegnato dalle ore 16 del giorno 18 in votazioni parlamentari, avrebbe potuto essere presente all’udienza nella mattinata, senza considerare che, sulla base del calendario dei lavori parlamentari, erano fissate votazioni, e fino alle ore 23, anche nella precedente giornata del 17 febbraio – come precisato con l’ulteriore istanza pervenuta via fax dopo la lettura della detta ordinanza –, senza dire che anche la mattina del 18 vi era seduta, dedicata ad interrogazioni e interpellanze.

In ordine alla sentenza della Corte d’appello, essa, facendo palesemente confusione, considera presentata l’istanza dell’on. Cito solo in data 18, e non 17 febbraio, e conferma la decisione del Tribunale compiendo un errore in fatto, ritenendo l’insussistenza di impegni parlamentari nell’intera giornata del 18 febbraio.

Quanto alla sentenza della Corte di cassazione, la violazione dei principi che debbono reggere il bilanciamento sarebbe più grave, avendo essa ritenuto corretta e legittima la decisione dei giudici di merito, ed in particolare del Tribunale di Taranto, in ordine alla ritenuta "tardività" dell’istanza dell’on. Cito, considerando "ineccepibile" la motivazione di quella scelta. Il riferimento, poi, alla "indiscriminata valenza" dell’impedimento di natura parlamentare, ed il riferimento all’ipotesi secondo cui la richiesta dell’imputato parlamentare di farlo valere possa avere "fini dilatori" dimostrano che neppure la Cassazione ha tenuto conto che, nel corso dell’intero procedimento, l’on. Cito aveva invocato l’impedimento parlamentare una sola volta.

Ma quel che, ad avviso della ricorrente, appare più grave, è che il giudice di legittimità escluda "in via di principio che un impedimento parlamentare possa costituire un legittimo impedimento a comparire in udienza, perché questo – a suo avviso – potrebbe ostacolare la conclusione del processo in tempi ragionevoli ed aprire la strada al pericolo della prescrizione del reato": in altri termini, secondo la sentenza, l’interesse alla speditezza del procedimento giudiziario farebbe sempre premio sull’interesse delle Camere al regolare svolgimento delle attività parlamentari.

 

Considerato in diritto

 

1.– Ricorre per conflitto di attribuzioni, con atto depositato il 25 maggio 2001, la Camera dei deputati contro tre autorità giudiziarie – il Tribunale di Taranto, prima sezione penale, la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, e la Corte di cassazione, quinta sezione penale – in relazione a provvedimenti giudiziari da esse adottati in un processo a carico del deputato Giancarlo Cito, imputato di diffamazione nei confronti di un giornalista.

Precisamente, la ricorrente impugna, in primo luogo, l’ordinanza in data 18 febbraio 1998 con la quale il Tribunale di Taranto, decidendo sull’istanza presentata il giorno prima dal difensore dell’imputato, e volta al riconoscimento dell’impedimento legittimo a comparire di quest’ultimo in relazione ai lavori della Camera dei deputati previsti per i giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio, respingeva l’istanza, rilevando che "la stessa è stata presentata in data 17.2.98 benché l’ordine del giorno della seduta della Camera dei deputati per i giorni 17, 18 e 19 c.m. fosse stato trasmesso a mezzo fax il 02.02.98 (per come risulta dalla stampigliatura apposta sulla copia prodotta) e che pertanto l’istanza è stata presentata tardivamente"; considerando che "la seduta parlamentare della data odierna è fissata per le ore 16.00 per cui l’imputato poteva comparire nella mattinata, eventualmente chiedendo che il suo processo fosse trattato con precedenza"; rilevando infine "che il processo viene da rinvio del 22.12.1997, udienza in cui era presente l’imputato che nulla ha osservato in ordine alla data del rinvio": e ritenendo "che pertanto l’impedimento addotto non è assoluto".

Nel seguito dell’udienza il Tribunale dava atto che era pervenuto un fax dell’imputato in cui questi segnalava di essere impedito a presenziare al processo dalla concomitanza della seduta della Camera e segnalava altresì la circostanza che egli si era recato a Roma sin dal giorno precedente; il Tribunale non riteneva però che il contenuto del fax potesse rimettere in discussione il contenuto dell’ordinanza già emessa, alla quale rimandava, disponendo che si procedesse alla discussione.

In secondo luogo, la Camera impugna la sentenza resa dal medesimo Tribunale lo stesso 18 febbraio 1998, nella cui esposizione in fatto si ricordavano l’istanza dell’imputato e l’ordinanza di reiezione, e che, pronunciando sull’imputazione, condannava l’imputato medesimo ad una pena detentiva nonché al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

Ancora, è impugnata la sentenza della Corte d’appello di Lecce 21 ottobre 1999-10 marzo 2000, nella quale la Corte rigettava fra l’altro l’eccezione di nullità della ricordata ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale, osservando che non costituisce impedimento a comparire una semplice possibilità di impedimento; che nella specie l’imputato aveva rappresentato solo il 18 febbraio, e dunque con "palese tardività" rispetto all’epoca in cui gli era stato comunicato il calendario dei lavori della Camera, di avere partecipato alle votazioni svoltesi il giorno 17 e di dover partecipare ai lavori programmati per il pomeriggio successivo (riferendosi, evidentemente, non all’originaria istanza dell’imputato, ma al fax del giorno successivo inviato al Tribunale); che votazioni erano previste solo per il giorno 20; e concludendo che nessuna delle situazioni esposte rivestiva il carattere dell’impedimento assoluto a comparire la mattina del 18, e pure nel pomeriggio dello stesso giorno "per la non indispensabilità della presenza del medesimo al dibattito parlamentare a causa della estraneità del momento deliberativo all’o.d.g.".

Infine è impugnata la sentenza della Corte di cassazione 15 febbraio-19 marzo 2001, nella quale si rigettava il ricorso dell’imputato, disattendendo fra l’altro il motivo incentrato sulla nullità del primo giudizio a seguito del mancato riconoscimento dell’impedimento in questione, con una motivazione in cui si osserva, in via generale, che "il delicato equilibrio tra la funzione giurisdizionale e quella parlamentare trova contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della concreta situazione processuale", che "l’indiscriminata valenza dell’impedimento di natura parlamentare paralizzerebbe la definizione del procedimento, comportando la prescrizione del reato", e che "la definizione del procedimento in tempi ragionevoli soddisfa non solo l’interesse (punitivo, ma non solo) dello Stato e le legittime aspettative della persona offesa, ma anche l’interesse dello stesso imputato, ove questi non si proponga fini dilatori"; e si afferma, quanto alla specie, che la pronuncia del giudice territoriale si sottrae al sindacato della stessa Corte di cassazione, "argomentando circa la tardività dell’impedimento dedotto con proposizioni logicamente e giuridicamente ineccepibili".

Nel ricorso – proposto, è opportuno ricordare, prima della sentenza n. 225 del 2001, in cui per la prima volta questa Corte si è pronunciata su un conflitto di attribuzioni fra la Camera dei deputati ed un’autorità giudiziaria in tema di mancato riconoscimento di un impedimento dell’imputato che sia membro delle Camere, derivante dalla contemporaneità di lavori parlamentari – la Camera chiede dichiararsi che non spetta alle autorità giudiziarie contro cui ricorre "negare che costituisca impedimento assoluto alla partecipazione del deputato on. Giancarlo Cito alla udienza dibattimentale presso il Tribunale di Taranto il diritto-dovere del medesimo di assolvere il mandato parlamentare partecipando alle votazioni dell’assemblea della Camera indette nello stesso giorno"; e, in particolare, non spetta alla Corte di cassazione "dichiarare riservato al bilanciamento del giudice penale, alla stregua delle risultanze processuali, il giudizio sulla spettanza del carattere di impedimento assoluto a partecipare all’udienza alla situazione dell’imputato parlamentare che sia impegnato in votazioni in assemblea concomitanti con l’udienza penale". Chiede per l’effetto di annullare i provvedimenti giudiziari impugnati.

Il ricorso deduce la lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera con particolare riferimento alla circostanza che il deputato, nella specie, era stato chiamato ad esercitare il suo diritto-dovere di votare in assemblea, pur non escludendo che analoga lesione possa aversi anche quando non si tratti di votazione in assemblea. Secondo la ricorrente, la pretesa dell’autorità giudiziaria di rimettere al solo giudice, alla stregua della valutazione delle circostanze processuali, il giudizio sul carattere di impedimento assoluto di tutte le attività dei parlamentari, considerate fra loro "fungibili", violerebbe gli articoli 64, 68 e 72 della Costituzione, che garantiscono il funzionamento interno dell’assemblea nei confronti delle interferenze di qualsiasi potere, e non realizzerebbe un contemperamento equilibrato tra le esigenze della giurisdizione e quelle della funzione parlamentare, in contrasto anche con il principio di leale cooperazione: l’impedimento derivante dalla concomitanza di lavori parlamentari comportanti votazioni in assemblea dovrebbe comunque essere riconosciuto come assoluto.

Il diniego del carattere assoluto di detto impedimento lederebbe altresì la libertà del mandato parlamentare garantita dall’art. 67 della Costituzione, e perciò l’autonomia e l’indipendenza della Camera.

Ancora, le decisioni impugnate comporterebbero il completo sacrificio delle esigenze della funzione parlamentare, operando un bilanciamento irragionevole, mentre solo il riconoscimento del carattere assoluto dell’impedimento nel caso di concomitanti votazioni in assemblea permetterebbe alle due funzioni di convivere in modo soddisfacente e di ovviare al problema delle pratiche dilatorie.

Un ultimo motivo del ricorso – su cui la ricorrente ha in particolare insistito nella memoria, prendendo atto degli indirizzi nel frattempo enunciati da questa Corte nelle sentenze n. 225 del 2001 e n. 263 del 2003 – lamenta la violazione del principio di leale collaborazione e del dovere di lealtà e correttezza del giudice, che obbliga il potere giudiziario al rispetto effettivo delle prerogative degli altri organi costituzionali. Infatti i giudici avrebbero invocato una inesistente tardività della richiesta di rinvio, che invece era stata presentata tempestivamente, il giorno prima dell’udienza, con istanza che la Corte d’appello ha completamente ignorato; non avrebbero tenuto conto che dalla documentazione presentata si deduceva che l’imputato era chiamato a votare anche nel giorno precedente a quello dell’udienza, fino alle ore 23, il che avrebbe reso non praticabile la soluzione prospettata nell’ordinanza del Tribunale, di presenziare comunque all’udienza nella mattina del giorno 18 febbraio; la Corte d’appello avrebbe equivocato nell’affermare che votazioni erano previste solo per il giorno 20, mentre esse erano previste anche nei giorni precedenti; la Corte di cassazione avrebbe evocato i rischi di pratiche dilatorie in relazione ad una vicenda in cui l’impedimento parlamentare venne fatto valere dall’imputato in quell’unica occasione. Le motivazioni ed argomentazioni dei giudici di merito, definite "giuridicamente ineccepibili" dalla Corte di cassazione, sarebbero sintomatiche di un approccio non corretto e non ispirato all’impegno di riconoscere effettivamente le attribuzioni del potere parlamentare, che verrebbero invece aggirate.

 

2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile, in sede di preliminare delibazione, con l’ordinanza n. 126 del 2002.

 

3.– Si deve rilevare preliminarmente che il ricorso della Camera dei deputati è stato proposto, a oltre tre anni di distanza dalla pronuncia che disconosceva l’impedimento parlamentare allegato dal deputato Cito, solo dopo che si è esaurito per intero l’iter processuale, con la definitiva conferma, da parte della Corte di cassazione, della condanna inflitta, previa reiezione delle eccezioni di nullità proposte dall’imputato in relazione al mancato riconoscimento dell’impedimento in questione.

In assenza di un termine per sollevare il conflitto di attribuzioni, tale circostanza non può però, di per sé, incidere sulla proponibilità del ricorso, che fa leva sulla lesione delle attribuzioni dell’organo parlamentare, indipendentemente dalle sorti della singola vicenda processuale, che riguarda invece il solo imputato-deputato. Né di per sé, indipendentemente da quanto più oltre si dirà circa la non accoglibilità della domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati, ciò comporta il venir meno dell’interesse a ricorrere, che nella specie riposa esclusivamente sull’interesse dell’organo parlamentare a non vedere affermato, senza controllo di questa Corte, un criterio concreto di componimento, ai fini del riconoscimento di un impedimento a presenziare all’udienza a causa di lavori parlamentari, delle istanze contrapposte volte a dare rilievo alla funzione parlamentare e a quella della giurisdizione penale, entrambe di rilevanza costituzionale.

 

4.– Nel merito, il ricorso è fondato nei limiti di seguito precisati.

I principi di ordine costituzionale che caratterizzano la materia in questione sono stati individuati nella sentenza n. 225 del 2001, e ribaditi nella sentenza n. 263 del 2003.

La posizione dell’imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale "non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite" dall’art. 68, primo e secondo comma, della Costituzione. Al di fuori delle ipotesi ivi disciplinate "trovano applicazione, nei confronti dell’imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali". E’ compito delle competenti autorità giurisdizionali, e non della Corte costituzionale, interpretare e applicare le regole processuali, anche stabilendo "se e in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti […] dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l’imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dover essere equiparati, secondo il dettato dell’art. 486 del codice di procedura penale, a cause di forza maggiore". Non vi è luogo, in questo campo, ad individuare "regole speciali, derogatorie del diritto comune", e nemmeno dunque la regola per cui costituirebbe in ogni caso impedimento assoluto quello (e solo quello) derivante dalla necessità per l’imputato di prendere parte a votazioni in assemblea: il che significherebbe introdurre una distinzione "fra diversi aspetti dell’attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali", non potendosi inoltre "escludere che l’esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori". Tuttavia l’autorità giudiziaria, "allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze", deve tener conto "non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni", e così "ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza" (in questi termini la sentenza n. 225 del 2001, testualmente richiamata dalla sentenza n. 263 del 2003). Pertanto "il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda" (sentenza n. 263 del 2003).

 

5.– Nella specie, il Tribunale di Taranto non ha rispettato tali principi, non operando una valutazione in concreto atta a bilanciare l’interesse allo svolgimento del processo con l’interesse della Camera alla partecipazione del suo componente ai lavori programmati, secondo l’ordine del giorno prodotto allo stesso Tribunale, o a rendere compatibili le due esigenze. Esso si è trincerato dietro un rilievo di pretesa "tardività" dell’istanza (presentata peraltro già il giorno prima dell’udienza fissata), pur in assenza di qualsiasi termine prescritto per l’allegazione dell’impedimento, e dietro l’improbabile rilievo della possibilità di conciliare le due presenze in città diverse e lontane nel giorno in questione, senza tenere conto che dalla documentazione prodotta dal difensore risultava l’impegno parlamentare già nel pomeriggio e nella sera del giorno precedente; lamentando inoltre che l’impedimento non fosse stato fatto valere in occasione del rinvio disposto nella precedente udienza, anteriore peraltro di quasi due mesi (il che attiene semmai alla condotta processuale dell’imputato, non all’oggettività dell’impedimento).

A sua volta la Corte d’appello, nel rivalutare la situazione, è incorsa in evidenti equivoci, avendo da un lato confuso la presentazione dell’istanza (avvenuta il 17 febbraio) con l’invio da parte dell’imputato del nuovo fax il giorno stesso dell’udienza, e, dall’altro lato, avendo omesso di rilevare che l’ordine del giorno prodotto prevedeva l’esame di disegni di legge, dunque con possibili votazioni, nei giorni 17, 18, 19 e 20, e non solo il giorno 20 (per quest’ultimo giorno precisandosi solo che erano previste votazioni "sino alle ore 14").

La Corte di cassazione ha invece individuato un principio corretto quando ha statuito, in generale, che l’equilibrio fra le due funzioni in gioco deve trovare "contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della concreta situazione processuale", senza che si debba sempre riconoscere una "indiscriminata valenza" dell’impedimento parlamentare. Ma ha poi avallato in modo sostanzialmente immotivato la decisione del Tribunale, affetta invece dai vizi che si sono detti.

Tanto basta per riconoscere che, nella specie, l’autorità giudiziaria competente non ha operato il bilanciamento in concreto che le era demandato, valutando, in correlazione con l’interesse del processo, quello a non privare l’assemblea parlamentare della partecipazione del suo componente. In tal modo ha leso le attribuzioni della Camera ricorrente.

 

6.– Non può invece essere accolta la domanda della ricorrente di annullamento dei provvedimenti impugnati.

L’avvenuto esaurimento della vicenda processuale, con la formazione del giudicato, impedisce che, nella specie, questa Corte possa dare alla propria pronuncia, concernente uno specifico episodio interno al processo, un contenuto tale da riaprire quella vicenda, rimettendo in discussione rapporti e situazioni giuridiche (concernenti non solo l’imputato, ma anche la parte civile) consolidatisi per effetto appunto del giudicato: riapertura dalla quale nessuna conseguenza potrebbe discendere per la tutela della posizione costituzionale della ricorrente.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara, in parziale accoglimento del ricorso in epigrafe, che non spettava all’autorità giudiziaria, e nella specie al Tribunale di Taranto, prima sezione penale, alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, e alla Corte di cassazione, quinta sezione penale, negare la validità dell’impedimento addotto dall’imputato componente della Camera medesima senza una valutazione del caso concreto che tenesse conto, oltre che dell’interesse del processo, dell’interesse della Camera dei deputati alla partecipazione del suo componente allo svolgimento delle attività parlamentari.

 

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2004.

 

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2004.

 


 

Sentenza 12 dicembre-15 dicembre 2005, n. 451

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

- Annibale MARINI

 

Giudici

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

- Ugo DE SIERVO

- Romano VACCARELLA

- Paolo MADDALENA

- Alfio FINOCCHIARO

- Alfonso QUARANTA

- Franco GALLO

- Luigi MAZZELLA

- Gaetano SILVESTRI

- Sabino CASSESE

- Maria Rita SAULLE

- Giuseppe TESAURO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sorti a seguito di due ordinanze del 5 giugno 2000 e del 1° ottobre 2001, nonché della sentenza del 22 novembre 2003, n. 11069, emesse dal Tribunale di Milano, prima sezione penale, e di tre ordinanze del 14 luglio 2000, del 9 ottobre 2000, del 21 novembre 2001, nonché della sentenza del 29 aprile 2003, n. 4688, emesse dal Tribunale di Milano, quarta sezione penale, promossi dalla Camera dei deputati con ricorsi notificati il 18 maggio 2005, depositati in cancelleria il 1° giugno 2005 ed iscritti ai numeri 22 e 23 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2005, fase di merito.

 

Visti gli atti di costituzione del Senato della Repubblica nonché gli atti di intervento del deputato Cesare Previti;

 

uditi nell’udienza pubblica del 29 novembre 2005 i Giudici relatori Franco Bile e Francesco Amirante;

 

uditi gli avvocati Roberto Nania per la Camera dei deputati e Stefano Grassi per il Senato della Repubblica.

 

Ritenuto in fatto

 

1.1.– Con ricorso depositato l’11 gennaio 2005, la Camera dei deputati ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Tribunale di Milano, prima sezione penale, in ragione e per l’annullamento: a) dell’ordinanza emessa in data 5 giugno 2000, nell’ambito del procedimento penale R.G. 879/00 nei confronti del deputato Cesare Previti, con la quale sono state respinte le eccezioni relative al dedotto impegno parlamentare dell’imputato concomitante con l’udienza del 20 settembre 1999, ed è stato altresì disposto doversi procedere oltre nel dibattimento; b) dell’ordinanza emessa in data 1° ottobre 2001, nell’ambito del medesimo procedimento penale, con la quale, relativamente allo stesso impedimento del predetto imputato, sono state respinte le eccezioni difensive in ordine alla nullità degli atti processuali, tra cui il decreto che ha disposto il giudizio, ed è stato deciso doversi procedere oltre nel dibattimento; c) della sentenza pronunciata il 22 novembre 2003, n. 11069, sempre nell’ambito dello stesso procedimento penale, nei confronti del deputato Cesare Previti, con la quale è stato implicitamente ribadito, ma senza alcuna motivazione, quanto stabilito nelle ordinanze del 5 giugno 2000 e del 1° ottobre 2001.

La Camera dei deputati ricorrente chiede che la Corte dichiari «che non spetta all’autorità giudiziaria, e per essa al Tribunale di Milano, sezione prima penale, disconoscere nella specie, negandogli validità, l’impedimento del deputato a partecipare all’udienza penale per concomitanti impegni parlamentari, così come non le spetta affermare che l’impedimento non opera non consistendo i lavori parlamentari di cui si tratta in votazioni o che l’impedimento non sia stato provato o che comunque il suo mancato riconoscimento sia rimasto “innocuo”; e che pertanto non le spetta impedire che il contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze del mandato parlamentare venga realizzato in concreto a seguito della declaratoria di nullità degli atti compiuti in udienza nonché del decreto che dispone il giudizio»; e che, conseguentemente, la Corte annulli gli atti impugnati.

 

1.2. – In fatto, la Camera dei deputati così ricostruisce le vicende processuali in questione.

Con cinque ordinanze, rispettivamente, in data 17 settembre, 20 settembre, 22 settembre, 5 ottobre e 6 ottobre 1999, adottate nell’ambito di due diversi procedimenti penali, il GUP del Tribunale di Milano respingeva le rispettive istanze di rinvio dell’udienza – motivate dalla concomitanza di impegni parlamentari – avanzate dal deputato Cesare Previti, che in quei procedimenti era imputato. Avverso tali ordinanze, la Camera dei deputati sollevava conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, che veniva deciso, in data 6 luglio 2001, con la sentenza n. 225 del 2001, con la quale la Corte costituzionale annullava le ordinanze emesse dal GUP, stabilendo che a questo «non spettava […], nell’apprezzare i caratteri e la rilevanza degli impedimenti addotti dalla difesa dell’imputato per chiedere il rinvio dell’udienza, affermare che l’interesse della Camera dei deputati allo svolgimento delle attività parlamentari, e quindi all’esercizio dei diritti-doveri inerenti alla funzione parlamentare, dovesse essere sacrificato all’interesse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario».

Nelle more della decisione della Corte, la prima sezione penale del Tribunale di Milano, cui nel frattempo era stato assegnato uno dei due procedimenti originariamente incardinati presso il GUP (R.G. 879/00), con la prima delle ordinanze ora impugnate (datata 5 giugno 2000) si era pronunciata sul legittimo impedimento del deputato Cesare Previti a partecipare all’udienza tenutasi innanzi al GUP in data 20 settembre 1999, asserendo che detto impedimento non poteva riconoscersi poiché «concerneva non la partecipazione a votazioni in assemblea, ma ad altri lavori parlamentari».

Successivamente, la medesima sezione del Tribunale di Milano, a seguito della menzionata sentenza di questa Corte n. 225 del 2001, con la seconda delle ordinanze attualmente impugnate (del 1° ottobre 2001) aveva dichiarato di prendere atto dell’annullamento della ordinanza del GUP del 20 settembre 1999, ammettendo esplicitamente che la stessa doveva considerarsi tamquam non esset. Ciò nonostante, aveva disposto doversi procedere oltre nel dibattimento, rilevando «la legittimità del mancato rinvio dell’udienza del 20 settembre 1999», e deducendo – oltre alle considerazioni in merito alla natura dei lavori parlamentari in data 20 settembre 1999 – anche che la nullità delle attività dibattimentali a causa del disconoscimento dell’impedimento parlamentare, era comunque «rimasta “innocua”» e che «l’allegazione dell’impedimento [era] stata manchevole ed assolutamente inidonea a consentire al giudice quella valutazione di contemperamento di esigenze che la Corte costituzionale ha ammonito dover costituire oggetto necessario della valutazione del giudice».

I medesimi postulati venivano implicitamente fatti propri, senza alcuna motivazione, anche dalla impugnata sentenza in data 22 novembre 2003, conclusiva del procedimento di primo grado.

 

1.3. – Affermata – sulla base della consolidata giurisprudenza costituzionale – la propria legittimazione attiva a proporre conflitto di attribuzione e la legittimazione passiva del Tribunale di Milano, nonché la sussistenza dei requisiti oggettivi, configurabili quando – sia sotto forma di vindicatio potestatis, sia sotto forma di conflitto da menomazione o da interferenza – si controverta in ordine alla delimitazione della sfera delle attribuzioni di cui sono titolari i poteri della Stato, la ricorrente sottolinea anche il suo interesse specifico a proporre il presente conflitto in ragione del contenuto degli atti impugnati.

Richiamate, infatti, le argomentazioni e la ratio decidendi della sentenza n. 225 del 2001, osserva nel merito la Camera che, nelle ordinanze de quibus e nella sentenza, il Tribunale – disattendendo i precisati canoni di comportamento, derivanti dalla parità di rango costituzionale degli interessi confliggenti – si è sottratto in concreto all’obbligo di ponderare e bilanciare le esigenze processuali con quelle della integrità funzionale del Parlamento in modo da renderne possibile la coesistenza e da assicurare così il sereno esercizio da parte del deputato dei diritti-doveri inerenti alla funzione, accampando mere ragioni di ordine probatorio sulla attestazione dell’impedimento ed elaborando la non conosciuta categoria della “innocuità” della illegittimità compiuta dal giudice.

Secondo la ricorrente, così facendo, il Tribunale di Milano ha sacrificato, persino più radicalmente di quanto non fosse avvenuto in precedenza, le sue attribuzioni, compromettendo: a) la libertà di espletamento del mandato parlamentare, garantita dagli artt. 67 e 68 della Costituzione; b) la posizione di autonomia della Camera, in violazione degli artt. 64, 68 e 72 Cost. e delle ulteriori disposizioni costituzionali che vi si correlano; c) il canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., in uno col principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato; d) il giudicato costituzionale (ex artt. 134, secondo comma, e 137, terzo comma, Cost.), leso, quest’ultimo, solo dall’ordinanza del 1° ottobre 2001 e dalla sentenza del 22 novembre 2003, successive alla sentenza n. 225 del 2001.

 

1.4. – Ferma restando la suddetta assorbente censura, la Camera ricorrente denuncia, in termini più specifici, la portata lesiva delle proprie prerogative derivante: 1) dall’affermazione della irrilevanza del dedotto impedimento, in quanto concernente «non la partecipazione a votazioni in assemblea, ma ad altri lavori parlamentari», trattandosi di assunto contraddetto dalla citata sentenza n. 225 del 2001, che ha sottolineato, ai fini dell’attivazione del legittimo impedimento, la parità tra le attività che si svolgono in Parlamento, le quali risultano tutte strettamente correlate al ruolo che la Camera è chiamata ad assolvere nel sistema costituzionale, con particolare riguardo agli artt. 70 e 94 Cost.; 2) dalla argomentazione (svolta nell’ordinanza del 1° ottobre 2001 e implicitamente fatta propria dalla sentenza) secondo cui la nullità determinatasi a seguito della pronunzia della Corte costituzionale sarebbe “innocua” (posto che nell’udienza cui il deputato in questione non prese parte «fu svolta unicamente una mera attività interlocutoria» e non fu adottato alcun provvedimento se non quello di rinvio ad una successiva udienza), giacché - a prescindere dalla inesattezza di tale assunto - non è immaginabile che il canone della coesistenza tra attività giudiziaria e attività parlamentare non sia governato dalla razionalità costituzionale, sebbene dal puro caso; 3) dall’affermazione (anch’essa svolta nell’ordinanza del 1° ottobre 2001 e implicitamente fatta propria dalla sentenza) secondo la quale l’allegazione dell’impedimento, non contenendo i dati e la documentazione necessaria ad attestare l’attualità dell’impedimento stesso, sarebbe stata «manchevole ed assolutamente inidonea a consentire al giudice quella valutazione di contemperamento di esigenze» imposta dalla sentenza n. 225 del 2001, giacché tale documentazione era costituita dalla convocazione da parte del capogruppo e non è sostenibile che i rapporti tra deputato e gruppo, aventi ad oggetto l’attività parlamentare cui i gruppi sono chiamati a concorrere, si possano relegare in una dimensione informale o privata, disconoscendosi, in tal modo, la loro appartenenza all’ordinamento parlamentare; 4) dalla notazione, «dedotta in via allusiva», riguardante la possibilità per il deputato di essere presente nel corso della stessa giornata nella sede parlamentare ed in quella giudiziaria, pur trattandosi di città diverse e lontane, in quanto simile argomento è già stato reputato come “improbabile” da questa Corte (sentenza n. 284 del 2004), posto che il principio di coesistenza tra le due attività in gioco, quella parlamentare e quella processuale, deve riposare su di una base certa, qual è appunto quella della compatibile organizzazione dei tempi processuali indicata dalla giurisprudenza costituzionale; 5) infine, dalla mancata collaborazione informativa opposta dal Tribunale nel caso specifico, quasi che i criteri fissati dalla Corte costituzionale debbano valere soltanto pro futuro e come se, per la lesione in precedenza prodottasi a carico delle attribuzioni di rango costituzionale della Camera, altre regole, opposte al canone della leale collaborazione, possano sanzionare la irretrattabilità della lesione.

 

2.1. – Con ordinanza n. 185 del 2005, questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto, estendendo la notifica del ricorso e dell’ordinanza stessa, oltre che al Tribunale di Milano, prima sezione penale, anche al Senato della Repubblica, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

 

2.2. – La Camera dei deputati ha provveduto ad effettuare le prescritte notifiche e a depositare tempestivamente gli atti con la prova delle avvenute notifiche presso la cancelleria di questa Corte.

 

3. – Degli organi destinatari delle suddette notifiche si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica chiedendo che «questa Corte voglia riconoscere la fondatezza dei principi affermati nel ricorso della Camera dei deputati, in particolare del principio di leale collaborazione fra i poteri titolari della funzione giurisdizionale e i poteri titolari della funzione parlamentare, nelle ipotesi in cui la presenza fisica di un singolo parlamentare sia necessaria al corretto esercizio di entrambe le funzioni e, conseguentemente, voglia accogliere il ricorso».

Il Senato ha, in particolare, posto l’accento sulla necessità di valutare, ai fini dell’impedimento alla partecipazione di un parlamentare alle udienze penali, il diritto-dovere dello stesso parlamentare di assolvere al proprio mandato partecipando alle sedute del ramo del Parlamento di cui è membro, secondo i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 225 del 2001, poi ribaditi nelle sentenze n. 263 del 2003 e n. 284 del 2004.

 

4.1. – E’ intervenuto in giudizio il deputato Cesare Previti chiedendo a questa Corte una dichiarazione di «inottemperanza del Tribunale di Milano alla sentenza n. 225 del 2001» e, in subordine, che «venga ribadito che non spetta al giudice privilegiare l’esigenza di speditezza processuale su quella della funzionalità del Parlamento», con conseguente annullamento, in ogni caso, di tutti gli atti oggetto del conflitto.

 

4.2. – Affermata la propria legittimazione ad intervenire nel presente conflitto (conformemente ai principi desumibili dagli artt. 26, comma 4, e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, oltre che dagli artt. 24 e 111 Cost. e 6 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali), nel merito il deputato Previti deduce che – diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale di Milano – l’annullamento delle ordinanze da parte di questa Corte «riguarda non soltanto il GUP che le ha adottate, ma il Giudice del processo in cui il conflitto è sorto» e, cioè, anche il Tribunale davanti al quale il processo è proseguito. Pertanto, gli atti procedimentali annullati non possono più essere rimessi in discussione, poiché altrimenti si realizzerebbe una sostanziale inottemperanza alla decisione della Corte.

Per il resto l’interveniente fa integralmente proprie le deduzioni della Camera aggiungendo soltanto che l’affermazione del Tribunale di Milano in merito alla pretesa violazione, da parte dell’imputato, dell’onere probatorio relativo all’impedimento parlamentare sarebbe, oltre che infondata, basata su un principio inammissibile, in quanto «nell’ambito dei conflitti tra poteri il principio di collaborazione che deve informare il reciproco rapporto esclude […] che uno dei poteri possa esimersi dall’obbligo collaborativo trincerandosi dietro il mancato assolvimento di oneri che gravano su altri soggetti diversi dai poteri».

 

5.1. – Con altro ricorso depositato sempre l’11 gennaio 2005, la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Tribunale di Milano, quarta sezione penale, in ragione e per l’annullamento delle ordinanze in data 14 luglio 2000, 9 ottobre 2000, 21 novembre 2001 e della sentenza in data 29 aprile - 5 agosto 2003, n. 4688/03, rispettivamente emesse nel corso e in conclusione dei procedimenti penali riuniti R.G. n. 1600/00 e n. 7928/01, a carico, tra gli altri, del deputato Cesare Previti.

Nelle menzionate ordinanze sono state respinte le eccezioni avanzate dalla difesa del deputato di nullità – in ragione dell’impedimento del parlamentare a partecipare alle udienze del 17 e 22 settembre 1999, 5 e 6 ottobre 1999 – dei relativi atti nonché del decreto che dispone il giudizio. Nella sentenza sono state richiamate e ribadite, in sede di esame delle questioni processuali, le determinazioni contenute nelle impugnate ordinanze.

In particolare: a) nell’ordinanza in data 14 luglio 2000 il Tribunale ha escluso che l’impedimento dedotto potesse considerarsi ritualmente provato, ritenendo che gli avvisi di convocazione a firma del capogruppo parlamentare del partito Forza Italia (di appartenenza del deputato Previti), depositati nell’ambito dell’udienze in argomento, non fossero documenti idonei a comprovare la sussistenza e la effettività dell’impedimento dell’imputato in relazione alle sedute della Camera concomitanti con le udienze. Il Tribunale ha, inoltre, aggiunto che, in base al testo dell’art. 420 del codice di procedura penale vigente all’epoca dello svolgimento delle udienze di cui si tratta, al legittimo impedimento veniva attribuita rilevanza solo ai fini delle prima udienza di costituzione delle parti e non per le udienze successive, quali sono quelle in argomento; b) nella ordinanza del 9 ottobre del 2000, il Tribunale – pur dando atto che all’udienza del 13 novembre 1999 era stata depositata la documentazione ufficiale della Camera dei deputati dalla quale risultava la presenza in aula del deputato Previti nei giorni considerati – riteneva tardiva la suddetta allegazione e confermava le conclusioni raggiunte nel proprio precedente provvedimento di cui riproduceva le argomentazioni; c) nell’ordinanza del 21 novembre 2001 lo stesso Tribunale – preso atto dell’annullamento delle ordinanze in data 17 settembre, 20 settembre, 22 settembre, 5 ottobre e 6 ottobre 1999 emesse dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di Giudice dell’udienza preliminare, disposto da questa Corte con la sentenza n. 225 del 2001 – disponeva che dovesse ugualmente procedersi oltre nel dibattimento, sul presupposto che l’annullamento delle suddette ordinanze non potesse riverberarsi sul decreto di rinvio a giudizio e sugli altri atti del dibattimento, in quanto doveva ritenersi che, per motivi diversi da quelli censurati da questa Corte, il GUP avesse comunque proceduto legittimamente in assenza dell’imputato, il cui diritto di difesa non era stato violato; d) nella sentenza n. 4688 del 2003, il Tribunale, come si è detto, richiamava e ribadiva le medesime argomentazioni.

La ricorrente chiede che questa Corte dichiari che non spetta all’autorità giudiziaria e, per essa, al Tribunale di Milano, quarta sezione penale: a) «disconoscere nella specie, negandogli validità, l’impedimento del deputato a partecipare alle udienze penali per concomitanti impegni parlamentari»; b) «affermare che l’impedimento stesso non sia stato provato o lo sia stato tardivamente»; c) «impedire che il contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze dell’attività parlamentare venga realizzato in concreto a seguito della declaratoria di nullità degli atti compiuti in tali udienze nonché del decreto che dispone il giudizio». Conseguentemente la Camera richiede che questa Corte annulli gli atti processuali che hanno dato origine al presente conflitto.

 

5.2. – Quanto all’ammissibilità del conflitto, la ricorrente, dopo aver affermato la propria legittimazione attiva e quella passiva del Tribunale di Milano, quarta sezione penale, osserva che nessun dubbio può nutrirsi neppure in merito alla sussistenza dei requisiti oggettivi del conflitto di attribuzione, posto che questa Corte è chiamata a stabilire se, mediante i provvedimenti giurisdizionali in argomento, si sia illegittimamente inciso sulle attribuzioni della Camera, con particolare riferimento alle disposizioni costituzionali poste a tutela della indipendenza, autonomia e integrità della stessa nonché di quelle che presidiano il libero esercizio del mandato rappresentativo. Per quel che riguarda l’interesse a ricorrere, la Camera sottolinea che, negli atti di cui si tratta, è stato del tutto omesso – o comunque è stato effettuato con esito irragionevole e inadeguato – il bilanciamento, allo scopo di renderle compatibili, tra le esigenze del processo e quelle connesse all’attività parlamentare, oltretutto dopo che tale tipo di bilanciamento era stato espressamente prescritto da questa Corte nella sentenza n. 225 del 2001, nella quale si è posto l’accento anche sulla pubblicità degli atti e dei lavori parlamentari e sulla conseguente praticabilità del relativo riscontro, se del caso, da parte dello stesso giudice procedente, onde scongiurare la concomitanza delle udienze penali con i lavori parlamentari.

Altrettanto chiaro sarebbe l’interesse della ricorrente a vedere stigmatizzata l’affermazione, reiterata nei provvedimenti stessi, sulla inidoneità della prova dell’impedimento addotta dal deputato Previti in quanto tale affermazione sarebbe lesiva sia della posizione del deputato sia di quella della Camera nel suo complesso, oltre a violare il principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato.

 

5.3. – Quanto al merito, la Camera sostiene che i provvedimenti da cui è sorto il presente conflitto incorrono nei medesimi vizi ravvisati da questa Corte nella citata sentenza n. 225 del 2001 e nelle successive sentenze n. 263 del 2003 e n. 284 del 2004, dalle quali si desume il principio secondo cui l’obbligo, imposto dal sistema costituzionale delle attribuzioni, della ponderazione tra esigenze processuali ed esigenze della funzione parlamentare, a fronte dell’allegazione del relativo impedimento da parte del parlamentare sottoposto a procedimento penale, è immanente in ogni attività del giudice. Questi, pertanto – a meno che contesti, in ipotesi, la stessa veridicità della allegazione – non vi si può sottrarre facendo semplicemente riferimento a ragioni di ordine probatorio.

Per quel che riguarda, specificamente, gli effetti della citata sentenza n. 225 del 2001 rispetto all’attuale conflitto, la Camera – dopo aver rilevato che le due ordinanze del 14 luglio e del 9 ottobre 2000 dovrebbero considerarsi automaticamente travolte da tale sentenza «in virtù del petitum di cui al ricorso introduttivo» – osserva che, per l’ordinanza del 21 novembre 2001 e per la sentenza n. 4688 del 2003 (successive alla suddetta pronuncia), si pone l’ulteriore vizio della violazione del giudicato costituzionale che non può non ridondare in lesione delle attribuzioni della Camera, da quel medesimo giudicato riconosciute in base agli stessi principi e disposizioni costituzionali che fanno da sfondo al presente conflitto. Ed altrettanto lesiva, con riferimento a tutti gli atti attualmente in contestazione, si appalesa l’affermazione secondo la quale l’impedimento parlamentare, in base alle norme processuali da applicare nella specie, avrebbe potuto assumere rilievo solo in riferimento alla prima udienza di costituzione delle parti e non con riguardo alle udienze successive, quali sono quelle di cui si controverte.

Pertanto, la ricorrente ritiene che il Tribunale di Milano, quarta sezione penale, nel fare applicazione delle regole processuali in modo tale da non consentire una equilibrata realizzazione della necessaria coesistenza tra processo e attività parlamentare, abbia sacrificato, persino più radicalmente di quanto non fosse avvenuto in precedenza ad opera del GUP, le attribuzioni della Camera, compromettendo la libertà di espletamento del mandato parlamentare (garantita dagli artt. 67 e 68 Cost.), violando gli artt. 64, 68 e 72 Cost. e le ulteriori disposizioni costituzionali ad esse correlate su cui si fonda la posizione di autonomia della Camera, non rispettando, altresì, né l’art. 3 Cost. con il canone di ragionevolezza da esso consacrato né il principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato più volte richiamato da questa Corte (v. sentenze n. 231 del 1975, n. 379 del 1992 e n. 403 del 1994).

 

5.4. – Ferma restando la suddetta assorbente censura, la Camera sviluppa ulteriori argomenti critici in merito all’affermazione, contenuta negli atti di cui si tratta, sul carattere «informale» e quindi inidoneo a fornire la prova del legittimo impedimento degli avvisi di convocazione a firma del capogruppo parlamentare di Forza Italia.

Al riguardo la ricorrente – dopo aver precisato che, per quanto attiene all’udienza del 17 settembre 1999 (presa in considerazione, in aggiunta delle altre, dalla sola ordinanza del 21 novembre 2001), pur non trattandosi di impegno per votazione, comunque è stata depositata unitamente alla comunicazione del capogruppo anche la conforme documentazione della Camera relativa al calendario dei lavori per il periodo tra il 14 settembre ed il 1° ottobre 1999 – sottolinea che è inimmaginabile che possa disconoscersi l’appartenenza all’ordinamento parlamentare dei rapporti tra deputato e gruppo aventi ad oggetto l’attività parlamentare e quindi negarsi il carattere di atti parlamentari anche delle informative del capogruppo e la relativa idoneità probatoria a comprovare l’impedimento.

Conseguentemente, la Camera si sofferma a contestare l’assunto del Tribunale – ritenuto in contrasto con gli artt. 54, 64, 68 e 72 Cost. – secondo il quale la prova dell’effettiva partecipazione del deputato allo svolgimento dei lavori parlamentari avrebbe dovuto essere fornita attraverso il tempestivo deposito dell’ordine del giorno ufficiale della Camera, indicante gli orari delle votazioni, accompagnato da una certificazione idonea ad attestare l’effettiva presenza dell’imputato in aula al fine di esercitare il diritto di voto. Tale affermazione, infatti, sarebbe il frutto di una inadeguata e irragionevole ponderazione del rapporto tra esigenze processuali ed esigenze dell’attività parlamentare in quanto, non essendo previste procedure per verificare la presenza in aula dei singoli deputati all’inizio o nel corso delle sedute, il deputato può fornire la relativa documentazione solo ex post tramite i resoconti stenografici (come, nella specie, è stato fatto con l’allegazione del resoconto della seduta dell’aula n. 614, in data 29 ottobre 1999), i quali, peraltro, non consentono di fornire la prova della presenza dei deputati che, pur trovandosi nell’aula, non prendano parte alle votazioni ovvero non intervengano nella discussione. Ne consegue che la suindicata richiesta probatoria – peraltro avanzata «ora per allora» facendo riferimento ad adempimenti mai richiesti dal GUP – si sarebbe tradotta in una limitazione della libertà di esercizio della funzione parlamentare, perché inequivocabilmente diretta a spingere il deputato ad optare per la presenza in udienza. Inoltre il Tribunale, avendo escluso la configurabilità a carico del GUP dell’onere di attivarsi per avere certezza, nei termini descritti, dell’effettivo assolvimento dell’attività parlamentare dedotta quale impedimento (con la eventuale richiesta di riscontri da parte della Camera), avrebbe altresì violato il canone di leale collaborazione tra poteri dello Stato. Canone che lo stesso Tribunale, sempre nell’ambito del medesimo processo, ha invece rispettato in una ordinanza dell’11 maggio 2000 e in una missiva inviata da parte del Presidente del collegio alla Camera e pervenuta il 26 ottobre 2001, nelle quali sono stati richiesti – e prontamente ottenuti – riscontri sull’andamento dei lavori della Camera stessa onde coordinare la programmazione delle udienze penali con l’attività parlamentare.

 

6.1. – La Corte, con ordinanza n. 186 del 2005, ha dichiarato ammissibile il conflitto estendendo la notifica del ricorso e dell’ordinanza stessa, oltre che al Tribunale di Milano, quarta sezione penale, anche al Senato della Repubblica, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

 

6.2. – La Camera dei deputati ha provveduto ad effettuare le prescritte notifiche e a depositare tempestivamente gli atti con la prova delle avvenute notifiche presso la cancelleria di questa Corte.

 

7. – Degli organi destinatari delle suddette notifiche si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica svolgendo motivazioni e formulando conclusioni identiche a quelle contenute nella memoria di costituzione depositata nel giudizio per conflitto di attribuzione promosso dalla Camera dei deputati con ricorso iscritto al n. 22 del registro confitti 2005.

 

8. – E’ intervenuto il deputato Cesare Previti con una memoria anch’essa di contenuto identico a quello dell’atto di intervento nel giudizio per conflitto di attribuzione promosso dalla Camera dei deputati con ricorso iscritto al n. 22 del registro conflitti 2005.

 

9. – Nell’imminenza dell’udienza, la Camera dei deputati ha depositato, in entrambi i giudizi, memorie illustrative in cui ribadisce le argomentazioni svolte nei ricorsi ed insiste per l’accoglimento dei conflitti.

 

10.1. – Anche il Senato della Repubblica ha depositato ampie memorie illustrative, concludendo anch’esso per l’accoglimento dei ricorsi.

Confermata la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi di ammissibilità dei conflitti, il Senato richiama quei principi fondamentali già invocati, a tutela dell'autonomia del Parlamento e dei corretti rapporti tra i poteri dello Stato, nel precedente giudizio concluso dalla sentenza n. 225 del 2001, che, in estrema sintesi esso individua: a) nel principio di autonomia parlamentare, in relazione alla capacità delle singole Camere di regolare i meccanismi di formazione della loro volontà, organizzando i tempi dei lavori e fissando i presupposti per il regolare svolgimento delle sedute, senza interferenze derivanti dall'esercizio di attribuzioni costituzionali di altri organi; b) nel principio di autonomia di ciascuna Camera, in relazione alle lesioni o ai condizionamenti subiti dai singoli parlamentari che ne fanno parte, con particolare riferimento al diritto-dovere del parlamentare di partecipare alle sedute, consentendo la formazione dei quorum strutturali e funzionali richiesti per la validità delle deliberazioni; c) nel principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato, come metodo di perfezionamento del tessuto costituzionale, capace di garantire 1'effettiva valorizzazione delle attribuzioni costituzionali affidate alle Camere e delle attribuzioni costituzionali affidate agli organi giurisdizionali.

 

10.2. – Sulla scorta di tali principi, il Senato – con riferimento al conflitto proposto nei confronto del Tribunale di Milano, prima sezione penale – contesta innanzitutto la tesi sostenuta nelle impugnate decisioni, secondo cui il legittimo impedimento non poteva essere riconosciuto in quanto concerneva non la partecipazione a votazioni in assemblea ma ad altri lavori parlamentari, poiché la stessa sentenza n. 225 del 2001 ha escluso la possibilità di effettuare una distinzione tra i diversi aspetti dell’attività parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai diritti e doveri funzionali degli organi rappresentativi e ha, quindi, ritenuto che la valutazione sull'importanza o meno delle attività parlamentari che devono essere svolte non vada affidata al giudice ordinario, ma debba essere lasciata alla libertà del parlamentare, garantita dal sistema di principi che esprimono l'autonomia delle Camere.

Il Senato condivide, poi, l’assunto della Camera secondo cui l'assenza di una corretta ponderazione non può costituire una illegittimità “innocua”, equivalendo ciò ad una sostanziale violazione del giudicato costituzionale, giacché, anche in sede di conflitto tra poteri, la statuizione che lo risolve – per non risultare una inutile enunciazione di principio – deve essere osservata dalle parti in giudizio; comunque, la mancata partecipazione all’udienza del deputato sottoposto a procedimento penale realizza di per sé una lesione del diritto di difesa, che non permette di individuare a posteriori la rilevanza o meno delle attività processuali svolte nell'udienza alla quale l'imputato non ha potuto partecipare.

Quanto, poi, alla sufficienza della documentazione prodotta al fine di provare l’attività parlamentare, il Senato rileva che – attesa la piena riconducibilità alle attività parlamentari delle comunicazioni effettuate dal capogruppo nei confronti dei deputati appartenenti al gruppo parlamentare – la leale collaborazione tra i poteri dello Stato avrebbe potuto suggerire al giudice un agevole diretto controllo sugli atti pubblici della Camera dell’affermazione formulata dall'imputato.

 

10.3. – Con riferimento al conflitto proposto nei confronti del Tribunale di Milano, quarta sezione penale, il Senato pone, in particolare, l’accento sul fatto che i giudici si sono sottratti all’obbligo (derivante dal principio di leale collaborazione) di effettuare il bilanciamento tra esigenze processuali ed esigenze di rispetto dell’integrità funzionale del Parlamento, specificamente imposto dalla sentenza n. 225 del 2001.

Infine, per quel che riguarda l’argomento – sviluppato nei provvedimenti impugnati – secondo cui (in base al combinato disposto degli artt. 420 e 486 cod. proc. pen. nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479) l’impedimento parlamentare avrebbe assunto rilievo nell’ambito dell’udienza preliminare solo con riguardo alla prima udienza di costituzione delle parti e non per le udienze successive (quali sono quelle di cui si tratta), il Senato afferma di condividere l’opinione espressa nel ricorso dalla Camera dei deputati in base alla quale «una simile impostazione implica l’affermazione del principio opposto a quello affermato dalla giurisprudenza costituzionale e, cioè, quello secondo cui l’organo giudicante non può, in nessun caso, limitare solo ad alcune fasi del processo l’applicazione del principio costituzionale dell’equilibrata coesistenza tra esigenze di giustizia e del processo penale ed esigenze di autonomia e libertà nello svolgimento delle attività parlamentari».

 

Considerato in diritto

 

1. – Con i ricorsi indicati in epigrafe, la Camera dei deputati ha proposto due conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti rispettivamente della prima e della quarta sezione penale del Tribunale di Milano, in riferimento a provvedimenti adottati nell’ambito procedimenti penali in cui è imputato, tra gli altri, il deputato Cesare Previti.

Il conflitto iscritto al n. 22 del 2005 riguarda le ordinanze emesse in data 5 giugno 2000 e 1° ottobre 2001 e la sentenza pronunciata il 22 novembre 2003, n. 11069/03. Rispetto a tali provvedimenti, la Camera dei deputati chiede che la Corte dichiari «che non spetta all’autorità giudiziaria, e per essa al Tribunale di Milano, sezione prima penale, disconoscere nella specie, negandogli validità, l’impedimento del deputato a partecipare all’udienza penale per concomitanti impegni parlamentari, così come non le spetta affermare che l’impedimento non opera non consistendo i lavori parlamentari di cui si tratta in votazioni o che l’impedimento non sia stato provato o che comunque il suo mancato riconoscimento sia rimasto “innocuo”; e che pertanto non le spetta impedire che il contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze del mandato parlamentare venga realizzato in concreto a seguito della declaratoria di nullità degli atti compiuti in udienza nonché del decreto che dispone il giudizio». Conseguentemente la ricorrente chiede altresì che la Corte annulli gli atti impugnati.

A sua volta il conflitto iscritto al n. 23 del 2005 concerne le ordinanze emesse in data 14 luglio 2000, 9 ottobre 2000 e 21 novembre 2001, nonché la sentenza pronunciata il 29 aprile 2003 n. 4688/03. La ricorrente chiede che questa Corte dichiari che non spetta all’autorità giudiziaria e, per essa, al Tribunale di Milano, quarta sezione penale: a) «disconoscere nella specie, negandogli validità, l’impedimento del deputato a partecipare alle udienze penali per concomitanti impegni parlamentari»; b) «affermare che l’impedimento stesso non sia stato provato o lo sia stato tardivamente»; c) «impedire che il contemperamento tra esigenze del processo ed esigenze dell’attività parlamentare venga realizzato in concreto a seguito della declaratoria di nullità degli atti compiuti in tali udienze nonché del decreto che dispone il giudizio». Conseguentemente la Camera richiede che questa Corte annulli anche questi provvedimenti.

 

2. – I due giudizi per conflitto devono essere riuniti, perché pongono questioni in gran parte analoghe.

I ricorsi sono parzialmente fondati.

 

3. – Questa Corte è stata più volte chiamata a risolvere conflitti di attribuzione del tipo di quelli proposti con i ricorsi in esame. In particolare con la sentenza n. 225 del 2001 la Corte, decidendo un conflitto proposto dalla Camera dei deputati, ha annullato talune ordinanze emesse dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano nel corso degli stessi processi nel cui ambito sono successivamente intervenuti i provvedimenti oggetto dei presenti conflitti (concernenti le medesime situazioni processuali cui si riferivano gli atti annullati).

Con la citata sentenza, la Corte ha affermato che la posizione dell'imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale non è assistita da speciali garanzie costituzionali, salvo quelle (estranee al caso di specie) stabilite dell'art. 68 della Costituzione, per cui – al di fuori di queste tassative ipotesi – per l'imputato parlamentare operano le generali regole del processo, con le relative sanzioni e gli ordinari rimedi processuali.

La Corte ha anche rilevato che – ove l’imputato, come nel caso in esame, deduca di essere impedito ad intervenire all’udienza dovendo esercitare il suo diritto–dovere di partecipare ai lavori parlamentari – fra l’esigenza di speditezza dell’attività giurisdizionale e quella di tutela delle attribuzioni parlamentari, aventi entrambe fondamento costituzionale, si può determinare un’interferenza suscettibile di incidere sulle attribuzioni costituzionali di un soggetto estraneo al processo penale e, in particolare, sull’interesse della Camera di appartenenza a che ciascuno dei suoi componenti sia libero di regolare la propria partecipazione ai lavori parlamentari nel modo ritenuto più opportuno.

Pertanto, il giudice non può limitarsi ad applicare le regole generali del processo in tema di onere della prova del legittimo impedimento dell’imputato, incongruamente coinvolgendo un soggetto costituzionale estraneo al processo stesso, ma (come la Corte ha rilevato) ha l’onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari.

 

4. – Dalla distinzione fra i due giudizi – e in particolare dal rilievo che in quello per conflitto la Corte è chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni costituzionali della Camera, ad opera dei provvedimenti impugnati (così la citata sentenza n. 225 del 2001) – discende direttamente l’inammissibilità degli interventi spiegati avanti a questa Corte dal parlamentare assoggettato a processo penale. Del resto il principio generale secondo cui nel giudizio per conflitto la legittimazione spetta soltanto agli organi dei poteri confliggenti subisce un’unica deroga quando (ma non è il caso di specie) l’esito di tale giudizio possa definitivamente pregiudicare le posizioni di un soggetto ad esso estraneo (cfr. sentenza n. 342 del 2004).

D’altro canto il prosieguo del giudizio penale – dopo l’annullamento, da parte di questa Corte, delle ordinanze del giudice dell’udienza preliminare – sotto nessun profilo può considerarsi come “giudizio di ottemperanza” del giudicato costituzionale, ostando a tale configurazione le differenze oggettive e soggettive esistenti fra il processo costituzionale e quello penale.

 

5. – I provvedimenti impugnati con i due ricorsi devono essere esaminati alla luce dei principi appena enunciati.

 

6. – Con il ricorso iscritto al n. 22 del 2005, la Camera dei deputati ha, come detto, impugnato le ordinanze rese dalla prima sezione penale del Tribunale di Milano il 5 giugno 2000 e il 1° ottobre 2001 e la sentenza pronunciata il 22 novembre 2003.

 

7. – La prima delle citate ordinanze – emessa in pendenza del giudizio per conflitto deciso dalla sentenza n. 225 del 2001 – ha rigettato le eccezioni relative al dedotto impegno parlamentare dell’imputato, concomitante con l’udienza del 20 settembre 1999.

Il Tribunale ha ritenuto la non assolutezza dell’impedimento in quanto esso «concerneva non la partecipazione a votazioni in assemblea, ma ad altri lavori parlamentari».

Con tale ordinanza il giudice ha menomato le attribuzioni del Parlamento che – come questa Corte ha già affermato con la sentenza n. 225 del 2001 – hanno tutte, in linea di principio, pari dignità e non tollerano distinzioni «fra diversi aspetti dell’attività del parlamentare, tutti riconducibili ugualmente ai suoi diritti e doveri funzionali». Si deve quindi dichiarare che non spettava all’autorità giudiziaria formulare nella motivazione queste affermazioni.

 

8. – Con l’ordinanza del 1° ottobre 2001 – emessa dopo la sentenza n. 225 del 2001 che aveva annullato l’ordinanza resa dal giudice dell'udienza preliminare in data 20 settembre 1999 – il Tribunale ha rigettato l’istanza proposta dagli imputati per ottenere la “rimozione automatica” di tutti gli atti processuali compiuti nell’udienza tenuta in quella data e nelle successive, tra cui il decreto che aveva disposto il giudizio.

L’ordinanza si fonda su due distinti profili di motivazione.

Con il primo il Tribunale ha negato che la nullità dell’ordinanza del 20 settembre 1999 si sia estesa agli atti processuali posteriori, in considerazione della natura e della rilevanza delle attività svoltesi in quell’udienza, onde ogni “effetto diffusivo” si era definitivamente interrotto.

Con il secondo ordine di argomentazioni invece il Tribunale – sulla premessa di fatto che l’imputato aveva ritenuto di provare l’impedimento con la produzione della lettera di convocazione alla Camera del capo del gruppo parlamentare di appartenenza – ha ritenuto tale allegazione «manchevole ed assolutamente inidonea a consentire al giudice [dell’udienza preliminare] quella valutazione di contemperamento di esigenze che la Corte costituzionale ha ammonito dover costituire oggetto necessario della valutazione del giudice».

Sotto il primo profilo il giudice ha adottato una motivazione di tipo processuale, il cui sindacato compete esclusivamente al giudice del processo penale.

Il secondo profilo merita le censure mosse dalla ricorrente, perché il giudice – pur in presenza di una situazione di potenziale conflitto con le attribuzioni costituzionali della Camera, soggetto estraneo al giudizio penale – si è limitato a far riferimento ad una motivazione di tipo processuale senza tenere adeguatamente conto di tali attribuzioni. Si deve quindi dichiarare che non spettava all’autorità giudiziaria formulare nella motivazione le affermazioni di cui sopra.

 

9. – La sentenza del 22 novembre 2003, che ha concluso il giudizio di primo grado, non contiene alcuna autonoma valutazione dell’impedimento, né affermazioni lesive delle prerogative del Parlamento.

 

10. – Con il ricorso iscritto al n. 23 del 2005 la Camera dei deputati ha impugnato le ordinanze rese dalla quarta sezione penale del Tribunale di Milano nelle date del 14 luglio 2000, 9 ottobre 2000 e 21 novembre 2001 e la sentenza del 29 aprile 2003.

 

11. – Le prime due ordinanze sono state emesse in pendenza del giudizio per conflitto deciso dalla sentenza n. 225 del 2001.

Con l’ordinanza del 14 luglio 2000, il Tribunale ha rigettato una pluralità di eccezioni di nullità sollevate dalle difese e tra esse quella relativa alla nullità del decreto che aveva disposto il giudizio, conseguente al mancato rilievo dell’impedimento assoluto a comparire dedotto dall’imputato per impegni parlamentari concomitanti con l’udienza preliminare nei giorni 22 settembre e 5 e 6 ottobre 1999.

Anche in questo caso il Tribunale ha adottato un duplice ordine di motivazioni.

In primo luogo ha ritenuto che spettava all’imputato fornire la piena prova dell’impedimento; che il giudice non aveva alcun dovere di attivarsi per conseguirla; che la lettera di convocazione del capo del gruppo parlamentare di appartenenza non aveva alcun valore di prova; e che la prova doveva concernere non solo la programmazione dei lavori parlamentari per un certo giorno, ma anche l’effettiva partecipazione dell’imputato ai lavori comportanti votazioni.

Tali affermazioni meritano le censure prospettate dalla ricorrente, per le stesse ragioni già illustrate a proposito dei provvedimenti della prima sezione, sopra esaminati. Deve aggiungersi, relativamente al rilievo concernente la partecipazione ai lavori parlamentari, che essa in realtà può assumere connotati diversi, secondo le particolarità delle circostanze, e sostanziarsi anche nella decisione di non votare. Si deve quindi dichiarare che non spettava all’autorità giudiziaria formulare nella motivazione le affermazioni di cui sopra.

In secondo luogo il Tribunale ha affermato che l’art. 420 del codice di procedura penale, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479, richiamando soltanto i primi due commi dell’art. 486 cod. proc. pen. e non anche il terzo, attribuiva rilevanza al legittimo impedimento dell’imputato a comparire solo con riguardo alla prima udienza, ipotesi non ricorrente nella specie.

Poiché il giudice ha adottato una motivazione di tipo processuale, valgono al riguardo le considerazioni svolte a proposito del primo profilo di motivazione dell’ordinanza del 1° ottobre 2001 (retro, § 8).

 

12. – Con l’ordinanza del 9 ottobre 2000 il Tribunale ha respinto l’istanza di revoca del precedente provvedimento, proposta dalla difesa ancora al fine di ottenere la dichiarazione di nullità del decreto che ha disposto il giudizio. Il giudice – confermata la validità delle argomentazioni svolte nella prima ordinanza – ha affermato che, ai fini della prova del legittimo impedimento, «sarebbe stato sufficiente documentare, in esordio di udienza, l’esistenza di una convocazione attraverso la documentazione ufficiale della Presidenza della Camera di appartenenza e successivamente mediante ulteriore comunicazione, anche via fax, idonea ad attestare la presenza dell’istante quanto meno all’inizio della seduta parlamentare».

Anche a queste argomentazioni si attagliano i rilievi prima esposti a proposito del secondo profilo di motivazione dell’ordinanza del 1° ottobre 2001 (retro, § 8), con la conseguente dichiarazione che non spettava all’autorità giudiziaria di formularle nella motivazione.

 

13. – L’ordinanza del 21 novembre 2001 è stata emessa sulla richiesta di dichiarare la nullità del decreto che ha disposto il giudizio «in esecuzione della sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 4 luglio 2001».

Il Tribunale – che, in applicazione della suddetta sentenza, ha preso in considerazione anche l’udienza tenutasi il 17 settembre 1999 – ha rigettato l’istanza sulla base di una pluralità di linee argomentative. In primo luogo ha individuato la portata del giudicato costituzionale formatosi con la pronunzia sul conflitto di attribuzione, sottolineandone i limiti soggettivi ed oggettivi, in particolare quelli concernenti la sua incidenza sul processo penale. Inoltre ha confermato la tesi, sopra sintetizzata, dell’ininfluenza dell’impedimento dell’imputato nelle udienze successive alla prima. Infine ha ripreso, ulteriormente sviluppandoli, gli argomenti relativi alle modalità di acquisizione della prova dell’impedimento e all’oggetto di essa.

Per i primi due profili, con i quali il giudice ha adottato una motivazione di tipo processuale, valgono le considerazioni svolte a proposito del primo ordine di argomentazioni dell’ordinanza del 1° ottobre 2001 (retro, § 8); per il terzo vale invece quanto detto nello stesso paragrafo, circa la non spettanza al medesimo giudice di formulare tali affermazioni nella motivazione.

 

14. – Per quanto riguarda la sentenza del 29 aprile 2003, basta rilevare che essa si limita a richiamare le precedenti ordinanze e non contiene alcuna nuova, autonoma valutazione delle situazioni oggetto del conflitto.

 

15. – Da ultimo occorre stabilire quali provvedimenti la Corte debba adottare in conseguenza della rilevata non spettanza al giudice di formulare le affermazioni lesive delle attribuzioni costituzionali della Camera dei deputati.

Al riguardo, la citata sentenza n. 225 del 2001 ha fatto seguire alla dichiarazione di non spettanza l’annullamento delle ricordate ordinanze del Giudice dell'udienza preliminare, motivate nel modo sopra indicato, ma – pur essendo il processo proseguito – non ha reso alcun provvedimento nei confronti di altri atti processuali.

La sentenza n. 263 del 2003, resa in analogo conflitto, ha poi chiarito che «alla constatazione dell’avvenuta lesione consegue l’annullamento del provvedimento impugnato, fermo restando che spetterà alle competenti autorità giurisdizionali investite del processo (essendosi questo nel frattempo concluso in primo grado) valutare le eventuali conseguenze di tale annullamento sul piano processuale» (v. anche la sentenza n. 284 del 2004).

Pertanto, gli effetti caducatori della dichiarazione di non spettanza devono limitarsi ai provvedimenti, o alle parti di essi, che siano stati riconosciuti lesivi degli interessi oggetto del giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione.

Queste premesse comportano anzitutto che l’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano in data 5 giugno 2000 deve essere annullata nella sua totalità, essendo sorretta da una motivazione costituita esclusivamente dalle affermazioni lesive.

Invece le altre ordinanze prima esaminate sono fondate su distinte linee argomentative, taluna delle quali di tipo processuale e quindi estranee al giudizio per conflitto di attribuzione. La pronunzia caducatoria deve essere quindi limitata alle parti di cui è stata affermata la lesività, secondo le considerazioni dianzi svolte. Spetterà poi al giudice penale rilevare, alla stregua delle norme che disciplinano il processo, l’eventuale esistenza di ulteriori effetti derivanti dai vizi accertati.

Nessuna pronunzia di annullamento deve essere emessa da questa Corte nei confronti delle sentenze, non essendo esse affette da vizi rilevabili in sede di conflitto di attribuzione.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi;

dichiara inammissibili gli interventi;

dichiara – in parziale accoglimento dei ricorsi – che non spettava all’autorità giudiziaria, e nella specie al Tribunale di Milano, nell’apprezzare la prova e i caratteri dell’impedimento dell’imputato parlamentare a comparire alle udienze tenute dal Giudice dell’udienza preliminare di quel Tribunale nei giorni 17, 20 e 22 settembre, 5 e 6 ottobre 1999, per la concomitanza con lavori della Camera di appartenenza, affermare:

a) che il Giudice dell’udienza preliminare non aveva alcun obbligo di attivarsi per acquisire la prova dell’impedimento e che era a tal fine irrilevante la lettera di convocazione del capo del gruppo parlamentare;

b) che sussiste impedimento soltanto quando in Parlamento siano previste votazioni e sia provata l’effettiva presenza dell’imputato ai lavori parlamentari;

annulla l’ordinanza del Tribunale di Milano in data 5 giugno 2000 (prima sezione penale) e – nei limiti di cui in motivazione – le ordinanze del medesimo Tribunale nelle date del 1° ottobre 2001 (prima sezione penale), nonché del 14 luglio, del 9 ottobre 2000 e del 21 novembre 2001 (quarta sezione penale).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2005.

 

Annibale MARINI, Presidente

Franco BILE e Francesco AMIRANTE, Redattori

 

Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2005.


 

Sentenza 22 ottobre-24 ottobre 2007, n. 349

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Franco                          BILE                                  Presidente

- Giovanni Maria             FLICK                                 Giudice

- Francesco                     AMIRANTE                            "

- Ugo                              DE SIERVO                            "

- Paolo                            MADDALENA                        "

- Alfio                            FINOCCHIARO                      "

- Alfonso                        QUARANTA                           "

- Franco                          GALLO                                   "

- Luigi                            MAZZELLA                            "

- Gaetano                        SILVESTRI                             "

- Sabino                          CASSESE                                "

- Maria Rita                    SAULLE                                 "

- Giuseppe                      TESAURO                               "

 Paolo Maria             NAPOLITANO                        "

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanza del 20 maggio 2006 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Comune di Avellino ed altri ed E. P. in proprio e n. q. di procuratore di G. P. e di D. P. ed altri e con ordinanza del 29 giugno 2006 dalla Corte d’appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra A. G. ed altre e il Comune di Leonforte ed altro, iscritte ai nn. 401 e 557 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2006.

 

Visti gli atti di costituzione di G. C. n. q. di erede di E. P. e di G. P. ed altri n. q. di eredi di D. P., di A. G. ed altre, fuori termine, nonché gli atti di intervento di A. C. fu G. s.r.l., della Consulta per la giustizia europea dei diritti dell’uomo CO.G.E.D.U. e del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2007 e nella camera di consiglio del 4 luglio 2007 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

 

uditi gli avvocati Maurizio de Stefano e Anton Giulio Lana per la Consulta per la giustizia europea dei diritti dell’uomo CO.G.E.D.U., Antonio Barra per G. C. n. q. di erede di E. P. e per G. P. ed altri n. q. di eredi di D. P. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – La Corte di cassazione e la Corte d’appello di Palermo, con ordinanze del 20 maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della CEDU ed all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo), questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

 

2. – La Corte di cassazione premette che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune di Avellino e dell’Istituto autonomo case popolari (IACP) della  stessa città, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati realizzati alloggi popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento dell’indennità per l’occupazione temporanea degli stessi immobili.

 

La stessa Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo il ricorso proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la pronuncia d’appello, ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha introdotto un criterio riduttivo per il computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.

 

Riassunto il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato l’indennità in base alla disposizione censurata; la pronuncia è stata impugnata dalle parti private, che, tra l’altro, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale del citato art. 5-bis, comma 7-bis.

 

2.1. – La rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che inducono ad escludere l’abrogazione della norma denunciata ad opera dell’art. 111 Cost. – come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) – ovvero dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sintetizza le pronunce di questa Corte che hanno già scrutinato la norma censurata, in riferimento agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost.

 

L’ordinanza esamina, quindi, l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine all’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo, evolutosi nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di proprietà. In particolare, ricorda che la previsione di un’indennità equitable è stata limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere illecito dell’occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della quantificazione dell’indennità, sicché, qualora non sia possibile la restituzione in natura del bene, all’espropriato è dovuta una somma corrispondente al valore venale.

 

Secondo il rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze, puntualmente indicate, ha ritenuto che l’occupazione acquisitiva si pone in contrasto con le citate norme convenzionali, tra l’altro, nella parte in cui non garantisce il diritto degli espropriati al risarcimento del danno in misura corrispondente al valore venale del bene, affermando analogo criterio di computo per il calcolo dell’indennità nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta indennità può non essere commisurata al «valore pieno ed intero dei beni» nei soli casi di espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica utilità e, tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti con misure di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare cambiamenti del sistema costituzionale.

 

In seguito, la medesima Corte, con le sentenze indicate nell’ordinanza di rimessione, ha applicato questi princípi anche in riferimento al criterio stabilito dal censurato art. 5-bis e, ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una complessa manovra finanziaria, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento commisurato alla differenza tra l’indennità percepita ed il valore venale del bene, reputando che l’espropriato, a causa del tempo trascorso, aveva visto leso il proprio affidamento ad un indennizzo calcolato in base a quest’ultimo parametro. In virtù delle sentenze di questa Corte n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983, il criterio di liquidazione per l’espropriazione delle aree edificabili avrebbe infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»); quindi, l’applicabilità del sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il diritto della persona al rispetto dei propri beni, anche perché la disciplina fiscale incide ulteriormente sulla somma concretamente percepita.

 

Pertanto, secondo la Corte di Strasburgo, l’espropriazione indiretta o occupazione acquisitiva – riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità») e dalla giurisprudenza italiane – sarebbe incompatibile con l’art. l del Protocollo e la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla retroattività della disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso.

 

In definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto con l’art. 1 del Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore pari al valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone l’applicabilità del criterio ai giudizi in corso, in violazione dell’art. 6 della CEDU; in quarto luogo, poiché viola il principio di legalità ed il diritto ad un processo equo, dato che la disposizione ha inciso sull’esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la parte aveva legittimamente fatto affidamento all’atto dell’instaurazione della lite.

 

2.2. – Secondo la rimettente, benché la disposizione censurata si ponga in contrasto con le citate norme convenzionali, come interpretate dalla Corte europea, non sarebbe tuttavia ammissibile la sua “non applicazione”, mentre la Corte di cassazione talora ha affermato che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme alla CEDU ed all’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, talaltra ha attenuato l’efficacia vincolante delle sentenze della Corte europea.

 

A suo avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del giudice comune di “non applicare” la norma interna, in quanto sussistente soltanto nel caso di contrasto con norme comunitarie e fondato sull’art. 11 Cost. Il paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht neppure permetterebbe di ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con la conseguenza che l’interpretazione della Convenzione non spetta alla Corte di giustizia delle Comunità europee, dichiaratasi incompetente a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità delle norme di diritto interno ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l’osservanza (nel contesto comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando «tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (sentenza 29 maggio 1997, causa C-299/1995).

 

Peraltro, la teoria dei “controlimiti” potrebbe far ipotizzare un contrasto tra la regola che commisura l’indennità di espropriazione al valore venale del bene ed il principio costituzionale in virtù del quale il diritto di proprietà sarebbe recessivo rispetto all’interesse primario dell’utilità sociale. In ogni caso, siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione ai sensi dell’art. 10 Cost., sia in quanto tale norma costituzionale non concerne il diritto pattizio, sia in quanto essa neppure esprime un valore generalmente riconosciuto dagli Stati e, comunque, in quanto il giudice nazionale, se pure potesse direttamente recepire l’interpretazione della Corte europea, non avrebbe il potere di stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista dalla norma denunciata.

 

In conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna con le norme convenzionali non può essere evitato attraverso un’interpretazione secundum constitutionem della prima e, d’altro canto, il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti e ad affermare la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte interna.

 

2.3. – L’ordinanza di rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non irragionevole la retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del 1999), non ha scrutinato tale norma in riferimento all’art. 111 Cost.

 

Ad avviso del giudice a quo, il contenuto precettivo del parametro costituzionale evocato non sarebbe stato compiutamente approfondito e, sebbene l’intento del legislatore, di costituzionalizzare la disposizione convenzionale, sia stato accantonato nel corso dei lavori preparatori, ciò non esclude che la giurisprudenza della Corte europea possa contribuire alla sua corretta interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata ancora chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l’art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parità delle parti davanti al giudice vieta al legislatore di intervenire nella risoluzione di una singola causa, o di una determinata categoria di controversie. Le fattispecie decise dal giudice europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio principale, nella quale i proprietari, espropriati nell’anno 1985 in forza della occupazione acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere l’indennizzo di natura risarcitoria loro spettante in virtù dei principi enunciati dalla Corte regolatrice – fondati sull’art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e sull’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri delle indennità di esproprio) – corrispondente al valore venale dei beni; il giudice di merito aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel corso del giudizio innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma impugnata che ha diversamente commisurato l’indennizzo, disponendo l’applicabilità del nuovo criterio ai giudizi in corso non definiti con sentenza passata in giudicato, con il risultato di ridurre, a giudizio iniziato, l’indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello in vista del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio.

 

2.4. – Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel testo novellato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, mira ad eliminare una lacuna del nostro ordinamento, determinata dal contenuto dell’art. 10 Cost., stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale.

 

La disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU ed 1 del Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e, conseguentemente, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.

 

3. – La Corte d’appello di Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di rinvio avente ad oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da alcuni privati, i quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro proprietà ha costituito oggetto di un procedimento di espropriazione per la costruzione di alloggi di edilizia popolare ed è stato irreversibilmente trasformato, in difetto della adozione di regolare provvedimento di espropriazione; gli enti pubblici si sono costituiti nel giudizio contestando la fondatezza della domanda e chiedendo che siano applicate le norme recate dal d.P.R. n. 327 del 2001; è stata inoltre accertata l’irreversibile trasformazione del fondo.

 

Secondo il giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio comporta che il decreto di espropriazione dell’immobile, in quanto adottato dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, è illegittimo e deve essere disapplicato. La fattispecie oggetto del giudizio va qualificata come occupazione acquisitiva, poiché la trasformazione del bene è stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, quindi, alla data di scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, il bene è stato acquistato dagli enti pubblici, a titolo originario, e gli attori sono titolari del diritto ad ottenere il risarcimento del danno. Nella specie sarebbe applicabile il citato art. 5-bis, comma 7-bis, mentre, ad avviso del rimettente, alla data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti private, in virtù dei princípi enunciati dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di quanto previsto dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno pari al valore venale del fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato.

 

La Corte d’appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in riferimento agli stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella relativa ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate.

 

4. – Nel giudizio promosso dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato che, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

 

Secondo la difesa erariale, l’ordinanza di rimessione richiede di accertare: a) se, nel caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza della Corte europea, prevalga la seconda; b) se l’eventuale prevalenza della giurisprudenza di detta Corte concerna anche le norme costituzionali.

 

A suo avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in via interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme convenzionali; l’art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta Corte concerne tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un potere creativo di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema della Convenzione di Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), «che vuole testuale ed oggettiva l’interpretazione di qualunque trattato».

 

Pertanto, se la Corte europea non ha titolo per dubitare della legittimità, nel diritto nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di calcolo dell’indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione conforme agli artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l’art. 111 Cost., contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non concerne la disciplina sostanziale e, comunque, l’art. 6 della CEDU non stabilisce il divieto di retroattività della legge in materia diversa da quella penale.

 

Secondo la difesa erariale, l’art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» che, come chiarisce l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da «accordi di reciproca limitazione della sovranità di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali» e «nulla di tutto ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo a proposito delle leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le quali opera, tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale». Analogamente, l’art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte EDU, che l’indennizzo per l’espropriazione debba coincidere con il valore venale del bene.

 

Infine, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta anche perchè il valore venale del bene è dato dall’utilizzabilità dell’area per edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione del terreno al lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo l’interveniente, l’esperienza insegna «che su un terreno di X mq l’area edificabile al netto degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e per l’assetto del territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è irragionevole che la legge disponga in detti casi una drastica riduzione del valore per metro quadro.

 

4.1. – Nel giudizio di costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione, anche sulla scorta di argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte nell’ordinanza di rimessione.

 

Dopo avere esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del principio secondo il quale il diritto non può porsi in contrasto con il senso comune del giusto, le parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche l’art. 3 della legge n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonché alcune sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto di quanti hanno subito un’occupazione acquisitiva di conservare la proprietà del bene e di ottenere un risarcimento pari al valore venale del bene, si porrebbero in contrasto con l’art. 1 del Protocollo.

 

La retroattività della norma denunciata è censurata anche attraverso richiami alla Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati Uniti d’America e ad un ampio excursus storico, svolti per evidenziare il contrasto di detta norma con l’art. 1 del Protocollo, violato altresì dal riconoscimento dell’istituto dell’accessione invertita e dalla legittimazione di un’attività illecita quale fonte di acquisto del diritto di proprietà da parte della pubblica amministrazione.

 

Pertanto, secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto illecito come fonte di estinzione del diritto di proprietà del privato, violerebbe l’art. 10, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, secondo comma, del Protocollo, nonché l’art. 53 Cost..

 

Infine, la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 10, primo comma, e con l’art. 111, secondo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6, n. 1, della legge n. 848 del 1955, fermo restando l’obbligo di risarcire il danno conseguente dalla violazione del termine di durata ragionevole del processo (art. 2 della  legge 24 marzo 2001, n. 89).

 

4.2. – Nel giudizio è intervenuta una società a r.l., chiedendo l’accoglimento della questione e deducendo di essere titolare di un interesse che ne legittimerebbe l’intervento, in quanto parte di un altro processo avente anch’esso ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, sospeso sino all’esito del presente giudizio.

 

4.3. – Infine, ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.), in persona del legale rappresentante, la quale, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, espone che non è parte del processo principale «e non sarebbe direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto», poiché non ha alcun interesse particolare che possa riguardare l’espropriazione per pubblica utilità. Tuttavia, la legittimazione all’intervento si fonderebbe sulla circostanza che l’esito del giudizio inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e sul suo interesse ad una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU rango costituzionale.

 

5. – Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, svolgendo, nell’atto di intervento e nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute nell’atto di intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di cassazione e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.

 

5.1. – Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo si sono altresì costituite, con atto depositato fuori termine, le parti private del processo principale.

 

Considerato in diritto

 

1. – Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Palermo investono l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato».

 

Secondo le ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all’art. 1 del Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato.

 

Inoltre, detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.

 

2. – I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza.

 

3. – Preliminarmente, deve essere ribadita l’inammissibilità degli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.) e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della quale è stata data lettura in udienza, allegata alla presente sentenza.

 

Inoltre, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione delle parti del giudizio pendente dinanzi alla Corte d’appello di Palermo, poiché avvenuta oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato secondo quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte, sentenza n. 190 del 2006).

 

4. – Le due ordinanze di rimessione hanno motivato non implausibilmente in ordine alle ragioni dell’applicabilità, in entrambi i giudizi, della norma censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla circostanza che gli stessi hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione acquisitiva, disciplinata appunto da detta norma.

 

Inoltre, in virtù di un principio che va confermato, la questione di legittimità costituzionale può avere ad oggetto anche l’interpretazione risultante dal «principio di diritto» enunciato dalla Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel giudizio di impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in quanto il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di censurare la norma dalla quale detto principio è stato tratto (sentenze n. 78 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993; ordinanza n. 501 del 2000)

 

Le questioni sono, quindi, ammissibili.

 

5. – Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, dato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere prese in considerazione le censure svolte dalle parti del giudizio principale, con riferimento a parametri costituzionali ed a profili non evocati dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006).

 

6. – La questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è fondata.

 

6.1. – In considerazione del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e delle argomentazioni svolte in entrambe le ordinanze di rimessione, il preliminare profilo da affrontare è quello delle conseguenze del prospettato contrasto della norma interna con «i vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali» e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle evocate disposizioni della CEDU e del Protocollo addizionale.

 

In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell’interpretare le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali – per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost. – ha costantemente affermato che l’art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e l’art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate.

 

L’art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l’altro, che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984).

 

Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell’ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell’orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l’esclusione delle norme meramente convenzionali dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994).

 

L’inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui interessa, del parametro dell’art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i precedenti di questa Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125 del 1977, n. 120 del 1967).

 

In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l’art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un’attribuzione di competenza limitata all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità.

 

Né la rilevanza del parametro dell’art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario.

 

E’ vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei princìpi generali di cui essa garantisce l’osservanza. E’ anche vero che tale giurisprudenza è stata recepita nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del 2006). In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992.

 

In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente nel caso di specie.

 

In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento l’Unione europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato dell’appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell’Unione al Consiglio d’Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato.

 

Altrettanto inesatto è sostenere che la incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla generale “comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme, ed in particolare all’art. 1 del Protocollo addizionale, l’effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un contrasto “strutturale” tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze.

 

6.1.1. – Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell’atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d’altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990), sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del 1999, n. 120 del 1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema […] del rango» delle disposizioni convenzionali (sentenza n. 123 del 1970). In altri casi, detta questione non è stata espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita dall’ordinamento internazionale (sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002 e n. 376 del 2000). E’ stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza n. 1 del 1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998). Così il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dall’art. 2 della Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 98 del 1965).

 

In linea generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel fare riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di un’interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell’esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998), nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti […] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del 2004).

 

È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza n. 10 del 1993).

 

6.1.2. – Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare.

 

La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell’uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l’attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 – Misure per l’esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo).

 

6.2. – E’ dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

 

Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma da parte dell’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l’espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla “non applicazione” utilizzabile per il diritto comunitario.

 

Non v’è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato.

 

Ciò non significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione.

 

Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione.

 

In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali, peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell’una e dell’altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest’ultima, così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.

 

Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l’interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa.

 

7. – Premessa la lettura sistematica dell’art. 117, primo comma, Cost., invocato dai rimettenti, è opportuna una ricognizione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, oggetto della norma denunciata.

 

In origine (legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»), fu prevista l’occupazione temporanea (artt. 64 e 70), senza alcun trasferimento di proprietà; e l’occupazione d’urgenza (artt. 71 e 73), inizialmente collegata ai casi contingenti di calamità naturali, fu poi generalizzata ai casi di occupazione per l’espletamento di lavori dichiarati urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella prassi, tuttavia, l’istituto dell’occupazione d’urgenza è divenuto un passaggio normale della procedura espropriativa, fino al punto che sovente l’opera pubblica era realizzata sul fondo occupato in via di urgenza, sulla base di una previa dichiarazione di pubblica utilità, senza che poi seguisse alcun valido provvedimento espropriativo.

 

A tali casi si riferisce l’istituto, di origine giurisprudenziale, della c.d. «accessione invertita» o «occupazione appropriativa», consacrato dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983, più volte confermata negli anni successivi. Le sezioni unite, in particolare, sulla premessa della illegittimità dell’occupazione al di fuori di un compiuto procedimento espropriativo, della realizzazione di un’opera di interesse pubblico e della impossibilità di far coesistere una proprietà del bene realizzato con una diversa proprietà del fondo, affermarono l’acquisto a titolo originario da parte della pubblica amministrazione a seguito e per effetto della trasformazione irreversibile del bene. A tale conclusione, il giudice di legittimità pervenne utilizzando quell’esigenza di bilanciamento di interessi che pure è presente nella disciplina dell’accessione (art. 934 e seguenti del codice civile) e che nell’ipotesi di specie faceva ritenere prevalenti le ragioni dell’amministrazione in quanto a soddisfazione di interessi pubblici. La ricaduta di tale pronuncia in termini patrimoniali, peraltro, è stata il diritto del proprietario non all’indennità di espropriazione, ma al risarcimento del danno da illecito, equivalente almeno al valore reale del bene, con prescrizione quinquennale dal momento della trasformazione irreversibile del bene.

 

L’orientamento successivo della Cassazione, pur con qualche oscillazione di minor rilievo (ad esempio sul termine di prescrizione), sostanzialmente ha confermato i punti principali della sentenza del 1983: trasferimento in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del bene e risarcimento del danno corrispondente al suo valore di mercato. La logica di tale orientamento era focalizzata soprattutto sull’aspetto civilistico, relativo al mutamento di titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni giuridiche, mentre rimaneva pacifico il principio della responsabilità aquiliana e per ciò stesso la negazione di un’alternativa al ristoro del danno, corrispondente al valore reale del bene e con le somme accessorie di rito.

 

7.1 – Negli anni successivi, il legislatore ordinario non sempre ha mantenuto ferma la sopra precisata ricaduta patrimoniale dell’occupazione acquisitiva. E sono al riguardo da ricordare, ai fini che qui interessano, gli interventi di questa Corte.

 

Inizialmente, la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all’art. 3, aveva dato espressa base normativa all’istituto giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche; e confermato il principio del risarcimento integrale del danno subito dal titolare del bene, limitandosi a disciplinare l’ipotesi che il provvedimento espropriativo fosse dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato. Investita della questione di legittimità costituzionale di tale norma in riferimento all’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte l’ha dichiarata infondata, osservando, significativamente, che con essa il legislatore, «in una completa ed adeguata valutazione degli interessi in gioco, non si è limitato a corrispondere “l’indennizzo”, ma ha previsto l’integrale risarcimento del danno subito», con la conseguenza che «al mancato adempimento della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse, si sostituisce la tutela risarcitoria (art. 2043 cod. civ.), integralmente garantita» (sentenza n. 384 del 1990; le argomentazioni sono state ribadite dall’ordinanza n. 542 del 1990). La Corte ha poi dichiarato illegittima la stessa normativa appena evocata, nella parte in cui non si estendeva anche all’ipotesi in cui mancasse del tutto un provvedimento espropriativo, confermando il principio del risarcimento integrale del danno (sentenza 486 del 1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come questa disciplina fosse appunto «coerente alla connotazione illecita della vicenda», produttiva del «diritto al risarcimento e non all’indennità».

 

Successivamente il legislatore, con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, art. 5-bis, ha stabilito la parificazione tra ristoro del danno per occupazione acquisitiva ed indennizzo espropriativo. Questa Corte, con la sentenza n. 369 del 1996, ha censurato tale parificazione in riferimento all’art. 3 Cost., sottolineando che, «mentre la misura dell’indennizzo – obbligazione ex lege per atto legittimo – costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell’opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento – obbligazione ex delicto – deve realizzare il diverso equilibrio tra l’interesse pubblico al mantenimento dell’opera già realizzata e la reazione dell’ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato». Dunque, ha rimarcato la pronuncia, «sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione), poiché nella occupazione appropriativa l’interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell’indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo. Con le ulteriori negative incidenze, ben poste in luce dalle varie autorità rimettenti, che un tale “privilegio” a favore dell’amministrazione pubblica può comportare, anche sul piano del buon andamento e legalità dell’attività amministrativa e sul principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato». Infine, secondo detta pronuncia, la «perdita di garanzia che al diritto di proprietà deriva da una così affievolita risposta dell’ordinamento all’atto illecito compiuto in sua violazione», vulnerava anche l’art. 42, secondo comma, della Costituzione.

 

Il principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte è, pertanto, che l’accessione invertita «realizza un modo di acquisto della proprietà […] giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione dell’opera in tesi pubblica) e l’interesse privato (relativo alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui correttezza “costituzionale” è ulteriormente» confortata «dal suo porsi come concreta manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della proprietà» (sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384 del 1990). E, tuttavia, essendo l’interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comportava la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore venale del bene, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione.

 

Successivamente, l’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 ha introdotto nell’art. 5-bis del decreto-legge  n. 333 del 1992, il comma 7-bis, secondo cui  in caso di occupazione illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1» (quella, cioè, prevista per l’espropriazione dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40 per cento), con esclusione di tale riduzione e con la precisazione che «in tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento».

 

Il profilo della misura della liquidazione del danno, con specifico riferimento alla norma appena ricordata, è stato esaminato dalla sentenza n. 148 del 1999, che va valutata al giusto. Essa ha dichiarato l’infondatezza delle censure riferite – per quanto qui interessa – agli artt. 3 e 42 Cost., essenzialmente in considerazione della mancanza di copertura costituzionale della regola della integralità della riparazione del danno e della equivalenza della medesima al pregiudizio cagionato, della «eccezionalità del caso», giustificata «soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunziata», nonché della esigenza di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica.

 

La legittimità rispetto all’art. 42 Cost. di un ristoro inferiore (e di molto) al valore reale del bene, in definitiva, è stata ancorata dalla pronuncia del 1999 anzitutto in riferimento ad un parametro diverso da quello evocato in questa sede. Inoltre, a tale conclusione questa Corte è pervenuta essenzialmente in considerazione della temporaneità della disciplina, nonché di esigenze congiunturali di carattere finanziario. E ancora sulla temporaneità pone l’accento la sentenza n. 24 del 2000.

 

8. – Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si colloca la normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con la quale si prospetta, per la prima volta, che la norma denunciata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con le norme internazionali convenzionali e, anzitutto, con l’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

Al riguardo, occorre premettere che entrambe le ordinanze di rimessione non sollevano il problema della compatibilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale. Pertanto, oggetto del thema decidendum posto dalla questione di costituzionalità è solo il profilo della compatibilità di tale ricaduta patrimoniale disciplinata dalla norma censurata con la disposizione convenzionale, ciò che impone di fare riferimento alle conferenti sentenze del giudice europeo di Strasburgo.

 

L’art. 1 del Protocollo addizionale stabilisce: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».

 

La Corte europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze, puntualmente e diffusamente richiamate nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, dando vita ad un orientamento ormai consolidato, confermato dalla Grande Chambre della Corte (per tutte, Grande Chambre, sentenza 29 marzo 2006, Scordino, dove anche una completa ricostruzione dell’indirizzo confermato dalla pronuncia), formatosi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennità di espropriazione stabilita dal citato art. 5-bis (per più ampi svolgimenti v. sentenza n. 348 in pari data).

 

In sintesi, relativamente alla misura dell’indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea è ormai costante l’affermazione secondo la quale, in virtù della norma convenzionale, «una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto dei beni deve trovare il “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo». Pertanto, detta norma non garantisce in tutti i casi il diritto dell’espropriato al risarcimento integrale, in quanto «obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti dalle misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale effettivo». Per converso, proprio in riferimento alla disciplina stabilita dal richiamato art. 5-bis della legge qui in discussione, la Corte europea ha affermato che, quando si tratta di «esproprio isolato che non si situa in un contesto di riforma economica, sociale o politica e non è legato ad alcun altra circostanza particolare», non sussiste «alcun obiettivo legittimo di “pubblica utilità” che possa giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale», osservando altresì che, al fine di escludere la violazione della norma convenzionale, occorre dunque «sopprimere qualsiasi ostacolo per l’ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza 29 marzo 2006, Scordino).

 

La Corte europea, inoltre, nel considerare specificamente la disciplina dell’occupazione acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che l’ingerenza dello Stato nel caso di espropriazione deve sempre avvenire rispettando il «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, punto 69). Inoltre, con riferimento allo specifico profilo della congruità della disciplina qui censurata, la Corte europea ha ritenuto che la liquidazione del danno per l’occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale (tra le molte, I Sezione, sentenza 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV sezione, sentenza 17 maggio 2005, Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e ciò dopo aver da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani).

 

Il bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri costituzionali deve essere ora operato, pertanto, tenendo conto della sopra indicata rilevanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, e cioè della regola stabilita dal citato art. 1 del Protocollo addizionale, così come attualmente interpretato dalla Corte europea. E sul punto va ancora sottolineato che, diversamente da quanto è accaduto per altre disposizioni della CEDU o dei Protocolli (ad esempio, in occasione della ratifica del Protocollo n. 4), non vi è stata alcuna riserva o denuncia da parte dell’Italia relativamente alla disposizione in questione e alla competenza della Corte di Strasburgo.

 

In definitiva, essendosi consolidata l’affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l’art. 1 del Protocollo addizionale, nell’interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione.

 

D’altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.

 

La temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma censurata, le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l’astratta ammissibilità di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione censurata realizzi un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è coerente con l’esigenza di garantire la legalità dell’azione amministrativa ed il principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito.

 

In conclusione, l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione.

 

9. – Restano assorbite le censure incentrate sugli ulteriori profili e parametri costituzionali invocati dai rimettenti.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,  dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

 

            Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.

 

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2007.

 

Allegato:

 

ordinanza letta all’udienza del 3 luglio 2007

 

 

ORDINANZA

 

Rilevato che nel presente giudizio di legittimità costituzionale sono intervenute la Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU), in persona del legale rappresentante, e la s.r.l. Cappelletto Andreina fu Giuseppe, in persona del legale rappresentante, che non sono parti del giudizio principale.

 

Considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) solo le parti del giudizio principale e che la deroga è consentita solo «a favore di soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio» (per tutte, ordinanza letta all’udienza del 6 giugno 2006, allegata alla sentenza n. 279 del 2006; ordinanza n. 251 del 2002);

 

che, pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente non deve derivare, come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge censurata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ordinanza letta all’udienza del 6 giugno 2006, allegata alla sentenza n. 279 del 2006; ordinanza letta all’udienza del 21 giugno 2005, allegata alla sentenza n. 345 del 2005);

 

che, nella specie, la CO.GE.DU., per sua stessa ammissione, non è «direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto», ma, in considerazione dello scopo statutario, intende ottenere che questa Corte «qualifichi in via generale ed astratta la categoria delle norme» della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, sicché non è titolare di un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla eventuale pronuncia di accoglimento di questa Corte;

 

che è altresì inammissibile l’intervento della s.r.l. Cappelletto Andreina fu Giuseppe, non rilevando, in contrario, che la stessa abbia in corso un giudizio nel quale debba farsi applicazione della norma censurata, in attesa della pronuncia di questa Corte, in quanto la contraria soluzione si risolverebbe nella sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale (tra le molte, sentenza n. 190 del 2006, ordinanza n. 179 del 2003).

 

Per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibili gli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.) e della Cappelletto Andreina fu Giuseppe s.r.l.

 

 

                                                                    F.to: Franco BILE, Presidente

 


Sentenza 7 ottobre-19 ottobre 2009, n. 262

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

- Francesco AMIRANTE

 

Giudici

- Ugo DE SIERVO

- Paolo MADDALENA

- Alfio FINOCCHIARO

- Alfonso QUARANTA

- Franco GALLO

- Luigi MAZZELLA

- Gaetano SILVESTRI

- Sabino CASSESE

- Maria Rita SAULLE

- Giuseppe TESAURO

- Paolo Maria NAPOLITANO

- Giuseppe FRIGO

- Alessandro CRISCUOLO

- Paolo GROSSI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi dal Tribunale di Milano con ordinanze del 26 settembre e del 4 ottobre 2008 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con ordinanza del 26 settembre 2008 rispettivamente iscritte al n. 397 e al n. 398 del registro ordinanze 2008, nonché al n. 9 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell'anno 2008 e n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2009.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di costituzione dell'onorevole Silvio Berlusconi, nonché del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura;

 

udito nell'udienza pubblica del 6 ottobre 2009 il Giudice relatore Franco Gallo;

 

uditi gli avvocati Alessandro Pace, per il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e un sostituto della stessa Procura, Niccolò Ghedini, Piero Longo e Gaetano Pecorella, per l'onorevole Silvio Berlusconi, e l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Con ordinanza del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008), pronunciata nel corso di un processo penale in cui è imputato, fra gli altri, l'on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 136 e 138 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dei commi 1 e 7 dell'art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).

 

1.1. – Il primo dei commi censurati prevede che: «Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione». Il successivo comma 7 prevede che: «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge». Gli altri commi dispongono che: a) «L'imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l'assunzione delle prove non rinviabili» (comma 3); c) si applicano le disposizioni dell'articolo 159 del codice penale e la sospensione, che opera per l'intera durata della carica o della funzione, non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura, né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e, quando la parte civile trasferisce l'azione in sede civile, «i termini per comparire, di cui all'articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l'ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all'azione trasferita» (comma 6).

Osserva innanzitutto il rimettente che le questioni sono rilevanti perché le disposizioni censurate, imponendo la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, trovano applicazione nel giudizio a quo.

 

1.1.1. – In punto di non manifesta infondatezza della questione sollevata in riferimento all'art. 138 Cost., il giudice a quo rileva che dette disposizioni trovano un precedente nell'art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004. Secondo quanto osservato dal rimettente, la Corte, in tale pronuncia, ha affermato che il legislatore può prevedere ipotesi di sospensione del processo penale «finalizzate anche alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali» e che la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche mira a proteggere l'apprezzabile interesse, eterogeneo rispetto al processo, al sereno svolgimento della rilevante funzione da esse svolta; interesse che può essere protetto «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto».

Da tale pronuncia della Corte emerge – sempre ad avviso del giudice a quo – «che disposizioni normative riguardanti le prerogative, l'attività e quant'altro di organi costituzionali richiedono il procedimento di revisione costituzionale. E ciò in quanto la circostanza che l'attività di detti organi sia disciplinata tramite la previsione di un'ipotesi di sospensione del processo penale, non esclude che in realtà essa riguardi non già il regolare funzionamento del processo, bensí le prerogative di organi costituzionali e comunque materie già riservate dal legislatore costituente alla Costituzione». A tale conclusione il rimettente giunge sul rilievo che le disposizioni denunciate incidono su «plurimi ulteriori interessi di rango costituzionale quali la ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e l'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.), comunque vulnerata seppur non integralmente compromessa, per cui il loro bilanciamento deve necessariamente avvenire con norma costituzionale».

Il giudice a quo sottolinea che già dai lavori dell'Assemblea costituente si desume che la non perseguibilità per reati extrafunzionali nei confronti del Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere prevista con legge costituzionale. Osserva, altresí, che il fatto che, nella specie, si trattasse «di limitazione dell'azione penale piú pregnante di quell'attuale non rileva sulla necessità di disciplinare la materia mediante norma costituzionale»; e ciò in quanto «non può essere messo in dubbio che si tratta in ogni caso di materia riservata, ex art. 138 Cost., al legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale».

A tale conclusione non osta – ad avviso del rimettente – la sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 1983, relativa alla previsione con legge ordinaria dell'insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura, perché in essa la Corte afferma che «certo rimane il fatto che la scriminante in esame non è stata configurata dalla Carta costituzionale, bensí da una legge ordinaria ed appena nel gennaio 1981, a molti anni dall'entrata in funzione del Consiglio Superiore della magistratura». Secondo lo stesso rimettente, «la Corte, cosí dicendo, mostra di ritenere normalmente necessaria una legge costituzionale laddove si intervenga su organi costituzionali, tanto è vero che nel superare la questione non afferma affatto il principio della sufficienza della legge ordinaria in similari situazioni, ma perviene alla conclusione di legittimità costituzionale sulla base di un complesso ragionamento che in sostanza giustifica il ricorso alla legge ordinaria con la ritardata sistemazione e collocazione della disciplina del C.S.M.». Solo per completezza – prosegue il giudice a quo – «va evidenziato che, nella specie, si era comunque in presenza di una scriminante che ricalca cause di giustificazione generalissime quali l'esercizio di un diritto e/o l'adempimento di un dovere, per cui, di fatto, non veniva ad essere disciplinato l'àmbito delle prerogative di un organo costituzionale».

La necessità di una legge costituzionale per disciplinare la materia oggetto delle norme denunciate non è messa in dubbio – sempre ad avviso del rimettente – neanche dalla considerazione che la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 24 del 2004, non ha rilevato il contrasto della legge n. 140 del 2003 con l'art. 138 Cost. e che, cosí facendo, «la Corte avrebbe implicitamente rigettato tale profilo, in quanto, siccome pregiudiziale rispetto ad ogni altra questione, avrebbe dovuto necessariamente dichiararlo, ove lo avesse ritenuto». Il giudice a quo osserva, sul punto, che tale considerazione si fonda sul presupposto dell'esistenza di una pregiudizialità tecnico-giuridica tra la questione sollevata in riferimento all'art. 138 Cost. e quelle sollevate in base ad altri parametri e contesta la fondatezza di detto presupposto, rilevando che una tale pregiudizialità non è deducibile «dalla complessiva motivazione della sentenza, in quanto la Corte, nell'accogliere la questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dichiara espressamente “assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale”, lasciando cosí intendere che, in via gradata, sarebbero state prospettabili altre questioni».

Né a diverse conclusioni – secondo il rimettente – possono condurre le note del Presidente della Repubblica del 2 e del 23 luglio 2008, perché le prerogative che si ritengono attribuite al Capo dello Stato in sede di autorizzazione alla presentazione alle Camere di un disegno di legge e in sede di promulgazione comportano solo un primo esame della legittimità costituzionale, e cioè un controllo meno approfondito di quello demandato al giudice ordinario prima ed alla Corte costituzionale poi.

 

1.1.2. – Quanto alle questioni proposte in riferimento agli artt. 3 e 136 Cost., il Tribunalesostiene che le norme denunciate violano sia il giudicato costituzionale sia il principio di uguaglianza, perché, «avendo riproposto la medesima disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità costituzionale, già ritenuta dalla Corte sotto il profilo della violazione dell'art. 3 Cost.». Per il rimettente, infatti, esse accomunano «in una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» ed inoltre distinguono irragionevolmente,e «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti [...] rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Non sarebbe sufficiente ad evitare le prospettate illegittimità costituzionali il fatto che le disposizioni censurate, diversamente dall'art. 1 della legge n. 140 del 2003, non includono il Presidente della Corte costituzionale tra le alte cariche per le quali opera la sospensione dei processi. Infatti, tale differenza di disciplina – prosegue il rimettente − non è idonea ad impedire la violazione dell'art. 136 Cost., cosí come interpretato dalla Corte costituzionale «con la sentenza n. 922/1988».

 

1.2. – Si è costituito in giudizio il suddetto imputato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate non rilevanti e, comunque, manifestamente infondate.

 

1.2.1. – La difesa dell'imputato deduce, quanto alla questione proposta in riferimento all'art. 138 Cost., che: a) contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, avente ad oggetto l'art. 1 della legge n. 140 del 2003, non afferma né che la sospensione del processo penale sia una «prerogativa di organi costituzionali» né che tale sospensione richieda il procedimento di revisione costituzionale di cui all'art. 138 Cost.; b) nella stessa sentenza si rileva, anzi, che il legislatore può legittimamente prevedere ipotesi di sospensione del processo penale per esigenze extraprocessuali – ad esempio, come nella specie, per soddisfare l'apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato , dovendosi intendere per “legislatore” quello ordinario e non quello costituzionale; c) la sentenza accoglie la questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dichiarando espressamente assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale; d) l'assorbimento dichiarato dalla Corte ha ad oggetto i soli profili di merito e non anche il profilo relativo alla mancata approvazione della legge con il procedimento di revisione costituzionale, perché tale ultimo profilo, avendo carattere formale e non sostanziale, è logicamente antecedente rispetto all'accoglimento della questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. e, pertanto, non può essere assorbito; e) la sentenza ha, in conclusione, implicitamente ritenuto non fondata ogni questione proposta in riferimento all'art. 138 Cost.; f) non osta a tale conclusione il richiamo fatto dalla sentenza alla necessità che l'apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello Statovada tutelato «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale», perché tali princípi sono, secondo la stessa sentenza, quelli di cui agli artt. 3 e 24 Cost. e non quello di cui all'art. 138 Cost.; g) sulla scorta della pronuncia della Corte, il giudice a quo avrebbe dovuto evidenziare le peculiarità della nuova disciplina censurata rispetto a quella dichiarata incostituzionale dalla Corte, specificando sotto quale profilo la prima, a differenza della seconda, violi l'art. 138 Cost.

 

1.2.2. – Quanto alle finalità della normativa censurata, la difesa dell'imputato deduce che: a) esse sono dirette non tanto a garantire il sereno svolgimento delle funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato, quanto a tutelare il diritto di difesa dell'imputato nel processo, che presuppone la possibilità di essere presente alle udienze e di avere il tempo necessario per predisporre la propria difesa; b) la prevalenza dell'esigenza della tutela del diritto di difesa rispetto a quella del sereno svolgimento della funzione si ricava dalla previsione della rinunciabilità della sospensione contenuta nel comma 2 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, perché se il legislatore avesse voluto creare «in primis […] una prerogativa istituzionale, avrebbe dovuto dotare la sospensione di un profilo di indisponibilità, sulla base del presupposto che l'interesse istituzionale trascende anche l'eventuale interesse dell'imputato a farsi giudicare subito»; c) «non osta a questa ricostruzione il fatto che la Corte Costituzionale abbia dichiarato costituzionalmente illegittima la legge n. 140/2003 anche perché prevedeva una sospensione dei processi penali automatica e non rinunciabile: questo dato depone nel senso che una disposizione legislativa che sospenda i processi per le alte cariche dello Stato, senza dar loro la possibilità di rinunciarvi, porrebbe nel nostro ordinamento seri problemi di costituzionalità, ma non può far diventare la disposizione della legge n. 124/2008 ciò che non è, ovvero una prerogativa connessa al fatto di rivestire una determinata funzione»; d) la ricostruzione della ratio delle norme censurate nel senso che esse sono finalizzate a tutelare il diritto di difesa della persona che ricopre la carica trova conferma nel comma 5 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008 – il quale prevede la non reiterabilità della sospensione – perché, «se una stessa persona rivestisse, durante una legislatura, la funzione di Presidente della Camera, con conseguente sospensione dei processi penali a suo carico, e nella legislatura successiva ricoprisse la funzione di Presidente del Senato, senza poter piú beneficiare della suddetta sospensione, si sarebbe costretti ad ammettere che per un'intera legislatura la Presidenza del Senato dovrebbe rimanere priva di una propria prerogativa istituzionale, la quale tornerebbe poi a rivivere una volta che venisse a ricoprire la funzione una persona che non avesse mai beneficiato della sospensione»; e) nella prospettiva della tutela del diritto di difesa, la durata di un mandato è il periodo di tempo che il legislatore ha ritenuto sufficiente per consentire alla persona che riveste la carica di organizzarsi per affrontare contemporaneamente gli impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale; f) la ratio dell'inciso «salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura», che fa eccezione alla non reiterabilità della sospensione, è bilanciare «l'esercizio del diritto di difesa, tutelato dall'art. 24 della Costituzione, con l'esercizio del munus publicum, tutelato dall'art. 51 della Costituzione»; g) «il meccanismo per cui una condizione soggettiva dell'imputato si traduce in una condizione di oggettiva difficoltà a che il processo si svolga regolarmente è […] tutt'altro che nuovo», perché vale anche «per la sospensione del processo per l'imputato incapace, prevista dall'art. 71 c.p.p.», che è un istituto diretto a tutelare «il fatto che la capacità dell'imputato di partecipare coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile»; h) ad analoga ratio è ispirato anche l'istituto del legittimo impedimento a comparire dell'imputato; i) non può essere condivisa l'affermazione del rimettente secondo cui «tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale», perché anche prima dell'entrata in vigore della legge n. 124 del 2008 il giudice di merito, davanti a un impegno istituzionale, riconosceva l'impossibilità per l'imputato di essere presente al processo nonostante la Costituzione non preveda che le alte cariche dello Stato hanno diritto al riconoscimento di questi legittimi impedimenti; l) con la sentenza n. 148 del 1983, la Corte ha ammesso che il legislatore possa disciplinare con legge ordinaria addirittura una vera e propria circostanza scriminante, quale l'insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura,con la conseguenza che anche una mera causa di sospensione, quale quella oggetto delle disposizioni censurate, può essere disciplinata con legge ordinaria; m) i commi denunciati operano un ragionevole bilanciamento tra l'obbligatorietà dell'azione penale e la ragionevole durata del processo, da un lato, e il diritto di difesa dell'imputato, dall'altro.

 

1.2.3. – Quanto, in particolare, alla questione sollevata dal giudice a quo in riferimento all'art. 136 Cost., la parte privata rileva che: a) contrariamente all'assunto del rimettente, la norma in esame non ha riproposto la medesima disciplina già dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 24 del 2004, «né ha perseguito e raggiunto, anche indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione», ma ha un contenuto del tutto differente, ad esempio laddove prevede la rinunciabilità della sospensione del processo; b) la nuova disciplina è diversa dalla vecchia anche sotto il profilo del trattamento della parte civile e della durata non indefinita della sospensione; c) i soggetti cui la sospensione si applica non coincidono con quelli indicati nella disciplina già dichiarata incostituzionale e la differenziazione del loro trattamento, «sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, rispetto agli altri componenti degli organi collegiali è giustificata dall'intero nuovo assetto normativo, comunque diverso da quello già oggetto di censura costituzionale», anche perché «la Costituzione stessa riconosce l'autonomo rilievo nelle funzioni dei due Presidenti delle Camere rispetto agli altri membri del Parlamento (artt. 62 comma 2, 86 commi 1 e 2, 88 comma 1 della Costituzione)» e perché «del pari il Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi del primo comma dell'art. 95 della Costituzione, svolge funzioni proprie del tutto peculiari rispetto agli altri membri del Governo».

 

1.3. – Si è costituito il pubblico ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura.

 

1.3.1. – Il pubblico ministero sostiene, in primo luogo, l'ammissibilità della sua costituzione, nonostante il contrario indirizzo interpretativo della Corte costituzionale, espresso con le sentenze n. 361 del 1998, n. 1 e n. 375 del 1996 e con l'ordinanza n. 327 del 1995. Secondo la sua ricostruzione, «gli argomenti contrari alla legittimazione del p.m. sono i seguenti: 1) la distinta menzione del “pubblico ministero” e delle “parti” nell'attuale disciplina della legge 11 marzo 1953, n. 87 (artt. 20, 23 e 25); 2) la menzione delle sole “parti” nella disciplina delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (artt. 3 e 17 [ora 16]); 3) la peculiarità della posizione ordinamentale e processuale del p.m. nonostante ad esso debba riconoscersi la qualità di parte nel processo a quo».

Quanto all'art. 20 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la difesa del pubblico ministero ritiene che esso, limitandosi a prevedere che per gli organi dello Stato (tra cui gli uffici del pubblico ministero) non è richiesta una difesa “professionale”, non riguardi né valga a modificare la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire in giudizio.

Parimenti non decisivi, contro la legittimazione del pubblico ministero a costituirsi nel giudizio di costituzionalità, sarebbero gli argomenti desumibili dagli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953.

Il quarto comma dell'art. 23 dispone che: «L'autorità giurisdizionale ordina che a cura della cancelleria l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne dia lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio». Dispone, a sua volta, il secondo comma dell'art. 25 che: «Entro venti giorni dall'avvenuta notificazione dell'ordinanza, ai sensi dell'art. 23, le parti possono esaminare gli atti depositati nella cancelleria e presentare le loro deduzioni». Secondo la difesa del pubblico ministero, il quarto comma dell'art. 23, da un lato,non esclude espressamente che l'ordinanza debba essere notificata al pubblico ministero che sia stato parte in giudizio e, dall'altro, ne impone la notifica al pubblico ministero, proprio perché questo è stato "parte"; e ciò a prescindere dal fatto che il suo intervento fosse o no obbligatorio. A ciò conseguirebbe che il pubblico ministero, sia che sia parte del giudizio principale, sia che debba obbligatoriamente intervenire in tale giudizio, può costituirsi nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale.

Quanto agli artt. 3 e 17 delle previgenti norme integrative (attuali artt. 3 e 16), il pubblico ministero rileva che essi si limitano a riferirsi alle “parti”, non facendo «altro che presupporre una nozione aliunde determinata». Essi, quindi, non ostano alle «conclusioni (favorevoli) raggiunte alla luce degli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953».

Quanto alla peculiarità della posizione ordinamentale e processuale del pubblico ministero, la difesa rileva che il fatto che tale organo giudiziario, «secondo la nota formula dell'art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, debba vegliare “alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti di stato, delle persone giuridiche e degli incapaci […]” è indiscutibile, ma costituisce un argomento estraneo al problema». Infatti, «un conto è l'imparzialità istituzionale del pubblico ministero, un conto la sua parzialità funzionale», avendo rilevanza nel processo costituzionale solo tale ultimo profilo, in considerazione del fatto che i princípi costituzionali di parità delle parti e del contraddittorio sono stati inequivocabilmente introdotti nell'ordinamento con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, entrata in vigore successivamente alle decisioni della Corte costituzionale che negano al pubblico ministero la legittimazione a costituirsi. Tali princípi – prosegue la difesa del pubblico ministero – esistevano nel nostro ordinamento già prima, «ma com'è noto, essi venivano desunti in giurisprudenza e in dottrina dall'art. 24 Cost. e quindi, come per tutti i diritti costituzionali previsti in Costituzione, di essi erano (e sono) titolari solo i soggetti privati, non i pubblici poteri. Conseguentemente sia il principio della parità delle armi che il principio del contraddittorio avevano una portata unidirezionale. Garantivano il cittadino, ma non la pubblica accusa nel processo penale e non la p.a. nel processo amministrativo». Ne deriverebbe che solo la nuova formulazione dell'art. 111 Cost. garantisce al pubblico ministero una piena qualità di parte, sotto il profilo della parità processuale e del contraddittorio, con la conseguenza che la Corte costituzionale potrebbe mutare il sopra citato orientamento giurisprudenziale, proprio alla luce del mutato quadro costituzionale.

A tali considerazioni si dovrebbe aggiungere che nei casi – come quello di specie – in cui proprio il pubblico ministero abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale di fronte al giudice a quo, sarebbe irragionevole escluderlo dalla partecipazione al giudizio costituzionale.

 

1.3.2. – Nel merito, il pubblico ministero chiede che siano accolte le questioni proposte dal rimettente.

 

1.4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, rilevando che: a) la questione sollevata in riferimento all'art. 136 Cost. è infondata, perché non si ha violazione del giudicato costituzionale qualora, come nel caso di specie, «il quadro normativo sopravvenuto, nel quale si inserisce la nuova disposizione, sia diverso da quello della legge precedente dichiarata costituzionalmente illegittima»; b) la questione proposta in riferimento all'art. 138 Cost. è «inammissibile e comunque infondata», per i motivi esposti nell'atto di intervento nel procedimento r.o. n. 398 del 2008.

 

1.5. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la parte privata ha chiesto che venga dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, fondando la sua richiesta essenzialmente su due assunti.

 

1.5.1. – Tale parte sostiene, in primo luogo, che il pubblico ministero non è assimilabile alle altre parti del giudizio a quo, rilevando che: a) l'art. 20, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 deve essere interpretato nel senso che esso contiene una previsione generale, volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa nel giudizio davanti alla Corte costituzionale; b) l'oggetto del giudizio costituzionale incidentale è la conformità alla Costituzione o ad una legge costituzionale di una norma avente forza di legge ed il contraddittorio in tale giudizio si articola in «correlazione […] con le posizioni soggettive che quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso possono venir coinvolte» (secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 163 del 2005); c) dalla correlazione del contraddittorio con le suddette “posizioni soggettive” deriva l'estraneità al giudizio del pubblico ministero, perché quest'ultimo – anche in base all'art. 73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – «non rappresenta mai, per definizione, una posizione soggettiva, intendendosi con questa espressione, un interesse che non sia quello […] della conformità alla legge»; d) «la difesa di una parte privata […] non può mai eccepire l'illegittimità costituzionale di una norma che sia di favore al proprio assistito, e ciò per due ordini di ragioni: in primis perché sarebbe carente di interesse (ma questo non rileverebbe perché non si tratta di una impugnazione), ma in secondo luogo perché risponderebbe del reato di patrocinio infedele ai sensi dell'art. 380 del codice penale, oltre che di grave illecito deontologico sanzionabile dal punto di vista disciplinare»; e) il pubblico ministero, per contro, ha natura di parte pubblica e ha «il diritto/dovere di eccepire l'incostituzionalità di una norma sia a favore sia contro ciascuna delle parti», anche nel processo civile; g) gli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953 – come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 1998 – distinguono espressamente le parti dal pubblico ministero, escludendo che quest'ultimo possa costituirsi nel giudizio costituzionale.

 

1.5.2. – La stessa difesa sostiene, in secondo luogo, che al giudizio costituzionale non si applica il principio di parità delle parti davanti al giudice sancito dall'art. 111 Cost., non essendo la Corte costituzionale un organo giurisdizionale, ed afferma, a sostegno di tale assunto, che, nel giudizio costituzionale: a) non trova applicazione il sesto comma dell'articolo 111 Cost., derivando l'obbligo di motivazione delle sentenze della Corte dall'articolo 18, commi secondo e terzo, della legge n. 87 del 1953; b) non trova applicazione neanche il secondo comma dello stesso art. 111, perché «il contraddittorio tra le parti avanti la Consulta è disciplinato, come noto, dalla legge 11 marzo 1953, n. 87 e dalle norme integrative per i giudizi avanti la Corte Costituzionale»; c) non si applica neppure il principio di terzietà e imparzialità del giudice sancito dallo stesso art. 111 Cost., «perché i giudici della Corte Costituzionale sono per natura (per ovvie ragioni concernenti la loro funzione) sempre terzi ed imparziali, tant'è che non possono astenersi né essere ricusati contrariamente a quanto è necessariamente previsto per i giudici di qualsivoglia “processo”».

 

1.6. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, il pubblico ministero del giudizio a quo insiste per l'accoglimento delle questioni proposte nell'ordinanza di rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di costituzione.

 

2. – Con ordinanza del 4 ottobre 2008 (r.o. n. 398 del 2008), nel corso di un processo penale in cui è imputato anche l'on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008.

 

2.1. – In punto di rilevanza, il rimettente premette che l'articolo censurato, imponendo la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, trova necessaria applicazione nel giudizio a quo.

Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo osserva che, con la sentenza n. 24 del 2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, la Corte costituzionale aveva affermato che: a) la natura e la funzione della norma consistevano «nel temporaneo arresto del normale svolgimento» del processo penale e miravano «alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali […] eterogenee rispetto a quelle proprie del processo»; b) il presupposto della sospensione era dato dalla «coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque piú alte cariche dello Stato»; c) il bene che la misura intendeva tutelare andava ravvisato «nell'assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche» e tale bene veniva definito, dapprima, come «interesse apprezzabile, che può essere tutelato in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale» e, poi, come espressione dei «fondamentali valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l'esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione»; d) proprio «considerando che l'interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire», il legislatore aveva voluto stabilire «una presunzione assoluta di legittimo impedimento».

Secondo quanto riferito dal rimettente, la Corte aveva, in detta sentenza, ravvisato l'incostituzionalità della norma nel fatto che la sospensione in esame, che di per sé «crea un regime differenziato riguardo all'esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale», fosse «generale, automatica e di durata non determinata»: generale, in quanto la sospensione concerneva «i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica»; automatica, in quanto la sospensione veniva disposta «in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza» di imputato e titolare di un'alta carica «si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l'imputazione ed in qualsiasi momento dell'iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti»; di durata non determinata, in quanto la sospensione, «predisposta com'è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall'imputato», subiva nella sua durata «gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati».

Sempre ad avviso del giudice a quo, nella menzionata sentenza n. 24 del 2004 la Corte aveva rilevato: a) la violazione del diritto di difesa previsto dall'art. 24 della Costituzione, in quanto all'imputato «è posta l'alternativa tra continuare a svolgere l'alto incarico sotto il peso di un'imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l'accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.)»; b) la violazione degli articoli 111 e 112 Cost., perché «all'effettività dell'esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo»; c) la violazione dell'art. 3 Cost., perché la norma, da un lato, accomunava in un'unica disciplina «cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» e, dall'altro, distingueva, «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti»; d) la violazione dell'art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che aveva esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell'immunità accordata nel secondo comma dell'art. 68 della Costituzione ai membri delle due Camere.

Il rimettente ritiene che il legislatore, nell'adottare la disciplina censurata – la quale prevede la sospensione dei processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri –, non abbia tenuto conto di quanto affermato nella citata sentenza n. 24 del 2004, anche perché ha sostanzialmente riprodotto le previsioni della legge n. 140 del 2003 in tema di sospensione del corso della prescrizione, ai sensi dell'art. 159 del codice penale, e di applicabilità della norma anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado.

 

2.1.1. – Sulla scorta di tali considerazioni, il Tribunale sostiene che l'articolo denunciato si pone in contrasto, in primo luogo, con l'art. 138 Cost., perché lo status «dei titolari delle piú alte istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo la loro responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio generale dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto dall'articolo 3 della Costituzione, principio fondante di uno Stato di diritto».

 

2.1.2. – In secondo luogo, il giudice a quo rileva la violazione dell'art. 3 Cost., perché le «guarentigie concesse a chi riveste cariche istituzionali risultano funzionali alla protezione delle funzioni apicali esercitate», con la conseguenza che la facoltà di rinunciare alla sospensione processuale riconosciuta al titolare dell'alta carica si pone in contrasto con la tutela del munus publicum, attribuendo una discrezionalità «meramente potestativa» al soggetto beneficiario, anziché prevedere quei filtri aventi caratteri di terzietà e quelle valutazioni della peculiarità dei casi concreti che soli, secondo la sentenza n. 24 del 2004, potrebbero costituire adeguato rimedio rispetto tanto all'automatismo generalizzato già stigmatizzato dalla Corte quanto «al vulnus al diritto di azione». Lo stesso parametro costituzionale sarebbe, altresí, violato, perché «il contenuto di tutte le disposizioni in argomento incide su un valore centrale per il nostro ordinamento democratico, quale è l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti all'esercizio della giurisdizione penale».

 

2.1.3. – È denunciata, in terzo luogo, la violazione degli artt. 3, 68, 90, 96 e 112 Cost., per la disparità di trattamento tra la disciplina introdotta per i reati extrafunzionali e quella, di rango costituzionale, prevista per i reati funzionali delle quattro alte cariche in questione. Tale disparità sarebbe irragionevole: a) per la mancata menzione dell'art. 68 Cost. fra le norme costituzionali espressamente fatte salve dalla legge n. 124 del 2008; b) per il fatto che «il bene giuridico considerato dalla legge ordinaria, e cioè il regolare svolgimento delle funzioni apicali dello Stato, è lo stesso che la Costituzione tutela per il Presidente della Repubblica con l'art. 90, per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri con l'art. 96»; c) per la previsione di uno ius singulare per i reati extrafunzionali a favore del Presidente del Consiglio dei ministri, che, invece, la Costituzione accomuna ai ministri per i reati funzionali in conseguenza della sua posizione di primus inter pares.

 

2.1.4. – Il rimettente ritiene, infine, che la norma censurata violi l'art. 111 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del processo, perché: a) una sospensione formulata nei termini di cui alla disposizione denunciata, «bloccando il processo in ogni stato e grado per un periodo potenzialmente molto lungo, provoca un evidente spreco di attività processuale»; b) non essendo stabilito alcunché «sull'utilizzabilità delle prove già assunte» né all'interno dello stesso processo penale al termine del periodo di sospensione né all'interno della diversa sede in cui la parte civile abbia scelto di trasferire la propria azione, vi è la necessità per la stessa parte «di sostenere ex novo l'onere probatorio in tutta la sua ampiezza».

 

2.2. – Si è costituito in giudizio il suddetto imputato, svolgendo rilievi in parte analoghi a quelli svolti nella memoria di costituzione nel procedimento r.o. n. 397 del 2008 e osservando, in particolare, che la sospensione prevista dalla disposizione censurata non è un'immunità. Secondo l'imputato, infatti, l'immunità è una circostanza scriminante, che «tutela in via esclusiva, diretta ed immediata, il sereno e libero esercizio della funzione esercitata, garantendone l'autonomia da altri poteri», avendo ad oggetto comportamenti per i quali «viene esclusa ogni responsabilità penale che mai ed in nessun tempo può sorgere, né durante l'esercizio della funzione né in un momento successivo». Riguardo ai reati extrafunzionali – prosegue la difesa – «sussiste certamente una reviviscenza della astratta punibilità, a carica scaduta, sia nel caso di immunità che nel caso di sospensione. Ma la ratio di questi due istituti è altrettanto pacificamente diversa, poiché la seconda tutela, in via principale, diretta ed immediata, lo svolgimento di un giusto processo attraverso la protezione del diritto di difesa, che del giusto processo è condizione ineliminabile, il quale subisce un arresto temporaneo sino al momento in cui cessa la carica esercitata, ossia la causa di legittimo impedimento a comparire».

 

2.2.1. – In relazione al principio di uguaglianza, la difesa della parte privata premette che l'ordinamento penale prevede molti casi in cui la diversità di trattamento dipende da profili soggettivi (come, ad esempio, per i reati dei pubblici ufficiali o i reati militari). Con particolare riferimento all'asserita violazione degli artt. 68, 90 e 96 Cost., rileva che tali parametri nulla hanno a che vedere con l'articolo denunciato, perché essi sono «rivolti, in via esclusiva, diretta ed immediata, a tutelare il sereno svolgimento delle funzioni rispetto al potere giurisdizionale, e dunque per tutelare un interesse pacificamente esterno al processo». In particolare, gli articoli 68 e 90 Cost. prevedrebbero una immunità di natura funzionale, che «sottrae un soggetto alla giurisdizione, poiché comporta l'esclusione, che si protrae ad infinitum, di ogni responsabilità penale», mentre l'art. 96 Cost. «non prevede una immunità ma una condizione di procedibilità, ossia «una ulteriore ipotesi […] di blocco definitivo dell'esercizio del potere giurisdizionale, qui derivante da una valutazione di un organo politico in merito alla sussistenza dei presupposti». Differentemente, la sospensione temporanea del processo penale prevista dalla disciplina denunciata «non è un istituto che esclude la giurisdizione e nemmeno l'eventuale responsabilità penale, non tutela in via diretta ed immediata un interesse esterno al processo ma un diritto inviolabile interno ed immanente allo stesso. Di talché il giudizio verrebbe sí sospeso, ma pacificamente rinizierebbe nel momento in cui cessi la causa che nega il suo intangibile diritto di difesa, ossia il perdurare della carica». L'assoluta eterogeneità tra la norma censurata e i menzionati parametri costituzionali sarebbe, inoltre, confermata dall'espressa previsione della salvezza dei «casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione», la quale avrebbe la funzione di «accompagnare l'interprete nella direzione esattamente opposta a quella seguita dal giudice a quo, avvertendo che i beni giuridici tutelati non sono gli stessi per i quali è stata approvata la legge 124/08, non vi è perfetta comunanza di finalità e nemmeno di ratio».

 

2.2.2. – In relazione al principio di ragionevolezza, la parte privata rileva che, poiché la disciplina censurata è volta a tutelare il diritto di difesa dell'imputato, è irrilevante la differenza di trattamento fra reati funzionali ed extrafunzionali, in quanto ogni volta che la Corte costituzionale «si è pronunciata sul diritto fondamentale di difesa personale non ha mai operato la ben che minima distinzione in ordine al tipo di reato oggetto dell'imputazione e nemmeno alla sua gravità». Contrariamente, poi, a quanto ritenuto dal giudice a quo, il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri non sarebbero sullo stesso piano, perché il primo comma dell'art. 95 Cost. è esclusivamente dedicato al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai suoi compiti e prevede che egli «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri», mentre l'art. 92, secondo comma, Cost. gli assegna il potere di proporre la nomina e la revoca dei ministri. Ciò troverebbe conferma anche nel fatto che la legge elettorale vigente collega «l'apparentamento dei partiti politici ad un soggetto che si candida espressamente per esercitare le funzioni di Presidente del Consiglio» e negli «incarichi internazionali correlati alla Presidenza del Consiglio, quali ad esempio la presidenza del G8 e del G20, che comportano una quantità impressionante di impegni all'estero per piú giorni consecutivi». Un'ulteriore conferma della particolare posizione del Presidente del Consiglio dei ministri nell'ordinamento deriverebbe dalle previsioni della legge 23 agosto 1988, n. 400, la quale, in attuazione del dettato costituzionale, attribuisce a quest'ultimo molti poteri che i singoli ministri non hanno, come, tra gli altri: l'iniziativa per la presentazione della questione di fiducia dinanzi alle Camere; la convocazione del Consiglio dei ministri e di fissazione dell'ordine del giorno; la comunicazione alle Camere della composizione del Governo e di ogni mutamento in essa intervenuto; la proposizione della questione di fiducia; la sottoposizione al Presidente della Repubblica delle leggi per la promulgazione, dei disegni di legge per la presentazione alle Camere, dei testi dei decreti aventi valore o forza di legge, dei regolamenti governativi e degli altri atti indicati dalle leggi per l'emanazione; la controfirma degli atti di promulgazione delle leggi nonché di ogni atto per il quale è intervenuta deliberazione del Consiglio dei ministri, degli atti che hanno valore o forza di legge e, insieme con il ministro proponente, degli altri atti indicati dalla legge; la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa e, anche attraverso il ministro espressamente delegato, l'esercizio delle facoltà del Governo di cui all'articolo 72 Cost.; l'esercizio delle attribuzioni di cui alla legge n. 87 del 1953, e la promozione degli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle decisioni della Corte Costituzionale; la formulazione delle direttive politiche ed amministrative ai ministri, in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, nonché di quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del Governo; il coordinamento e la promozione dell'attività dei ministri in ordine agli atti che riguardano la politica generale del Governo; la sospensione dell'adozione di atti da parte dei ministri competenti in ordine a questioni politiche e amministrative, con la loro sottoposizione al Consiglio dei ministri nella riunione immediatamente successiva; il deferimento al Consiglio dei ministri della decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti; il coordinamento dell'azione del Governo relativa alle politiche comunitarie e all'attuazione delle politiche comunitarie. Dal punto di vista politico, invece «il Presidente del Consiglio risponde collegialmente per tutti gli atti del Consiglio dei ministri ma, non si può dimenticare, individualmente per quelli compiuti nell'esercizio delle funzioni a lui attribuitegli, in via esclusiva, dalla Costituzione e dalla legge ordinaria».

In conclusione, pare razionale alla difesa della parte che l'art. 96 Cost., in quanto diretto a garantire il sereno svolgimento del potere esecutivo, accomuni in un'unica disciplina coloro che esercitano lo stesso potere, sebbene con funzioni diverse e in posizione differenziata. Pare ugualmente razionale che la norma censurata, in quanto diretta a tutelare il diritto inviolabile alla difesa personale nel processo, tenga conto, invece, «delle disposizioni costituzionali, e della legge ordinaria di attuazione, che attribuiscono espressamente rilevantissimi poteri-doveri politici al Presidente del Consiglio dei ministri di cui è il solo responsabile, valutando dunque, in maniera altrettanto ragionevole, che solo i suoi impegni possono configurare un costante legittimo impedimento a comparire nel processo penale, diretto ad accertare una responsabilità giuridica esclusivamente personale». E ciò anche perché – ad avviso della stessa difesa – «la Carta costituzionale non contiene, invece, alcuna attribuzione esplicita di poteri o doveri ai ministri, ma ne demanda la disciplina alla sola legge ordinaria e alla prassi».

 

2.2.3. – La difesa passa, poi, a trattare specificamente il profilo soggettivo della disciplina censurata, sostenendo che il Presidente della Repubblica, i Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati e il Presidente del Consiglio dei ministri sono «accomunati da quattro caratteristiche: ricoprono posizioni di vertice in altrettanti organi costituzionali, sono titolari di funzioni istituzionali aventi natura politica, hanno l'incarico di adempiere peculiari doveri che la Costituzione espressamente impone loro e ricevono la propria investitura, in via diretta o mediata, dalla volontà popolare». Diversa sarebbe la posizione del Presidente della Corte costituzionale, perché egli «non riceve la propria investitura dalla volontà, né diretta né indiretta, del popolo. Si aggiunga che la sentenza 24/04 poneva in luce che la legge 140/03 mentre faceva espressamente salvi gli artt. 90 e 96 Cost., nulla diceva a proposito del secondo comma dell'art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1. Riscontrava, per tale ragione, gravi elementi di intrinseca irragionevolezza».

Secondo la difesa dell'imputato, «le alte cariche indicate dalla legge 124/08 si trovano tutte in una posizione nettamente differenziata rispetto agli altri componenti degli organi che eventualmente presiedono». In particolare, il Presidente della Camera dei deputati: a) convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica (art. 85, secondo comma, Cost.); b) indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica (art. 86, secondo comma, Cost.); c) convoca il Parlamento in seduta comune per l'elezione di un terzo dei giudici della Corte Costituzionale (art. 135, primo comma, Cost.); d) presiede le riunioni del Parlamento in seduta comune (art. 63, secondo comma, Cost.); e) rappresenta la Camera e ne assicura il buon funzionamento; f) sovrintende all'applicazione del regolamento presso tutti gli organi della Camera e decide sulle questioni relative alla sua interpretazione acquisendo, ove lo ritenga opportuno, il parere della Giunta per il regolamento, che presiede; g) emana circolari e disposizioni interpretative del regolamento; h) decide, in base aicriteri stabiliti dal regolamento, sull'ammissibilità dei progetti di legge, degli emendamenti e ordini del giorno, degli atti di indirizzo e di sindacato ispettivo; i) cura l'organizzazione dei lavori della Camera convocando la Conferenza dei presidenti di gruppo e predisponendo, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza prescritta dal regolamento, il programma e il calendario; l) presiede l'Assemblea e gli organi preposti alle funzioni di organizzazione dei lavori e di direzione generale della Camera (Ufficio di presidenza, Conferenza dei presidenti di gruppo, Giunta per il regolamento); m) nomina i componenti degli organi interni di garanzia istituzionale (Giunta per il regolamento, Giunta delle elezioni, Giunta per le autorizzazioni richieste ai sensi dell'art. 68 Cost.); n) assicura il buon andamento dell'amministrazione interna della Camera, diretta dal Segretario generale, che ne risponde nei suoi riguardi. Il Presidente del Senato della Repubblica: a) esercita le funzioni di supplente del Presidente della Repubblica, in base all'art. 86 Cost., in ogni caso in cui questi non possa adempierle; b) viene sentito, al pari del Presidente della Camera dei deputati, dal Presidente della Repubblica prima di sciogliere entrambe le Camere o anche una sola di esse (art. 88 Cost.); c) rappresenta il Senato; d) regola l'attività di tutti i suoi organi; e) dirige e modera le discussioni; f) pone le questioni; g) stabilisce l'ordine delle votazioni e ne proclama il risultato; h) dispone dei poteri necessari per mantenere l'ordine e assicurare, sulla base del regolamento interno, il buon andamento dei lavori.

In conclusione – prosegue la difesa dell'imputato – «nella logica della valorizzazione del dettato costituzionale, dei regolamenti di attuazione, e delle indicazioni della Consulta, il legislatore ha ragionevolmente ritenuto che solo gli impegni di codeste peculiari alte cariche politiche possano prospettare un costante legittimo impedimento a comparire nel processo penale, diretto ad accertare una responsabilità giuridica esclusivamente personale, e che solo nei loro confronti sorga l'esigenza di tutelarne, in maniera specifica, la serenità di azione».

Quanto alla facoltà di rinuncia alla sospensione prevista dal censurato comma 2 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, la parte privata sostiene che essa «dà la riprova che la ratio oggettivizzata in questo dettato legislativo è sí quella di tutelare, in via indiretta, un interesse politico, ma soprattutto, in via diretta ed immediata, l'inviolabile diritto di difesa. Altrimenti una facoltà di rinuncia non sarebbe stata prevista». Ne conseguirebbe che «non vi è allora nessuna necessità di prevedere un filtro per la tutela di tale primario diritto, poiché la normativa in esame costituisce concreta attuazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione».

2.2.4. – In relazione alla questione proposta in riferimento all'art. 138 Cost., la difesa dell'imputato, dopo avere premesso quanto dedotto nella memoria depositata nel procedimento r.o. n. 397 del 2008, passa ad esaminare le cause di sospensione regolate da leggi ordinarie e dirette a determinate categorie o a soggetti specificati per funzione, qualifica o qualità. Sostiene, sul punto, che «è assolutamente pacifico e notorio che la massima parte delle attribuzioni dei compiti e delle specificazioni in tema sono stati sempre posti in essere mediante leggi ordinarie», anche perché le riserve di legge costituzionale devono essere espressamente previste dalla Costituzione. Esistono infatti – prosegue la difesa – numerose cause di sospensione del processo previste con legge ordinaria «ed indirizzate a determinate categorie o a soggetti specificati per funzione, qualifica o qualità, alcune delle quali sono dirette alla tutela di un diritto immanente al processo, altre di un interesse esclusivamente esterno», come, ad esempio: nel codice di procedura penale «gli articoli 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477, e 479, cosí come nel codice penale gli articoli 159 e 371-bis»; in materia tributaria, «quei molteplici decreti legge convertiti i quali, in correlazione con il condono previsto dagli stessi, disponevano una sospensione processuale estremamente lunga»; l'art. 243 del codice penale militare di guerra, «ove la sospensione è correlata alla condizione soggettiva di appartenenza a reparti mobilitati»; «l'art. 28 del D.P.R. 22.9.1988 n. 448 in tema di procedimenti nei confronti di minorenni», in cui «la sospensione è addirittura ad personam ove si ritenga da parte del giudice di dover valutare la personalità del minorenne».

 

2.2.5. – Quanto alla natura delle «cause di sospensione derivanti dalla sussistenza di immunità internazionali», la medesima difesa sostiene che esse non trovano copertura nell'art. 10 Cost., perché sono previste da trattati internazionali recepiti con legge ordinaria e non dalle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Sostiene, inoltre, che esse sono «squisitamente soggettive, ovvero strettamente correlate alla funzione svolta dal soggetto interessato», come ad esempio quelle previste dall'art. 31, primo comma, seconda parte, della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18 aprile 1961e dall'art. 43, primo comma, della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963. Sostiene, infine, che le immunità hanno natura sia funzionale, sia extrafunzionale, in quanto coprono «tutti gli atti, compiuti come persona privata o come carica pubblica da parte del soggetto immune, siano quelli privati, precedenti o concorrenti, rispetto alla sua condizione di alto rappresentante dello Stato», come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia e della Corte di cassazione e confermato dalla dottrina.

 

2.2.6. – Quanto al parametro dell'art. 112 Cost., la difesa dell'imputato sostiene che: a) l'orientamento della Corte costituzionale, secondo cui fra il diritto di essere giudicato e il diritto di autodifendersi deve ritenersi prevalente quest'ultimo, si attaglia perfettamente alla sospensione prevista dalla norma censurata; b) l'art. 112 Cost. non impone un'assoluta continuità nell'esercizio dell'azione penale una volta che questa viene avviata, essendo ben possibile che vengano meno eventuali condizioni di procedibilità oggettive o soggettive; c) «l'obbligatorietà dell'azione penale non nasce dal semplice fatto storico antigiuridico, ma dal medesimo fatto connotato da una condizione di procedibilità ex officio o su impulso di parte privata» e «il pubblico ministero ha sí l'obbligo di esercitare l'azione penale, ma sempre che non vi siano cause ostative o sospensive dell'azione stessa, che possono liberamente essere fissate dal legislatore, purché non confliggano con i princípi di uguaglianza e di ragionevolezza»; d) l'ordinamento prevede la querela e la remissione di querela, oltre a fattispecie come l'immunità o l'estradizione, nelle quali l'azione penale è preclusa «totalmente o parzialmente, temporaneamente o definitivamente», nonché fattispecie in cui «alcuni fatti di reato, pur nell'obbligatorietà dell'azione penale e nell'antigiuridicità della condotta, sono perseguibili soltanto a richiesta del Ministro della giustizia» o «se il soggetto agente si trovi nel territorio dello Stato, per i reati commessi all'estero» (artt. 8, 9 e 10 cod. pen.); e) l'art. 260 del codice penale militare di pace subordina la procedibilità di una notevole serie di reati alla richiesta del comandante del corpo; f) l'art. 313 cod. pen. «subordina l'esercizio dell'azione penale per una lunga serie di delitti, alcuni di non certo modesta gravità, addirittura all'autorizzazione del Ministro della Giustizia» e tale disciplina è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla sentenza n. 22 del 1959, con la quale si è affermato che «l'istituto della autorizzazione a procedere trova fondamento nello stesso interesse pubblico tutelato dalle norme penali, in ordine al quale il procedimento penale potrebbe qualche volta risolversi in un danno piú grave dell'offesa stessa»; g) nel caso in esame, «contrariamente a quanto accade con l'art. 313 c.p., ritenuto costituzionalmente corretto, non vi è una inibizione definitiva dell'azione penale bensí soltanto una temporanea sospensione del processo», con la conseguenza che «la giurisdizione potrà poi effettivamente esplicarsi».

 

2.2.7. – Quanto alla violazione dell'art. 111 Cost., prospettata dal rimettente sotto il profilo della ragionevole durata del processo, la difesa dell'imputato osserva che: a) la disposizione censurata «segue alla lettera le indicazioni date da codesta Corte nella sentenza n. 24 del 2004, perché impedisce che la stasi del processo si protragga per un tempo indefinito e indeterminabile e prevede espressamente, nel contempo, la non reiterabilità delle sospensioni»; b) la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e quella costituzionale hanno riconosciuto la rilevanza del canone della ragionevole durata del processo, chiarendo, però, che esso «non costituisce un valore assoluto, da perseguire ad ogni costo»; c) in particolare, la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 458 del 2002, ha affermato che: «il principio di ragionevole durata del processo non può comportare la vanificazione degli altri valori costituzionali che in esso sono coinvolti, primo fra i quali il diritto di difesa, che l'art. 24, secondo comma, proclama inviolabile in ogni stato e grado del procedimento»; d) ancora, la stessa Corte, con l'ordinanza n. 204 del 2001 ha affermato che: «il principio della ragionevole durata del processo [...] deve essere letto − alla luce dello stesso richiamo al connotato di "ragionevolezza ", che compare nella formula normativa − in correlazione con le altre garanzie previste dalla Carta costituzionale, a cominciare da quella relativa al diritto di difesa (art. 24 Cost.)».

Piú in particolare, in relazione al rilievo del rimettente secondo cui «la sospensione cosí formulata, bloccando il processo in ogni stato e grado per un periodo potenzialmente molto lungo, provoca un evidente spreco di attività processuale», la parte privata osserva che «l'istruttoria dibattimentale, per quanto riguarda la posizione dell'esponente, non è affatto conclusa mancando l'audizione del consulente tecnico di parte e l'audizione di numerosissimi testimoni».

Quanto, poi, all'affermazione del giudice a quo per cui «la norma [...] nulla dice sull'utilizzabilità delle prove già assunte, che potrebbero venire del tutto disperse qualora, al termine dell'eventualmente lungo periodo di operatività della sospensione [...], divenisse impossibile la ricostruzione del medesimo collegio», la difesa dell'imputato sostiene che si tratta di «una ipotesi del tutto potenziale e futura», con conseguente inammissibilità, per difetto di rilevanza, della relativa questione di legittimità costituzionale. In ogni caso – prosegue la difesa dell'imputato – non si comprende «per quali ragioni sia oggi sostenibile dal rimettente l'affermazione che non sarà possibile ricostituire il medesimo collegio», considerato che «la permanenza nello stesso ufficio giudiziario per la durata massima della carica di un Presidente del Consiglio dei ministri non è certamente infrequente, anzi, e comunque vi è sempre la possibilità di ricostituzione mediante le opportune applicazioni». Se poi lo stesso Tribunale, nella sua composizione attuale, proseguirà nel giudicare il coimputato pronunciando sentenza, «si porrà, qualsiasi sia la decisione, in una situazione di assoluta incompatibilità sancita dal codice di rito». La rinnovazione dell'istruttoria «non avrebbe in alcun modo l'effetto di porre nel nulla l'attività sino a quel momento compiuta, la quale invece si riverserebbe nel nuovo fascicolo del dibattimento» e sarebbero «poi le parti a dover decidere se richiedere l'espletamento di tutti o parte degli incombenti dibattimentali, fermo restando il contenuto del fascicolo del dibattimento».

Quanto, infine, alla mancata previsione di una disciplina dell'utilizzabilità in sede civile delle prove già assunte nel processo penale, la difesa dell'imputato ritiene che essa non comporta alcun divieto di utilizzabilità delle prove stesse, perché trovano applicazione le regole generali, «potendo cosí il giudice civile, in piena autonomia, utilizzarle e valutarle come semplici indizi o come prova esclusiva del proprio convincimento».

 

2.3. – Si è costituito il pubblico ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa Procura.

Il pubblico ministero sostiene l'ammissibilità della sua costituzione in giudizio e chiede, nel merito, che siano accolte le questioni proposte dal rimettente, svolgendo considerazioni analoghe a quelle contenute nella memoria depositata nel procedimento r.o. n. 397 del 2008.

 

2.4. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

 

2.4.1. – La difesa erariale rileva, in primo luogo, che la questione proposta in riferimento all'art. 138 Cost. è «inammissibile e comunque infondata», perché la disposizione censurata ha la funzione di tutelare il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato e la «materia, considerata di per sé, non è preclusa alla legge ordinaria», come confermato dal fatto che altre fattispecie di sospensione sono disciplinate dal codice di procedura penale. «Il fatto che nella Costituzione si trovino alcune “prerogative” degli organi costituzionali» – prosegue l'Avvocatura generale – «non significa che non ne possano essere introdotte altre con legge ordinaria, ma solo che le prime costituiscono deroghe a princípi o normative posti dalla Costituzione stessa e che quindi solo nella Costituzione possono trovare deroghe». Del resto – secondo la stessa difesa – «per dimostrare la necessità della legge costituzionale si sarebbe dovuto indicare l'interesse incompatibile, garantito dalla Costituzione, rispetto alla quale la norma avrebbe dovuto costituire una deroga», mentre il rimettente non ha indicato parametri costituzionali diversi dall'art. 138 Cost, «perché in effetti non ce ne sono di utilizzabili». Tale conclusione troverebbe conferma nella sentenza n. 24 del 2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, con cui la Corte costituzionale, non avendo affrontato la questione della «forma legislativa utilizzabile», ne avrebbe escluso implicitamente la rilevanza.

 

2.4.2. – In secondo luogo, la difesa erariale sostiene che la questione sollevata con riferimento all'art. 112 Cost. «è inammissibile in quanto non compiutamente motivata (e comunque è manifestamente infondata in quanto, all'evidenza, la meramente disposta sospensione del processo […] non incide, limitandola, sulla obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale da parte del P.M.), al pari di quella prospettata con riferimento all'art. 68 Cost. (essendo le ragioni accennate nella ordinanza nella stessa non sviluppate, anche per quanto attiene alla rilevanza nel giudizio a quo)».

 

2.4.3. – In terzo luogo, quanto alla pretesa violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla giurisdizione penale, l'Avvocatura generale rileva che sussiste una «posizione particolarmente qualificata delle alte cariche contemplate dalla norma in discussione, nella considerazione della possibile compromissione dello svolgimento delle elevate funzioni alle stesse affidate anche per la inovviabile risonanza, anche mediatica, ed in termini non limitati all'interno del Paese, dello svolgimento del processo penale a loro carico durante il periodo in cui le stesse funzioni sono esercitate». La deroga alla giurisdizione prevista dalla norma denunciata sarebbe, del resto, «proporzionata ed adeguata alla finalità perseguita, in termini sia di prevista predeterminata e non reiterabile durata della sospensione […], sia di consentita rinuncia dell'interessato […] sia, infine di tutela efficace ed “immediata” delle ragioni della eventuale parte civile».

 

2.4.4. – In quarto luogo, sempre ad avviso della difesa erariale, la norma censurata non è irragionevole, perché, «in una logica conseguente ad una ponderazione e ad un bilanciamento degli interessi “in giuoco”, non è certo arbitrario che la stessa sottoposizione alla giurisdizione ordinaria del Presidente del Consiglio dei ministri per reati commessi nell'esercizio delle proprie funzioni sia costituzionalmente garantita dalla prevista autorizzazione del Parlamento, chiamato perciò a previamente valutare se la condotta sia meritevole di essere sottoposta all'esame del giudice ordinario, avanti al quale la ipotizzata immediatezza del perseguimento del reato funzionale trova la sua giustificazione nella preminente rilevanza istituzionale degli interessi di carattere generale coinvolti ed incisi dalla contestata condotta (rilevanza che,contrariamente a quanto assume il rimettente, non va valutata solo in termini di pena conseguente). All'incontro, la stessa esigenza non è comunque prospettabile con riferimento ai reati “comuni”, per i quali il processo è promosso dal P.M., senza necessità di alcun previo “filtro politico”, e per il quale è prevista solo la sua sospensione, temporanea e predeterminata, nella ragionevole e su evidenziata considerazione del “pregiudizio” del suo svolgimento sull'esercizio delle funzioni istituzionali proprie dell'alta carica». Non sarebbe, del pari, irragionevole la «disposta limitazione della sospensione, tra gli Organi di governo, al solo Presidente del Consiglio […], poiché è indiscutibile la posizione costituzionalmente differenziata del primo rispetto agli altri componenti del Governo, spettando al Presidente (art. 95 Cost.) il dirigere la politica generale del Governo, essendone il responsabile, e il mantenere l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei Ministri».

 

2.4.5. – In quinto luogo, non sussisterebbe neppure la prospettata violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., perché: da un lato, «la previsione, da parte della legge ordinaria, di cause che comportano, per ragioni oggettive o soggettive, il temporaneo arresto del normale svolgimento del processo penale […] non mette in crisi il menzionato principio della ragionevole durata; d'altro lato, la temporanea sospensione del processo, quale delineata e come sopra "conformata" con la disposizione in discussione, è congruamente e ragionevolmente finalizzata ad evitare il rischio che sia pregiudicato il corretto e sereno esercizio delle eminenti funzioni pubbliche delle quale sono investite le alte cariche ivi considerate».

 

2.4.6. – In sesto luogo, non pare decisivo alla difesa erariale «l'ulteriore rilievo della ordinanza che evidenzia la carenza di esplicita previsione circa la utilizzabilità nell'ulteriore fase del processo dei mezzi di prova già assunti», perché «la disposizione de qua nulla espressamente dispone al riguardo» e spetterà al giudice a quo «motivatamente optare per una non preclusa e perciò possibile interpretazione dell'art. 511 c.p.p. che, tenendo conto della “particolarità” del regime predisposto con la disposizione in discussione, consenta comunque […] la utilizzazione delle prove già assunte nella precedente fase».

 

2.5. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la parte privata chiede che venga dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, svolgendo rilievi analoghi a quelli contenuti nella memoria depositata in prossimità dell'udienza nel procedimento r.o. n. 397 del 2008.

2.6. – Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, il pubblico ministero del giudizio a quo insiste per l'accoglimento delle questioni proposte nell'ordinanza di rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di costituzione.

 

3. – Con ordinanza del 26 settembre 2008 (r.o. n. 9 del 2009), nel corso di un procedimento penale in cui è sottoposto alle indagini, tra gli altri, l'on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 111, 112 e 138 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008.

 

3.1. – In punto di fatto, il rimettente premette che: a) «in data 4 luglio 2008 il p.m. ha avanzato richiesta di proroga dei termini di scadenza delle indagini preliminari (art. 406 c.p.p.) per il periodo di sei mesi, nell'àmbito del procedimento iscritto al n. 1349/08 del Registro delle notizie di reato»; b) «decorso il periodo di sospensione feriale dei termini di cui alla legge n. 742/1969, questo giudice si è trovato nella necessità di procedere alla notificazione della richiesta del p.m. agli indagati, in vista dell'instaurazione del contraddittorio cartolare di cui all'art. 406, comma 3 c.p.p. che in via eventuale può instaurarsi prima della relativa decisione»; c) in data 23 luglio 2008 è stata approvata dal Parlamento la norma censurata, il cui comma 1 impone la sospensione generale ed automatica dei processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e di Presidente del Consiglio dei ministri dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica, anche per processi penali relativi a fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione.

Quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice a quo osserva che, anche se la locuzione «processi penali», adoperata dal censurato comma 1, «lascerebbe intendere la non operatività della legge per le fasi anteriori al giudizio propriamente inteso, da celebrarsi cioè in pubblico dibattimento», un'attenta analisi del dato normativo non autorizza una tale interpretazione restrittiva. E ciò perché – prosegue il giudice a quo – il successivo comma 7 stabilisce che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge». Secondo lo stesso rimettente, «se è certamente concepibile la circostanza che un processo, inteso come procedimento pervenuto alla fase del dibattimento pubblico, possa pendere in diversi gradi (primo, secondo, di legittimità) e se è certamente possibile individuare all'interno dei gradi, diversi stati (quelli ad es. degli atti preliminari al dibattimento di primo, artt. 465-469 c.p.p. e di secondo grado, art. 601 c.p.p.; atti successivi alla deliberazione della sentenza di primo grado, artt. 544-548 c.p.p.; atti preliminari alla decisione del ricorso per Cassazione, art. 610 c.p.p.), non è invece giuridicamente ipotizzabile per il giudizio dibattimentale una fase che non sia quella in cui lo stesso è per l'appunto pervenuto». Ciò dimostrerebbe «il carattere atecnico della locuzione adoperata (processo) che copre in realtà e come del resto espressamente enunciato, ogni fase, stato e grado del procedimento», anche perché altrimenti la previsione di legge sarebbe priva di rilevanza «dispositiva, precettiva o anche solo ermeneutica». Un ulteriore argomento testuale a favore dell'applicabilità della disciplina denunciata anche alla fase delle indagini preliminari si rinverrebbe nel disposto del censurato comma 3, il quale stabilisce che la sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 cod. proc. pen., per l'assunzione delle prove non rinviabili. Tale previsione comporta – sempre secondo il rimettente – due necessarie implicazioni: a) la sospensione riguarda anche fasi precedenti il processo inteso come giudizio dibattimentale pubblico, dal momento che solo nel corso della fase delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare è consentito il ricorso alla acquisizione anticipata delle prove mediante incidente probatorio; b) nella fase delle indagini preliminari è vietata, in linea generale, la raccolta delle prove e, al fine di permettere la celebrazione del futuro processo che potrebbe avere luogo alla scadenza del periodo di durata della carica dei soggetti considerati, è necessario ricorrere allo strumento dell'incidente probatorio. In particolare, il giudice a quo osserva che, «ove […] il legislatore avesse voluto consentire […] la raccolta delle prove anche nella fase delle indagini preliminari, nulla avrebbe detto al riguardo, laddove si è invece sentito in dovere di indicare espressamente le eccezioni […] al principio […] di vietare ogni acquisizione probatoria nei procedimenti a carico dei soggetti che ricoprono le cariche pubbliche».

 

3.1.1. – Sul piano comparatistico, il rimettente osserva che la disposizione censurata costituisce «un unicum» rispetto a quanto previsto da altri ordinamenti e ricorda che «solo le Costituzioni di pochi Stati (Grecia, Portogallo, Israele e Francia) prevedono l'immunità temporanea per i reati comuni; essa è peraltro limitata alla figura del Presidente della Repubblica, che rappresenta l'unità nazionale». La stessa regola – prosegue il giudice a quo – non vale, invece, per i Presidenti del Parlamento né tanto meno per il Capo dell'esecutivo, per il quale l'immunità non è «mai estesa ai reati comuni» e «passa attraverso la tutela del mandato parlamentare che quasi sempre […] si cumula nella figura del premier, sotto forma di previsione di autorizzazioni a procedere concesse da organi parlamentari (Spagna), Corti costituzionali (Francia) o tribunali comuni (Stati Uniti)». Alla stessa logica sarebbero poi ispirate le soluzioni normative proprie di quei sistemi costituzionali «che prevedono fori speciali o particolari condizioni di procedibilità (in genere ed ancora: autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza) per l'esercizio dell'azione penale nei confronti di alcune alte cariche dello Stato, per reati sia comuni che connessi all'esercizio delle funzioni (come ad es. in Spagna nei confronti del Capo del Governo e dei Ministri), mantenendo comunque la facoltà per la Corte costituzionale di esercitare un controllo sull'eventuale diniego opposto dallo organo parlamentare».

 

3.1.2. – Tanto premesso, il rimettente afferma che la disposizione denunciata víola, in primo luogo, l'art. 138 Cost., perché «la deroga al principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata […] introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge costituzionale, la quale […] è stata di per sé già ritenuta insuscettibile di alterare uno dei connotati fondamentali dell'ordinamento dello Stato espresso dal suddetto principio».

Rileva il giudice a quo che, «anche solo per disciplinare l'esercizio dell'azione penale nei confronti dei soggetti rivestiti della carica di Ministri (tra cui lo stesso Presidente del Consiglio) in relazione ai reati commessi nell'esercizio delle relative finzioni, il legislatore è ricorso allo strumento della legge costituzionale (legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1), in funzione derogatoria, tra gli altri, proprio dell'art. 96 Cost.». Il silenzio serbato sul punto dalla sentenza n. 24 del 2004, avente ad oggetto l'analoga disciplina della legge n. 140 del 2003, non può «valere come precedente a favore della costituzionalità della scelta dello strumento normativo allora come oggi adottato, dal momento che gli effetti delle sentenze che dichiarano l'illegittimità costituzionale delle disposizioni di legge sottoposte a scrutinio sono quelli espressamente previsti dagli artt. 27 e 30 legge 11 marzo 1953, n. 87, e non si estendono anche alle questioni meramente deducibili».

 

3.1.3. – È dedotta, in secondo luogo, la violazione dell'art. 3, primo comma, Cost., sul rilievo che la disciplina crea «“un regime differenziato riguardo alla giurisdizione [...] penale” (sent. Cost. n. 24/2004)», ponendosi cosí in contrasto con «uno dei princípi fondamentali del moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei cittadini di fronte alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del principio di eguaglianza formale dinanzi alla legge».

Ad avviso del rimettente, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 24 del 2004, ha affermato, «con espressioni nette e limpide, ancorché quantitativamente ridotte rispetto al corpo motivazionale», che «nessuna legge, sia costituzionale e tanto meno ordinaria, può sovvertire uno dei princípi fondamentali del moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei cittadini di fronte alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del principio di eguaglianza formale dinanzi alla legge». L'assolutezza del principio sarebbe tale da sgombrare il campo dalla possibile obiezione che «le differenze che si riscontrano nell'articolo unico della legge n. 124/2008 rispetto all'art. 1, comma 2, della legge n. 140/2003 e l'eliminazione degli ulteriori punti di contrasto con altre norme costituzionali che caratterizzavano quella disciplina (menomazione del diritto di difesa dell'imputato e sacrificio delle ragioni della parte civile eventualmente costituta in giudizio in relazione all'art. 24 Cost., automatismo generalizzato della sospensione e stasi indefinita dei tempi del processo in relazione ancora all'art. 24 ed all'art. 111 Cost.; irragionevolezza derivante dalla previsione di un'unica disciplina per cariche dello Stato diverse per fonti di investitura e natura delle funzioni ed irragionevolezza tra regime di esenzione dalla giurisdizione per le cariche apicali dello Stato rispetto ai membri degli organi costituzionali di appartenenza o di altri soggetti svolgenti funzioni omologhe, in rapporto all'art. 3, secondo comma Cost.) possano fondare la legittimità della previsione qui censurata».

 

3.1.4. – Sarebbe violato, in terzo luogo, l'art. 3 Cost., per l'irragionevolezza intrinseca della disciplina derivante dall'insindacabilità della facoltà di rinunzia alla sospensione «dal momento che se l'interesse dichiaratamente perseguito dal legislatore è quello di assicurare la serenità di svolgimento della funzione nel periodo di durata in carica (sent. Corte cost. n. 24/2004), la sospensione dei procedimenti dovrebbe essere del tutto indisponibile da parte dei soggetti considerati, al fine di assicurarne appieno l'efficacia».

 

3.1.5. – L'articolo denunciato violerebbe, in quarto luogo, l'art. 111, secondo comma, Cost., perché si porrebbe in contrasto con «un corollario immanente al principio di ragionevole durata del processo, consistente nella concentrazione delle fasi processuali, nel senso che nell'àmbito del procedimento penale, alla fase di acquisizione delle prove deve seguire entro tempi ragionevoli quella della loro verifica in pubblico dibattimento, ai fini della emissione di una giusta sentenza da parte del giudice».

 

3.1.6. – Il rimettente deduce, infine, il contrasto della norma censurata con gli artt. 3 e 112 Cost., per violazione dei princípi di obbligatorietà dell'azione penale e di uguaglianza sostanziale, sotto il profilo dell'irragionevolezza del contenuto derogatorio della disciplina censurata rispetto al diritto comune, in quanto tale norma non si applica ai reati commessi nell'esercizio delle funzioni istituzionali, ma ai reati extrafunzionali «indistintamente commessi dai soggetti ivi indicati, di qualsivoglia natura e gravità, finanche prima dell'assunzione della funzione pubblica».

Ad avviso del giudice a quo, la Costituzione consente deroghe al principio di obbligatorietà dell'azione penale per «i soli reati commessi nell'esercizio di funzioni istituzionali e che siano intrinsecamente connaturati allo svolgimento delle medesime (artt. 68, 90, 96 e 122, quarto comma Cost.), situazione quest'ultima che fonda per l'appunto la ragionevolezza anche della deroga al regime ordinario di procedibilità dei reati». L'irragionevolezza denunziata – conclude il rimettente – risalterebbe in maniera ancora piú netta nel caso in cui la sospensione intervenisse concretamente a bloccare, sia pur temporaneamente, procedimenti per reati gravi, «con il non voluto risultato di trasformare l'assunzione dell'incarico pubblico, comportante la generale temporanea immunità, in momento di obiettivo disdoro per il prestigio intrinseco della funzione».

 

3.2. – Si è costituita la suddetta parte privata, svolgendo, nel merito, rilievi analoghi a quelli contenuti nelle memorie di costituzione nei procedimenti r.o. n. 397 e n. 398 del 2008 e osservando, in punto di ammissibilità, che le questioni proposte dal rimettente non sono ammissibili, perché la disposizione censurata non trova applicazione nella fase delle indagini preliminari. La difesa non condivide, cioè, l'assunto del giudice a quo – investito dal pubblico ministero della richiesta di proroga dei termini di scadenza delle indagini – secondo cui, poiché il termine «processo» si attaglierebbe esclusivamente al procedimento pervenuto alla fase del dibattimento pubblico all'interno del quale non sarebbero individuabili fasi diverse, il termine «fase» usato dal comma 7 dell'articolo 1 della legge n. 124 del 2008 potrebbe avere significato giuridico esclusivamente in riferimento all'intero procedimento, comprensivo ovviamente anche della fase delle indagini preliminari.

Ad avviso della difesa dell'imputato, tale assunto sarebbe erroneo, in primo luogo, perché «anche nel “processo” sono individuabili varie fasi: prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di cui all'art. 492 c.p.p. vi è la fase che spazia dalla costituzione delle parti (art. 484 c.p.p.) alla decisione sulle questioni preliminari (art. 491 c.p.p.); poi segue la fase disciplinata dagli articoli 493, 494 e 495 c.p.p.; di seguito comincia la fase dell'istruzione dibattimentale (artt. 496-515 c.p.p.) nel corso della quale può innestarsi la fase delle nuove contestazioni (artt. 516-522 c.p.p.); segue la fase della discussione finale con la chiusura del dibattimento; e infine v'è la fase della deliberazione»; si tratterebbe di vere e proprie fasi e non di meri frammenti del processo, perché esse sono disciplinate da regole specifiche e caratterizzate, ciascuna, da specifici diritti, facoltà e decadenze.

In secondo luogo, non sarebbe «giuridicamente sostenibile che il “processo” sorga, come opina il giudice rimettente, solo quando il procedimento perviene alla fase del dibattimento pubblico. Nessuno dubita, infatti, che di processo si può e si debba parlare con l'inizio dell'azione penale che nel nostro ordinamento, com'è diffusamente noto, sorge con l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero individuato, ratione temporis, dal primo comma dell'articolo 405 del codice di procedura penale».

La difesa della parte privata critica, poi, l'assunto del rimettente per cui il fatto che la norma censurata consenta al giudice di provvedere all'assunzione di prove non rinviabili ai sensi degli articoli 392 e 467 cod. proc. pen. comporterebbe che la sospensione del processo deve necessariamente essere intesa come sospensione anche del procedimento, «dal momento che solo nel corso della fase delle indagini preliminari […] e dell'udienza preliminare […] è consentito il ricorso alla acquisizione anticipata delle prove mediante incidente probatorio». Secondo la difesa, «l'udienza preliminare partecipa appieno della species del processo dal momento che in tale fase è stata già esercitata l'azione penale con il deposito della richiesta di rinvio a giudizio ai sensi del combinato disposto degli articoli 405, primo comma e 416, primo comma del codice di procedura penale», con la conseguenza che la previsione normativa richiamata dal rimettente circa l'assunzione di prove non rinviabili ben può applicarsi anche nel corso del processo.

L'interpretazione data dal rimettente sarebbe, inoltre, smentita sia dai lavori preparatori – «durante i quali è stato reso manifesto l'àmbito di applicazione della norma in riferimento esclusivo al “processo” inteso proprio in senso tecnico giuridico di quella fase introdotta dall'avvenuto esercizio dell'azione penale» – sia dalla Procura della Repubblica di Roma, la quale – secondo quanto asserito dalla difesa della parte privata – ha chiesto, nel procedimento a quo, «l'archiviazione del procedimento» [recte: la proroga dei termini delle indagini preliminari] anche nei confronti delsuddettoimputato.

 

3.3. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, richiamando le argomentazioni già svolte negli atti di intervento nei procedimenti r.o. n. 397 e n. 398 del 2008 e concludendo nel senso che «le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate».

4. – In prossimità dell'udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha depositato un'unica memoria con riferimento ai procedimenti r.o. n. 397 e n. 398 del 2008 e n. 9 del 2009, nella quale ribadisce quanto già osservato negli atti di intervento e rileva, in particolare che: a) poiché il Presidente della Repubblica e i Presidenti delle Camere «non sono parti dei giudizi, nei quali sono intervenute le ordinanze di rimessione, manca la rilevanza per l'esame delle questioni che potrebbero insorgere nei loro confronti», con conseguente inammissibilità delle questioni medesime; b) le questioni relative al comma 7 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008 sono inammissibili, «perché in proposito nel ricorso non sono proposti motivi autonomi e, comunque, manca qualsiasi argomentazione a sostegno»; c) il legislatore può, nella sua discrezionalità, intervenire per coordinare l'interesse personale dell'imputato a difendersi nel processo e l'interesse generale all'«esercizio efficiente delle funzioni pubbliche»; d) «poiché il pregiudizio era provocato dalla contemporaneità dell'esercizio delle funzioni e della pendenza del processo, non si poteva rimediare se non eliminando quella contemporaneità» ed escludendo, invece, «qualsiasi forma di riduzione o di sospensione» delle funzioni, «che sarebbe stata pregiudizievole per l'interesse imprescindibile a che quelle funzioni siano esercitate con continuità»; e) l'inerzia del legislatore «avrebbe comportato la tolleranza di una situazione già di per sé non conforme alla Costituzione»; f) la sospensione stabilita dalla norma censurata trova giustificazione anche nella grande risonanza mediatica che hanno i processi penali per reati extrafunzionali a carico del Presidente del Consiglio dei ministri; g) la previsione della sospensione dei processi con legge ordinaria trova giustificazione anche nell'esigenza di modificare agevolmente la relativa disciplina qualora «la situazione reale si modificasse in misura tale da comportare un diverso bilanciamento degli interessi».

5. – Con ordinanza pronunciata in udienza, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la costituzione del Procuratore della Repubblica e del sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano nei giudizi introdotti dalle ordinanze di rimessione registrate al n. 397 ed al n. 398 dell'anno 2008.

 

Considerato in diritto

 

1. – Il Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008) dubita, in riferimento agli artt. 3, 136 e 138 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 7, della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato). Lo stesso Tribunale di Milano (r.o. n. 398 del 2008) dubita della legittimità dell'intero art. 1 della legge n. 124 del 2008, in riferimento agli artt. 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost. Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma (r.o. n. 9 del 2009) dubita, in riferimento agli articoli 3, 111, 112 e 138 Cost., della legittimità dello stesso art. 1 della legge n. 124 del 2008.

La disposizione censurata prevede, al comma 1, che: «Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione». Gli altri commi dispongono che: a) «L'imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l'assunzione delle prove non rinviabili» (comma 3); c) si applicano le disposizioni dell'articolo 159 del codice penale e la sospensione, che opera per l'intera durata della carica o della funzione, non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura, né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e, quando la parte civile trasferisce l'azione in sede civile, «i termini per comparire, di cui all'articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l'ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all'azione trasferita» (comma 6); e) l'articolo si applica «anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge» (comma 7).

Le questioni proposte dai rimettenti possono essere raggruppate in relazione ai parametri evocati.

 

1.1. – L'art. 136 Cost. è evocato a parametro dal Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008), il quale osserva che i commi 1 e 7 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, «avendo riproposto la medesima disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità costituzionale, già ritenuta dalla Corte» con la sentenza n. 24 del 2004.

 

1.2. – L'art. 138 Cost. è evocato da tutti i rimettenti.

Il Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008) afferma che i denunciati commi 1 e 7 dell'art. 1, della legge n. 124 del 2008 violano tale parametro costituzionale, perché intervengono in una «materia riservata […] al legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma costituzionale».

In relazione all'intero art. 1, lo stesso Tribunale di Milano (r.o. n. 398 del 2008) rileva che «la normativa sullo status dei titolari delle piú alte istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo la loro responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio generale dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto dall'articolo 3 della Costituzione, principio fondante di uno Stato di diritto».

Secondo il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, l'art. 1 denunciato si pone in contrasto con l'evocato parametro, perché «la deroga al principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata […] introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge costituzionale».

 

1.3. – Tre delle questioni sollevate sono riferite al principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'irragionevole disparità di trattamento rispetto alla giurisdizione.

Con l'ordinanza r.o. n. 397 del 2008, il Tribunale di Milano rileva che i commi 1 e 7 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008 violano tale parametro, per avere accomunato «in una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni», ed inoltre per aver distinto irragionevolmente e «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri [...] rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti».

Con l'ordinanza r.o. n. 398 del 2008, lo stesso Tribunale lamenta che il parametro è violato, perché «il contenuto di tutte le disposizioni in argomento incide su un valore centrale per il nostro ordinamento democratico, quale è l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti all'esercizio della giurisdizione penale».

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma basa la sua censura sulla considerazione che la disposizione crea «un regime differenziato riguardo alla giurisdizione [...] penale», ponendosi cosí in contrasto con «uno dei princípi fondamentali del moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei cittadini di fronte alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del principio di eguaglianza formale dinanzi alla legge».

1.4. – Lo stesso art. 3 Cost. è evocato anche sotto il profilo della ragionevolezza.

Secondo il Tribunale di Milano (r.o. n. 398 del 2008), tale articolo è violato, perché le «guarentigie concesse a chi riveste cariche istituzionali risultano funzionali alla protezione delle funzioni apicali esercitate», con la conseguenza che la facoltà di rinunciare alla sospensione processuale riconosciuta al titolare dell'alta carica si pone in contrasto con la tutela del munus publicum, attribuendo una discrezionalità «meramentepotestativa» al soggetto beneficiario, anziché prevedere quei filtri aventi carattere di terzietà e quelle valutazioni della peculiarità dei casi concreti che soli, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, potrebbero costituire adeguato rimedio rispetto tanto all'automatismo generalizzato del beneficio quanto «al vulnus al diritto di azione».

Ad avviso del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, l'irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata deriva dall'insindacabilità della facoltà di rinunzia alla sospensione, dal momento che, «se l'interesse dichiaratamente perseguito dal legislatore è quello di assicurare la serenità di svolgimento della funzione nel periodo di durata in carica (sent. Corte cost. n. 24/2004), la sospensione dei procedimenti dovrebbe essere del tutto indisponibile da parte dei soggetti considerati».

 

1.5. – Il Tribunale di Milano formula un'articolata questione in riferimento agli artt. 3, 68, 90, 96 e 112 Cost., sul rilievo che la disposizione denunciata crea una disparità di trattamento tra la disciplina introdotta per i reati extrafunzionali e quella, di rango costituzionale, prevista per i reati funzionali commessi dalle quattro alte cariche in questione. Tale disparità sarebbe irragionevole: a) per la mancata menzione dell'art. 68 Cost. fra le norme costituzionali espressamente fatte salve dalla legge n. 124 del 2008; b) per il fatto che «il bene giuridico considerato dalla legge ordinaria, e cioè il regolare svolgimento delle funzioni apicali dello Stato, è lo stesso che la Costituzione tutela per il Presidente della Repubblica con l'art. 90, per il Presidente del Consiglio e per i ministri con l'art. 96»; c) per la previsione di uno ius singulare per i reati extrafunzionali a favore del Presidente del Consiglio dei ministri, che, invece, la Costituzione accomuna ai ministri per i reati funzionali in conseguenza della sua posizione di primus inter pares.

 

1.6. – Il Giudice per indagini preliminari presso il Tribunale di Roma rileva la violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 112 Cost., sotto il profilo dell'obbligatorietà dell'azione penale e dell'uguaglianza sostanziale. Ad avviso del rimettente, la disciplina censurata pone una deroga irragionevole rispetto alla disciplina ordinaria, perché non si applica ai reati commessi nell'esercizio delle funzioni istituzionali, ma ai reati extrafunzionali «indistintamente commessi dai soggetti ivi indicati, di qualsivoglia natura e gravità, finanche prima dell'assunzione della funzione pubblica».

    1.7. – Sia l'ordinanza r.o. n. 398 del 2008, sia l'ordinanza r.o. n. 9 del 2009 evocano quale parametro l'art. 111, secondo comma, Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del processo.

 

Per il primo dei due rimettenti, il parametro è violato perché la disposizione denunciata blocca «il processo in ogni stato e grado per un periodo potenzialmente molto lungo» e provoca «un evidente spreco di attività processuale», oltretutto non stabilendo alcunché «sull'utilizzabilità delle prove già assunte», né all'interno dello stesso processo penale al termine del periodo di sospensione, né all'interno della diversa sede in cui la parte civile abbia scelto di trasferire la propria azione, con conseguente necessità per la stessa parte «di sostenere ex novo l'onere probatorio in tutta la sua ampiezza».

Il secondo dei due rimettenti rileva che la disposizione censurata si pone in contrasto con «un corollario immanente al principio di ragionevole durata del processo, consistente nella concentrazione delle fasi processuali, nel senso che nell'àmbito del procedimento penale, alla fase di acquisizione delle prove deve seguire entro tempi ragionevoli quella della loro verifica in pubblico dibattimento, ai fini della emissione di una giusta sentenza da parte del giudice».

 

2. – In considerazione della parziale coincidenza dell'oggetto e dei motivi delle questioni sollevate, i giudizi devono essere riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi.

 

3. – Va preliminarmente esaminata l'eccezione della difesa della parte privata con la quale si deduce l'inammissibilità, per irrilevanza, delle questioni sollevate dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma (r.o. n. 9 del 2009), in quanto la disposizione censurata non trova applicazione nella fase delle indagini preliminari. La difesa contesta l'assunto del giudice a quo, secondo cui il termine «fase» usato dal comma 7 dell'articolo 1 della legge n. 124 del 2008 potrebbe avere significato giuridico esclusivamente in riferimento all'intero procedimento, comprensivo della fase delle indagini preliminari.

L'eccezione è fondata.

 

3.1. – Il giudice rimettente, al fine di giustificare l'applicazione della norma censurata anche alle indagini preliminari, si avvale di argomentazioni di natura semantica e sistematica.

Sotto il profilo semantico, il rimettente afferma, innanzi tutto, che la locuzione «processi penali» (contenuta nell'art. 1, comma 1, della legge n. 124 del 2008) non può essere interpretata in senso tecnico, in modo tale da essere restrittivamente riferita al solo giudizio dibattimentale. Il legislatore avrebbe infatti adottato, in questo caso, una locuzione generica, idonea a ricomprendere nella nozione di “processo” anche la fase delle indagini preliminari. Inoltre, assume che il termine «fase» (contenuto nel comma 7 dell'art. 1) non può che riferirsi − per avere un significato plausibile − alla fase delle indagini preliminari, posto che «non è ipotizzabile, per il giudizio dibattimentale, una fase che non sia quella in cui lo stesso è per l'appunto pervenuto».

Sotto il profilo sistematico, il giudice rimettente afferma che il comma 3 del medesimo art. 1 − stabilendo che «la sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l'assunzione di prove non rinviabili» − comporta necessariamente che la sospensione si applica anche alle fasi antecedenti al processo «inteso come giudizio dibattimentale pubblico», dal momento che solo nella fase delle indagini preliminari e in quella dell'udienza preliminare è consentito il ricorso all'acquisizione anticipata delle prove mediante incidente probatorio. Il primo degli articoli richiamati disciplina i casi in cui si procede con incidente probatorio; il secondo fa riferimento al precedente al fine di disciplinare l'assunzione delle prove non rinviabili. Dal richiamo congiunto a tali articoli il rimettente desume la corrispondenza biunivoca tra incidente probatorio e indagini preliminari.

 

3.2. – Nessuno di tali argomenti giustifica la conclusione cui il rimettente è pervenuto, vale a dire l'applicabilità della sospensione anche alle indagini preliminari. Infatti, risulta contraddittorio evocare in modo discontinuo – come fa il rimettente – il rigore linguistico del testo normativo: rigore, da un lato, escluso con riferimento alla locuzione «processo penale» e, dall'altro, affermato con riferimento al termine «fase». Inoltre, va rilevato che quest'ultimo termine − che non trova precisa connotazione nel sistema processuale penale − può denotare, in senso ampio e nell'uso comune, un punto o uno stadio della procedura, indifferentemente riferibile tanto alle “fasi del procedimento”, quanto a quelle del processo. Neppure il richiamo che la disposizione censurata fa agli artt. 392 e 467 cod. proc. pen. comporta necessariamente che la sospensione si estenda alle fasi antecedenti al processo. In realtà - in forza della giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 77 del 1994) - non esiste alcuna preclusione all'esperimento dell'incidente probatorio durante l'udienza preliminare, la quale costituisce una fase del processo estranea a quella delle indagini preliminari. Il richiamo alla disciplina dell'incidente probatorio e dell'assunzione delle prove non rinviabili - lungi dal comprovare una reciproca implicazione tra tali istituti e le indagini preliminari - vale solo a rimarcare il necessario presupposto dell'assunzione di tali prove, e cioè il connotato dell'urgenza.

 

3.3. – Ulteriori considerazioni confortano un'interpretazione diversa da quella del rimettente.

A prescindere, infatti, dall'inequivoca volontà manifestata dal legislatore storico, quale si trae dai lavori preparatori (ad esempio, l'intervento del Ministro della giustizia nella seduta antimeridiana del 22 luglio 2008 dell'Assemblea del Senato), ai fini dell'esclusione della fase delle indagini preliminari dal meccanismo sospensivo, è decisivo il rilievo delle conseguenze irragionevoli che originerebbero dalla diversa opzione interpretativa. Infatti, se la sospensione fosse applicata fin dalla fase delle indagini, vi sarebbe un grave pregiudizio all'esercizio dell'azione penale, perché tale esercizio sarebbe non soltanto differito, ma sostanzialmente alterato, per l'estrema difficoltà di reperire le fonti di prova a distanza di diversi anni. Cosí interpretata, la disposizione censurata comporterebbe il rischio di una definitiva sottrazione dell'imputato alla giurisdizione; e ciò anche dopo la cessazione dall'alta carica.

La stessa interpretazione avrebbe poi il paradossale ed irragionevole effetto - anche sul diritto di difesa della persona sottoposta alle indagini - di non consentire lo svolgimento delle indagini preliminari neanche nel caso in cui altre attività procedimentali per le quali non è applicabile la sospensione prevista dalla norma denunciata (come, ad esempio, l'applicazione di misure cautelari e l'arresto obbligatorio in flagranza) fossero già state poste in essere.

 

3.4. – Può, quindi, affermarsi che l'interpretazione del giudice rimettente contrasta con il tenore letterale della disposizione e conduce a risultati disarmonici rispetto al principio costituzionale di ragionevolezza. Da ciò deriva che le questioni prospettate con l'ordinanza di rimessione r.o. n. 9 del 2009 dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Roma sono inammissibili per difetto di rilevanza, perché il rimettente non deve fare applicazione della norma oggetto del dubbio di costituzionalità.

 

4. – L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l'inammissibilità per irrilevanza di tutte le questioni sollevate, per la parte in cui esse riguardano disposizioni non applicabili al Presidente del Consiglio dei ministri, sul rilievo che nei giudizi principali è imputato solo il titolare di quest'ultima carica e non i titolari delle altre cariche dello Stato cui si riferisce l'articolo censurato.

L'eccezione non è fondata.

Si deve, infatti, rilevare che le disposizioni censurate costituiscono, sul piano oggettivo, una disciplina unitaria, che riguarda inscindibilmente le alte cariche dello Stato in essa previste, con la conseguenza che un'eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale limitata alle norme riguardanti solo una di tali cariche aggraverebbe l'illegittimità costituzionale della disciplina, creando ulteriori motivi di disparità di trattamento. Pertanto, ove questa Corte riscontrasse profili di disparità di trattamento della disciplina censurata che riguardassero tutte le alte cariche dello Stato, la pronuncia di illegittimità costituzionale dovrebbe necessariamente estendersi a tutte le disposizioni denunciate.

A tali considerazioni si deve aggiungere che la sentenza n. 24 del 2004 ha implicitamente – ma chiaramente − ritenuto sussistente l'indicata inscindibilità della disciplina relativa alle alte cariche dello Stato, perché, in un caso analogo, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'intero art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), con riferimento a tutte le cariche dello Stato in esso menzionate, nonostante che il giudizio principale riguardasse solo il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

5. – Occorre ora passare all'esame del merito delle questioni prospettate.

Il Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008) censura i commi 1 e 7 dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, in riferimento all'art. 136 Cost., per violazione del giudicato costituzionale formatosi sulla sentenza n. 24 del 2004. Il rimettente lamenta che i commi censurati hanno «riproposto la medesima disciplina» prevista dalla legge n. 140 del 2003, dichiarata incostituzionale con detta sentenza.

La questione non è fondata.

Come questa Corte ha piú volte affermato (ex multis, sentenze n. 78 del 1992, n. 922 del 1988), perché vi sia violazione del giudicato costituzionale è necessario che una norma ripristini o preservi l'efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale.

Nel caso di specie, il legislatore ha introdotto una disposizione che non riproduce un'altra disposizione dichiarata incostituzionale, né fa a quest'ultima rinvio. La disposizione presenta, invece, significative novità normative, quali, ad esempio, la rinunciabilità e la non reiterabilità della sospensione dei processi penali (commi 2 e 5), nonché una specifica disciplina a tutela della posizione della parte civile (comma 6), cosí mostrando di prendere in considerazione, sia pure parzialmente, la sentenza n. 24 del 2004. È, del resto, sul riconoscimento di tali novità che si basano le note del Presidente della Repubblica - richiamate dal rimettente e dalle parti - che hanno accompagnato sia l'autorizzazione alla presentazione alle Camere del disegno di legge in materia di processi penali alle alte cariche dello Stato sia la successiva promulgazione della legge. Né può sostenersi che, nel caso di specie, la violazione del giudicato costituzionale derivi dal fatto che alcune disposizioni dell'art. 1 – quali i censurati commi 1 e 7 – riproducono le disposizioni già dichiarate incostituzionali. Si deve infatti rilevare, in contrario, che lo scrutinio di detta violazione deve tenere conto del complesso delle norme che si succedono nel tempo, senza che abbia rilevanza l'eventuale coincidenza di singole previsioni normative.

 

6. – Con le due citate ordinanze di rimessione, il Tribunale di Milano solleva altresí questioni di legittimità costituzionale, evocando a parametro, ora congiuntamente ora disgiuntamente, le norme costituzionali in materia di prerogative (artt. 68, 90 e 96 Cost.) e gli artt. 3 e 138 Cost. Tali questioni – al di là della loro formulazione testuale, piú o meno precisa – debbono essere distinte in due diversi gruppi, a seconda dell'effettivo contenuto delle censure: a) un primo gruppo è prospettato con riferimento alla violazione del combinato disposto degli artt. 3, primo comma, e 138 Cost., in relazione alle norme costituzionali in materia di prerogative, sotto il profilo della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, sia in generale sia nell'àmbito delle alte cariche dello Stato; b) un secondo gruppo è prospettato anch'esso con riferimento alla violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo, però, dell'irragionevolezza intrinseca della disciplina denunciata. Tali diverse prospettazioni devono essere trattate separatamente.

 

7. – Quanto al primo dei suddetti gruppi di questioni, il rimettente Tribunale muove dalla premessa che la Costituzione disciplina i rapporti tra gli organi costituzionali (o di rilievo costituzionale) e la giurisdizione penale, prevedendo, a tutela della funzione svolta da quegli organi, un numerus clausus di prerogative, derogatorie rispetto al principio dell'uguaglianza davanti alla giurisdizione. Da tale premessa il giudice a quo deriva la conseguenza che la disposizione censurata si pone contemporaneamente in contrasto sia con l'art. 3 Cost., perché - con riferimento alle norme costituzionali in materia di prerogative - introduce una ingiustificata eccezione al suddetto principio di uguaglianza davanti alla giurisdizione, sia con l'art. 138 Cost., perché tale eccezione si sarebbe dovuta introdurre, se mai, con disposizione di rango costituzionale.

 

7.1. – Con riguardo al medesimo primo gruppo di questioni, la difesa erariale ne eccepisce l'inammissibilità per l'inadeguata indicazione del parametro evocato ed afferma, a sostegno di tale eccezione, che l'evocazione, da parte del rimettente, del solo art. 138 Cost. – il quale si limita a disciplinare il procedimento di adozione ed approvazione delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali – non è sufficiente ad individuare le altre disposizioni costituzionali dalle quali possa essere desunto l'interesse che il giudice a quo ritiene incompatibile con la norma censurata.

L'eccezione non è fondata.

Come si è sopra osservato, entrambe le ordinanze di rimessione non si limitano a denunciare la violazione dell'art. 138 Cost. quale mera conseguenza della violazione di una qualsiasi norma della Costituzione. Esse, infatti, non si basano sulla considerazione – di carattere generico e formale – che, in tal caso, solo una fonte di rango costituzionale sarebbe idonea (ove non violasse a sua volta princípi supremi, insuscettibili di revisione costituzionale) ad escludere il contrasto con la Costituzione. Al contrario, il Tribunale rimettente prospetta una questione specifica e di carattere sostanziale, in quanto denuncia - con adeguata indicazione dei parametri - la violazione del principio di uguaglianza facendo espresso riferimento alle prerogative degli organi costituzionali.

 

7.2. – La difesa della parte privata e la difesa erariale deducono, inoltre, che questioni sostanzialmente identiche a quelle riferite all'art. 138 Cost. ed oggetto dei presenti giudizi di costituzionalità sono state già scrutinate e dichiarate non fondate da questa Corte con la sentenza n. 24 del 2004, riguardante l'art. 1 della legge n. 140 del 2003, del tutto analogo, sul punto, al censurato art. 1 della legge n. 124 del 2008. In proposito, le suddette difese affermano che la citata sentenza, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 140 del 2003 per la violazione solo degli artt. 3 e 24 Cost., ha implicitamente rigettato la pur prospettata questione, riferita all'art. 138 Cost., circa l'inidoneità della legge ordinaria a disporre la sospensione del processo penale instaurato nei confronti delle alte cariche dello Stato. In particolare, le medesime difese sostengono che tale ultima questione costituiva un punto logicamente e giuridicamente pregiudiziale della decisione e, perciò, non era suscettibile di assorbimento nella pronuncia di illegittimità costituzionale per la violazione di altri parametri. In questa prospettiva, viene ulteriormente osservato che la suddetta sentenza n. 24 del 2004: a) là dove afferma che è legittimo che il «legislatore» preveda una sospensione del processo penale per esigenze extraprocessuali, va interpretata nel senso che anche il “legislatore ordinario” può prevedere una sospensione del processo penale a tutela delle alte cariche dello Stato; b) là dove afferma che l'«apprezzabile» interesse «pubblico» ad «assicurare il sereno svolgimento delle funzioni» inerenti alle alte cariche dello Stato deve essere tutelato «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto», va intesa nel senso che la legge ordinaria può ben essere adottata in materia, anche se deve operare un bilanciamento con i princípi di cui agli artt. 3 e 24 Cost. Su queste premesse, la difesa della parte privata e la difesa erariale eccepiscono che le ordinanze n. 397 e n. 398 del 2008 non prospettano profili nuovi o diversi da quelli già implicitamente valutati dalla Corte, con conseguente inammissibilità o manifesta infondatezza delle questioni riferite al combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alle norme costituzionali in materia di prerogative.

Anche tale eccezione non è fondata.

In primo luogo, è indubbio che la Corte non si è pronunciata sul punto. La sentenza n. 24 del 2004, infatti, non esamina in alcun passo la questione dell'idoneità della legge ordinaria ad introdurre la suddetta sospensione processuale.

In secondo luogo, non si può ritenere che tale sentenza contenga un giudicato implicito sul punto. Ciò perché, quando si è in presenza di questioni tra loro autonome per l'insussistenza di un nesso di pregiudizialità, rientra nei poteri di questa Corte stabilire, anche per economia di giudizio, l'ordine con cui affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre (sentenze n. 464 del 1992 e n. 34 del 1961). In tal caso, l'accoglimento di una qualunque delle questioni, comportando la caducazione della disposizione denunciata, è infatti idoneo a definire l'intero giudizio di costituzionalità e non implica alcuna pronuncia sulle altre questioni, ma solo il loro assorbimento. È quanto avvenuto, appunto, con la citata sentenza n. 24 del 2004, la quale, in applicazione di detti princípi e in relazione alle stesse modalità di prospettazione delle questioni, ha privilegiato l'esame dei fondamentali profili di uguaglianza e ragionevolezza ed ha dichiarato «assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale», lasciando cosí impregiudicata la questione riferita all'art. 138 Cost. La violazione di princípi e diritti fondamentali, particolarmente sottolineati dal rimettente dell'epoca – come il diritto di difesa, l'uguaglianza tra organi costituzionali e la ragionevolezza –, emergeva, infatti, in modo immediato e non discutibile dalla stessa analisi del meccanismo intrinseco di funzionamento del beneficio, cosí da rendere non necessaria ogni ulteriore indagine in merito alle altre questioni sollevate e, quindi, anche a quelle concernenti l'idoneità della fonte, sia essa di rango ordinario o costituzionale.

In terzo luogo, la mancata trattazione del punto consente in ogni caso al rimettente la proposizione di una questione analoga a quella già sollevata nel giudizio di cui alla sentenza n. 24 del 2004. Trova infatti applicazione, nella specie, il principio giurisprudenziale secondo cui le questioni di legittimità costituzionale possono essere riproposte sotto profili diversi da quelli esaminati dalla Corte con la pronuncia di rigetto (ex plurimis: sentenze n. 257 del 1991, n. 210 del 1976; ordinanze n. 218 del 2009, n. 464 del 2005, n. 356 del 2000). Ne consegue che la questione riferita all'art. 138 Cost., posta dal Tribunale di Milano, non può essere risolta con il mero richiamo alla sentenza n. 24 del 2004, ma deve essere scrutinata funditus da questa Corte, tanto piú che detta questione ha ad oggetto una mutata disciplina legislativa.

 

7.3. – La denunciata violazione degli artt. 3 e 138 Cost. è argomentata dal Tribunale rimettente sulla base dei seguenti due distinti assunti: a) tutte le prerogative di organi costituzionali, in quanto derogatorie rispetto al principio di uguaglianza, devono essere stabilite con norme di rango costituzionale; b) la norma denunciata introduce un'ipotesi di sospensione del processo penale, che si risolve in una prerogativa, perché è diretta a salvaguardare il regolare funzionamento non già del processo, ma di alcuni organi costituzionali.

Ciascuno di tali assunti esige uno specifico esame da parte di questa Corte.

 

7.3.1. – Il primo, relativo alla necessità che le prerogative abbiano copertura costituzionale, è corretto.

Sul punto va precisato che le prerogative costituzionali (o immunità in senso lato, come sono spesso denominate) si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali attraverso la protezione dei titolari delle cariche ad essi connesse. Esse si sostanziano – secondo una nozione su cui v'è costante e generale consenso nella tradizione dottrinale costituzionalistica e giurisprudenziale – in una specifica protezione delle persone munite di status costituzionali, tale da sottrarle all'applicazione delle regole ordinarie. Le indicate prerogative possono assumere, in concreto, varie forme e denominazioni (insindacabilità; scriminanti in genere o immunità sostanziali; inviolabilità; immunità meramente processuali, quali fori speciali, condizioni di procedibilità o altro meccanismo processuale di favore; deroghe alle formalità ordinarie) e possono riguardare sia gli atti propri della funzione (cosiddetti atti funzionali) sia gli atti ad essa estranei (cosiddetti atti extrafunzionali), ma in ogni caso presentano la duplice caratteristica di essere dirette a garantire l'esercizio della funzione di organi costituzionali e di derogare al regime giurisdizionale comune. Si tratta, dunque, di istituti che configurano particolari status protettivi dei componenti degli organi; istituti che sono, al tempo stesso, fisiologici al funzionamento dello Stato e derogatori rispetto al principio di uguaglianza tra cittadini.

Il problema dell'individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, come già rilevato da questa Corte, «alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del 2004) e, dall'altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi. Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai princípi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peiusin melius.

Tale conclusione, dunque, non deriva dal riconoscimento di una espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative sono sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale. Tali sono, ad esempio, le norme che attengono alle funzioni connesse alle alte cariche considerate dalla norma denunciata, come: l'art. 68 Cost., il quale prevede per i parlamentari (e, quindi, anche per i Presidenti delle Camere) alcune prerogative sostanziali e processuali in relazione sia a reati funzionali (primo comma) sia a reati anche extrafunzionali (secondo e terzo comma); l'art. 90 Cost., il quale prevede l'irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; l'art. 96 Cost., il quale prevede per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri, anche se cessati dalla carica, la sottoposizione alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, secondo modalità stabilite con legge costituzionale.

In coerenza con siffatta impostazione, questa Corte ha chiaramente e costantemente affermato, in numerose pronunce emesse sia anteriormente che successivamente alla sentenza n. 24 del 2004, il principio – che va qui ribadito – secondo cui il legislatore ordinario, in tema di prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato. Al riguardo, la Corte ha affermato che: sono «eccezionalmente dettati, e da norme costituzionali, i casi di deroga al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale» (sentenza n. 4 del 1965); è esclusa la competenza del legislatore ordinario in materia di immunità (sentenza n. 148 del 1983); vi è «concordia della giurisprudenza, della dottrina e dello stesso legislatore, nell'escludere che, attraverso legge ordinaria, sia ammissibile un'integrazione dell'art. 68, secondo comma, Cost., e comunque la posizione di una norma che attribuisca analoghe prerogative» idonee a derogare all'art. 112 Cost. (sentenza n. 300 del 1984); l'art. 3 della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui costituisce attuazione del primo comma dell'art. 68 Cost., non víola la Costituzione, perché non comporta «un indebito allargamento della garanzia dell'insindacabilità apprestata dalla norma costituzionale», ma «può considerarsi di attuazione, e cioè finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell'art. 68, primo comma, della Costituzione» (sentenza n. 120 del 2004); il medesimo art. 3 della legge n. 140 del 2003 è una norma finalizzata «a garantire, sul piano procedimentale, un efficace e corretto funzionamento della prerogativa parlamentare» di cui al primo comma dell'art. 68 Cost. (sentenza n. 149 del 2007, che richiama la citata sentenza n. 120 del 2004).

Né può obiettarsi che le prerogative possono essere introdotte anche dalla legge ordinaria, come avverrebbe per le immunità diplomatiche previste da convenzioni internazionali, le quali, secondo la difesa della parte privata, non trovano copertura nell'art. 10 Cost., in quanto previste non dalle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», ma da trattati internazionali recepiti con legge ordinaria. In proposito, va osservato che la questione posta all'esame di questa Corte attiene esclusivamente alle prerogative dei componenti e dei titolari di organi costituzionali e non alle immunità diplomatiche, le quali ultime, oltretutto, sono contemplate in leggi ordinarie che riproducono o, comunque, attuano norme internazionali generalmente riconosciute e, quindi, trovano copertura nell'art. 10 Cost. (sulla riconducibilità delle immunità diplomatiche previste da convenzioni internazionali alla categoria delle norme internazionali generalmente riconosciute, ex multis, sentenza n. 48 del 1979). Anche la disciplina speciale sulle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri in ordine ai reati funzionali commessi da costoro e da soggetti concorrenti, prevista dalla legge ordinaria 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'art. 90 della Costituzione) – anch'essa invocata a conforto della tesi della parte privata –, costituisce, del resto, mera attuazione della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione) ed ha, dunque, copertura costituzionale.

Neppure può invocarsi, a sostegno della tesi dell'idoneità della legge ordinaria a prevedere prerogative di organi di rilievo costituzionale, la citata sentenza di questa Corte n. 148 del 1983, la quale ha ritenuto conforme a Costituzione la legge ordinaria sulla insindacabilità delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della magistratura nell'esercizio delle loro funzioni e concernenti l'oggetto della discussione. Detta sentenza ha affermato il principio secondo cui il legislatore ordinario non ha competenza nella materia delle immunità, perché queste «abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali». La Corte, con tale pronuncia, ha infatti ritenuto che la legge ordinaria è fonte idonea a prevedere l'indicata insindacabilità solo in considerazione del fatto che quest'ultima trova una precisa copertura costituzionale, essendo «rigorosamente circoscritta» alle «sole manifestazioni del pensiero funzionali all'esercizio dei poteri-doveri costituzionalmente spettanti ai componenti il Consiglio superiore» della magistratura e realizza un «ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco».

È, infine, irrilevante il fatto che il titolare di un'alta carica potesse addurre, anche prima della entrata in vigore della norma denunciata ed in mancanza di una specifica norma costituzionale di prerogativa, il proprio legittimo impedimento a comparire nel processo penale in ragione dei propri impegni istituzionali. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della parte privata, ciò non dimostra affatto l'erroneità dell'assunto secondo cui le prerogative dei componenti e dei titolari degli organi costituzionali devono essere previste da norme di rango costituzionale. La deducibilità del legittimo impedimento a comparire nel processo penale, infatti, non costituisce prerogativa costituzionale, perché prescinde dalla natura dell'attività che legittima l'impedimento, è di generale applicazione e, perciò, non deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione. Si tratta, dunque, di uno strumento processuale posto a tutela del diritto di difesa di qualsiasi imputato, come tale legittimamente previsto da una legge ordinaria come il codice di rito penale, anche se tale strumento, nella sua pratica applicazione, va modulato in considerazione dell'entità dell'impegno addotto dall'imputato (sentenze richiamate infra al punto 7.3.2.1.).

 

7.3.2. – Il rimettente prosegue la sua argomentazione a sostegno della sollevata questione di legittimità costituzionale assumendo altresí, come sopra detto, che la norma denunciata costituisce una prerogativa, perché introduce, tramite una legge ordinaria, un'ipotesi di sospensione del processo penale che si risolve in una deroga al principio di uguaglianza.

Anche tale assunto è corretto.

Per giungere a tale conclusione occorre, in primo luogo, individuare – come messo in evidenza sia dai rimettenti che dalle difese – la ratio della disposizione censurata e, in secondo luogo, valutare la sussistenza della denunciata disparità di trattamento. In relazione ad entrambi tali aspetti, occorre prendere le mosse dalla citata sentenza n. 24 del 2004, la quale – pur avendo limitato l'esame dell'art. 1 della legge n. 140 del 2003, analogo all'art. 1 della legge n. 124 del 2008, ai soli profili relativi alla violazione del diritto di difesa, all'irragionevolezza e all'uguaglianza tra organi costituzionali (come sopra rilevato al punto 7.2.) – fornisce importanti e precise indicazioni al riguardo.

 

7.3.2.1. – Quanto all'individuazione della ratio, va rilevato che, con riferimento al citato art. 1 della legge n. 140 del 2003, la sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 ha chiarito che: a) la sospensione del processo penale prevista da quella norma per le alte cariche dello Stato (caratterizzata dalla generalità, automaticità e dalla durata non determinata) è finalizzata alla «soddisfazione di esigenze extraprocessuali»; b) tali esigenze consistono nella «protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione», e cioè nell'«apprezzabile interesse» ad assicurare «il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche»; c) detto interesse va tutelato in armonia con i princípi fondamentali dello «Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale»; d) la sospensione, dunque, è «predisposta […] alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto»; e) ove si ritenesse (in base ad «un modo diverso, ma non opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma») che il legislatore, in considerazione dell'«interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche», abbia stimato tale svolgimento alla stregua di «un legittimo impedimento a comparire» nel processo penale ed abbia, perciò, «voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento», la misura della sospensione processuale «anche sotto questo aspetto […] appare diretta alla protezione della funzione».

Da tali inequivoche affermazioni discende il corollario che la sospensione processuale prevista dalla legge n. 140 del 2003 ha la ratiodi proteggere la funzione pubblica, assicurando ai titolari delle alte cariche il sereno svolgimento delle loro funzioni (e, indirettamente, di quelle dell'organo al quale essi appartengono) attraverso l'attribuzione di uno specifico status protettivo. Non viene in rilievo, dunque, l'aspetto psicologico, individuale e contingente, della soggettiva serenità del singolo titolare della carica statale, ma solo l'obiettiva protezione del regolare svolgimento delle attività connesse alla carica stessa. Dalle sopra citate affermazioni discende, altresí, l'ulteriore corollario che è inesatto sostenere che l'istituto della sospensione processuale e quello della prerogativa costituzionale sono tra loro incompatibili. Infatti, anche una sospensione processuale può essere prevista dall'ordinamento per soddisfare l'esigenza extraprocessuale di proteggere lo svolgimento della funzione propria di un organo costituzionale e, pertanto, può costituire lo strumento di una specifica prerogativa costituzionale.

Perché queste conclusioni riferite alla sospensione prevista dall'art. 1 della legge n. 140 del 2003 possano considerarsi valide anche per la sospensione prevista dalla norma censurata, è necessario, però, valutare se le due norme abbiano la medesima ratio.

Ad avviso della difesa della parte privata, la diversità di disciplina della sospensione di cui alla legge n. 140 del 2003 rispetto a quella di cui alla legge n. 124 del 2008 comporta la radicale diversità delle rispettive rationes. Al riguardo, la medesima difesa sottolinea che, a differenza della precedente, la normativa denunciata prevede la rinunciabilità e la non reiterabilità della sospensione del processo, con la conseguenza che detta normativa ha la finalità di tutelare (in via esclusiva o principale) non già la funzione inerente alla carica, ma il diritto di difesa garantito all'imputato dalla Costituzione e, quindi, di soddisfare esigenze proprie del processo. In forza della cosí individuata ratio legis, la parte privata esclude che la norma denunciata introduca una vera e propria prerogativa costituzionale ed afferma che, pertanto, la sospensione processuale in esame è stata legittimamente introdotta con legge ordinaria. A conferma della sopra indicata ratio legis, la suddetta parte privata osserva che la finalità della tutela della difesa dell'imputato non è contraddetta dal principio della non reiterabilità della sospensione in caso di assunzione di una nuova carica, perché la legge considera l'assunzione del munus publicum come un legittimo impedimento solo per «la durata di un mandato», che rappresenta «il periodo di tempo […] sufficiente […] per affrontare contemporaneamente gli impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale».

Tale ricostruzione delle finalità della norma non può essere condivisa, per una pluralità di ragioni.

Va innanzitutto osservato che la stessa relazione al disegno di legge AC 1442 (che si è poi tradotto nella legge n. 124 del 2008) identifica espressamente la ratio dellasospensione nell'esigenza di tutelare i princípi di «continuità e regolarità nell'esercizio delle piú alte funzioni pubbliche» e non nella soddisfazione di esigenze difensive.

In secondo luogo, va rilevato che la disposizione denunciata non può avere la finalità, prevalente o esclusiva, di tutelare il diritto di difesa degli imputati, perché in tal caso – data la generalità di tale diritto, quale espressamente prevista dall'art. 24 Cost. in relazione al principio di uguaglianza – avrebbe dovuto applicarsi a tutti gli imputati che, in ragione della propria attività, abbiano difficoltà a partecipare al processo penale. Inoltre, sarebbe intrinsecamente irragionevole e sproporzionata, rispetto alla suddetta finalità, la previsione di una presunzione legale assoluta di legittimo impedimento derivante dal solo fatto della titolarità della carica. Tale presunzione iuris et de iure impedirebbe, infatti, qualsiasi verifica circa l'effettiva sussistenza dell'impedimento a comparire in giudizio e renderebbe operante la sospensione processuale anche nei casi in cui non sussista alcun impedimento e, quindi, non vi sia, in concreto, alcuna esigenza di tutelare il diritto di difesa. La scelta del legislatore di aver riguardo esclusivamente ad alcune alte cariche istituzionali e di prevedere l'automatica sospensione del processo, senza alcuna verifica caso per caso dell'impedimento, evidenzia, dunque, che l'unica ratio compatibile con la norma censurata è proprio la protezione delle funzioni connesse all'«alta carica».

In terzo luogo, va ulteriormente osservato che il legittimo impedimento a comparire ha già rilevanza nel processo penale e non sarebbe stata necessaria la norma denunciata per tutelare, sotto tale aspetto, la difesa dell'imputato impedito a comparire nel processo per ragioni inerenti all'alta carica da lui rivestita. Come questa Corte ha rilevato, la sospensione del processo per legittimo impedimento a comparire disposta ai sensi del codice di rito penale contempera il diritto di difesa con le esigenze dell'esercizio della giurisdizione, differenziando la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico e generale (sentenze n. 451 del 2005, n. 391 e n. 39 del 2004 e n. 225 del 2001). E se l'esigenza della tutela del diritto di difesa è già adeguatamente soddisfatta in via generale dall'ordinamento con l'istituto del legittimo impedimento, non può che conseguirne anche la irrilevanza della rinunciabilità della sospensione quale elemento per individuare la ratio della disposizione.

In quarto luogo, va infine sottolineato che anche la caratteristica della non reiterabilità della sospensione in caso di assunzione di una nuova alta carica da parte della stessa persona fisica non è elemento idoneo a individuare la ratio della normativa denunciata, perché è incoerente rispetto a entrambe le rationes ipotizzate. Infatti, sia l'esigenza della tutela della difesa dell'imputato, sia quella della tutela della funzione permarrebbero anche in caso di assunzione della nuova carica. La normativa censurata, inoltre, fissa solo un limite massimo di durata del beneficio e non garantisce affatto – contrariamente a quanto afferma la parte privata – un periodo minimo per approntare la difesa, né tantomeno garantisce il periodo minimo pari alla «durata di un mandato» (si consideri, ad esempio, il caso in cui il giudizio penale venga instaurato nei confronti del titolare della carica poco prima della cessazione di essa ed il medesimo soggetto persona fisica assuma, subito dopo, una nuova carica).

Deve perciò concludersi che la ratio della norma denunciata, al pari di quella della norma oggetto della sentenza di questa Corte n. 24 del 2004, va individuata nella protezione delle funzioni di alcuni organi costituzionali, realizzata attraverso l'introduzione di una peculiare sospensione del processo penale.

 

7.3.2.2. – Chiarito che la protezione della funzione costituisce la ratio della norma censurata, occorre ora accertare se la sospensione disciplinata dalla norma in questione abbia l'ulteriore caratteristica delle prerogative, e cioè quella di derogare al principio di uguaglianza creando una disparità di trattamento.

La risposta a tale domanda deve essere positiva.

La piú volte citata sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 ha precisato, sia pure con riferimento all'art. 1 della legge n. 140 del 2003, che la sospensione processuale per gli imputati titolari di alte cariche «crea un regime differenziato riguardo all'esercizio della giurisdizione […]», regime che va posto a raffronto con il principio – anch'esso richiamato dalla suddetta sentenza – della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, fissato dall'art. 3 Cost.

Non vi è dubbio che tali rilievi valgono anche per il censurato art. 1 della legge n. 124 del 2008. La denunciata sospensione è, infatti, derogatoria rispetto al regime processuale comune, perché si applica solo a favore dei titolari di quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica. La deroga si risolve, in particolare, in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o, ancora piú generalmente, quelle che il cittadino ha il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.).

È ben vero che il principio di uguaglianza comporta che, se situazioni uguali esigono uguale disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti discipline. Tuttavia, in base alla giurisprudenza di questa Corte citata alpunto 7.3.1., deve ribadirsi che, nel caso in cui la differenziazione di trattamento di fronte alla giurisdizione riguardi il titolare o un componente di un organo costituzionale e si alleghi, quale ragione giustificatrice di essa, l'esigenza di proteggere le funzioni di quell'organo, si rende necessario che un tale ius singulare abbia una precisa copertura costituzionale. Si è visto, infatti, che il complessivo sistema delle suddette prerogative è regolato da norme di rango costituzionale, in quanto incide sull'equilibrio dei poteri dello Stato e contribuisce a connotare l'identità costituzionale dell'ordinamento.

 

7.3.2.3. - L'accertata violazione del principio di uguaglianza rileva, poi, sicuramente anche con specifico riferimento alle alte cariche dello Stato prese in considerazione dalla norma censurata: da un lato, sotto il profilo della disparità di trattamento fra i Presidenti e i componenti degli organi costituzionali; dall'altro, sotto quello della parità di trattamento di cariche tra loro disomogenee.

 

7.3.2.3.1. - Quanto al primo profilo, va rilevato che le pur significative differenze che esistono sul piano strutturale e funzionale tra i Presidenti e i componenti di detti organi non sono tali da alterare il complessivo disegno del Costituente, che è quello di attribuire, rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.). Non è, infatti, configurabile una preminenza del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l'unità, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri e ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares.

Anche la disciplina costituzionale dei reati ministeriali conferma che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri sono sullo stesso piano. Il sistema dell'art. 96 Cost. e della legge costituzionale n. 1 del 1989 prevede, infatti, per tali cariche lo stesso regime di prerogative, limitato ai reati funzionali; regime che risulta alterato dalla previsione per il solo Presidente del Consiglio dei ministri della sospensione dei processi per reati extrafunzionali. E ciò a prescindere dall'ulteriore vulnus all'art. 3 Cost. derivante dal fatto che la normativa denunciata - al pari di quella già dichiarata incostituzionale con la citata sentenza n. 24 del 2004 - continua a prevedere, per tutti i reati extrafunzionali, un meccanismo generale e automatico di sospensione del processo, che non può trovare ragionevole giustificazione in un supposto maggiore disvalore dei reati funzionali rispetto a tutti, indistintamente, gli altri reati.

Del pari, non è configurabile una significativa preminenza dei Presidenti delle Camere sugli altri componenti, perché tutti i parlamentari partecipano all'esercizio della funzione legislativa come rappresentanti della Nazione e, in quanto tali, sono soggetti alla disciplina uniforme dell'art. 68 Cost.

Questi princípi sono già stati enunciati da questa Corte con la citata sentenza n. 24 del 2004, dove si afferma, in relazione all'art. 1 della legge n. 140 del 2003, che «La Corte ritiene che anche sotto altro profilo l'art. 3 Cost. sia violato dalla norma censurata. Questa, infatti, […] distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Né a tali conclusioni può opporsi - come fa la difesa della parte privata - che il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe assunto una posizione costituzionale differenziata rispetto a quella dei ministri in forza della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), che ha introdotto nel d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), l'art. 14-bis, secondo cui, nel procedimento elettorale è necessaria la formale indicazione preventiva del capo della forza politica o della coalizione. Si deve, infatti rilevare che tale legge, in quanto fonte di rango ordinario, non è idonea a modificare la posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri.

 

7.3.2.3.2. - In relazione all'ulteriore profilo della parità di trattamento di cariche disomogenee, deve essere ribadito quanto già affermato da questa Corte con la stessa sentenza n. 24 del 2004, secondo cui tale disomogeneità è da ricondurre sia alle «fonti di investitura», sia alla «natura delle funzioni».

Non ostano a tale conclusione le opinioni espresse nel corso dei lavori preparatori dell'articolo censurato in cui si osserva che l'elemento che accomuna tali cariche è che tutte «trovano la propria legittimazione – in via diretta o mediata – nella volontà popolare» e nella «natura politica» della funzione esercitata. In contrario si deve rilevare, infatti, che la “legittimazione popolare” e la “natura politica della funzione” sono elementi troppo generici, perché comuni anche ad altri organi, statali e non statali (quali, ad esempio, i singoli parlamentari o i ministri o i Presidenti delle Giunte regionali o i consiglieri regionali), e pertanto inidonei a configurare un'omogeneità di situazioni che giustifichi una parità di trattamento quanto alle prerogative.

 

7.3.3. – In base alle osservazioni che precedono, si deve concludere che la sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un'evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale. Essa, dunque, non costituisce fonte di rango idoneo a disporre in materia.

 

8. - Deve, pertanto, dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.

Restano assorbite le questioni relative all'irragionevolezza intrinseca della denunciata disciplina, indicate al punto 6, lettera b), e ogni altra questione non esaminata.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato);

 

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124 del 2008, sollevate dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, in riferimento agli articoli 3, 111, 112 e 138 Cost., con l'ordinanza r.o. n. 9 del 2009 indicata in epigrafe.

 

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2009.

 

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 ottobre 2009.

 

 

Allegato:

ordinanza letta all'udienza del 6 ottobre 2009

 

ORDINANZA

 

Ritenutoche il Procuratore della Repubblica ed il sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con memorie depositate il 7 gennaio 2009, si sono costituiti nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale introdotti dal Tribunale di Milano con le ordinanze del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008) e del 4 ottobre 2008 (r.o. n. 398 del 2008);

 

che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 361 del 1998, n. 1 e n. 375 del 1996; ordinanza n. 327 del 1995), la costituzione del pubblico ministero nel giudizio incidentale di costituzionalità è inammissibile;

 

che tale giurisprudenza trae argomento, essenzialmente, dalle disposizioni che disciplinano il processo costituzionale (articoli 20, 23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87; articoli 3 e 17 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale del 16 marzo 1956 e successive modificazioni; articoli 3 e 16 delle Norme integrative davanti alla Corte costituzionale del 7 ottobre 2008), le quali, per un verso, non prevedono espressamente la costituzione del pubblico ministero nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale e, per altro verso, distinguono costantemente il «pubblico ministero» dalle «parti» ed attribuiscono solo a queste ultime la facoltà di costituirsi in detti giudizi di costituzionalità, impedendo, così, ogni interpretazione estensiva od analogica volta ad attribuire la medesima facoltà al pubblico ministero;

 

che tali conclusioni vanno mantenute anche con riguardo all'attuale formulazione dell'art. 111, secondo comma, della Costituzione, come sostituito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, il quale stabilisce che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità»;

 

che, infatti, questa Corte ha più volte precisato che la parità tra accusa e difesa affermata dal citato precetto costituzionale − il quale ha conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali» (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001) − non comporta necessariamente, nel processo penale, l'identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato, potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» (sentenza n. 26 del 2007; ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003 ed altre; nonché, sulla base del previgente testo dell'art. 111 Cost.: sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 ed altre ancora);

 

che, a maggior ragione, il principio costituzionale della parità delle parti – dovendosi modulare in ragione sia della specificità della posizione dei diversi soggetti processuali, sia delle particolarità delle fattispecie, sia delle peculiari esigenze dei vari processi (nella specie, del processo innanzi a questa Corte) – non implica necessariamente l'identità tra i poteri del pubblico ministero e quelli delle parti nel processo costituzionale;

 

che dunque, in armonia con tali princípi e con riferimento al pubblico ministero, è da ritenersi «non irragionevole la scelta discrezionale del legislatore di distinguere tale organo rispetto alle parti del procedimento a quo, non prevedendone la legittimazione a costituirsi nel giudizio sulle leggi» (sentenza n. 361 del 1998).

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la costituzione del Procuratore della Repubblica e del sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano nei giudizi introdotti dalle ordinanze di rimessione registrate al n. 397 ed al n. 398 del 2008.

Francesco AMIRANTE, Presidente


Corte di Cassazione

 


 

 

Cass. pen. Sez. VI, (ud. 09-02-2004) 09-03-2004, n. 10773

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE SESTA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FULGENZI Renato - Presidente -

Dott. DE ROBERTO Giovanni - Consigliere -

Dott. MARTELLA Ilario - Consigliere -

Dott. COLLA Giorgio - rel. est. Consigliere -

Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

sul ricorso proposto da:

Maroni Roberto, n. a Varese il 15 marzo 1955;

Bossi Umberto n. a Cassano Magnago il 19 settembre 1941;

Borghezio Mario, n. a Torino il 3 novembre 1947;

Capanni Davide Carlo, n. a Brescia il 3 marzo 1967;

Martinelli Piergiorgio, n. a Tavernola Bergamasca il 24 luglio 1945;

Calderoli Roberto, n. a Bergamo il 18 maggio 1956;

 

nei confronti di:

sentenza della Corte d'appello di Milano in data 10 novembre 2001;

udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Giorgio Colla;

udito il Procuratore Generale nella persona del Sostituto Dott. Elisabetta Cesqui che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza;

uditi i difensori avvocati Bianchi per le parti civili; Anetrini, Ghedini, Brigandi', Forchino, Longo e Carena per gli imputati.

-

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. - Con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello di Milano, in parziale riforma di quella del Pretore della citta' in data 22 luglio 1998, assolveva gli onorevoli Roberto Maroni, Umberto Bossi, Mario Borghezio, Davide Carlo Capanni, Piergiorgio Martinelli e Roberto Calderoli dal reato di oltraggio, perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato a seguito della intervenuta abrogazione dell'art. 341 c.p., e condannava, ritenuta la prevalenza delle gia' concesse attenuanti generiche sulle aggravanti, Bossi alla pena di e quattro mesi di reclusione e gli altri a quella di quattro mesi e venti giorni di reclusione per il reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui agli artt. 337 e 339 c.p.p., perche', in concorso materiale e morale tra di loro e con altre persone non identificate, ciascuno di essi rafforzando il proposito criminoso degli altri, e creando le condizioni materiali per la perpetrazione del reato, usavano violenza e minaccia nei confronti degli ufficiali della Polizia di Stato (Digos di Verona e di Milano, Ufficio prevenzione generale di Milano), che stavano procedendo a una perquisizione locale presso la sede del partito politico Lega Nord di Milano, Via Bellerio 41, ordinata dal Procuratore della Repubblica di Verona con decreti 81 - 100 - 101 RG del 17 e 18 settembre 1996.

 

1.2. - In particolare, la violenza e la minaccia erano consistite, fra l'altro, nello spingere, dare strattoni, calci e pugni agli operanti, da cui derivavano lesioni al commissario Dott. Gianluca Pallauro, all'ispettore Giordano Fanelli, all'ispettore Alfredo Degianpietro, all'ispettore Osvaldo Paolucci, all'ispettore Giovanni Amadu e agli agenti Claudio Casale, Maria Grazia Nuvoloni, Angelo Italiano, Mauro Grassetti, Antonio D'Ippolito, Carlo Bancarella e Pompeo Franciosa. Segnatamente, Umberto Bossi dava violenti strattoni all'ispettore Amadu, strappandogli il giubbino e la giacca d'ordinanza; Carlo Davide Capanni ingaggiava pianerottolo una colluttazione per impedire agli operanti di scendere le scale. Con l'aggravante di avere agito in piu' di cinque persone (fatti commessi in Milano il 18 settembre 1996, e verificatisi allorche' la perquisizione disposta a carico di Corinto Marchini - demandata dal Procuratore della Repubblica di Verona alla locale sezione Digos - veniva estesa a un locale ritenuto (perche' cosi' dichiarato dallo stesso interessato) nella disponibilita' del Marchini presso la sede di Milano del Partito Lega Nord.

 

1.3. - La Corte confermava anche le statuizioni civili del Pretore che aveva condannato gli imputati a risarcire il danno alle parti civili costituite da liquidarsi in separata sede, con provvisionale nella misura di lire 5 milioni ciascuno.

 

2. - I fatti erano ricostruiti dalla Corte d'appello come segue, tenuto anche conto delle necessarie integrazioni contenute nella sentenza di primo grado.

 

2.1. La perquisizione avveniva in modo frazionato nel senso che gli operanti, giunti presso la sede di Via Bellerio 41 la mattina, incontrata la opposizione dei presenti, decidevano di rivolgersi per istruzioni al Procuratore della Repubblica di Verona. Tornavano, quindi, posto nel pomeriggio con il provvedimento integrativo di perquisizione e l'ordine di procedere, trasmesso via telefax, dalla competente Procura di Verona. In loco, si trovavano gli imputati e altri simpatizzanti del partito, oltre che numerosi organi di stampa e della televisione. Dopo una prima contestazione sulla autenticita' del decreto di perquisizione trasmesso da Verona, gli operanti, entrati nell'androne dell'edificio, per eseguire il provvedimento dovettero affrontare e superare un cordone umano formato dagli gli imputati stessi, a eccezione di Bossi e Capanni, e da altri simpatizzanti, postisi innanzi alla scala per impedire la salita degli uomini della Polizia. Superato tale ostacolo, le forze dell'ordine salirono le scale inseguiti e ostacolati dagli astanti. Il percorso per accedere alla stanza del Marchini proseguiva per un corridoio per poi accedere a un'altra rampa, discesa la quale si giungeva a un pianerottolo che conduceva a un corridoio ove era ubicato il locale. Durante tutto questo tragitto la Polizia dovette affrontare l'assembramento di persone che si era formato, accompagnata da un coro di insulti che vedeva promotore il Borghezio. Quindi, durante tutto il tragitto - che, pur non rappresentando il piu' diretto accesso alla stanza del Marchini fu presumibilmente indicato proprio dallo stesso - si verificavano numerosi atti di aggressione fisica e verbale nei confronti dei pubblici ufficiali riconducibili alle persone di Maroni, Bossi e Calderoli, episodi tutti documentati dai filmati televisivi (che erano stati visionati dal Pretore nel corso della istruttoria dibattimentale).

 

2.2. Il primo vero e proprio episodio di violenza fu quello posto in essere dall'on.le Maroni che, come documentato dai filmati, tento' di impedire la salita della rampa di scale che dava accesso al corridoio di cui si e' detto, bloccando per le gambe gli ispettori Mastrostefano e Amadu (pagg. 13 e 14 della sentenza di primo grado).

 

2.3. pianerottolo si verificarono (sempre secondo la documentazione filmata RAI) i residui episodi specifici contestati agli imputati: 1) Calderoli spingeva alle spalle un poliziotto e Capanni lo affrontava di fronte; 2) Caparmi con una mano appoggiata alla ringhiera e con l'altra muro si rivolgeva all'ispettore Amadu dicendogli: "Tu non vai da nessuna parte"; 3) Il Dott. Pallauro veniva preso alle spalle e per il collo da Maroni; 4) Martinelli prendeva l'ispettore Amadu per il collo e alle spalle e lo tirava.

 

2.4. Pervenuti di fronte alla porta del locale da perquisire, gli operanti rinvenivano un cartello cartaceo la cui indicazione dattiloscritta specificava "Segreteria politica - Ufficio on.le Maroni". Il Dott. Pallauro, dopo un ulteriore contatto telefonico con il Procuratore della Repubblica di Verona che dava ordine di portare a termine l'operazione, provvedeva allo sfondamento della porta, operazione che tuttavia era ostacolata violentemente da tutti gli odierni imputati che aggredivano principalmente il Dott. Pallauro e l'ispettore Amadu, il quale veniva stretto fra gli imputati Maroni, Martinelli e Bossi, che lo afferrava dal davanti, mentre il Martinelli lo prendeva alla spalle. Nello scontro Bossi danneggiava sia il giubbotto che la giacca di ordinanza dell'Amadu che veniva preso per i polsi e graffiato. In questa stessa fase le maggiori difficolta' di procedere erano affrontate dal Dottor Pallauro che veniva stretto da Borghezio e Martinelli, il primo dei quali, da dietro, lo prendeva alla spalla con la mano destra, mentre con la sinistra gli prendeva la cravatta tirandola fortemente quasi a soffocarlo. Come affermato nella sentenza, la vicenda vedeva da ultimo l'on.le Maroni subire un malore e venire disteso a terra dall'agente Nuvolone, per poi essere avviato al pronto soccorso ove gli venivano riscontrate lesioni per le quali sporgeva querela.

 

3. - La Corte d'appello, dopo aver sintetizzato i passaggi fondamentali della sentenza di primo grado e dopo aver richiamato l'esito di un conflitto di attribuzione ex art. 68, comma primo, cost., risolto dalla Corte costituzionale nel senso dell'annullamento delle deliberazioni di insindacabilita' della Camera dei deputati per i fatti di cui e' processo, rilevando che gli insulti e gli atti di resistenza e violenza non sono in alcun modo atti insindacabili per i quali possa valere la prerogativa parlamentare, e dopo aver richiamato altresi' le proprie ordinanze pronunciate in udienza con le quali venivano rigettate le istanze di rinnovazione parziale del dibattimento, di differimento della udienza per legittimo impedimento di Maroni e di Bossi e di invio degli atti alla Camera dei deputati, ai sensi dell'art. 68 Cost., comma secondo, rilevava quanto segue su punti nodali del processo.

 

3.1. - Le testimonianze degli agenti operanti dovevano ritenersi pienamente attendibili in quanto trovavano un preciso riscontro nella riprese filmate effettuate da vari operatori, mentre correttamente il Pretore aveva ritenuto inattendibili le deposizioni di appartenenti ad organi di stampa diversi, quali i testi Brambilla e Usumai, le cui affermazioni erano evidentemente imprecise o perche' avevano mal percepito i fatti o perche' avevano erroneamente ricordato gli stessi. Da dette riprese audiovisive poteva cosi' confermarsi la non veridicita' dell'assunto del Maroni, secondo cui costui fu aggredito e non aggredi' gli esponenti della Polizia. Era infatti documentato che nella ascesa della rampa delle scale trovandosi a terra, e non per le percosse ricevute, tratteneva con la forza gli operanti afferrando la caviglia dell'ispettore Mastrostefano e poi le gambe dell'ispettore Amadu. Ugualmente doveva dirsi per gli episodi di resistenza attiva da parte del Borghezio, proclamatosi estraneo a detti episodi, perche' era provata documentalmente la perdita di equilibrio di quest'ultimo causata dall'intervento di un operante al quale l'imputato impediva ostinatamente con la sua persona l'accesso nella stanza da perquisire, dopo avere, in precedenza, immobilizzato il Dott. Pallauro, afferrandolo alla spalla con una mano e con l'altra tirandogli violentemente la cravatta, cosi' concorrendo pienamente nel reato, non solo col suo fattivo comportamento, ma anche rafforzando l'altrui proposito criminoso. Tali episodi escludevano, quindi, l'ipotesi della resistenza passiva caldeggiata dagli odierni ricorrenti, come provato anche dalle lesioni riportate da molti degli operanti.

 

3.2. Quanto al controverso episodio delle lesioni riportate dall'on.le Maroni, costui era caduto in terra - come rilevato in sentenza - per un improvviso malore nella fase finale dell'accesso degli operanti nella stanza da perquisire, circostanza attendibilmente confermala dalla teste Nuvoloni della Polizia che lo aveva soccorso, e forse colpito anche involontariamente in tale posizione nella ressa creatasi luogo o gia' raggiunto, presumibilmente, da spinte nel corso della vicenda che vedeva un accalcarsi incontrollato di persone, compresi giornalisti e simpatizzanti della Lega Nord.

 

3.3. I pubblici ufficiali erano comunque tenuti a portare a compimento l'ordine loro impartito. Non era discutibile la legittimita' della perquisizione a carico del Marchini nella sua stanza sita nell'immobile anche sede del partito politico, dove lo stesso Marchini accompagnava gli operanti, perquisizione non limitata alla sua abitazione, ma a tutti gli altri luoghi nella sua disponibilita'. Cio' sia con riferimento all'originario decreto di ricerca della prova sia, a maggior ragione, con riguardo al provvedimento integrativo trasmesso via telefax dal Procuratore della Repubblica di Verona. Comprovatamente gli imputati, anziche' rispettare l'operato delle forze dell'ordine, posero, dunque, in essere un'azione interdittiva di coazione fisica oltre che psichica, con innegabili manifestazioni di violenza. Si spiegavano in tal modo possibili azioni di forza degli agenti, i quali, per la tensione del momento, potevano anche avere adoperato espressioni non proprie. Ne' si sarebbero potuti ravvisare gli estremi degli atti arbitrari dei pubblici ufficiali capaci di scriminare la illegittima reazione degli imputati. Gli operanti non si comportarono affatto inurbanamente. Il Dott. Pallauro opero' con particolare prudenza, rinviando l'accesso al pomeriggio dopo l'iniziale opposizione, e ricevuta assicurazione dal Procuratore della Repubblica di Verona dal quale aveva notizia dell'emesso provvedimento integrativo dopo essersi con lui consultato telefonicamente, superata l'originaria, ingiustificata contestazione di falsita' del documento che autorizzava l'estensione della perquisizione, frazionava la stessa affrontando nell'atrio dell'immobile le accese proteste degli astanti, consentiva all'on.le Maroni di effettuare un'improvvisata conferenza stampa, e consultava, di nuovo, telefonicamente il Procuratore della Repubblica dopo la scoperta dell'inaspettato cartello apposto sulla porta della stanza che doveva essere perquisita.

 

3.4. - A tale ultimo proposito la sentenza affrontava anche la questione della eccepita illegittimita' della perquisizione sotto il profilo della arbitrarieta' degli atti dei pubblici ufficiali per il fatto che la stanza da perquisire godeva della immunita' parlamentare, ex art. 68, comma secondo, cost. e non poteva essere perquisita senza preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza dell'on.le Maroni. Rilevava la Corte d'appello che la perquisizione era legittima perche' il provvedimento era stato emesso nei confronti del Marchini che non era parlamentare. In ogni caso i pubblici ufficiali non potevano desistere dalla perquisizione disobbedendo all'ordine ricevuto. Solo nel corso della istruttoria dibattimentale si seppe che quella stanza era stata assegnata da alcuni giorni, e in via provvisoria, all'on.le Maroni, in ragione degli impegni riguardanti la formazione del "Governo della Padania", ma la circostanza fu acquisita solo a posteriori. L'ambiente oltretutto era nel seminterrato e in ala dell'edificio del tutto distinta da quella in cui si trovavano gli uffici della Lega Nord e neppure era ricompreso nel contratto di locazione fra la societa' proprietaria dell'immobile e la Lega Nord. Inoltre il cartello (foglio di carta dattiloscritto) poteva apparire inadeguato a contrassegnare un ufficio di segreteria politica, appartenente a un parlamentare: l'on.le Maroni, la mattina della perquisizione, aveva polemicamente negato, contestando che il Marchini avesse una stanza nell'edificio, che egli stesso disponesse di una stanza. Tutti tali elementi inducevano a ritenere che - al momento della perquisizione - dovesse escludersi la consapevolezza della illegittimita' e dell'arbitrarieta' dell'attivita' dei pubblici ufficiali per le perplessita' sulla effettivita' della rappresentata destinazione della stanza. Oltretutto poteva dubitarsi che l'attivita' di segreteria di un parlamentare potesse correlarsi alle funzioni proprie del membro del Parlamento in ragione dei suoi compiti istituzionali. In ogni caso, e infine, rilevava la Corte, riferendosi tale contestazione di arbitrarieta' al momento ultimativo della perquisizione, il reato di resistenza si era gia' consumato. Ne' si sarebbe potuta invocare l'esimente putativa, che per consolidato orientamento giurisprudenziale non trova applicazione con riferimento alla scriminante di cui all'art. 4 del D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, senza che potessero ravvisarsi in concreto elementi di fatto che avrebbero potuto cagionare un incolpevole errore sulla applicabilita' della scriminante.

 

3.5. - La Corte d'appello, infine, negava la sussistenza delle attenuanti di cui agli artt. 62 c.p. n. 2, 3, 4 e 5. La resistenza non risultava, infatti, motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto adopera dei pubblici ufficiali. Per quel che atteneva poi all'assembramento di persone esso era stato voluto dagli stessi imputati, artefici loro stessi della suggestione che ne derivava.

 

Motivi dei ricorsi;

 

4. - Hanno proposto ricorso per Cassazione tutti gli imputati: Maroni - Bossi - Borghezio - Capanni - Martinetti - Calderoli.

 

4.1. Bossi - Capanni - Martinelli - Calderoli hanno dedotto le seguenti censure.

 

4.2. - Limitatamente a Bossi. "Errata valutazione dell'art. 420-ter c.p.p. 1° comma". Alla data della udienza celebrata nel giudizio di secondo grado l'imputato era gia' Ministro dell'attuale Governo. Il giorno dell'udienza presento' certificazione - proveniente dal suo ufficio - attestante il legittimo impedimento (a seguito dell'attentato dell'11 settembre "vi era" in Roma, notoriamente, "una attivita' istituzionale (...) nella quale il Governo prendeva posizione su tale gravissimo attentato con rilievo internazionale"). Illegittimamente la Corte avrebbe disatteso la certificazione addirittura "contestando l'attestazione proveniente dal Ministero": Bossi era, infatti, al vertice della organizzazione ministeriale e non poteva essere che lui a sottoscrivere l'attestazione del proprio impedimento; l'impegno era comunque da tutti conosciuto ed era legittimo perche' - a differenza del parlamentare - il Ministro ha attivita' parlamentari ed extra parlamentari; queste ultime possono essere sia di rappresentanza nazionale o internazionale del Governo: "nel caso andava ad occupare, assieme ad altri membri del Governo una posizione inderogabile ed insostituibile di presenza e di rilevanza internazionale".

 

4.3. - "Violazione dell'art. 4 e 7 c.p.p.". Il reato rientrava nella competenza del tribunale e non del pretore. La contestazione e' fatta con riferimento all'art. 339 c.p. in genere e non limitatamente al primo comma. D'altra parte il reato, come si evince dalla sentenza, era stato commesso da piu' di dieci persone: era quindi applicabile l'ultimo comma dell'art. 339 c.p. (che prevede la reclusione da tre a quindici anni).

 

4.4. - "Errata applicazione dell'art. 68 Cost. 2° comma e correlativa dichiarazione di insindacabilita'". L'ufficio dell'On.le Maroni (sebbene da lui occupato da circa due settimane al momento dell'irruzione), ubicato nella sede del partito, godeva della tutela approntata dall'art. 68 Cost., comma secondo. L'attivita' compiuta dall'Onle Maroni (a prescindere dalla prassi di sollevazione del conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale da parte del giudice ove la Camera di appartenenza deliberi l'insindacabilita' dell'atto) doveva ritenersi insindacabile perche' lo stesso Maroni agi' nell'esercizio di autotutela, avendo il parlamentare il diritto di resistere di fronte a un abuso.

 

4.5. - Limitatamente a Bossi. "Violazione dell'art. 3 del regolamento del Parlamento europeo e dell'art. 9 del Protocollo sui privilegi e sulle immunita'". Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, all'On.le Bossi doveva riconoscersi l'immunita' prevista dal punto b) dell'art. 9) (secondo cui il parlamentare europeo gode territorio di ogni altro stato membro della esenzione da ogni provvedimento di detenzione e da ogni procedimento giudiziario) e non gia' quella prevista dalla lettera a) - come ritenuto dai giudici di merito (secondo cui il parlamentare europeo gode delle immunita' riconosciute ai membri del Parlamento del loro Paese) -.

 

4.6. - "Violazione dell'art. 125 c.p.p. in riferimento alla assoluzione ex art. 594 c.p.". La Corte avrebbe assolto gli imputati ex art. 594 c.p. "senza riferire alcuna conseguenza rispetto alle statuizioni civili e senza operare alcuna motivazione per tale mancanza".

 

4.7. - "Violazione dell'art. 125 c.p.p. e art. 62 c.p. n. 1". Gli imputati avevano agito al fine di tutelare un bene di alto valore morale e sociale (salvaguardia dell'ufficio inviolabile di un parlamentare da una perquisizione che appariva contra legem).

 

4.8. - Violazione dell'art. 125 c.p.p. e art. 62 c.p. n. 2". Gli imputati avevano agito in stato di provocazione perche' i fatti dei pubblici ufficiali erano ingiusti (a prescindere dalla applicabilita' della scriminante di cui all'art. 4 D.Lgs.Lgt. n. 288/1944).

 

4.9. - "Violazione dell'art. 125 c.p.p. e art. 62 c.p. n. 3". Gli imputati hanno agito sotto la spinta di una folla in tumulto e suggestionati dalla stessa.

 

4.10. - "Violazione dell'art. 125 e 192 c.p.". La Corte non avrebbe tenuto conto delle prove testimoniali perche' esisteva una ripresa filmata. Molti testi avrebbero riferito che le violenze erano state poste in essere dalla polizia. Le riprese non danno contezza di tutti gli episodi. Comunque gli episodi in se' non spiegano le ragioni dei comportamenti.

 

4.11. - "Violazione dell'art. 530 c.p. 2° comma" Le prove testimoniali sono talvolta in contraddizione con le riprese filmate, ovvero molte prove testimoniali sono tra loro in contrasto: cio' vale per esempio per la deposizione del teste appartenente alla polizia che afferma di avere riportato uno strappo alla giacca mentre la difesa ha dimostrato che la giacca era intatta.

 

4.12. - "Erronea applicazione dell'art. 4 del D.Lgs.Lgt. 288 del 1944". Gli atti dei pubblici ufficiali erano arbitrari. 1) Il "documento" di perquisizione era "falso". La polizia dovette richiederne uno in ufficio; i pubblici ufficiali hanno quindi autenticato un fax proveniente dal loro ufficio e non dall'ufficio del magistrato. "Il procedente" non poteva avere alcuna contezza che l'atto provenisse dal magistrato. 2) Gli inquirenti avevano violato il domicilio di un parlamentare. Erroneamente la Corte avrebbe ritenuto che la scriminante non si applica quando il pubblico ufficiale e' privo dell'elemento soggettivo. Ricorrerebbero, invece, tutti i requisiti richiesti dalla C.S. per l'applicazione: 1) L'atto ancorche' autorizzato dal giudice era illegittimo perche' solo la Camera poteva autorizzarlo. 2) La condotta esprimeva prepotenza e sopruso, malanimo e settarieta' (ingiurie gratuite; stipendio parlamentari; inutilita' dell'atto eseguito dopo dieci ore dalla notificazione del decreto). 3) il soggetto attivo del reato aveva comunque percepito l'atto come arbitrario. L'esponente della polizia che conduceva l'operazione telefono' al magistrato "per essere confortato". Il magistrato gli avrebbe dato un "parere" errato e comunque cio' non poteva escludere la contezza di compiere un atto illegittimo.

 

4.13. - "Errata applicazione della legge penale art. 52 c.p.". Gli imputati, e in particolare Bossi (che partecipo' solo al fatto di autotutela davanti all'ufficio dell'on.le Maroni), difendevano un diritto violato dal magistrato ordinario, evitando che fosse commesso un danno irreparabile (violazione dell'ufficio di un parlamentare).

 

4.14. "Violazione dell'art. 125 c.p. e art. 62 c.p. n. 5". (il testo del ricorso manca della motivazione a sostegno del motivo).

 

4.15. - La difesa ha presentato per tali ricorrenti anche atto denominato "motivi aggiunti". Si tratta di una memoria illustrativa di motivi gia' proposti, con cui si afferma ancora una volta: 1) che non spettava alla autorita' giudiziaria sindacare l'impedimento del Ministro On.le Bossi (si richiama in proposito la sentenza Corte cost. del 4 luglio 2001, n. 225 che affermerebbe tale principio con riguardo alla attivita' di parlamentare); 2) che doveva ritenersi applicabile la scriminante della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale (l'attivita' della polizia si manifesto' da subito arbitraria; la stanza da perquisire era adibita a segreteria politica dell'on.le Maroni; la perquisizione (emanazione dell'atto e sua esecuzione) era illegittima, anche alla luce del tenore letterale dell'art. 343 c.p.p., secondo comma, (v. art. 51 c.p.); quindi l'attivita' della polizia era arbitraria; 3) che a tutti gli imputati diversi dall'on.le Maroni era comunque applicabile la scriminante della legittima difesa; 4) che erroneamente non erano state applicate le attenuanti di cui all'art. 62 c.p., n. 1) e 2).

 

4.16. - Inoltre e' stata depositato per gli stessi ricorrenti altro scritto a firma del difensore con cui, si ribadisce ancora una volta la legittimita' dell'impedimento dell'On.le Bossi a presenziare all'udienza tenutasi nel giudizio di appello. Si rileva, poi, che e' attualmente sottoposta al vaglio della Corte costituzionale il conflitto di attribuzione, gia' dichiarato ammissibile, sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona, sotto il profilo dell'art. 68 Cost., comma 2, avente ad oggetto la legittimita' della perquisizione: nonostante la contraria opinione espressa dalla Corte d'appello, il tema della validita' e della legittimita' dell'atto di perquisizione non puo' che essere risolto con una sentenza della Corte costituzionale. Questo giudizio dovrebbe dunque essere sospeso con effetto - nei confronti di tutti i ricorrenti - sino a che la Corte costituzionale non avra' emesso una pronuncia punto. Si conclude comunque, in via subordinata per l'applicazione della sanzione sostitutiva ex art. 4 lett. a) della recente l. 12 giugno 2003, n. 134.

 

5. - Maroni ha proposto i seguenti motivi.

 

5.1. - "Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullita', di inutilizzabilita', di inammissibilita' o decadenza ex art. 606 c.p.p. lett. C in relazione alla norma di cui all'art. 420-ter c.p.p.". Il ricorrente era impegnato "in attivita' istituzionale in un convegno tenutosi in Varese". Il giudice ha respinto la richiesta di differimento per legittimo impedimento in palese violazione del codice di procedura penale.

 

5.2. - "Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p. lett. B), in relazione all'art. 4 D.Lgs.Lgt. n. 2688/1944". Sarebbe censurabile la motivazione con cui e' stata disattesa l'applicazione della invocata scriminante. Il decreto di perquisizione era illegittimo e invalido. La polizia avrebbe violato il domicilio di un parlamentare e si e' "data allo scontro fisico" con parlamentari che esercitavano mera resistenza passiva quando era possibile accedere ai locali oggetto della perquisizione da altro ingresso non presidiato. Gli atti erano comunque arbitrari perche' scorretti, inurbani, incivili e maleducati (richiama la sentenza della Corte cost. 23 aprile 1998, n. 140 che si e' pronunciata sulla scriminante in parola in un caso di oltraggio). La stessa sentenza, in un passo, riconoscerebbe comportamenti scorretti delle forze dell'ordine (pag. 11).

 

5.3. - "Mancanza o manifesta illogicita' della motivazione ex art. 606 c.p.p. lett. E". La Corte d'appello escluderebbe in maniera illogica che nel caso si sia trattato di mera resistenza passiva. Inoltre, Maroni non e' stato vittima di alcun malore come si legge nella sentenza, ma e' stato aggredito e gettato in terra dagli operanti, come dimostrato dal fatto che, visitato al pronto soccorso subito dopo i fatti gli fu riscontrata una "distorsione al rachide cervicale", tale da imporre l'applicazione di un collare. Tale conseguenza e' incompatibile con l'ipotesi del "malore". La sentenza e' inoltre contraddittoria nella pag. 11 dove si da atto della azione di forza degli operanti e delle frasi improprie pronunciate, e poi, a distanza di poche righe si esclude l'inurbanita' del comportamento.

 

6. - Borghezio ha formulato i seguenti mezzi.

 

6.1. - "Violazione dell'art. 606 c.p.p. lettera e) per mancanza o manifesta illogicita' della motivazione con riferimento anche all'art. 606 c.p.p. lettera c) per inosservanza di norme processuali, con riferimento alla rigettata eccezione di incompetenza per materia del pretore". Il capo di imputazione richiama genericamente l'art. 339 c.p. La Corte avrebbe errato nel ritenere la configurazione della aggravante semplice anziche' quella dell'aggravante speciale di cui al secondo comma dell'art. 337 c.p. Nell'art. 7 c.p.p., quando il legislatore ha voluto riferirsi anche alla aggravanti lo ha espressamente fatto. Per il reato di resistenza si e' limitato a fare riferimento all'art. 337 c.p. Ai sensi dell'art. 4 c.p.p. doveva ritenersi esclusa la competenza del pretore nei casi di resistenza aggravata da circostanze ad effetto speciale.

 

6.2. - "Violazione dell'art. 606 c.p.p. lett. e) mancanza o manifesta illogicita' della motivazione con riferimento anche all'art. 606 c.p.p. lett. b) per inosservanza o erronea applicazione della norma penale e della norma giuridica primaria di cui all'art. 68 Cost. 2° comma di cui si doveva tenere conto nell'applicazione della legge penale". Posto che la censura si riferisce espressamente alla seconda fase dei fatti svoltasi davanti alla porta di ingresso della stanza dell'on.le Maroni, la Corte non avrebbe potuto tornare sulla questione della effettiva destinazione della stanza a segreteria politica dell'on.le Maroni. Anche se risulta (asseritamene) dalla sentenza che la mattina dei fatti l'on.le Maroni aveva negato di avere la disponibilita' della stanza, il fatto della destinazione della stanza all'on.le Maroni doveva considerarsi irretrattabile, perche' accertato con la sentenza di primo grado e punto non era stata dedotta alcuna impugnazione, a nulla rilevando le perplessita' del Procuratore della Repubblica di Verona e degli stessi appartenenti alla Polizia che eseguirono la perquisizione. Inammissibile comunque sarebbe l'affermazione della Corte secondo cui nell'ufficio di segreteria del partito si svolgerebbe "un'attivita' non direttamente correlata alle funzioni Istituzionali rivestite da chi lo conduce nel diverso ambito della Camera di appartenenza".

 

6.3. - "Violazione dell'art. 606 c.p.p. lettera e) mancanza o manifesta illogicita' della motivazione con riferimento anche all'art. 606 c.p.p. lettera b) per inosservanza o erronea applicazione della norma penale e della norma giuridica primaria di cui all'art. 68 Cost. 2° comma di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale". La Corte ha ritenuto la responsabilita' dell'On.le Borghezio ai sensi dell'art. 110 c.p. affermando che l'imputato avrebbe con la sua condotta formato "ostacolo fisico e di pressione verbale esercitata (...) sugli agenti operanti". Si tratterebbe dunque di mera resistenza passiva. I Giudici milanesi non accennano a comportamenti attivi, salvo l'episodio della cravatta tirata a uno degli operanti stessi (dott. Pallauro) desunto dal filmato visionato nel giudizio di primo grado in cui l'imputato era rimasto contumace. La Corte non collocherebbe temporalmente tale circostanza che si e' verificata nell'ultima parte del fatto (quella davanti alla porta della stanza dell'on.le Maroni). Per quest'ultima fase doveva e deve ritenersi operante la scriminante degli atti arbitrari dei pubblici ufficiali, per il compimento di pregressi atti di violenza da parte loro. Mancava, quindi, la prova di una condotta di partecipazione materiale o morale per la resistenza verificatasi nella fase anteriore. Sotto tale profilo doveva pertanto ritenersi viziata anche l'ordinanza con cui in sede di appello si era disattesa la richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale per poter visionare, insieme con la Corte e in contraddicono delle parti, il filmato degli avvenimenti che deve ritenersi inutilizzabile.

 

6.4. - "Violazione dell'art. 606 c.p.p. lettera e) mancanza o manifesta illogicita' della motivazione con riferimento all'art. 606 c.p.p. lettera b) per erronea applicazione dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p. n. 1) e cioe' per 'aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale'". La Corte avrebbe erroneamente escluso l'applicazione dell'attenuante per le modalita' dell'azione, ritenendo che la finalita' degli imputati di difendere dall'intervento della polizia la sede di un partito non potesse rendere applicante l'attenuante, nonostante l'esistenza di una deliberazione della Camera dei deputati che, di fatto, riconosceva insindacabile il comportamento degli imputati anche per il valore etico sotteso al comportamento stesso.

 

7. - Si deve dare atto a questo punto del fatto che nelle more della decisione di questa Corte la Camera dei Deputati ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dell'autorita' giudiziaria e in particolare della Procura della Repubblica di Verona per la statuizione che non spettava a detta autorita' disporre e far eseguire la perquisizione del domicilio del parlamentare On.le Maroni. La Consulta si e' pronunciata con sentenza del 30 gennaio 2004, n. 58, accogliendo la richiesta e provvedendo in conformita'.

 

Sulle questioni pregiudiziali;

 

8. - Sono infondati i motivi di ricorso proposti da Bossi e Maroni in ordine alla questione del legittimo impedimento a comparire all'udienza del 10 novembre 2001 (motivo 4.2. di Bossi; motivo 5.1 di Maroni).

 

8.1. Va precisato, anzitutto, che la questione dell'impedimento fu sollevata una prima volta alla udienza del 1° ottobre 2001. In tale occasione il difensore di Bossi presento' uno scritto, a firma del Ministro, in cui l'esponente del Governo precisava, senza alcuna motivazione, di non poter intervenire per impegni d'ufficio, mentre il difensore di Maroni sosteneva, a sua volta, che il Ministro non poteva intervenire perche' occupato in attivita' istituzionale in un convegno che si teneva a Varese, alla cui partecipazione era necessaria la sua presenza in qualita' di "Ministro del Welfare": si trattava quindi - secondo la difesa - di attivita' svolta nell'esercizio della attivita' istituzionale del titolare del Dicastero. Borghezio, infine, presento' documentazione da cui risultava il suo impegno di parlamentare europeo, dovendo essere presente a Strasburgo. In accoglimento di tali istanze di differimento per impedimenti ritenuti legittimi, l'udienza fu rinviata all'11 novembre 2001 (le questioni sollevate da Bossi e Maroni non furono quindi prospettate all'udienza dell'11 novembre 2001 in cui si celebro' il processo, ma alla udienza precedente che fu appositamente rinviata).

 

8.2. - Alla udienza dell'11 novembre 2001, senza la presentazione di alcuna documentazione, l'avvocato Brigandi' per Bossi e l'avv. Basilico per Maroni (che aderi' alla richiesta per il suo assistito), sollevo' una nuova questione di legittimo impedimento che conviene riportare cosi' come estratta dal verbale stenotipia) di udienza nelle parti indispensabili.

 

8.3. - "Si apre l'udienza del 10 novembre 2001 e il Presidente prende atto delle presenze in aula facendo l'appello. PRESIDENTE - Allora, siccome qui si tratta di una ripresa del processo dopo la sospensione, determinata dal conflitto di attribuzioni a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale che ha annullato la delibera della Camera, che riteneva l'insindacabilita' dei fatti, io ritengo superfluo fare una lunga relazione, visto che tutti abbiamo scritto gia' tutto nelle ordinanze, tutti conosciamo i fatti e conosciamo anche i motivi d'appello PRESIDENTE - Ecco, grazie, mi scusi. Quindi ritengo che., ricordero' soltanto il fatto che si tratta dei fatti avvenuti il ... Avv. BRIGANDI' - Presidente, io devo fare una richiesta preliminare. PRESIDENTE - E allora la faccia, avvocato Brigandi'. Avv. BRIGANDI' - Grazie Presidente. Il problema e' il seguente: purtroppo (pp.ii. fuori microfono) e' fatto notorio che c'e' oggi (p.i. fuori microfono) del Governo e quindi io vi chiedo formalmente che (pp.ii. fuori microfono) venga differita, per questo (pp.ii. fuori microfono) e questo impegno che c'e' oggi a Roma, ci sara' un collegamento formale anche con autorita' straniere, c'e' il sindaco di New York, quindi e' una situazione non di poco conto alla quale partecipa sia il Presidente del Consiglio, sia tutti i Ministri. Noi tra gli imputati abbiamo due ministri che ovviamente (pp.ii. fuori microfono) della RAI perche' oggi doveva venire sia il ministro Bossi, sia il ministro Maroni e in questa ottica le notizie erano (p.i. fuori microfono) alle televisioni ed ecco perche' oggi (pp.ii. fuori microfono) quindi non e' una cosa che e' apodittica perche' venuta fuori (pp.ii. fuori microfono) all'udienza, siccome gli imputati, questi due, intendono esercitare questo loro diritto/dovere (pp.ii. fuori microfono) appunto, a rendere delle dichiarazioni spontanee in riferimento al loro (p.i. fuori microfono) per i fatti contestati (pp.ii. fuori microfono) io chiedo la cortesia, capisco che (pp.ii. fuori microfono) chiedo la cortesia, visto che c'e' gia' stata la volta scorsa la cortesia di codesta Eccellentissima Corte d'Appello, anche nell'indicare (pp.ii. fuori microfono) chiedo la cortesia di voler rinviare (p.i., fuori microfono) certamente eccezionale nel quale (p.i., fuori microfono). PRESIDENTE - Gli altri difensori e anche il Procuratore della Repubblica. PRESIDENTE - Con questo USA-Day che cosa facciamo? PROC. GEN.- Chiedo scusa? PRESIDENTE - Per questo giorno particolare, USA-Day, come... PROC. GEN - Non so.. si', so di che si tra., e' notorio... PRESIDENTE - Certamente. PROC. GEN.- ...e' nota quindi anche a me questa situazione. Questo, obiettivamente, e' un procedimento che trova delle difficolta' a essere celebrato per gli impedimenti istituzionali, assolutamente legittimi, di alcuni degli imputati, oggi obiettivamente non so se possa essere definito proprio istituzionale questo impedimento, comunque mi rimetto alla valutazione della Corte in ordine alla situazione".

 

8.4. - Dopo tali richieste, il Collegio pronuncio' ordinanza con la quale rigetto' la domanda di un nuovo differimento motivando, in sintesi, nel senso che: 1) risultava effettivamente il "concomitante svolgimento della manifestazione pubblica di solidarieta' con gli Stati Uniti d'America, fissata a Roma a partire dalle 15 di oggi"; 2) gia' alla precedente udienza era stata fatta e accolta altra istanza di legittimo impedimento; 3) "...la predetta manifestazione non rientra(va) nel novero degli atti del Governo, ma costituiva un'iniziativa pubblica, cui ciascun soggetto (era) libero di aderire o meno - a prescindere dal ruolo istituzionale ricoperto - in virtu' dei principi costituzionali di liberta' di espressione del pensiero e di riunione"; 4) tali ultimi diritti costituzionali "(dovevano) - alla stregua delle recenti autorevoli indicazioni della Corte costituzionale - trovare contemperamento con i principi costituzionali inerenti l'obbligatorio esercizio della giurisdizione, peraltro in tempi ragionevoli (art. 101 e segg. cost.)"; 5) "la valutazione comparata dei principi costituzionali non consent(iva) ulteriori differimenti della celebrazione del processo che riguarda fatti risalenti al settembre 1996".

 

8.5. - Osserva la Corte che, a quel che consta, mancano precedenti della Corte costituzionale sulla soluzione della questione dell'impedimento legittimo del Ministro con riferimento alla sua presenza nel processo quale imputato e quindi con riferimento alla attivita' giurisdizionale, ma ritiene la Corte che sia legittimo ispirarsi - nelle linee generali e astratte - alle soluzioni gia' offerte dalla Consulta per gli esponenti del Parlamento. Ci si vuole riferire, in particolare, alla sentenza della Corte costituzionale del 4 luglio 2001, n. 225, citata anche dalla difesa di Bossi. Al di la' di quanto si legge nel dispositivo, che sintetizza i concetti cardine espressi nella motivazione in un caso in cui l'autorita' giudiziaria aveva affermato la assoluta prevalenza dell'interesse relativo alla attivita' giudiziaria rispetto all'interesse della Camera dei deputati allo svolgimento delle attivita' parlamentari (fattispecie in cui la Consulta ha statuito che non spetta all'autorita' giudiziaria un simile giudizio), sono decisamente illuminanti e rispondenti anche al caso di cui si discute le soluzioni offerte dalla Corte costituzionale nella motivazione in ipotesi di conflitti del genere di quelli prospettati, soluzioni che scaturiscono da un quadro ispirato al principio di collaborazione che deve informare i rapporti tra le Istituzioni, in una sintesi di reciproco rispetto del lavoro di ciascuno degli organi e poteri costituzionali. E proprio in un quadro di collaborazione tra poteri dello Stato, la Corte costituzionale, nella citata vicenda che riguardo' il processo che interessava un parlamentare, giunse a indicare la via della fissazione di udienze, eventualmente concordate, in giorni in cui non cadessero impegni istituzionali del parlamentare (partecipazione alle votazioni).

 

8.6. - Alla stregua di tali principi - ad avviso di questa Corte - si deve affrontare e risolvere il problema, sempre che ci si trovi di fronte alla necessita' di contemperare le esigenze dell'autorita' giudiziaria relative allo svolgimento del processo e quelle derivanti da attivita' istituzionali del Ministro.

 

8.7. - E' tuttavia evidente che accanto alle attivita' istituzionali di un Ministro, che gli derivano da attribuzioni costituzionali, coesistono attivita' politiche multiformi, indeterminate (non e' forse azzardato affermare che qualsiasi attivita' pubblica, non rientrante nella categoria delle attivita' istituzionali, rientri nell'attivita' politica di un esponente del Governo) e non classificabili in astratto, ma sicuramente individuabili e soprattutto facilmente differenziabili da quelle istituzionali (tra queste ultime possono annoverarsi, a esempio, la partecipazione al Consiglio dei Ministri, l'attivita' parlamentare del Ministro, come nei casi di presentazione del Governo alle Camere per la fiducia ovvero per la risposta alle interrogazioni et similia, la prestazione del giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica: si tratta delle attivita' riconducibili, in linea generale ed astratta, alla sfera di attribuzioni previste dagli artt. 92, 93, 94, 95, 96 Cost.).

 

8.8. - Il punto centrale della questione dell'impedimento sollevata da Bossi e Maroni e' proprio quello di stabilire se il giudice, nell'esercizio delle attribuzioni che gli sono proprie ai fini della conduzione del processo, abbia correttamente valutato la natura dell'impegno addotto dagli imputati come estranea alle specifiche funzioni istituzionali proprie dei ministri e ne abbia escluso il carattere di inderogabilita', adeguatamente bilanciando la esigenza di indefettibilita' della giurisdizione e quella dell'esercizio delle iniziative politiche connesse alla funzione ministeriale.

 

8.9. - Ora, ritiene la Corte che al quesito debba rispondersi positivamente. La natura dell'impegno prospettato da Bossi e Maroni (del quale, giova sottolineare, non v'e' documentazione alcuna) rimane classificabile, con valutazione di fatto, debitamente motivata, sottratta al sindacato di legittimita', come un impegno non istituzionale e quindi non coessenziale alla funzione tipica del Governo. Venendo nella specie in considerazione una incombenza rientrante nella sfera delle attivita' di carattere politico in senso lato del Ministro correttamente la Corte territoriale ha affermato la necessita' che essa dovesse cedere di fronte alla esigenza di celebrazione del processo, dal momento che, contrariamente opinando, qualsiasi attivita' non strettamente privata di un Ministro, essendo suscettibile in ipotesi di rivestire una valenza politica, permetterebbe di rimandare sine die l'attivita' giurisdizionale. Pertanto il motivo di ricorso va conclusivamente rigettato.

 

9. - Non sono fondati neppure il motivo di ricorso 4.3. di Bossi e il motivo di ricorso 6.1. di Borghezio riguardanti la questione di incompetenza per materia del Pretore. Il difensore di Bossi ha citato la sentenza Cass., sez., 1°, c.c. 3 dicembre 1993 - dep. il 4 dicembre 1994, n. 5310, Accardi, che ha deciso conformemente all'assunto dei ricorrenti, secondo cui, in caso di reato aggravato ai sensi del secondo comma dell'art. 339 c.p., cioe' nella ipotesi di reato commesso da piu' di dieci persone, sarebbe competente a giudicare il Tribunale e non gia' il Pretore (oggi la competenza spetta al Tribunale in composizione monocratica a seguito della entrata in vigore del D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51), in quanto si tratterebbe di aggravante a effetto speciale in base al disposto dell'art. 4 c.p.p., ancorche' il reato di resistenza fosse nominativamente indicato nell'abrogato art. 7, comma 2, lett. b) c.p.p. Pero' - a prescindere dal fatto che l'imputazione non fa riferimento al comma 2 dell'art. 339 c.p. e che i giudici di merito hanno ritenuto che nella specie si trattasse di reato commesso da non piu' di dieci persone riunite e senza armi, e che quindi la fattispecie rientrasse nel comma 1 dell'art. 339 c.p. - si deve osservare che la citata sentenza e' contrastata da molte altre pronunce successive che hanno deciso in senso esattamente contrario a quello sopra descritto, chiarendo che la rilevanza delle circostanze a effetto speciale prevista dall'art. 4 opera solo in relazione al criterio attributivo della competenza di cui all'abrogato art. 7 c.p.p., comma 1, perche' solo tale criterio si basava sulla pena edittale. E' invece da escludere che l'art. 4 c.p.p. operasse in relazione alle ipotesi previste dal gia' vigente art. 7 c.p.p., comma 2, giacche' la competenza, in relazione ai reati previsti da quest'ultima disposizione, si basava nomen juris dei reati stessi, che erano attribuiti alla competenza per materia del Pretore indipendentemente dalla aggravanti a effetto speciale (si vedano in tal senso Cass., sez. 1°, c.c. 28 aprile 1999 - dep. 6 luglio 1999, n. 3283, Marcucci; Cass., sez. 1°, c.c. 9 dicembre 1998 - dep. 3 febbraio 1999, n. 6179 Maier; Cass., sez. 1°, c.c. 15 giugno 1998 - dep. 4 luglio 1998, n. 3522, Brunella; Cass., c.c. 2 marzo 1995 - dep. 19 aprile 1995, n. 1328, Ferrara; Cass., sez. 1°, c.c. 8 gennaio 1996 - dep. 12 febbraio 1996, n. 26, Voltolina). La condivisibile ratio decidendi di tali pronunce e' confermata dal fatto che, nell'ambito dei reati previsti dall'abrogato art. 7 c.p.p., quando il legislatore volle attribuire rilevanza alle circostanze a effetto speciale, lo ha espressamente detto: cosi', per esempio, nei casi dei reati di cui alle lettere f) e g) riguardanti i reati di maltrattamenti in famiglia e quello di rissa. Non e' cosi' per il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), che nell'art. 7 c.p.p., comma 2, era attribuito - tout court - alla competenza del Pretore.

 

10. - Per una conferma di tale interpretazione puo' essere utile rilevare che oggi l'elencazione dei reati di cui al gia' citato art. 7 c.p.p., comma 2, e' stata ripresa, in larga parte, dall'art. 550 c.p.p., comma secondo, che determina i casi in cui il procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica si instaura con citazione diretta: la formulazione e' la medesima per quel che attiene all'art. 337 c.p. (sempre rientrante nelle attribuzioni del giudice monocratico del Tribunale, indipendentemente dalle aggravanti), come e' la stessa per il reato di rissa aggravata (che rientra nelle ipotesi di citazione diretta davanti al giudice monocratico, salvo che non ricorra l'aggravante della morte di un partecipante). La continuita' della formulazione legislativa nel passaggio dal precedente al nuovo regime offre un argomento ulteriore alla tesi anteriormente accolta dalla giurisprudenza dominante sulla competenza del Pretore in ogni caso di resistenza, cioe' anche nei casi di presenza di aggravanti a effetto speciale.

 

11. - Per quanto riguarda i motivi attinenti alla questione della illegittimita' della perquisizione per contrarieta' dell'art. 68 Cost., comma secondo, cosi' sollevata da Bossi (motivo 4.3.) e da Borghezio (motivo 6.2.) per essere il locale oggetto di perquisizione occupato non gia' dal Marchini, ma dall'On.le Maroni, in quanto destinato a sua segreteria politica, quale appartenente al partito politico Lega Nord, e' stata recentemente pubblicata - come gia' premesso - la decisione della Corte costituzionale che, risolvendo il conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera dei deputati ex art. 68 Cost., comma secondo, si e' pronunciata con sentenza del 20 gennaio 2004, n. 54. Il problema sollevato con tali motivi e' in pieno investito da tale decisione della Consulta di cui si parlera' subito dopo. Tali motivi saranno quindi oggetto di esame successivo.

 

12. - E' infondata anche la questione sollevata da Bossi (motivo 4.5.), nella sua qualita' di parlamentare europeo all'epoca dei fatti, riguardante la pretesa esenzione da ogni procedimento giudiziario prevista dell'art. 3 del Regolamento del Parlamento europeo e dell'art. 9 del relativo Protocollo sui privilegi e sulle immunita'. La questione e' gia' stata risolta correttamente dai Giudici di merito nel senso della inesistenza di una esenzione dal presente giudizio a mente delle disposizioni ora citate. L'art. 3 del Regolamento del Parlamento europeo stabilisce, al comma primo, che "I deputati beneficiano dei privilegi e delle immunita' previsti dal Protocollo sui privilegi e sulle immunita' delle Comunita' europee, allegato al Trattato dell' 8 aprile 1965 che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunita' europee". A sua volta, l'art. 10 del Protocollo n. 34 sui privilegi e sulle immunita' della Comunita' europea, nel testo vigente, stabilisce che per la durata della sessione del Parlamento i membri di essi beneficiano "a) territorio nazionale, delle immunita' riconosciute ai membri del Parlamento del loro paese; b) territorio di ogni altro Stato membro, dell'esenzione di ogni provvedimento di detenzione e da ogni procedimento giudiziario". Una immunita' - per cosi' dire - europea puo' ravvisarsi solamente in relazione alla lettera b), ma non in riferimento alla lettera a) che e' applicabile al caso di specie. Per quel che attiene alle immunita' del parlamentare europeo nel territorio del suo paese, e quindi per fatti che siano posti in essere nel Paese di appartenenza, al parlamentare spetta l'immunita' che gli e' riconosciuta nel suo Paese. La disposizione in questione, in sostanza, opera un rinvio ricettizio all'art. 68 Cost. ed e' chiaro che ogni provvedimento che nel territorio nazionale deve essere adottato spetta non al Parlamento europeo, ma al Parlamento nazionale. In tal senso puo' dirsi che nel territorio nazionale non esiste una immunita' europea che si sovrapponga o si affianchi a quella nazionale, ma esiste una sfera di garanzie attribuite al parlamentare nazionale (dettate dall'art. 68 cost.) cui la norma internazionale rinvia sia per i contenuti sostanziali dei privilegi o immunita' (in senso lato) sia per le procedure, sia per gli organi che devono adottare le relative deliberazioni. Risulta che in tale senso si sia sostanzialmente gia' pronunciata questa Corte di Cassazione (v. Cass., sez. 2°, 21 marzo 2003 - dep. 28 marzo 2003, n. 14791, Martelli).

 

Sulle censure relative alla responsabilita';

 

13. - Vanno esaminate a questo punto le censure formulate da Bossi, Capanni, Calderoli e Martinelli con i motivi 4.4., 4.10., 4.11 e 4.12; quelle del Maroni con ai motivi 5.2. e 5.3. e quelle del Borghezio con i motivi 6.2. e 6.3. che possono essere congiuntamente trattate perche' riguardanti le stesse questioni principali in punto di responsabilita' o ad esse connesse.

 

13.1. Preliminarmente, le difese di Bossi, Capanni, Calderoli e Martinelli (motivi 4.10 e 4.11.) e di Maroni (motivo 5.3.) hanno sollevato in argomento censure sulla parte della sentenza di merito concernente la ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito. Osserva, in proposito, il Collegio che tali motivi sono inammissibili perche' non deducibili nel giudizio di legittimita', in quanto con essi si formulano doglianze attinenti alle modalita' di accertamento del fatti e alle valutazioni relative rimesse alla competenza del giudice di merito, che ha offerto, punto, una motivazione congrua e immune da censure logiche. Detta motivazione, come emerge dalla sentenza di secondo grado e da quella di primo grado (quest'ultima sovente richiamata dalla prima) passa attraverso l'esatta formulazione delle seguenti proposizioni: a) si sono ritenute degne di fede le deposizioni testimoniali (anche delle parti lese) e le dichiarazioni degli imputati che si sono sottoposti all'esame, in quanto riscontrate da filmati acquisiti al fascicolo del dibattimento sia in originale, e sottoposti a sequestro, sia nelle riproduzioni in VHS effettuate sotto il diretto controllo dei Carabinieri, mentre in caso di contrasto, si e' data preferenza alle riprese filmate; b) le parti lese, della cui attendibilita' si e' sempre cercato il riscontro, hanno fornito una versione sempre lineare, coerente e conforme alle riprese filmate, a eccezione di alcuni particolari su questioni irrilevanti (come il malore vero o simulato del Maroni, a seconda delle diverse percezioni), e si e' dato loro credito, anche perche' in alcuni casi erano riscontrate dalle stesse dichiarazioni dei prevenuti; c) non si e' tenuto conto di quelle deposizioni, evidentemente non confermate dalle riprese filmate riprese da emittenti pubbliche e private (TG RAI, TG 4, TG 5, ANTENNA 3) di piu' dubbia attendibilita', quali quelle rese da simpatizzanti di partito e da giornalisti presenti, ovvero di quelle che apparivano chiaramente viziate da cognizione imprecisa dei fatti. Si tratta di affermazioni condivisibili e quindi, come si e' detto, non censurabili. A fronte di tali affermazioni la difesa ha svolto oltretutto, con i motivi in esame, censure generiche perche' non sorrette da specifiche allegazioni di fatti; cio' che da ulteriore ragione in ordine alla declaratoria di inammissibilita'.

 

14. - Scendendo ora all'esame dei motivi che concernono la questione della tutela riservata agli ambienti su cui era apposta la scritta che indicava la presenza di un locale destinato a segreteria politica dell'On.le Maroni ai sensi dell'art. 68, comma secondo, cost., e di quella strettamente connessa della invocata esimente della reazione ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali per l'illegittimo ordine di perquisizione impartito dal Procuratore della Repubblica di Verona, a seguito della telefonata del Dott. Pallauro, che porto' a conoscenza di detta autorita' giudiziaria la inaspettata presenza di un locale tutelato ai sensi dell'anzidetta norma costituzionale (motivi 4.4. e 4.12. del ricorso Bossi, Calderoli, Martinelli e Caparmi; motivo 5.2. Maroni; motivo 6.2. Borghezio), va osservato quanto segue.

 

14.1. - Si e' gia' detto della sentenza della Corte costituzionale del 30 gennaio 2004, n. 58 con la quale e' stato risolto il conflitto di attribuzione fra la Camera dei deputati e la Procura della Repubblica e si e' dichiarato che "(...) non spettava alla autorita' giudiziaria ed in particolare alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verona di far eseguire il 18 settembre 1996 la perquisizione del locale nella disponibilita' del parlamentare Roberto Maroni".

 

14.2. - La chiarezza di tale dispositivo e' suffragata dalla ultima parte della motivazione la quale precisa che, nel corso della perquisizione (destinata originariamente alla ricerca della possibile acquisizione di oggetti di pertinenza del Marchini), gli operanti si vennero a trovare di fronte a una situazione nuova costituita dalla esistenza di un cartello che indicava la presenza di ambienti destinati a segreteria politica dell'on.le Maroni nel momento in cui raggiunsero il corridoio cui si aveva accesso tramite una porta a vetri e poi nel momento in cui raggiunsero la stanza sulla quale era apposto altro analogo cartello.

 

14.3. - Afferma poi testualmente la Corte costituzionale che "Questa situazione nuova cosi' presentatasi agli agenti di polizia (...) segnalava agli agenti stessi, ed all'autorita' giudiziaria procedente per il loro tramite, che il locale da perquisire in quanto ufficio del Marchini era invece nella disponibilita' di un deputato, onde poteva costituirne domicilio, non sottoponibile a perquisizione senza autorizzazione della Camera", Prosegue poi ulteriormente il testo della sentenza, muovendo sostanzialmente un appunto al titolare dell'organo giudiziario che aveva impartito telefonicamente l'ordine nel senso che: "In tale contesto, l'autorita' giudiziaria avrebbe dovuto sospendere l'esecuzione della perquisizione; in alternativa - ove avesse nutrito dubbi sull'attendibilita' del contenuto dei cartelli - avrebbe potuto disporre gli accertamenti del caso, per eventualmente procedere contro chi quel cartello aveva collocato. L'unica scelta sicuramente preclusa all'autorita' giudiziaria era di confermare verbalmente alla polizia l'ordine di eseguire la perquisizione senza alcuna verifica punto e senza neppure trarre conseguenze da tale falsita'. Cosi' comportandosi essa ha leso le attribuzioni garantite alla Camera dei deputati dal secondo comma dell'art. 68 Cost.".

 

15. - A fronte di tali inequivocabili parole, e del forse poco meditato ordine del Procuratore della Repubblica, ritiene la Corte che, per risolvere la questione della applicabilita' al caso di specie della invocata esimente della reazione degli imputati ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, occorre sgomberare il campo dal problema dei riflessi di un ordine illegittimo della autorita' giudiziaria sulla esecuzione dell'atto da parte della polizia giudiziaria, o, in altri termini, dare risposta al quesito se l'illegittimita' dell'ordine si estenda anche alla esecuzione di esso si da rendere arbitrario il comportamento degli operanti e quindi operante la previsione dell'art. 4 del D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, secondo cui l'art. 337 c.p. non e' applicabile quando il pubblico ufficiale abbia dato causa ai fatti previsti in tale norma, "eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni".

 

15.1. - Il quesito che si e' posto evoca la radicale divergenza di opinioni che si rinvengono in dottrina e in giurisprudenza sui requisiti dell'esimente.

 

15.2. - Infatti, secondo un orientamento, per cosi' dire "soggettivistico", prevalente nella giurisprudenza di legittimita' (fra le molte, Cass., sez. 6°, u.p. 22 ottobre 2002 - dep. 23 novembre 2002, n. 39685, Argentin; Cass., sez. 6°, u.p. 16 marzo 1998-13 maggio 1998 - dep. 1998, n., 5572, Vitali; Cass., sez. 6°, u.p. 1° dicembre 1995 - dep. 13 marzo 1996, n. 2669, Ferraretto) e condiviso da parte della dottrina, l'atto arbitrario del pubblico ufficiale, idoneo a scriminare il comportamento dell'autore della resistenza, deve essere non solo illegittimo, cioe' eccedere dalle funzioni conferite dalla legge, ma anche posto in essere dal pubblico ufficiale con l'intenzione di agire al di fuori delle sue attribuzioni e, quindi, con la dolosa consapevolezza di commettere un vero e proprio sopruso. Tale modo di vedere e' in particolare il frutto di una interpretazione del testo normativo nel senso che la duplicita' del richiamo contenuto nella disposizione agli atti arbitrari e all'eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni, rende inevitabile la costruzione del comportamento idoneo a scriminare la reazione come connotato da un duplice profilo: oggettivo (cui farebbe riferimento la norma quando usa il termine "eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni") e soggettivo (cui la norma farebbe riferimento con l'espressione "con atti arbitrari").

 

15.3 - Un diverso orientamento, maggiormente garantista, di cui si e' in tempi piu' recenti fatta portatrice una parte minoritaria della giurisprudenza di legittimita' (v. a esempio, Cass., sez. 6°, u.p. 10 aprile 1996 - dep. 26 luglio 1996, n. 7565, Pacifici), interpreta le due espressioni sopra riportate nel senso che esse esprimano un concetto unitario ed abbiano contemporaneamente una connotazione solo oggettiva, laddove l'arbitrarieta' dell'atto attiene alle modalita' di esecuzione di esso e l'eccesso dalle attribuzioni si riferisce alla mera illegittimita' dell'atto. Di modo che potrebbero dar luogo alla applicabilita' della esimente o l'illegittimita' dell'atto ovvero il semplice comportamento scorretto, villano o incivile del pubblico ufficiale, senza che siano rilevanti i riferimenti all'elemento soggettivo del pubblico ufficiale.

 

15.4. - La Corte, sia pure con le doverose puntualizzazioni che poco oltre si faranno, ritiene corretta questa seconda interpretazione della norma in quanto maggiormente aderente alla mutata realta' dei tempi. Le ragioni di tale affermazione si rinvengono nella ermeneusi della norma in questione offerta dalla Corte costituzionale che - pur in una decisione avente ad oggetto il reato di oltraggio: Corte cost. 20 aprile 1998, n. 140) - ha affermato come quest'ultima sia la interpretazione piu' corretta alla luce della Costituzione.

 

15.5 - La stessa Corte costituzionale nella sentenza da ultimo citata afferma che l'inquadramento storico-sistematico della norma sorregge con tutta evidenza quest'ultima interpretazione, che viene a definirsi in tal modo come costituzionalmente orientata. La causa di giustificazione (cosi' espressamente qualificata nella sentenza), presente nel codice penale Zanardelli del 1889, venne abolita dal codice Rocco del 1930 "in nome di una malintesa tutela del prestigio e della "infallibilita' degli agenti della pubblica autorita'", per essere poi reintrodotta col D.Lgs.Lgt. n. 288/1944, proprio al termine della guerra di liberazione, insieme ad altre modifiche del codice penale ritenute significative del passaggio da un regime autoritario al nuovo ordinamento democratico e alla nuova impostazione dei rapporti tra autorita' e cittadino.

 

15.6. - Da quanto si e' sinora detto discende che, nel valutare se nel caso di specie il comportamento degli agenti operanti abbia innescato una reazione legittima, non puo' prescindersi dal fatto che essi hanno dato esecuzione a un atto oggettivamente illegittimo. Peraltro, ai fini della ricorrenza dei presupposti considerati dall'art. 4 del D.Lgs.Lgt. n. 288/1944, non e' sufficiente che l'atto sia genericamente "illegittimo". Per dare un significato normativo all'endiadi "atto arbitrario-eccedente dai limiti delle attribuzioni" occorre infatti che la antidoverosita' del comportamento del pubblico ufficiale sia caratterizzata o dalle sue modalita' intrinseche (inurbanita', arroganza, maleducazione e quant'altro) o dal suo sviamento rispetto allo scopo di pubblico interesse per il quale e' dall'ordinamento previsto l'esercizio di poteri autoritativi. E' questa, appunto, la situazione che si e' verificata nel caso in esame. Invadendosi la sfera protetta da una norma di rango costituzionale, costituente una tipica e tradizionale garanzia della funzione parlamentare rispetto alle intromissioni degli altri poteri dello Stato, si e' prodotto uno straripamento dei poteri dell'autorita' giudiziaria. A prescindere da quale fosse l'ordine dato alla polizia giudiziaria, era la materiale attivita' di perquisizione nell'ufficio del parlamentare che non poteva essere effettuata senza autorizzazione della Camera di appartenenza, a termini dell'art. 68, comma secondo, cost.; sicche' tale materiale attivita' era priva di "scopo" legale, e quindi oggettivamente arbitraria, in quanto lesiva delle attribuzioni del Parlamento. E' sicuro che se ci si pone da un punto di vista soggettivo gli operanti erano certamente convinti e consapevoli di eseguire un ordine della autorita' giudiziaria - nei confronti della quale la polizia giudiziaria e' in rapporto di subordinazione non gerarchica ma funzionale -e non potevano che essere in buona fede, onde sotto l'aspetto in questione non potrebbe esser mosso nei loro riguardi il minimo appunto, difettando assolutamente la coscienza e la consapevolezza di commettere un atto arbitrario, essendovi anzi la convinzione di compiere un atto doveroso. Come pero' si e' detto, la connotazione soggettiva del comportamento del pubblico ufficiale non esclude che sia stato posto in esecuzione un atto oggettivamente illegittimo (cosi' come peraltro lo avevano percepito gli imputati), e pertanto capace di connotarsi come atto eccedente le normali e ordinarie attribuzioni dei pubblici ufficiali, con la conseguenza che non puo' non trovare applicazione l'esimente prevista dal citato D.Lgs.Lgt. n. 288/1944.

 

15.7. - Ne consegue, quale ulteriore conseguenza, che il comportamento di tutti gli imputati deve essere ritenuto esente da responsabilita', salvo quanto si dira' appresso.

 

15.8 - L'esimente in parola, con riferimento al contesto in argomento, in cui Deputati della Repubblica e simpatizzanti del partito hanno inteso tutelare un diritto che ritenevano comune in quanto assistito da una garanzia costituzionale, ha, infatti, una portata generale e non puo' ritenersi limitato al solo interessato On. le Maroni. Deve quindi ritenersi per tutti gli imputati che sia scriminata la resistenza dal momento in cui la perquisizione, alla vista del primo cartello che indicava un luogo costituzionalmente protetto ex art. 68, avrebbe dovuto essere sospesa (Cass., sez. 6°, u.p. 10 ottobre 1980 - dep. 21 aprile 1981, n. 3648, Pirellas).

 

16. - Cio' premesso, tale conclusione non puo' pero' esaurire il giudizio perche' resta aperta la questione della responsabilita' per gli atti compiuti in precedenza. Infatti, se e' vero che, come messo in luce dalla dottrina, la scriminante in esame e' riconducibile al piu' generale diritto di ognuno di resistere e finanche di reagire al sopruso dell'Autorita', non puo' tuttavia assumersi giustificata una reazione violenta a comportamenti, ancorche' illegittimi o arbitrari, da chiunque posti in essere, che non sia necessitata dalla impossibilita' di impedire tali comportamenti facendo valere altrimenti le proprie ragioni.

 

16.1 - La ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito che si e' riportata in esordio della presente sentenza assume particolare rilevanza ai fini della decisione, perche' non tutto cio' che accadde quel giorno puo' essere valutato con lo stesso metro. Riprendendo un'espressione contenuta nelle sentenze di merito e', infatti, importante sottolineare come la perquisizione ebbe una esecuzione frazionata, per usare la stessa parola che si legge nella decisione di appello. Di cio' si e' dato ampiamente conto nella descrizione del fatto. Senza ripetere qui cose gia' dette, la questione che nei locali del partito Lega Nord esistesse una stanza adibita a segreteria politica dell'On.le Maroni venne in luce poco prima che le operazioni fossero ultimate. La mattina del 18 settembre 1996, fu lo stesso Maroni a dichiarare che nessuna stanza aveva a disposizione negli uffici della Lega come nessuna stanza aveva a disposizione il Marchini. La prima affermazione fu addirittura confermata dal Calderoli (v. sentenza di primo grado pagg. 7 e 8; sentenza di secondo grado pag. 14). Alla luce di cio' che e' accaduto dopo e' lecito ritenere - per dare una spiegazione degli eventi senza fare affermazioni avventate che non competerebbero a questa Corte - che si tratto', nel caso, di un'affermazione di Maroni che aveva, una connotazione di sfida o, comunque, di un'espressione finalizzata a far desistere gli agenti dalla perquisizione cercando di convincerli che non v'era nulla da perquisire. Cio', pero', non poteva bastare ovviamente per far desistere gli operanti dal dare corso a un atto che in quel momento non solo appariva loro dovuto ma era oggettivamente dovuto. E, infatti, nel pomeriggio venne dato corso all'atto presupposto e nella convinzione da parte della polizia della ricerca della stanza di Marchini e della inesistenza della stanza di Maroni (La questione che all'On.le Maroni era stata assegnata una stanza in via provvisoria risulto' ufficialmente solo molto tempo dopo in dibattimento e fu acquisita al processo a seguito di affermazioni di testi indotti dalla difesa, i quali hanno affermato che quella assegnazione era dipesa dal fatto che il Maroni doveva iniziare a svolgere i suoi impegni riguardanti il "Governo della Padania": v. sentenza d'appello pag. 13; v. anche sentenza della Corte costituzionale di risoluzione del secondo conflitto di attribuzione).

 

16.2 - Orbene, ripercorrendo sinteticamente lo sviluppo della vera e propria fase esecutiva della perquisizione, attenendosi al fatto come cristallizzato nelle sentenze di merito possono distinguersi: fatti verificatisi nell'atrio del palazzo (superamento del cordone formato da alcuni degli imputati e da altri simpatizzanti della Lega Nord); fatti verificatisi durante la salita della prima rampa di scale; fatti verificatisi nella fase piu' concitata dei tumulti pianerottolo che, tramite una porta a vetri, dava accesso a un corridoio (porta a vetri sulla quale era collocato un primo cartello indicante la stanza dell'On.le Maroni); fatti verificatisi dopo il superamento di tale porta a vetri e, successivamente, durante il percorso del corridoio e nella fase finale davanti alla porta su cui era apposto il secondo cartello indicante l'appartenenza del locale all'On.le Maroni (sulla esistenza di un primo cartello davanti alla porta a vetri di accesso al corridoio, si veda la sentenza di primo grado alla pag. 32).

 

16.3. - Ora, ritiene la Corte, come gia' detto, che, ai fini della attribuzione di responsabilita', si debbano distinguere e valutare diversamente i fatti posti in essere dagli imputati prima che gli operanti si avvedessero del primo cartello, dai fatti verificatisi dopo. Non risulta, infatti, stando a quanto accertato dai giudici di merito, che alcuno degli imputati abbia, prima di tale momento, fatto presente agli agenti l'argomento, a questi ignoto, che rendeva arbitrario il loro agire. E non v'e dubbio che prima del superamento della porta a vetri, davanti alla quale gli agenti si sarebbero dovuti arrestare, si verificarono episodi di violenza attiva, idonei a integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale da parte di alcuni degli imputati per frenare il progredire delle forze dell'ordine.

 

16.4. - Nessun reato si ravvisa con riferimento alla formazione del cordone umano che fu superato dagli agenti, davanti alla rampa di accesso alla scala posta nell'atrio, in quanto il fatto rappresenta una mera resistenza passiva. Diverso fu, invece, il comportamento di alcuni degli imputati nella fase di salita della rampa e poi nella fase degli scontri verificatisi pianerottolo (i fatti sono descritti analiticamente nella sentenza di primo grado nelle pagg. 13, 14 e 15). Come si e' gia' detto, nel momento della salita, Maroni afferro' per una gamba l'ispettore Mastrostefano per impedirgli di salire. Analogo comportamento tenne Maroni nei confronti dell'ispettore Amadu che era intervenuto per liberare il Mastrostefano dalla morsa. Si tratta di inspiegabili episodi di resistenza attiva (considerato cio' che il Maroni avrebbe potuto dire subito della esistenza del suo ufficio) e proprio per questo del tutto ingiustificabili. Non solo. Episodi di resistenza attiva si ebbero anche quando gli agenti pervennero pianerottolo dopo il percorso di un corridoio e la discesa di una nuova rampa di scale. Prima ancora della vista del cartello, secondo quanto risulta dalla analitica descrizione della sentenza di primo grado, si verificarono su detto pianerottolo altri episodi di resistenza attiva (3 capoverso della pag. 15). Ci si riferisce non tanto al comportamento di Capanni che cercava di impedire l'avanzata degli operanti con atteggiamenti di resistenza passiva, bensi' al comportamento del Martinelli che prendeva al collo dalle spalle l'Amadu e lo tirava indietro, al fine evidente di impedirgli il passaggio.

 

16.5. - Maroni e Martinelli si resero, dunque, responsabili di episodi di vera e propria resistenza attiva, integranti il reato di cui all'art. 337 c.p. ancor prima dell'arresto del Dott. Pallauro e dei suoi uomini e prima che quest'ultimo incontrasse la "emergenza" del cartello (pag. 16, primo capoverso, della sentenza di primo grado). Nessuno - e bisogna ripetere, inspiegabilmente - sino a quel momento aveva avvertito gli agenti della esistenza della stanza tutelata dalla guarentigia costituzionale.

 

16.6. - L'attenzione va a questo punto rivolta alla frase che si legge nella sentenza di secondo grado (pag. 14) con cui si afferma che "riferendosi la contestazione di arbitrarieta' al momento ultimativo della perquisizione (cioe' al momento in cui si paleso' la situazione che avrebbe dovuto indurre gli operanti alla desistenza, n.d.e.), il reato di resistenza era gia' stato posto in essere". Questa affermazione va censurata, perche', come si e' visto sinora gli episodi di resistenza attiva furono posti in essere da Maroni e Martinelli ed e' inammissibile coinvolgere a titolo di concorso tutti gli altri imputati senza fornire una doverosa prova del concorso. E' chiaro, infatti che, ove si consideri la particolare situazione ambientale in cui si tendeva a impedire la progressione degli operanti con attivita' che si sono per lo piu' svolte con atti di mera resistenza passiva (per lo meno sino alla fase della "emergenza") non e' dato comprendere come episodi di violenza riscontrati in capo a solo due degli imputati possano estendersi automaticamente a tutti gli altri. Episodi singoli da parte di due persone facenti parte di una folla tumultuosa di persone non possano estendersi in concorso, e in modo automatico, agli altri imputati (si veda su tale questione il motivo 6.3. di Borghezio, che appare fondato: ma la questione riguarda tutti gli altri, esclusi ovviamente Maroni e Martinelli). Su tal aspetto la sentenza impugnata risulta particolarmente confusa: alla pag. 6, infatti, si parla di episodi "riconducibili all'azione rispettivamente di Maroni, di Bossi e di 'Caldarini'". Si paria poi del comportamento di Borghezio, ma con riferimento a episodio verificatosi al momento di sfondamento della porta, fatto che riguarda la fase in cui tutti gli imputati devono ritenersi scriminati per le ragioni che si sono esposte. Ora, a parte la confusione tra Calderoli e Capanni che diventano Xaldarini" e che impedisce di capire a quale dei due imputati la Corte volesse riferirsi, particolare incertezza offre la ricostruzione di un concorso (non spiegato) da parte di Bossi. L'affermazione e' in contrasto addirittura con la sentenza di primo grado che riferisce (con riguardo agli eventi verificatisi pianerottolo) dell'arrivo di Bossi "che invitava i presenti alla calma" tanto che la situazione si tranquillizzo' sia pure momentaneamente (pag. 15 della sentenza di primo grado). Quest'ultimo imputato non e' intervenuto prima della fase ultimativa, se non per cercare di invitare alla calma e non si comprende perche' mai nella sentenza d'appello venga elencato tra le persone che commisero atti di resistenza attiva nella fase iniziale e centrale degli eventi.

 

16.7. - Per quel che attiene alla posizione di Maroni, oltre a quanto rilevato sin qui, va dichiarato inammissibile il motivo di ricorso 5.3., perche', come si e' gia' detto, con esso si deducono censure non consentite nel giudizio di Cassazione, riguardando la ricostruzione e la valutazione del fatto, oltre che l'apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio sui quali vi e' una motivazione congrua del giudice di merito che non si presta a censure.

 

Sui motivi concernenti il diniego di attenuanti;

 

17. - Maroni non ha dedotto motivi sulla mancata applicazione di attenuanti diverse da quelle generiche. Motivi al riguardo sono stati formulati invece da Martinelli (motivi 4.7, 4.8, 4.9 e 4.14 del ricorso dell'avv. Brigandi'), ma diniego delle attenuanti la sentenza appare motivata con argomentazioni, cui si rimanda, che non si sottopongono a censura: dette attenuanti restano pertanto definitivamente escluse.

 

Sulla censura contenente le statuizioni civili;

 

18. Nel ricorso dell'avv. Brigandi' per Martinelli e' contenuto anche un motivo sulle questioni civili. Sembra che tale motivo abbia il significato di censurare la sentenza di primo grado nella parte in cui non ha tenuto conto che e' stato eliminato il reato di oltraggio: Tuttavia il motivo e' infondato, perche' la liquidazione del danno e' stata rimessa alla sede separata, e il giudice civile terra' conto della misura del danno solo in relazione al reato residuo. Se poi la censura vuole riferirsi anche alla misura della provvisionale, e' noto che la Corte di legittimita' non ha alcun potere punto.

 

19. - Traendo le conclusioni da tutto quello che si e' sin qui detto, vanno formulate le seguenti proposizioni.

 

19.1. - I ricorsi di Maroni e di Martinelli devono essere rigettati con conseguente condanna degli stessi alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite, liquidate in complessive euro 4.000, di cui euro 3.060 per onorari.

 

19.2. - Nei riguardi di tali due imputati puo' procedersi alla richiesta sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, essendo gli stessi incensurati e rientrando la condanna nei nuovi limiti di pena per i quali e' consentita la sostituzione ex artt. 4 e 5, comma 3, della l. 12 giugno 2003, n. 134. Pertanto, operata la conversione a norma di legge va pronunciata la condanna al pagamento della somma di euro 5.320 ciascuno.

 

19.4. - Non deve farsi luogo alla condanna alte spese per l'effetto favorevole che consegue dalla impugnazione in relazione alla applicazione di sanzione sostitutiva.

 

19.5. - Con riferimento invece agii imputati Bossi, Borghezio, Calderoli e Caparini, la sentenza va annullata con rinvio affinche' altra sezione della Corte d'appello di Milano riesamini i loro comportamenti, rivalutando la questione del concorso con gli imputati che hanno commesso episodi non scriminati di resistenza attiva (Maroni e Martinelli) nella fase iniziale e centrale degli eventi, fermo restando che tutti i ricorrenti restano esenti da punibilita' per gli episodi successivi al momento in cui gli agenti operanti si sono avveduti delta esistenza del cartello che indicava la presenza di una stanza assistita dalla garanzia costituzionale, momento dal quale gli odierni ricorrenti vanno esenti da pena in applicazione della esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale.

 

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Bossi Umberto, Borghezio Mario, Caparini Davide Carlo e Calderoli Roberto e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano.

 

Rigetta i ricorsi di Maroni Roberto e di Martinelli Piergiorgio, nei cui confronti sostituisce la pena detentiva con quella di euro 5.320 di multa ciascuno, ai sensi degli artt. 4 e 5, comma 3, della l. n. 134/2003.

 

Condanna Maroni e Martinelli in solido alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili in questa fase, spese che liquida in complessivi euro 4.000, di cui euro 3.060 per onorari.

 

Cosi' deciso in Roma, il 9 febbraio 2004.

 

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2004


 

Cass. pen. Sez. IV, (ud. 04-10-2007) 31-10-2007, n. 40309

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente

Dott. BARTOLOMEI Luigi - Consigliere

Dott. IACOPINO Silvana Giovanna - Consigliere

Dott. VISCONTI Sergio - Consigliere

Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

1) I.B., N. IL (OMISSIS);

2) F.G., N. IL (OMISSIS);

avverso SENTENZA del 15/03/2004 TRIB. SEZ. DIST. di GUARDIA SANFRAMONDI;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. VISCONTI SERGIO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IANNELLI Mario, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

A seguito di sentenza di annullamento con rinvio in data 11.11.2003 della 3^ sezione penale della Corte di Cassazione, il Giudice monocratico del Tribunale di Benevento, sezione distaccata di Guardia Sanframondi, con sentenza del 15.3.2004, dichiarava I.B. e F.G. responsabili della contravvenzione di cui all'art. 21, lett. R), in riferimento alla L. n. 157 del 1992, art. 30, lett. H), per avere esercitato l'attività venatoria con l'ausilio di un richiamo acustico a funzionamento elettronico riproducete il canto del tordo, fatto commesso il 12.11.2000, e condannava ciascuno alla pena di Euro 800,00 di ammenda, oltre statuizioni accessorie.

 

Il G.M. motivava la declaratoria di responsabilità, ritenuta da questa Corte insufficientemente spiegata con la sentenza oggetto di annullamento, precisando che non vi era dubbio che l' I. stesse esercitando la caccia, in quanto dalle testimonianze delle guardie venatorie era risultato che l'imputato era armato di fucile ed in possesso di tutta l'attrezzatura necessaria per l'esercizio della caccia, in zona dove era consentita. Inoltre, l' I. e il F. stavano assieme, e il richiamo acustico fu ritrovato dalle guardie venatorie nello stivale del F., il quale aveva tentato di allontanarsi, mentre il solo I. era sottoposto a controllo.

 

Da tali circostanze il giudice di merito ha dedotto il concorso degli imputati, uno dei quali, pur non avendo attrezzi per la caccia, utilizzava il richiamo proibito per aiutare il compagno, invece sicuramente dedito alla caccia.

 

Nella sentenza impugnata veniva anche precisato che il reato non era estinto per prescrizione essendovi stato un rinvio di 4 mesi e tre giorni per impedimento dell'imputato F..

 

Avverso la succitata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati con unico atto, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:

 

1) Violazione del diritto di difesa per non avere ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini preliminari;

 

2) Nullità del capo di imputazione perchè generico;

 

3) Motivazione generica, illogica e contraddittoria perchè dalle circostanze esposte non si evinceva l'esercizio della caccia, nè l'uso dell'apparecchio acustico;

 

4) Erronea motivazione perchè l'"atteggiamento di caccia" costituisce una opinione inammissibile dei verbalizzanti;

 

5) Prescrizione del reato, essendo stato il rinvio per l'impedimento dell'imputato F. eccessivamente lungo, dovuto ad esigenze dell'ufficio, e non essendo comunque la sospensione estensibile all'altro imputato I.;

 

6) Omessa concessione della sospensione condizionale della pena.

 

Motivi della decisione

In primo luogo, vanno dichiarati inammissibili i primi due motivi di ricorso, sui quali la Corte di Cassazione, sezione 3, si è già pronunciata, disattendendoli, con la sentenza dell'11.11.2003, ed in ordine ai quali sussiste quindi la preclusione del giudicato, e non possono essere più riproposti con il nuovo atto di impugnazione, depositato il 7.5.2004, a norma dell'art. 624 c.p.p. (Cass. 16.4.2004 n. 21769, riv. 228593).

 

Per ciò che concerne il terzo motivo di impugnazione, si osserva che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto, pressocchè costantemente, che "l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali" (Cass. 24.9.2003 n. 18;

 

conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997).

 

Più specificamente "esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Cass. sezioni unite 30.4.1997, Dessimone).

 

Il riferimento dell'art. 606 c.p.p., lett. e) alla "mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato" significa in modo assolutamente inequivocabile che in Cassazione non si svolge un terzo grado di merito, e che il sindacato di legittimità è limitato alla valutazione del testo impugnato.

 

Nella specie, la sentenza impugnata è congruamente e logicamente motivata, ben descrivendo la dinamica dei fatti in base alle attendibili dichiarazioni delle guardie venatorie D.M.G. e B.C., e precisando come vi sia il concorso tra la persona che deteneva il richiamo acustico proibito (il F.) e la persona che esercitava inequivocabilmente la caccia (l' I.), sia perchè i due stavano assieme, sia per il tentativo di fuga del F. al momento del controllo dell' I..

 

In tal modo, il giudice di merito ha congruamente e logicamente ottemperato alla osservanza dei motivi di annullamento con rinvio della precedente sentenza del 28.3.2003, avendo questa Corte specificato che bisognava spiegare in che cosa consisteva l'atteggiamento di caccia dell' I., e quali erano le cause del ritenuto concorso tra i due imputati.

 

In presenza di una motivazione logica e congrua, le censure dei ricorrenti, peraltro esclusivamente di merito, sono inammissibili.

 

Il quarto motivo di ricorso è generico, e anche errato in fatto, ancor prima che in diritto, in quanto il giudice di merito non si è limitato a ritenere l'"atteggiamento di caccia" dell' I., come nella prima sentenza annullata, ma ha spiegato che l'imputato era munito di fucile e aveva tutto l'occorrente per l'esercizio della caccia.

 

In ordine al quinto motivo di impugnazione, il ricorrente non contesta che con la sospensione del termine di prescrizione ex art. 159 c.p., alla data di emissione della sentenza impugnata del 15.3.2004, la prescrizione non era decorsa (in quanto sarebbe scaduta dieci giorni dopo), ma che il rinvio di mesi quattro e giorni tredici dell'udienza in cui l'imputato F. era impedito è stato eccessivo, e non se ne poteva far ricadere le conseguenze sull'istante. Inoltre, si assume che la sospensione non è estensibile al coimputato I..

 

Osserva il Collegio che, come ritenuto costantemente da questa Corte, "il rinvio del dibattimento disposto per impedimento dell'imputato o del difensore e su loro richiesta non necessita di un formale provvedimento di sospensione della prescrizione; infatti, la sospensione del corso della prescrizione è normativamente ancorata all'ipotesi di sospensione del procedimento penale, equiparabile, a tal fine, al rinvio, con la conseguenza che essa è produttiva di effetti per tutti coloro che hanno commesso il reato, ex art. 161 c.p., comma 1, e quando si procede congiuntamente per reati connessi, per tutti gli imputati, ex art. 161 c.p., comma 2, non necessita di un formale provvedimento di sospensione e comprende tutto il periodo durante il quale il dibattimento è rinviato per impedimento o su richiesta dell'imputato o del difensore" (Cass. 4.4.2005 n. 12453, riv. 231694).

 

Nè a diverse conclusioni si può pervenire per lo ius superveniens, e cioè la formulazione dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, comma 3, il quale dispone che il rinvio per impedimento delle parti non può essere differito oltre il sessantesimo giorno della prevedibile cessazione dell'impedimento, trattandosi di norma processuale, correlata all'art. 420 ter c.p.p., per la quale vige il principio tempus regit actum.

 

Nè il reato si può ritenere prescritto alla data della presente sentenza, in quanto, come è stato affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 32 del 22.11.2000, l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p., tra cui la prescrizione del reato, maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (conforme Cass. 12.11.1999 n. 14013).

 

Infine, del tutto generica - e quindi, si ribadisce, in violazione dell'art. 581 c.p.p., lett. e) - è la censura relativa alla mancanza di motivazione relativa alla omessa concessione della sospensione condizionale della pena agli imputati, non indicandosi alcuna ragione per la quale tale beneficio doveva essere concesso, nè precisandosi se se vi sia agli atti la relativa richiesta, unico caso in cui vi sarebbe stato obbligo di motivazione.

 

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione delle cause di inammissibilità.

 

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

 

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2007.

 

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2007

 


 

 

 

Cass. pen. Sez. III, (ud. 17-10-2007) 28-01-2008, n. 4071

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE TERZA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. DE MAIO Guido - Presidente

 

Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere

 

Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere

 

Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere

 

Dott. SARNO Giulio - Consigliere

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

 

R.V., nata a (OMISSIS);

 

avverso la sentenza emessa il 26 marzo 2007 dalla corte d'appello di Napoli;

 

udita nella pubblica udienza del 17 ottobre 2007 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ciampoli Luigi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;

udito il difensore avv. Antonio Iacono.

 

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la corte d'appello di Napoli confermò la sentenza emessa il 3 aprile 2006 dal giudice del tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, che aveva dichiarato R.V. colpevole dei reati di cui della L. 28 febbraio 1985, art. 20, lett. c), n. 47; L. 5 novembre 1971, n. 1086, artt. 2, 13, 4, 14; del D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 163, e la aveva condannata alla pena ritenuta di giustizia, con l'ordine di demolizione dell'opera abusiva e l'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi e con la sospensione condizionale della pena subordinata alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, mentre aveva dichiarato non doversi procedere in ordine ai reati di cui alla L. 2 febbraio 1974, n. 64, ed all'art. 734 cod. pen. perchè estinti per prescrizione.

 

L'imputata propone ricorso per cassazione deducendo:

 

1) violazione della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 20, lett. c), e del D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 163, trattandosi di interventi di straordinaria manutenzione;

 

2) violazione degli artt. 157 ss. cod. pen. essendo i reati estinti per prescrizione.

 

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente ripropone la tesi secondo cui si tratterebbe di un intervento di straordinaria manutenzione e di restauro conservativo che non necessitava di concessione edilizia, ma solo di denunzia di inizio attività, che sarebbe sufficiente anche per l'ipotesi di demolizione e ricostruzione di elementi strutturali di un edificio preesistente e di suo adeguamento. L'assunto è chiaramente infondato perchè, come emerge dalla integrativa sentenza di primo grado, è stato accertato che l'imputata aveva realizzato, sul lastrico solare di una preesistente proprietà, un manufatto di mq. 30,00 circa, con muratura in cello-bloc e copertura di travetti prefabbricati ed altezza interna di m. 3,10, e quindi con una maggiore altezza di circa cm. 50 netti e con maggiore volume rispetto al precedente manufatto oggetto di domanda di condono e diverso dallo stesso anche per la copertura. Si trattava quindi di un intervento che richiedeva indubbiamente la concessione edilizia perchè, anche ammesso che fosse consistito in una ristrutturazione edilizia, incideva comunque notevolmente - come correttamente evidenziato dal giudice di primo grado - sul preesistente manufatto modificandone la sagoma ed aumentandone l'altezza ed il volume.

 

Il secondo motivo è anch'esso infondato. Nella specie i reati si sono consumati il 23 luglio 2002 sicchè i quattro anni e mezzo del normale periodo di prescrizione sarebbero scaduti il 23 gennaio 2007.

 

Deve però anche tenersi conto del periodo di sospensione della prescrizione di 9 mesi e 20 giorni (dal 3 dicembre 2004 al 23 settembre 2005) per rinvio della udienza a richiesta della difesa per astensione del difensore. Ne consegue che la prescrizione non è ancora maturata alla data odierna ma si maturerà il 12 novembre 2007.

 

Non può invero accogliersi la tesi del ricorrente secondo cui per il rinvio della udienza, dovuto all'astensione del difensore, potrebbe calcolarsi solo una sospensione della prescrizione di giorni 60, ai sensi dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251. Infatti, è vero che alla data dell'8 dicembre 2005, di entrata in vigore di detta legge, non era stata ancora pronunciata la sentenza di primo grado, che è stata emanata il 3 aprile 2006, sicchè, ai sensi dell'art. 10, comma 3, della medesima legge, come risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006, nel presente processo devono applicarsi le nuove disposizioni in materia di prescrizione se più favorevoli per l'imputato. Deve tuttavia anche considerarsi - a prescindere dalla applicabilità del nuovo testo dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, anche a rinvii delle udienze già disposti in data precedente alla entrata in vigore della nuove norme - che la nuova disposizione di cui all'art. 159 cit. regola, innanzitutto ed in via generale, le cause di sospensione del corso della prescrizione, stabilendo che la prescrizione è sospesa, tra l'altro, in caso di sospensione del procedimento o del processo penale "per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore", così distinguendo l'ipotesi della sospensione determinata da un impedimento delle parti o dei difensori (di una qualsiasi delle parti o dei difensori) dalla ipotesi di sospensione concessa a richiesta dell'imputato o del difensore dell'imputato. Più in particolare, poi, la stessa disposizione disciplina la durata della sospensione del processo, stabilendo che nella ipotesi di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori (e non, quindi, anche nelle ipotesi,di sospensione su richiesta dell'imputato e del suo difensore) l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione "dell'impedimento", e che in caso contrario si deve avere riguardo, nel calcolare la sospensione della prescrizione, al solo tempo "dell'impedimento" aumentato di sessanta giorni. E' di tutta evidenza, quindi, sulla base delle espressioni usate dal legislatore e della rado della nuova disciplina, che la limitazione a sessanta giorni (oltre al tempo "dell'impedimento") del periodo che può essere preso in considerazione ai fini della sospensione della prescrizione si applica soltanto ai rinvii determinati da impedimento di una delle parti o di uno dei difensori e non anche ai rinvii concessi a seguito di una richiesta dell'imputato o del suo difensore.

 

Nel caso di specie il differimento della udienza dal 3 dicembre 2004 al 23 settembre 2005 era stato determinato non da impedimento delle parti o dei difensori, bensì da accoglimento della richiesta del difensore dell'imputata motivata dalla sua adesione all'agitazione della categoria professionale. Ne consegue che il corso della prescrizione è stato sospeso per tutto il termine di differimento della udienza e non per soli sessanta giorni.

 

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 17 ottobre 2007.

 

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2008


 

Cass. pen. Sez. I, (ud. 04-02-2009) 11-02-2009, n. 5956

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SILVESTRI Giovanni - Presidente

Dott. ZAMPETTI Umberto - Consigliere

Dott. CAPOZZI Raffaele - Consigliere

Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere

Dott. PIRACCINI Paola - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

 

1) T.F., N. IL (OMISSIS);

 

avverso SENTENZA del 07/07/2008 CORTE APPELLO di MESSINA;

 

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

 

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. CAPOZZI RAFFAELE;

 

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

 

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

 

con sentenza del 7.2.07 il Tribunale di Messina, in composizione monocratica, ha ritenuto T.F. penalmente responsabile di più reati, di cui alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9, comma 1 (cinque violazione degli obblighi a lui imposti, siccome sorvegliato speciale di p.s.) e, ritenuta la continuazione fra i plurimi episodi criminosi contestatigli, lo ha condannato alla pena di mesi 4 di arresto.

 

Avverso detta sentenza T.F. ha proposto appello innanzi alla Corte d'Appello di Messina, che, con sentenza del 7.7.08, ha integralmente confermato la sentenza di primo grado.

 

Contro tale ultima sentenza propone ricorso per cassazione T.F. per il tramite del suo difensore, che ha dedotto il seguente unico motivo di ricorso:

 

- violazione art. 157 c.p., comma 1, n. 5, in relazione alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9 e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e):

 

aveva errato la Corte territoriale nel non avere emesso sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti per le plurime contravvenzioni, di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 1, a lui contestate come commesse l'(OMISSIS).

 

Trattavasi invero di reati contravvenzionali, per i quali gli artt. 157 e 160 c.p. prevedevano un termine massimo di prescrizione pari ad anni 4 e mesi 6.

 

La Corte territoriale non aveva emesso sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, avendo ritenuto che i termini di prescrizione dovevano ritenersi sospesi dal 18.1.06 al 24.5.06;

 

dal 5.11.03 al 29.4.04 e dal 24.5.06 al 7.2.07, perchè per tali periodi il dibattimento era stato rinviato su istanza del difensore.

 

Tuttavia ai sensi dell'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, in caso di rinvio per impedimento del difensore, la durata massima di sospensione del termine prescrizionale non poteva superare i 60 giorni.

 

Un'interpretazione diversa della norma avrebbe vanificato il precetto costituzionale della ragionevole durata del processo, consentendo al giudicante di rinviare anche di anni il dibattimento.

 

La sentenza impugnata doveva pertanto essere annullata.

 

L'unico motivo di ricorso proposto dal ricorrente è inammissibile siccome manifestamente infondato. Alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr. Cass. 3^, 17.10.07 n. 4071), la disposizione di cui all'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, così come sostituito dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, comma 3, regola in via generale le cause di sospensione del corso della prescrizione, stabilendo che la prescrizione è sospesa, tra l'altro, in caso di sospensione del procedimento o del processo penale "per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori, ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore", in tal modo distinguendo l'ipotesi della sospensione determinata da un impedimento delle parti o dei difensori dall'ipotesi di sospensione concessa a richiesta dell'imputato o del difensore dell'imputato.

 

La disposizione in esame disciplina la durata della sospensione del processo, stabilendo che, in ipotesi di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori (e non quindi anche nell'ipotesi di sospensione a richiesta dell'imputato o del suo difensore), l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successive alla prevedibile cessazione dell'impedimento, ovvero calcolando la sospensione della prescrizione per il solo tempo dell'impedimento, aumentato di sessanta giorni.

 

Sulla base delle espressioni usate dal legislatore, è pertanto chiaro che la limitazione di giorni sessanta, oltre il tempo dell'impedimento, del periodo, che può essere preso in considerazione ai fini della sospensione della prescrizione, si applica solo ai rinvii determinati da impedimento di una delle parti o di uno dei difensori e non anche ai rinvii concessi a seguito di una richiesta dell'imputato o del suo difensore.

 

Nel caso in esame, lo stesso ricorrente ha ammesso che i tre rinvii, calcolati dal giudice di primo grado per ritenere non decorso il termine prescrizionale di legge per i reati a lui contestati, sono stati concessi sui stanza del suo difensore.

 

Ne consegue che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, il corso della prescrizione è da ritenere essere stato sospeso per i tre periodi indicati dalla Corte territoriale per tutto il tempo di differimento delle udienze e non solo per sessanta giorni.

 

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

 

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2009.

 

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2009



* La proposta di legge A.C. 3013 interviene sull’istituto del legittimo impedimento con disposizione autonoma, senza novellare l’art. 420-ter.