Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Titolo: Modifiche all'art. 2112 del codice civile in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda - A.C. 2261
Riferimenti:
AC n. 2261/XV     
Serie: Progetti di legge    Numero: 315
Data: 23/01/2008
Organi della Camera: XI-Lavoro pubblico e privato


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 
SERVIZIO STUDI

 

Progetti di legge

 

 

 

Modifiche all’art. 2112 del codice civile in materia di

mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda

 

A.C. 2261

 

 

 

 

 

 

 

n. 315

 

 

23 gennaio 2008


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento Lavoro

 

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File: LA0205


INDICE

Scheda di sintesi per l’istruttoria legislativa

Dati identificativi3

Struttura e oggetto  4

§      Contenuto  4

§      Relazioni allegate  6

Elementi per l’istruttoria legislativa  7

§      Necessità dell’intervento con legge  7

§      Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite  7

§      Impatto sui destinatari delle norme  7

§      Formulazione del testo  8

Schede di lettura

§      Il contenuto della proposta di legge.11

Progetto di legge

§      A.C. 2261, (on. Burgio ed altri), Modifiche all’articolo 2112 del codice civile in materia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda  23

§      Codice Civile (artt. 1406, 1676, 2112, 2119 e 2558)37

§      L. 27 luglio 1978, n. 392 Disciplina delle locazioni di immobili urbani. (art. 36)41

§      L. 29 dicembre 1990, n. 428 Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1990) (art. 47)42

§      L. 23 luglio 1991, n. 223 Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro. (artt. 4, 7 e 24)44

§      L. 14 febbraio 2003, n. 30 Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro (art. 1, comma 2, lett. p))52

§      D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30. (artt. 29 e 32)53

§      D.Lgs. 6 ottobre 2004, n. 251 Disposizioni correttive del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro. (art. 9)55

Normativa comunitaria

§      Dir. 14 febbraio 1977, n. 77/187/CEE Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti.59

§      Dir. 29 giugno 1998, n. 98/50/CE Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 77/187/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti.68

§      Dir. 12 marzo 2001, n. 2001/23/CE Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti.72

 

 


SIWEB

Scheda di sintesi
per l’istruttoria
legislativa


Dati identificativi

Numero del progetto di legge

A.C. 2261

Titolo

Modifiche all'articolo 2112 del codice civile in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda

Iniziativa

On. Burgio ed altri

Settore d’intervento

Lavoro

Iter al Senato

no

Numero di articoli

1

Date

 

§       presentazione o trasmissione alla Camera

14 febbraio 2007

§       annuncio

15 febbraio 2007

§       assegnazione

26 febbraio 2007

Commissione competente

XI Commissione (Lavoro)

Sede

Referente

Pareri previsti

I Commissione (Affari costituzionali)

II Commissione (Giustizia)

X Commissione (Attività produttive)

 


 

Struttura e oggetto

Contenuto

La proposta di legge A.C. 2261 (Burgio ed altri) è diretta a modificare l’articolo 2112 del codice civile, relativo all’istituto del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, così come da ultimo modificato dall’articolo 32 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

Lo scopo della pdl in esame, così come evidenziato nella relazione illustrativa del provvedimento, è di impedire “usi impropri dello strumento del trasferimento d’azienda al fine di ridurre le tutele dei lavoratori”. Difatti la stessa relazione pone in evidenza che, tramite un uso distorto dell’articolo 2112 c.c., sono realizzate operazioni volte, ad esempio, all’estromissione dei lavoratori senza il loro consenso (altrimenti richiesto, ai sensi dell’istituto della cessione del contratto di cui all’art. 1406 c.c.) o ad evitare la complessa procedura dei licenziamenti collettivi e la corresponsione degli oneri connessi a tale procedura. Tali operazioni sono volte talvolta anche a trasferire al cessionario dell’azienda gli oneri economici di gestione del personale (in particolare, quelli relativi al TFR), per poi addossare all’INPS il relativo onere in caso di successivo fallimento del cessionario (con l’addebito dell’onere del TFR al relativi fondo di garanzia INPS).

In particolare, la pdl in esame consta di un unico articolo (composto da un unico comma), che provvede a sostituire alcuni commi del più volte richiamato articolo 2112 c.c.

 

Più specificamente:

 

§         la lettera a) modifica il primo comma dell’articolo 2112 c.c., confermando, in caso di trasferimento di azienda, la continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e la conservazione da parte del lavoratore di tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro, ma facendo salva altresì la disposizione contenuta nel successivo quarto comma del medesimo articolo 2112 c.c.  - a sua volta modificato dalla pdl in esame - relativa alla facoltà per il lavoratore di rimanere alle dipendenze del cedente opponendosi al trasferimento al cessionario del proprio rapporto di lavoro;

 

§         la successiva lettera b), modificando il testo del quarto comma dell’articolo 2112, reca la norma-cardine della pdl, che attribuisce la facoltà, al lavoratore ceduto, di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario in modo da poter rimanere alle dipendenze del cedente. Condizione necessaria per poter effettuare tale scelta è che la medesima sia comunicata in forma scritta al cedente e al cessionario entro trenta giorni dalla comunicazione individuale al lavoratore dell’intervenuta cessione.

Inoltre, si prevede che, ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda e il rifiuto del lavoratore di proseguire il rapporto di lavoro col cessionario non costituiscono di per sé motivo di licenziamento.

Infine, confermando sostanzialmente una disposizioni già contenuta nella formulazione precedente del comma, si dispone l’applicazione della fattispecie del recesso per giusta causa, di cui all’articolo 2119 c.c., nel caso in cui le condizioni di lavoro del lavoratore ceduto subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda;

 

§         con la lettera c) si modifica il testo del secondo periodo del quinto comma dell’articolo 2112 c.c., sostanzialmente riformulando il testo introdotto dal D.Lgs. 18 del 2001, previgente all’entrata in vigore del D.Lgs. 276 del 2003. La modifica (anch’essa di notevole rilevanza) è volta, come evidenziato dalla relazione, ad impedire la costituzione artificiosa di rami d’azienda interessati da cessione.

Più specificamente, con tale modifica, si richiede, ai fini dell’applicazione della disciplina sul trasferimento d’azienda di cui al medesimo art. 2112 c.c. anche al trasferimento di una parte dell’azienda, cioè del ramo d’azienda, che lo stesso ramo d’azienda presenti (oggettivamente) un’autonomia funzionale ai fini dell’esercizio di una attività economica già preesistente al trasferimento.

In tal modo si intende evitare che l’unico elemento che unifica il complesso di beni oggetto di trasferimento come ramo d’azienda sia la mera volontà delle parti (cedente e cessionario) al momento della cessione.

 

§         infine, la lettera d) modifica significativamente il sesto comma dell’articolo 2112 c.c. La nuova formulazione di tale comma stabilisce, nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, il diritto dei lavoratori - il cui rapporto sia stato trasferito all'acquirente appaltatore – ad  essere riassunti alle dipendenze dell’imprenditore cedente e committente in caso di cessazione dell’appalto, restando fermo, in ogni caso, il mantenimento dei trattamenti anche individuali in precedenza acquisiti.

 

Relazioni allegate

Alla pdl in esame è allegata solamente la relazione illustrativa.


 

Elementi per l’istruttoria legislativa

Necessità dell’intervento con legge

L’intervento con un atto normativo di rango primario si rende necessario poiché il provvedimento è volto a modificare la disciplina civilistica (art. 2112 c.c.) relativa ai diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda.

 

Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite

Il provvedimento, dettando disposizioni relative alla disciplina civilistica dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, riguarda la materia “ordinamento civile” di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

 

Impatto sui destinatari delle norme

Il provvedimento reca una disciplina che potrebbe rafforzare i diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, evitando usi impropri dello strumento del trasferimento d’azienda al fine di ridurre le tutele dei lavoratori.

A tal fine, al lavoratore ceduto si attribuisce la facoltà di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario in modo da poter rimanere alle dipendenze del cedente. Inoltre, per evitare che il trasferimento del ramo d’azienda al cessionario che diventa appaltatore possa essere strumentale per l’attuazione di una forma di licenziamento collettivo “mascherato”, nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, si attribuisce ai lavoratori il cui rapporto sia stato trasferito all'acquirente appaltatore il diritto ad  essere riassunti alle dipendenze dell’imprenditore cedente e committente in caso di cessazione dell’appalto.

In maniera corrispondente vengono resi più stringenti i vincoli delle imprese per quanto riguarda la gestione del personale, dal momento che le medesime imprese potrebbero vedersi obbligate a mantenere alle proprie dipendenze i lavoratori addetti all’azienda ceduta e a riassumere i lavoratori il cui rapporto sia stato trasferito all'acquirente appaltatore, con potenziali ricadute sul piano economico. Vincoli maggiori per le imprese, sul piano gestionale, potrebbe derivare altresì dalla norma che estende alla cessione del ramo d’azienda il principio già previsto dalla vigente normativa con riferimento alla cessione dell’intero complesso aziendale, ai sensi del quale l’applicazione della disciplina dell’art. 2112 c.c. presuppone l’autonomia funzionale dell’attività economica ceduta.

Formulazione del testo

Si osserva che, alla lettera d), andrebbe chiarito l’inciso “fermi, in ogni caso, il mantenimento dei trattamenti anche individuali già acquisiti”. Tale inciso sembrerebbe potersi interpretare nel senso che il lavoratore che esercita la facoltà di farsi riassumere alle dipendenze dell’imprenditore cedente e committente nel caso di cessazione dell’appalto mantiene il diritto all’applicazione dei trattamenti economici e normativi (non solo previsti dalla contrattazione collettiva ma anche riconosciuti individualmente) già applicati dall’acquirente appaltatore, se più favorevoli.

 

 


Schede di lettura


Il contenuto della proposta di legge.

La proposta di legge A.C. 2261 (Burgio ed altri) è diretta a modificare l’articolo 2112 del codice civile, relativo all’istituto del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, così come da ultimo modificato dall’articolo 32 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276[1].

 

Lo scopo della pdl in esame, così come evidenziato nella relazione illustrativa del provvedimento, è di impedire “usi impropri dello strumento del trasferimento d’azienda al fine di ridurre le tutele dei lavoratori. E’ stato infatti ampiamente osservato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l’attuale testo dell’articolo 2112 del codice civile ha comportato una sorta di mutazione genetica di una norma in origine invocata dai lavoratori a protezione dei propri diritti in caso di trasferimento d’azienda e di sostituzione del datore di lavoro. La normativa vigente appare intesa piuttosto ad offrire un ombrello protettivo alle imprese, che la utilizzano in maniera sempre più massiccia a copertura delle più svariate e avventurose operazioni di esternalizzazione delle attività, delle strutture produttive e della manodopera. Con l’ausilio dell’articolo 2112 del codice civile” sempre secondo la relazione, “sono frequentemente poste in essere sequenze operative atte a mascherare pratiche di licenziamento collettivo o, nel migliore dei casi, di precarizzazione dei rapporti di lavoro e di riduzione degli oneri di gestione del personale”; tali operazioni sono volte quindi, ad esempio, all’estromissione dei lavoratori senza il loro consenso (altrimenti richiesto, ai sensi dell’istituto della cessione del contratto di cui all’art. 1406 c.c.) o ad evitare la complessa procedura dei licenziamenti collettivi e la corresponsione degli oneri connessi a tale procedura.

 

La normativa vigente (L. 23 luglio 1991, n. 223[2]) prevede una apposita procedura ai fini della collocazione in mobilità dei lavoratori. Si ricorda, al riguardo, che hanno diritto all’indennità di mobilità i lavoratori (con eccezione dei dirigenti) con rapporto a tempo indeterminato licenziati da imprese in CIGS che non siano in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi, ovvero licenziati da imprese rientranti nel campo di applicazione della CIGS qualora ricorrano i presupposti del licenziamento collettivo (cfr. infra).

Più in dettaglio, ai sensi dell’articolo 4 della citata L. 223 del 1991, le aziende in CIGS che nel corso o al termine del programma non possano garantire il reimpiego di tutti i lavoratori precedentemente sospesi, prima di effettuare il licenziamento anche di un solo dipendente devono seguire una particolare procedura di riduzione del personale, che si conclude con la messa in mobilità dei lavoratori licenziati.

Analoga procedura deve essere seguita, come accennato, qualora si verifichi la fattispecie del licenziamento collettivo, cioè, ai sensi dell’articolo 24 della L. 223 del 1991, nel caso in cui le imprese che occupano più di 15 dipendenti[3], in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendono effettuare nell’arco temporale di 120 giorni almeno 5 licenziamenti in stabilimenti produttivi dislocati nella stessa provincia. Qualora sia assente il requisito quantitativo o quello temporale, si applica invece la disciplina sui licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

In entrambi i casi sopra indicati (riduzione di personale da parte di aziende in CIGS o licenziamento collettivo), ai sensi dell’articolo 4 della L. 223 del 1991, la procedura di riduzione del personale, preventiva rispetto al licenziamento e alla messa in mobilità, consta di una fase sindacale e di una fase amministrativa, nel corso delle quali il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali tentano prima tra loro ed eventualmente presso la Direzione provinciale del lavoro di trovare sbocchi alternativi al licenziamento. Se le parti non dovessero raggiungere alcun accordo, allora la procedura si conclude con la messa in mobilità dei lavoratori.

Più in dettaglio, in primo luogo, è previsto che il datore di lavoro deve versare un contributo d’ingresso[4] e deve comunicare alle RSA la propria intenzione di effettuare una riduzione di personale e di collocare i lavoratori in esubero in mobilità. Dopo aver ricevuto al comunicazione le RSA, entro 7 giorni, possono chiedere un esame congiunto della situazione di esubero con il datore di lavoro, al fine di giungere a soluzioni alternative. Dopo tale fase, il datore di lavoro comunica alla DPL competente l’esito del confronto con i sindacati e i motivi dell’eventuale mancato accordo. La DPL può tentare una mediazione ma, se anche in tale sede non si giunga ad una soluzione condivisa, il datore di lavoro può procedere al licenziamento dei lavoratori in esubero, che usufruiscono del trattamento di mobilità.

Se non vengono osservati tutti i passaggi procedurali sinteticamente descritti, può derivarne l’inefficacia dei licenziamenti, per cui i lavoratori avrebbero diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, da far valere entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione di licenziamento, con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale.

 

Per quanto riguarda il trattamento di mobilità, l’articolo 7 della richiamata L. 223 del 1991, al comma 1, prevede che i lavoratori collocati in mobilità, in possesso di determinati requisiti, anche di anzianità aziendale[5], hanno diritto ad una indennità per un periodo massimo di dodici mesi, elevato a ventiquattro per i lavoratori che hanno compiuto i quaranta anni e a trentasei per i lavoratori che hanno compiuto i cinquanta anni.

L'indennità spetta nella seguente misura percentuale del trattamento di CIGS che hanno percepito ovvero che sarebbe loro spettato nel periodo immediatamente precedente la risoluzione del rapporto di lavoro:

-       per i primi dodici mesi: 100 per cento;

-       dal tredicesimo al trentaseiesimo mese: 80 per cento.

Il comma 2 del medesimo articolo 7 dispone che nelle aree del Mezzogiorno, l’indennità di mobilità è corrisposta per un periodo massimo di ventiquattro mesi, elevato a trentasei per i lavoratori che hanno compiuto i quaranta anni e a quarantotto per i lavoratori che hanno compiuto i cinquanta anni. Essa spetta nella seguente misura:

-       per i primi dodici mesi: 100 per cento;

-       dal tredicesimo al quarantottesimo mese: 80 per cento.

 

Tutti i lavoratori collocati in mobilità, anche se non in possesso dei requisiti che danno diritto all’indennità di mobilità (cfr. supra), sono iscritti nelle liste di mobilità regionali, in modo da agevolarne la ricollocazione lavorativa.

Si ricorda, al riguardo, che gli incentivi per l’assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, previsti dalla L. 223 del 1991, sono i seguenti:

a)    ai sensi dell’art. 25, comma 9, in caso di conclusione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con un lavoratore in mobilità, è concesso al datore di lavoro il beneficio della riduzione della relativa contribuzione a suo carico, che viene equiparata, per i primi 18 mesi, a quella dovuta per gli apprendisti dipendenti da aziende non artigiane;

b)    ai sensi dell’articolo 8, comma 2, in caso di stipulazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato per una durata non superiore a 12 mesi, viene riconosciuto, per l’intero periodo, il medesimo beneficio di cui alla precedente lett. a). Il beneficio è concesso per ulteriori 12 mesi qualora, nel corso del suo svolgimento, tale contratto venga trasformato a tempo indeterminato[6].

 

Tali operazioni sono volte talvolta anche a trasferire al cessionario gli oneri economici di gestione del personale (in particolare, quelli relativi al TFR), per poi addossare all’INPS il relativo onere in caso di successivo fallimento del cessionario (con l’addebito dell’onere del TFR al relativi fondo di garanzia INPS).

Tutto ciò ha comportato, sempre secondo la relazione illustrativa, una forma strisciante di precarizzazione dei rapporti di lavoro “favorendo, da un lato, la separazione del lavoro dall’impresa in favore della quale esso è effettivamente prestato, dall’altro, un notevole risparmio degli oneri di gestione, diretti e indiretti, del personale”.

La stessa relazione illustrativa sottolinea altresì come l’approccio ad una nuova modalità di conduzione dell’impresa, basata su “una logica di valorizzazione delle esigenze delle imprese e del mercato”, abbia giustificato l’introduzione, avvenuta con il D.Lgs. 276 del 2003, “dei nuovi regimi di trasferimento d'azienda, di appalto di servizi e di somministrazione di lavoro, motivandoli sulla base dei «rilevanti processi di riorganizzazione aziendale e di ristrutturazione» in atto nell'attuale fase del processo di accumulazione e in base alle esigenze di competizione internazionale delle imprese italiane. Sulla base di queste premesse e di un generico riferimento a presunte «logiche della nuova economia»,” continua la relazione, “il decreto legislativo n. 276 del 2003 ha di fatto cancellato importanti norme poste a garanzia dei diritti del lavoro, accusandole di introdurre improvvide «rigidità» e disinvoltamente definendole «obsolete». Si comprende in tal modo come l'articolo 2112 del codice civile abbia potuto trasformarsi, da norma protettiva dei lavoratori, in un pericoloso strumento utile a sottrarre loro sicurezza e stabilità d'impiego e a ridurre, talvolta drasticamente, trattamenti economici e tutele normative”.

Sulla base di ciò, la relazione illustrativa alla pdl in esame pone in rilievo tre elementi cardine che hanno eretto un impianto normativo “informato dalla esclusiva volontà di favorire il «sistema delle imprese»”, identificandoli, rispettivamente:

§      nell’automatismo che esclude la necessità del consenso dei lavoratori al trasferimento e non contempla il diritto dei lavoratori di rifiutare il trasferimento conservando il rapporto di lavoro con il cedente. Difatti, ai sensi del primo comma dell’art. 2112 c.c., i rapporti di lavoro dei dipendenti vengono trasferiti automaticamente al cessionario, mentre ai sensi del terzo comma il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi già applicati dal cedente (ma solo fino alla loro scadenza), a meno che tali contratti collettivi non siano sostituiti da altri contratti applicati dal cessionario (che possono prevedere condizioni meno favorevoli per i lavoratori);

§      nella costituzione di società “di comodo”, create al solo scopo di effettuare trasferimenti di “parti” dell’azienda, in modo da porre in essere esternalizzazioni di attività a danno dei lavoratori. Ciò è stato favorito tramite l’abolizione, da parte del D.Lgs. 276 del 2003, del riferimento all’autonomia funzionale oggettivamente preesistente ai fini della cessione di un ramo d’azienda, presente nella disciplina previgente;

§      nel fatto che l'attuale disciplina non si occupa affatto della sorte del ramo d'azienda dopo la cessione. In realtà, il fatto di affidare la configurazione di un complesso di beni dell’azienda come ramo di azienda esclusivamente alla volontà soggettiva delle parti (cedente e cessionario), può favorire operazioni di licenziamento collettivo “mascherato”, caratterizzate in primo luogo dall’esternalizzazione della parte dell’attività dell’impresa che si intende dismettere e successivamente dalla liquidazione della società cessionaria e appaltatrice alla quale sono stati trasferiti i lavoratori. Secondo quanto posto in rilievo dalla relazione illustrativa, per contrastare tali pratiche sarebbe opportuno prevedere idonei strumenti di tutela dei lavoratori, a partire dal diritto del lavoratore di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario mantenendolo in capo al cedente.

 

Il trasferimento d’azienda – disciplinato dall’articolo 2112 c.c. e dall’articolo 47[7] della legge comunitaria per il 1990 (L. 29 dicembre 1990, n. 428), come modificati dal D.Lgs. 2 febbraio 20001, n. 18[8], di recepimento della direttiva n. 98/50/CE – consiste nel trasferimento di un'entità economica, vista come un insieme organizzato di mezzi per lo svolgimento di una determinata attività, che mantiene la sua identità, sia pubblica sia privata, indipendentemente dal fatto che venga perseguito o meno un fine di lucro.

Secondo quanto previsto dall’art. 2112 c.c., il trasferimento può anche riguardare un ramo d’azienda, a condizione che l’attività ceduta sia idonea ad essere collocata utilmente sul mercato, costituendo un’entità economica suscettibile di essere oggetto di un'attività autonoma di impresa da parte dell’acquirente, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

Per quanto concerne il rapporto di lavoro, l’articolo 2112 c.c. stabilisce che il rapporto di lavoro continua con il cessionario e pertanto il lavoratore conserva tutti i diritti derivanti dall'anzianità di servizio raggiunta prima del trasferimento, nonché quelli previsti nel contratto individuale, con particolare riferimento ai diritti relativi all’inquadramento di categoria e retributivo. Le condizioni di lavoro determinate nel contratto collettivo applicato al momento della cessione sono mantenute fino alla data della sua scadenza, a meno che il cessionario non applichi un altro contratto collettivo (che quindi prevale).

Il soggetto cedente è obbligato in solido con il cessionario per tutti i crediti che il dipendente vantava al momento del trasferimento; tuttavia il lavoratore può liberare il cedente da tali obbligazioni.

Infine il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, ferma restando la facoltà del datore di lavoro di recedere dal rapporto secondo quanto previsto dalla disciplina sul licenziamento.

La normativa vigente prevede anche obblighi di informazione e di consultazione in caso di trasferimento d’azienda (o ramo d’azienda) in cui siano occupati più di 15 dipendenti.

In particolare, l’articolo 47 della L. 428 del 1990, in attuazione dell’articolo 7 della direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, nel caso l’azienda occupi almeno 15 dipendenti, dispone che il cedente e il cessionario sono tenuti ad informare in tempo utile i rappresentanti dei lavoratori sulla data fissata o proposta per il trasferimento, sui motivi del trasferimento, sulle conseguenze giuridiche, economiche o sociali, nonché sulle misure previste nei confronti dei lavoratori medesimi.

 

La materia del trasferimento d’azienda è stata caratterizzata, negli ultimi anni, dall’intervento di vari provvedimenti, sia a livello nazionale sia a livello comunitario.

In particolare, con il richiamato D.Lgs. 18 del 2001 emanato in attuazione della delega contenuta nella legge comunitaria per il 2000 (L. 526 del 1999), il legislatore è intervenuto in maniera significativa sull’articolo 2112 c.c. e sull’articolo 47 della L. 428 del 1990.

In particolare, oltre alla modifica dei termini utilizzati di alienante e acquirente in cedente e cessionario, l’articolo 1 del richiamato D.Lgs. 18 del 2001 modificò il quinto comma dell’articolo 2112 c.c., definendo, per la prima volta nell’ordinamento, il concetto di trasferimento d’azienda (qualsiasi operazione comportante il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità) nonché introducendo la nozione legislativa di ramo d’azienda (intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità).

Successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. 18 del 2001, con l’emanazione della direttiva n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese, contestualmente all’abrogazione delle precedenti direttive 77/187/CEE e 98/50/CE, è stata dettata una disciplina complessiva dell’istituto in oggetto, anche se in larga parte coincidente con le previgenti disposizioni.

In particolare, la direttiva in oggetto in primo luogo ha specificato che la sua disciplina si applica ai trasferimenti di imprese, stabilimenti o parti di essi ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o fusione (articolo 1, paragrafo 1.a); inoltre ha definito come trasferimento di azienda quello di un’entità economica che conservala propria identità intesa come insieme di mezzi organizzati al fine dello svolgimento di un’attività economica, sia essenziale o accessoria.

Della richiamata direttiva 2001/23/CE è stata espressamente prevista l’attuazione nell’articolo 1, comma 2, lettera p) della L. 14 febbraio 2003, n. 30[9], il quale ha stabilito la revisione del D.Lgs. 18 del 2001 con le seguenti finalità:

§       completo adeguamento dell’ordinamento nazionale alla disciplina comunitaria mediante, appunto, il recepimento della richiamata direttiva 2001/23/CE;

§       previsione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda nel momento del suo trasferimento;

§       previsione di un regime particolare di solidarietà tra appaltante e appaltatore, nei limiti prescritti dall’articolo 1676 c.c. nelle ipotesi in cui il contratto di appalto sia connesso alla cessione del ramo d’azienda.

 

In relazione a ciò, l’articolo 32 del D.Lgs. 276 del 2003, attuativo della delega di cui alla L. 30 del 2003, ha riformulato il quinto comma dell’articolo 2112 c.c., aggiungendo infine un ulteriore comma allo stesso articolo.

Le modificazioni sostanziali introdotte dal predetto decreto legislativo sono riassumibili nelle seguenti:

a)    limitazione della fattispecie alla cessione contrattuale o alla fusione;

b)    eliminazione del riferimento alla produzione o alla scambio di beni e servizi;

c)    identificazione del ramo d’azienda, inteso come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività organizzata, da parte del cedente  e del cessionario al momento del trasferimento;

d)    previsione del regime di solidarietà di cui all’art. 1676 c.c.

 

Rispetto al testo previgente:

-        si è precisato, recependo il dettato della richiamata direttiva 2001/23/CE, che il mutamento della titolarità dell’attività organizzata può intervenire “in seguito a cessione contrattuale o fusione”. E’ da ritenere che nell’espressione “cessione contrattuale” si voglia ricomprendere non solo il contratto di compravendita, ma anche i contratti di affitto e di usufrutto di azienda, il cui esplicito riferimento viene eliminato nella nuova formulazione;

-        viene precisato che il ramo d’azienda, inteso come articolazione funzionalmente autonoma dell’azienda, può constare anche esclusivamente di beni immateriali;

-        è stato previsto che il requisito dell’autonomia funzionale sussista al momento del trasferimento del ramo d’azienda e sia identificata come tale dalle parti del contratto al momento del suo trasferimento.

Inoltre, con un nuovo comma 6 aggiunto all’articolo 2112, si dispone che qualora al trasferimento sia connesso un contratto di appalto, tra appaltante e appaltatore opera il “regime di solidarietà di cui all’articolo 1676[10]” del codice civile.

 

Si ricorda inoltre che, in seguito, l’art. 9 del D.Lgs. 251 del 2004 ha novellato il sesto comma dell’art. 2112 del c.c., facendo riferimento, ai fini del regime di solidarietà tra appaltante e appaltatore non più all’art. 1676 c.c., bensì all’art. 29 comma 2, del D.Lgs. 276 del 2003. Tale disposizione prevede che, in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti.

 

In particolare, la pdl in esame consta di un unico articolo (composto da un unico comma), che provvede a sostituire alcuni commi del più volte richiamato articolo 2112 c.c.

 

Più specificamente:

§      la lettera a), modifica il primo comma dell’articolo 2112 c.c., confermando, in caso di trasferimento di azienda, la continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e la conservazione da parte del lavoratore di tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro, ma facendo salva altresì la disposizione contenuta nel successivo quarto comma del medesimo articolo 2112 c.c. (a sua volta modificato dalla pdl in esame), relativa alla facoltà per il lavoratore di rimanere alle dipendenze del cedente opponendosi al trasferimento al cessionario del proprio rapporto di lavoro (cfr. infra);

 

§      la successiva lettera b), modificando il testo del quarto comma dell’articolo 2112, reca la norma-cardine della pdl, che attribuisce la facoltà, al lavoratore ceduto, di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario in modo da poter rimanere alle dipendenze del cedente. Condizione necessaria per poter effettuare tale scelta è che la medesima sia comunicata in forma scritta al cedente e al cessionario entro trenta giorni dalla comunicazione individuale al lavoratore dell’intervenuta cessione.

Inoltre, si prevede che, ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda e il rifiuto del lavoratore di proseguire il rapporto di lavoro col cessionario non costituiscono di per sé motivo di licenziamento.

Infine, confermando sostanzialmente una disposizioni già contenuta nella formulazione precedente del comma, si dispone l’applicazione della fattispecie del recesso per giusta causa, di cui all’articolo 2119 c.c., nel caso in cui le condizioni di lavoro del lavoratore ceduto subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda;

Si ricorda, in proposito, che il primo comma del citato articolo 2119, disciplina la fattispecie del recesso dal rapporto di lavoro per giusta causa, prevedendo che ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

 

§      con la lettera c) si modifica il testo del secondo periodo del quinto comma dell’articolo 2112 c.c., sostanzialmente riformulando il testo introdotto dal D.Lgs. 18 del 2001, previgente all’entrata in vigore del D.Lgs. 276 del 2003. La modifica (anch’essa di notevole rilevanza) è volta, come evidenziato dalla relazione, ad impedire la costituzione artificiosa di rami d’azienda interessati da cessione.

Più specificamente, con tale modifica, si richiede, ai fini dell’applicazione della disciplina sul trasferimento d’azienda di cui al medesimo art. 2112 c.c. anche al trasferimento di una parte dell’azienda, cioè del ramo d’azienda, che lo stesso ramo d’azienda presenti (oggettivamente) un’autonomia funzionale ai fini dell’esercizio di una attività economica già preesistente al trasferimento.

In sostanza, con tale modifica si estende alla cessione del ramo d’azienda il principio già previsto dalla vigente normativa con riferimento alla cessione dell’intero complesso aziendale, ai sensi del quale l’applicazione della disciplina dell’art. 2112 c.c. presuppone l’autonomia funzionale dell’attività economica ceduta. In tal modo si intende evitare che l’unico elemento che unifica il complesso di beni oggetto di trasferimento come ramo d’azienda sia la mera volontà delle parti (cedente e cessionario) al momento della cessione.

 

§      infine, la lettera d) modifica significativamente il sesto comma dell’articolo 2112 c.c. La nuova formulazione di tale comma stabilisce, nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, il diritto dei lavoratori - il cui rapporto sia stato trasferito all'acquirente appaltatore – ad  essere riassunti alle dipendenze dell’imprenditore cedente e committente in caso di cessazione dell’appalto, restando fermo, in ogni caso, il mantenimento dei trattamenti anche individuali in precedenza acquisiti.

Come posto in rilievo dalla relazione, la modifica in esame è volta ad impedire usi distorti dell’istituto del trasferimento d’azienda, evitando quindi che il trasferimento del ramo d’azienda al cessionario che diventa appaltatore possa essere strumentale per l’attuazione di una forma di licenziamento collettivo mascherato (che viene attuata tramite l’esternalizzazione del ramo d’azienda che si intende dismettere, seguita dalla liquidazione della società cessionaria e appaltatrice alla quale intanto sono stati trasferiti i lavoratori).

 

Si osserva che andrebbe chiarito l’inciso “fermi, in ogni caso, il mantenimento dei trattamenti anche individuali già acquisiti”. Tale inciso sembrerebbe potersi interpretare nel senso che il lavoratore che esercita la facoltà di farsi riassumere alle dipendenze dell’imprenditore cedente e committente nel caso di cessazione dell’appalto mantiene il diritto all’applicazione dei trattamenti economici e normativi (non solo previsti dalla contrattazione collettiva ma anche riconosciuti individualmente) già applicati dall’acquirente appaltatore, se più favorevoli.

 


Progetto di legge


 

N. 2261

¾

CAMERA DEI DEPUTATI

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PROPOSTA DI LEGGE

 

d’iniziativa del deputato

BURGIO, ZIPPONI, PAGLIARINI, FERRARA, ROCCHI,

PROVERA, DE CRISTOFARO

¾

 

Modifiche all'articolo 2112 del codice civile in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda

 

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Presentata il 14 febbraio 2007

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Onorevoli Colleghi! - Oggetto della presente proposta di legge è la modifica dell'articolo 2112 del codice civile, come modificato dall'articolo 32 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, di attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30. Lo scopo della presente proposta di legge è impedire - coerentemente con lo spirito di una norma significativamente intitolata «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda» - usi impropri dello strumento del trasferimento d'azienda al fine di ridurre le tutele dei lavoratori. È stato infatti ampiamente osservato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l'attuale testo dell'articolo 2112 del codice civile ha comportato una sorta di mutazione genetica di una norma in origine invocata dai lavoratori a protezione dei propri diritti in caso di trasferimento d'azienda e di sostituzione del datore di lavoro. La normativa vigente appare intesa piuttosto ad offrire un ombrello protettivo alle imprese, che la utilizzano in maniera sempre più massiccia a copertura delle più svariate e avventurose operazioni di esternalizzazione delle attività, delle strutture produttive e della manodopera.

      Con l'ausilio dell'articolo 2112 del codice civile sono frequentemente poste in essere sequenze operative atte a mascherare pratiche di licenziamento collettivo o, nel migliore dei casi, di precarizzazione dei rapporti di lavoro e di riduzione degli oneri di gestione del personale: sono estromessi i dipendenti dell'azienda o, più spesso, del ramo d'azienda ceduto senza il loro consenso (altrimenti necessario, secondo la disciplina civilistica della cessione del contratto ex articolo 1406 del codice civile) ed è evitata la complessa procedura dei licenziamenti collettivi (e ancor prima la corresponsione degli oneri derivanti dal ricorso alla cassa integrazione guadagni); viene realizzato il trasferimento in capo al cessionario degli oneri economici di gestione del personale (e in particolare del trattamento di fine rapporto, TFR), salvo trasferire all'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) il relativo onere in caso di successivo fallimento del cessionario (si pensi - a titolo di esempio - alla cessione della Standa, ossia alla vendita fraudolenta di un supermercato a un imprenditore poi fallito, con successivo addebito del TFR a carico del fondo di garanzia INPS: si veda Corte d'appello di Napoli, 23 marzo 2001, controversia «La Rinascente Spa contro Fallimento Ga.La Srl»; Tribunale di Nocera Inferiore, 29 maggio 2001, controversia «Vincenza e altri contro Standa Spa»); più spesso, viene operato il trasferimento di (porzioni di) attività, mezzi e personale a favore di società costituite ad hoc dalle imprese cedenti, che mantengono sulle prime il controllo: successivamente il cedente stipula con il cessionario un contratto in esclusiva di appalto di servizi (o di franchising, di distribuzione commerciale, di somministrazione o di sub-fornitura) che riporta le attività precedentemente esternalizzate nell'alveo originario del ciclo produttivo del cedente. A riprova del radicamento di tali condotte, vale qui ricordare una recente sentenza della Corte di cassazione (sezione lavoro, n. 10108, 2 maggio 2006), con la quale la suprema Corte stabilisce che «non è in frode alla legge, né concluso per motivo illecito, il contratto di cessione d'azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro».

      In questo contesto, non è un caso che il tema dei trasferimenti fraudolenti dei rami d'azienda abbia acquisito nuova rilevanza e attualità. Una normativa unilateralmente attenta agli interessi dell'impresa ha promosso una forma strisciante di precarizzazione dei rapporti di lavoro favorendo, da un lato, la separazione del lavoro dall'impresa in favore della quale esso è effettivamente prestato, dall'altro, un notevole risparmio degli oneri di gestione, diretti e indiretti, del personale. Non per caso le esternalizzazioni e i licenziamenti collettivi mascherati da trasferimento d'azienda figurano ai primi posti fra le modalità che articolano il generale processo di precarizzazione del lavoro. Gli effetti finali di tutte le predette operazioni costellano l'accidentato paesaggio del nostro apparato produttivo, gravemente indebolito dal frequente ricorso ad espedienti speculativi volti a recuperare quote di produttività non già investendo su ricerca e sviluppo tecnologico, bensì riducendo al minimo i «costi del lavoro».

      In materia, la più recente giurisprudenza ha evidenziato il diffondersi delle seguenti prassi, ritenute - anche in via disgiuntiva - indici del carattere fraudolento del trasferimento:

          a) anomalie nei rapporti tra cedente e cessionario, quali incroci di partecipazioni azionarie, identità degli amministratori, relazioni contrattuali in esclusiva;

          b) inadeguatezza del prezzo di cessione delle merci, delle attrezzature, del ramo di impresa;

          c) determinazione equivoca delle poste attive e passive;

          d) modalità anomale di pagamento (ad esempio, con eccessivi differimenti);

          e) insussistenza di garanzie da parte dell'acquirente;

          f) insussistenza di garanzie del cedente in ordine al pro quota idealmente maturato del TFR;

          g) disdetta delle utenze di servizio, dei contratti di fornitura e del contratto di affitto da parte del cedente, di contro alla normale perduranza prevista dall'articolo 2558 del codice civile e dall'articolo 36 della legge n. 392 del 1978;

          h) insufficiente approvvigionamento di merci e materie prime da parte del cessionario;

          i) mancato esercizio da parte del cessionario dei poteri direttivi sul personale;

          l) esercizio apparente dell'attività di impresa da parte del cessionario;

          m) esistenza di accordi sindacali limitativi del licenziamento collettivo a opera del cedente.

      Tale proliferare di pratiche abnormi rispetto alle normali modalità della conduzione d'impresa non può né deve stupire ove si rifletta sulla motivazione, tutta appiattita su una logica di valorizzazione delle esigenze delle imprese e del mercato, con cui la relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 276 del 2003, giustifica l'introduzione dei nuovi regimi di trasferimento d'azienda, di appalto di servizi e di somministrazione di lavoro, motivandoli sulla base dei «rilevanti processi di riorganizzazione aziendale e di ristrutturazione» in atto nell'attuale fase del processo di accumulazione e in base alle esigenze di competizione internazionale delle imprese italiane. Sulla base di queste premesse e di un generico riferimento a presunte «logiche della nuova economia», il decreto legislativo n. 276 del 2003 ha di fatto cancellato importanti norme poste a garanzia dei diritti del lavoro, accusandole di introdurre improvvide «rigidità» e disinvoltamente definendole «obsolete». Si comprende in tal modo come l'articolo 2112 del codice civile abbia potuto trasformarsi, da norma protettiva dei lavoratori, in un pericoloso strumento utile a sottrarre loro sicurezza e stabilità d'impiego e a ridurre, talvolta drasticamente, trattamenti economici e tutele normative.

      Un attento esame della norma consente di ricondurre a tre elementi cruciali l'efficacia di un impianto normativo informato dalla esclusiva volontà di favorire il «sistema delle imprese».

      In primo luogo, la vigente versione dell'articolo 2112 del codice civile instaura, nel trasferimento delle condizioni, un automatismo che - in contrasto con quanto disposto dall'articolo 1406 del codice civile - esclude l'espressione della volontà dei lavoratori e cancella il diritto dei lavoratori di rifiutare il trasferimento conservando il rapporto di lavoro con il cedente. Ai sensi dei commi primo e terzo dell'articolo 2112 del codice civile, in caso di cessione dell'azienda o di un suo ramo, i rapporti di lavoro dei dipendenti addetti passano infatti automaticamente - cioè, senza necessità di consenso da parte dei lavoratori - al cessionario, onde ai lavoratori trasferiti si applicano immediatamente i contratti collettivi, nazionali e aziendali applicati dal cessionario, sempre che esistano (in caso contrario continuano ad applicarsi, ma solo fino alla data di scadenza, quelli già vigenti presso il cedente); ai sensi del quarto comma, l'eventuale volontà del lavoratore di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario dà adito esclusivamente alla possibilità di risoluzione del rapporto stesso, previe dimissioni del dipendente.

      A ciò si aggiunga, in secondo luogo, che la vigente normativa ha fortemente incoraggiato la costituzione di società ad hoc, create al solo scopo di operare trasferimenti, rafforzando le spinte alla liberalizzazione del regime delle esternalizzazioni a danno dei lavoratori. È infatti bastato moltiplicare le ipotesi di applicabilità dell'articolo 2112 del codice civile per moltiplicare anche le ipotesi di passaggio di attività, strutture e manodopera verso un cessionario che applica contratti nazionali o aziendali peggiori (o non ne applica alcuno). Tale moltiplicazione (affidata all'attuale previsione del quinto comma dell'articolo 2112 del codice civile) è avvenuta abolendo il riferimento all'autonomia funzionale oggettivamente preesistente contenuto nell'articolo 1 del decreto legislativo n. 18 del 2001, sostitutivo dell'articolo 2112 del codice civile, e ribadito tanto dalla normativa europea (si veda la direttiva comunitaria 2001/23/CE sul trasferimento d'azienda, che all'articolo 1, lettera b), subordina l'istituto giuridico del trasferimento al mantenimento dell'«identità» dell'entità economica ceduta, «intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica»), quanto dagli orientamenti della Cassazione (sentenza n. 17207 del 4 dicembre 2002, secondo la quale il ramo d'azienda «deve presentarsi come una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo» e deve pertanto «preesistere alla vicenda traslativa, nel senso che già prima esso deve essere identificabile e idoneo a funzionare autonomamente») e della Corte di giustizia delle Comunità europee. L'accantonamento di tale principio ha consentito al cedente e al cessionario di plasmare a proprio piacimento pretesi rami d'azienda, considerando ramo d'azienda qualsiasi compendio di beni e rapporti lavorativi, pure in precedenza privo di autonomia funzionale. Si è in sostanza sostituito un criterio oggettivo (e per ciò stesso tale da offrire tutela ad entrambe le parti coinvolte nel rapporto di lavoro) con la rappresentazione soggettiva (cioè arbitraria) prospettata da una sola parte: l'impresa, incarnata nelle persone del cedente e del cessionario, e interessata ad operare il trasferimento. Appare evidente come anche in forza di questo passaggio sia stata di fatto operata l'esclusione dei lavoratori, considerati alla stregua di un qualsiasi altro bene aziendale, dal novero delle soggettività titolate ad esprimere le proprie valutazioni e a far valere la propria volontà. L'attuale formulazione dell'articolo 2112 del codice civile presta così il fianco a interpretazioni giuridiche che - rischiando di travolgere gli orientamenti giurisprudenziali garantistici elaborati, non a caso, prima dell'entrata in vigore dell'articolo 32 del decreto legislativo n. 276 del 2003 - rendono palese la sostanziale equiparazione dei lavoratori al capitale fisso, con conseguente coincidenza tra la nozione di trasferimento d'azienda e quella di mero trasferimento collettivo di dipendenti (si veda da ultimo la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 22232 del 17 ottobre 2006, stando alla quale «può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati e organizzati tra loro [...], realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex articolo 1406 e seguenti del codice civile»). Nel momento in cui l'unico elemento unificante il complesso di beni oggetto di cessione è costituito dalla volontà dei contraenti, diventa infatti impossibile invocare quei princìpi giurisprudenziali sopra richiamati (si veda, tra le tante, la citata sentenza della Cassazione n. 17207 del 2002) che - pretendendo che il ramo ceduto preesistesse alla vicenda traslativa e fosse quindi già in precedenza identificabile come tale e idoneo a funzionare autonomamente - consentivano, in un'ottica di tutela dei diritti dei lavoratori coinvolti, un costante controllo e un'efficace limitazione delle operazioni traslative attuate in frode alla legge.

      A completare un quadro normativo gravemente sbilanciato nelle sue ragioni ispiratrici e nei suoi effetti concreti si aggiunga, in terzo luogo, il fatto che l'attuale normativa nulla precisa in merito alla sorte del ramo d'azienda dopo la cessione. A questo riguardo è stato correttamente osservato in dottrina come l'insieme di tali innovazioni rischi di rendere legittimo il trasferimento di parti integranti di imprese, prive di qualunque preesistente autonomia nell'organizzazione del cedente, e che tuttavia la acquistino, nella valutazione delle parti, in sede di contratto di trasferimento e solo in quel momento, per poi poterla perdere nuovamente, anche subito dopo, perché diversamente integrate e organizzate - o perché addirittura soppresse - dal cessionario.

      L'ultimo comma dell'articolo 2112 del codice civile, introdotto dall'articolo 32 del decreto legislativo n. 276 del 2003, rende del resto palese la scelta di campo sottesa a tale normativa, nella misura in cui consente di scorporare una parte dell'azienda, individuata al momento, e di alienarla a un cessionario (o meglio a un fiduciario) che assuma anche l'appalto di fornitura di beni o semilavorati prima direttamente prodotti dall'azienda del cedente, ma li fornisca a prezzi inferiori in virtù del peggior trattamento che egli può praticare ai lavoratori forzosamente trasferiti alle sue dipendenze. Ove si consideri, oltre a ciò, che il più delle volte questo «appaltatore di fiducia» è una società di capitali allo scopo costituita dallo stesso cedente, si comprenderà agevolmente come la cessione del ramo d'azienda celi assai spesso una criptica manovra di licenziamento collettivo, con la quale prima si esternalizza la parte di attività che si intende dismettere e in seguito si mette in liquidazione la società cessionaria e appaltatrice in forza alla quale sono stati intanto trasferiti i lavoratori.

      Tale quadro, tutt'altro che infrequente, è il motivo ispiratore della presente proposta di legge, volta, come si è detto, a precludere l'uso improprio dello strumento del trasferimento d'azienda (o di ramo d'azienda) e a ripristinare, coerentemente con la rubrica e con la ratio originaria dell'articolo 2112 del codice civile, le precedenti tutele dei diritti dei lavoratori, a cominciare dal diritto di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario e di mantenere il rapporto di lavoro col cedente, senza che ciò possa in alcun modo costituire giustificato motivo di licenziamento. Poiché è indubbiamente questo il tema cruciale della presente proposta di legge, vale la pena di soffermarsi sugli aspetti normativi che lo riguardano sia nel contesto della legislazione italiana, sia nel quadro della normativa comunitaria.

      Per quanto concerne la prima, appare prioritario ricordare la disposizione generale contenuta nell'articolo 1406 del codice civile, che condiziona all'esplicito consenso dell'«altra parte» contraente la possibilità di sostituire a sé un terzo «nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive». L'attuale formulazione dell'articolo 2112 del codice civile priva il lavoratore di una facoltà attribuitagli dall'articolo 1406 del codice civile e che egli potrebbe avere interesse a esercitare. Si consideri a questo riguardo che, negando qualsiasi automatismo, la stessa Corte di cassazione ha affermato (sentenza n. 10963 del 18 agosto 2000) che, relativamente al passaggio del rapporto di lavoro, l'articolo 2112 del codice civile non disciplina un mero effetto giuridico, riconnesso ope legis al mutamento di titolarità dell'azienda, bensì un diritto soggettivo perfetto del lavoratore avente per oggetto precisamente la conservazione del posto di lavoro in caso di trasferimento dell'azienda. Tale diritto è contraddistinto sia dal requisito della derogabilità (e dunque della rinunciabilità), sia (anche prescindendo dall'esistenza o meno di un trasferimento ex articolo 2112 del codice civile annunciato o in atto) dal requisito dell'attualità, sotto quest'ultimo profilo dovendo essere assimilato al diritto alla stabilità del posto di lavoro, che è parte integrante del patrimonio di diritti del lavoratore fin dal momento della costituzione del rapporto medesimo. La suprema Corte è del tutto esplicita nel collocare «il diritto di conservare il posto di lavoro in caso di trasferimento dell'azienda» entro il «bagaglio di diritti del lavoratore» costituitisi «sin dal sorgere del rapporto». Di qui la piena validità anche della rinuncia al passaggio manifestata anticipatamente rispetto a un preannunciato trasferimento della titolarità dell'azienda: «Se dunque - osserva la Corte -, in vista e a causa del prossimo trasferimento d'azienda già rientrante nelle notorie previsioni formulate anche in sede sindacale, il lavoratore rinuncia al diritto a trasmigrare nell'impresa subentrante [...], non si verte in tema di rinuncia a futuri, eventuali e non precisati diritti, bensì di rinuncia ad attuali, concreti ed individuati diritti».

      A ciò si aggiunga un'ulteriore considerazione di carattere sistematico, relativa alla complessiva coerenza dell'ordinamento. Com'è noto, nell'ipotesi di trasferimento delle aziende in crisi di cui all'articolo 47, comma 5, della legge n. 428 del 1990, la volontà dei singoli lavoratori assume rilevanza decisiva anche per quanto concerne l'accordo sulla deroga alla disciplina generale (la quale ultima comporterebbe, onerosamente, il passaggio del rapporto di lavoro al subentrante a parità di condizioni). Diverse sentenze della Cassazione (sezione lavoro n. 8907, 19 agosto 1991, nonché n. 11004, 23 ottobre 1995) affermano che, senza il suo individuale consenso, l'eventuale deroga pattuita a livello collettivo non può essere opposta al singolo lavoratore. Posto dunque che il lavoratore dipendente da un'azienda in crisi gioca un ruolo decisivo nel pattuire l'esclusione delle tutele di legge in suo favore, sarebbe del tutto incongruo, in un'ottica di sistema, precludere invece al dipendente occupato in un'azienda vitale qualsivoglia ruolo decisionale in ordine alla sorte del suo rapporto lavorativo.

      Per quanto attiene alle normative comunitarie, è sufficiente il rinvio a quanto disposto nell'articolo 3 della direttiva 77/187/CEE del Consiglio, del 14 febbraio 1977, concernente l'armonizzazione della legislazione degli Stati membri in materia di tutela dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, tanto più che nella interpretazione di tale direttiva - pur riservando agli Stati membri il compito di «stabilire la disciplina riservata al contratto o al rapporto di lavoro col cedente» - la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee appare univocamente orientata a riconoscere la piena legittimità di normative nazionali dei singoli Stati membri che prevedano il diritto del lavoratore di «opporsi al trasferimento al cessionario del suo contratto o del suo rapporto di lavoro» (sentenza 16 dicembre 1992, cause riunite C-132/91, C-138/91, C-139/91, Katsikas e altri, punti 31-33; sentenza 24 gennaio 2002 resa nel procedimento C-51/00, Temco Service Industries Sa e altri, punti 36 e 37). Proprio il confronto con la normativa e la giurisprudenza comunitaria consente di cogliere appieno l'ispirazione della vigente normativa italiana, manifestamente favorevole agli interessi dell'impresa. L'orientamento della Corte di giustizia delle Comunità europee discende dal fatto che finalità immediata ed esclusiva della disciplina comunitaria è - secondo la lettura della stessa Corte - la tutela sociale dei lavoratori (cosiddetta ratio lavoristica), rimanendo invece estranea, tanto alla .direttiva quanto alle decisioni della Corte, l'eventuale funzione di sostegno all'operazione imprenditoriale di circolazione dell'impresa (cosiddetta ratio commercialistica). L'attuale previsione dell'articolo 2112 del codice civile muove per contro dall'assunto che compito prioritario delle norme sia approntare la «cornice giuridica» più propizia allo sviluppo economico, e dunque più idonea a favorire il «sistema delle imprese», anche laddove ciò comporti la compressione di diritti soggettivi, come si è visto declassati ad «obsolete rigidità».

      Per le ragioni fin qui esposte, l'articolo 1, comma 1, lettera a), della presente proposta di legge sostituisce l'attuale primo comma dell'articolo 2112 del codice civile, facendo salva l'ipotesi di cui al quarto comma (come sostituito dall'articolo 1, comma 1, lettera b) della presente proposta di legge), e pone le premesse all'introduzione del principio per cui il lavoratore occupato dal cedente alla data del trasferimento può legittimamente opporsi al trasferimento al cessionario del proprio rapporto di lavoro.

      L'articolo 1, comma 1, lettera b), nel sostituire l'attuale quarto comma dell'articolo 2112 del codice civile, contiene la norma centrale della presente proposta di legge, ossia la disposizione che riconosce al lavoratore ceduto il diritto di rifiutare la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario e di mantenere il contratto di lavoro col cedente, senza che ciò possa in alcun modo costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento. Lo stesso quarto comma dell'articolo 2112 del codice civile, come sostituito dalla citata lettera b), disciplina altresì le modalità di esercizio del diritto di rifiuto dei lavoratori, specificando che la volontà di non proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario deve essere manifestata in forma scritta sia al cedente che al cessionario entro il termine di trenta giorni a decorrere dalla comunicazione individuale dell'intervenuta cessione.

      L'articolo 1, comma 1, lettera c), della presente proposta di legge modifica il quinto comma dell'articolo 2112 del codice civile onde impedire l'artificiosa costituzione ad hoc di rami d'azienda da trasferire. A tal fine estende alle singole parti dell'azienda il principio (che l'attuale quinto comma prevede solo nel caso di trasferimento dell'intera impresa) in base al quale l'applicazione dell'articolo 2112 del codice civile presuppone l'autonomia funzionale del ramo d'azienda, oggettivamente preesistente al trasferimento. L'estensione di tale principio alle parti dell'azienda mira ad impedire che elemento unificante il complesso di beni oggetto di cessione sia la mera volontà dei contraenti (cedente e cessionario del preteso ramo d'azienda).

      Infine, l'articolo 1, comma 1, lettera d), della presente proposta di legge sostituisce il sesto comma dell'articolo 2112 del codice civile (introdotto dall'articolo 32 del decreto legislativo n. 276 del 2003), prevedendo il diritto dei lavoratori ceduti di essere riassunti dal cedente in caso di cessazione dell'appalto, e ciò al fine di impedire che la cessione del ramo d'azienda al cessionario che diviene appaltatore possa celare - come è pure accaduto - una criptica manovra di licenziamento collettivo (mercé la quale prima si esternalizza il ramo d'azienda che si intende dismettere, poi si mette in liquidazione la società cessionaria e appaltatrice in forza alla quale sono intanto passati i lavoratori). Anche tale modifica è finalizzata a prevenire usi distorti e fraudolenti dell'istituto giuridico in questione.


 


 


proposta di legge

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Articolo 1

 

      1. All'articolo 2112 del codice civile, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) il primo comma è sostituito dal seguente:

      «In caso di trasferimento d'azienda e fatta salva la facoltà del lavoratore di cui al quarto comma, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano»;

          b) il quarto comma è sostituito dal seguente:

      «Il lavoratore ha la facoltà di decidere di non proseguire il rapporto di lavoro col cessionario e di rimanere alle dipendenze del cedente. Tale volontà deve essere manifestata in forma scritta al cedente e al cessionario entro trenta giorni dalla comunicazione individuale al lavoratore dell'intervenuta cessione. Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda e il rifiuto del lavoratore di proseguire il rapporto di lavoro col cessionario non costituiscono di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore ceduto, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma»;

          c) al quinto comma, il secondo periodo è sostituito dal seguente: «Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica preesistente, come tale, al trasferimento»;

          d) il sesto comma è sostituito dal seguente:

      «Nel caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, è riconosciuto ai lavoratori, il cui rapporto è stato trasferito all'acquirente appaltatore, il diritto di essere riassunti alle dipendenze dell'imprenditore cedente e committente in caso di cessazione dell'appalto, fermi, in ogni caso, il mantenimento dei trattamenti anche individuali già acquisiti».

 

 




[1]     “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30”.

[2]     Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro.

[3]     Si tratta sostanzialmente delle imprese rientranti nel campo di applicazione della CIGS.

[4]     Il contributo d’ingresso, previsto dall’art. 4, comma 3, della L. 223/1991, è pari ad una mensilità di massimale lordo CIGS per ogni lavoratore che si intende licenziare. Tale versamento costituisce una anticipazione di quanto dovuto complessivamente all’INPS per la procedura di mobilità. Difatti, ai sensi dell’art. 5 della L. 223/1991, nel corso della procedura il datore di lavoro è tenuto a versare, per ciascun lavoratore licenziato e beneficiario dell’indennità di mobilità, in trenta rate mensili, una somma pari a sei volte il trattamento iniziale netto di mobilità spettante al lavoratore in 30 rate mensili, se il licenziamento è avvenuto dopo la utilizzazione della CIGS. Nel caso di riduzione del personale senza aver utilizzato prima la CIGS, il contributo complessivo è invece pari a nove volte il trattamento iniziale netto di mobilità. Comunque l’importo da pagare da parte del datore di lavoro è ridotto a tre volte il trattamento netto di mobilità nel caso in cui la messa in mobilità avviene previo accordo sindacale.

Si ricorda inoltre che è esonerata dal versamento delle residue rate del contributo d’ingresso dovuta l’azienda che procuri ai lavoratori offerte di lavoro a tempo indeterminato aventi determinate caratteristiche (Circ. INPS 7 settembre 2001, n. 171).

[5]     In particolare, ai sensi dell’articolo 16 della L. 223 del 1991, i lavoratori collocati in mobilità hanno diritto alla relativa indennità a condizione che, avendo un rapporto di lavoro a carattere continuativo e comunque non a termine, possano vantare un’anzianità aziendale di almeno 12 mesi, di cui almeno 6 di lavoro effettivamente prestato, ivi compresi i periodi di sospensione del lavoro derivanti da ferie, festività, infortuni, astensione per maternità e congedi parentali.

[6]     In entrambi i casi lo sgravio contributivo non riguarda i premi INAIL, che restano quindi dovuti per intero.

[7]    Attuativo della direttiva n. 77/187/CE.

[8]     “Attuazione della direttiva 98/50/CE relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti”

[9]     “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”.

[10]    Si ricorda che l’articolo 1676 c.c. prevede la possibilità per i dipendenti dell’appaltatore che hanno prestato la loro attività per eseguire la specifica opera di proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino a concorrenza del debito del committente verso l’appaltatore.