Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Recenti sviluppi nella politica iraniana
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 19
Data: 14/10/2008
Descrittori:
IRAN   STATI ESTERI
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

SERVIZIO STUDI

 

Documentazione e ricerche

 

Recenti sviluppi nella politica iraniana

 

 

 

 

 

n. 19

 

 

14 ottobre 2008

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento affari esteri

 

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File:es0075.doc


INDICE

Schede di lettura

Cenni sul ruolo e la struttura delle Nazioni Unite  3

La situazione generale del paese  7

Politica interna  7

Il quadro economico  16

Diritti umani18

Le relazioni internazionali dell’Iran  20

La questione nucleare  26

Origini della controversia ed ipotesi sui suoi possibili effetti26

Le tesi sostenute da Teheran  27

Dai tentativi di mediazione all’intervento del Consiglio di sicurezza  28

Le risoluzioni n. 1696, n. 1737 e n. 1747 del Consiglio di sicurezza  29

Il Rapporto NIE   31

Sviluppi recenti31

S. Maloney, How the Iraq War Has Empowered Iran, Saban Center for Middle East Policy, 21 marzo 2008  39

K. Campbell, Analyzing Iran’s Domestic Political Landscape, USIPeace Briefing: U.S. Institute of Peace, maggio 2008  39

D. Salehi_Isfahani, Iran’s Economy: Short Term Performance and Long Term potential, Wolfensohn Center for Development,  23 maggio 2008  39

S. Maloney, Diplomatic Strategies for Dealing with Iran: How Tehran Might Respond, Center for a New American Security  39

F. Bindi, L’Italia, attore centrale nei negoziati con l’Iran?, Brookings Institution, 17 giugno 2008  39

R. Alcaro e G. Gasparini, Where to(re)start? Proposals for re-launching the transatlantic partnership in view of the US presidential elections, in: Osservatorio Strategico, supplemento al n. 7(stralci), luglio 2008  39

S. Vakil per openDemocracy.net, Iran’s political shadow war, 17 luglio 2008  39

D. Baliani, Israele-Iran: in costante aumento la retorica bellicosa tra i due Paesi, in: Osservatorio Strategico, luglio 2008  39

C. Bertram, Rethinking Iran: From confrontation to cooperation, in: Chaillot Paper, agosto 2008  39

D. Salehi-Isfahani, Has Poverty Increased in Iran Under Ahmadinejad?, Wolfensohn Center for Development, 5 agosto 2008  39

L. Martino, The United States approach Towards Iran. Once Again., in: Cemiss Quarterly, estate 2008  39

K. N. Yasin per ISN Security Watch, Ahmadinejad for victory, 2 settembre 2008  39

P. Rogers per openDemocracy.net, Iraq, Iran, China: The emerging axis, 8 settembre 2008  40

F. Giumelli, Sanzioni e non missili: un commento all’opzione militare contro Teheran, In :Affari internazionali, 18 settembre 2008  40

Geopolitical Diary: Changing Agendas on Iran, da Stratfor.com, 25 settembre 2008  40

D. Moran per ISN Security Watch, Stopping the Iranian bomb, 26 settembre 2008  40

A. Cordesman, The US, Israel, the Arab States and Nuclear Iran, CSIS, 7 ottobre 2008  40

Documenti ufficiali

Statement by the Foreign Ministers of China, France, Germany, Russia, The United Kingdom and the United States with support of the High Representative of the European Union, 3 marzo 2008  7

Implementation of the NPT Safeguards Agreement and relevant provisions of Security Council resolutions 1737 (2006), 1747 (2007) and 1803 (2008) in the Islamic Republic of Iran, 26 maggio 2008  7

Discorso del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in apertura della 63ª sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, 23 settembre 2008  7

 

 

 


Schede di lettura

 


 

Cenni sul ruolo e la struttura delle Nazioni Unite

L'Organizzazione delle Nazioni Unite è il più vasto organismo internazionale esistente, contando oggi l'adesione di 192 membri, ossia della quasi totalità degli Stati del pianeta.

L'adesione all'ONU comporta, da parte degli Stati, l'assunzione dell'impegno giuridico a cooperare nell'applicazione dei principi e nella realizzazione degli obiettivi enunciati nella Carta dell'ONU, ossia ad operare per eliminare la guerra, garantire i diritti dell'uomo, il rispetto della giustizia e del diritto internazionale, il progresso sociale e le relazioni amichevoli tra Stati.

La Carta delle Nazioni Unite (o Statuto) fu redatta verso la fine della II Guerra mondiale, al termine di un processo negoziale avviato nel 1941, dai rappresentanti di 50 nazioni riuniti a San Francisco nel giugno del 1945. L'adesione alla Carta è aperta a tutti i paesi del mondo che ne accettino gli impegni. L'ammissione viene decisa dall'Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza.

I principali organi delle Nazioni Unite, istituiti dalla Carta, sono:

v   L'Assemblea generale: è la principale sede di decisione e l'organo più rappresentativo delle Nazioni Unite, essendo composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri, che dispongono di un voto ciascuno. Le decisioni su questioni come la pace e la sicurezza, l'ammissione di nuovi membri o le decisioni di bilancio, sono prese a maggioranza dei due terzi, le altre a maggioranza semplice. Tra queste ultime vi sono le Risoluzioni, che hanno valore di raccomandazione etico-politica nei confronti degli Stati membri.

La sessione annuale ordinaria dell’Assemblea inizia il martedì della terza settimana di settembre e prosegue di regola fino alla terza settimana di dicembre. All’inizio di ogni sessione vengono eletti un Presidente, 21 Vicepresidenti ed i Presidenti delle sei Commissioni principali. L’elezione del Presidente segue una rigida rotazione su base geografica che vede alternarsi un rappresentante delle cinque aree nelle quali si suddividono i membri dell’Organizzazione (Africa, Asia, Europa orientale, America latina, Europa occidentale e altri). Le riunioni straordinarie dell’Assemblea possono essere convocate dal Segretario Generale su proposta del Consiglio di sicurezza, della maggioranza degli Stati membri o anche di un solo Stato, purché riceva l’appoggio della maggioranza degli altri Paesi. A causa del gran numero di temi in agenda, l’Assemblea assegna la maggior parte delle questioni da discutere in sessione ordinaria alle sei Commissioni principali, che sono, nell’ordine:

1)               Disarmo e sicurezza internazionale

2)               Questioni economiche e finanziarie

3)               Questioni sociali, umanitarie e culturali

4)               Politica speciale e decolonizzazione

5)               Questioni amministrative e di bilancio

6)               Questioni giuridiche

Esistono poi un Comitato generale composto dal Presidente, dai 21 Vicepresidenti dell’Assemblea e dai Presidenti delle sei Commissioni e un Comitato per la verifica dei poteri, composto di nove membri designati dall’Assemblea, con il compito di riferire sulle credenziali dei rappresentanti.

 L’Assemblea elegge i 10 membri non permanenti del Consiglio di sicurezza ed i 54 componenti del Consiglio economico e sociale. Inoltre, insieme al Consiglio di sicurezza, elegge i giudici della Corte internazionale di giustizia e, sempre su raccomandazione del Consiglio, nomina il Segretario Generale.

Si ricorda, infine, che nel novembre 1950 l’Assemblea Generale ha adottato la risoluzione “Uniting for peace” in base alla quale essa può intervenire attivamente nel caso di grave minaccia alla pace o del verificarsi di un atto di aggressione, allo scopo di superare il blocco determinato in seno al Consiglio di sicurezza dal veto posto da uno dei membri permanenti. In questo caso l’Assemblea ha il potere di considerare la questione immediatamente e di fare raccomandazioni agli Stati membri per l’adozione di misure collettive, compreso l’uso della forza armata se ciò fosse necessario a mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionali.

v   Il Consiglio di sicurezza ha il ruolo, affidatogli dallo Statuto, di mantenere la pace e la sicurezza internazionali. E' composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Federazione russa, Francia, Regno Unito, Stati Uniti) e 10 eletti dall'Assemblea generale per periodi biennali (attualmente ne fa parte anche il nostro Paese). Ciascun membro del Consiglio dispone di un voto; le decisioni su questioni di fondo sono assunte con una maggioranza di 9 voti, tra i quali devono figurare tutti i membri permanenti (il cd. “diritto di veto”). Il Consiglio di sicurezza ha il potere di adottare risoluzioni, di avviare indagini e di assumere decisioni vincolanti per gli Stati membri. Le principali funzioni del Consiglio di sicurezza sono disciplinate dai capitoli VI (Soluzione pacifica delle controversie) e VII (Azione rispetto alle minacce alla pace, alla violazione della pace ed agli atti di aggressione) della Carta delle Nazioni Unite. Ai sensi del capitolo VII il Consiglio di sicurezza può irrogare sanzioni o decidere l'impiego della forza, e tali decisioni sono vincolanti per gli Stati membri.

v   Il Segretariato generale, costituito dal personale amministrativo dell'ONU (staff members), è diretto dal Segretario generale nominato dall'Assemblea generale, su proposta del Consiglio di sicurezza. Il Segretario generale partecipa a tutte le riunioni dei principali organi delle Nazioni Unite e può sottoporre al Consiglio di sicurezza qualsiasi questione che, a suo avviso, rischi di minacciare la pace e la sicurezza. I funzionari delle Nazioni Unite non rappresentano gli Stati di appartenenza e devono agire in piena indipendenza nell'interesse dell'organizzazione.

v   Il Consiglio economico e sociale (ECOSOC), ai sensi della Carta, è il principale organo di coordinamento delle attività economiche e sociali dell'ONU e dei suoi organismi ed istituzioni specializzate. E' composto dai rappresentanti di 54 Stati membri, eletti per periodi triennali, di cui un terzo è sostituito annualmente. Ciascun membro dispone di un voto e le decisioni sono prese a maggioranza semplice. Fanno capo all'ECOSOC importanti organi quali la Commissione dei diritti dell'uomo, la Sottocommissione contro la discriminazione e per la tutela delle minoranze, la Commissione sulla condizione della donna, e programmi quali il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Oltre 1.500 organizzazioni non governative hanno status consultivo presso l'ECOSOC, svolgendo azione di denuncia, pressione e proposta.

v   Al Consiglio di amministrazione fiduciaria, disciplinato nei capitoli XII e XIII dello Statuto e composto dai cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza, è affidato il compito di controllare l’amministrazione dei territori (ex colonie) in gestione fiduciaria. L’ultimo di questi undici territori, Palau (un gruppo di isole della Micronesia) ha ottenuto l’indipendenza nel novembre 1994 ed il mese successivo è divenuto membro delle Nazioni Unite. Da allora il Consiglio ha formalmente sospeso la sua attività.

v   La Corte internazionale di giustizia è il principale organo giudiziario dell'ONU. Il suo statuto fa parte integrante della Carta delle Nazioni Unite, cosicché tutti gli Stati membri dell'Organizzazione sono automaticamente parte dello statuto della Corte. Alla Corte – che ha sede all’Aja - possono adire tutti gli Stati membri e, a determinate condizioni, anche i non membri. Oltre ad emettere sentenze su controversie giuridiche (e non politiche) tra Stati, la Corte esercita anche funzioni consultive per il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale, su richiesta di questi.

 

 


 

 

 

La situazione generale del paese

Politica interna

Il panorama politico iraniano post-rivoluzionario è sempre stato molto più eterogeneo di quanto la sua proiezione internazionale non permetta immediatamente di cogliere: le istituzioni statali hanno infatti caratteri e regole interne particolari che non rendono agevoli – per gli osservatori occidentali – comparazioni e previsioni; tuttavia la vita politica iraniana conosce e pratica forme di democrazia e di pluralismo, prima fra tutte le elezioni[1].

Nel febbraio 2004, allorché il popolo iraniano votò per il rinnovo del Parlamento (Majles) era in atto un’offensiva politica antiriformista, causata da un’effettiva delusione per gli scarsi risultati della presidenza Khatami (all’epoca ormai nel suo ultimo anno di mandato) che si accompagnò però anche ad una espulsione in massa dalle liste di candidati riformisti da parte del Consiglio dei guardiani, in virtù dei poteri di controllo e selezione delle candidature attribuiti a tale organo dalla stessa Costituzione. Tale azione sistematica (a cui è difficile non attribuire l’intenzione politica di agevolare la parte conservatrice) ebbe certamente effetto e contribuì ad accentuare la sconfitta elettorale e l’isolamento di Khatami.

L’evoluzione del quadro politico ha subito una brusca accelerazione nel giugno 2005, a seguito delle elezioni presidenziali, dalle quali è emersa – grazie all’appoggio di Khamenei, ma comunque a sorpresa – la leadership di Ahmadinejad. Dietro la sua vittoria vi fu – da un lato - il logoramento dell’ipotesi riformista, dopo gli otto anni dell’era Khatami (1997-2005), dall’altro il successo della operazione di mediazione condotta da Khamenei, che riuscì a riannodare la alleanza fra la componente conservatrice religiosa e la componente radicale che aveva dominato la scena politica iraniana durante l’era di Khomeini.


 

Risultati delle elezioni presidenziali del 17 e 24 giugno 2005

Candidati

Voti (1° turno)

%

Voti (1° turno)

%

Akbar Hashemi Rafsanjani

6.211.937

21,13

10.046.701

35,93

Mahmoud Ahmadinejad

5.711.696

19,43

17.284.782

61,69

Mehdi Karroubi[2]

5.070.114

17,24

-

-

Mostafa Moeen

4.095.827

13,93

-

-

Mohammad Bagher Ghalibaf

4.083.951

13,89

-

-

Ali Larijani

1.713.810

5,83

-

-

Mohsen Mehralizadeh

1.288.640

4,38

-

-

Bianche e nulle

1.224.882

4,17

663.770

2,37

Totale

(partecipazione elettorale nei due turni; 62,66% e 59,6%)

29.400.857

100

27.959.253

100

 

 

In quell’occasione Rafsanjani non riuscì invece a saldare in un unico fronte l’ala pragmatica dei conservatori e la parte del fronte riformista più interna al sistema[3], che invece – in gran parte – disertò le urne, aprendo in tal modo la strada al candidato dei pasdaran.

 

E’ opportuno ricordare che anche in quell’occasione vi furono contestazioni sulla regolarità delle operazioni di voto. In particolare, il candidato riformista Karroubi rivolse accuse ai Guardiani della rivoluzione per la mobilitazione illegale di forze in favore del loro candidato, indicando lo stesso figlio di Khamenei, Mojtaba, come uno degli organizzatori di un’azione organizzata volta a condizionare il risultato elettorale. Al giornale Eghbal, vicino ai riformisti - che intendeva pubblicare informazioni e prese di posizione in merito alle accuse di Karroubi - fu impedito di uscire nelle edicole.

 

E’ comunque in atto nel paese – per unanime riconoscimento degli osservatori internazionali – un processo politico autentico, di trasformazione e ricomposizione degli equilibri, iniziato immediatamente dopo l’elezione di Ahmadinejad.

Secondo la maggior parte delle analisi il nuovo presidente si sarebbe rivelato infatti incapace di mediare e rappresentare unitariamente tutte le componenti del composito mondo (laico e religioso) del conservatorismo iraniano, legandosi sempre più strettamente a quella parte, sia pure importante ma non autosufficiente, che lo ha più convintamene sostenuto nel 2005 - i Guardiani della Rivoluzione – e finendo per trasformarsi in una sorta di esecutore della potente lobby.

 

I Guardiani della rivoluzione islamica (pasdaran)costituiscono,com’è noto, uno dei pilastri del regime iraniano. Sorto originariamente come un semplice corpo paramilitare, fondato dallo stesso Khomeini nel 1979, si è successivamente evoluto in vera e propria forza armata, che affianca l’esercito regolare (Artesh). Sebbene quest’ultimo conti più uomini (420.000) e i Guardiani della rivoluzione fra i 150.000 e i 200.000, tuttavia sono i pasdaran a godere di equipaggiamenti più moderni, ma anche di una influenza di gran lunga maggiore nelle sfere politiche, così come nella società. Sotto il loro controllo è posta la milizia Basij (circa 90.000 volontari paramilitari) e le forze speciali Quds, accusate dai servizi occidentali di tenere la rete dei contatti con gruppi terroristici e combattenti sul piano internazionale. I pasdaran possono contare poi su una forza di almeno 2 milioni di riservisti e sono ufficialmente investiti della responsabilità dell’armamento missilistico. Anche se dispongono di ogni tipo di armamento di terra, di mare e di aria, oltre che di forze di intelligence, i pasdaran si sono specializzati in compiti di sicurezza e in azioni asimmetriche (in particolare il controllo del contrabbando di armi e il pattugliamento dello Stretto di Hormutz).

I pasdaran rispondono direttamente alla Guida Suprema Khamenei, mentre il Comandante in Capo è Mohammed Ali Safari (nominato da Khamenei nel settembre 2007).

Sin dalla fine della guerra con l’Iraq, i pasdaran hanno utilizzato politicamente l’enorme prestigio conquistato con il martirio sui campi di battaglia e hanno operato come lobby dotata di forte spirito di appartenenza. Ma il dato che spesso non viene sufficientemente messo in luce è la potenza economica che la lobby è venuta assumendo.

I pasdaran controllano infatti non solo una rete di iniziative solidaristiche (le fondazioni – bonyad – gestite dai veterani) ma anche una quantità crescente di imprese economiche ad alto rendimento, da cui traggono ingenti risorse finanziarie utilizzare anche per finanziare le componenti politiche più organiche al loro potere. In primo luogo è sotto il loro controllo gran parte della produzione di armamenti, secondo una linea di autosufficienza e autarchia che il governo di Khatami aveva cercato di invertire attraverso l’apertura al commercio internazionale ma che ora ha ripreso forza. Molte attività pubbliche sono poi affidate ad imprese legate ai pasdaran eludendo qualunque procedura di gara. Tali intrecci sono chiaramente aumentati in misura notevole durante la presidenza di Ahmadinejad. Un esempio fra i più rilevanti: nel giugno 2006 il comandante Abdolriza Abed – alto ufficiale dei Guardiani – ha annunciato l’affidamento di un contratto del valore di 2,9 miliardi di dollari per la costruzione della nuova piattaforma petrolifera off-shore di South-Pars, condivisa fra Iran e Qatar (senza gara di appalto).Infine i pasdaran controllano i porti iraniani (e quindi il contrabbando). Secondo fonti dei dissidenti iraniani con questo sistema rifornirebbero la Cina con grosse quantità di petrolio, ricevendone in cambio aiuti per la realizzazione del programma nucleare.

Secondo alcuni osservatori la forza dei pasdaran (in continua crescita dal 2005) sarebbe oggi tale da tenere in ostaggio addirittura la leadership clericale, oltre che l’Esecutivo.

Secondo un’altra linea interpretativa – invece - lo stesso crescente coinvolgimento dei pasdaran nell’economia e nell’amministrazione, ne starebbe trasformando la natura intrinsecamente sovversiva e settaria, contribuendo a farne una forza di stabilizzazione.

E’ importante ricordare (sia per i suoi effetti sul piano internazionale, sia per i suoi effetti interni) la recente decisione del Governo USA (l’Ordine esecutivo n. 13382 del 25 ottobre 2007), che fa seguito ad una risoluzione parlamentare approvata in settembre, con la quale l’intera organizzazione dei Guardiani della rivoluzione è stata inserita nell’elenco delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato[4]. Le autorità americane potranno – in virtù di questo atto amministrativo – congelare tutti gli asset e proibire ogni relazione commerciale da parte di cittadini americani con questa organizzazione.

 

L’indurimento estremistico di Ahmadinejad ha ricevuto diverse letture: la forza di condizionamento dei pasdaran, o più semplicemente le scarse capacità di leadership, o ancora la crescente influenza di correnti del radicalismo religioso, sembrano essere le spiegazioni più diffuse (almeno sul piano dell’evoluzione interna).

 

Su quest’ultimo punto, occorre ricordare che mentore di Ahmadinejad è Mohammad Taqi Mesbah Yazdi, leader religioso oltranzista, che fu fra gli allievi e compagni di percorso dell’Ayatollah Khomeini. È membro del Consiglio degli esperti, il collegio che elegge la Guida Suprema della Rivoluzione, e dirige l’Istituto Imam Khomeini per la Formazione e la Ricerca. Inoltre è stato il fondatore della Scuola Haqqani nella quale l’Islam viene insegnato in un’interpretazione estremamente restrittiva. La Scuola Haqqani è una delle fucine che sfornano i personaggi-chiave della Repubblica Islamica, una scuola dalla quale sono usciti molti di coloro che oggi occupano posizioni di alto rango nel paese. Mesbah Yazdi, come direttore, è da tempo attivo nella lotta contro tutte le correnti di riforma del paese. Quando, mesi fa, un giornale riformista ha pubblicato un articolo che chiedeva l’abolizione della pena di morte, Yazdi ha spiegato che chiunque metta in dubbio i fondamenti dell’Islam deve essere immediatamente ucciso. Poiché il suo radicalismo mette in ombra personaggi altrettanto radicali, anche in questa area politica è ormai diffusa la preoccupazione sulla sua crescente influenza.

 

Negli ultimi due anni all’interno della leadership iraniana sono progressivamente si sono accentuate le divisioni tra il partito facente capo al Presidente Ahmadinejad, più incline all’intransigenza, e quello rappresentato dall’establishment clericale conservatore, facente capo alla guida suprema Ali Khamenei. 

Si sono inoltre chiaramente espressi segnali di diffuso malcontento nei confronti del Presidente, in particolare degli ambienti riformisti che contestano la politica del muro contro muro adottata per gestire la crisi legata alle ambizioni nucleari iraniane (v. più avanti la scheda dedicata a La questione nucleare) ed il conseguente rischio di isolamento internazionale dell’Iran

 

In questo quadro, alcuni osservatori hanno sottolineato come le rivendicazioni nucleari di Teheran, assieme alle ripetute esternazioni di Ahmadinejad contro l’esistenza dello Stato di Israele - culminate nella provocatoria iniziativa della Conferenza negazionista sull’Olocausto del dicembre 2006 - siano temi che servono almeno in parte a coprire le fratture interne al Paese e alla sua leadership politica, dove Ahmadinejad ha perso progressivamente consenso a vantaggio dei suoi oppositori. 

A  tale ultimo riguardo, si ricorda, ad esempio, che il 15 dicembre 2006, nell’elezione dell’Assemblea degli esperti (l’organismo che nomina, consiglia e può anche rimuovere la guida suprema del paese: al momento l’ayatollah Khamenei), gli alleati del Presidente hanno subito una pesante sconfitta a beneficio sia dei conservatori più pragmatici sia dei riformisti; si è registrata infatti una significativa vittoria di Rafsanjani, rappresentante dell’ala dei pragmatici e suo contendente nelle elezioni presidenziali.

Ulteriori segnali di crisi della leadership presidenziale si sono avuti con le elezioni municipali del dicembre 2006 e la vittoria del “Fronte della partecipazione”, nel quale erano riuniti sia candidati riformisti khatamisti, sia candidati più legati a Rafsanjani. Le elezioni hanno – soprattutto - segnato il ritorno alle urne di quell’elettorato sociologicamente riformista (giovani e donne) che nel ballottaggio delle presidenziali del 2005 aveva preferito astenersi, esaltando quindi il peso relativo della componente militante pasdaran.

In sostanza, a partire dalla fine del 2006 il Presidente è sembrato aver già dissipato il patrimonio di consenso politico che gli aveva consentito di essere eletto appena l’anno precedente. Si ricorda che nello stesso periodo si è tenuta la già ricordata conferenza internazionale sull’Olocausto, voluta da Ahmadinejad, ma rivelatasi controproducente. Ad essa infatti ostentatamente non ha partecipato Ali Akbar Velayati, massimo consigliere di Khamenei in politica estera, che inoltre si è dissociato dalle posizioni revisioniste e dai bellicosi proclami lanciati in quell’occasione. La stessa Guida Suprema Khamenei è intervenuto pubblicamente subito dopo la diffusione da parte della stampa internazionale delle notizie relative alle minacce all’indirizzo di Israele pronunciate dal Presidente Ahmadinejad, affermando che “la Repubblica islamica non ha mai minacciato nessun paese straniero, né mai lo farà”.

 

Sono apparse quindi man mano moltiplicarsi le critiche ad Ahmadinejad,  non solo dalla fazione riformista ma anche da quella conservatrice, anche in relazione alla sua politica in campo economico.

Occorre tuttavia rilevare che l’ambizione a trasformare la Repubblica islamica in un attore regionale di primo piano in antitesi all’egemonia statunitense è largamente condivisa. La stessa questione nucleare assume infatti i contorni di una questione di orgoglio nazionale su cui anche l’ala dei riformatori non sembra disposta a retrocedere.

Il maggiore fattore di criticità per la fazione radicale sembra collocarsi proprio sul versante dei rapporti internazionali. Il Presidente e il blocco politico che lo sostiene sono accusati di aver provocato un’accentuazione della conflittualità internazionale, rompendo un elemento di continuità della Repubblica Islamica che ha sempre evitato l’isolamento totale.

Questo sbilanciamento strutturale che si è venuto a creare nei delicati equilibri della politica iraniana è probabilmente il principale fattore all’origine del progressivo distacco da Ahmadinejad del gruppo tradizionale dei conservatori (che oggi vengono chiamati conservatori moderati); ciò ha indotto il Presidente a rinunciare alle tradizionali mediazioni che intessevano la tela della politica iraniana, e a ricercare sempre di più l’appoggio della fazione dei conservatori radicali e dei pasdaran, la cui forza non è però sufficiente a garantire un governo stabile e la cui presa sulla società iraniana rimane circoscritta. Non sembrano del resto servire a tale ultimo proposito le rilanciate severe campagne di moralizzazione, invise soprattutto ai giovani, come parimenti controproducenti potrebbero rivelarsi nel medio periodo le rinnovate repressioni contro giornalisti e intelletualli non “allineati”.

Ahmadinejad aveva vinto nel 2005 anche grazie ad una serie di promesse di impronta populista (relative in particolare alla redistribuzione degli introiti petroliferi a vantaggio degli strati più poveri della società iraniana). Il peggioramento della situazione economica – dovuto del resto in parte proprio alle politiche populiste - non ha consentito di realizzare il disegno. In ogni caso, non può sottovalutarsi l’appoggio ad Ahmadinejad tuttora confermato da parte della Guida suprema, né la popolarità del Presidente presso gli strati più poveri.

 

Vanno ricordate le posizioni del Premio Nobel per la pace, avvocatessa Shirin Ebadi, espresse all’inizio di marzo 2008, nell’imminenza delle elezioni legislative: secondo la Ebadi la selezione delle candidature da parte del Consiglio dei Guardiani si pone in violazione della stessa Costituzione vigente, e pertanto la Ebadi ha preannunciato il proprio non voto. Inoltre, sempre secondo la Ebadi, durante gli anni di predominio parlamentare conservatore, e in particolare dopo l’avvento alla Presidenza della Repubblica islamica di Ahmadinejad, si è assistito ad un costante peggioramento nella situazione dei diritti umani, con arresti di manifestanti pacifici, ricorso alla tortura, decessi in carcere e punizioni contrarie ai diritti umani, come le amputazioni di arti.

 

Le elezioni parlamentari del 14 marzo 2008 hanno in fondo fotografato la situazione del Paese: a fronte di una buona affermazione dei riformisti – la cui lieve crescita va inserita nel contesto di una vera e propria falcidia delle candidature operata dagli organi del regime -, si è verificata la prevista affermazione del blocco conservatore facente capo alla Guida Suprema, che pare aver ottenuto oltre due terzi dei seggi. Tuttavia, per quanto detto in precedenza, il dato veramente rilevante sta nella differenziazione interna del blocco conservatore, nel quale sembrano aver prevalso le ali moderate, da tempo impegnate ad allegerire il proprio bagaglio politico delle posizioni più ideologiche ed estremistiche, anche per intercettare parte dell’elettorato riformista. Vi sono stati casi davvero eclatanti nei quali i candidati conservatori moderati hanno prevalso su quelli radicali vicini al presidente: l’ex capo negoziatore iraniano sulla questione nucleare, Larijani, poi dimessosi proprio per divergenze con Ahmadinejad, ha stravinto nella città santa sciita di Qom, in teoria una roccaforte dei radicali, e sembra poter aspirare al ruolo di speaker del nuovo Parlamento, e in prospettiva, alle presidenziali del 2009.

Va peraltro ricordato l’ampio fronte di critiche internazionali che ha accompagnato lo svolgimento delle elezioni, sia da parte europea che americana: la Presidenza slovena della Unione europea ha accusato l’Iran di aver svolto elezioni prive dei caratteri essenziali della libertà e dell’imparzialità.

Il problema dell’evoluzione della situazione politica iraniana fino alla scadenza presidenziale del 2009 sembra ruotare quasi per intero attorno alla rivalità fra il blocco che sostiene la presidenza e il campo di forze che Rafsanjani sta costruendo, anche utilizzando il cumulo di cariche che si è venuto addensando nella sua persona da quando, oltre alla carica di Presidente del Consiglio per la Determinazione delle scelte (detenuta dal 1997),  egli ha assunto come già ricordato anche quella di Presidente della Assemblea degli esperti.

In tale prospettiva il nuovo Parlamento si presenta di non facile gestione per Ahmadinejad ed i suoi fedelissimi, ma il ruolo-chiave sembra rimanere per ora quello della Guida suprema: per Khamenei, infatti, la giustificazione del proprio potere è nella stabilità del regime, e lo strumento principe ne è la mediazione tra i diversi interessi, ma entrambi rischiano di essere messi in crisi da una polarizzazione del blocco conservatore. Certamente da parte di Ahmadinejad non vi sono segnali di disponibilità verso i conservatori moderati, quanto invece il probabile disegno – dal quale lo stesso Khamenei non verrebbe avvantaggiato – di una progressiva sostituzione dell’egemonia religiosa con una forte presenza laico-populista e militare, a cominciare dai gangli vitali del sistema economico.

In ogni caso, dalle elezioni amministrative del dicembre 2006 è indubbiamente uscito rafforzato Rafsanjani, i cui uomini hanno conquistato nuove posizioni di potere, sia a livello amministrativo, sia nella concomitante elezione dell’Assemblea degli esperti, l’organo elettivo formato da 86 esponenti religiosi che ha – fra gli altri – anche il compito di scegliere la Guida suprema (Rahbar).

 

Ali Akbar Hashemi Rafsanjani(oggi 74enne) comparve sulla scena politica iraniana già alla fine degli anni ’70 – ancora prima della caduta dello Scià – quale rappresentante dei piccoli commercianti del bazar di Teheran. Dopo la rivoluzione khomeinista, grazie alla posizione già da anni rivestita all’interno del più stretto entourage dell’ayatollah Khomeini, divenne Presidente del Parlamento (1980-1989), svolgendo però anche un ruolo politico rilevante nel Consiglio di Guerra ed esercitando quindi una notevole influenza nella gestione della guerra contro l’Iraq.

Due mesi dopo la morte di Khomeini (5 giugno 1989) Rafsanjani – che nel frattempo ha assunto il profilo di leader della corrente maggioritaria tradizionalista ma pragmatica - viene eletto Presidente della Repubblica islamica. Ricopre la carica, ininterrottamente, per due mandati, fra il 1989 e il 1997, plasmando la politica iraniana secondo due indirizzi strategici che ne costituiscono tuttora le coordinate fondamentali: continuità con la rivoluzione khomeinista ma smussandone gradualmente le asperità e posizione internazionale di netta autonomia.

Al termine della parentesi khatamista (1997-2005), anche approfittando del bilancio non altrettanto brillante presentato dal leader riformista, ha tentato di ottenere un terzo mandato ma è stato battuto – a sorpresa - dall’attuale Presidente Ahmadinejad.

Sembrava a questo punto che la sua carriera politica stesse volgendo al termine, ma le stesse difficoltà incontrate da Ahmadinejad stanno rilanciando il ruolo e le prospettive di una figura centrale, quale quella di Rafsanjani, che mantiene ancora una forte presa sul ceto politico e su correnti di opinione pubblica, oltre che una notorietà in campo internazionale. Non è esclusa – a questo punto – una sua successione a Khamenei (già da tempo malato), mentre motivi di età impedirebbero una sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2009.

 

Un nuovo – forte – segnale non solo della presenza di tensioni nel blocco di governo, ma anche del fatto che la vicenda nucleare è investita da tali tensioni, sono state le già richiamate dimissioni, nell’ottobre 2007, di Ali Larijani (capo negoziatore iraniano sul nucleare) e la sua sostituzione con un uomo molto più vicino al Presidente (Said Jalili). Le dimissioni sono giunte immediatamente dopo la visita di Putin nella quale si ipotizza che il Presidente russo abbia messo in guardia Teheran dai rischi di isolamento insiti nella radicalizzazione perseguita da Ahmadinejad. A questo punto Larijani – da tempo in contrasto con il Presidente – avrebbe colto l’occasione per marcare pubblicamente una differenza, anche in vista delle elezioni parlamentari di marzo o addirittura presidenziali del 2009, nelle quali potrebbe capitalizzare il suo crescente prestigio politico.

 

Nel 2004 Ali Larijani è entrato a far parte del Consiglio supremo della sicurezza nazionale e ha partecipato anche al governo Rafsanjani come ministro della Cultura. Larjiani è un conservatore molto legato alla guida suprema Khamenei, del quale condivide ideali e intenzioni e tale inclinazione si è resa evidente proprio durante il suo mandato ministeriale. Come direttore della Radiotelevisione ha dato vita a un progetto di eliminazione progressiva dei programmi stranieri dai media nazionali, dichiarando la necessità di salvaguardare la gioventù iraniana dalle influenze esterne. Questo lo ha portato a contrasti con l'ala più progressista del clero che fino ad allora lo aveva ritenuto un potenziale riformista. Larijani è invece fedele a una visione politica nella quale le riforme mantengano inalterate la centralità dei valori islamici sciiti e la fedeltà all'attuale regime. In seguito alla vittoria di Ahmadinejad nelle presidenziali del 2005, dove lui stesso era candidato, Larijani è stato poi da questi promosso segretario del Consiglio della Sicurezza in sostituzione del moderato Hassan Rohuani. La mossa venne vista come un ulteriore indicazione del desiderio della leadership iraniana di ridurre la libertà d'azione dei riformisti. Egli è comunque arrivato alla ribalta internazionale in seguito alla sua nomina a capo negoziatore ufficiale della Repubblica Islamica per la questione nucleare. E' in questa occasione che la sua figura si lega più chiaramente all'attuale conflitto tra le diverse anime dei conservatori iraniani. Durante il suo mandato Larijani è sempre apparso come il volto dialogante dell'Iran: fermo nell'intento di garantire un futuro utilizzo dell'energia nucleare per scopi civili, ma comunque disposto a trattare per calmare le preoccupazioni occidentali circa le eventuali implicazioni belliche.

Il suo approccio si è basato sul confronto aperto con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA) e in particolare con il suo responsabile El Baradei. Non è un caso perciò che il mandato di Larijani sia coinciso con il periodo di maggiore tolleranza dell'Agenzia nei confronti dell'Iran, nonché con i primi rapporti che segnalavano una buona collaborazione. Bisogna ricordare che una tale linea d'azione non deriva unicamente da Larijani stesso, ma sia piuttosto l'estensione della volontà della Guida suprema di non inimicarsi eccessivamente le potenze straniere, da cui l'Iran dipende per importanti investimenti. E' difficile credere infatti che Khamenei non abbia approvato preventivamente questa linea negoziale. A supportare ciò vi è proprio il fatto che la nomina sia stata effettuata dall'Ayatollah stesso.

Non è un caso che sia stato chiamato proprio Larijani ad essere la figura chiave nonché il portavoce degli uomini di Khamenei: ancora una volta la Guida suprema può contare su un fedelissimo che porti avanti i propri progetti senza doversi esporre troppo. L’inabilità del governo Ahmadinejad di rispondere alle esigenze della popolazione e la crisi anche energetica in atto sono state sfruttate da Larijani in campagna elettorale per guadagnare consensi: le elezioni hanno sancito infatti una sostanziale sconfitta degli ultraconservatori, che hanno registrato un forte calo di preferenze anche in quei collegi (come Teheran) dove il presidente aveva precedentemente ottenuto larghi consensi.

La possibile candidatura di Larijani, vicinissimo all’ayatollah Khamenei, permetterebbe di riportare l’Iran verso un modello limitatamente riformista che comunque mantenga inalterate le caratteristiche base del regime, nel tentativo di far uscire la repubblica islamica dall’isolamento internazionale che l’attuale governo ha inasprito. Questo però non significa che il regime diventerebbe pronto a piegarsi facilmente alle pressioni occidentali, soprattutto sul nucleare. Anche come negoziatore Larijani non ha mai rinunciato a confermare il diritto dell’Iran di dotarsi di una tale fonte di energia. Tuttavia le nazioni occidentali potrebbero apprezzare maggiormente un presidente che comunque ha già dimostrato di voler e poter dialogare e che potrebbe essere maggiormente disponibile a un compromesso, per quanto di non facile definizione.

 

Il 12 aprile scorso una violenta deflagrazione nella moschea dei martiri di Shiraz, mentre veniva pronunciato un sermone contro le sette islamiche ritenute eretiche, ha provocato la morte di 12 persone ed oltre 200 feriti. Le autorità iraniane hanno inizialmente attribuito l'esplosione ad un incidente, ma il Governo, dopo poche settimane, ha annunciato che l'attacco era in realtà un atto di terrorismo e che 12 persone collegate con l'accaduto erano state arrestate confessando anche di aver ricevuto il supporto degli USA e della Gran Bretagna. Il gruppo che ha rivendicato l'attentato, in un comunicato sul proprio sito internet, è una ancora poco conosciuta organizzazione monarchica anti-musulmana, i Soldiers of the Kingdom Assembly of Iran (Anjoman-e Padeshahi-e Iran, o API).

L'organizzazione è accusata di essere collegata con segmenti della diaspora iraniana negli Stati Uniti, e che il proselitismo via web sarebbe partito proprio da Washington. La questione di un supporto esterno alla dissidenza iraniana pone di conseguenza seri interrogativi. In primo luogo agli occhi dei cittadini iraniani, l'appoggio degli Stati Uniti ai diversi gruppi potrebbe macchiare la credibilità di quest'ultimi, e rafforzare la base di sostegno al regime. Teheran trarrebbe cosi solo un vantaggio dal rafforzamento della sua ideologia anti-americana, avendo anche un pretesto per intervenire ancor più duramente contro la dissidenza interna. Le accuse di interferenza degli Stati Uniti sono oramai pubblicamente pronunciate dai media filo-governativi, ed una nuova spirale di violenza non farebbe che fomentare ulteriormente l'instabilità della regione senza indebolire realmente la leadership sciita.

Attualmente nessuno dei gruppi di opposizione sembra infatti nelle condizione di costituire una minaccia imminente per il rovesciamento del regime di Teheran, ma un eventuale attacco militare di Israele o statunitense potrebbe sicuramente rinvigorirli. La maggiore preoccupazione risiede tuttavia nelle basi operative dalle quali operano i miliziani. Secondo fonti istituzionali pachistane, sono circa 84 mila i profughi che, a causa dei pesanti scontri tra i ribelli del Baluchistan pachistano e le forze governative di Islamabad, si stanno riversando nelle aree di frontiera con l'Iran. In questa regione di confine, crocevia dei traffici illegali gestiti dai guerriglieri, potrebbe venirsi a creare nel medio periodo un asse tra le etnie baluche dei due paesi simile all'alleanza a nord-ovest esistente tra i curdi-iraniani e i curdi di Turchia.

Il quadro economico

Il quadro economico dell’Iran è in netto peggioramento. Tale trend negativo è in parte compensato (e comunque mascherato) dall’aumento del prezzo del petrolio, che da solo costituisce quattro quinti delle esportazioni iraniane.

Non è facile valutare (e fra gli osservatori non vi è unanimità) se le responsabilità maggiori di tale costante peggioramento siano da attribuire alla cattiva gestione dell’economia del paese, alla sua struttura statalista o all’effetto delle sanzioni decise dalle Nazioni Unite con le risoluzioni n. 1737 e n. 1747 del Consiglio di sicurezza.

Il tasso di crescita del PIL è in calo: secondo stime dell’Economist, dal 4,3% di crescita del biennio 2007-2008 dovrebbe scendere al 3,7% nel biennio 2008-2009.

Ci sono timidi tentativi di privatizzare, in attuazione di un indirizzo generale sostenuto dallo stesso Khamenei e che non sta però trovando effettiva applicazione. Continua peraltro a crescere la spesa pubblica, con politiche di sussidi e aumenti delle retribuzioni nel settore pubblico.

I sussidi sono utilizzati come arma politica per conquistare il favore del popolo, piuttosto che allo scopo di sostenere realmente il reddito e le capacità di sopravvivenza dei meno abbienti. Il quarto Piano di sviluppo quinquennale, entrato nel suo penultimo anno di realizzazione, prevede tra i suoi obiettivi la crescita sostenibile e la giustizia sociale: secondo la Banca centrale – molto critica sulla gestione economica dello Stato – dovrebbero essere adottate politiche monetarie in grado di soddisfare le richieste di liquidità, pur considerando il contenimento dell’inflazione. Tali indicazioni non hanno trovato adempimento: piuttosto, la base monetaria, anziché attraverso un rafforzamento delle attività in grado di avviare processi virtuosi per l’occupazione e la crescita economica, è alimentata dai continui prelievi di rials dal fondo di stabilizzazione petrolifera, i quali portano all’innalzamento della liquidità in circolazione e, di conseguenza, dell’inflazione.

Il tasso di inflazione per i prodotti alimentari e le abitazioni è attorno al 17%, nonostante le politiche di prezzi amministrati diffusamente adottate. La Banca centrale non ha un effettivo controllo della politica di espansione fiscale voluta dal Governo. Lo scorso settembre è stato proprio un abbassamento dei tassi d’interesse dal 14% al 12% preteso dal Presidente a indurre il Governatore della Banca centrale alle dimissioni.

In aumento anche la disoccupazione, mentre gli investimenti esteri subiscono comunque gli effetti – anche indiretti – delle sanzioni. In particolare, il calo degli investimenti esteri minaccia di peggiorare la già bassa produttività dell’industria degli idrocarburi.

Infine, vanno ricordati alcuni gravi ritardi strutturali del sistema economico iraniano, fra i quali assumono un rilievo prioritario la scarsa diffusione della proprietà privata (e quindi la debolezza degli istituti giuridici a tutela della stessa) e l’inefficienza complessiva del sistema creditizio.

Nell’ultimo anno fiscale completamente recensito dalla Banca Centrale iraniana, il 2006/2007, il Governo centrale ha chiuso i propri conti in deficit, per un ammontare pari a 13 miliradi di euro, il 41% di spesa in più rispetto all’anno fiscale precedente.

Le principali risorse che garantiscono il finanziamento del budget statale derivano dal petrolio: la vendita di petrolio e di prodotti da esso derivati, la tassa sulla oil performance, nonché il ricavo sulla quota di produzione spettante al governo apportano allo Stato il 65,1% della propria ricchezza. La dipendenza dalle entrate petrolifere per soddisfare gli impegni di spesa espone il bilancio dello Stato all’eventuale caduta dei prezzi del greggio sui mercati internazionali.

Al contempo però, per una serie di circostanze, il petrolio costituisce attualmente una base solida delle finanze iraniane: innanzitutto, l’andamento al rialzo delle sue quotazioni sui mercati internazionali pare non arrestarsi, producendo pertanto un considerevole utile per la Repubblica Islamica; in secondo luogo poi, è improbabile che gli Stati Uniti e i poteri europei possano imporre restrizioni proprio sulle esportazioni iraniane di greggio – mentre gli altri prodotti, meno strategici per l’economia internazionale, sono più soggetti a simili provvedimenti.

La potenziale implosione dei conti pubblici complica ulteriormente uno scenario, come quello iraniano, già gravato dall’assenza di una programmazione economica e dal crescente peso delle sanzioni. Negli ultimi due decenni, il mancato consenso politico sul ruolo degli investimenti esteri, soprattutto occidentali e, più in generale, lo scontro tra difensori del ruolo del governo nell’economia e sostenitori dell’indipendenza del mercato hanno impedito la stesura di una politica di sviluppo coerente e solida, nonché hanno recluso il privato ad un ruolo marginale, lasciando in mano al pubblico la gestione economica – e le responsabilità di oneri crescenti.

Dall’altro fronte le sanzioni, adottate da diversi protagonisti della comunità internazionale in risposta ai piani nucleari iraniani, scoraggiano le operazioni delle imprese straniere, che, una volta avviati investimenti a lungo termine nel paese, temono di vedersi precluse per ritorsione le linee di finanziamento della US Export-Import Bank e di altre istituzioni finanziarie statunitensi, nonché di subire il ritiro delle licenze di esportazione verso gli Stati Uniti: di certo, si tratta di provvedimenti radicali che gli Stati Uniti stessi sono piuttosto restii ad applicare, in primis contro le società dei propri partner commerciali, ma che costituiscono ugualmente un elemento di dissuasione all’investimento privato.

 

Diritti umani

La situazione dei diritti umani in Iran è oggi particolarmente grave.

Oltre al diffuso ricorso alla pena di morte (l’Iran è, al mondo, nelle prime posizioni quanto al numero di esecuzioni, e in proporzione al numero complessivo di abitanti eguaglia addirittura la Cina), le questioni in ballo sono anche altre: repressione politica attraverso arresti di esponenti sindacali, oppositori e studenti, diffuso uso della tortura, ricorso a pene inumane (fustigazione, taglio delle mani, lapidazione e – secondo notizie di stampa – addirittura esecuzione capitale mediante lancio da una rupe[5]), discriminazione delle donne, repressione degli omosessuali, repressione delle minoranze religiose ed etniche (in particolare delle minoranze curda e azera).

 

L'Iran è infatti da lungo tempo tormentato dall'instabilità e dalle tensioni interne che hanno origine nelle rivendicazioni delle minoranze del paese. Queste sono una diretta conseguenza del fallimento e del rifiuto, da parte della etnia maggioritaria persiana di orientamento sciita, la base del regime islamico, di integrare le comunità minoritarie nel tessuto sociale. Il 40% dei 69 milioni di iraniani non appartiene infatti al gruppo etnico persiano, ed il numero dei musulmani sunniti appare in costante aumento. Di questo 40% tra i 15 ed i 20 milioni sono di etnia azera, tra i 4 ed i 7 milioni sono curdi sunniti, poco più di due milioni sono i Baluci, circa 1,5 sono arabi Ahwazi e altri due milioni sono Turkmeni. Tutte queste popolazioni condividono le proprie radici culturali e linguistiche con le rispettive etnie degli stati vicini, come l'Iraq, il Pakistan, l'Afghanistan, l'Azerbaigian ed il Turkmenistan. La severa compressione della propria identità etnica e culturale, lascia questa fetta di popolazione esposta all'influenza delle correnti sociali e politiche che provengono dall'esterno dell'Iran, prima fra tutte il nazionalismo. Inoltre le comunità arabo-sciite e curde, tradizionalmente oppresse dal governo di Teheran, sono state spinte verso posizioni di potere ed influenza senza precedenti nel Paese. Lo scenario geopolitico mediorientale scaturito dall'invasione statunitense dell'Iraq, ha infatti incoraggiato queste minoranze a muoversi con maggiore decisione e forza nelle richieste di una rappresentanza politica più ampia e del rispetto dei propri diritti culturali. Una delle prime conseguenze di questo processo è stato l'emergere di un dibattito federalista, che ha trovato ispirazione nelle proposte di divisione lungo linee etniche e settarie nate nel vicino Iraq.

 

Il 25 ottobre 2007 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui diritti umani in Iran che richiama sinteticamente ma in modo circostanziato l’intero quadro delle violazioni, esprimendo preoccupazione e condanna e rivolgendo – direttamente ai membri del parlamento di Teheran – un appello per la modifica del codice penale e per l’adozione di provvedimenti legislativi che perlomeno  vietino l’esecuzione di minori ed escludano la pena di morte per omosessualità e adulterio. La risoluzione ha proposto, infine, di riavviare il dialogo UE-Iran sui diritti umani interrotto nel giugno 2004.

 

In Iran la pena di morte è prevista per un numero considerevole di reati: omicidio, rapina a mano armata, stupro, blasfemia, apostasia, cospirazione contro il Governo, adulterio, prostituzione, omosessualità, reati legati alla droga (addirittura per il semplice possesso di più di 30 grammi di eroina o di 5 chili di oppio) e – in caso di recidiva – anche per consumo di alcolici.

Esistono – inoltre – sospetti da parte delle organizzazioni umanitarie che la pena di morte venga anche usata per colpire oppositori politici, ufficialmente accusati di reati comuni e processati senza adeguate garanzie.

Si ricorda anche che - in base al codice penale iraniano, le bambine di età superiore a nove anni ed i ragazzi con più di quindici anni sono considerati adulti e, come tali, possono essere condannati a morte[6].

Queste disposizioni legislative violano due patti internazionali ratificati dall’Iran: il Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del fanciullo, i quali vietano l’esecuzione di persone che avessero meno di 18 anni all’epoca del reato.

Nel dicembre 2003, il Parlamento iraniano ha approvato una legge che stabilisce l’istituzione di tribunali speciali per giudicare i minorenni ed esclude l’esecuzione di persone minori di 18 anni al momento del fatto. La proposta, che dopo l’approvazione del Parlamento attende quella dell’organo superiore di controllo legislativo, il Consiglio dei guardiani, escluderebbe i minori anche dall'ergastolo e dalle frustate.

Nel 2006, l’Iran ha visto quasi raddoppiare le esecuzioni che sono state 215, a fronte delle 113 del 2005. Un ulteriore, impressionante, aumento si registra nel 2007. Ma i dati reali sono praticamente sconosciuti: le autorità non forniscono statistiche ufficiali e i numeri riportati sono relativi alle sole notizie pubblicate dai giornali iraniani, che evidentemente non riportano tutte le esecuzioni.

 

Le relazioni internazionali dell’Iran

L’Iran è membro del Movimento dei Paesi Non allineati, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica e fa parte del G77.

I negoziati per l’ammissione dell’Iran all’OMC sono fermi al settembre 1996, a causa dell’opposizione degli USA; la Commissione Europea, invece, si è sempre espressa a favore di un esame della domanda in base unicamente alla valutazione di parametri economici oggettivi.

I paesi del Golfo

I rapporti dell’Iran con i Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) sono sostanzialmente buoni nonostante tutti questi paesi si fossero schierati a favore dell’Iraq nella guerra combattuta nel 1980-1988 e nonostante sussista ancora un contenzioso territoriale con gli EAU.

I rapporti di politica estera sono in gran parte influenzati dai timori che, a diverso livello, suscita il programma nucleare iraniano. I paesi del CCG, ad esempio, hanno manifestato la propria preoccupazione sia riguardo l’impatto ambientale derivante dalla costruzione di impianti nucleari, sia per la possibilità di un attacco militare statunitense.

La Siria

Le relazioni con la Siria, anche se non prive di problemi, sono buone fin dalla rivoluzione iraniana del 1979[7]. Secondo alcuni analisti, i caratteri del legame tra i due paesi saranno ridisegnati se e quando la Siria farà la pace con Israele ma, fino ad oggi, l’amicizia è parsa sufficientemente solida da resistere ai tentativi di isolamento promossi in varie occasioni dagli Stati Uniti.

Da ultimo, il processo che è stato inaugurato ad Annapolis reca con sé anche l’obiettivo di spostare l’asse della Siria verso l’Occidente (per questo motivo l’amministrazione americana ha insistito affinchè l’agenda della Conferenza comprendesse anche la questione della restituzione delle alture del Golan) e l’isolamento internazionale dell’Iran rappresenta per tutti gli osservatori uno degli scopi della missione in Medio oriente del Presidente Bush del gennaio 2008.

L’alleanza con la Siria si basa sull’ideologia religiosa integralista che lega il regime di Teheran con l’organizzazione di Hezbollah, sostenuto dalla Siria, le cui attività si fondano sui principi della rivoluzione khomeinista. Attraverso Hezbollah l’influenza dell’Iran giunge fino al Libano e l’alleanza degli sciiti di Hezbollah con i sunniti di Hamas chiude il cerchio che salda Iran-Siria-Gaza (e parti del Libano).

Israele

L'Iran considera Israele (spesso non nominato espressamente ma definito spregiativamente “regime sionista”) insieme a Stati Uniti e Regno Unito “un asse del male contro il mondo islamico e l'intera umanità”. In numerose occasioni Ahmadinejad ha dichiarato di augurarsi la scomparsa di Israele e ha provocatoriamente messo in dubbio l’esistenza dell’Olocausto. I rapporti con Israele si risolvono quindi – al momento – solo in manifestazione di ostilità. Ahmadinejad ha fatto sapere che ove fosse attaccato per il suo programma nucleare, l'Iran reagirebbe colpendo interessi degli USA nel mondo ed Israele. Il governo israeliano ha fatto intendere di non volersi fidare del tutto delle valutazioni del rapporto NIE e non ha mancato di rilevare che, in ogni caso, la conversione da progetti nucleari civili a quelli militari può richiedere solo pochi mesi[8]. Israele si prepara pertanto al fatto che l'Iran potrà disporre di un primo ordigno atomico nel 2009. Le preoccupazioni per lo sviluppo del nucleare in Iran hanno anche portato Israele a chiedere le dimissioni del direttore dell’AIEA El Baradei, dopo la pubblicazione dell’ultimo rapporto al Board dei governatori, considerato troppo conciliante.

Gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti fin dall’inizio della presidenza Bush, hanno collocato l’Iran tra i paesi nemici e pericolosi[9]. Come si è già detto, il problema principale consiste nello sviluppo da parte dell’Iran di un programma nucleare non trasparente, che si affianca alle provocatorie e minacciose dichiarazioni riguardanti lo Stato di Israele. Oltre a questo, vi è la convinzione da parte delle autorità militari statunitensi che l’intelligence e alcune organizzazioni paramilitari iraniane stiano collaborando con i ribelli iracheni nell’organizzare attentati contro le forze militari americane. Il presidente Bush aveva inoltre dichiarato, nell’agosto 2007, che estremisti sciiti sostenuti dall’Iran stavano addestrando gli iracheni a compiere attentati contro militari americani e contro la popolazione civile, aggiungendo di aver autorizzato i comandi militari in Iraq a rispondere alle “attività omicide di Teheran”. La guerra in Iraq è sembrata acquisire – in tutte le fasi di inasprimento dei rapporti con l’Iran – un carattere assai diverso rispetto a quelli originari del marzo 2003, diventando ormai una sorta di battaglia strategica tra Stati Uniti e Iran per l’affermazione di egemonia su un’area geopolitica di importanza cruciale.

Questo sembra essere il motivo per cui l’opzione militare degli Stati Uniti contro l’Iran non è stata accantonata nemmeno dopo le informazioni rese note dal Rapporto NIE (v. più avanti). Per questo motivo periodicamente riprendono quota il dialogo e forme (più o meno riservate) di negoziato.

 

All’interno dell’amministrazione Bush vi è una linea (che solo in parte coincide con la corrente supportata dal vicepresidente Dick Cheney) che sostiene la necessità (o la inevitabilità) di un attacco militare all’Iran, anche allo scopo di scongiurare che esso divenga in breve la potenza egemone del Medio Oriente. Non è escluso che anche qualora l’Iran rinunciasse all’atomica continuerebbero ad essere attive correnti favorevoli all’opzione militare, in quanto la vera ragione per intervenire con le armi risiederebbe nella esigenza di ristabilire un rapporto di forze geopolitico nella regione mediorientale che dal 2003 si è pericolosamente sbilanciato a favore dell’Iran.

Al momento sembra però maggioritario la corrente formata da coloro che respingono l’idea di un intervento militare (Dipartimento di Stato e servizi di intelligence), non tanto perché ritengano l’Iran un paese poco pericoloso, quanto perché l’uso della forza non viene giudicato risolutivo per determinare l’ auspicato cambiamento di regime e perché costituirebbe un fattore di rischio elevatissimo sulle alleanze con i paesi dell’area.

Dietro questa contrapposizione vi è anche un problema più generale di interpretazione della natura del regime iraniano. Negli USA – e in una certa misura anche in Europa - sono presenti due diverse ipotesi: quella che interpreta il regime di Teheran come un regime rivoluzionario, e quindi dominato – anche nella sua politica estera – dalla logica interna della rivoluzione e dall’imperativo categorico di mantenerne vivi i caratteri; e quella che invece ritiene possibile che i governanti di Teheran facciano effettivamente quei compromessi tipici di (e vantaggiosi per) una potenza nazionale, per quanto in ascesa. Ogni valutazione in materia di politica estera presuppone, come sottolineato più volte da Henry Kissinger, un’interpretazione coerente di questo aspetto.

In ogni caso, per quanto riguarda la politica estera statunitense, l’eventuale uso della forza comunque assumerebbe ora contorni diversi da quelli immaginati negli scorsi mesi: l’opinione pubblica americana – ormai persuasa, dopo la pubblicazione del Rapporto NIE, che l’Iran non costituisce una minaccia nucleare immediata - non potrebbe offrire ad un attacco su larga scala il necessario supporto. La pianificazione di un eventuale attacco potrebbe comprendere ora solo bombardamenti “chirurgici”, diretti non tanto contro gli impianti nucleari quanto, principalmente, contro le strutture facenti capo ai Guardiani delle rivoluzione.

Un evento di grande rilievo sul piano dei rapporti fra i due paesi è stata la approvazione da parte del Senato americano (26 settembre 2007) di una risoluzione che chiede di definire la Guardia Rivoluzionaria Iraniana un gruppo terroristico. La risoluzione, presentata dal repubblicano Jon Kyl e dall'indipendente Joseph Lieberman, è stata approvata con 76 voti favorevoli (fra i quali 28 di senatori democratici) e 22 contrari. Nella risoluzione si mette anche in luce la funzione di deterrenza costituita dei militari americani nei confronti di Teheran e della sua minaccia per la stabilità nel Medio Oriente. La risoluzione appare politicamente rilevante, dato il ruolo che la Guardia Rivoluzionaria riveste nell’establishment iraniano: si tratta infatti di mettere al bando un’intera componente della forza armata di un paese straniero.

 

L’Unione europea

La pubblicazione del NIE non ha determinato alcun cambiamento nella posizione dei paesi membri dell’Unione europea e della NATO, che hanno dichiarato di voler proseguire con la politica delle sanzioni, restando però aperti ad un dialogo che possa portare ad un accordo politico ed economico con l’Iran.

Francia e Germania – convinte entrambe  che la strada della fermezza e delle sanzioni  sia l’unica percorribile – convengono con gli Stati Uniti che il rapporto NIE non deve far abbassare la guardia, perché l’Iran continua a costituire una minaccia: questa sarà la posizione che i due Paesi intendono sostenere in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, garantendo, insieme al Regno Unito, l’appoggio all’impostazione USA favorevole ad un inasprimento delle sanzioni. Contrarie Russia e Cina, che con la loro opposizione avevano fatto sì che la Francia formalizzasse nell’ottobre 2007 la richiesta di nuove misure a livello comunitario.

La Russia

La Russia ha buoni rapporti economici con l’Iran soprattutto nel campo dell’energia. Mosca e Teheran, che sono i due maggiori produttori di gas del mondo, hanno concluso nel 2006 un accordo per la costruzione di un gasdotto che collegherà l’Iran al Pakistan e all’India.

Riguardo al nucleare, la Russia ha anche offerto all’Iran un accordo bilaterale che consentirebbe lo svolgimento delle attività iraniane di arricchimento dell'uranio sul territorio russo e in collaborazione tra i due governi. Con la partecipazione della Russia è stata costruita anche la centrale di Busher, dotata di una capacità di 1.000 MW, che si prevede entrerà in funzione la prossima estate: il 17 dicembre 2007 la Russia ha consegnato la prima fornitura di combustibile nucleare, destinato al funzionamento della centrale. Il combustibile resterà sotto il controllo dell'AIEA per tutto il tempo in cui si troverà nel territorio iraniano (l’importazione di uranio arricchito dall'estero era una delle opzioni prese in esame per arrestare il processo di arricchimento condotto in Iran).

Ma la cooperazione russo-iraniana riguarda altresì l’ambito militare ed ha avuto particolare slancio a partire dal 2000, in seguito alla sospensione del protocollo "Gore - Cernomyrdin", siglato cinque anni prima fra Russia e Stati Uniti e relativo alle restrizioni di forniture di armamenti all’Iran. Dal 2000, quindi, sono stati possibili per la Russia esportazioni di tecnologie e attrezzature militari  verso l’Iran.

La Russia, che, come già detto è contraria alle sanzioni, si è proposta come mediatore tra l’Iran, la UE gli Stati Uniti che però, finora, non hanno mai voluto trattare direttamente con gli iraniani.

La Cina

Come la Russia, anche la Cina è sempre stata contraria all’adozione di sanzioni contro l’Iran e, dopo la diffusione del Rapporto NIE, ha chiesto l’apertura di negoziati per la soluzione della questione riguardante il programma nucleare iraniano.

In ogni caso sembra evidente che le relazioni fra i due paesi siano molto condizionate dalle opportunità che la Cina intravede nelle risorse economiche (ma anche nella posizione geografica) dell’Iran, ai fini della realizzazione delle proprie aspirazioni ad assurgere rapidamente al rango di grande potenza economica e di player globale.

La Cina è già oggi un partner economico fra i più importanti dell’Iran. Risale al 9 dicembre 2007 la firma con la compagnia petrolifera cinese Sinopec di un contratto di molti miliardi di dollari per lo sviluppo del giacimento petrolifero iraniano di Yadavaran, nel sudovest del Paese. Secondo il direttore dello sfruttamento della Compagnia nazionale petrolifera iraniana (Nioc) Mahmud Mohades, Yadaravan contiene 18,3 miliardi di barili di petrolio, di cui la parte recuperabile è di 3,2 miliardi di barili. Secondo gli esperti, l'investimento necessario per sviluppare Yadavaran è dell'ordine di vari miliardi di dollari.

 

A fronte di questo investimento, tuttavia, sempre all’inizio di dicembre è stata resa pubblica la notizia (da Asadollah Asgaroladi, direttore della Camera di commercio irano-cinese) che negli ultimi tempi le banche cinesi si sono rifiutate di aprire le linee di credito richieste da banche iraniane e dalle aziende che collaborano con aziende cinesi. Il governo di Teheran suppone che il cambiamento di atteggiamento delle banche cinesi vada attribuito alle pressioni degli Stati Uniti che, forti dei 343 miliardi di dollari di interscambio con la Cina, sarebbero riusciti a persuadere quest’ultima ad aderire almeno in parte alle sanzioni contro l’Iran.

Asgaroladi ha fatto sapere anche che nel 2006 l'interscambio tra Iran e Cina si aggirava intorno ai 18 miliardi di dollari mentre nel 2007 – a fronte di una previsione di crescita molto maggiore – ci si sarebbe invece a stento avvicinati alla quota di 20 miliardi di dollari.

L’Iraq

Da ultimo, va ricordata la storica visita del presidente iraniano Ahmadinejad a Baghdad (2-3 marzo 2008), la prima in assoluto dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Non sorprende tanto il riavvicinamento tra i due Paesi – dopo la caduta del regime sunnita di Saddam Hussein la maggioranza sciita dell’Iraq ha potuto legittimamente accedere al governo, capeggiato da Nuri al Maliki - quanto la forza con la quale un Iran pure soggetto a critiche e sanzioni internazionali ha ribadito il proprio ruolo di potenza regionale, affacciandosi in un Paese nel quale è attivo un contingente militare americano. Non va tuttavia dimenticato che rispetto alla stabilizzazione dell’Iraq Stati Uniti e Iran hanno obiettivi non del tutto divergenti, e non a caso nel 2007 si erano svolte sulla materia tre tornate negoziali bilaterali tra USA e Iran.

 


 

La questione nucleare

Origini della controversia ed ipotesi sui suoi possibili effetti

La contesa che contrappone l’Iran alla comunità internazionale riguarda un processo (l’arricchimento dell’uranio, fase principale del ciclo di produzione del combustibile nucleare) che non è – di per sé - proibito dal Trattato di non proliferazione del 1968 (TNP), in quanto esso è sì necessario per la fabbricazione di ordigni nucleari, ma lo è anche per la produzione di energia.

Tuttavia, il problema ha origine da violazioni accertate da parte dell’Iran degli obblighi internazionali in materia nucleare che risalgono ormai a diversi anni fa. Infatti nel 2002 - grazie alla denuncia di un gruppo dissidente – la comunità internazionale seppe dell’esistenza di due impianti tenuti fino ad allora segreti dalle autorità di Teheran: ad Arak, un reattore ad acqua pesante ed a Natanz, un impianto per l’arricchimento dell’uranio. Tali attività non erano state notificate all’ Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), come prescritto dal Trattato.

Nel 2003 (quindi durante la presidenza Khatami) l’Iran, anche per reagire al discredito internazionale derivato dalla clamorosa scoperta, si impegnò a sospendere ogni attività di arricchimento dell’uranio.

L’ascesa di Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica islamica nell’agosto del 2005 e il suo dichiarato proposito di riprendere le attività di arricchimento dell’uranio su larga scala ha destato allarme nella comunità internazionale.

 

Diffusa è infatti la convinzione che il piano nucleare iraniano non sottenda finalità solo civili bensì rifletta l’aspirazione dell’Iran a divenire una potenza nucleare nella regione del Golfo[10]. Molto temuta è la coincidenza fra conquista dell’arma nucleare e aumento dell’aggressività iraniana nei confronti di Israele (e quindi di possibili reazioni dello stato ebraico, a sua volta dotato di armamento nucleare), così come i rischi di effetto domino sull’intero Medio oriente e di moltiplicatore delle ambizioni nucleari di altri Paesi dell’area che già da tempo hanno manifestato un forte interesse in tal senso (Arabia Saudita, Egitto e Turchia in primis). Altra ipotesi interpretativa che periodicamente si affaccia è quella in chiave di rivalità religiosa, e quindi del rischio di una contromossa dei paesi arabi, che sarebbero sospinti a dotarsi di una “atomica sunnita”. Secondo una diversa linea interpretativa, invece, le rivalità fra i paesi islamici dell’area (così come quelle fra Iran e Israele) – e quindi anche la questione nucleare – non dovrebbe essere letta in termini ideologici, ma meramente geopolitici: l’armamento nucleare è perseguito da Teheran solo per suggellare i nuovi equilibri geopolitici che si sono determinati nell’area a seguito della sconfitta dei taleban in Afghanistan e di Saddam Hussein in Iraq. Paradossalmente, sarebbero state proprio le due iniziative americane a creare le premesse dell’ascesa dell’Iran al rango di potenza regionale, e l’arma atomica sarebbe quasi la necessaria conseguenza di tali nuovi equilibri.

 

In ogni caso, i fattori su cui sembra convergere un consenso internazionale sono due. Da un lato la fase critica che attraversa già oggi il processo di non-proliferazione (crescenti critiche alle potenze del club nucleare per il mancato disarmo; indizi convergenti di una intensificazione del contrabbando di materiale nucleare, pressioni proliferatrici costanti): in questo contesto il raggiungimento dell’obiettivo da parte dell’Iran potrebbe rappresentare un colpo definitivo per il TNP. Inoltre, data la rete di rapporti dell’Iran con gruppi armati in tutto il Medio Oriente, il possesso di armi nucleari potrebbe amplificare il rischio (già alto) del trasferimento di tecnologie nucleari ad organizzazioni terroristiche.

Le tesi sostenute da Teheran

Pur aderendo, fin dal 1970, al Trattato di Non proliferazione (TNP)[11], l’Iran non ha garantito il pieno accesso degli ispettori dell’AIEA ad alcune infrastrutture regolarmente denunciate, ed ha in un primo tempo accolto, ma in seguito apertamente disatteso, l’invito della stessa AIEA a sospendere il proprio programma di arricchimento dell’uranio.

Già nel febbraio 2003, l’AIEA ha confermato l’esistenza in Iran di un avanzato programma nucleare; da allora ha cominciato a diffondersi il sospetto che tale programma avesse in realtà una segreta destinazione militare.

Nel marzo 2004 l’AIEA ha quindi espresso preoccupazione per le omissioni nelle dichiarazioni dell’Iran a proposito delle sue attività in campo nucleare, oltre che per importazioni di uranio avvenute senza notifiche.

Dalle ispezioni dell’AIEA, effettuate dopo molte pressioni, si evince complessivamente come l’Iran sia impegnato a sviluppare l’intero ciclo del combustibile nucleare (alla base della possibile realizzazione di un dispositivo militare).

Da parte sua, Teheran ha sempre sostenuto che gli scopi del programma di nuclearizzazione sono pacifici. Quanto alle mancate denunce all’AIEA, Teheran sostiene che l’interpretazione letterale del Trattato non impone la denuncia degli impianti, se non nell’imminenza dell’avvio delle attività di arricchimento dell’uranio, stadio al quale nel 2002 non si era ancora arrivati. Sostiene, inoltre, che era intenzione del governo effettuare la denuncia non appena si fosse pervenuti a questo stadio e che quindi non vi sono gli estremi giuridici per accusare l’Iran di violazione del TNP.

Dai tentativi di mediazione all’intervento del Consiglio di sicurezza

All’attività dell’AIEA si è affiancata, a partire dall’agosto del 2003, l’iniziativa dei governi di Francia, Germania e Regno Unito per indurre l’Iran a sospendere temporaneamente le attività per la produzione di uranio arricchito, a fronte di una collaborazione a livello commerciale, tecnologico, nucleare ed economico.

Nel 2004 l’Unione europea ha deciso di associare al processo avviato dai tre paesi europei l’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune, Javier Solana. Il negoziato condusse, nel novembre 2004, all’Accordo di Parigi, nel quale si prevedeva la sospensione delle attività di Teheran nel settore della produzione di uranio arricchito in cambio di un pacchetto di incentivi, che includesse accordi commerciali e cooperazione nucleare, nonché dialogo politico sulle questioni di sicurezza cui l’Iran è più sensibile.

Nel marzo 2005 l’amministrazione Bush, in origine sostanzialmente contraria a coinvolgere l’Iran in una trattativa, aveva deciso di appoggiare l’iniziativa degli europei. Ma nell’agosto del 2005 i negoziati promossi dalla UE sono naufragati in seguito alla decisione unilaterale del governo iraniano diriprendere la conversione dell’uranio (un procedimento preparatorio dell’arricchimento): nel giugno di quell’anno Ahmadinejad aveva assunto la presidenza.

Gli europei, pur lasciando aperta la possibilità di riaprire un dialogo, hanno appoggiato – a questo punto - la richiesta americana di porre la questione al Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Il 29 marzo 2006 il Consiglio di sicurezza ha invitato formalmente l’Iran a sospendere le attività di arricchimento dell’uranio e le attività connesse, nonché a riprendere la piena cooperazione con l’AIEA, alla quale veniva richiesto di fornire - entro trenta giorni - un rapporto aggiornato sulla vicenda.

Alla fine di aprile il rapporto del direttore generale dell’AIEA El Baradei denunciava il mancato adeguamento dell’Iran alle richieste delle Nazioni Unite e la conseguente impossibilità per l’Agenzia di certificare l’assenza di attività nucleari non dichiarate.

In precedenza, l’11 aprile 2006, il presidente iraniano Ahmadinejad aveva provocatoriamente annunciato che l’Iran era riuscito ad arricchire un piccolo quantitativo di uranio in una percentuale sufficiente ad essere impiegata in un reattore (3%) e che il Paese avrebbe continuato nel suo programma nucleare fino alla produzione in massa di uranio arricchito. L’annuncio ha suscitato la reazione preoccupata anche di paesi come il Giappone e la Federazione russa, che hanno subito ribadito la richiesta all’Iran di sospendere sia le attività di arricchimento dell’uranio sia quelle di ricerca.

Le risoluzioni n. 1696, n. 1737 e n. 1747 del Consiglio di sicurezza

Nel tentativo di vanificare tattiche dilatorie degli iraniani, il 31 luglio 2006 il Consiglio di sicurezza ha approvato – con il solo voto contrario del Qatar – una risoluzione (n. 1696/2006) proposta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, con la quale si chiedeva all’Iran di sospendere entro il 31 agosto le proprie operazioni di arricchimento dell’uranio. In caso di inadempimento la risoluzione prevedeva misure provvisorie (ex art. 40 della Carta delle Nazioni Unite) ed eventuali sanzioni economiche (ex art. 41), escludendo tuttavia l’uso della forza.

Il termine del 31 agosto 2006 è tuttavia scaduto senza che Teheran abbia interrotto le procedure di arricchimento dell’uranio, come risulta dal rapporto trasmesso dall’AIEA alla Presidenza del Consiglio di Sicurezza.

Nel settembre2006 si è verificata una significativa evoluzione nelle posizioni russe, in seguito all’atteggiamento di rifiuto nei confronti delle aperture che Mosca aveva avanzato nei mesi precedenti: il Ministro degli esteri Lavrov si è infatti detto disposto a valutare l’ipotesi di sanzioni, pur continuando ad escludere con nettezza ogni possibilità di intervento militare contro l’Iran.

Il 23 dicembre 2006 il Consiglio di Sicurezza, al termine di due mesi di trattative, ha approvato la risoluzione 1737, che impone sanzioni all’Iran per non aver interrotto il processo di arricchimento dell’uranio.

La risoluzione, proposta da Gran Bretagna, Francia e Germania e approvata  all'unanimità dal Consiglio di sicurezza, richiama il capitolo VII, articolo 41, della Carta delle Nazioni Unite, che prevede l'applicazione obbligatoria delle misure, pur escludendo azioni di tipo militare.

 

In particolare, la risoluzione vieta di esportare in Iran materiali o tecnologie che contribuiscano alle attività relative all'arricchimento e al riprocessamento (dell'uranio) e alle attività legate all'acqua pesante, nonché allo sviluppo di sistemi di trasporto di testate nucleari, quali i missili balistici. Singoli Paesi possono peraltro decidere in autonomia se esportare materiali o tecnologie suscettibili di doppio uso (civile o nucleare), ma in tal caso hanno l’obbligo di verificarne finalità e destinazione e devono comunque informare il comitato per le sanzioni del Consiglio di sicurezza. Le sanzioni non si applicano invece a materiali per la costruzione di impianti nucleari ad acqua leggera o ad uranio a basso arricchimento quando questi sia una delle parti di un combustibile nucleare composito[12].

La risoluzione dispone poi il congelamento di finanziamenti o fondi di proprietà o controllati da persone, società o organizzazioni legate ai programmi nucleare o missilistico iraniani; tale congelamento si applica, tra l’altro, all'Organizzazione per l'energia atomica iraniana, a tutti gli impianti legati al programma iraniano di arricchimento dell'uranio, al reattore ad acqua pesante di Arak e all'impianto di centrifughe di Natanz. Viene inoltre fatto obbligo agli Stati di segnalare l’ingresso sul proprio territorio di persone legate al programma nucleare iraniano indicate nell’Annesso alla risoluzione stessa.

Le sanzioni possono essere sospese qualora il direttore generale dell'AIEA ritenga che l'Iran abbia interrotto l'arricchimento dell'uranio e la costruzione delle centrali ad acqua pesante e torni al tavolo dei negoziati, ma possono invece essere ulteriormente aggravate se l'Iran non si conforma ai dettami della risoluzione entro 60 giorni dall’adozione della medesima.

 

Le reazioni del governo di Teheran all’adozione della risoluzione n. 1737 sono state durissime e minacciose. Il documento è stato definito ''un pezzo di carta straccia” che non potrà fermare il programma nucleare iraniano.

Alla scadenza del termine di sessanta giorni imposto all’Iran dalla risoluzione 1737 del 23 dicembre 2006, il Direttore generale dell'AIEA, Mohammed El Baradei, ha inviato al Consiglio di sicurezza dell'ONU un ulteriore rapporto nel quale si certifica che Teheran ha ignorato l'intimazione delle Nazioni Unite a sospendere ogni attività nucleare.

 

In particolare, in base al rapporto, l'Iran non solo non avrebbe sospeso il processo di arricchimento dell'uranio ma, in aperta sfida alla Comunità internazionale, lo avrebbe persino intensificato. Oltre a non ottemperare a nessuna delle misure richieste di trasparenza, Teheran avrebbe proseguito l'attività di arricchimento nell'impianto pilota di Natanz con l'installazione di quattro cascate di 164 centrifughe (le macchine per produzione di combustibile nucleare) e pianificato l'allaccio progressivo entro maggio 2007 di tutte le 3.000 centrifughe previste per arrivare alla produzione di uranio arricchito su scala industriale.

 

Intanto, a partire dal marzo 2007, si registrava anche un certo peggioramento dei rapporti fra Iran e Russia e un crescente isolamento di Teheran, che ha portato all’approvazione all’unanimità da parte del Consiglio di Sicurezza di una nuova Risoluzione (la n. 1747), recante una nuova raffica di sanzioni (24 marzo 2007). Le più significative consistono nel limite alle esportazioni di armi iraniane e nel limite agli aiuti internazionali (esclusi quelli umanitari). Alcuni esperti hanno, comunque, giudicato sostanzialmente blande queste sanzioni (e, in parte, anche difficili da applicarsi).

In occasione dell'apertura della sessione annuale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite,il Presidente iraniano Ahmadinejad il 25 settembre 2007 – ricorrendo ancora una volta a toni sprezzanti verso la comunità internazionale - ha definito la questione del dossier nucleare un “caso chiuso per il suo paese”,suscettibile solo di sviluppi di routine nei colloqui con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica.

Il Rapporto NIE

La pubblicazione il 3 dicembre 2007 del rapporto National Intelligence Estimate on Iran (NIE), ha offerto ulteriori elementi per inquadrare i termini della questione. Il rapporto, elaborato da 16 agenzie di intelligence americane, afferma che l'Iran ha disposto una interruzione del proprio programma di sviluppo di armi nucleari nell'autunno del 2003, grazie alla pressione internazionale. Tuttavia il rapporto non è in grado di escludere che dopo quella data non vi sia stata una ripresa. Inoltre, il rapporto conferma che l’attività di arricchimento dell’uranio è in corso e stima che – se tale attività fosse finalizzata ad usi militari, il che oggi non può essere né escluso, né provato – l’Iran potrebbe essere in grado di sviluppare un'arma nucleare tra il 2010 e il 2015. Immediatamente dopo la pubblicazione del rapporto, l'AIEA ha sottolineato la convergenza di tali conclusioni – per altre vie - con quelle a cui sono giunti i suoi ispettori negli ultimi anni e cioè che il nucleare iraniano non rappresenta – in ogni caso - un pericolo immediato, e che ci sono ancora margini di tempo per un negoziato.

Il Presidente Bush ha reso pubblica una dichiarazione imperniata sulla tesi che  il rapporto NIE non cambia la sostanza del problema perché l’Iran era pericoloso e continuerà ad esserlo se possiede gli strumenti per costruire un ordigno nucleare o se progredisce verso questo obiettivo senza una adeguata reazione internazionale[13].

Una portavoce del Ministero degli Esteri francese ha sottolineato che il rapporto dell'intelligence americana conferma in ogni caso che l'Iran non ha rispettato i suoi obblighi internazionali, e che pertanto la Francia ritiene necessario ''continuare a lavorare all'introduzione di misure restrittive nel quadro delle Nazioni Unite''.

Israele ha dichiarato di voler mantenere aperta anche l'opzione militare per contrastare comunque il programma nucleare iraniano, anche se ritiene che, per il momento, debba essere percorsa la via diplomatica. Nei giorni successivi alla pubblicazione del rapporto, il ministro della Difesa israeliano Barak aveva riferito che, secondo informazioni fornite da agenzie di intelligence del proprio paese, attualmente sarebbe in corso in Iran un programma di sviluppo di armi nucleari.

Sviluppi recenti

Rispettivamente il 21 gennaio e il 4 febbraio 2008, due iniziative di Israele e dell’Iran hanno introdotto nuovi elementi di tensione: da parte israeliana è stato messo in orbita da un poligono di lancio situato in India un nuovo satellite spia, capace di fotografare ad alta risoluzione, e in qualunque condizione atmosferica, anche oggetti assai piccoli: appare evidente che uno degli scopi primari del nuovo satellite sarà il monitoraggio delle installazioni nucleari in Iran[14]. Successivamente l’Iran ha proceduto al lancio sperimentale di un missile vettore, che nei prossimi mesi dovrebbe mettere in orbita un satellite di fabbricazione interamente iraniana, presentato da Ahmadinejad come reazione all’umiliazione tecnologica inflitta per decenni dai Paesi avanzati a tutti gli altri.

Anche l’ultimo rapporto del Direttore generale dell’AIEA, El Baradei, al Consiglio dei governatori sul nucleare iraniano - presentato il 22 febbraio 2008 – non incoraggia a trarre conclusioni ottimistiche.

Il rapporto informa che, pur avendo fatto progressi in tema di cooperazione in merito al suo programma nucleare, l'Iran continua tuttavia a non voler fornire chiarimenti circa aspetti determinanti delle sue attività, mantenendo così una situazione di ambiguità sui reali intenti di Teheran. L’Iran non ha poi ottemperato a quanto già previsto nelle risoluzioni ONU in precedenza illustrate, in particolare proseguendo nei processi di arricchimento dell’uranio, e anzi ha iniziato la sperimentazione di nuove centrifughe con le quali produrre in tempi più ristretti il materiale fissile.

La reazione iraniana sul rapporto è stata duplice: all’interno del paese esso è stato presentato – sintomo significativo – come suscettibile di disinnescare la tensione internazionale, in quanto favorevole a Teheran. Sul rapporto si è invece pronunciato con asprezza il portavoce del governo iraniano, per il quale le relazioni con l’AIEA sono da considerare ormai concluse, così’ come l’intera vicenda del dossier nucleare; conseguentemente, l’Iran non intratterrà più alcuna trattativa in materia, considererà come illegali ulteriori determinazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ed esigerà anzi il risarcimento dei danni provocati dai regimi sanzionatori già vigenti.

Il 3 marzo 2008 il Consiglio di Sicurezza ha approvato, con la sola astensione dell’Indonesia, la risoluzione n. 1803, che si limita a inasprire solo lievemente quanto già previsto con le precedenti nei confronti dell’Iran: in particolare, un elenco allegato alla risoluzione amplia la platea delle società e più in generale dei soggetti ed entii cui beni verranno congelati- in ragione del loro rapporto con i programmi militari e nucleari dell’Iran - nonché la lista dei funzionari ed esponenti del regime di Teheran cui saranno applicate restrizioni alla possibilità di movimento internazionale. Viene inoltre interdetta la fornitura all’Iran di beni dual use, ossia suscettibili di applicazione militare, e si esortano gli Stati membri ad un attento monitoraggio di ogni operazione finanziaria che coinvolga banche iraniane. Anche questa volta all’Iran sono concessi tre mesi di tempo per adeguarsi al disposto della risoluzione, sospendendo anzitutto i processi di arricchimento dell’uranio.

Le iniziative internazionali per una soluzione negoziata sono state rilanciate nel giugno scorso dal gruppo dei paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) e dalla Germania (c.d. gruppo “5+1”), che hanno definito alcune proposte di mediazione. Tali proposte rappresentano il frutto dell’iniziativa congiunta di americani ed europei e derivano dalla decisione degli USA di ammorbidire le proprie posizioni intransigenti.

In cambio di un pacchetto di incentivi il gruppo “5+1” ha chiesto all’Iran di rinunciare alla prosecuzione delle attività di arricchimento di uranio. L’Alto Rappresentante dell’Unione europea, Javier Solana, ha presentato in quella circostanza una serie di proposte riguardanti la cooperazione nel settore della costruzione di centrali ad acqua leggera di ultima generazione per scopi civili, quello delle infrastrutture, l’aviazione civile, lo sviluppo umano e l’assistenza umanitaria.

A queste richieste, Teheran ha risposto da un lato dichiarandosi ufficialmente non legata a nessun tipo di scadenza nello svolgimento del negoziato e, dall’altro, con il lancio di nuovi missili, in grado di colpire Israele, durante le manovre militari effettuate nel luglio scorso nel Golfo dai Guardiani della rivoluzione. verso il suo Ministro degli Esteri, Manucher Mottaki e soprattutto con il portavoce del Governo che ha affermato che la sospensione dell’arricchimento dell’uranio “non è accettabile” da parte iraniana,

Pochi giorni dopo la visita di Solana, il capo dello stato maggiore delle Forze armate iraniane, generale Hassan Firuzabadi nel commentare le ipotesi di un eventuale attacco aereo da parte di Israele agli impianti nucleari del suo paese, ha minacciato una “lezione storica” contro chiunque tenti di attaccare l’Iran.

Il 23 giugno scorso il Consiglio europeo, con la decisione n. 475, ha adottato una nuova serie di provvedimenti restrittivi dell’operatività del sistema finanziario iraniano, volti a sottrarre fonti di finanziamento ai programmi nucleari del paese. tunitense sul binario unico delle sanzioni. Chiuso ad Occidente, a Teheran non resta che rivolgersi ad Oriente.

Le sanzioni europee contro il regime iraniano colpiscono ancora una volta il sistema finanziario e ampliano la lista degli individui, ricercatori e militari del corpo dei Guardiani della rivoluzione, che sarebbero coinvolti nel programma nucleare e balistico iraniano. In forza del provvedimento, sono bloccati gli asset finanziari della maggiore banca commerciale iraniana, Bank Melli, e delle sue filiali inglese, tedesca, francese, russa e giapponese, alle quali è fatto espresso divieto di operare con controparti europee e di utilizzare la valuta europea nei propri circuiti.

Occorre peraltro osservare come, sebbene ormai alle maggiori banche commerciali iraniane (Bank Melli, Bank Mellat e Bank Saderat) sia stato imposto il divieto di operare in dollari già dallo scorso ottobre, sia assodato che solo estendendo le restrizioni commerciali al vero asse del sistema economico iraniano, ossia il settore energetico, sia possibile infliggere un colpo al governo iraniano.

Già nel 1995 il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato l’Iran-Libya Sanctions Act – dal quale poi la Libia è stata esclusa, grazie ad un miglioramento nei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti – in cui erano previste ripercussioni finanziarie nel circuito statunitense per quelle imprese straniere che avessero investito più di 20 milioni di dollari annui nel settore energetico iraniano. Il provvedimento è stato prolungato di altri cinque anni nel settembre 2006, ma ad oggi nessuna società straniera è stata sanzionata, per i prevedibili effetti politici ed economici che ne deriverebbero – si pensi ad esempio alle conseguenze di una estromissione dal mercato economico e finanziario statunitense di compagnie come la Total o l’Eni, o anche solo di disposizioni restrittive e discriminatorie contro simili colossi.

La chiusura dei maggiori canali bancari rende i rapporti commerciali tra l’Iran e le controparti occidentali più complessi e dispendiosi, e pertanto meno convenienti, con la conseguente riduzione del flusso di capitali stranieri in entrata nel paese. Il ridotto afflusso di investimenti compromette pesantemente lo sviluppo dello sfruttamento petrolifero e del gas iraniano, già in discussione dopo il ritiro della società francese Total da un progetto multimiliardario di sviluppo dell’estrazione del gas naturale, sulla scia della precedente rinuncia optata dalla Shell, motivata per entrambi, secondo fonti delle due società, dalla presenza di una situazione della sicurezza non tale da permettere ulteriori investimenti nel paese.

Teheran ha sempre negato che i provvedimenti ad oggi adottati abbiano indebolito il proprio sistema economico, né tantomeno che essi possano rappresentare un disincentivo ad insistere nel programma di arricchimento dell’uranio che, a detta del regime, segue finalità civili e non belliche. Nonostante le dichiarazioni dell’entourage politico e dello stesso presidente Ahmadinejad, gli effetti in termini commerciali iniziano a manifestarsi, e non solo in senso univoco.

L’Unione europea assorbe circa un terzo delle esportazioni iraniane, quasi per la totalità derivanti dal settore energetico. Le preoccupazioni e i provvedimenti dettati dalla questione nucleare hanno comportato negli ultimi due anni un calo del 10% nei volumi dell’interscambio.

Per compensare la progressiva degli sbocchi occidentali, Teheran sta ora rivolgendosi ad Oriente, in particolare alla Cina, che rappresenta l’anello debole del fronte pro-sanzioni capeggiato dagli Stati Uniti. La Cina è ormai divenuta il secondo maggiore partner commerciale ed energetico dell’Iran, dopo l’Arabia Saudita.

I rapporti tra Teheran e Pechino non paiono compromessi da ostilità sul piano politico. Nell’agosto del 2007, l’Iran era stata chiamata a presenziare in veste di ospite d’onore all’incontro della Shangai Cooperation Organization (SCO), l’assemblea regionale costituita da Cina, Russia, Kazakhstan, Tajikistan, Kyrgyzstan ed Uzbekistan per discutere dello sfruttamento energetico delle risorse dell’Asia Centrale. L’Iran potrà trarre ancora vantaggio dalle proprie entrate petrolifere per eludere il blocco finanziario imposto dagli Stati Uniti e in parte dai suoi alleati europei, ma di certo, senza investimenti in nuove tecnologie, le produzioni di petrolio e gas inizieranno a subire perdite sempre maggiori, così le casse dello stato iraniano – e i progetti da esso sostenuti.  

 

Non sono mancati infine momenti di tensione tra Teheran ed i paesi occidentali. In primo luogo l’Iran ha protestato ufficialmente con il nostro Paese per le parole, a suo avviso “indegne del popolo italiano”, pronunciate nei giorni scorsi a Parigi dal premier Silvio Berlusconi. Il Presidente del Consiglio aveva paragonato, evocandoli senza mai citarli, il presidente Mahmud Ahmadinejad ed Adolf Hitler. Il Ministero degli Affari esteri italiano ha replicato  replica invitando l'Iran ad assumere un “approccio politico-diplomatico costruttivo” ed un “atteggiamento più responsabile in campo internazionale, nel rispetto della dignità e del diritto all'esistenza di ogni nazione e cultura”. L'irritazione iraniana è per la Farnesina fuori luogo dal momento che “le parole del Presidente a Parigi si riferivano alle ripetute dichiarazioni di parte iraniana che hanno messo in dubbio eventi storici acclarati come l'Olocausto e addirittura l'esistenza dello Stato di Israele”.

Nel corso della recente sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, apertasi il 22 settembre, l’intervento pesantemente antiamericano ed antisraeliano di Mahmud Ahmadinejad, nonché la grande quantità di interviste rilasciate sui medesimi toni, hanno inoltre causato accese polemiche e prese di posizione da parte di numerose delegazioni. Oltre alle repliche fortemente risentite ed allarmate - prima fra tutte quella del presidente israeliano Peres – si sono registrati anche applausi proprio nei passaggi dell’intervento nel quale Ahmadinejad ha accentuato i toni contro Israele e i “centri finanziari del pianeta”, che lui ritiene in mano a lobbies ebraiche.

Il presidente Peres ha denunciato che non solo l’Iran continua a produrre uranio arricchito in violazione degli atti internazionali che ne hanno chiesto la sospensione, ma occupa il posto centrale nella catena di violenza e fanatismo del Medio Oriente. In questo quadro è apparsa molto provocatoria la richiesta dell’Iran di entrare a far parte del Consiglio di sicurezza per occupare uno dei dieci seggi non permanenti, spettante all’Asia, che da gennaio resterà vacante.

Lo stesso giorno un alto dirigente dell’intelligence israeliano, Yossi Baidatz, ha illustrato ai ministri i progressi registrati dall'Iran verso la costruzione di una prima bomba nucleare, affermando – secondo le ricostruzioni offerte dai quotidiani israeliani - che Teheran sta rapidamente avvicinandosi al punto di non ritorno, avendo a disposizione 480 chilogrammi di uranio arricchito a basso livello, cioè, fra un terzo e la metà della quantità di materiale fissile necessario per costruire un ordigno nucleare.

Il 27 settembre Consiglio di sicurezza ha approvato all'unanimità una nuova risoluzione (la n. 1835) che conferma le sanzioni contro l'Iran per il suo programma nucleare. La risoluzione non introduce quindi nuove misure ma esorta la Repubblica islamica a congelare le attività di arricchimento dell'uranio, ad "adempiere, appieno e senza rinvii, ai suoi obblighi" e "a soddisfare le richieste del Consiglio dei governatori dell'AIEA".

La risoluzione chiede alla Repubblica islamica di rispettare le tre precedenti risoluzioni che imponevano di por fine alle attività nucleari 'sensibili' e di cooperare con gli ispettori dell'AIEA. Il documento è il frutto di un compromesso che accoglie il desiderio di Mosca di non far scattare in questa fase ulteriori sanzioni contro Teheran.

Nel documento il Consiglio ricorda l'impegno assunto in marzo dal sestetto a perseguire una “doppia strategia” e ribadisce la propria disponibilità ad “una pronta soluzione negoziata” del contenzioso con l'Iran.

 




[1]    Oltre alle forme di pluralismo politico – a cui si fa principalmente riferimento in questa scheda – occorre ricordare che la rigida teocrazia instaurata ormai quasi 30 anni fa, non ha annullato la ricchezza della società e della cultura iraniane. Anche in questo retroterra affondano le radici quelle aspirazioni egemoniche rispetto all’area mediorientale che spesso trovano espressione nella politica estera iraniana (perfino da parte di esponenti politici fra loro distanti).

[2]    Candidato riformista.

[3]    Questa convergenza ha invece funzionato nelle successive elezioni amministrative del dicembre 2006 e sembra essere il principale trend in atto oggi nel paese.

[4]     Sulle origini e gli effetti di questa decisione dell’amministrazione Bush si ritorna, più avanti nel paragrafo dedicato alle relazioni fra i due paesi.

[5]    Il 10 gennaio 2008 è stata diffusa dalla stampa locale la notizia che il Tribunale di Shiraz ha comminato tale pena a due giovani accusati di stupro, ripristinando un’antica tradizione islamica.

[6]    Tuttavia, le esecuzioni sono normalmente effettuate al compimento del diciottesimo anno d’età.

[7]    Si ricorda che Siria e Libia si schierarono dalla parte dell’Iran nella guerra del 1980-1988 contro l’Iraq.

[8]    Dichiarazione alla Knesset del ministro per le questioni strategiche Avigdor Lieberman del 17 dicembre 2007.

[9]    D’altra parte è noto che l’ostilità fra i due paesi è ormai un dato storico e nessuna amministrazione americana da Carter in poi ha mai impresso una svolta sostanziale rispetto alla drammatica rottura del novembre 1979.

[10]   E’ ormai accertato che l’Iran ha operato – per anni – in collaborazione con la rete illegale creata dallo scienziato pakistano A.Q. Khan, le cui attività erano finalizzate non certo alla costruzione di impianti civili.

[11]   Il TNP, sottoscritto il 1 luglio 1968 ed entrato in vigore il 5 marzo 1970, proibisce agli stati firmatari che non disponevano di armamenti nucleari all’epoca della firma (Stati non-nucleari), di ricevere o fabbricare tali armamenti o di procurarsi tecnologie e materiale utilizzabile per la costruzione di armamenti nucleari. Ugualmente il trattato proibisce agli stati nucleari firmatari (USA, URSS/Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di cedere a stati non-nucleari, armi nucleari e tecnologie o materiali utili alla costruzione di queste armi. Inoltre il trasferimento di materiale e tecnologie nucleari, da utilizzarsi per scopi pacifici, deve, secondo il trattato, avvenire sotto lo stretto controllo dall’Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA). E’ proprio l’assistenza dell’AIEA per gli sviluppi pacifici che viene offerta in cambio ai paesi firmatari (e negata ai non firmatari). India, Israele e Pakistan (che si sono dotati di armamento nucleare) non sono stati-parte e non hanno aderito agli inviti di entrare nel trattato come stati non nucleari. Anche Argentina e Brasile non hanno firmato il TNP.

[12]   Si fa presente che questo punto consente di fatto alla Russia di portare a compimento la costruzione in Iran dell’impianto nucleare civile ad acqua leggera di Bushehr.

[13]   Non sono mancate le interpretazioni in chiave politica del rapporto NIE: esso sarebbe, secondo la tesi sostenuta da alcuni esponenti neoconservatori, il frutto di una insidiosa iniziativa di ambienti interni alla CIA ostili all’amministrazione repubblicana. 

[14]   Va inoltre ricordato che pochi giorni prima Israele aveva proceduto al collaudo di un missile dotato di dispositivi di propulsione di nuova concezione.