Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento istituzioni
Altri Autori: Servizio Biblioteca - Ufficio Legislazione straniera , Ufficio Rapporti con l'Unione Europea
Titolo: Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte delle regioni e degli enti locali - AA.CC. 3466 e abb. - Schede di lettura, testi a fronte e giurisprudenza costituzionale
Riferimenti:
AC N. 3528/XVI   AC N. 4254/XVI
AC N. 4271/XVI   AC N. 4415/XVI
AC N. 3466/XVI     
Serie: Progetti di legge    Numero: 519
Data: 12/07/2011
Descrittori:
DONNE   ELEZIONI AMMINISTRATIVE
PARITA' TRA SESSI     
Organi della Camera: I-Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni

 

Camera dei deputati

XVI LEGISLATURA

 

 

 

Documentazione per l’esame di
Progetti di legge

Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte delle regioni
e degli enti locali

AA.CC. 3466 e abb.

Schede di lettura, testi a fronte
e giurisprudenza costituzionale

 

 

 

 

n. 519

 

 

 

12 luglio 2011

 


Servizio responsabile:

Servizio Studi – Dipartimento Istituzioni

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( 066760-2278 – * bib_segreteria@camera.it

Segreteria Generale – Ufficio Rapporti con l’Unione europea

( 066760-2145 – * cdrue@camera.it

 

 

 

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File: AC0625.doc

 


INDICE

Schede di lettura

Il quadro normativo  3

§      La Costituzione e la normativa di rilievo nazionale  3

§      L’introduzione delle c.d. “quote rosa” nella legislazione ordinaria e l’intervento della Corte costituzionale  8

§      Gli orientamenti giurisprudenziali successivi12

La normativa regionale in materia di pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive  17

Sistemi elettorali e rappresentanza femminile in alcuni paesi europei21

Promozione della rappresentanza di genere nell’Unione europea  29

§      Norme di riferimento  29

§      I dati UE   29

§      La nuova strategia 2010-2015 per la promozione della parità fra uomini e donne nell’Unione europea  30

§      Equa ripartizione delle posizioni di responsabilità  31

§      Il Parlamento europeo  35

I progetti di legge in esame  37

Testo a fronte tra la normativa vigente e le proposte di legge

§      Testo a fronte tra il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, (TUEL) e le pdl AA.CC. 4415, 3466, 3528, 4254 e 4271  51

§      Testo a fronte tra la Legge 8 marzo 1951, n. 122, e le pdl AA.CC. 3466, 3528, 4254 e 4271  83

§      Testo a fronte tra la Legge 2 luglio 2004, n. 165, e le pdl AA.CC. 3466, e 4254  87

§      Testo a fronte tra il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e la pdl A.C. 4415  89

§      Testo a fronte tra il D.Lgs. 17 settembre 2010, n. 156, e la pdl A.C. 4254  93

Giurisprudenza costituzionale

§      Corte Costituzionale. Sentenza 6 settembre 1995, n. 422  97

§      Corte Costituzionale. Sentenza 10 febbraio 2003, n. 49  107

§      Corte Costituzionale. Sentenza 14 gennaio, 2010, n. 4  115

 

 

 


Schede di lettura

 


 

Il quadro normativo

La Costituzione e la normativa di rilievo nazionale

Il principio della parità tra i sessi è fissato dall’articolo 3, primo comma, della Costituzione che sancisce la pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzioni di sesso, oltre che di razza, lingua, religione, di opinioni politiche e di condizioni sociali ed economiche.

Il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione stabilisce un principio di uguaglianza sostanziale che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e ne impediscono la piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese. Sulla base di tale principio, sono state adottate disposizioni di legge che configurano “azioni positive” nei confronti delle donne.

Una specificazione del principio di uguaglianza si ritrova nell’articolo 51, primo comma, della Costituzione che stabilisce la parità dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. La legge costituzionale n. 1 del 2003[1] ha integrato tale disposizione prevedendo l’adozione di appositi provvedimenti per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.

Ulteriori statuizioni si rinvengono nell’articolo 37 Cost., che dispone che la donna lavoratrice abbia gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni spettanti al lavoratore. Vi si stabilisce, inoltre, che le condizioni di lavoro devono essere tali da consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione.

Si ricorda, inoltre, l’articolo 117, settimo comma, Cost., come modificato dalla riforma introdotta con legge costituzionale n. 3 del 2001[2], ai sensi del quale le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. Anche negli Statuti delle regioni ad autonomia speciale, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. cost. 2/2001, si demanda alle leggi elettorali regionali il compito di promuovere condizioni di parità fra i sessi per l'accesso alle consultazioni elettorali.

 

Oltre alle norme costituzionali, le politiche per le pari opportunità si sono arricchite nell’ultimo decennio di varie norme volte a combattere le discriminazioni ed a promuovere una piena attuazione del principio di eguaglianza. Gli interventi del legislatore, tuttavia, sono risultati eterogenei, al punto da rendere opportuno un’operazione di razionalizzazione del panorama legislativo. Con questo obiettivo, è stato adottato il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna[3] che raccoglie e semplifica la normativa statale vigente sull’uguaglianza di genere nei settori della vita politica, sociale ed economica.

Il Codice si divide in quattro libri: il primo contiene disposizioni generali per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna, mentre nei libri successivi trovano spazio le disposizioni volte alla promozione delle pari opportunità nei rapporti etico-sociali, nei rapporti economici e nei rapporti civili e politici.

 

Di seguito, si segnalano alcune delle disposizioni vigenti più significative, volte a promuovere le pari opportunità nella vita politica.

Per quanto riguarda le norme sulla rappresentanza parlamentare – dopo il tentativo di introdurre le c.d. “quote rosa” (su cui, v., infra) – l’unica disposizione di riferimento è contenuta nel testo unico delle leggi per l’elezione del Senato[4], che all’articolo 2 prevede che il sistema elettorale debba favorire “l’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini”.

 

Allo scopo di incrementare il tasso di partecipazione femminile alla vita politica e istituzionale del Paese, l’articolo 56 del Codice delle pari opportunità, reca una norma di attuazione dell’art. 51 Cost., volta a promuovere l’accesso delle donne alla carica di membro del Parlamento europeo. Si tratta di una misura di incentivazione alla presenza di candidature femminili nelle liste incidente sulla disciplina del rimborso delle spese elettorali e, per un particolare verso, sulla stessa ammissibilità delle liste.

La disposizione è stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della L. 90/2004[5], che ha modificato in più punti la disciplina concernente l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, ed è stata in seguito trasfusa nel Codice.

L’efficacia della misura è stata limitata alle prime due elezioni del Parlamento europeo successive alla data di entrata in vigore della L. 90/2004 (10 aprile 2004). Essa è stata pertanto applicata in occasione delle elezioni del giugno 2004 ed in quelle del giugno 2009.

 

A tal fine, la norma stabilisce che, nelle liste di candidati presentate per dette elezioni, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati presenti nella lista.

Il computo è effettuato a livello nazionale, sull’insieme delle liste presentate con un medesimo contrassegno nelle diverse circoscrizioni (è quindi possibile una compensazione tra le diverse aree geografiche). Nel computo si tiene conto una sola volta delle candidature plurime (un candidato o una candidata può infatti presentarsi in più circoscrizioni); la cifra risultante è arrotondata all’unità prossima.

Per i movimenti e i partiti politici che non abbiano rispettato questa proporzione, viene ridotto il contributo a titolo di rimborso per le spese elettorali, spettante ai sensi della L. 157/1999[6].

Quanto agli effetti di tali disposizioni, il numero delle donne italiane elette al Parlamento europeo è quasi raddoppiato nelle elezioni della primavera del 2004 (le prime dopo l’introduzione delle quote) passando da 8 donne nella V legislatura (1999-2004) a 15 nella VI. Si consideri, inoltre, che il numero dei seggi spettanti all’Italia è diminuito, passando da 87 nella V legislatura a 78, in conseguenza dell’ingresso di 10 nuovi Paesi. In termini percentuali, la componente femminile è passata dunque dal 9,2 per cento al 19,2 per cento. Nelle elezioni del 2009, le donne elette al Parlamento europeo risultano 16 su 72 seggi spettanti all’Italia (pari al 22,2 per cento).

 

Dalla modifica dell’articolo 51 della Costituzione discendono anche le norme inserite nella L. 244/2007[7] (Legge finanziaria 2008) ai commi 376 e 377 dell’art. 1, i quali, disponendo in tema di organizzazione del Governo, stabiliscono che la sua composizione deve essere coerente con il principio costituzionale delle pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.

 

Tra le disposizioni intese a promuovere la partecipazione attiva delle donne alla politica, va inoltre segnalata la legge n. 157 del 1999, che, in materia di rimborsi delle spese per le consultazioni elettorali, prevede l’obbligo a carico dei partiti di destinare almeno un importo pari al 5% del totale dei rimborsi elettorali ricevuti ad iniziative connesse alle predette finalità.

 

Per quanto riguarda la normativa regionale, si rinvia, infra, al paragrafo successivo. In relazione all’ordinamento degli enti locali, si segnala la disposizione di cui all’articolo 6 del testo unico degli enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267), ai sensi del quale gli statuti comunali e provinciali “stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti”.

 

In relazione ai lavori parlamentari in corso, si segnalano infine due importanti iniziative.

Quanto alla prima, la Commissione affari costituzionali della Camera ha avviato l’esame di alcune proposte di legge finalizzate ad introdurre una disciplina organica dei partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Alcune di queste prevedono misure di riequilibrio della rappresentanza di genere negli organi dirigenti del partito; di particolare rilievo la previsione del limite della rappresentanza di ciascun genere fissato a due terzi (si vedano le pdl A.C. 244 e 506) o al 55% (A.C. 4194).

Una proposta (pdl A.C. 1722) reca anche l’obbligo di formare le liste di candidati per qualsiasi elezione in misura eguale di uomini e donne.

In riferimento ad un diverso ambito, ma sempre al fine di favorire la parità di genere, si ricorda che la Camera, lo scorso 28 giugno, ha approvato in via definitiva il testo unificato delle proposte di legge C. 2426-2956-B, che recano disposizioni in materia di parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. La legge, preso atto della situazione di cronico squilibrio nella rappresentanza dei generi nelle posizioni di vertice delle imprese quotate in mercati regolamentati, perseguono l'obiettivo di riequilibrare a favore delle donne l'accesso alle cariche direttive di tali società. A tal fine, in base al testo approvato, lo statuto societario deve prevedere che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l'equilibrio tra i generi, dovendo il genere meno rappresentato ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti. Nell’ipotesi in cui il CdA eletto non rispetti i predetti criteri di equilibrio dei generi, la Consob diffida la società inottemperante affinché si adegui entro il termine massimo di quattro mesi. L’inottemperanza alla diffida comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa e la fissazione di un ulteriore termine di tre mesi per adempiere. Solo all’inosservanza di tale ultima diffida consegue la decadenza dei membri del CdA.

 

 

Nonostante la crescente attenzione del legislatore al tema delle pari opportunità, di fatto la componente femminile in seno alle istituzioni, in particolare agli organismi elettivi, sia a livello nazionale che locale, è stata ed è tuttora numericamente minoritaria (v. box, infra).

Secondo l’analisi annuale del World economic forum sulla presenza delle donne nei livelli più alti delle istituzioni (Governo, Parlamento ed altre assemblee legislative, alta dirigenza ecc.) l’Italia si colloca al 74° posto su 134 Paesi nella classifica del 2010 (era al 72° nel 2009, al 67° posto nel 2008 ed all’84° nel 2007)[8].

La presenza delle donne in Parlamento e negli altri organi costituzionali

Le prime donne elette alla Consulta Nazionale sono state 14; della Consulta faceva parte un numero variabile di membri (circa 400) alcuni di diritto, altri di nomina governativa, su designazione partitica e di altre organizzazioni.

Le donne elette all'Assemblea Costituente, composta da 556 membri, sono state 21 (3,8%).

Nella XII legislatura (la prima con il sistema elettorale maggioritario e con il sistema delle quote dichiarato poi illegittimo dalla Corte costituzionale) le donne elette alla Camera dei deputati sono state 43 con la quota maggioritaria e 52 con quella proporzionale, mentre nella XIII legislatura (senza l'applicazione del sistema delle quote) le donne elette alla Camera dei deputati sono state rispettivamente 42 e 28. Al Senato sono state elette nella XIII legislatura 26 donne[9]. Nella XIV legislatura le donne elette alla Camera sono state 73[10]. Al Senato le donne elette sono state 25[11].

Le donne elette alla Camera nella XV legislatura sono state 108 (17,1 per cento) e le donne senatrici 44 (13,6 per cento). Infine, nella XVI legislatura sono state elette alla Camera dei deputati 133 donne, al Senato 58; tra i senatori a vita è stata nominata, il 1° agosto 2001, la prof.ssa Rita Levi Montalcini.

 

Quanto alle posizioni apicali, dal 1946 nessuna donna in Italia ha mai rivestito la carica di Capo dello Stato o di Presidente del Consiglio. La carica di Presidente della Camera è stata declinata al femminile nelle legislature VIII, IX e X, con l’elezione dell’on. Nilde Iotti e XII con l’elezione dell’on. Irene Pivetti.

 

Nell'attuale Governo, le donne Ministro sono 5 (on. Stefania Prestigiacomo, Ministro dell’ambiente, tutela del territorio e del mare, on. Mariastella Gelmini, Ministro dell’istruzione, università e ricerca, on. Giorgia Meloni, Ministro senza portafoglio per le politiche per i giovani, on. Maria Rosaria Carfagna, Ministro senza portafoglio per le pari opportunità, on. Michela Vittoria Brambilla, Ministro senza portafoglio del turismo) su 22 ministri.

Le donne Sottosegretario di Stato sono 8 (on. Stefania Craxi, Affari esteri; sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati, Giustizia; on. Francesca Martini e on. Eugenia Maria Roccella, Salute; on. Laura Ravetto, Rapporti con il Parlamento; Daniela Santanchè, Attuazione del programma di governo; dott.ssa Sonia Viale, Interno; on. Katia Polidori, Sviluppo economico) su 39 Sottosegretari[12].

 

Per quanto riguarda la composizione della Corte costituzionale, risultano solo due giudici donne, entrambi nell’ambito della quota di nomina spettante al Presidente della Repubblica. Si tratta di Fernanda Contri, avvocato, giudice della Corte dal 1996 al 2005 e di Maria Rita Saulle, professore ordinario universitario, nominata nel 2005.

 

Gli organismi nazionali per il raggiungimento della parità fra uomo e donna

 

Nel 1996 all’atto della formazione del Governo è stato nominato per la prima volta un Ministro senza portafoglio per le pari opportunità, poi confermato in tutti i Governi successivi, al quale sono stati conferiti compiti di proposta, coordinamento e attuazione delle politiche governative in materia.

Nel 1997 è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio il Dipartimento per le pari opportunità: sorto come struttura di supporto per l’attività del Ministro e con compiti di promozione e coordinamento delle politiche di parità, ha ampliato progressivamente le proprie competenze anche nel campo della lotta alla discriminazione razziale.

Presso il Dipartimento opera la segreteria della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, organo consultivo e di proposta del Presidente del Consiglio dei ministri con compiti di elaborazione e promozione di iniziative, anche di tipo legislativo, per assicurare l’uguaglianza tra i sessi.

Per la promozione delle pari opportunità nel mondo del lavoro svolge un ruolo centrale il Ministero del lavoro, in cui dal 1991 opera il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, organo consultivo del Ministro del lavoro con compiti di studio e di promozione in materia di parità nel settore della formazione professionale e del lavoro.

Presso il Ministero dello sviluppo economico opera il Comitato per l’imprenditoria femminile, istituito nel 1992 con compiti di promozione delle attività di ricerca e formazione sull’imprenditorialità femminile.

Infine, occorre segnalare che, in recepimento delle direttive comunitarie,  più di recente il legislatore ha previsto (art. 21, L. 183/2010) che le pubbliche amministrazioni costituiscano al proprio interno il "Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni" che sostituisce, unificando le competenze in un solo organismo, i comitati per le pari opportunità e i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione collettiva, dei quali assume tutte le funzioni previste dalla legge, dai contratti collettivi relativi al personale delle amministrazioni pubbliche o da altre disposizioni. Nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza, il CUG esercita prevalentemente compiti propositivi, consultivi e di verifica sui risultati delle attività intraprese.

 

L’introduzione delle c.d. “quote rosa” nella legislazione ordinaria e l’intervento della Corte costituzionale

Disposizioni finalizzate alla promozione dell’accesso delle donne alle cariche elettive attraverso una disciplina della formazione delle liste dei candidati atta a garantire una equilibrata rappresentanza femminile sono state introdotte per la prima volta nell’ordinamento nel 1993, in occasione della riforma del sistema di elezione del sindaco e del presidente della provincia (legge 25 marzo 1993, n. 81[13], art. 5, co. 2, ultimo periodo, e art. 7, co. 1, ultimo periodo). Tali disposizioni stabilivano che nessuno dei due sessi può rappresentato nelle liste dei candidati in misura superiore ai due terzi.

Una disposizione analoga, relativa all’elezione dei consigli regionali a statuto ordinario, venne inserita successivamente nella legge 23 febbraio 1995, n. 43[14] (art. 1, comma 6).

Norme ispirate alla stessa finalità sono state previste anche dalla legislazione sulle elezioni politiche (legge elettorale per la Camera dei deputati, L. 4 agosto 1993, n. 277[15], art. 1, co. 1, lettera e); legge elettorale del Senato, L. 4 agosto 1993, n. 276[16], art. 1, co. 1).

Come è noto, la riforma della legge per le elezioni politiche nel 1993 ha segnato l’abbandono, dopo 45 anni, del sistema proporzionale per un sistema misto, ma prevalentemente maggioritario. Il nuovo sistema, infatti, prevedeva che il 75% dei seggi fosse attribuito in collegi uninominali e la restante parte con il sistema proporzionale.

 

L’introduzione delle quote riguardava unicamente la parte proporzionale del sistema della sola Camera dei deputati: si prevedeva, infatti, che le liste presentate ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale recanti più di un candidato, dovessero essere formate da uomini e donne in ordine alternato[17].

 

Tuttavia, in un primo momento non era stata prevista nessuna sanzione o rimedio in caso di inottemperanza all’obbligo dell’alternanza uomo - donna. Solo successivamente, attraverso una modifica del regolamento di attuazione della legge elettorale fu introdotta una norma di chiusura volta a rendere cogente l’alternanza: all'ufficio elettorale centrale circoscrizionale era affidato il compito di verificare che le liste recanti più di un nome fossero formate da candidati di entrambi i sessi elencati in ordine alternato e, in caso contrario, in un primo momento, di invitare i delegati di lista a ripristinare l’alternanza e quindi in caso di inottemperanza, di procedere d’ufficio alla modifica delle liste[18].

 

Al Senato non era stato possibile introdurre una disposizione analoga in quanto il sistema elettorale della Camera alta prevedeva unicamente candidature uninominali e l’assegnazione del 25% dei seggi in ragione proporzionale era effettuata nell’ambito della circoscrizione regionale tra gruppi di candidati nei collegi uninominali.

In altre parole, mentre alla Camera l’elettore esprimeva il proprio voto attraverso due schede elettorali: una per la designazione del candidato nel collegio uninominale, l’altra per la scelta della lista che concorre alla quota proporzionale; per il Senato vi era solamente la scheda per l’uninominale e i seggi proporzionali erano assegnati ai candidati non eletti all’uninominale che avevano ottenuto più voti.

 

Tuttavia, anche la legge elettorale per il Senato[19] conteneva una norma, ancora oggi in vigore (v. supra), volta a promuovere la presenza delle donne: infatti, viene sancito il principio che il sistema di elezione debba favorire “l’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini” (art. 2).

 

La sentenza della Corte costituzionale n. 422/1995

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 422 del 12 settembre 1995 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme contenute nelle citate leggi per le elezioni politiche, regionali ed amministrative che stabilivano una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati[20]: Diversamente è stata valutata la disposizione contenuta nella legge elettorale del Senato, in quanto – ha argomentato la Corte – quest’ultima ha carattere essenzialmente programmatico, limitandosi a sancire il principio dell’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini.

Nella motivazione della sentenza, la Corte ha affermato che l’art. 3, primo comma e l’art. 51, primo comma Cost. (ante riforma del 2003) «garantiscono l’assoluta eguaglianza tra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità: ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la ‘candidabilità’». Infatti, la possibilità di essere candidato “non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto e beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo” sancito dall’art. 51 Cost. Secondo la Corte, viene pertanto a porsi in contrasto con i citati parametri costituzionali “la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati”.

In conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale le norme sopra richiamate volte alla tutela della rappresentanza femminile decaddero.

Dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1995 si pose la questione della necessità di modificare la Costituzione in modo da consentire interventi normativi sulle leggi elettorali tali da incentivare la presenza delle donne negli organismi rappresentativi elettivi.

Si aprì allora una fase di revisione della Costituzione che culminò nella XIV legislatura con la modifica dell’art. 51 Cost.

La prima attuazione del nuovo dettato costituzionale è costituita dalla legge n. 90 del 2004[21] che, come già evidenziato sopra, ha riformato la legge per l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo, introducendo misure “temporanee” di promozione della partecipazione delle donne alla vota politica.

Nelle legislature successive sono stati compiuti alcuni tentativi verso l’introduzione di un sistema di quote di genere, ma senza alcun esito.

 

Così, la discussione delle quote di genere venne ripresa alla fine della XIV legislatura, nell’ambito dell’esame che ha portato all’approvazione della riforma del sistema elettorale volto a ripristinare un modello di tipo proporzionale (L. 270/2005). Infatti, il Presidente della 1ª Commissione (Affari costituzionali) e relatore del progetto di legge presentò, a nome della Commissione, un emendamento (n. 1.620), il quale prevedeva che nelle liste di candidati ogni genere non fosse rappresentato in una successione superiore a tre e in misura superiore ai due terzi dei candidati. Pur avendo il Governo espresso parere favorevole, la proposta venne respinta dall’Assemblea a voto segreto (A.C. 2620 e abb.-A, seduta del 12 ottobre 2005).

Contemporaneamente proseguiva al Senato l’esame di altre proposte di legge volte a promuovere una partecipazione equilibrata di donne ed uomini alle cariche elettive (A.S. 1732, A.S. 2080, A.S. 2598 e A.S. 3051), a cui venne abbinato un disegno di legge governativo (A.S. 3660), che prevedeva che per la prima e la seconda elezione delle Camere successive all’entrata in vigore della nuova normativa, in ciascuna lista di candidati ogni sesso non potesse essere rappresentato in misura superiore ai due terzi. Quando le liste sono composte da un elenco di candidati secondo un dato ordine, ogni sesso deve essere rappresentato in una successione non superiore a tre, per la prima elezione dopo l’approvazione della legge, e non superiore a due, nell’elezione seguente. L’apparato sanzionatorio prevedeva la riduzione in proporzione del rimborso per le spese elettorali nelle elezioni immediatamente successive all’entrata in vigore della legge e l’inammissibilità delle liste prive dei requisiti nella tornata elettorale successiva.

Il Senato approvò il testo l’8 febbraio 2006 (A.C. 3660), apportando alcune modifiche: ciascun sesso non può essere rappresentato per più del 50 per cento. Inoltre, venivano disposte quote di genere anche per le elezioni degli enti locali. Lo scioglimento delle Camere avvenuto pochi giorni dopo (l’11 febbraio) non ha consentito l’avvio dell’esame presso la Camera.

Nel corso della XV legislatura, di nuovo il Senato ha esaminato alcune proposte di legge, tutte di iniziativa parlamentare,volte a modificare il sistema elettorale per le elezioni politiche (A.S. 20 e abbinati), senza peraltro concludere l’esame in sede referente.

Nella seduta dell’11 dicembre 2007 il presidente della 1ª Commissione (Affari costituzionali) presentò una proposta di testo unificato, che recava, tra l’altro, specifiche disposizioni in materia di pari opportunità nell’accesso al mandato parlamentare, in attuazione dell’articolo 51 della Costituzione, così come da ultimo modificato dalla L. Cost. 1/2003.

Al riguardo, si prevedeva che il numero massimo di candidati dello stesso sesso, per ciascun gruppo di candidati (presentati nelle liste e nei collegi e tra loro collegati), non possa eccedere i due terzi dei seggi assegnati alla circoscrizione, e che le liste siano formate in modo che non vi siano più di due candidati dello stesso sesso in successione immediata. Il principio di pari opportunità è stato mantenuto anche nella successiva proposta del presidente della Commissione del 15 gennaio 2008, giunta poco prima dello scioglimento anticipato della Camere.

Gli orientamenti giurisprudenziali successivi

Dopo la sentenza del 1995, la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sul tema delle pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive con la sentenza n. 49 del 13 febbraio 2003.

Innovando notevolmente il proprio orientamento, la Corte ha ritenuto legittime le modifiche alla normativa per l’elezione dei consigli regionali approvate dalla regione Valle d’Aosta che stabiliscono che ogni lista di candidati all'elezione del Consiglio regionale deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi e che vengano dichiarate non valide dall'ufficio elettorale regionale le liste presentate che non corrispondano alle condizioni stabilite. La stessa Corte ha evidenziato che tale normativa deve essere valutata alla luce di un quadro costituzionale di riferimento che si è evoluto rispetto a quello in vigore all’epoca della pronuncia n. 422/1995.

Le disposizioni censurate, secondo il ragionamento svolto dalla Corte, “stabiliscono un vincolo non già all'esercizio del voto o all'esplicazione dei diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le liste elettorali, precludendo loro (solo) la possibilità di presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso. Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, e non incide su di essa. La scelta degli elettori tra le liste e fra i candidati, e l'elezione di questi, non sono in alcun modo condizionate dal sesso dei candidati”.

Ribadito che il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva, la Corte ha ritenuto che la “misura disposta dalla regione Valle D’Aosta può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell'intento di realizzare la finalità promozionale espressamente sancita dallo statuto speciale in vista dell'obiettivo di equilibrio della rappresentanza”. Infine, la Corte ha affermato che la finalità di conseguire una “parità effettiva” fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è “positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale” e che tale esigenza è espressamente riconosciuta anche nel contesto normativo comunitario ed internazionale.

 

Più di recente, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su una norma della L.R. Campania n. 4/2009, che prevede la c.d. “preferenza di genere” nelle elezioni regionali. Con tale espressione ci si riferisce alla possibilità per l’elettore di esprimere uno o due voti di preferenza e che, nel caso, di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile ed una un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza (art. 4, co. 3).

Con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 4, la Corte ha dichiarato che tale innovativa previsione non viola la Costituzione. Piuttosto, la finalità della nuova regola elettorale è dichiaratamente quella di ottenere un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi all’interno del Consiglio regionale, in linea con i principi ispiratori del riformato art. 51, primo comma, Cost., e dell’art. 117, settimo comma, Cost., nel testo modificato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (entrambi espressione del principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.).

È vero che la giurisprudenza costituzionale esclude che possano essere legittimamente introdotte nell’ordinamento misure che «non si propongano di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi» (sent. n. 422 del 1995). Tenendo ferma questa fondamentale statuizione, la Corte, in epoca precedente alla riforma dell’art. 51 Cost., ha precisato che i vincoli imposti dalla legge per conseguire l’equilibrio dei generi nella rappresentanza politica non devono incidere sulla «parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale» (sent. n. 49 del 2003).

Sulla scorta di questi precedenti, la Corte ha motivato la sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale basandosi sui seguenti argomenti:

·         la disposizione campana, per la sua formulazione, non prefigura il risultato elettorale, ossia non altera la composizione dell’assemblea elettiva rispetto a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori in assenza della regola contenuta nella norma medesima né attribuisce ai candidati dell’uno o dell’altro sesso maggiori opportunità di successo elettorale rispetto agli altri. In altri termini, la «nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta, quindi, di una misura promozionale, ma non coattiva»;

Infatti, «l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso. Solo se decide di avvalersi della possibilità di esprimere una seconda preferenza, la scelta dovrà cadere su un candidato della stessa lista, ma di sesso diverso da quello del candidato oggetto della prima preferenza. Nel caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda preferenza, ferma restando pertanto la prima scelta dell’elettore»[22];

·         i diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono inalterati. Il primo perché l’elettore può decidere di non avvalersi della possibilità di esprimere la seconda preferenza, che gli viene data in aggiunta al regime della preferenza unica, e scegliere indifferentemente un candidato di genere maschile o femminile. Il secondo perché la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre possibilità maggiori ai candidati dell’uno o dell’altro sesso di essere eletti, posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice».

 

Infine, merita segnalare un recente orientamento emerso nella giurisprudenza amministrativa, che si è espressa in materia di pari opportunità uomo-donna attraverso alcune decisioni che hanno sospeso l’efficacia dei provvedimenti di nomina di giunte comunali e provinciali.

 

Tra le altre, si segnala in merito l’ordinanza 24 febbraio 2010, n. 51, con la quale il Tar Molise ha accolto la domanda di sospensione del decreto di nomina della giunta provinciale di Isernia, rilevando, in particolare, che «le valutazioni di carattere politico addotte per giustificare l’esclusione della rappresentanza femminile nella stessa debbano ritenersi recessive rispetto al precetto costituzionale di cui all’art. 51 ed alle norme di fonte primaria (art. 6 del d.lgs. 267 del 2000) e sub primaria (art. 38 dello Statuto provinciale) poste a garanzia della rappresentanza femminile cui anche gli accordi di coalizione devono necessariamente conformarsi».

Inoltre, si segnalano alcune decisioni del Tar Puglia, Lecce, sez. I, come l’ordinanza 23 settembre 2009, n. 740, nella quale il Tribunale ha ritenuto che «la disposizione statutaria impone l’obbligo di assicurare la presenza in Giunta di Assessori di entrambi i sessi, non essendo assolutamente sufficiente un semplice “sforzo” teso a raggiungere un simile risultato; si tratta, pertanto, di una tipica obbligazione “di risultato” e non “di diligenza” che viene ad integrare un vincolo alla scelta degli assessori e che non può essere derogata dagli accordi politici». Lo stesso tribunale, con ordinanza 21 ottobre 2009, n. 792, ha ingiunto al Sindaco del Comune di Maruggio di procedere all’integrazione della Giunta comunale, composta di soli uomini, attraverso la nomina di Assessori di entrambi i sessi.

Ancora, nell’ordinanza del 12 settembre 2008, n. 474, il Tar Puglia, Bari, III, accogliendo la sospensiva dei decreti di nomina della giunta del Comune di Molfetta, precisa che lo sforzo del sindaco di adoperarsi al fine di favorire la rappresentanza di entrambi i sessi all’interno della giunta, come previsto dallo statuto comunale, «ove non si concretizzi nella nomina di persone di sesso diverso in seno alla giunta municipale, deve trovare almeno un riscontro effettivo nella motivazione dei provvedimenti di nomina dei vari assessori, la quale deve illustrare le ragioni che impediscono l’attuazione del principio delle pari opportunità».

Nell’ambito dello stesso filone giurisprudenziale, si segnala il Tar Campania, Napoli, sez. I, con sentenza 7 giugno 2010 n. 12668, ha accolto un ricorso proposto nei confronti del Comune di Benevento per inosservanza del principio di pari opportunità tra uomini e donne nella nomina degli assessori comunali.

Il ragionamento del Tribunale in proposito è articolato e può essere sintetizzato come segue: a) l’art. 51 della Costituzione e l’art. 6 del TU enti locali non impongono all’autonomia statutaria dei comuni di prevedere riserve in favore del sesso che si ritiene discriminato, ma solo di svolger un’attività di promozione che «deve ritenersi consistente nel sostegno da parte dell’organo competente del massimo impegno esigibile per assicurare ad appartenenti di entrambi i sessi l’accesso a cariche pubbliche per le quali non operano meccanismi vincolanti di tipo tecnico-meritocratico»; b) gli artt. 46 e 47 del TU enti locali riconoscono al Sindaco un ampio potere discrezionale in ordine alla scelta dei componenti della Giunta, senza che sussista uno specifico obbligo di motivazione, questo essendo previsto per la sola ipotesi di revoca; c) tuttavia, quando l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è conformato da vincoli o indirizzi che ne segnano in parte l’esercizio, sebbene non in termini di risultato, costituisce requisito di legittimità formale e sostanziale l’illustrazione delle ragioni e delle modalità con cui il potere è stato speso rispetto a quel determinato parametro di conformazione. In questa direzione, per il Tar Campania è proprio la natura politica della scelta che incontra il limite esterno della promozione del principio di pari opportunità; ne discende che, concretamente, non possono essere posti a sostegno della mancata presenza di una donna nella Giunta ragioni di opportunità politica, perché in questo modo si porrebbe un’aprioristica prevalenza della libertà di scelta che invece deve recedere rispetto all’attuazione di obiettivi di promozione.

Sulla base di analoghe argomentazioni, il medesimo tribunale, con sentenza 10 marzo 2011, n. 1427, ha annullato il decreto del Sindaco di Ercolano, avente ad oggetto la nomina degli assessori e del vicesindaco (tutti di sesso maschile), per difetto di istruttoria e di motivazione. Con la sentenza 7 aprile 2011, n. 1985, annullando il provvedimento di nomina di un componente della giunta regionale campana, il Collegio giunge ad affermare che la nomina degli assessori regionali non costituisce « un atto oggettivamente non amministrativo che realizza scelte di specifico rilievo costituzionale e politico e come tale non sindacabile innanzi al giudice a pena di interferire nell’esercizio di altro potere, straripando dai limiti di quello giurisdizionale. Il provvedimento di nomina degli assessori non contiene scelte programmatiche, non individua i fini da perseguire nell’azione di governo e non ne determina il contenuto e non costituisce, dunque, atto (di indirizzo) politico e neppure direttiva di vertice dell’attività amministrativa». Piuttosto, «esso attiene all’organizzazione, ancorché al più alto livello, dell’ente regionale e, in particolare, è finalizzato alla costituzione di uno dei suoi organi, dove l’ampiezza delle valutazioni di opportunità che guidano la individuazione dei suoi membri non deve essere confusa con l’esercizio della funzione politica in senso proprio. Si tratta, pertanto, di un atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, l’emanazione del quale è sottoposta all’osservanza delle disposizioni che attribuiscono, disciplinano e conformano il relativo potere, il cui corretto esercizio è, sotto questi profili, pienamente sindacabile in sede giurisdizionale».

Difforme dalle pronunce finora richiamate, la recente decisione del Tar Lombardia, sez. I, sentenza 4 febbraio 2011, n. 354, che ha confermato le nomine, da parte del Presidente della Regione Lombardia, di sedici assessori della Giunta, di cui quindici di sesso maschile e uno di sesso femminile, enfatizzando come il modello costituzionale delle pari opportunità, alla luce della stessa giurisprudenza della Corte, «consiste in una misura di retta promozione e non già di cogente prescrizione». A rafforzare la decisione del Tribunale il convincimento circa la natura non precettiva di alcune disposizioni contenute negli Statuti delle regioni e «l’indiscutibile natura fiduciaria delle nomine di cui si discute».

 

 

 


La normativa regionale in materia di pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive

A seguito della modifica degli articoli 122 e 123 della Costituzione, che ha dato avvio al processo di elaborazione di nuovi statuti regionali e di leggi per l’elezione dei consigli nelle regioni a statuto ordinario, tutte le regioni che hanno adottato norme in materia elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche per favorire la parità di accesso alle candidature[23].

 

Regioni a Statuto speciale

Per quanto concerne le regioni a statuto speciale, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Regione siciliana e Provincia autonoma di Trento sono le regioni che hanno adottato norme in materia elettorale, tra cui disposizioni per favorire l’accesso alle cariche elettive di entrambi i sessi, come disposto dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, relativa all’elezione diretta dei Presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano[24].

Le disposizioni sono diversificate, ma tutte contengono obblighi nella presentazione delle liste, come si evince dai box che seguono:

 

per la regione Valle d’Aosta, in ogni lista di candidati all'elezione del Consiglio regionale ogni genere non può essere rappresentato in misura inferiore al 20 per cento, arrotondato all'unità superiore (art. 3-bis, LR 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007); in sede di esame e ammissione delle liste, l’Ufficio elettorale regionale riduce al limite prescritto quelle contenenti un numero di candidati superiore al numero massimo prescritto, cancellando gli ultimi nomi; dichiara non valide le liste che non corrispondano alle predette condizioni (art. 9, comma 1, L.R. 3/1993 come modificato da ultimo dalla L.R. 22/2007)

 

per la regione Friuli-Venezia Giulia ogni lista circoscrizionale deve contenere, a pena di esclusione, non più del 60 per cento di candidati dello stesso genere; nelle liste i nomi dei candidati sono alternati per genere fino all'esaurimento del genere meno rappresentato; al fine di promuovere le pari opportunità, la legge statutaria prevede inoltre forme di incentivazione o penalizzazione nel riparto delle risorse spettanti ai gruppi consiliari (è considerato ‘sottorappresentato’ quello dei due generi che, in Consiglio, è rappresentato da meno di un terzo dei componenti) e disposizioni sulla campagna elettorale. I soggetti politici devono assicurare la presenza paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di comunicazione politica offerti dalle emittenti radiotelevisive pubbliche e private e, per quanto riguarda i messaggi autogestiti previsti dalla vigente normativa sulle campagne elettorali, devono mettere in risalto con pari evidenza la presenza dei candidati di entrambi i generi nelle liste presentate dal soggetto politico che realizza il messaggio (artt. 23, comma 2 e 32 L.R. 17/2007)

 

nella Regione siciliana, tutti i candidati di ogni lista regionale dopo il capolista devono essere inseriti secondo un criterio di alternanza tra uomini e donne; una lista provinciale non può includere un numero di candidati dello stesso sesso superiore a due terzi del numero dei candidati da eleggere nel collegio (art. 14, comma 1, L.R. 29/1951, come modificato dalla L.R. 7/2005)

 

nella Provincia autonoma di Trento, in ciascuna lista di candidati – a pena di inammissibilità - nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi del numero dei candidati della lista, con eventuale arrotondamento all'unità superiore (art. 25 co. 6-bis e art. 30 co. 1 L.P. 2/2003 come modificata dalla L.P. 8/2008).

Regioni a Statuto ordinario

Le regioni Lazio (L.R. 2/2005, art. 3), Puglia (L.R. 2/2005, art. 3, co. 3), Toscana (L.R. 25/2004, art. 8, co. 4), Marche (L.r. 27/2004, art. 9, comma 6), Campania (L.R. 4/2009, art. 10) e da ultimo la regione Umbria (L.R. 2/2010, art. 3 comma 3) pongono il limite di due terzi alla presenza di candidati di ciascun sesso in ogni lista provinciale. Nelle liste regionali (tra le regioni citate, presenti solo nella regione Lazio) i candidati di entrambi i sessi devono essere invece in numero pari. Per la regione Abruzzo (L.R. 1/2002, art. 1-bis), invece, il limite è il 70%; nella regione Toscana, inoltre, in relazione alle candidature regionali, quando le liste indicano più candidati, ciascun genere deve essere rappresentato (art. 10, co. 2). Meno cogente la prescrizione della regione Calabria (L.R. 1/2005, art. unico, co. 6) per la quale nelle liste elettorali (provinciali e regionali) devono essere presenti candidati di entrambi i sessi.

Nella maggioranza dei casi l’inosservanza del limite è causa di inammissibilità; nelle regioni Lazio, Puglia e Umbria, invece, è causa di sanzione pecuniaria per le liste provinciali[25].

La legge della regione Campania, infine, contiene disposizioni anche in relazione alla campagna elettorale, in quanto dispone che i soggetti politici devono assicurare la presenza paritaria di candidati di entrambi i generi nei programmi di comunicazione politica e nei messaggi autogestiti (art. 10, comma 4, L.r. 4/2009).

 

 


Sistemi elettorali e rappresentanza femminile
in alcuni paesi europei

A cura del Servizio Biblioteca

 

Quote rosa elettorali disciplinate per legge

In Belgio il principio di parità tra uomini e donne in materia di elettorato passivo ha avuto un’applicazione progressiva. Il Code électoral, a seguito di una prima modifica intervenuta con la legge del 24 maggio 1994, prevedeva (art. 117bis) che, a decorrere dal 1996, il numero dei candidati dello stesso sesso presenti nelle liste per le elezioni della Camera e del Senato non potesse superare i due terzi del totale. Dal 1999, la disposizione è stata applicata anche alle elezioni del Parlamento europeo, alle regionali e alle amministrative. Il codice elettorale è stato modificato di nuovo con la legge del 18 luglio 2002 e successivamente con la legge del 13 dicembre 2002. L’attuale art. 117-bis del codice elettorale prevede una presenza di pari entità tra uomini e donne nelle liste dei candidati alle elezioni delle Camere legislative federali, imponendo che la differenza tra il numero di candidati di ciascun sesso non sia superiore ad uno e che i due primi candidati di ciascuna lista debbano essere di sesso differente. Se i partiti non ottemperano alle disposizioni di cui all’art. 117-bis, le loro liste sono automaticamente escluse (art. 119-quinquies) Una disposizione transitoria (legge 18 luglio 2002, art. 5) prevede anche che, in occasione del primo rinnovo completo delle Camere legislative federali successivo all’entrata in vigore delle nuove disposizioni (20 gennaio 2003), i tre primi candidati titolari e i tre primi candidati supplenti di ciascuna lista non possano appartenere allo stesso sesso e che, su ogni lista, la differenza tra il numero di candidati titolari di ciascun sesso e quella tra il numero dei candidati supplenti di ciascun sesso non possa comunque essere superiore ad uno. Le nuove disposizioni sono valide anche per le elezioni del Consiglio della Comunità germanofona e analoghe disposizioni sono state previste per le elezioni regionali e amministrative, nonché per le elezioni al Parlamento europeo.

In Francia nel 2008 è stata approvata un’importante riforma della Costituzione, che ha riguardato anche la tematica delle pari opportunità. La Loi constitutionnelle n. 2008-724 du 23 juillet 2008 de modernisation des institutions de la Ve République ha infatti disposto il completamento dell’ articolo 1 della Costituzione con un secondo comma che recita: “La legge favorisce l’uguale accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive, così come alle responsabilità professionali e sociali”. Il contenuto del comma in questione era stato già inserito nella Costituzione con la Loi constitutionnelle n. 99-569 du 8 juillet 1999 relative à l’égalité entre les femmes et les hommes, approvata sulla base di un progetto presentato dal governo Jospin, con cui erano stati modificati gli articoli 3 e 4 della Costituzione. In particolare, era stato aggiunto come ultimo comma dell’art. 3 Cost. il contenuto dell’attuale secondo comma dell’art. 1. Cost.. All’art. 4 Cost. era stato aggiunto un nuovo comma con cui era disposto che i partiti contribuissero alla realizzazione del principio contenuto nel comma ultimo dell’art. 3 [oggi divenuto secondo comma dell’ art. 1, a seguito dell’intervento riformatore del 2008].

Con riferimento alle leggi ordinarie che hanno favorito l’uguaglianza di accesso tra uomini e donne alle cariche elettive a livello locale, nazionale ed europeo si segnalano di seguito alcuni interventi normativi che hanno generalmente modificato il Code electoral[26].

Nel 2000 è stata in particolare approvata la Loi n. 2000-493 du 6 juin 2000 tendant à favoriser l'égal accès des femmes et des hommes aux mandats électoraux et fonctions électives. Il provvedimento fa seguito alla revisione costituzionale del 1999 che ha sancito il principio della parità di accesso ai mandati elettorali e alle funzioni elettive per gli uomini e le donne. La legge, promulgata definitivamente dopo alcune censure da parte del Consiglio costituzionale, ha in primo luogo lo scopo di assicurare la parità numerica tra uomini e donne nelle candidature per le elezioni a scrutinio di lista e a rappresentanza proporzionale: infatti, nelle elezioni municipali (per i comuni di almeno 3.500 abitanti), regionali, inquelle del Parlamento europeo e del Senato (nei dipartimenti che comportano almeno 3 senatori) "su ogni lista, lo scarto tra il numero dei candidati di ciascun sesso non può essere superiore a uno” (artt. 2-3, 5-8). In secondo luogo, il provvedimento intende modificare il meccanismo di finanziamento pubblico dei partiti e dei gruppi politici per incoraggiare i partiti a candidare delle donne anche alle elezioni legislative. La legge ha creato un dispositivo particolare che penalizza finanziariamente i partiti politici o i gruppi che non rispettano il principio di parità nelle elezioni legislative. Il meccanismo prevede una diminuzione del totale del finanziamento pubblico se lo scarto tra il numero dei candidati di ciascun sesso supera il 2% del numero totale dei candidati: ad es. se un partito presenta il 49% di donne e il 51% di uomini non è sanzionato (art.15). L’art. 15 della legge n. 2000-493 ha introdotto queste disposizioni, modificando l’art. 9-1 della Loi n. 88-227 du 11 mars 1988 relative à la transparence financière de la vie politique. La riduzione del finanziamento pubblico - fino al 2007, anno in cui è avvenuta una successiva modifica della legge n. 88-227 - operava nel seguente modo: l’importo della prima tranche del finanziamento dovuta ad un partito era decurtata di una percentuale pari alla metà dello scarto tra il numero di candidati di ciascun sesso rapportato con il numero totale dei candidati alle elezioni. Le prime applicazioni delle nuove disposizioni hanno prodotto un aumento considerevole della presenza femminile a livello locale: le elezioni municipali del marzo 2001 hanno visto quasi raddoppiare la presenza delle donne nei consigli municipali dei comuni con più di 350.000 abitanti passando dal 25% al 47%; mentre le elezioni del 2002 per il rinnovo dell’Assemblea nazionale non hanno comportato un aumento così vistoso: 71 deputate su 577 membri complessivi (il 12,3% dei seggi contro il 10,9% registrato nelle precedenti elezioni). I partiti hanno preferito rinunciare agli incentivi finanziari piuttosto che adeguare le candidature in modo da assicurare una maggiore rappresentatività femminile.

Nell’aprile 2003 il Parlamento ha quindi approvato la Loi n. 2003-327 du 11 avril 2003 relative à l'élection des conseillers régionaux et des représentants au Parlement européen ainsi qu'à l'aide publique aux partis politiques, che ha rafforzato il principio della parità uomo-donna nelle disposizioni per le elezioni dei consiglieri regionali e dei rappresentanti al Parlamento europeo[27].

All’inizio del 2007 è stata poi promulgata la Loi n. 2007-128 du 31 janvier 2007 tendant à promouvoir l'égal accès des femmes et des hommes aux mandats électoraux et fonctions électives. La legge comporta innanzitutto la creazione di un obbligo di parità tra uomo e donna negli esecutivi dei comuni di 3.500 abitanti e più e negli esecutivi regionali. L’obbligo si applica nei comuni per l’elezione degli adjoints al sindaco (art. 1) e nelle regioni per la designazione dei membri della “commissione permanente” e per i vicepresidenti del consiglio regionale (art. 3). Le nuove disposizioni derivano dall’obbligo di parità previsto per le liste di candidati alla commissione permanente. Il provvedimento dispone che le nuove norme siano applicate a partire dal primo rinnovo generale successivo alla pubblicazione della legge. Con riferimento agli organi legislativi regionali è disposto che il titolare e il supplente alla carica di consigliere regionale devono essere di sesso diverso (art. 4). Per quanto concerne il finanziamento pubblico ai partiti è stabilito che, in caso di non rispetto da parte dei partiti del principio della tendenza alla parità tra i sessi nella scelta delle candidature per le elezioni all’Assemblea nazionale, si applica una maggiore riduzione della prima tranche di tale finanziamento (art. 5). In particolare, l’art. 5 della loi n. 2007-128 reca tali disposizioni modificando l’art. 9-1 della Loi n. 88-227 du 11 mars 1988 relative à la transparence financière de la vie politique, che era stato già oggetto di modifiche - come in precedenza evidenziato - con la Loi n. 2000-493 del 6 giugno 2000. Il tasso di diminuzione previsto dalla nuova legge del 2007 è pari ad una percentuale non più uguale alla metà (come era stato stabilito dalla legge n. 2000- 493), ma ai ¾ dello scarto tra il numero dei candidati di ciascun sesso rispetto al numero complessivo dei candidati.Il dispositivo stabilito dalla nuova legge n. 2007-128 entrerà in vigore con il primo rinnovo generale dell’Assemblée nationale successivo al 1° gennaio 2008 (art. 5).

Nel 2008, al fine di favorire ulteriormente la presenza femminile nelle cariche elettive a livello locale, il legislatore ha approvato la Loi n. 2008-175 du 26 février 2008 facilitant l'égal accès des femmes et des hommes au mandat de conseiller général. Con tale provvedimento sono stati estesi i casi in cui, quando il posto di Conseilleur général diviene vacante, è possibile chiamare a tale incarico il suo “supplente”, che in base alla Loi n. 2007-128 deve essere di sesso diverso rispetto al titolare della carica.

Il controllo sull’applicazione di queste leggi, così come di altre che favoriscano le pari opportunità tra uomini e donne in diversi ambiti della vita politica e sociale, è assicurato da alcuni specifici organi parlamentari. Con laLoi n. 99- 585 du 12 juillet 1999 tendant à la création de délégations parlementaires aux droits des femmes et à l'égalité des chances entre les hommes et les femmessono state infatti istituite, sia presso l’Assemblea nazionale che presso il Senato, “le delegazioni parlamentari sui diritti delle donne e sull’eguaglianza delle possibilità fra donne e uomini” (Délégation aux droits des femmes et à l’égalité des chances entre les hommes et les femmes)[28]. Le delegazioni hanno il compito di informare le assemblee sulla politica del Governo in tema di pari opportunità; possono ascoltare i ministri in materia; possono formulare proposte legislative in argomento; presentano ogni anno un rapporto sulla propria attività.

 

In Portogallo, a seguito della quarta revisione costituzionale del 1997, l’articolo 109 della Costituzione, dedicato alla “partecipazione politica dei cittadini”, assegna alla legge il compito di “promuovere l’uguaglianza nell’esercizio dei diritti civili e politici e la non discriminazione in funzione del sesso nell’accesso alle cariche politiche”.

Nel 2006 l’Assemblea della Repubblica[29] ha approvato la nuova legge sulla parità di diritti fra uomo e donna: la Lei Orgânica n. 3/2006 de 21 de Agosto (Lei da paridade).L’articolo 2 della legge stabilisce espressamente che nelle liste dei candidati per l’elezione dell’Assemblea della Repubblica, dei rappresentanti portoghesi al Parlamento europeo e per le elezioni locali deve essere prevista una rappresentanza minima del 33,3% per ciascun sesso. È inoltre precisato che le liste plurinominali non possono contenere più di due candidati dello stesso sesso collocati consecutivamente in ordine di lista. L’articolo 7 della legge prevede apposite sanzioni in caso di inosservanza delle suddette disposizioni, consistenti nella riduzione delle sovvenzioni per le campagne elettorali, stabilite nella legge sul finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali (Lei n. 19/2003 de 20 de Junho). Tali riduzioni possono arrivare fino all’80% dei finanziamenti e sono calcolate in relazione ai due profili menzionati (rappresentanza minima e ordine delle candidature nella lista).

 

In Spagna è stata approvata nel 2007 la Ley Orgánica 3/2007, de 22 de marzo, para la igualdad efectiva de mujeres y hombres, che contiene, nella seconda disposizione aggiuntiva, una modifica della Legge elettorale generale (Legge organica 5/1985), consistente nell’aggiunta di un nuovo articolo (44-bis) volto ad assicurare che nelle liste dei candidati per l’elezione al Congresso dei deputati, dei rappresentanti spagnoli al Parlamento europeo, nonché per le elezioni regionali e locali, sia prevista una rappresentanza minima del 40% per sesso, con esclusione delle elezioni negli enti locali con 3.000 abitanti o meno e negli enti insulari con 5.000 abitanti o meno. Le liste dei partiti che non rispettano le quote previste sono respinte dalla Commissione elettorale provinciale, che dà ai partiti un breve periodo di tempo utile a correggere le liste.Per quanto riguarda le sanzioni per la violazione delle suddette disposizioni, l’art. 153 della legge elettorale stabilisce che, per gli illeciti non costituenti reato e rientranti quindi tra le infrazioni di natura amministrativa, è competente per l’applicazione delle sanzioni la Giunta elettorale di riferimento; sono previste, in particolare, multe che variano da 300 a 3.000 euro, in caso di infrazioni commesse da autorità o funzionari pubblici, e da 100 a 1.000 euro, se si tratta di illeciti commessi da privati.

Anche a livello regionale, alcune Comunità autonome spagnole hanno approvato una disciplina delle quote rosa elettorali. Ad esempio, nei Paesi Baschi il comma 4 dell’art. 50 della Ley 5/1990, de 15 de junio, de Elecciones al Parlamento Vasco (introdotto nel 2005) dispone che le candidature presentate dai partiti per l’elezione dell’organo rappresentativo della Comunità debbano prevedere almeno il 50% di donne.

 

Quote rosa elettorali stabilite dai partiti politici

In Austria il principio di parità dei diritti fra uomini e donne, previsto nella Costituzione dal 1981 non ha ricevuto alcuna attuazione legislativa in materia di accesso alle cariche elettive. Solo gli statuti dei partiti politici contengono regole in tal senso.

 

In Danimarca il Partito Socialdemocratico ha introdotto, già nel 1988, una quota del 40% riservata alle donne nelle liste elettorali municipali e regionali.

 

In Finlandia la legge sulla parità fra i sessi (Act on Equality between Women and Men) dell’8 agosto 1986, n. 609[30], prevede che almeno il 40% dei componenti di tutti gli organi collegiali pubblici indirettamente costituiti a livello nazionale o locale debba appartenere allo stesso sesso (art. 4a). Tale quota non è prevista ai fini dell'elezione diretta di organi rappresentativi (non vi sono, infatti, disposizioni specifiche all’interno dell’Election Act 714/1998), di cui tuttavia condiziona in qualche misura la predisposizione delle relative liste, in relazione alla eventuale successiva costituzione indiretta di organi collegiali composti da membri democraticamente eletti.

 

In Germania l’uguaglianza tra uomini e donne è un principio sancito dall’art. 3, comma 2, primo periodo, della Legge fondamentale (Grundgesetz), in base al quale “gli uomini e le donne sono equiparati nei loro diritti”. Nel 1994 il legislatore federale ha ampliato tale norma, disponendo che “lo Stato promuove l’effettiva attuazione dell’equiparazione di donne e uomini e agisce per l'eliminazione delle situazioni esistenti di svantaggio” (art. 3, comma 2, secondo periodo). Tali principi costituzionali sono stati attuati concretamente nel diritto federale attraverso la Legge sulla parità tra uomo e donna nell’ambito dei diritti civili (Gesetz über die Gleichberechtigung von Mann und Frau auf dem Gebiet des bürgerlichen Rechts (Gleichberechtigungsgesetz - GleichberG) del 18 giugno 1957.

Non è invece prevista, nell’ordinamento tedesco, una legge attuativa dei principi costituzionali in relazione alle candidature per le consultazioni elettorali. Tuttavia, per promuovere la presenzadelle donne nel mondo politico e perfacilitare il loro accesso a posizioni importanti,alcuni partiti hanno istituitola “quota rosa” (Frauenquote), principioin base al quale le funzioni e gli incarichiall’interno del partito devono essereequamente distribuite fra uomini edonne. Tutti i partiti, con la sola eccezione dell’FDP (partito liberale), hanno provveduto ad inserire regole interne finalizzate a garantire la rappresentanza femminile (ad esempio, il partito della CDU regola la parità tra uomini e donne al § 15 del suo statuto). Dopo l’approvazione della legge francese, vari esponenti politici della maggioranza e dell’opposizione si sono espressi contro l’approvazione di una legge analoga in Germania, adducendo la grande varietà dei sistemi elettorali nazionale, regionale e comunale ed il principio dell’uguaglianza del voto.

 

Nel Regno Unito il Sex Discrimination (Election Candidates) Act 2002, promulgato il 26 febbraio 2002, consente ai partiti politici l'adozione su base volontaria di misure rivolte a promuovere l'eguaglianza (o a ridurre la disparità) tra i sessi nella selezione delle candidature elettorali.

Sebbene i precetti posti dalla vigente legislazione in materia di parità tra i sessi - costituita dal Sex Discrimination Act del 1975 e, per l'Irlanda del Nord, dall’Order del 1976 - non contemplassero espressamente l'ipotesi delle candidature elettorali, non sono mancate pronunce dei giudici (Jepson v. The Labour Party, del 1996) che di tali norme hanno fatto applicazione, qualificando come discriminatorie in base al sesso le “azioni positive” adottate da un partito politico per incrementare la quota di candidature femminili in occasione di elezioni.

Le disposizioni della nuova legge rendono esplicita questa esclusione, modificando in alcune parti la legge del 1975 e prevedendo che essa non si applica alle misure adottate dai partiti politici in materia di selezione di candidature e dirette "a ridurre la disparità numerica degli uomini e delle donne eletti" (section 2); è posto, inoltre, un generale divieto di interpretare le norme vigenti in tema di parità tra i sessi in modo da farne discendere l'annullamento di determinazioni (arrangements) con cui i partiti politici intendano perseguire l'equilibrio tra candidati dei due sessi.

L’art. 105 dell’Equality Act 2010, modificando la legge del 2002, estende al 2030 (il termine precedentemente fissato era il 2015) la possibilità riconosciuta ai partiti politici di presentare liste elettorali esclusivamente formate da candidate (women-only shortlists).

 

In Svezia, paese che fa registrare la più alta percentuale di donne elette in Parlamento, la legge elettorale (The Elections Act, SFS 2005:837) non contiene disposizioni che prevedano quote. I partiti politici adottano generalmente il principio dell'alternanza uomo-donna nella formazione delle liste per le varie consultazioni elettorali.

 

In Svizzera nel 1995 è stata presentata un’iniziativa popolare di modifica della Costituzione, per affidare alla legge il compito di stabilire quote femminili in tutti gli organi federali, ivi compreso il Parlamento. Sia quest’ultimo che il Governo hanno sottoposto l’iniziativa a referendum il 12 marzo 2000, dopo aver espresso ufficialmente la loro contrarietà, incentrata sul principio di uguaglianza e sulla creazione di una “discriminazione alla rovescia”. L’iniziativa popolare è stata respinta con l’81,8% dei voti.

 

 


Promozione della rappresentanza di genere
nell’Unione europea

(a cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea)

Norme di riferimento

La parità tra uomini e donne è uno dei principi basilari dell’ordinamento europeo. L’azione dell’Unione europea in questo ambito si è sviluppata perseguendo sostanzialmente due obiettivi: garantire la parità di opportunità e di trattamento tra uomini e donne, eliminare le discriminazioni fondate sul sesso.

Per quanto attiene ai principi di parità di trattamento e non discriminazione, rileva l’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[31], che stabilisce che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, segnatamente in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Al tempo stesso, la disposizione precisa che «il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato».

Accanto a questa disposizione fondamentale, si può ricordare l’articolo 8 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ai sensi del quale le azioni dell’Unione mirano non soltanto ad eliminare le ineguaglianze, ma anche a promuovere la parità tra uomini e donne.

Ulteriore disposizione di rilievo è l’articolo 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in cui si individua la possibilità per il Consiglio, all’unanimità secondo una disciplina speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, di prendere i provvedimenti opportuni per combattere discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale.

I dati UE

Il 1° marzo 2011 la Commissione europea ha presentato una relazione sui progressi realizzati nella parità tra uomini e donne nel 2010.

Per quanto riguarda in particolare la partecipazione delle donne alla vita politica, la situazione è sostanzialmente immutata rispetto all’anno precedente. Nel 2010, i governi di tre Stati membri (Germania, Finlandia e Slovacchia) sono stati retti da donne, mentre la media di membri femminili dei parlamenti nazionali è stata del 24 percento, vale a dire un punto percentuale in più rispetto al 2005. La percentuale è sopra il 40 nei Paesi bassi e in Svezia e sotto il 10 a Malta e in Ungheria. Soltanto in undici Stati membri tale percentuale è superiore al 30%, soglia ritenuta minima perché le donne possano esercitare un'effettiva influenza sulle questioni politiche. In Italia la rappresentanza femminile in Parlamento è pari al 21,3%. Tra i ministri dei governi nazionali la percentuale di donne è cresciuta dal 22 percento del 2005 al 27 per cento del 2010.

Dal momento che tali dati sono tuttora bassi, i paesi dell’UE stanno assumendo iniziative. Ad esempio, il comitato misto sulla costituzione del Parlamento irlandese ha recentemente raccomandato che i partiti politici adottino misure positive per promuovere la parità dei sessi tra i loro rappresentanti, anche nella scelta dei candidati alle elezioni. La Grecia ha organizzato una campagna di informazione e sensibilizzazione sulle donne nella politica prima delle recenti elezioni regionali e comunali. In Polonia e in Spagna è obbligatorio presentare un ugual numero di donne e di uomini nelle liste elettorali.

Le istituzioni europee hanno fatto registrare alcuni progressi, ma le donne sono tuttora sottorappresentate ai più alti livelli. Un certo progresso si è riscontrato dopo le elezioni europee del 2009, in seguito alle quali la percentuale delle donne nel Parlamento europeo è cresciuta dal 31% al 35%.

In linea generale, la relazione osserva che, benché la maggior parte dei paesi dell'Unione europea abbia fatto registrare progressi in questi ultimi dieci anni, tali progressi sono lenti, con cifre nel complesso basse.

Si segnala in proposito che il 9 giugno 2008 il Consiglio ha adottato conclusioni sulle donne e la presa di decisioni politiche nelle quali sottolinea che la partecipazione paritaria delle donne e degli uomini ai processi decisionali è una condizione preliminare alla promozione della donna alla realizzazione di una vera parità tra donne e uomini nonché un fondamento necessario della democrazia.

La nuova strategia 2010-2015 per la promozione della parità fra uomini e donne nell’Unione europea

La promozione della partecipazione paritaria di donne e uomini alla presa di decisioni politiche ed economiche costituisce una delle cinque priorità della nuova strategia 2010-2015 per la promozione della parità fra uomini e donne nell’Unione europea (COM(2010)491) presenta il 21 settembre 2010.

Per quanto riguarda in particolare la parità nel processo decisionale, la Commissione rileva che nella maggior parte degli Stati membri le donne continuano ad esseresottorappresentate nei processi e nelle posizioni decisionali, in particolare ai livellipiù alti, nonostante costituiscano quasi la metà della forza lavoro e più della metà dei nuovi diplomati universitari dell'UE.

Nonostante i progressi compiuti per raggiungere un equilibrio fra donne e uomini in campo politico, rimane ancora molto da fare, poiché in media solo uno su quattro deputati dei Parlamenti nazionali e ministri dei governi nazionali è una donna.

In campo economico la percentuale delle donne è inferiore a quella degli uomini a tutti i livelli direttivi e decisionali. Nei consigli di amministrazione delle maggiori società quotate in borsa dell'UE solo il 10% dei membri e il 3% dei dirigenti sono donne. Studi dimostrano che la diversità di genere presenta vantaggi ed esiste una correlazione positiva tra le donne in posizioni dirigenti e i risultati economici.

Nonostante l'obiettivo fissato dall'UE nel 2005 del 25% di donne nelle funzioni direttive nel settore pubblico della ricerca, questa meta è ancora piuttosto lontana, dato che solo il 19% dei docenti universitari di ruolo dell'UE sono donne. Lo squilibrio tra donne e uomini prevalente nel campo scientifico e della ricerca costituisce ancora un grave ostacolo all'obiettivo europeo di aumentare la competitività e di sfruttare al massimo il potenziale innovativo.

Su tali basi, la Commissione intende:

§         esaminare iniziative mirate al miglioramento della parità di genere nei processi decisionali;

§         monitorare l'obiettivo del 25% di donne in posizioni direttive di alto livello nella ricerca;

§         monitorare i progressi verso l'obiettivo del 40% di membri di uno stesso sesso nei comitati e gruppi di esperti istituiti dalla Commissione;

§         sostenere gli sforzi per promuovere una maggiore partecipazione delle donne alle elezioni al Parlamento europeo, anche come candidate.

Equa ripartizione delle posizioni di responsabilità

Promuovere l'equa partecipazione di donne e uomini al processo decisionale costituisce una delle priorità della Commissione. Nonostante i progressi finora compiuti, nella maggior parte degli Stati membri dell'UE le donne continuano ad essere sottorappresentate a tutti i livelli del processo decisionale.

Nei parlamenti nazionali, meno di un deputato su quattro è donna. Nelle imprese la situazione è ancora peggiore: le donne rappresentano meno di un decimo dei membri nel consiglio d'amministrazione delle principali aziende europee quotate in borsa. Nel mondo della scienza e della tecnologia restano poche le donne che occupano posizioni di alto livello.

L'UE riconosce da tempo l'esigenza di promuovere la parità uomo-donna nel processo decisionale e si adopera in tal senso in vari modi. Nel 1996 il Consiglio dell'UE ha rivolto agli Stati membri la raccomandazione formale di introdurre misure legislative, regolamentari e di incentivazione a tal fine. Le iniziative promosse dalla Commissione in questo campo includono una maggiore conoscenza della materia da parte di tutti i soggetti interessati, l'analisi delle tendenze e la diffusione di informazioni, la promozione della messa in rete, lo scambio di buone pratiche e la raccolta di dati.

Nel giugno 2008 la Commissione ha varato la rete europea delle donne che occupano posizioni di responsabilità nel mondo politico ed economico per fornire una piattaforma europea che consenta di favorire il dibattito, facilitare lo scambio di informazioni e buone pratiche e individuare le migliori strategie per compiere passi avanti in questo campo.

Il database su uomini e donne nel processo decisionale

Come parte dell’impegno nella promozione della parità di genere nel processo decisionale, la Commissione ha creato un database che registra il numero di  uomini e donne in posizioni di responsabilità nell’UE con l’obiettivo di fornire statistiche attendibili da utilizzare per verificare la situazione attuale e le tendenze nel tempo.

Il database considera le posizioni di potere in politica, nella pubblica amministrazione, nel sistema giudiziario e in varie aree prioritarie dell’economia per 34 paesi: oltre ai 27 Stati membri, i 3 paesi dello Spazio economico europeo (Islanda, Liechtenstein e Norvegia), i tre paesi candidati (Croazia, Turchia ed ex Repubblica iugoslava di Macedonia) e uno dei potenziali candidati (la Serbia). I dati vengono aggiornati  trimestralmente per l’area politica e annualmente per le altre aree.

L’ultimo aggiornamento è stato pubblicato nel maggio 2011. I dati sono stati raccolti tra nel febbraio 2011 e riflettono i cambiamenti intervenuti dal precedente aggiornamento dell’autunno 2010.

 

Parlamenti nazionali

La rappresentanza di genere nei parlamenti nazionali è rimasta invariata: 24% donne e 76% uomini. Nell’unica elezione nazionale che ha avuto luogo nel periodo di riferimento, la percentuale delle donne nel Senato della Repubblica ceca è cresciuta di un punto rispetto al 19% dell’ottobre 2010. La percentuale delle donne presidenti dei rispettivi parlamenti è salita dal 20 al 25%.

 

Governi

Nel periodo di riferimento, le donne rappresentano il 26% dei ministri c.d. senior (vale a dire di coloro che hanno un seggio nel gabinetto del governo) e il 22% c.d. dei ministri junior. A parte qualche piccolo cambiamento, la percentuale di donne nei governi non ha subito variazioni negli ultimi quattro anni. Nel periodo di riferimento ha avuto luogo qualche rimpasto di governo:

·         in Irlanda al momento della raccolta dei dati il Governo aveva un minor numero di membri a causa di diverse dimissioni da parte dei ministri. Dei restanti 7 ministri, due sono donne (29% rispetto al precedente 20%).

·         la percentuale totale di donne nel governo della Latvian government è aumentata dal 26% al 30%, a seguito di un incremento dei ministri c.d. junior.

·         nei Paesi bassi la proposizione di donne nel governo è caduta da una su tre (36%) a una su cinque (20%) dopo che le nuove posizioni di ministro junior sono state assunte da uomini.

·         sia in Spagna che in Francia il numero di ministri senior si è ridotto e la percentuale di donne è diminuita in entrambi i casi, dal 50% al 44% in Spagna e dal 34% al 32% in Francia.

 

Regioni

Elezioni regionali hanno avuto luogo in sette paesi: Ungheria, Svezia, Polonia, Grecia, Spagna, Austria e Repubblica ceca. Le donne sono il 31 percento delle assemblee regionali e il 32 percento degli esecutivi regionali benché solo il 15 percento delle assemblee e l’11% degli esecutivi siano guidati da donne. Nell’UE la rappresentanza di genere nelle assemblee regionali si è modificata con molta difficoltà a partire dal 2004.

 


Tabella sui dati regionali (raccolti tra luglio 2010 e febbraio 2011)

 

Presidenti (assemblee regionali)

Membri (assemblee regionali)

 

Donne
(%)

Uomini
(%)

Donne
(%)

Uomini
(%)

UE-27

15

85

31

69

 

 

 

 

 

Belgio

40

60

40

60

Bulgaria

-

-

-

-

Repubblica ceca

14

86

18

82

Danimarca

40

60

34

66

Germania

19

81

32

68

Estonia

-

-

-

-

Irlanda

-

-

-

-

Grecia

8

92

17

83

Spagna

53

47

43

57

Francia

8

92

48

52

Italia

5

95

12

88

Cipro

-

-

-

-

Latvia

40

60

21

79

Lituania

-

-

-

-

Lussemburgo

-

-

-

-

Ungheria

5

95

11

89

Malta

-

-

-

-

Paesi Bassi

8

92

34

66

Austria

11

89

30

70

Polonia

13

87

24

76

Portogallo

0

100

22

78

Romania

2

98

15

85

Slovenia

-

-

-

-

Slovacchia

0

100

15

85

Finlandia

25

75

42

58

Svezia

25

75

47

53

Regno Unito

25

75

31

69

 

 

 

 

 

Croazia

5

95

24

76

Macedonia, ex repubblica iugoslava di

-

-

-

-

Turchia

1

99

4

96

 

 

 

 

 

Serbia

0

100

14

86

 

 

 

 

 

Liechtenstein

-

-

-

-

Islanda

-

-

-

-

Norvegia

16

84

45

55

 

 

 

 

 

All countries

12

88

27

73

Il Parlamento europeo

Il 10 febbraio 2010, con 381 voti favorevoli, 253 contrari e 31 astensioni, il Parlamento europeo ha adottato la relazione di Marc Tarabella (S&D, BE) sulla parità tra donne e uomini nell'Unione europea che sottolinea l'importanza di "rafforzare le politiche di parità tra i sessi", rilevando la necessità di "un maggior numero di azioni concrete e di nuove politiche".

Il Parlamento europeo chiede agli Stati membri e alle parti sociali di promuovere una presenza più equilibrata tra donne e uomini nei posti di responsabilità delle imprese, dell'amministrazione e degli organi politici". Sollecitando pertanto "la definizione di obiettivi vincolanti per garantire la pari rappresentanza di donne e uomini", il PE sottolinea "gli effetti positivi dell'uso delle quote elettorali sulla rappresentanza delle donne"; in proposito, si compiace della decisione del governo norvegese di aumentare ad almeno il 40% dei membri il numero di donne nei consigli di amministrazione delle società private e di imprese pubbliche, e invita la Commissione e gli Stati membri "a considerare l'iniziativa norvegese come un esempio positivo e a progredire nella stessa direzione".

D'altro canto, i deputati sottolineano con favore che la quota di deputate al Parlamento europeo è passata dal 32,1% al 35% rispetto alla scorsa legislatura, la quota delle presidenti di commissioni parlamentari è passata dal 25% al 41% e che la proporzione delle Vicepresidenti del Parlamento europeo è passata dal 28,5% al 42,8%. Sostengono poi che la percentuale di donne tra i commissari designati (pari al 33% del totale), "raggiunta con grandi difficoltà", rappresenti "il minimo assoluto". Rilevando quindi che la composizione della Commissione "dovrebbe rispecchiare meglio la diversità della popolazione europea, anche sotto il profilo uomo-donna", invitano gli Stati membri, in occasione delle future nomine, a proporre due candidati – un uomo e una donna – in modo da agevolare la formazione di una Commissione più rappresentativa.

Un’altra risoluzione del Parlamento europeo, approvata il 17 giugno 2010, valuta i risultati della tabella di marcia per la parità tra donne e uomini 2006-2010 e formula raccomandazioni future. Tra l’altro il Parlamento europeo:

§         propone la convocazione ogni anno di una riunione tripartita tra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo sui progressi della strategia per la parità di genere nell'Unione europea;

§         sottolinea l'importanza di realizzare una conferenza annuale sulla parità di genere, con la partecipazione di organizzazioni di donne, di organizzazioni che operano a favore dell'eguaglianza di genere, di organizzazioni sindacali di diversi Stati membri, di membri del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio, nonché di deputati nazionali, dedicando in ogni edizione annuale un'attenzione particolare e una tematica definita previamente;

§         insiste sulla necessità di un dialogo strutturato con la società civile al fine di garantire il principio della parità tra donne e uomini;

§         suggerisce di non limitare la cooperazione istituzionale in questo settore alle sole associazioni femminili, ma di cercare attivamente la collaborazione con le associazioni che rappresentano gli uomini e le donne e che si adoperano a favore dell'uguaglianza di genere;

§         chiede l'avvio immediato e con prerogative piene delle attività dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere e l'elaborazione di tutti gli indicatori di genere necessari per monitorare le problematiche legate alla parità in tutti i settori; insiste su un aggiornamento regolare di tali indicatori per consentire un allineamento degli obiettivi stabiliti e dei risultati effettivamente ottenuti;

§         invita l'Ufficio di presidenza del Parlamento europeo e la Commissione a intensificare gli sforzi per incrementare il numero di donne con incarichi dirigenziali nell'organico; invita la Commissione a studiare un meccanismo volto ad assicurare la parità in seno al Collegio dei Commissari nella prossima legislatura.

 

 

 


I progetti di legge in esame

I progetti di legge all’esame introducono misure volte a promuovere la parità effettiva di donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive e ai pubblici uffici delle autonomie territoriali, a partire dalla constatazione della presenza marginale delle donne nei luoghi di rappresentanza e nei centri decisionali della politica.

 

A tale riguardo, si riportano di seguito i dati citati nell’Analisi di impatto della regolamentazione, allegata al disegno di legge del Governo.

Secondo l’ultimo rapporto di Cittalia, Fondazione ANCI ricerche, al luglio 2010 e, quanto alle Province, dai dati forniti dall’Unione Province d’Italia (UPI), aggiornati al dicembre 2010:

• la presenza femminile nei Consigli comunali si attesta su un totale di 14.663 donne rispetto ai 63.645 uomini;

• la presenza femminile nelle giunte comunali è pari a 5.123 donne a fronte di 21.089 uomini;

• nei consigli provinciali la presenza femminile è di 391 donne, pari al 13% del numero complessivo dei consiglieri provinciali.

Complessivamente, degli oltre 118 mila amministratori comunali italiani, le donne rappresentano il 18,2% del totale. Esse svolgono principalmente l’incarico di assessore e consigliere, con percentuali rispettivamente pari a 19,5% e 18,7%, mentre delle 107 province italiane, allo stato attuale, solo 13 sono amministrate da Presidenti donna, con una percentuale pari al 12%, gli assessori donna sono pari al 17% del totale, mentre i consiglieri donna rappresentano il 13% del totale.

Inoltre, molti studi comparativi segnalano come in Europa, ai livelli locali, si verifichi un appiattimento al ribasso delle percentuali di presenza femminile. Tra i Paesi virtuosi si segnala la Lettonia, con il 33% di Sindaci donne, mentre in altri Paesi tale percentuale varia dal 20% della Svezia al 10% della Francia (Elaborazioni ASDO su dati/informazioni del Council of European municipalties and regions 2005).

 

All’AC 3466 (Amici ed altri) sono abbinati altri tre progetti di iniziativa parlamentare: AC 3528 (Mosca, Vaccaro); AC 4254 (Lorenzin ed altri); AC 4271 (A.C. Formisano, Mondello) e il disegno di legge governativo (AC 4415).

L’oggetto dei diversi progetti di legge coincide per la maggior parte: infatti, pressoché tutti recano disposizioni finalizzate ad assicurare le pari opportunità nelle procedure per l’elezione dei consigli comunali (fatta eccezione per l’AC 3528) e provinciali, ovvero nei sistemi di nomina dei relativi organi esecutivi (fatta eccezione per l’AC 3466).

 

Su questo punto, merita ricordare in premessa che un recente intervento di razionalizzazione della spesa pubblica (art. 2, co. 184, della legge finanziaria 2010[32], come modificato da D.L. 2/2010[33]) ha previsto la riduzione del 20 per cento del numero dei consiglieri comunali e dei consiglieri provinciali. L’entità della riduzione è determinata con arrotondamento all’unità superiore e ai fini della stessa non sono computati il sindaco ed il presidente della provincia.

Quanto alla decorrenza, il DL 2/2010 (art. 1, comma 2), dispone che le riduzioni si applicano a partire dal 2011, man mano che i singoli enti si rinnovano.

Parallelamente, le stesse disposizioni prevedono una riduzione del numero di assessori comunali e provinciali, stabilendo che il numero massimo di componenti delle giunte è pari ad un quarto (con arrotondamento all’unità superiore) del numero dei consiglieri comunali e provinciali, computando a tal fine il sindaco e il presidente della provincia; questa disciplina si applica a tutti gli enti locali, a prescindere dall’adozione delle norme statutarie. Essa trova applicazione a decorrere dal 2010 ai singoli enti, man mano che gli stessi procedono al rinnovo dei consigli.

 

Solo alcuni progetti di legge introducono misure promozionali nel sistema di rappresentanza dei consigli circoscrizionali (C. 4254) e delle assemblee regionali (C. 3466 e 4254).

In ogni caso, la tecnica utilizzata in tutte le proposte è quella della novella alla normativa vigente in materia, in specie del Testo unico degli enti locali, adottato con D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Tuel).

 

Parità di genere nei consigli dei comuni sino a 15.000 abitanti

Il primo livello di governo interessato dalle proposte di riforma è quello più vicino ai cittadini, ossia il livello comunale.

Innanzitutto le proposte C. 3466 (articolo 1) e C. 4254 (articolo 1, co. 1, lett. c) modificano la disciplina per l’elezione dei consiglieri nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, con due novelle all’articolo 71 del Tuel.

 

Ai sensi dell’articolo 71 del Tuel, il sindaco ed il consiglio comunale nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti sono eletti con sistema maggioritario sulla base di liste concorrenti nell’intero territorio del comune. Le liste sono composte di candidati in numero non superiore ai consiglieri da eleggere e non inferiore a tre quarti di quel numero. Ciascuna lista esprime anche un candidato capolista che è candidato alla carica di sindaco. Non sono consentiti apparentamenti o collegamenti: ciascuna lista esprime il proprio candidato alla carica di sindaco.

L’elettore dispone di un voto e vota contestualmente la lista ed il relativo candidato alla carica di sindaco. Dispone anche di un voto di preferenza in favore di un candidato della lista prescelta.

È eletto alla carica di sindaco il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti validi. Si procede ad una votazione di ballottaggio soltanto nel caso di parità di voti. Dopo la seconda votazione si procede comunque alla proclamazione[34].

 

Rispetto al quadro normativo, l’AC 3466 introduce, in primo luogo, una quota di lista, in virtù della quale nessuno dei due sessi può essere rappresentato nelle liste in misura superiore ai due terzi, a pena di inammissibilità della lista. Non introduce alcun limite percentuale l’AC 4254, che si limita a prevedere la rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste, sempre a pena di inammissibilità delle stesse. Tale disposizione vale pertanto ad escludere dalla competizione elettorale le liste composte interamente di candidati di uno stesso genere.

 

La scelta di non inserire un limite o un massimo di presenza del sesso meno rappresentato è motivata dai proponenti nella relazione illustrativa con l’eterogeneità degli enti presi in considerazione per numero ed estensione territoriale.

 

In secondo luogo, entrambe le proposte prevedono la c.d. doppia preferenza di genere, ossia la possibilità di esprimere due preferenze (anziché una, secondo la normativa vigente) per i candidati a consigliere comunale. In tal caso, però, una deve riguardare un candidato di sesso maschile e l’altra un candidato di sesso femminile della stessa lista. In caso di mancato rispetto della disposizione, si prevede l’annullamento della seconda preferenza.

Come si evince, si introduce il meccanismo previsto per la prima volta nella legge elettorale della regione Campania, sul quale la Corte costituzionale si è pronunciata in senso favorevole alla costituzionalità con la sentenza n. 4/2010 (v. supra).

 

Parità di genere nei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti

Misure del tutto analoghe sono introdotte dai progetti di legge in esame per l’elezione dei consigli dei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.

 

Nei comuni con popolazione uguale o superiore a 15.000 abitanti il sindaco ed il consiglio comunale sono eletti contestualmente, con votazione a doppio turno, ripartizione proporzionale dei seggi fra le liste concorrenti ed esito maggioritario in favore del gruppo di liste collegate al sindaco eletto.

La circoscrizione elettorale è costituita dall’intero territorio del comune. All’assegnazione dei seggi concorrono liste di candidati composte da un numero massimo di candidati pari ai seggi spettanti al comune e un numero minimo pari ai due terzi. Ciascuna lista deve indicare il candidato alla carica di sindaco. Più liste possono indicare un medesimo candidato alla carica di sindaco e costituiscono per questo un gruppo di liste collegate. Le candidature alla carica di sindaco indicano la lista, o le liste, ad esse collegate.

 

Sia il ddl del Governo C. 4415 (art. 2, co. 2, lett. a) che le proposte C. 3466 (art. 2, co. 1, lett. a), C. 4254 (art. 1, co. 1, lett. d), n. 1) e C. 4271 (art. 1, co. 1, lett. a) inseriscono nel testo unico, con una novella all’articolo 73, il principio secondo cui nelle liste dei candidati nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi dei candidati a pena di inammissibilità della lista.

In caso di quoziente frazionario, il testo governativo prevede l’arrotondamento all’unità superiore se il numero di candidati del sesso meno rappresentato contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi. Invece, ai sensi dell’AC 4271 si procede sempre all’arrotondamento all’unità prossima.

Inoltre, tutti e quattro i progetti citati[35], riformando il comma 3 dell’art. 73 del Tuel, inseriscono l’opzione della seconda preferenza di genere, ossia la possibilità, solo eventuale, di esprimere due preferenze, una per genere, pena l’annullamento della seconda preferenza.

Tuttavia, il ddl C. 4415 richiede solo che, nell’ipotesi di doppia preferenza, i due candidati scelti appartengano alla medesima lista. Mentre, le altre proposte stabiliscono che i due candidati siano compresi nella lista collegata al candidato prescelto alla carica di sindaco. In base a questa seconda soluzione si modifica significativamente il sistema elettorale vigente, in quanto sarebbe eliminata la possibilità di voto c.d. disgiunto.

 

Infatti, nel sistema elettorale vigente per l’elezione del sindaco e del consiglio di comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, l’elettore dispone di due voti – uno per la lista e l’altro per il candidato alla carica di sindaco - e di un voto di preferenza per un candidato della lista prescelta. Può votare per una lista non collegata al candidato prescelto per la carica di sindaco (c.d. voto disgiunto). L’assegnazione dei seggi del consiglio è fatta successivamente alla proclamazione del candidato alla carica di sindaco.

 

Parità di genere nelle circoscrizioni di decentramento comunale

Solo il progetto C 4254 (art. 1, co. 1, lett. a) introduce, con una novella all’articolo 17, comma 5, del Testo unico, il principio di parità di accesso alle cariche elettive e agli uffici pubblici anche per la scelta delle modalità di elezione dei consigli circoscrizionali e di nomina dei componenti degli organi esecutivi.

 

L’articolo 17, del Tuel prevede gli organismi di decentramento degli enti locali. In particolare, si prevede che i comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti articolano il loro territorio per istituire le circoscrizioni di decentramento, quali organismi di partecipazione, di consultazione e di gestione di servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune. I comuni con popolazione compresa tra i 100.000 e i 250.000 abitanti hanno facoltà di istituire le circoscrizioni di decentramento, ma in tal caso la popolazione media delle circoscrizioni non può essere inferiore a 30.000 abitanti.

Nei comuni con popolazione superiore a 300.000 abitanti, lo statuto può prevedere particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni e di autonomia organizzativa e funzionale.

Peraltro, si ricorda che di recente è intervenuta la legge finanziaria per il 2010 (L. 191/2009, art. 2, co. 183-187, come modificati da D.L. 2/2010) che, per far fronte alla riduzione del contributo statale ordinario agli enti locali prevede una serie di misure di razionalizzazione, tra cui la soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale, tranne nei comuni con popolazione superiore ai 250.000 abitanti, che hanno facoltà (non più l’obbligo) di articolare il loro territorio in circoscrizioni, la cui popolazione media non può essere inferiore a 30.000 abitanti.

Ai sensi del comma 4 dell’articolo 17, gli organi delle circoscrizioni sono eletti nelle forme stabilite dallo statuto e dal regolamento. Generalmente, gli statuti ne prevedono due: il consiglio circoscrizionale, organo elettivo e deliberativo con funzioni di indirizzo e controllo, e un organo monocratico, il Presidente, che sovrintende al funzionamento degli uffici e dirige i lavori del Consiglio. Nulla osta alla previsione di una giunta circoscrizionale.

 

In relazione alla disposizione introdotta, si valuti l’opportunità di novellare il comma 4 dell’articolo 17, che rinvia agli statuti la disciplina degli organi circoscrizionali, invece che il comma 5.

 

Per la disciplina si fa rinvio alle misure di parità previste dall’articolo 73, Tuel, co. 1 e 3, che, come novellati dalla medesima proposta di legge, prevede l’opzione della preferenza di genere e il limite dei due terzi dei candidati per lista ai fini dell’elezione dei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti.

 

Parità di genere nei consigli provinciali

Tutti i progetti di legge intervengono sui criteri da osservare per la formazione delle liste elettorali delle Province.

 

L’elezione del presidente della provincia e del consiglio provinciale nei territori delle Regioni a statuto ordinario è disciplinato dalla legge della Repubblica: in particolare, le norme principali sono contenute nel TUEL (articoli 74 e 75) e nella legge 8 marzo 1951, n. 122.

Il territorio della provincia è suddiviso in tanti collegi uninominali quanti sono i componenti del consiglio provinciale da eleggere. Nel numero è compreso il presidente della provincia.

I partiti e i gruppi politici presentano proprie candidature in almeno un terzo dei collegi uninominali. Le candidature (sono) contraddistinte dal medesimo contrassegno (e) costituiscono un gruppo di candidati collegati. Ciascun gruppo di candidati deve inoltre dichiarare il proprio collegamento con un candidato alla presidenza della provincia. Più gruppi di candidati possono dichiarare il collegamento con il medesimo candidato alla presidenza della provincia. I candidati alla carica di presidente della provincia, all’atto della candidatura, devono dichiarare il proprio collegamento con almeno un gruppo di candidati nei collegi uninominali.

Il sistema è a doppio turno: una prima votazione alla quale partecipano tutti i candidati a presidente della provincia ed una eventuale votazione di ballottaggio, che si svolge nella seconda domenica successiva a quella della prima votazione.

L’elettore dispone di due voti: uno per il candidato nel collegio ed uno per il candidato alla presidenza della provincia. Non è ammesso il voto “disgiunto” (voto ad un candidato uninominale non collegato al candidato presidente prescelto). Il voto ad un candidato uninominale “si trasferisce” al candidato presidente collegato.

 

Poiché il sistema elettorale dei consigli provinciali si basa su liste bloccate, non è possibile tecnicamente inserire, senza modificare il sistema stesso, l’opzione della preferenza di genere. Pertanto, le proposte in esame si limitano ad introdurre nella normativa vigente la quota di lista.

L’articolo 3 del disegno di legge governativo (AC 4415), modificando l’articolo 75 del Tuel, prevede che in ogni gruppo di candidati collegati ad un candidato Presidente della Provincia, nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi, a pena della inammissibilità della lista.

Per calcolare la percentuale, qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi, si arrotonda all’unità superiore.

 

Nella relazione illustrativa al disegno di legge si specifica che tale disposizione è stata inserita in accoglimento di una proposta dell’Unione Province d’Italia (UPI) espressa in Conferenza unificata.

 

Le altre proposte prevedono disposizioni analoghe, ma mediante novella all’articolo 14 della legge 8 marzo 1951, n. 122[36]. In particolare, le pdl C 3466 (art. 3), 4254 (art. 1, co. 2) e 4271 (art. 2) prevedono, al pari del disegno governativo, una quota di lista di presenza di genere massima pari ai due terzi del totale dei candidati di ciascun gruppo. Mentre la pdl C 3528 (art. 1) fissa la soglia massima al sessanta per cento. Tutte sanzionano il mancato rispetto della disposizione con l’inammissibilità della lista. L’AC 3528 e 4271 specificano che in caso di quoziente frazionario si procede all’arrotondamento all’unità prossima.

 

Si ricorda al riguardo che si sta procedendo gradualmente alla ridefinizione della tabella delle circoscrizioni dei collegi per le elezioni provinciali, in ottemperanza di quanto previsto dall’art. 2 del citato D.L. 2/2010, conseguente alla riduzione del 20 per cento del numero dei consiglieri provinciali.

 

Parità di genere nei consigli regionali

Due delle proposte di legge in esame introducono il rispetto delle pari opportunità di accesso tra generi tra i principi fondamentali cui le regioni devono attenersi nella disciplina del proprio sistema elettorale. A tal fine si novella la L. 165/2004[37].

 

Occorre ricordare che, a differenza dei sistemi elettorali degli enti locali, per i quali la competenza legislativa spetta allo Stato, le modifiche apportate dalla legge costituzionale 1/1999 agli articoli 121, 122 e 123 della Costituzione, hanno conferito alle regioni a statuto ordinario potestà legislativa in materia elettorale nei «limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica». Ciascuna regione, inoltre, adotta uno statuto che ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento.

Nelle regioni che non hanno adottato una propria legge elettorale, il sistema elettorale è disciplinato dalla normativa nazionale, costituita da un complesso di norme il cui nucleo fondamentale sono la legge 108/1968, la legge 43/1995, l’articolo 5 della legge costituzionale 1/1999 ed infine la legge 165/2004, che stabilisce i principi cui sottostà la potestà legislativa della regione in materia elettorale.

Quanto alle leggi elettorali delle regioni, nessuna di esse ha modificato sostanzialmente il sistema di elezione stabilito dalle leggi nazionali; tutte conservano l’impianto proporzionale in circoscrizioni corrispondenti al territorio delle province e l’esito maggioritario in sede regionale. Tutte recepiscono espressamente la legislazione nazionale per quanto le leggi regionali non dispongono diversamente[38].

Con particolare riferimento al tema della parità di genere, si richiama peraltro l’articolo 117, settimo comma, Cost., come modificato dalla riforma introdotta con legge costituzionale n. 3 del 2001, ai sensi del quale le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

Si ricorda infine che tutte le regioni che hanno adottato norme in materia elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche per favorire la parità di accesso alle candidature (per una disamina, si v. supra).

 

La proposta C. 4254 (art. 2) si limita a prevedere un’integrazione all’articolo 4, comma 1, della citata L. 165/2004, introducendo tra i principi fondamentali a cui le regioni devono attenersi nella disciplina del sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale e dei consiglieri regionali l’adozione di specifiche misure per la promozione di parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

L’AC 3466 (art. 4) reca norme più puntuali, definendo differenti ipotesi. In particolare, è stabilito che se la presentazione della candidatura è prevista per gruppi di candidati, nessuno dei due generi possa essere rappresentato in misura superiore a due terzi e che, qualora sia prevista su liste senza l'espressione di preferenze, non possano esservi più di due candidati consecutivi del medesimo genere nella successione interna alla lista e nella lista nessuno dei due generi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi. Se, invece, vi è la facoltà di esprimere preferenze, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi nel complesso della regione così come in ciascuna lista. In quest'ultimo caso, se all'elettore è consentita l'espressione di più di una preferenza, la seconda deve necessariamente esprimersi in favore di un candidato di genere diverso dal primo (c.d. preferenza di genere).

Nulla stabilisce la disposizione in esame sugli effetti dell’inosservanza delle misure di parità.

La relazione illustrativa, in merito, sottolinea la libertà di scelta delle regioni, potendosi configurare come analogamente selettive sia la previsione dell'ineleggibilità sia sanzioni pecuniarie consistenti.

 

Le disposizioni di cui all’articolo 4 dell’AC 3466 andrebbero valutate alla luce del dell’articolo 122 della Costituzione in base al quale la materia elettorale regionale è attribuita alla potestà legislativa concorrente di Stato e regioni. Secondo il dettato costituzionale infatti allo Stato spetta stabilire i principi fondamentali entro i limiti dei quali le Regioni dettano la disciplina del sistema elettorale.

 

Parità di genere nelle giunte comunali e provinciali

Tre dei progetti all’esame introducono norme tese ad promuovere la parità nella rappresentanza delle giunte degli enti locali, ancorché con strumenti differenti.

Il ddl governativo C. 4415 (articolo 4) novella la disposizione dei cui all’articolo 6, co. 3, del Tuel, che rinvia allo statuto comunale e provinciale la definizione delle norme volte alla promozione di pari opportunità tra i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti, In particolare, si propone di sostituire il termine “promuovere” con il termine “garantire”, in modo da rafforzare il principio, delegando le norme statutarie ad assicurarne il rispetto effettivo, ferma restando l’autonomia degli enti locali nel definire le misure a ciò necessarie.

È previsto che gli enti adeguino i rispettivi statuti entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della disposizione.

 

Altre proposte di legge individuano direttamente gli strumenti per garantire la parità. In tale direzione, le proposte C. 3528 (art. 2) e C. 4271 (art. 3) introducendo un comma 2-bis all’articolo 47 del Tuel, prevedono una quota minima di rappresentazione di ciascun genere nelle giunte, espressa in percentuale. In particolare, ai sensi dell’AC 3528 (art. 2, co. 1) nella giunta provinciale nessun genere può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, mentre per l’AC 4271 (art. 3, co. 1) la soglia di rappresentazione minima di ciascun genere, sia nelle giunte provinciali che nelle giunte dei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, è pari ad un terzo del totale dei componenti (ossia, il 33,3…%). In caso di quoziente frazionario, si procede con l’arrotondamento matematico.

In entrambi i casi, si specifica che il mancato rispetto della norma è causa di invalidità dell’atto di nomina dei componenti.

Infine, il progetto di legge C 4254 (art. 1, co. 1, lett. b), con una novella all’articolo 46, comma 2, del Tuel, richiede che nel rispetto del principio di parità di genere l’atto di nomina delle giunte comunali e provinciali garantisca la presenza di entrambi i sessi.

Con il medesimo contenuto, quest’ultimo progetto (art. 1, co. 3) inserisce il principio per la nomina da parte del Sindaco di Roma della Giunta capitolina, mediante novella del d.lgs. n. 156/2010[39].

 

Parità di genere nelle commissioni di concorso

Il ddl del Governo (C 4415) reca una disposizione che modifica l’articolo 57 del d.lgs. n. 165/2001[40], nella parte relativa alla presenza femminile nella commissioni di concorso per l’accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni.

L’obiettivo della novella, secondo quando riportato nella relazione illustrativa, è di rendere effettiva una disposizione che, nonostante la previsione normativa, ha avuto scarsa applicazione, anche in relazione ad un preciso orientamento della giurisprudenza amministrativa.

 

Nella formulazione vigente, l’articolo 57, co. 1, lett. a), d.lgs. 165/2001, prevede che sia riservato alle donne, salvo motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso per l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione.

La disposizione non ha trovato univoca applicazione in sede giurisdizionale. In particolare, a fronte di alcune pronunce dei Tribunali amministrativi regionali[41] che hanno sanzionato il mancato rispetto della disposizione con l’illegittimità dell’atto e, dunque, l’annullamento degli atti dei concorsi nei quali non era stata rispettata, è sembrata prevalere una differente interpretazione, fatta propria dal Consiglio di Stato, già a partire dalla sentenza 6 giugno 2002, n. 3184. In tale pronuncia, i giudici di Palazzo Spada hanno negato che la disposizione di cui all’art. 57 «attribuisca in via autonoma un interesse alle candidate donne a far valere "ex se" la sua non osservanza da parte della p.a., rilevando tale inosservanza solo come sintomo che evidenzi un comportamento dell'amministrazione globalmente inteso ad attuare illegittime pratiche discriminatorie ai danni delle concorrenti». Più di recente, tale orientamento è stato confermato dalla sentenza della sezione V del Consiglio di Stato, 23 ottobre 207, n. 5572.

Peraltro, proprio il Consiglio di Stato nel 2005 ha sollevato una questione di legittimità costituzionale sulla disposizione in esame, dubitandone la legittimità in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione. E tuttavia, con ordinanza n. 39/2005, la Corte costituzionale non si pronunciata nel merito della questione, dichiarandola manifestamente inammissibile per carenza argomentativa dell'ordinanza di rimessione, che si traduce in una determinante mancanza di motivazione sul parametro costituzionale evocato.

 

Le modifiche all’articolo 57 sono due. Con la prima (art. 5, co. 1, lett. a), si inserisce la regola dell’arrotondamento da utilizzare in caso di quoziente frazionario derivante dal calcolo della percentuale. Il metodo previsto è quello ordinario dell’arrotondamento all’unità prossima.

La seconda modifica (art. 5, co. 1, lett. b) riguarda più strettamente il problema dell’effettività della disposizione. A tal fine si prevede che l’atto di nomina della commissione venga inviato entro tre giorni alla consigliera o al consigliere di parità, nazionale o regionale, da individuare in base alla competenza territoriale dell’amministrazione che ha bandito il concorso. In tal modo, si istituisce una forma di vigilanza sulle nomine.

 


Testo a fronte tra la normativa vigente
e le proposte di legge

 


Testo a fronte tra il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, (TUEL)
e le pdl AA.CC. 4415, 3466, 3528, 4254 e 4271

D.Lgs. 18 agosto 2000,
n. 267

A.C. 4415
Governo

A.C. 3466
Amici ed altri

A.C. 3528
Mosca, Vaccaro

A.C. 4254
Lorenzin ed altri

A.C. 4271
A.T. Formisano, Mondello

 

Art. 6 - Statuti comunali e provinciali

 

1. I comuni e le province adottano il proprio statuto.

 

 

 

 

 

2. Lo statuto, nell'àmbito dei princìpi fissati dal presente testo unico, stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio. Lo statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell'ente, le forme di collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell'accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, lo stemma e il gonfalone e quanto ulteriormente previsto dal presente testo unico.

 

 

 

 

 

 

Art. 4, co. 1

 

 

 

 

3. Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.

3. Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.

 

 

 

 

4. Gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Qualora tale maggioranza non venga raggiunta, la votazione è ripetuta in successive sedute da tenersi entro trenta giorni e lo statuto è approvato se ottiene per due volte il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie.

 

 

 

 

 

5. Dopo l'espletamento del controllo da parte del competente organo regionale, lo statuto è pubblicato nel bollettino ufficiale della Regione, affisso all'albo pretorio dell'ente per trenta giorni consecutivi ed inviato al Ministero dell'interno per essere inserito nella raccolta ufficiale degli statuti. Lo statuto entra in vigore decorsi trenta giorni dalla sua affissione all'albo pretorio dell'ente.

 

 

 

 

 

6. L'ufficio del Ministero dell'interno, istituito per la raccolta e la conservazione degli statuti comunali e provinciali, cura anche adeguate forme di pubblicità degli statuti stessi.

 

 

 

 

 

Art. 17 - Circoscrizioni di decentramento comunale

 

 

 

 

 

 

1. I comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti articolano il loro territorio per istituire le circoscrizioni di decentramento, quali organismi di partecipazione, di consultazione e di gestione di servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune.

 

 

 

 

 

2. L'organizzazione e le funzioni delle circoscrizioni sono disciplinate dallo statuto comunale e da apposito regolamento.

 

 

 

 

 

3. I comuni con popolazione tra i 100.000 e i 250.000 abitanti possono articolare il territorio per istituire le circoscrizioni di decentramento ai sensi di quanto previsto dal comma 2. La popolazione media delle circoscrizioni non può essere inferiore a 30.000 abitanti.

 

 

 

 

 

4. Gli organi delle circoscrizioni rappresentano le esigenze della popolazione delle circoscrizioni nell'àmbito dell'unità del comune e sono eletti nelle forme stabilite dallo statuto e dal regolamento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 1, co. 1, lett. a

 

5. Nei comuni con popolazione superiore a 300.000 abitanti, lo statuto può prevedere particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni e di autonomia organizzativa e funzionale, determinando, altresì, anche con il rinvio alla normativa applicabile ai comuni aventi uguale popolazione, gli organi di tali forme di decentramento, lo status dei componenti e le relative modalità di elezione, nomina o designazione. Il consiglio comunale può deliberare, a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati, la revisione della delimitazione territoriale delle circoscrizioni esistenti e la conseguente istituzione delle nuove forme di autonomia ai sensi della normativa statutaria.

 

 

 

5. Nei comuni con popolazione superiore a 300.000 abitanti, lo statuto può prevedere particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni e di autonomia organizzativa e funzionale, determinando, altresì, anche con il rinvio alla normativa applicabile ai comuni aventi uguale popolazione, gli organi di tali forme di decentramento, lo status dei componenti e le relative modalità di elezione, nomina o designazione. Le modalità di elezione dei consigli circoscrizionali e la nomina o la designazione dei componenti degli organi esecutivi sono comunque disciplinate in modo da garantire il rispetto del principio della parità di accesso delle donne e degli uomini alle cariche elettive, secondo le disposizioni dell'articolo 73, commi 1 e 3, e agli uffici pubblici. Il consiglio comunale può deliberare, a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati, la revisione della delimitazione territoriale delle circoscrizioni esistenti e la conseguente istituzione delle nuove forme di autonomia ai sensi della normativa statutaria.

 

 

 

 

 

 

 

Art. 46 - Elezione del sindaco e del presidente della provincia - Nomina della Giunta

 

 

 

 

 

 

1. Il sindaco e il presidente della provincia sono eletti dai cittadini a suffragio universale e diretto secondo le disposizioni dettate dalla legge e sono membri dei rispettivi consigli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 1, co. 1, lett. b)

 

2. Il sindaco e il presidente della provincia nominano i componenti della Giunta, tra cui un vicesindaco e un vicepresidente, e ne danno comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione.

 

 

 

2. Il sindaco e il presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta, tra cui un vicesindaco e un vicepresidente, e ne danno comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione.

 

3. Entro il termine fissato dallo statuto, il sindaco o il presidente della provincia, sentita la Giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato.

 

 

 

 

 

4. Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 47 -Composizione delle giunte

 

 

 

 

 

 

1. La Giunta comunale e la Giunta provinciale sono composte rispettivamente dal sindaco e dal presidente della provincia, che le presiedono, e da un numero di assessori, stabilito dagli statuti, che non deve essere superiore a un terzo, arrotondato aritmeticamente, del numero dei consiglieri comunali e provinciali, computando a tale fine il sindaco e il presidente della provincia, e comunque non superiore a dodici unità.

 

 

 

 

 

2. Gli statuti, nel rispetto di quanto stabilito dal comma 1, possono fissare il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli stessi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 2, co. 1

 

Art. 3, co. 1

 

 

 

2-bis. Nella giunta provinciale, a pena di invalidità della nomina dei componenti, nessun genere può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento del totale dei componenti.

 

2-bis. Nelle Giunte dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e nelle Giunte provinciali, a pena di invalidità della nomina dei componenti, nessun sesso può essere rappresentato in misura inferiore ad un terzo del totale dei componenti. In caso di quoziente frazionario si procede all'arrotondamento all'unità prossima.

3. Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e nelle province gli assessori sono nominati dal sindaco o dal presidente della provincia, anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere.

 

 

 

 

 

4. Nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del consiglio ed in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere.

 

 

 

 

 

5. Fino all'adozione delle norme statutarie di cui al comma 1, le giunte comunali e provinciali sono composte da un numero di assessori stabilito rispettivamente nelle seguenti misure:

 

 

 

 

 

a) non superiore a 4 nei comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti; non superiore a 6 nei comuni con popolazione compresa tra 10.001 e 100.000 abitanti; non superiore a 10 nei comuni con popolazione compresa tra 100.001 e 250.000 abitanti e nei capoluoghi di provincia con popolazione inferiore a 100.000 abitanti; non superiore a 12 nei comuni con popolazione compresa tra 250.001 e 500.000 abitanti: non superiore a 14 nei comuni con popolazione compresa tra 500.001 e 1.000.000 di abitanti e non superiore a 16 nei comuni con popolazione superiore a 1.000.000 di abitanti;

 

 

 

 

 

b) non superiore a 6 per le province a cui sono assegnati 24 consiglieri; non superiore a 8 per le province a cui sono assegnati 30 consiglieri; non superiore a 10 per le province a cui sono assegnati 36 consiglieri; non superiore a 12 per quelle a cui sono assegnati 45 consiglieri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 71 -Elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti

 

 

 

 

 

 

1. Nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, l'elezione dei consiglieri comunali si effettua con sistema maggioritario contestualmente alla elezione del sindaco.

 

 

 

 

 

2. Con la lista di candidati al consiglio comunale deve essere anche presentato il nome e cognome del candidato alla carica di sindaco e il programma amministrativo da affiggere all'albo pretorio.

 

 

 

 

 

 

 

Art. 1, co. 1, lett. a)

 

 

 

3. Ciascuna candidatura alla carica di sindaco è collegata ad una lista di candidati alla carica di consigliere comunale, comprendente un numero di candidati non superiore al numero dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai tre quarti.

 

3. Ciascuna candidatura alla carica di sindaco è collegata ad una lista di candidati alla carica di consigliere comunale, comprendente un numero di candidati non superiore al numero dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai tre quarti. Nelle liste dei candidati, a pena di inammissibilità, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi.

 

 

 

 

Art. 1, co. 1, lett. a)

 

 

Art. 1, co. 1, lett. c), n. 1)

 

 

3-bis. Nelle liste di cui al comma 3 nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi. La mancata osservanza del limite dei due terzi comporta la non ammissione della lista.

 

 

3-bis. Nelle liste dei candidati, a pena di inammissibilità, è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi.

 

4. Nella scheda è indicato, a fianco del contrassegno, il candidato alla carica di sindaco.

 

 

 

 

 

 

Art. 1, co. 1, lett. b)

Art. 1, co. 1, lett. b)

 

Art. 1, co. 1, lett. c), n. 2)

 

5. Ciascun elettore ha diritto di votare per un candidato alla carica di sindaco, segnando il relativo contrassegno. Può altresì esprimere un voto di preferenza per un candidato alla carica di consigliere comunale compreso nella lista collegata al candidato alla carica di sindaco prescelto, scrivendone il cognome nella apposita riga stampata sotto il medesimo contrassegno.

5. Ciascun elettore ha diritto di votare per un candidato alla carica di sindaco, segnando il relativo contrassegno. L’elettore può altresì esprimere uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome e il cognome di due candidati alla carica di consigliere comunale compresi nella lista stessa collegata al candidato alla carica di sindaco prescelto. Nel caso di espressione di due preferenze, ciascuna deve riguardare, rispettivamente, un candidato di genere maschile ed un candidato di genere femminile, compresi nella stessa lista. L’espressione delle preferenze per candidati dello stesso genere comporta l’annullamento della seconda preferenza.

5. Ciascun elettore ha diritto di votare per un candidato alla carica di sindaco, segnando il relativo contrassegno. Può altresì esprimere, nelle apposite righe stampate sotto il medesimo contrassegno, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome e il cognome dei due candidati compresi nella lista collegata al candidato prescelto alla carica di sindaco. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza.

 

5. Ciascun elettore ha diritto di votare per un candidato alla carica di sindaco, segnando il relativo contrassegno. Può altresì esprimere uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome di non più di due candidati compresi nella lista collegata al candidato prescelto alla carica di sindaco nelle apposite righe stampate sotto il medesimo contrassegno. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di sesso maschile e l’altra un candidato di sesso femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza.

 

6. È proclamato eletto sindaco il candidato alla carica che ottiene il maggior numero di voti. In caso di parità di voti si procede ad un turno di ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti, da effettuarsi la seconda domenica successiva. In caso di ulteriore parità viene eletto il più anziano di età.

 

 

 

 

 

7. A ciascuna lista di candidati alla carica di consigliere si intendono attribuiti tanti voti quanti sono i voti conseguiti dal candidato alla carica di sindaco ad essa collegato.

 

 

 

 

 

8. Alla lista collegata al candidato alla carica di sindaco che ha riportato il maggior numero di voti sono attribuiti due terzi dei seggi assegnati al consiglio, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da assegnare alla lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi. I restanti seggi sono ripartiti proporzionalmente fra le altre liste. A tal fine si divide la cifra elettorale di ciascuna lista successivamente per 1, 2, 3, 4,... sino a concorrenza del numero dei seggi da assegnare e quindi si scelgono, tra i quozienti così ottenuti, i più alti, in numero eguale a quello dei seggi da assegnare, disponendoli in una graduatoria decrescente. Ciascuna lista ottiene tanti seggi quanti sono i quozienti ad essa appartenenti compresi nella graduatoria. A parità di quoziente, nelle cifre intere e decimali, il posto è attribuito alla lista che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale e, a parità di quest'ultima, per sorteggio.

 

 

 

 

 

9. Nell'àmbito di ogni lista i candidati sono proclamati eletti consiglieri comunali secondo l'ordine delle rispettive cifre individuali, costituite dalla cifra di lista aumentata dei voti di preferenza. A parità di cifra, sono proclamati eletti i candidati che precedono nell'ordine di lista. Il primo seggio spettante a ciascuna lista di minoranza è attribuito al candidato alla carica di sindaco della lista medesima.

 

 

 

 

 

10. Ove sia stata ammessa e votata una sola lista, sono eletti tutti i candidati compresi nella lista, ed il candidato a sindaco collegato, purché essa abbia riportato un numero di voti validi non inferiore al 50 per cento dei votanti ed il numero dei votanti non sia stato inferiore al 50 per cento degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune. Qualora non si siano raggiunte tali percentuali, la elezione è nulla.

 

 

 

 

 

11. In caso di decesso di un candidato alla carica di sindaco, intervenuto dopo la presentazione delle candidature e prima del giorno fissato per le elezioni, si procede al rinvio delle elezioni con le modalità stabilite dall'articolo 18, terzo, quarto e quinto comma del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, consentendo, in ogni caso, l'integrale rinnovo del procedimento di presentazione di tutte le liste e candidature a sindaco e a consigliere comunale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 73 -Elezione del consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 2, co. 1, lett. a)

 

Art. 1, co. 1, lett. d), n. 1)

Art. 1, co. 1, lett. a)

1. Le liste per l'elezione del consiglio comunale devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da comprendere nella lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi.

 

1. Le liste per l'elezione del consiglio comunale devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da comprendere nella lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi. Nelle liste dei candidati, a pena di inammissibilità, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi.

 

1. Le liste per l'elezione del consiglio comunale devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da comprendere nella lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi. Nelle liste dei candidati, a pena di inammissibilità, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi.

1. Le liste per l'elezione del consiglio comunale devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da comprendere nella lista contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi. Nelle liste dei candidati, a pena di inammissibilità, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi. In caso di quoziente frazionario si procede all'arrotondamento all'unità prossima.

 

Art. 2, co. 1, lett. a)

 

 

 

 

 

1-bis. Nelle liste di cui al comma 1 nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi. La mancata osservanza del limite dei due terzi comporta la non ammissione della lista.

 

 

 

 

2. Con la lista di candidati al consiglio comunale deve essere anche presentato il nome e cognome del candidato alla carica di sindaco e il programma amministrativo da affiggere all'albo pretorio. Più liste possono presentare lo stesso candidato alla carica di sindaco. In tal caso le liste debbono presentare il medesimo programma amministrativo e si considerano fra di loro collegate.

 

 

 

 

 

 

Art. 2, co. 1, lett. b)

Art. 2, co. 1, lett. b)

 

Art. 1, co. 1, lett .d), n. 2)

Art. 1, co. 1, lett. b)

3. Il voto alla lista viene espresso, ai sensi del comma 3 dell'art. 72, tracciando un segno sul contrassegno della lista prescelta. Ciascun elettore può esprimere inoltre un voto di preferenza per un candidato della lista da lui votata, scrivendone il cognome sull'apposita riga posta a fianco del contrassegno. I contrassegni devono essere riprodotti sulle schede con il diametro di centimetri 3.

3. Il voto alla lista viene espresso, ai sensi del comma 3 dell'art. 72, tracciando un segno sul contrassegno della lista prescelta. L’elettore può altresì esprimere uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome e il cognome di due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, ciascuna deve riguardare, rispettivamente, un candidato di genere maschile ed un candidato di genere femminile, compresi nella stessa lista. L’espressione delle preferenze per candidati dello stesso genere comporta l’annullamento della seconda preferenza.

3. Il voto alla lista viene espresso, ai sensi del comma 3 dell'art. 72, tracciando un segno sul contrassegno della lista prescelta. Ciascun elettore può altresì esprimere, nelle apposite righe stampate sotto il medesimo contrassegno, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome e il cognome dei due candidati compresi nella lista collegata al candidato prescelto alla carica di sindaco. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l'altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l'annullamento della seconda preferenza.

 

3. Il voto alla lista viene espresso, ai sensi del comma 3 dell'art. 72, tracciando un segno sul contrassegno della lista prescelta. Ciascun elettore può altresì esprimere, nelle apposite righe stampate sotto il medesimo contrassegno, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome di non più di due candidati compresi nella lista collegata al candidato prescelto alla carica di sindaco. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di sesso maschile e l'altra un candidato di sesso femminile della stessa lista, pena l'annullamento della seconda preferenza.

3. Il voto alla lista viene espresso, ai sensi del comma 3 dell'art. 72, tracciando un segno sul contrassegno della lista prescelta. Ciascun elettore può altresì esprimere, nelle apposite righe stampate sotto il medesimo contrassegno, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome e il cognome dei due candidati compresi nella lista collegata al candidato prescelto alla carica di sindaco. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di sesso maschile e l'altra un candidato di sesso femminile della stessa lista, pena l'annullamento della seconda preferenza.

4. L'attribuzione dei seggi alle liste è effettuata successivamente alla proclamazione dell'elezione del sindaco al termine del primo o del secondo turno.

 

 

 

 

 

5. La cifra elettorale di una lista è costituita dalla somma dei voti validi riportati dalla lista stessa in tutte le sezioni del comune.

 

 

 

 

 

6. La cifra individuale di ciascun candidato a consigliere comunale è costituita dalla cifra di lista aumentata dei voti di preferenza.

 

 

 

 

 

7. Non sono ammesse all’assegnazione dei seggi quelle liste che abbiano ottenuto al primo turno meno del 3 per cento dei voti validi e che non appartengano a nessun gruppo di liste che abbia superato tale soglia.

 

 

 

 

 

8. Salvo quanto disposto dal comma 10, per l’assegnazione del numero dei consiglieri a ciascuna lista o a ciascun gruppo di liste collegate, nel turno di elezione del sindaco, con i rispettivi candidati alla carica di sindaco si divide la cifra elettorale di ciascuna lista o gruppo di liste collegate successivamente per 1, 2, 3, 4,… sino a concorrenza del numero dei consiglieri da eleggere e quindi si scelgono, fra i quozienti così ottenuti, i più alti, in numero eguale a quello dei consiglieri da eleggere, disponendoli in una graduatoria decrescente. Ciascuna lista o gruppo di liste avrà tanti rappresentanti quanti sono i quozienti ad essa appartenenti compresi nella graduatoria. A parità di quoziente, nelle cifre intere e decimali, il posto è attribuito alla lista o gruppo di liste che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale e, a parità di quest’ultima, per sorteggio. Se ad una lista spettano più posti di quanti sono i suoi candidati, i posti eccedenti sono distribuiti, fra le altre liste, secondo l’ordine dei quozienti.

 

 

 

 

 

9. Nell’àmbito di ciascun gruppo di liste collegate la cifra elettorale di ciascuna di esse, corrispondente ai voti riportati nel primo turno, è divisa per 1, 2, 3, 4, …..sino a concorrenza del numero dei seggi spettanti al gruppo di liste. Si determinano in tal modo i quozienti più alti e, quindi, il numero dei seggi spettanti ad ogni lista.

 

 

 

 

 

10. Qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al primo turno, alla lista o al gruppo di liste a lui collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, ma abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate abbia superato il 50 per cento dei voti validi. Qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate al primo turno abbia già superato nel turno medesimo il 50 per cento dei voti validi. I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate ai sensi del comma 8.

 

 

 

 

 

11. Una volta determinato il numero dei seggi spettanti a ciascuna lista o gruppo di liste collegate, sono in primo luogo proclamati eletti alla carica di consigliere i candidati alla carica di sindaco, non risultati eletti, collegati a ciascuna lista che abbia ottenuto almeno un seggio. In caso di collegamento di più liste al medesimo candidato alla carica di sindaco risultato non eletto, il seggio spettante a quest’ultimo è detratto dai seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate.

 

 

 

 

 

12. Compiute le operazioni di cui al comma 11 sono proclamati eletti consiglieri comunali i candidati di ciascuna lista secondo l’ordine delle rispettive cifre individuali. In caso di parità di cifra individuale, sono proclamati eletti i candidati che precedono nell’ordine di lista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Art. 75 - Elezione del consiglio provinciale

 

 

 

 

 

 

1. L'elezione dei consiglieri provinciali è effettuata sulla base di collegi uninominali e secondo le disposizioni dettate dalla legge 8 marzo 1951, n. 122, e successive modificazioni, in quanto compatibili con le norme di cui all'articolo 74 e al presente articolo.

 

 

 

 

 

2. Con il gruppo di candidati collegati deve essere anche presentato il nome e cognome del candidato alla carica di presidente della provincia e il programma amministrativo da affiggere all'albo pretorio. Più gruppi possono presentare lo stesso candidato alla carica di presidente della provincia. In tal caso i gruppi debbono presentare il medesimo programma amministrativo e si considerano fra di loro collegati.

 

 

 

 

 

 

Art. 3, co. 1

 

 

 

 

 

2-bis. In ogni gruppo di candidati collegati ad un candidato Presidente della Provincia, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi. La mancata osservanza del limite dei due terzi comporta la non ammissione della lista.

 

 

 

 

3. L'attribuzione dei seggi del consiglio provinciale ai gruppi di candidati collegati è effettuata dopo la proclamazione dell'elezione del presidente della provincia.

 

 

 

 

 

4. La cifra elettorale di ogni gruppo è data dal totale dei voti validi ottenuti da tutti i candidati del gruppo stesso nei singoli collegi della provincia.

 

 

 

 

 

5. Non sono ammessi all'assegnazione dei seggi i gruppi di candidati che abbiano ottenuto al primo turno meno del 3 per cento dei voti validi e che non appartengano a nessuna coalizione di gruppi che abbia superato tale soglia.

 

 

 

 

 

6. Per l'assegnazione dei seggi a ciascun gruppo di candidati collegati, si divide la cifra elettorale conseguita da ciascun gruppo di candidati successivamente per 1, 2, 3, 4,.... sino a concorrenza del numero di consiglieri da eleggere. Quindi tra i quozienti così ottenuti si scelgono i più alti, in numero eguale a quello dei consiglieri da eleggere, disponendoli in una graduatoria decrescente. A ciascun gruppo di candidati sono assegnati tanti rappresentanti quanti sono i quozienti ad esso appartenenti compresi nella graduatoria. A parità di quoziente, nelle cifre intere e decimali, il posto è attribuito al gruppo di candidati che ha ottenuto la maggior cifra elettorale e, a parità di quest'ultima, per sorteggio. Se ad un gruppo spettano più posti di quanti sono i suoi candidati, i posti eccedenti sono distribuiti tra gli altri gruppi, secondo l'ordine dei quozienti.

 

 

 

 

 

7. Le disposizioni di cui al comma 6 si applicano quando il gruppo o i gruppi di candidati collegati al candidato proclamato eletto presidente della provincia abbiano conseguito almeno il 60 per cento dei seggi assegnati al consiglio provinciale.

 

 

 

 

 

8. Qualora il gruppo o i gruppi di candidati collegati al candidato proclamato eletto presidente della provincia non abbiano conseguito almeno il 60 per cento dei seggi assegnati al consiglio provinciale, a tale gruppo o gruppi di candidati viene assegnato il 60 per cento dei seggi, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei consiglieri da attribuire al gruppo o ai gruppi contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi. In caso di collegamento di più gruppi con il candidato proclamato eletto presidente, per determinare il numero di seggi spettanti a ciascun gruppo, si dividono le rispettive cifre elettorali corrispondenti ai voti riportati al primo turno, per 1, 2, 3, 4, ..... sino a concorrenza del numero dei seggi da assegnare. Si determinano in tal modo i quozienti più alti e, quindi, il numero dei seggi spettanti ad ogni gruppo di candidati.

 

 

 

 

 

9. I restanti seggi sono attribuiti agli altri gruppi di candidati ai sensi del comma 6.

 

 

 

 

 

10. Una volta determinato il numero dei seggi spettanti a ciascun gruppo di candidati, sono in primo luogo proclamati eletti alla carica di consigliere i candidati alla carica di presidente della provincia non risultati eletti, collegati a ciascun gruppo di candidati che abbia ottenuto almeno un seggio. In caso di collegamento di più gruppi con il candidato alla carica di presidente della provincia non eletto, il seggio spettante a quest'ultimo è detratto dai seggi complessivamente attribuiti ai gruppi di candidati collegati.

 

 

 

 

 

11. Compiute le operazioni di cui al comma 10 sono proclamati eletti consiglieri provinciali i candidati di ciascun gruppo secondo l'ordine delle rispettive cifre individuali.

 

 

 

 

 

12. La cifra individuale dei candidati a consigliere provinciale viene determinata moltiplicando il numero dei voti validi ottenuto da ciascun candidato per cento e dividendo il prodotto per il totale dei voti validi espressi nel collegio per i candidati a consigliere provinciale. Nel caso di candidature presentate in più di un collegio si assume, ai fini della graduatoria, la maggiore cifra individuale riportata dal candidato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Testo a fronte tra la Legge 8 marzo 1951, n. 122,
e le pdl AA.CC. 3466, 3528, 4254 e 4271

 

Legge 8 marzo 1951, n. 122
Norme per l'elezione dei Consigli provinciali

A.C. 3466
Amici ed altri

A.C. 3528
Mosca, Vaccaro

A.C. 4254
Lorenzin ed altri

A.C. 4271
A.T. Formisano, Mondello

 

 

 

 

 

Art. 14

 

 

 

 

La presentazione delle candidature per i singoli collegi è fatta per gruppi contraddistinti da un unico contrassegno.

 

 

 

 

 

Art. 3, co. 1

Art. 1, co. 1

Art. 1, co. 2

 

Ciascun gruppo deve comprendere un numero di candidati non inferiore ad un terzo e non superiore al numero dei consiglieri assegnati alla Provincia.

Ciascun gruppo deve comprendere un numero di candidati non inferiore ad un terzo e non superiore al numero dei consiglieri assegnati alla Provincia. In ciascun gruppo di candidati, a pena di inammissibilità, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi.

Ciascun gruppo deve comprendere un numero di candidati non inferiore ad un terzo e non superiore al numero dei consiglieri assegnati alla Provincia. In ogni gruppo, a pena di inammissibilità delle candidature nel relativo collegio, nessun genere può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento del totale dei candidati. In caso di quoziente frazionario si procede all'arrotondamento all'unità prossima.

Ciascun gruppo deve comprendere un numero di candidati non inferiore ad un terzo e non superiore al numero dei consiglieri assegnati alla Provincia. In ciascun gruppo di candidati, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi, a pena di inammissibilità.

 

 

 

 

 

 

Art. 2, co. 1

 

 

 

 

2-bis. In ogni gruppo, a pena di inammissibilità delle candidature nel relativo collegio, nessun sesso può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi del totale dei candidati. In caso di quoziente frazionario si procede all'arrotondamento all'unità prossima.

Per ogni candidato deve essere indicato il collegio per il quale viene presentato. Nessun candidato può accettare la candidatura per più di tre collegi.

 

 

 

 

La dichiarazione di presentazione del gruppo deve essere sottoscritta:

 

 

 

 

a) da almeno 200 e da non più di 400 elettori iscritti nelle liste elettorali di comuni compresi nelle province fino a 100 mila abitanti;

 

 

 

 

b) da almeno 350 e da non più di 700 elettori iscritti nelle liste elettorali di comuni compresi nelle province con più di 100 mila abitanti e fino a 500 mila abitanti;

 

 

 

 

c) da almeno 500 e da non più di 1.000 elettori iscritti nelle liste elettorali di comuni compresi nelle province con più di 500 mila abitanti e fino a un milione di abitanti;

 

 

 

 

d) da almeno 1.000 e da non più di 1.500 elettori iscritti nelle liste elettorali di comuni compresi nelle province con più di un milione di abitanti.

 

 

 

 

Tale dichiarazione deve contenere l'indicazione di due delegati a designare, personalmente o per mezzo di persone da essi autorizzate con dichiarazione autenticata da notaio, i rappresentanti del gruppo presso ogni seggio e presso i singoli uffici elettorali circoscrizionali e l'ufficio elettorale centrale.

 

 

 

 

La presentazione deve essere effettuata dalle ore 8 del trentesimo giorno alle ore 12 del ventinovesimo giorno antecedenti la data delle elezioni alla segreteria dell'Ufficio elettorale centrale, il quale provvede all'esame delle candidature e si pronuncia sull'ammissione di esse secondo le norme in vigore per le elezioni comunali.

 

 

 

 

 


Testo a fronte tra la Legge 2 luglio 2004, n. 165, e le pdl AA.CC. 3466, e 4254

 

Legge 2 luglio 2004, n. 165
Disposizioni di attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione

A.C. 3466
Amici ed altri

A.C. 4254
Lorenzin ed altri

 

 

 

Art. 4 -Disposizioni di principio, in attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione, in materia di sistema di elezione

 

1. Le regioni disciplinano con legge il sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale e dei consiglieri regionali nei limiti dei seguenti princìpi fondamentali:

 

 

a) individuazione di un sistema elettorale che agevoli la formazione di stabili maggioranze nel Consiglio regionale e assicuri la rappresentanza delle minoranze;

 

 

b) contestualità dell'elezione del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale, se il Presidente è eletto a suffragio universale e diretto. Previsione, nel caso in cui la regione adotti l'ipotesi di elezione del Presidente della Giunta regionale secondo modalità diverse dal suffragio universale e diretto, di termini temporali tassativi, comunque non superiori a novanta giorni, per l'elezione del Presidente e per l'elezione o la nomina degli altri componenti della Giunta;

 

 

 

 

Art. 2, co. 1

 

 

b-bis) adozione di specifiche misure per la promozione della parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.

c) divieto di mandato imperativo.

 

 

 

Art. 4, co. 1

 

 

c-bis) promozione della parità di accesso tra uomini e donne alle cariche elettive. Qualora la presentazione delle candidature sia prevista per gruppi di candidati, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi; qualora la presentazione sia prevista su liste senza l'espressione di preferenze, non possono esservi più di due candidati consecutivi del medesimo genere nella successione interna alla lista e nella lista nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi; qualora la presentazione sia prevista su liste con l'espressione di preferenze, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi e nella lista nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi. In quest'ultimo caso, se all'elettore è consentita l'espressione di più di una preferenza, nel caso in cui l'elettore esprima preferenze solo a candidati del medesimo genere la seconda preferenza è considerata nulla.

 

 

 

 


 

Testo a fronte tra il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e la pdl A.C. 4415

 

D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165
Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche

A.C. 4415
Governo

 

 

Art. 57 -Pari opportunità

 

 

 

01. Le pubbliche amministrazioni costituiscono al proprio interno, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, il “Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni“ che sostituisce, unificando le competenze in un solo organismo, i comitati per le pari opportunità e i comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione collettiva, dei quali assume tutte le funzioni previste dalla legge, dai contratti collettivi relativi al personale delle amministrazioni pubbliche o da altre disposizioni.

 

02. Il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni ha composizione paritetica ed è formato da un componente designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello di amministrazione e da un pari numero di rappresentanti dell’amministrazione in modo da assicurare nel complesso la presenza paritaria di entrambi i generi. Il presidente del Comitato unico di garanzia è designato dall’amministrazione.

 

03. Il Comitato unico di garanzia, all’interno dell’amministrazione pubblica, ha compiti propositivi, consultivi e di verifica e opera in collaborazione con la consigliera o il consigliere nazionale di parità. Contribuisce all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, migliorando l’efficienza delle prestazioni collegata alla garanzia di un ambiente di lavoro caratterizzato dal rispetto dei princìpi di pari opportunità, di benessere organizzativo e dal contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di violenza morale o psichica per i lavoratori.

 

04. Le modalità di funzionamento dei Comitati unici di garanzia sono disciplinate da linee guida contenute in una direttiva emanata di concerto dal Dipartimento della funzione pubblica e dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.

 

05. La mancata costituzione del Comitato unico di garanzia comporta responsabilità dei dirigenti incaricati della gestione del personale, da valutare anche al fine del raggiungimento degli obiettivi.

 

1. Le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro:

 

 

Art. 5, co. 1, lett. a)

a) riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso, fermo restando il principio di cui all'articolo 35, comma 3, lettera e);

a) riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso, fermo restando il principio di cui all'articolo 35, comma 3, lettera e); in caso di quoziente frazionario si procede all’arrotondamento all’unità superiore qualora la cifra decimale sia pari o superiore a 0,5, ed all’unità inferiore qualora la cifra decimale sia inferiore a 0,5;

b) adottano propri atti regolamentari per assicurare pari opportunità fra uomini e donne sul lavoro, conformemente alle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica;

 

c) garantiscono la partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni interessate ai corsi medesimi, adottando modalità organizzative atte a favorirne la partecipazione, consentendo la conciliazione fra vita professionale e vita familiare;

 

d) possono finanziare programmi di azioni positive e l’attività dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio.

 

 

Art. 5, co. 1, lett. b)

 

1-bis. L’atto di nomina della commissione di concorso è inviato, entro tre giorni, alla consigliera o al consigliere di parità nazionale ovvero regionale, in base all’ambito territoriale dell’amministrazione che ha bandito il concorso.

2. Le pubbliche amministrazioni, secondo le modalità di cui all’articolo 9, adottano tutte le misure per attuare le direttive dell’Unione europea in materia di pari opportunità, contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale o psichica, sulla base di quanto disposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica.

 

 

 

 

 


Testo a fronte tra il D.Lgs. 17 settembre 2010, n. 156, e la pdl A.C. 4254

 

D.Lgs. 17 settembre 2010, n. 156
Disposizioni recanti attuazione dell'articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma Capitale

A.C. 4254
Lorenzin ed altri

 

 

Art. 4 -Sindaco e Giunta capitolina

 

 

 

1. Il Sindaco è il responsabile dell'amministrazione di Roma Capitale, nell'ambito del cui territorio esercita le funzioni attribuitegli dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti quale rappresentante della comunità locale e quale ufficiale del Governo.

 

2. Il Sindaco di Roma Capitale può essere udito nelle riunioni del Consiglio dei Ministri all'ordine del giorno delle quali siano iscritti argomenti inerenti alle funzioni conferite a Roma Capitale.

 

3. La Giunta capitolina è composta dal Sindaco di Roma Capitale, che la presiede, e da un numero massimo di Assessori pari ad un quarto dei Consiglieri dell'Assemblea capitolina assegnati.

 

 

Art. 1, co. 3

4. Il Sindaco di Roma Capitale nomina, entro il limite massimo di cui al comma 3, i componenti della Giunta capitolina, tra cui il Vicesindaco, e ne dà comunicazione all'Assemblea capitolina nella prima seduta successiva alla nomina. Il Sindaco può revocare uno o più Assessori, dandone motivata comunicazione all'Assemblea.

 

4. Il Sindaco di Roma Capitale nomina, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, entro il limite massimo di cui al comma 3, i componenti della Giunta capitolina, tra cui il Vicesindaco, e ne dà comunicazione all'Assemblea capitolina nella prima seduta successiva alla nomina. Il Sindaco può revocare uno o più Assessori, dandone motivata comunicazione all'Assemblea.

5. Gli Assessori sono nominati dal Sindaco, anche al di fuori dei componenti dell'Assemblea capitolina, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere dell'Assemblea. La nomina ad Assessore comporta la sospensione di diritto dall'incarico di Consigliere dell'Assemblea capitolina e la sostituzione con un supplente, individuato nel candidato della stessa lista che ha riportato, dopo gli eletti, il maggior numero di voti. La supplenza ha termine con la cessazione della sospensione e non comporta pregiudizio dei diritti di elettorato passivo del Consigliere supplente nell'ambito di Roma Capitale.

 

6. La Giunta collabora con il Sindaco nel governo di Roma Capitale. Essa compie tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati dalla legge all'Assemblea capitolina e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o degli organi di decentramento.

 

7. Lo statuto, in relazione all'esercizio delle funzioni conferite a Roma Capitale con gli appositi decreti legislativi, stabilisce i criteri per l'adozione da parte della Giunta di propri regolamenti in merito all'ordinamento generale degli uffici e dei servizi, in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione, secondo i principi di professionalità e responsabilità.

 

8. Il voto dell'Assemblea capitolina contrario ad una proposta del Sindaco o della Giunta non comporta le dimissioni degli stessi.

 

9. Il Sindaco cessa dalla carica in caso di approvazione di una mozione di sfiducia votata per appello nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti l'Assemblea. La mozione di sfiducia deve essere motivata e sottoscritta da almeno due quinti dei Consiglieri assegnati, senza computare a tal fine il Sindaco, e viene messa in discussione non prima di dieci giorni e non oltre trenta giorni dalla sua presentazione. Se la mozione viene approvata, la Giunta decade e si procede allo scioglimento dell'Assemblea capitolina, con contestuale nomina di un commissario ai sensi dell'articolo 141 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni.

 

10. Al fine di garantire il tempestivo adempimento degli obblighi di legge o di evitare che l'omessa adozione di atti fondamentali di competenza dell'Assemblea capitolina possa recare grave pregiudizio alla regolarità ed al buon andamento dell'azione amministrativa, il Sindaco può richiedere che le relative proposte di deliberazione siano sottoposte all'esame ed al voto dell'Assemblea capitolina con procedura d'urgenza, secondo le disposizioni stabilite dallo statuto e dal regolamento dell'Assemblea.

 

 

 

 


 

Giurisprudenza costituzionale

 


Corte Costituzionale.
Sentenza 6 settembre 1995, n. 422

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE; Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1994 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Maio Giovanni contro il Ministero dell'Interno ed altri, iscritta al n. 700 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 1994;

 

Visto l'atto di costituzione di Maio Giovanni;

 

Udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - L'elettore Giovanni Maio, iscritto nelle liste del comune di Baranello, avente popolazione non superiore a 15.000 abitanti, ha impugnato avanti il T.A.R Molise le operazioni per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale in quanto, tra i trentasei candidati al consiglio comunale complessivamente presentatisi nelle tre liste in competizione, era presente una sola donna, in violazione dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993 n. 81, secondo cui "Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi".

 

2. - Il Consiglio di Stato, in sede di appello avverso la sentenza del T.A.R. Molise, che aveva respinto il ricorso interpretando la citata disposizione come una proposizione legislativa priva di valore precettivo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima in riferimento agli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della Costituzione.

 

3. - Il giudice a quo premette, ai fini della rilevanza della questione, che in altre precedenti decisioni la disposizione impugnata (nel testo anteriore alla modifica apportata con legge 15 ottobre 1993, n. 415) è già stata interpretata nel senso della precettività della norma sulla rappresentanza dei sessi, salvo deroghe da motivare in sede di presentazione delle liste, che, nel caso di specie, non sono state in alcun modo addotte.

 

Il Consiglio di Stato ritiene, altresì, che la modifica della disposizione, operata dalla legge n. 415 del 1993 mediante la soppressione della locuzione "di norma", e l'attribuzione di inequivocabile valore precettivo alla proposizione, non possa non riflettersi sull'interpretazione della formula originaria, sia pure considerando che la successiva legge avrebbe trovato altrimenti il modo di eludere la necessità di rappresentanza dei sessi proclamata nella legge di pochi mesi prima: mentre infatti la legge n. 81, con la dizione "nessuno dei due sessi può essere .. rappresentato in misura superiore ai due terzi", faceva implicito riferimento al numero dei candidati in lista, e quindi imponeva la presenza di candidati d'ambo i sessi, la successiva dizione, "nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti dei consiglieri assegnati", facendo riferimento al numero di consiglieri comunali da eleggere, e facendo coincidere la presenza massima dei candidati di un sesso con il numero minimo dei candidati da porre in lista, consente la presentazione di liste con candidati di un solo sesso.

 

4. - Ritenuto dunque il valore precettivo della disposizione, anche prima della modificazione apportata dalla citata legge n. 415, il collegio remittente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge n. 81 del 1993, il quale avrebbe per la prima volta introdotto nella legislazione elettorale la nozione di "rappresentanza dei sessi".

 

La questione di legittimità viene sollevata in primo luogo con riferimento al principio di eguaglianza, sancito dall'articolo 3, primo comma, della Costituzione, e ribadito, in materia elettorale, dall'art. 51, primo comma. Il principio di eguaglianza, secondo cui "tutti ..sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso .. ", si porrebbe, infatti, come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate dall'art. 3.

 

5. - D'altra parte, prosegue il remittente, escluso che nel caso in esame il sesso costituisca una situazione obiettivamente giustificante la sua assunzione ad elemento di una fattispecie normativa, non sembra neppure che si possa dare rilievo al sesso in base alla regola cosiddetta di "eguaglianza sostanziale", di cui al secondo comma dell'art. 3, come, verosimilmente, è stato intendimento del legislatore.

 

La regola secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica del Paese, non potrebbe che riferirsi, ad avviso del remittente, agli ostacoli di ordine materiale la cui esistenza vanifica o limita, per taluni, i diritti astrattamente garantiti a tutti, ma non ai pregiudizi ed agli atteggiamenti di disfavore da cui taluni o molti possono essere affetti nei confronti di persone appartenenti a un sesso o a una data razza, religione, o madrelingua. Il principio di eguaglianza davanti alla legge, inoltre, sarebbe vanificato se, in nome di una pretesa eguaglianza sostanziale, il legislatore potesse assumere disposizioni di favore in ragione delle diverse condizioni personali elencate nel primo comma, o in ogni caso assumere quelle diverse condizioni personali come elemento di discriminazione fine a se stessa. Sotto questo profilo, osserva il remittente, non sembra esservi nessuna differenza tra l'escludere uno dei due sessi da determinati uffici o cariche, e il prevederne obbligatoriamente la presenza, ove questa non sia richiesta da esigenze oggettive.

 

6. - Analoghe considerazioni vengono espresse per quanto riguarda l'eguaglianza nell'accesso alle cariche elettive proclamata dall'art. 51, primo comma; al riguardo il Consiglio di Stato osserva che il costituente ha ritenuto opportuno (con riferimento alla situazione di allora, nella quale le donne erano escluse dalle cariche elettive e dalla maggior parte degli uffici pubblici) precisare che il diritto di accesso alle cariche e agli uffici si riferiva ai cittadini "dell'uno o dell'altro sesso"; ma, acquisito ciò, non può ritenersi che l'eguaglianza tra i sessi nelle cariche elettive significhi qualcosa di diverso dalla indifferenza del sesso ai fini considerati nella disposizione costituzionale, e in particolare che detta eguaglianza sia qualcosa che debba essere "attuato" mediante la positiva previsione del sesso come condizione di accesso alle cariche elettive.

 

7. - L'art. 51, primo comma, verrebbe in considerazione anche sotto altro profilo.

 

Il giudice a quo osserva che il diritto di accesso alle cariche elettive comporta il divieto di stabilire titoli o condizioni positive per l'accesso alle cariche stesse, diversi dai requisiti previsti in via generale per il godimento dei diritti politici e dall'assenza di cause di ineleggibilità; ma una volta stabilite le cause di ineleggibilità, il legislatore non potrebbe poi contemplare, fra le condizioni per la assunzione di cariche elettive e per la partecipazione alle relative competizioni, l'appartenenza all'uno o all'altro dei due sessi, ad una razza, religione, gruppo linguistico, ovvero il possesso di determinate altre caratteristiche o condizioni personali.

 

La disposizione elettorale in esame introdurrebbe, quindi, un concetto di "rappresentanza dei sessi" che, se legittimo, dovrebbe essere applicato non tanto alla composizione delle liste di candidati nei sistemi plurinominali quanto piuttosto alla composizione degli organi elettivi: di ciò, osserva il Collegio remittente, ci si è resi ben conto, dal momento che nei lavori preparatori è stato enunciato che la rappresentanza dei sessi nelle liste ha una portata limitata rispetto alla espressione di preferenze separate per candidati dei due sessi o, comunque, alla presenza dei due sessi tra gli eletti.

 

8. - Ciò posto, prosegue il giudice a quo, un'eventuale rappresentanza collettiva di un gruppo linguistico, razziale o religioso, negli organi elettivi, deve necessariamente trovare fondamento nel patto costituzionale, costituendo essa una deroga al principio di eguaglianza dei cittadini; il che, sottolinea il Consiglio di Stato, non è riscontrabile nell'attuale ordinamento, anche ammesso che una regola siffatta sia mai concepibile.

 

9. - Infine, il remittente ravvisa il contrasto della disposizione impugnata con la regola di libertà politica sancita dall'art. 49 della Costituzione: norma che consentirebbe soltanto ai cittadini di essere arbitri di determinare gli interessi da rappresentare in sede politica, e quindi anche di costituire gruppi e movimenti che si prefiggano di esaltare gli interessi di coloro che si trovino in determinate condizioni personali, tra cui sesso, razza, o religione.

 

Posto, quindi, che le liste elettorali presentate dagli elettori sono null'altro che i partiti politici nel momento elettorale, ad avviso del remittente, il legislatore non potrebbe limitare le scelte dei presentatori delle liste elettorali, e imporre che le liste stesse contengano, in tutto o in parte, candidati di un determinato sesso, o aventi qualsiasi altra caratteristica, fisica, intellettuale o morale, diversa dal possesso dei requisiti, positivi o negativi, di eleggibilità.

 

10. - Ha presentato atto di costituzione Maio Giovanni, appellante nel giudizio a quo, concludendo per l'infondatezza della sollevata questione.

 

La parte privata ritiene, in sostanza, che la norma di cui si sospetta l'illegittimità costituzionale non impone incondizionatamente l'obbligo di proporzione tra i sessi nelle liste ma solo di motivare adeguatamente i casi in cui tale proporzione non può essere raggiunta.

 

A questo conseguirebbe l'assenza di qualsiasi lesione ai principi costituzionali espressi dagli artt. 3, 49 e 51.

 

Le stesse argomentazioni evidenziate dall'amministrazione resistente, con particolare riferimento alle difficoltà incontrate dai presentatori delle liste nell'ottenere l'accettazione di candidature da parte di elettrici, mentre evidenzia l'assenza di qualsiasi danno per i presentatori (potendo essi stessi motivare tali ragioni, ottenendo la deroga), comproverebbero la sussistenza di legittime ragioni, sotto il profilo costituzionale, perseguite dal legislatore.

 

Né potrebbe disconoscersi sia il ruolo che l'effetto dispiegato dalla norma, e cioè quello di rimuovere, ove correttamente interpretata ed applicata, gli ostacoli che, per tradizione o costume o per altri motivi di natura socioeconomica impediscono di fatto, in particolare al sesso femminile, di prendere parte alla vita politica locale, relegandone le potenzialità e le capacità di impegno in un contesto marginale, e riconoscendo di fatto, al sesso maschile, un vero e proprio monopolio all'interno della vita politica di tanti comuni e piccole realtà locali.

 

11. - In assenza della citata norma, osserva la parte privata, verrebbe vanificata l'attuazione del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, il quale diverrebbe un'inutile ripetizione del primo comma, ovvero del principio valido, ma tuttavia superato dal sistema giuridico-costituzionale, dell'"eguaglianza formale", ovvero di una eguaglianza di per sé inidonea a garantire ai cittadini "pari opportunità" ed "uguali diritti", quanto meno nelle disposizioni "di partenza", e conseguentemente anche in sede di elettorato attivo (opportunità di scelta) e passivo (diritto di accesso alle cariche: art. 51 della Costituzione).

 

12. - Né potrebbe invocarsi un principio di libertà politica (art. 49 della Costituzione) nel senso di esaltare gli interessi di coloro i quali si trovino in determinate condizioni personali, ivi compreso il sesso, la razza, la religione e via dicendo, essendo tali scelte o incostituzionali o, se legittime sotto tale ultimo profilo, sempre ammissibili, previa congrua motivazione in sede di presentazione della lista e di ammissione della stessa, essendo riconosciuta, grazie alla locuzione "di norma", ove argomentata, qualsiasi legittima volontà, se costituzionalmente tutelata.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 dal titolo "Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale". La disposizione, che si riferisce all'elezione dei consiglieri comunali nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, recita: "Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi". Ad avviso del giudice remittente detta norma contrasterebbe con gli artt. 3, primo comma, 49 e 51, primo comma, della Costituzione.

 

Questa Corte, pertanto, è chiamata a decidere se la norma che stabilisce una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati, sia compatibile col principio di eguaglianza enunciato nel primo comma dell'art. 3 e confermato, per quanto riguarda specificamente l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, dal primo comma dell'art. 51; nonché col diritto di tutti i cittadini, garantito dall'art. 49, "di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; diritto di cui la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni costituisce essenziale estrinsecazione.

 

2. - Il Consiglio di Stato si è dato carico, in primo luogo, dell'interpretazione della norma; questione del resto posta come unico motivo d'appello contro la sentenza del T.A.R. della Basilicata sul quale il giudice a quo deve pronunciarsi.

 

Il legislatore, nello stabilire la quota di riserva per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati al consiglio comunale, ha usato la locuzione "di norma", espressione che, secondo il giudice di primo grado, indicava il carattere solo programmatico e d'indirizzo della disposizione. Il giudice d'appello, invece, uniformandosi a proprie precedenti decisioni, ritiene che essa abbia carattere precettivo, e che tale lettura venga confermata dalla successiva modifica legislativa intervenuta con la legge 15 ottobre 1993, n. 72. Non vi sono motivi per discostarsi da questa interpretazione, del resto già enunciata dall'Adunanza generale del Consiglio di Stato.

 

3. - Si può quindi passare all'esame del merito della questione, valutando in primo luogo, congiuntamente, per la loro intima connessione, i profili di violazione dell'art. 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

 

La questione è fondata.

 

Sostiene il giudice remittente che il principio di eguaglianza secondo cui "tutti sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3, primo comma) si pone "prima di tutto come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate".

 

Tale regola, è a sua volta ribadita, in materia di elettorato passivo, dall'art. 51, primo comma: "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge"; eguaglianza che, secondo il giudice remittente, non può avere significato diverso da quello dell'indifferenza del sesso ai fini considerati.

 

Detta lettura del dettato costituzionale non può non essere condivisa. Essa corrisponde infatti al significato letterale ed esplicito della formula adottata, ed al suo collegamento con il primo comma dell'art. 3. Anzi, proprio con riferimento alla formulazione di questa norma, potrebbe apparire superflua la specificazione "dell'uno e dell'altro sesso", essendo di per sé sufficiente l'espressione "tutti i cittadini"; ma è invece comprensibile che i costituenti - così come già nell'art. 48 avevano ribadito "sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, .." - abbiano voluto rafforzare, in riferimento agli uffici pubblici e alle cariche elettive, il precetto esplicito dell'eguaglianza fra i due sessi. Va tenuto conto del contesto storico in cui essi operavano: le leggi vigenti escludevano le donne da buona parte degli uffici pubblici, e l'elettorato attivo e passivo, concesso loro nel 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945, n. 23), era stato per la prima volta esercitato in sede politica con la elezione della stessa Assemblea costituente. Anche dai lavori preparatori e dal raffronto del testo della Carta costituzionale con quello proposto dalla commissione dei settantacinque, si ricava che si volle sottolineare l'eguaglianza fra i due sessi, nel significato prima ricordato, senza possibilità di dubbi: fu aggiunta la menzione delle cariche elettive, e fu soppresso l'inciso "conformemente alle loro attitudini" nel timore che potesse giustificare il mantenimento di esclusioni discriminatrici nei confronti delle donne.

 

4. - Posto dunque che l'art. 3, primo comma, e soprattutto l'art. 51, primo comma, garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la "candidabilità". Infatti, la possibilità di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.

 

5. - Tanto basta per dichiarare la illegittimità costituzionale della norma sottoposta al giudizio di questa Corte, nondimeno alcune ulteriori considerazioni possono chiarire ancor meglio altri aspetti della questione.

 

Risulta dai lavori preparatori, che la disposizione che impone una riserva di quota in ragione del sesso dei candidati, seppure formulata in modo per così dire "neutro", nei confronti sia degli uomini che delle donne, è stata proposta e votata (dopo ampio e contrastato dibattito) con la dichiarata finalità di assicurare alle donne una riserva di posti nelle liste dei candidati, al fine di favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali. Nell'intendimento del legislatore, pertanto, la norma tendeva a configurare una sorta di azione positiva volta a favorire il raggiungimento di una parità non soltanto formale, bensì anche sostanziale, fra i due sessi nell'accesso alle cariche pubbliche elettive; in tal senso essa avrebbe dovuto trarre la sua legittimazione dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

 

6. - Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito dottrinale, storico e politico che si è sviluppato intorno ai concetti di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, e conseguentemente al nesso che intercorre fra il primo ed il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

 

Certamente fra le cosiddette azioni positive intese a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", vanno comprese quelle misure che, in vario modo, il legislatore ha adottato per promuovere il raggiungimento di una situazione di pari opportunità fra i sessi: ultime tra queste quelle previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) e dalla legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l'imprenditoria femminile). Ma se tali misure legislative, volutamente diseguali, possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali), non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali.

 

In particolare, in tema di diritto all'elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.

 

È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di "azioni positive", che misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di "rimuovere" gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

 

7. - Questa Corte nel corso degli anni dal suo insediamento ad oggi, ogni qual volta sono state sottoposte al suo esame questioni suscettibili di pregiudicare il principio di parità fra uomo e donna, ha operato al fine di eliminare ogni forma di discriminazione, giudicando favorevolmente ogni misura intesa a favorire la parità effettiva. Ma, val la pena ripetere, si è sempre trattato di misure non direttamente incidenti sui diritti fondamentali, ma piuttosto volte a promuovere l'eguaglianza dei punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini, secondo i dettami della Carta costituzionale.

 

C'è ancora da ricordare che misure quali quella in esame si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica.

 

È opportuno, infine, osservare che misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un'intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l'effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può risultare il diretto impegno dell'elettorato femminile ed i suoi conseguenti comportamenti.

 

Del resto, mentre la convenzione sui diritti politici delle donne, adottata a New York il 31 marzo 1953, e la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione, adottata anch'essa a New York il 18 dicembre 1979, prevedono per le donne il diritto di votare e di essere elette in condizioni di parità con gli uomini, il Parlamento europeo, con la risoluzione n. 169 del 1988, ha invitato i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili; è significativo che l'appello sia stato indirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l'impraticabilità della via di soluzioni legislative.

 

Spetta invece al legislatore individuare interventi di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure, come si è detto, possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.

 

Resta comunque escluso che sui principi di eguaglianza contenuti nell'art. 51, primo comma, possano incidere direttamente, modificandone i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i fini previsti dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

 

8. - Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma impugnata, per violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione, restando assorbito l'ulteriore profilo d'illegittimità costituzionale sollevato in ordine all'art. 49.

 

In applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa all'art. 7, primo comma, ultimo periodo della stessa legge 25 marzo 1993, n. 81, che contiene l'identica prescrizione per le liste dei candidati nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti. Trattandosi di disposizioni sostitutive contenenti misure analoghe in contrasto coi principi affermati nella odierna decisione devono parimenti essere dichiarate costituzionalmente illegittime le nuove formulazioni degli stessi art. 5, secondo comma, ultimo periodo, e art. 7, primo comma, ultimo periodo, introdotte dall'art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415.

 

Ritiene inoltre la Corte che debba esser fatta ulteriore applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 nei confronti delle misure che prevedono limiti, vincoli o riserve nelle liste dei candidati in ragione del loro sesso; misure, introdotte nelle leggi elettorali politiche, regionali o amministrative ivi comprese quelle contenute in leggi regionali, la cui illegittimità costituzionale deve ritenersi conseguenziale per la sostanziale identità dei contenuti normativi, non potendo certamente essere lasciati spazi di incostituzionalità (da cui discenderebbero incertezze e contenzioso diffuso) in materia quale quella elettorale, dove la certezza del diritto è di importanza fondamentale per il funzionamento dello Stato democratico.

 

Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche delle norme seguenti:

 

art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277;

 

art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle Regioni a statuto ordinario);

 

artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma e 43, quarto comma, ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo, (corrispondenti alle rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);

 

art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);

 

art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, secondo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale);

 

Dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni:

 

art. 7, primo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81;

 

art. 2 della legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81);

 

art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

 

art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario);

 

artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma, e 43, quarto comma, ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo (corrispondenti alle rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);

 

art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49);

 

art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 settembre 1995.

 

 


Corte Costituzionale.
Sentenza 10 febbraio 2003, n. 49

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente: Riccardo CHIEPPA; Giudici: Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 7 della deliberazione legislativa statutaria della Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, approvata il 25 luglio 2002, recante “Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)” promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 2 settembre 2002, depositato in cancelleria il 12 successivo ed iscritto al n. 53 del registro ricorsi 2002.

 

Visto l'atto di costituzione della Regione Valle d'Aosta e gli atti di intervento della Consulta Regionale Femminile delle Regioni Valle d'Aosta e Campania;

 

udito nell'udienza pubblica del 28 gennaio 2003 il Giudice relatore Valerio Onida;

 

uditi l'avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'avvocato Gustavo Romanelli per la Regione Valle d'Aosta, e l'avvocato Marinella De Nigris per la Consulta Regionale Femminile delle Regioni Valle d'Aosta e Campania.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ricorso notificato il 2 settembre 2002 e depositato il successivo 12 settembre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, e (occorrendo, ove la norma non sia ritenuta di carattere meramente propositivo e non cogente) dell'art. 2, comma 2 (rectius: art. 2, comma 1, nella parte in cui introduce l'art. 3-bis, comma 2, nella legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3), della legge della Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, adottata ai sensi dell'art. 15, secondo comma, dello statuto speciale, pubblicata nel Bollettino Ufficiale 2 agosto 2002, recante “Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993 n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)”.

 

L'Avvocatura dello Stato espone che il testo di legge approvato dal Consiglio regionale nella seduta del 25 luglio 2002, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, contiene, nel capo I, varie disposizioni di modificazione della normativa per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta dettata dalla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3. In particolare, l'art. 2 inserisce, dopo l'art. 3 della suddetta legge, un art. 3-bis, sotto la rubrica “condizioni di parità fra i sessi”, a termini del quale ogni lista di candidati all'elezione del Consiglio regionale deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi.

 

L'art. 7, contenente modificazioni dell'art. 9 della medesima legge, al comma 1 prevede che vengano dichiarate non valide dall'ufficio elettorale regionale le liste presentate che non corrispondano alle condizioni stabilite, fra cui quella “che nelle stesse siano presenti candidati di entrambi i sessi”.

 

L'Avvocatura ricorda ancora che l'art. 15, secondo comma, dello statuto regionale stabilisce, fra l'altro - con enunciazione ritenuta, dalla stessa difesa erariale, di natura programmatica -, che la legge regionale che determina la forma di governo della Regione e le modalità di elezione del Consiglio della Valle, “al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi ... promuove condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali”.

 

Il disposto dell'art. 7, comma 1, della legge impugnata, nella parte in cui prevede detta invalidità, e l'art. 2, comma 1, nella parte in cui, introducendo l'art. 3-bis, comma 2, nel testo della legge regionale n. 3 del 1993, dispone che ogni lista deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi (“ove questa norma non fosse ritenuta meramente propositiva e priva di valore cogente”), sarebbero in contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, limitando di fatto il diritto di elettorato passivo.

 

Si riproporrebbe, secondo l'Avvocatura, la stessa situazione di cui all'art. 5, comma 2, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81, sulla elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale, che prevedeva che “nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore a due terzi”: di tale disposizione la Corte costituzionale, con la sentenza n. 422 del 1995, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, unitamente, per conseguenza, ad altre norme statali e regionali similari, fra le quali anche l'art. 32, commi 3 e 4, della legge regionale della Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4, relativa alla elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale.

 

La difesa statale conclude quindi il suo ricorso riproducendo testualmente le considerazioni già svolte dalla Corte in quella sentenza, ritenendole perfettamente pertinenti al caso di specie, in quanto nessuna differenza sostanziale potrebbe farsi fra la previsione di una quota di riserva (pari ad una percentuale delle presenze) e la previsione di una presenza minima quale che sia, anche di un solo candidato, di uno dei due sessi.

 

2. Si è costituita in giudizio la Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, chiedendo il rigetto del ricorso governativo.

 

Secondo la difesa regionale, con le più recenti norme costituzionali si è passati dal semplice riconoscimento alle donne dei diritti elettorali attivi e passivi all'affermazione del diritto delle donne ad avere comunque la possibilità di vedere rappresentato il proprio sesso nelle competizioni elettorali. Infatti, ai sensi del vigente testo dell'art. 117 della Costituzione, così come riformato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, le leggi regionali non si devono limitare a riconoscere una eguale possibilità ai due sessi di accedere alle cariche elettive, ma debbono promuovere la parità di accesso, introducendo in conseguenza meccanismi che valgano a controbilanciare lo svantaggio che tuttora caratterizza la posizione delle donne nell'accesso a tali cariche.

 

La difesa regionale ricorda che è in stadio avanzato l'iter di approvazione di un disegno di legge di modifica dell'art. 51 della Costituzione, il quale prevede che venga aggiunto al medesimo, con previsione di portata generale, il seguente periodo: “a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

 

La legge regionale impugnata, inoltre - prosegue la difesa regionale - è stata adottata ai sensi dell'art. 15 dello statuto speciale, il cui secondo comma, introdotto dall'art. 2 della legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, espressamente prevede fra l'altro che, “al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi”, la legge regionale, approvata con la maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati, che determina la forma di governo della Regione, “promuove condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali”. Sarebbe dunque la stessa norma di rango costituzionale a prevedere che il legislatore regionale debba adottare una disciplina volta a garantire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi nella competizione elettorale, e si tratterebbe, peraltro, di norma del tutto coerente con la previsione del nuovo testo dell'art. 117 della Costituzione.

 

Le disposizioni impugnate, dunque, non sarebbero in contrasto con i principi costituzionali, ma al contrario darebbero attuazione alle precise indicazioni di norme costituzionali di recente intervenute.

 

3. Hanno depositato due memorie di intervento di identico contenuto la Consulta regionale femminile della Valle d'Aosta e la Consulta regionale femminile della Campania, chiedendo il rigetto del ricorso governativo.

 

4. In prossimità dell'udienza, la Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste ha depositato una memoria illustrativa.

 

Con gli artt. 2 e 7 della legge regionale statutaria oggetto del ricorso la Regione si sarebbe in realtà limitata a dettare le disposizioni necessarie a garantire l'equilibrio della rappresentanza tra i sessi e le condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali, in conformità di quanto espressamente previsto dall'art. 15 dello Statuto di autonomia speciale della Valle e dal nuovo art. 117 della Costituzione.

 

Si tratterebbe di previsioni conformi ai vincoli che derivano da una serie di strumenti di diritto internazionale, cui l'Italia ha aderito, e che ribadiscono l'esigenza di una tutela anche attiva della posizione della donna, in particolare per quanto concerne la rappresentanza elettorale (in questo senso, nella memoria si menziona la convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979, e ratificata dall'Italia il 10 giugno 1985, ai sensi della legge n. 132 del 14 marzo 1985); e di previsioni coerenti alle nuove prospettive emergenti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, il cui art. 23, secondo comma, proclama che “il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”.

 

Da ciò si ricaverebbe che il quadro di riferimento costituzionale, rispetto al quale vanno collocate le norme regionali oggi all'esame della Corte, non coincide con quello vigente al momento della sentenza di illegittimità costituzionale n. 422 del 1995, invocata nel ricorso del Governo.

 

Una vicenda simile di successione nel tempo di parametri costituzionali nella medesima materia, si osserva nella memoria, ha indotto in Francia il Conseil constitutionnel a decidere in maniera opposta questioni di legittimità apparentemente analoghe, a seguito dell'introduzione, nell'art. 3 della vigente Carta costituzionale francese, del principio secondo il quale “La loi favorise l'égal accès des femmes et des hommes aux mandats électoraux et fonctions électives” (ultimo comma, risultante dalla legge costituzionale dell'8 luglio 1999). Sulla base di questa norma, il Conseil constitutionnel ha radicalmente mutato indirizzo rispetto alle sue precedenti decisioni, che escludevano la legittimità dell'imposizione di quote legate al sesso nelle liste elettorali, affermando, ora, la legittimità di disposizioni legislative di tutela della presenza nelle liste di candidature femminili.

 

È noto, del resto, che, allo stato, il numero degli eletti di sesso femminile nelle consultazioni elettorali in Italia non è affatto in proporzione al numero degli elettori di sesso femminile: di qui, conclude la Regione, la necessità di eliminare, anche con misure legislative, gli ostacoli ad un effettivo esercizio del diritto di elettorato passivo delle donne in Italia, superando pregiudizi e pratiche consuetudinarie o di altro genere, che di fatto integrano indiscutibili ostacoli, mediante l'introduzione di vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il Governo, con ricorso proposto ai sensi dell'articolo 15, terzo comma, dello statuto speciale per la Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, come modificato dall'art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 2001, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 2, e 7, comma 1, della legge regionale della Valle d'Aosta recante “Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)”, approvata dal Consiglio regionale a maggioranza di due terzi dei componenti il 25 luglio 2002, e pubblicata per notizia nel Bollettino Ufficiale della Regione del 2 agosto 2002. Successivamente alla proposizione del ricorso la legge regionale impugnata - una volta decorso il termine per la richiesta di referendum - è stata promulgata e pubblicata come legge regionale 13 novembre 2002, n. 21.

 

Le disposizioni impugnate, rispettivamente, inseriscono l'art. 3-bis e sostituiscono l'art. 9, comma 1, lettera a, nella legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta).

 

Precisamente, il nuovo art. 3-bis della legge sull'elezione del Consiglio, inserito dall'art. 2 della legge impugnata, stabilisce, al comma 2, che le liste elettorali devono comprendere “candidati di entrambi i sessi”; a sua volta il nuovo art. 9, comma 1, lettera a della legge elettorale, sostituito dall'art. 7, comma 1, della legge impugnata, prevede che vengano dichiarate non valide dall'ufficio elettorale regionale le liste presentate che non corrispondano alle condizioni stabilite, fra cui quella “che nelle stesse siano presenti candidati di entrambi i sessi”.

 

Tali disposizioni sono censurate dal ricorrente per contrasto con gli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione.

 

Sostiene il Governo che le predette disposizioni - l'art. 7 in quanto espressamente condiziona la validità delle liste alla presenza di candidati di entrambi i sessi, l'art. 2 in quanto venga interpretato non come semplice indicazione programmatica, ma come disposizione vincolante in sede di controllo della validità delle liste presentate - limitano di fatto il diritto di elettorato passivo. Richiamandosi alla sentenza di questa Corte n. 422 del 1995 (che dichiarò l'illegittimità costituzionale di diverse disposizioni di legge prevedenti l'obbligo di riservare a candidati di ciascuno dei due sessi quote minime di posti nelle liste per le elezioni delle Camere e dei Consigli regionali e comunali), il Governo osserva che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, né quindi come requisito di “candidabilità”, poiché questa sarebbe presupposto della eleggibilità; e che pertanto contrasterebbe con il principio di eguaglianza nell'accesso alle cariche elettive, sancito dall'art. 3, primo comma, e dall'art. 51, primo comma, della Costituzione, una norma di legge che imponga nella presentazione delle candidature “qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati”. Ad avviso del ricorrente, anche la semplice previsione - come contenuta nella legge impugnata - della necessaria presenza in ogni lista di candidati dei due sessi non si differenzierebbe sostanzialmente, da questo punto di vista, dalla previsione di una “quota” di riserva di candidature all'uno e all'altro sesso.

 

Il ricorrente richiama bensì la norma, contenuta nell'articolo 15, secondo comma, secondo periodo, dello statuto della Valle d'Aosta (come modificato dall'art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 2001), secondo cui, “al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi”, la legge che stabilisce le modalità di elezione del Consiglio regionale “promuove condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali”: ma ritiene che si tratti di una “enunciazione programmatica”, onde la norma di legge regionale, secondo cui ogni lista di candidati all'elezione del Consiglio regionale deve prevedere la presenza di candidati di entrambi i sessi, potrebbe ritenersi legittima e conforme allo spirito della disposizione statutaria solo se intesa come “norma meramente propositiva, quasi un auspicio”; mentre sarebbe irrimediabilmente illegittima la norma che condiziona a tale presenza la validità delle liste.

 

2.- Deve essere, anzitutto, dichiarato inammissibile l'intervento spiegato in giudizio dalle Consulte femminili della Campania e della Valle d'Aosta: nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non è prevista la possibilità di intervento di soggetti diversi dal titolare delle competenze legislative in contestazione o con queste comunque connesse (cfr. sentenze n. 353 del 2001 e n. 533 del 2002).

 

3.- La questione è infondata.

 

3.1.- In primo luogo, deve osservarsi che le disposizioni contestate non pongono l'appartenenza all'uno o all'altro sesso come requisito ulteriore di eleggibilità, e nemmeno di “candidabilità” dei singoli cittadini. L'obbligo imposto dalla legge, e la conseguente sanzione di invalidità, concernono solo le liste e i soggetti che le presentano.

 

In secondo luogo, la misura prevista dalla legge impugnata non può qualificarsi come una di quelle “misure legislative, volutamente diseguali”, che “possono certamente essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le disuguaglianze materiali tra gli individui (quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali)”, ma che questa Corte ha ritenuto non possano “incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali”, tra cui, in particolare, il diritto di elettorato passivo (sentenza n. 422 del 1995).

 

Non è qui prevista, infatti, alcuna misura di “disuguaglianza” allo scopo di favorire individui appartenenti a gruppi svantaggiati, o di “compensare” tali svantaggi attraverso vantaggi legislativamente attribuiti.

 

Non vi è, insomma, nessuna incidenza diretta sul contenuto dei diritti fondamentali dei cittadini, dell'uno o dell'altro sesso, tutti egualmente eleggibili sulla base dei soli ed eguali requisiti prescritti.

 

Nemmeno potrebbe parlarsi di una incidenza su un ipotetico diritto di aspiranti candidati ad essere inclusi in lista, posto che la formazione delle liste rimane interamente rimessa alle libere scelte dei presentatori e degli stessi candidati in sede di necessaria accettazione della candidatura (cfr. sentenza n. 203 del 1975). Non si realizza, in tale sede, alcun metodo “concorsuale” in relazione al quale un soggetto non incluso nelle liste possa vantare una posizione giuridica di priorità ingiustamente sacrificata a favore di un altro soggetto in essa incluso.

 

In altri termini, le disposizioni in esame stabiliscono un vincolo non già all'esercizio del voto o all'esplicazione dei diritti dei cittadini eleggibili, ma alla formazione delle libere scelte dei partiti e dei gruppi che formano e presentano le liste elettorali, precludendo loro (solo) la possibilità di presentare liste formate da candidati tutti dello stesso sesso.

 

Tale vincolo negativo opera soltanto nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, e non incide su di essa. La scelta degli elettori tra le liste e fra i candidati, e l'elezione di questi, non sono in alcun modo condizionate dal sesso dei candidati: tanto meno in quanto, nel caso di specie, l'elettore può esprimere voti di preferenza, e l'ordine di elezione dei candidati di una stessa lista è determinato dal numero di voti di preferenza da ciascuno ottenuti (cfr. articoli 34 e 51 della legge regionale n. 3 del 1993). A sua volta, la parità di chances fra le liste e fra i candidati della stessa lista non subisce alcuna menomazione.

 

3.2.- Non può, d'altronde, dirsi che la disciplina così imposta non rispetti la parità dei sessi, cioè introduca differenziazioni in relazione al sesso dei candidati o degli aspiranti alla candidatura: sia perché la legge fa riferimento indifferentemente a candidati “di entrambi i sessi”, sia perché da essa non discende alcun trattamento diverso di un candidato rispetto all'altro in ragione del sesso.

 

3.3.- Neppure, infine, è intaccato il carattere unitario della rappresentanza elettiva che si esprime nel Consiglio regionale, non costituendosi alcuna relazione giuridicamente rilevante fra gli elettori, dell'uno e dell'altro sesso e gli eletti dello stesso sesso.

 

4.- Il vincolo che la normativa impugnata introduce alla libertà dei partiti e dei gruppi che presentano le liste deve essere valutato oggi anche alla luce di un quadro costituzionale di riferimento che si è evoluto rispetto a quello in vigore all'epoca della pronuncia di questa Corte invocata dal ricorrente a sostegno dell'odierna questione di legittimità costituzionale.

 

La legge costituzionale n. 2 del 2001, integrando gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata, ha espressamente attribuito alle leggi elettorali delle Regioni il compito di promuovere “condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali”, e ciò proprio “al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi” (art. 15, secondo comma, secondo periodo, statuto Valle d'Aosta; e nello stesso senso, anche testualmente, art. 3, primo comma, secondo periodo, statuto speciale per la Sicilia, modificato dall'art. 1 della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 15, secondo comma, secondo periodo, statuto speciale per la Sardegna, modificato dall'art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 47, secondo comma, secondo periodo, statuto speciale per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, modificato dall'art. 4 della legge costituzionale n. 2 del 2001; art. 12, secondo comma, secondo periodo, statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia, modificato dall'art. 5 della legge costituzionale n. 2 del 2001).

 

Le nuove disposizioni costituzionali (cui si aggiunge l'analoga, anche se non identica, previsione del nuovo art. 117, settimo comma, della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001) pongono dunque esplicitamente l'obiettivo del riequilibrio e stabiliscono come doverosa l'azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni, riferendoli specificamente alla legislazione elettorale.

 

Questa Corte ha riconosciuto che la finalità di conseguire una “parità effettiva” (sentenza n. 422 del 1995) fra uomini e donne anche nell'accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale. Si tratta, invero, di una finalità - che trova larghi riconoscimenti e realizzazioni in molti ordinamenti democratici, e anche negli indirizzi espressi dagli organi dell'Unione europea - collegata alla constatazione, storicamente incontrovertibile, di uno squilibrio di fatto tuttora esistente nella presenza dei due sessi nelle assemblee rappresentative, a sfavore delle donne. Squilibrio riconducibile sia al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici, sia al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne una effettiva partecipazione all'organizzazione politica del Paese.

 

Un aspetto, se non decisivo, certo assai influente del fenomeno è costituito dai comportamenti di fatto prevalenti nell'ambito dei partiti e dei gruppi politici che operano per organizzare la partecipazione politica dei cittadini, anche e principalmente attraverso la selezione e la indicazione dei candidati per le cariche elettive. Così che, già in passato, la Corte ha espresso una valutazione positiva di misure - tendenti ad assicurare “l'effettiva presenza paritaria delle donne (…) nelle cariche rappresentative” - “liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature” (sentenza n. 422 del 1995), sul modello di iniziative diffuse in altri paesi europei.

 

Le disposizioni impugnate della legge elettorale della Valle d'Aosta operano su questo terreno, introducendo un vincolo legale rispetto alle scelte di chi forma e presenta le liste. Quello che, insomma, già si auspicava potesse avvenire attraverso scelte statutarie o regolamentari dei partiti (i quali però, finora, in genere non hanno mostrato grande propensione a tradurle spontaneamente in atto con regole di autodisciplina previste ed effettivamente seguite) è qui perseguito come effetto di un vincolo di legge. Un vincolo che si giustifica pienamente alla luce della finalità promozionale oggi espressamente prevista dalla norma statutaria.

 

4.1.- Deve peraltro osservarsi che, nella specie, il vincolo imposto, per la sua portata oggettiva, non appare nemmeno tale da incidere propriamente, in modo significativo, sulla realizzazione dell'obiettivo di un riequilibrio nella composizione per sesso della rappresentanza. Infatti esso si esaurisce nell'impedire che, nel momento in cui si esplicano le libere scelte di ciascuno dei partiti e dei gruppi in vista della formazione delle liste, si attui una discriminazione sfavorevole ad uno dei due sessi, attraverso la totale esclusione di candidati ad esso appartenenti. Le “condizioni di parità” fra i sessi, che la norma costituzionale richiede di promuovere, sono qui imposte nella misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi.

 

5.- In definitiva - ribadito che il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva - la misura disposta può senz'altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell'intento di realizzare la finalità promozionale espressamente sancita dallo statuto speciale in vista dell'obiettivo di equilibrio della rappresentanza.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, e 7, comma 1, della legge regionale della Valle d'Aosta 13 novembre 2002, n. 21, recante: “Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)”, sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, dal Governo con il ricorso in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2003.

 

 

 


Corte Costituzionale.
Sentenza 14 gennaio, 2010, n. 4

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, 3, commi 1, 3 e 4, 4, comma 3, e 6, comma 1, della legge della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4 (Legge elettorale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 12-16 giugno 2009, depositato in cancelleria il 18 giugno 2009 ed iscritto al n. 39 del registro ricorsi 2009.

 

Visto l’atto di costituzione della Regione Campania;

 

udito nell’udienza pubblica del 15 dicembre 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

 

uditi l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Vincenzo Cocozza per la Regione Campania.

 

Ritenuto in fatto

 

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con ricorso notificato il 12 giugno 2009 e depositato il successivo 18 giugno, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, 3, commi 1, 3 e 4, 4, comma 3, e 6, comma 1, della legge della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4 (Legge elettorale), per violazione degli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione e dell’art. 5 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni).

 

1.1.— Il ricorrente, dopo aver illustrato il contenuto delle disposizioni impugnate, si sofferma sulle ragioni di censura dell’art. 2, comma 2, e dell’art. 3, commi 1, 3 e 4, della legge reg. Campania n. 4 del 2009. In particolare, le norme indicate violerebbero l’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, in quanto prevedono che i candidati alla Presidenza della Giunta regionale siano collegati a liste o a coalizioni di liste provinciali, mentre l’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999 stabilisce che, «fino alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi elettorali ai sensi del primo comma dell’articolo 122 della Costituzione», sono candidati alla Presidenza della Giunta regionale i capilista delle liste regionali.

 

Al riguardo, la difesa erariale evidenzia come, alla data di entrata in vigore della legge impugnata, il nuovo statuto della Regione Campania non fosse stato ancora promulgato e quindi non fosse entrato in vigore. Di conseguenza, la Regione non avrebbe potuto emanare norme elettorali confliggenti con l’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999 (è richiamata, in proposito, la sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2003).

 

1.2.— Sono impugnati anche gli artt. 6, comma 1, e 3, comma 4, della legge reg. Campania n. 4 del 2009, nella parte in cui prevedono un premio di maggioranza per le liste collegate al candidato proclamato eletto alla carica di Presidente della Giunta regionale. Il suddetto premio di maggioranza è individuato nella misura del sessanta per cento dei seggi del Consiglio attribuiti alle singole liste.

 

A tal proposito, il ricorrente svolge argomentazioni analoghe a quelle formulate con riferimento alla precedente questione, rilevando che il premio di maggioranza stabilito dalle norme censurate non è previsto dall’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, il quale, come già detto, si applica fino all’entrata in vigore dei nuovi statuti e delle nuove leggi elettorali regionali.

 

La difesa erariale aggiunge che le norme impugnate non riguardano aspetti di dettaglio ma profili relativi alla composizione del Consiglio regionale, con conseguente incidenza sui meccanismi di formazione delle maggioranze. Il ricorrente, inoltre, richiama la legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), evidenziando come essa preveda un premio di maggioranza nella misura di trecentoquaranta seggi alla Camera dei deputati e del cinquantacinque per cento dei seggi assegnati a ciascuna Regione al Senato.

 

1.3.— Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 4, comma 3, della legge regionale in esame, il quale dispone: «L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza».

 

La difesa erariale ritiene che la norma in questione, «presumibilmente ispirata alla idea politica delle “quote rosa”», si risolva «in una evidente menomazione dell’elettorato passivo e di quello attivo».

 

In particolare, sotto il primo profilo, sarebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto la norma introdurrebbe «una limitazione disuguagliante» nell’espressione del voto per la seconda preferenza. In altre parole, i candidati appartenenti al medesimo genere o sesso sarebbero «discriminati e resi disuguali» nel momento in cui l’elettore esprime la seconda preferenza. Sarebbe violato anche l’art. 51, primo comma, Cost., in quanto la norma impugnata prevedrebbe un limite di accesso, legato al sesso, per la seconda preferenza e quindi «un’impropria ragione di ineleggibilità».

 

Sotto il profilo dell’elettorato attivo, l’art. 4, comma 3, della legge reg. Campania n. 4 del 2009 si porrebbe in contrasto con l’art. 48 Cost., in quanto la limitazione di genere per la seconda preferenza renderebbe il voto non libero.

 

2.— Nel giudizio si è costituita la Regione Campania eccependo l’inammissibilità, l’improcedibilità e l’infondatezza del ricorso.

 

2.1.— Quanto ai primi due motivi di ricorso, la resistente osserva come essi si fondino su presupposti ricostruttivi analoghi, posto che la Regione, secondo la difesa erariale, non avrebbe potuto approvare norme elettorali in contrasto con le disposizioni statali vigenti, fino all’entrata in vigore del nuovo statuto. Solo per tale ragione, la legge reg. n. 4 del 2009, nella parte in cui presenta un contenuto confliggente con quanto stabilito dall’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, sarebbe illegittima.

 

2.1.1.— La difesa regionale ricostruisce il procedimento di approvazione della legge elettorale (legge reg. n. 4 del 2009) e dello statuto (legge reg. 28 maggio 2009, n. 6), precisando che il 20 febbraio 2009 lo statuto della Regione Campania è stato approvato in seconda deliberazione, il successivo 26 febbraio si è provveduto alla relativa pubblicazione notiziale, ai fini di un’eventuale richiesta di referendum (che non vi è stata), il 28 maggio 2009 lo statuto medesimo è stato promulgato, il 3 giugno 2009 è stato pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione ed il 18 giugno è entrato in vigore.

 

Nel frattempo, la legge elettorale è stata pubblicata in data 14 aprile 2009 ed è entrata in vigore il giorno successivo; dunque, il relativo iter di formazione si è concluso dopo che il testo statutario era stato approvato dal Consiglio regionale in seconda deliberazione, ma prima che esso fosse promulgato ed entrasse in vigore.

 

Al riguardo, la resistente evidenzia come l’Avvocatura generale dello Stato contesti soltanto una «illegittimità formale, per così dire temporale», nell’adozione di una disciplina, «in quanto indirettamente condizionata dalla scelta di sistema affidata allo statuto che (allora) non risultava ancora entrato in vigore».

 

La difesa regionale si sofferma, quindi, sulla ratio dell’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, il quale sarebbe volto ad evitare che, in assenza dello statuto e della conseguente individuazione della forma di governo regionale, gli elettori possano essere chiamati a rinnovare il Consiglio con una disciplina elettorale non del tutto coerente con il sistema ancora in vigore.

 

L’ipotesi anzidetta sarebbe però ormai irrealizzabile nel caso di specie, in quanto il nuovo statuto, successivamente alla delibera del Consiglio dei ministri di impugnazione della legge reg. n. 4 del 2009 (datata 21 maggio 2009), è stato promulgato e pubblicato, entrando in vigore lo stesso giorno (18 giugno 2009) in cui è stato depositato presso la Corte costituzionale il presente ricorso.

 

La Regione Campania aggiunge che, pertanto, l’applicazione della legge elettorale impugnata avverrà nella vigenza del nuovo statuto e nel rispetto delle finalità che il legislatore costituzionale ha inteso fissare.

 

Per le ragioni anzidette, la resistente ritiene che il ricorso sia, per questa parte, improcedibile «per cessazione della materia del contendere e/o per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto la situazione, nell’attualità, impedisce il verificarsi dell’“evento temuto”».

 

2.1.2.— Ancora con riguardo alle censure mosse in relazione all’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, la difesa regionale evidenzia come sarebbe stato irragionevole attendere l’entrata in vigore dello statuto prima di affrontare l’iter costitutivo della nuova legge elettorale, potendosi prospettare l’eventualità di un rinnovo del Consiglio regionale e dell’elezione del Presidente della Giunta con il precedente sistema elettorale ma nella vigenza di una nuova (ed eventualmente diversa da quella attuale) forma di governo.

 

Al riguardo, la Regione Campania ritiene di aver seguito il percorso corretto, delineato dalla norma costituzionale transitoria. In particolare, osserva la difesa regionale, l’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999 non vieta, in assenza del nuovo statuto, l’approvazione di una nuova legge elettorale, ma prevede che «fino alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi elettorali» l’elezione del Presidente e del Consiglio avvenga secondo le modalità previste dalla normativa statale vigente e dalla disciplina transitoria prevista dal citato art. 5.

 

In definitiva, secondo la resistente, «la mancata approvazione dello statuto unitamente alle leggi elettorali costituisce condizione per l’applicazione della norma transitoria in un determinato ambito territoriale». Di conseguenza, il rapporto fra le due fonti (legge elettorale regionale e disposizione transitoria) non sarebbe configurabile in termini di «validità/invalidità», ma di «applicazione/disapplicazione», potendo la nuova legge elettorale regionale trovare applicazione solo dopo l’entrata in vigore dello statuto.

 

Sulla base delle anzidette considerazioni, la difesa regionale conclude per l’inammissibilità del ricorso.

 

2.1.3.— Nel merito, la resistente deduce l’infondatezza delle questioni concernenti la previsione di un collegamento del candidato Presidente della Giunta regionale a liste o a coalizioni di liste provinciali, e di un premio di maggioranza pari al sessanta per cento dei seggi. Con riferimento a quest’ultimo profilo, la Regione Campania rileva come l’Avvocatura generale faccia «inspiegabilmente riferimento» alla legge n. 270 del 2005, concernente le norme elettorali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

 

Sulla questione degli spazi consentiti al legislatore regionale, nell’ipotesi in cui non siano ancora entrati in vigore i nuovi statuti, la difesa della Regione richiama la sentenza n. 196 del 2003, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili gli interventi regionali riguardanti «aspetti procedurali non incidenti sui principi fondamentali ricavabili in materia dalla legislazione statale, né sui vincoli che discendono dal rispetto della normativa transitoria dettata, in pendenza dell’approvazione dello statuto, dall’art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999». Secondo la resistente, la previsione contenuta nell’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, secondo cui «sono candidati alla Presidenza della Giunta regionale i capilista delle liste regionali», riguarderebbe un «profilo procedurale» e sarebbe conseguenza di una «modalità organizzativa del corpo elettorale e dei seggi scelta dalla legislazione statale, ma che non attiene ai principi fondamentali e non modifica il sistema».

 

A conclusioni analoghe la Regione Campania giunge con riferimento alle norme che prevedono un premio di maggioranza. Dopo aver ribadito l’inconferenza del richiamo alla legge n. 270 del 2005, la resistente sottolinea come la legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione) si limiti ad enunciare, tra i principi fondamentali in materia, quello della «individuazione di un sistema elettorale che agevoli la formazione di stabili maggioranze nel Consiglio regionale e assicuri la rappresentanza delle minoranze» (art. 4, comma 1, lettera a).

 

2.2.— Infine, quanto alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, la resistente evidenzia come la norma impugnata riguardi esclusivamente l’esercizio della facoltà di espressione della seconda preferenza e sia finalizzata a «garantire, anche di fatto, oltre che astrattamente, il paritario accesso alle cariche elettive, attraverso provvedimenti positivi». Al riguardo, sono richiamati la sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2003 ed alcuni interventi di innovazione del quadro normativo: la legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano), che ha modificato gli statuti speciali attribuendo alle leggi elettorali delle Regioni ad autonomia differenziata il compito di promuovere condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi; l’art. 117, settimo comma, Cost., introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che reca un’analoga previsione; infine, la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1 (Modifica dell’articolo 51 della Costituzione).

 

In definitiva, secondo la resistente, la disciplina regionale impugnata si inserirebbe con coerenza in un contesto normativo complessivamente volto a promuovere la effettiva parità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive.

 

3.— In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Campania ha depositato una memoria con la quale insiste nelle conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.

 

3.1.— In particolare, con riferimento alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, 3, commi 1, 3 e 4, e 6, comma 1, della legge reg. n. 4 del 2009, la resistente ribadisce l’inammissibilità delle questioni prospettate e sottolinea come, nelle more del presente giudizio, la legge elettorale, pubblicata dopo l’approvazione dello statuto in seconda deliberazione, non abbia trovato applicazione. Paradossalmente, invece, l’eventuale accoglimento del presente ricorso obbligherebbe a far svolgere le elezioni regionali, ormai prossime, sulla base di regole (quelle statali) non coerenti con il mutato quadro statutario.

 

La difesa regionale aggiunge che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale vanificherebbe in modo irragionevole l’attività legislativa posta in essere dalla Regione in materia elettorale, proprio allo scopo di dare attuazione al nuovo statuto. Si evidenzia, inoltre, come la ratio della previsione dell’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999 sia quella di realizzare una piena integrazione fra la normativa elettorale e la forma di governo delineata dal nuovo statuto; obiettivo, che, con il presente ricorso, rischia di «essere posto in discussione, ma, per così dire, a parti invertite (applicazione della normativa elettorale originaria, in vigenza del nuovo statuto)».

 

Secondo la Regione Campania, l’unico interesse del Governo, nella circostanza in esame, poteva essere quello di ottenere la garanzia circa la non applicazione della nuova legge elettorale in assenza del nuovo statuto. Pertanto, a tutto concedere, la difesa erariale avrebbe dovuto impugnare l’art. 12 della legge reg. n. 4 del 2009 nella parte in cui non rinvia gli effetti della legge in parola all’entrata in vigore del nuovo statuto. Al contrario, il citato art. 12 non è stato censurato; peraltro, siffatta evenienza è ormai del tutto superata, stante l’entrata in vigore dello statuto regionale.

 

Nel merito, la Regione Campania insiste per l’infondatezza del ricorso, riprendendo le medesime argomentazioni già sviluppate nell’atto di costituzione.

 

3.2.— In riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge impugnata, la difesa regionale ritiene che la valutazione compiuta dal ricorrente non colga il proprium della normativa in esame, la quale non limita affatto la libera determinazione e non impone scelte ma «offre possibilità ulteriori all’elettorato» (attraverso l’eventuale seconda preferenza) ed in questa eventualità persegue un obiettivo del tutto coerente con il quadro costituzionale (artt. 51 e 117 Cost.), comunitario ed internazionale in materia di parità di accesso delle donne e degli uomini alle cariche elettive.

 

3.2.1.— La resistente sottolinea inoltre il carattere «neutro» del sistema di preferenza previsto, che è finalizzato a dare attuazione ai nuovi disposti costituzionali, «svolgendo una funzione chiaramente antidiscriminatoria». Al riguardo, la difesa regionale assume che: a) il legislatore campano avrebbe potuto prevedere soltanto una preferenza, senza che ciò potesse qualificarsi come limite al diritto di voto; pertanto, la norma in esame ha consentito un’opportunità in più, assicurando la piena libertà per l’elettore di avvalersi o meno di tale possibilità; b) la condizione apposta all’esercizio della seconda preferenza non si traduce nella previsione di un requisito ulteriore di eleggibilità o di candidabilità dei singoli cittadini; infatti, il divieto di una doppia preferenza omogenea opera indistintamente sia nell’ipotesi di due preferenze di genere maschile, sia di due preferenze di genere femminile; c) la sanzione dell’annullamento riguarda esclusivamente la seconda preferenza e non l’espressione del voto tout court.

 

3.2.2.— La Regione Campania passa, quindi, all’esame delle sentenze n. 422 del 1995 e n. 49 del 2003 della Corte costituzionale, evidenziando come nella seconda pronunzia siano state valorizzate le «novità di sistema» introdotte nel lasso di tempo intercorso fra le due decisioni. In particolare, la resistente osserva che nella sentenza n. 422 del 1995 la Corte, pronunciandosi negativamente sulle c.d. quote rosa, ha posto l’accento sul principio di eguaglianza formale, sull’illegittimità dell’individuazione di ulteriori requisiti di eleggibilità o candidabilità dei cittadini e sul limite delle misure legislative «diseguali», che non possono incidere sui contenuti stessi dei diritti fondamentali riconosciuti in Costituzione.

 

Quanto alla sentenza n. 49 del 2003, la difesa regionale ritiene che il percorso argomentativo seguito dalla Corte si sia arricchito di ulteriori, significativi contenuti per effetto dei mutamenti del quadro costituzionale introdotti dalle leggi cost. n. 2 e n. 3 del 2001. La Regione Campania evidenzia come la Corte costituzionale abbia utilizzato i seguenti argomenti nel pervenire ad una pronunzia di non fondatezza: a) le norme impugnate non pongono l’appartenenza all’uno o all’altro sesso come requisito ulteriore di eleggibilità o di candidabilità dei singoli cittadini; b) non è prevista alcuna misura di «disuguaglianza» allo scopo di favorire individui appartenenti a gruppi svantaggiati o di compensare tali svantaggi attraverso vantaggi attribuiti con legge; c) non si introducono differenziazioni in relazione al sesso dei candidati o degli aspiranti alla candidatura; d) non è intaccato il carattere unitario della rappresentanza elettiva; e) non è garantito un determinato risultato elettorale.

 

Con particolare riguardo agli argomenti di cui ai punti b) e c), la resistente riprende la distinzione, operata in dottrina, tra “azioni positive” e “norme antidiscriminatorie”, rilevando come le norme impugnate siano riconducibili a quest’ultima categoria, trattandosi di «azioni positive atipiche», caratterizzate da una formulazione neutra, senza cioè l’individuazione dei soggetti al cui vantaggio sono finalizzate.

 

Sempre in relazione alla sentenza n. 49 del 2003, la Regione Campania sottolinea come la Corte abbia affermato che la finalità di conseguire una «parità effettiva» fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è «positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale» e che tale esigenza è espressamente riconosciuta pure nel contesto normativo internazionale e comunitario. Infine, la resistente riprende le conclusioni cui è giunta la Corte costituzionale nella pronunzia in esame, là dove ha definito le norme oggetto di quel giudizio come «misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi». La qualificazione di «misura minima» lascerebbe presumere, secondo la difesa regionale, «una maggiore apertura anche rispetto a meccanismi elettorali differenti», ritenuti legittimi non solo per le modifiche costituzionali, ma per un contesto di sensibilità costituzionale diverso.

 

La resistente ricorda altresì che, dopo la sentenza n. 49 del 2003, il legislatore costituzionale è nuovamente intervenuto in materia con la legge cost. n. 1 del 2003, la quale ha integrato l’art. 51 Cost., prevedendo la promozione «con appositi provvedimenti» delle pari opportunità tra donne e uomini. La difesa regionale, richiamando il dibattito parlamentare svoltosi in occasione dell’approvazione della citata legge costituzionale e le opinioni espresse dalla maggior parte della dottrina, sottolinea come la finalità di siffatta modifica sia quella di «dare copertura costituzionale proprio agli ulteriori interventi (anche azioni positive) di riequilibrio delle presenze dei due sessi in ambito politico».

 

In proposito, è citata l’ordinanza n. 39 del 2005, la quale, secondo la difesa regionale, confermerebbe che la modifica dell’art. 51 Cost. non costituisce una mera specificazione dell’art. 3, primo comma, Cost. ma legittima l’adozione di azioni positive.

3.2.3.— Da quanto appena detto – e dall’esame della normativa elettorale sia della Camera dei deputati e del Senato, sia di altre Regioni – la resistente deduce la coerenza della normativa impugnata rispetto al contesto normativo vigente; in particolare, la Regione Campania sottolinea la possibilità per l’elettore di esercitare la propria preferenza in maniera incondizionata, con la conseguenza che il sistema elettorale di preferenza censurato non incide sui diritti fondamentali dell’elettore medesimo.

 

In definitiva, la difesa regionale ritiene che la legge impugnata: a) si ponga come norma «antidiscriminatoria» e non come «azione positiva» (sebbene il mutamento del quadro costituzionale renda legittima anche quest’ultima), in quanto fa riferimento indifferentemente ad entrambi i generi e quindi da essa non discende alcun trattamento diverso di un candidato rispetto ad un altro; b) non introduca alcun ulteriore requisito di eleggibilità o di candidabilità, in quanto entrambi i generi sono egualmente eleggibili sulla base dei requisiti prescritti; c) non incida sul carattere unitario della rappresentanza elettiva, non essendovi alcun collegamento con le «categorie» rappresentate; d) escluda qualsiasi garanzia di risultato.

 

3.2.4.— Infine, la Regione Campania rileva come la normativa impugnata si inserisca in un più ampio contesto normativo (comunitario ed internazionale), segnato dalla previsione di strumenti sempre più incisivi (fino a giungere a vere e proprie azioni positive) per assicurare un’effettiva parità fra donne e uomini.

 

Sono richiamati, in proposito: a) l’art. 3 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, cui è stata data esecuzione con la legge 14 marzo 1985, n. 132; b) l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), secondo cui il principio della parità tra donne e uomini non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato; c) l’art. 2 del Trattato 7 febbraio 1992 (Trattato sull’Unione europea); d) la decisione 19 giugno 2000, n. 2000/407/CE (Decisione della Commissione riguardante l’equilibrio tra i sessi nei comitati e nei gruppi di esperti da essa istituiti), in cui si afferma che «La parità tra uomini e donne è essenziale per la dignità umana e per la democrazia e costituisce un principio fondamentale della legge comunitaria, delle costituzioni e delle leggi degli Stati membri e delle convenzioni internazionali ed europee»; e) la raccomandazione 2 dicembre 1996, n. 96/694/CE (Raccomandazione del Consiglio riguardante la partecipazione delle donne e degli uomini al processo decisionale), che invita gli Stati membri a «sviluppare o istituire misure adeguate, quali eventualmente misure legislative e/o regolamentari e/o di promozione», per realizzare l’obiettivo della «partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini al processo decisionale»; f) la raccomandazione Rec(2003)3 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla partecipazione equilibrata delle donne e degli uomini ai processi decisionali politici e pubblici, adottata il 12 marzo 2003, la quale, fra l’altro, invita gli Stati membri ad adottare «riforme legislative intese a stabilire soglie di parità per le candidature alle elezioni locali, regionali, nazionali e sopranazionali», e precisa, al paragrafo 3, che «l’obiettivo non dovrebbe essere solamente che almeno il 40% dei seggi siano riservati a ciascuno dei rappresentanti dei due sessi, ma piuttosto che almeno il 40% delle donne ed il 40% degli uomini vengano eletti».

 

3.2.5.— Per le ragioni suesposte la Regione Campania ritiene che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, sia infondata rispetto a tutti i parametri invocati. In primo luogo, la norma impugnata non si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la sua formulazione «neutra» risulta coerente con il principio di eguaglianza formale.

 

Non sarebbe violato l’art. 48 Cost., in quanto il voto dell’elettore è del tutto libero, anzi questi può scegliere se esprimere una sola preferenza o aggiungerne una seconda, che si pone come misura antidiscriminatoria e quindi non idonea a garantire un determinato risultato elettorale, ma funzionale al riequilibrio tra i generi.

 

Infine, non sarebbe rinvenibile alcuna violazione dell’art. 51 Cost., specie nell’attuale formulazione risultante dall’integrazione operata dalla legge cost. n. 1 del 2003, in quanto la norma censurata contribuisce, in maniera equilibrata, ad attuare l’obiettivo di democrazia paritaria, previsto nello stesso art. 51.

 

Considerato in diritto

 

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con ricorso notificato il 12 giugno 2009 e depositato il successivo 18 giugno, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, 3, commi 1, 3 e 4, 4, comma 3, e 6, comma 1, della legge della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4 (Legge elettorale), per violazione degli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione e dell’art. 5 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni).

 

2.— Con riferimento alle questioni aventi ad oggetto gli artt. 2, comma 2, e 3, commi 1, 3 e 4, e gli artt. 6, comma 1, e 3, comma 4, della legge reg. Campania n. 4 del 2009, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

 

2.1.— Le censure mosse dal ricorrente alle suddette norme si basano essenzialmente sulla asserita violazione dell’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, là dove stabilisce che fino all’entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi elettorali, ai sensi del primo comma dell’art. 122 Cost., nel testo modificato dalla medesima legge cost. n. 1 del 1999, l’elezione del Presidente della Giunta regionale è contestuale al rinnovo dei rispettivi Consigli regionali e si effettua con le modalità previste dalle disposizioni di legge ordinaria vigenti in materia di elezione dei Consigli regionali.

 

La ratio della citata norma costituzionale transitoria è evidente: il legislatore costituzionale ha voluto evitare che il rapporto tra forma di governo regionale – la quale, ai sensi dell’art. 123, primo comma, Cost., deve essere determinata dagli statuti delle singole Regioni – e legge elettorale regionale possa presentare aspetti di incoerenza dovuti all’inversione, temporale e logica, tra la prima e la seconda. È noto infatti che la legge elettorale deve armonizzarsi con la forma di governo, allo scopo di fornire a quest’ultima strumenti adeguati di equilibrato funzionamento sin dal momento della costituzione degli organi della Regione, mediante la preposizione dei titolari alle singole cariche. L’entrata in vigore e l’applicazione della legge elettorale prima dello statuto potrebbero introdurre elementi originari di disfunzionalità, sino all’estremo limite del condizionamento del secondo da parte della prima, in violazione o elusione del carattere fondamentale della fonte statutaria, comprovato dal procedimento aggravato previsto dall’art. 123, secondo e terzo comma, della Costituzione.

 

2.2.— Nel caso di specie, tale rischio di incoerenza è scongiurato sia per motivi attinenti alla scansione temporale dei rispettivi iter procedimentali del nuovo statuto della Regione Campania (legge reg. 28 maggio 2009, n. 6) e della legge elettorale, sia per motivi sostanziali attinenti al collegamento tra gli stessi.

 

Lo statuto è stato approvato, in prima deliberazione, il 12 giugno 2008 ed in seconda deliberazione il 20 febbraio 2009. Il 26 febbraio 2009 è stata effettuata la pubblicazione notiziale dello stesso, ai fini di un’eventuale richiesta referendaria. Lo statuto è stato promulgato il 28 maggio 2009, pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione del 3 giugno 2009, ed è entrato in vigore il successivo 18 giugno.

 

La legge elettorale campana è stata approvata dalla Commissione speciale statuto il 3 febbraio 2009, dal Consiglio regionale il 12 marzo 2009 ed è stata promulgata il successivo 27 marzo. La stessa è stata pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Campania del 14 aprile 2009 ed è entrata in vigore il giorno successivo.

 

Come si vede, l’iter dei due atti normativi è stato parallelo e la conclusione di quello relativo alla legge elettorale è stata anteriore a quella riguardante lo statuto solo a causa della doppia approvazione di quest’ultimo, ad intervallo non minore di due mesi, prescritta dall’art. 123, secondo comma, Cost. L’integrazione tra forma di governo e legge elettorale, voluta dall’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, è stata quindi assicurata dalla trattazione contemporanea dei due disegni di legge e non è inficiata dalla conclusione del procedimento relativo alla legge elettorale con breve anticipo rispetto a quello concernente lo statuto, dovuta a motivi esclusivamente procedurali.

 

Occorre inoltre notare che, al momento della delibera governativa di impugnazione della legge elettorale regionale (21 maggio 2009), lo statuto non era stato ancora promulgato, con la conseguenza che, in quella data non v’era certezza sulla sua effettiva entrata in vigore, non essendo ancora trascorso il termine di tre mesi per una eventuale richiesta referendaria, che in concreto poi non vi è stata. Esistevano quindi le condizioni che giustificavano il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, giacché ben poteva accadere che lo statuto venisse respinto dal corpo elettorale, con la conseguenza che la legge elettorale sarebbe rimasta in vigore, ma scoordinata rispetto allo stesso statuto. Per quest’ultimo sarebbe stato necessario un nuovo procedimento di approvazione, con possibili varianti rispetto alle scelte precedenti in tema di forma di governo, che avrebbero potuto presentare aspetti contraddittori o comunque di difficile integrazione e complementarità con le regole elettorali predisposte in funzione dello statuto ormai perento. Il Governo aveva pertanto fondate ragioni per promuovere la questione di legittimità costituzionale su un atto normativo che, al momento dell’impugnazione, avrebbe potuto rimanere isolato, non integrato con lo statuto e quindi in contrasto con l’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999.

 

Gli eventi successivi – e segnatamente la promulgazione e la pubblicazione dello statuto prima che il ricorso del Governo venisse notificato – hanno fugato la preoccupazione che statuto e legge elettorale non presentassero i caratteri di complementarità e integrazione voluti dalla norma costituzionale. È venuta così a mancare la condizione prevista dall’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999 per l’applicazione della disciplina transitoria, anche in considerazione del fatto che, medio tempore, la nuova legge elettorale non ha avuto applicazione, non essendosi svolte elezioni regionali in Campania.

 

Il coordinamento e l’integrazione dello statuto e della legge elettorale trovano una conferma sostanziale negli artt. 5, comma 2, e 6, comma 3, della stessa legge elettorale, ove è citato l’art. 27 del nuovo statuto, in base al quale il Presidente della Giunta regionale è membro del Consiglio regionale.

 

Per le considerazioni sopra esposte, si deve dichiarare la cessazione della materia del contendere con riferimento alle questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 2, comma 2, 3, commi 1, 3 e 4, e 6, comma 1, della legge reg. Campania n. 4 del 2009.

 

3.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge reg. Campania n. 4 del 2009 non è fondata.

 

3.1.— La questione riguarda una norma che, per la prima volta nell’ordinamento italiano, prevede la cosiddetta “preferenza di genere”. In particolare, la disposizione censurata dispone che l’elettore può esprimere uno o due voti di preferenza e che, nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile ed una un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza.

 

La norma prima citata trova fondamento nell’art. 5 del nuovo statuto della Regione Campania, non impugnato dal Governo, che, nel comma 3, ultimo inciso, così recita: «Al fine di conseguire il riequilibrio della rappresentanza dei sessi, la legge elettorale regionale promuove condizioni di parità per l’accesso di uomini e donne alla carica di consigliere regionale mediante azioni positive».

 

La finalità della nuova regola elettorale è dichiaramente quella di ottenere un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi all’interno del Consiglio regionale, in linea con l’art. 51, primo comma, Cost., nel testo modificato dalla legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1 (Modifica dell’articolo 51 della Costituzione), e con l’art. 117, settimo comma, Cost., nel testo modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

 

La prima norma costituzionale citata dispone che «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

 

La seconda norma costituzionale stabilisce che «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».

 

Il quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese. Preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali, i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale.

 

3.2.— I mezzi per attuare questo disegno di realizzazione della parità effettiva tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive possono essere di diverso tipo. La tecnica prescelta dalla norma censurata nel presente giudizio è quella di predisporre condizioni generali volte a favorire il riequilibrio di genere nella rappresentanza politica, senza introdurre strumenti che possano, direttamente o indirettamente, incidere sull’esito delle scelte elettorali dei cittadini. Questa Corte ha escluso che possano essere legittimamente introdotte nell’ordinamento misure che «non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi» (sentenza n. 422 del 1995).

 

Tenendo ferma questa fondamentale statuizione, la Corte costituzionale, dopo l’introduzione del nuovo testo dell’art. 117 Cost., ma in data anteriore alla modifica dell’art. 51 Cost., ha precisato che i vincoli imposti dalla legge per conseguire l’equilibrio dei generi nella rappresentanza politica non devono incidere sulla «parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale» (sentenza n. 49 del 2003).

 

3.3.— Occorre quindi chiedersi se la norma censurata nel presente giudizio in qualche modo prefiguri il risultato elettorale, alterando forzosamente la composizione dell’assemblea elettiva rispetto a quello che sarebbe il risultato di una scelta compiuta dagli elettori in assenza della regola contenuta nella norma medesima, oppure attribuisca ai candidati dell’uno o dell’altro sesso maggiori opportunità di successo elettorale rispetto agli altri.

 

Si deve innanzitutto notare che l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso. Solo se decide di avvalersi della possibilità di esprimere una seconda preferenza, la scelta dovrà cadere su un candidato della stessa lista, ma di sesso diverso da quello del candidato oggetto della prima preferenza. Nel caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda preferenza, ferma restando pertanto la prima scelta dell’elettore.

 

Da quanto esposto si traggono due conseguenze, in ordine ai limiti posti dalla giurisprudenza di questa Corte all’introduzione di strumenti normativi specifici per realizzare il riequilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica.

 

La prima è che la regola censurata non è in alcun modo idonea a prefigurare un risultato elettorale o ad alterare artificiosamente la composizione della rappresentanza consiliare. È agevole difatti osservare che, in applicazione della norma censurata, sarebbe astrattamente possibile, in seguito alle scelte degli elettori, una composizione del Consiglio regionale maggiormente equilibrata rispetto al passato, sotto il profilo della presenza di donne e uomini al suo interno, ma anche il permanere del vecchio squilibrio, ove gli elettori si limitassero ad esprimere una sola preferenza prevalentemente in favore di candidati di sesso maschile o, al contrario, l’insorgere di un nuovo squilibrio, qualora gli elettori esprimessero in maggioranza una sola preferenza, riservando la loro scelta a candidati di sesso femminile. La prospettazione di queste eventualità – tutte consentite in astratto dalla normativa censurata – dimostra che la nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta quindi di una misura promozionale, ma non coattiva.

 

Sotto il profilo della libertà di voto, tutelata dall’art. 48 Cost., si deve osservare che l’elettore, quanto all’espressione delle preferenze e, più in generale, alle modalità di votazione, incontra i limiti stabiliti dalle leggi vigenti, che non possono mai comprimere o condizionare nel merito le sue scelte, ma possono fissare criteri con i quali queste devono essere effettuate. Non è certamente lesivo della libertà degli elettori che le leggi, di volta in volta, stabiliscano il numero delle preferenze esprimibili, in coerenza con indirizzi di politica istituzionale che possono variare nello spazio e nel tempo. Parimenti non può essere considerata lesiva della stessa libertà la condizione di genere cui l’elettore campano viene assoggettato, nell’ipotesi che decida di avvalersi della facoltà di esprimere una seconda preferenza. Si tratta di una facoltà aggiuntiva, che allarga lo spettro delle possibili scelte elettorali – limitato ad una preferenza in quasi tutte le leggi elettorali regionali – introducendo, solo in questo ristretto ambito, una norma riequilibratrice volta ad ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva. Tale risultato non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione.

 

I diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono inalterati. Il primo perché l’elettore può decidere di non avvalersi di questa ulteriore possibilità, che gli viene data in aggiunta al regime ormai generalizzato della preferenza unica, e scegliere indifferentemente un candidato di genere maschile o femminile. Il secondo perché la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre possibilità maggiori ai candidati dell’uno o dell’altro sesso di essere eletti, posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice. Non vi sono, in base alla norma censurata, candidati più favoriti o più svantaggiati rispetto ad altri, ma solo una eguaglianza di opportunità particolarmente rafforzata da una norma che promuove il riequilibrio di genere nella rappresentanza consiliare.

 

4.— La sentenza n. 422 del 1995 di questa Corte sottolineava che al riequilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica «si può […] pervenire con un’intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare». Norme come quella oggetto del presente giudizio possono solo offrire possibilità di scelta aggiuntive agli elettori, ma non garantiscono – né potrebbero farlo – che l’obiettivo sia raggiunto, giacché resistenze culturali e sociali, ancora largamente diffuse, potrebbero frustrare l’intento del legislatore regionale, perpetuando la situazione esistente, che presenta un vistoso squilibrio di genere nella rappresentanza sia nella Regione Campania sia, più in generale, nelle assemblee elettive della Repubblica italiana. L’aleatorietà del risultato dimostra che quello previsto dalla norma censurata non è un meccanismo costrittivo, ma solo promozionale, nello spirito delle disposizioni costituzionali e statutarie prima citate.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4 (Legge elettorale), promossa, in riferimento agli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

 

dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, e 3, commi 1, 3 e 4, della legge reg. Campania n. 4 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 5 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

 

dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, e 3, comma 4, della legge reg. Campania n. 4 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 2009.

 

Depositata in Cancelleria il 14 gennaio 2010.

 

 

 


 

 

 



[1]     La legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1 ha aggiunto un periodo in coda al primo comma dell'art. 51, che così recita: “Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

[2]     L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.

[3]     D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della L. 28 novembre 2005, n. 246.

[4]     D.Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica (art. 2).

[5]     Legge 8 aprile 2004, n. 90, Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004.

[6]     L. 3 giugno 1999, n. 157, Nuove norme in materia di rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici.

[7]    Legge 24 dicembre 2007, n. 244, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008).

[8]     World economic forum, The Global Gender Gap Report 2010, Ginevra 2010 (www.weforum.org/pdf/gendergap/report2010.pdf).

[9]    Così distribuite nei partiti: 18 nell'Ulivo, 6 nel Polo delle libertà, 1 nei Progressisti e 1 nella SVP.

[10]   Così distribuite nei partiti: 38 dell’Ulivo, 23 della Casa delle Libertà, 4 di Rifondazione Comunista, 4 dei Verdi, 3 dei Comunisti italiani e 1 del Nuovo partito socialista.

[11]   Così distribuite nei partiti: 17 per l’Ulivo, 7 della Casa delle libertà, 1 dell’SVP.

[12]   Il datoè aggiornato al 30 maggio 2011.

[13]    L. 25 marzo 1993, n. 81, Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale.

[14]    L. 23 febbraio 1995, n. 43, Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario.

[15]   L. 4 agosto 1993, n. 277, Nuove norme per l'elezione della Camera dei deputati.

[16]   L. 4 agosto 1993, n. 276, Norme per l'elezione del Senato della Repubblica.

[17]    Così l’articolo 4, comma 2, n. 2), del testo unico delle leggi per l’elezione della Camera (successivamente dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale) come modificato dalla L. 277/1993.

[18]    D.P.R. 5 gennaio 1994, n. 14, Regolamento di attuazione della legge 4 agosto 1993, n. 277, per l'elezione della Camera dei deputati, art. 4, comma 2, introdotto dall’art. 3 del D.P.R. 12 febbraio 1994, n. 104.

[19]    D.Lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione del Senato della Repubblica.

[20]    Si tratta dell’art. 5, comma 2 e art. 7, comma 1 della L. 81/1993 e art. 2 della L. 415/1993 (elezioni amministrative) e dell’art. 4, comma 2, n. 2 del D.P.R. 361/1957, come modificato dall'art. 1 della L: 277/1993 (elezioni della Camera); art. 1, comma 6, della L. 43/1995 (elezioni delle regioni a statuto ordinario). Parimenti, furono dichiarate illegittime disposizioni analoghe previste per le elezioni comunali in alcune regioni a statuto speciale e segnatamente Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta.

[21]    Legge 8 aprile 2004, n. 90, Norme in materia di elezione dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004.

[22]   Proprio poiché si tratta di una mera facoltà di cui gli elettori potrebbero giovarsi oppure no, «sarebbe astrattamente possibile, in seguito alle scelte degli elettori, una composizione del Consiglio regionale maggiormente equilibrata rispetto al passato, sotto il profilo della presenza di donne e uomini al suo interno, ma anche il permanere del vecchio squilibrio, ove gli elettori si limitassero ad esprimere una sola preferenza».

[23]   Si ricorda che le regioni a statuto ordinario, a seguito della riforma costituzionale operata con L. Cost. 1/1999, disciplinano con propria legge il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta nonché dei consiglieri regionali, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica (art. 122 Cost.). Il sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale e dei Consigli regionali continua ad essere disciplinato da un complesso di leggi statali – per le regioni che non hanno legiferato, ovvero per tutti gli aspetti non disciplinati da legge regionale, per le regioni che lo hanno fatto:

      - legge 17 febbraio 1968, n. 108, «Norme per l’elezione dei Consigli regionali delle regioni a statuto normale » (elezione del solo consiglio regionale con metodo interamente proporzionale), cui hanno fatto seguito:

- legge 23 febbraio 1995, n. 43, «Nuove norme per l’elezione dei Consigli delle regioni a statuto ordinario », (la cosiddetta “legge Tatarella”, che ha introdotto l’attuale sistema maggioritario quando Presidente e giunta erano eletti dal Consiglio regionale),

- l’articolo 5 (disposizioni transitorie) della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, «Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della giunta regionale e l’autonomia statutaria delle regioni», che ha introdotto l’elezione diretta del Presidente della Giunta e la contestualità della elezione del consiglio regionale in costanza dei ‘vecchi’ statuti regionali,

- e, da ultimo, la L. 2 luglio 2004, n. 165, «Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della costituzione», la legge-quadro che stabilisce i principi cui sottostà la potestà legislativa della regione in materia elettorale, stante la disposizione costituzionale che la sottopone ai «limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica».

[24]   Si ricorda che a legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 Disposizioni concernenti l'elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, reca modifiche agli statuti speciali della regione Siciliana, della Valle d’Aosta, della Sardegna, del Friuli-Venezia Giulia  e del Trentino-Alto Adige. Analogamente a quanto fatto con la Legge costituzionale 1/1999 per le regioni a statuto ordinario, le modifiche apportate a ciascuno statuto attribuiscono alla regione e alle province autonome di Trento e di Bolzano la competenza legislativa sul proprio sistema di elezione dei consiglieri, del Presidente e degli altri componenti della Giunta, nonché la disciplina dei casi di ineleggibilità e incompatibilità. La legge elettorale regionale dovrà – tra l’altro – “promuovere condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”.

[25]   In tutti e tre i casi, le leggi regionali dispongono che, in caso di inosservanza, i presentatori delle liste sono tenuti a versare alla Giunta regionale l’importo del rimborso per le spese elettorali di cui alla legge 157/1999, fino ad un massimo della metà, in misura direttamente proporzionale al numero di candidati eccedenti il numero massimo consentito.

[26]  Il legislatore francese ha tentato di favorire una rappresentanza paritaria tra uomini e donne nelle candidature alle cariche elettive fin dall’inizio degli anni ottanta del Novecento. In particolare nel 1982 il Parlamento aveva approvato una legge ad ampia maggioranza (Loi n. 82-974 del 19 novembre 1982) con cui si prevedeva, in particolare, l’inserimento nel Code electoral di un nuovo art. 260-bis con cui si intendevano vincolare i partiti a presentare, per le elezioni municipali nei comuni con più di 3.500 abitanti, liste di candidati che non potessero comportare più del 75% di persone dello stesso sesso. La norma, prevista dall’art. 4 della legge, fu però censurata dal Conseil Constitutionnel, con la Decisione n. 82-146 DC del 18 novembre 1982. Il Consiglio dichiarò illegittimo l’art. 260-bis sulla base di un confronto con l’art. 3 della Costituzione e l’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (per il quale tutti i cittadini hanno diritto di accedere ad incarichi ed impieghi pubblici senza altra distinzione che quella dovuta alle loro capacità e qualità).

[27]   Con riferimento ai parlamentari europei, si veda in particolare l’art. 9 della Loi n. 77-729 du 7 juillet 1977 relative à l'élection des représentants au Parlement européen, comemodificato dalla Loi n. 2003-327.

[28]  Composizione, funzioni e rapporti delle Delegazioni istituite presso l’Assemblea nazionale ed il Senato sono consultabili, rispettivamente, agli indirizzi http://www.assemblee-nationale.fr/commissions/delf-index.asp e http://www.senat.fr/commission/femmes/index.html.

[29] Il Parlamento portoghese è monocamerale.

[30]   Il testo è aggiornato alle ultime modifiche introdotte dalla Legge 232/2005.

[31]   Si ricorda che in virtù dell’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, del Trattato sull’Unione europea, la Carta dei diritti fondamentali proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.

[32]   L. 23 dicembre 2009, n. 191, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010).

[33]   D.L. 25 gennaio 2010, n. 2, Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni, convertito in legge, con modificazioni, da L. 26 marzo 2010, n. 42.

[34]   Ai candidati della lista vincente sono attribuiti i due terzi dei seggi in palio, con arrotondamento matematico. I restanti seggi sono assegnati alle altre liste concorrenti e distribuite fra queste con il metodo dei quozienti d’Hondt in base alla cifra elettorale che ciascuna lista ha conseguito.

[35]   Si cfr. AC 4415 (art. 2, co. 1, lett. b); AC 3466 (art. 2, co. 1, lett. b); AC 4254 (art. 1, co. 1, lett. d), n. 2); AC 4271 (art. 1, co. 1, lett. b).

[36]   L. 8 marzo 1951, n. 122, Norme per l'elezione dei Consigli provinciali.

[37]   L. 2 luglio 2004, n. 165, Disposizioni di attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione.

[38]   Le regioni Campania, Marche, Toscana e Umbria hanno emanato proprie leggi elettorali che sostituiscono quasi integralmente la disciplina statale. Le regioni Calabria, Lazio e Puglia hanno approvato leggi elettorali che in varia misura e per aspetti diversi sostituiscono, integrano e modificano la legislazione nazionale. La regione Piemonte ha modificato parzialmente soltanto le disposizioni che disciplinano la presentazione delle liste circoscrizionali e regionali. Nelle regioni Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Basilicata e, salvo quanto detto sopra, Piemonte si applica la disciplina nazionale.

[39]   D.Lgs. 17 settembre 2010, n. 156, Disposizioni recanti attuazione dell'articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma Capitale. Si ricorda che tale decreto è stato emanato in attuazione della delega prevista dall’art. 24 della legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale. Tale delega riguarda l’ordinamento provvisorio, anche finanziario, di Roma capitale e configura, in luogo del comune di Roma, l'ente territoriale “Roma capitale”, che è ente dotato di una speciale autonomia. Il decreto n. 156 attua la delega limitatamente alla disciplina degli organi di governo di Roma capitale, individuati nell’Assemblea capitolina, nella Giunta capitolina e nel Sindaco. La disciplina ponte ha carattere provvisorio in vista dell’attuazione di una disciplina organica delle città metropolitane.

[40]   D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

[41]   Si v., in proposito, Tar Liguria, sez. II, 13 aprile 2001, n. 380; Tar Puglia, Bari, sez. II, 20 dicembre 2006 n. 4465.