Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Titolo: Modifiche al decreto legislativo n. 368 del 2001, contratti di lavoro a tempo determinato - A.C. 1807
Riferimenti:
AC n. 1807/XV     
Serie: Progetti di legge    Numero: 81
Data: 06/12/2006
Descrittori:
CONTRATTI DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO     
Organi della Camera: XI-Lavoro pubblico e privato


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 
SERVIZIO STUDI

 

Progetti di legge

 

 

Modifiche al decreto legislativo n. 368 del 2001, contratti di lavoro a tempo determinato

 

A.C. 1807

 

 

 

 

 

 

 

N. 81

 

 

6 dicembre 2006

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento Lavoro

 

SIWEB

 

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File: LA0100


INDICE

Scheda di sintesi per l’istruttoria legislativa

Dati identificativi3

Struttura e oggetto  4

§      Contenuto  4

§      Relazioni allegate  5

Elementi per l’istruttoria legislativa  6

§      Necessità dell’intervento con legge  6

§      Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite  6

§      Compatibilità comunitaria  6

§      Impatto sui destinatari delle norme  9

§      Formulazione del testo  9

Schede di lettura

§      Quadro normativo precedente al D.Lgs. 368 del 2001  13

§      La direttiva 1999/70/UE   18

§      Il Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368  20

§      Il contenuto della pdl 1807 (Burgio ed altri)27

Progetto di legge

§      A.C. 1807, On. Burgio ed altri, Modifiche al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in materia di contratti di lavoro a tempo determinato  41

Normativa nazionale

§      Costituzione della Repubblica Italiana (art. 97)53

§      Codice Civile (artt. 1419, 2097 e 2222-2228)54

§      L. 15 agosto 1949, n. 533 Norme sulla durata dei contratti individuali di lavoro dei salariati fissi dell'agricoltura e sulle relative controversie (art. 1)57

§      L. 18 aprile 1962, n. 230 Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato.58

§      D.L. 3 dicembre 1977, n. 876 Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato nei settori del commercio e del turismo (art. 1)62

§      L. 24 novembre 1978, n. 737 Proroga dell'efficacia delle norme sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato nei settori del commercio e del turismo (art. 1)63

§      L. 26 novembre 1979, n. 598 Ulteriore proroga dell'efficacia delle norme sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato nei settori del commercio e del turismo  64

§      D.L. 29 gennaio 1983, n. 17 Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione (art. 8-bis)65

§      L. 28 febbraio 1987, n. 56 Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro (art. 23)66

§      L. 23 luglio 1991, n. 223 Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro (art. 8)68

§      L. 24 giugno 1997, n. 196 Norme in materia di promozione dell'occupazione (art. 3)70

§      L. 12 marzo 1999, n. 68 Norme per il diritto al lavoro dei disabili (art. 11)72

§      D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53. (art. 4)74

§      D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (art. 36)75

§      D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES.77

Giurisprudenza

§      Corte costituzionale - Sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 41  87

§      Cassazione civile Sez. lavoro, 21 maggio 2002, n. 7468  92

§      Corte di giustizia delle Comunità europee (Grande Sezione) Sentenza del 22 novembre 2005 «Direttiva 1999/70/CE – Clausole 2, 5 e 8 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato – Direttiva 2000/78/CE – Art. 6 – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Discriminazione legata all’età». Nel procedimento C-144/04,102

§      Corte costituzionale Ordinanza 21-28 giugno 2006, n. 252  115

Allegati

§      Comparto Ministeri: CCNL integrativo del 16 maggio 2001 (art. 19)121

§      Ministero del lavoro e delle politiche sociali: Circolare 1 agosto 2002, n. 42. Decreto legislativo n. 368/2001, recante la nuova disciplina giuridica sul lavoro a tempo determinato. Prime indicazioni applicative.125

 

 


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Scheda di sintesi
per l’istruttoria legislativa


Dati identificativi

Numero del progetto di legge

A.C. 1807

Titolo

Modifiche al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in materia di contratti di lavoro a tempo determinato

Iniziativa

On. Burgio ed altri

Settore d’intervento

Lavoro

Iter al Senato

no

Numero di articoli

3

Date

 

§       presentazione o trasmissione alla Camera

11 ottobre 2006

§       annuncio

12 ottobre 2006

§       assegnazione

8 novembre 2006

Commissione competente

11ª Commissione Lavoro

Sede

referente

Pareri previsti

1ª Affari istituzionali

 

2ª Giustizia

 

10ª Attività produttive

 

14ª Politiche dell’Unione europea

 


 

Struttura e oggetto

Contenuto

La proposta di legge C.1807 Burgio ed altri, partendo dal presupposto che il D.Lgs. 368 del 2001 che attualmente disciplina il contratto di lavoro a tempo determinato si presta ad un “abuso” dell’utilizzo del rapporto di lavoro a termine, è volto a ripristinare espressamente il principio (già previsto dalla normativa abrogata dalla riforma introdotta dal D.Lgs. 368/2001) per cui il rapporto di lavoro deve essere “di norma” stipulato a tempo indeterminato, limitando la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro solamente nei casi di comprovate esigenze aziendali di natura temporanea e circostanziata.

Si dispone inoltre espressamente, fugando eventuali dubbi interpretativi posti dalla disciplina vigente, che l’onere di provare l’esistenza delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine spetta al datore di lavoro e che l’insussistenza delle ragioni addotte per giustificare l’apposizione del termine determina solamente l’inefficacia della relativa clausola ma non si ripercuote sulla validità dell’intero contratto di lavoro che dovrebbe quindi intendersi stipulato a tempo indeterminato.

La pdl in esame interviene anche sulla disciplina relativa alla proroga del contratto a tempo determinato, prevedendosi che il termine del rapporto a tempo determinato possa essere eccezionalmente prorogato, con il consenso del lavoratore, solamente nel caso in cui la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni; con esclusivo riferimento all’ipotesi della proroga, la durata complessiva del rapporto a tempo determinato non può essere superiore a tre anni. La proroga è ammessa una sola volta, purché sia richiesta da ragioni contingenti e imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato. Si prevede la conseguenza dell’inefficacia dell’apposizione del termine anche nel caso di insussistenza delle ragioni addotte per giustificare la proroga.

Infine la pdl interviene anche sulla disciplina del diritto di precedenza all’assunzione a tempo indeterminato presso la medesima azienda, prevedendosi ope legis il medesimo diritto di precedenza per tutti i lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato con la medesima qualifica, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (viene quindi eliminata la previsione secondo cui il diritto di precedenza si estingue dopo un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro).

Relazioni allegate

Al provvedimento è allegata la relazione illustrativa.


 

Elementi per l’istruttoria legislativa

Necessità dell’intervento con legge

L’intervento con legge si rende necessario in quanto il provvedimento in esame, novellando il D.Lgs. 368/2001, è volto a modificare disposizioni di rango legislativo.

Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite

Le disposizioni del provvedimento rientrano nella materia dell’«ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lettera l), della Costituzione.

Compatibilità comunitaria

Esame del provvedimento in relazione alla normativa comunitaria

Il provvedimento nel merito, poiché appare sostanzialmente conforme ai principi contenuti nell’accordo-quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, non presenta profili problematici con riferimento alla compatibilità con la normativa comunitaria. Si ricorda al riguardo che la clausola 8.1 dell’accordo-quadro dispone che gli Stati membri possono introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel medesimo accordo-quadro.

Tuttavia andrebbero considerate le implicazioni, sulla procedura di modifica della disciplina vigente in materia di lavoro a tempo determinato, della previsione del Preambolo dell’accordo-quadro, secondo cui “le parti firmatarie del presente accordo chiedono che le parti sociali siano consultate prima di qualunque iniziativa di ordine legislativo, normativo o amministrativo assunta da uno Stato membro per conformarsi al presente accordo”. In particolare sarebbe da valutare se una qualche forma di coinvolgimento delle parti sociali sia richiesta anche per eventuali iniziative legislative volte a modificare i provvedimenti legislativi già approvati per conformarsi all’accordo (e quindi alla disciplina comunitaria), come è il caso della proposta di legge in esame.

Documenti all’esame delle istituzioni europee

(a cura dell'Ufficio rapporti con l'Unione Europea)

Libro verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro

Il 22 novembre 2006 la Commissione ha presentato il Libro verdeModernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo” (COM(2006) 708). Il documento intende lanciare un dibattito pubblico sull’evoluzione del diritto del lavoro in modo tale da sostenere gli obiettivi della strategia di Lisbona, in particolare al fine di ottenere una crescita sostenibile con più posti di lavoro di migliore qualità.

La Commissione sottolinea che i mercati del lavoro europei debbono conciliare una maggiore flessibilità con la necessità di massimizzare la sicurezza per tutti  e ricorda che gli Orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008[1], adottati il 12 luglio 2005, rilevano l’esigenza di adattare la legislazione del lavoro per promuovere la flessibilità insieme alla sicurezza (cd. “flessicurezza”) dell’occupazione e ridurre la segmentazione del mercato del lavoro[2].

Il Libro verde intende esaminare il ruolo che potrebbe svolgere il diritto del lavoro nel promuovere la “flessicurezza” nell’ottica di un mercato del lavoro più equo, più reattivo e più inclusivo, in grado di contribuire a rendere più competitiva l’Europa. La Commissione intende pertanto:

 

La Commissione avvierà la consultazione pubblica sulle questioni sollevate dal libro verde per un periodo di quattro mesi, a decorrere dal 1° dicembre 2006. Al termine di tale periodo, le principali questioni e opzioni politiche identificate saranno esaminate in una comunicazione, che sarà presentata nel 2007, nel  contesto di una serie di iniziative adottate in collaborazione con gli Stati membri sul tema della “flessicurezza”. In tale ambito, la Commissione preannuncia, inoltre, - per giugno 2007 - una comunicazione volta a definire gli argomenti a favore della flessicurezza, nonché una serie di principi comuni volti ad aiutare gli Stati membri ad aumentare gli sforzi nel processo di riforma.

Proposta di direttiva sulle condizioni di lavoro dei lavoratori temporanei

Il Libro verde ricorda, infine, che nel 2002 la Commissione ha presentato una proposta di direttiva sulle norme minime relative alle condizioni di lavoro dei lavoratori temporanei (COM(2002)149), sulla quale il Consiglio non ha raggiunto sino ad oggi una posizione comune.

La proposta fissa una tutela minima comunitaria lasciando a Stati membri e parti sociali il compito di adeguarla alle specificità nazionali. Inoltre, si prospetta un dispositivo per migliorare la situazione dei lavoratori temporanei, agevolandone l’accesso all’occupazione permanente, migliorandone le condizioni materiali di lavoro (accesso ai servizi sociali dell’impresa utilizzatrice) e rafforzandone le capacità d’inserimento professionale (accesso alle formazioni organizzate dall’agenzia di lavoro interinale e dall’impresa utilizzatrice).

A seguito della prima lettura del Parlamento europeo, avvenuta il 21 novembre 2002 nell’ambito della procedura di codecisione, la Commissione ha presentato, il 28 novembre 2002, una proposta modificata (COM(2002)701). Il Consiglio occupazione del 2-3 giugno 2003 non ha raggiunto l’accordo politico sulla posizione comune: il principale punto di disaccordo riguarda la natura della deroga al principio generale della parità di trattamento. La proposta modificata della Commissione stabilisce infatti il principio della parità di trattamento, in virtù del quale i lavoratori temporanei devono beneficiare delle medesime condizioni di base di lavoro che si applicherebbero se essi fossero direttamente impiegati dall’impresa utilizzatrice per svolgervi il medesimo lavoro; la proposta consente una deroga a tale principio per quanto riguarda la retribuzione di lavoratori temporanei che svolgono prestazioni della durata massima di 6 settimane.

Il 4 ottobre 2004 il Consiglio ha proceduto ad un ulteriore dibattito sul progetto di direttiva, al termine del quale è stato riconosciuto che occorrono ulteriori sforzi per pervenire ad un compromesso accettabile per tutte le delegazioni.

Impatto sui destinatari delle norme

Il provvedimento, ripristinando espressamente il principio secondo cui il rapporto di lavoro “di norma” debba essere instaurato a tempo indeterminato, sembrerebbe restringere sensibilmente per i datori di lavoro la possibilità di ricorrere ai contratti di lavoro a termine e quindi di utilizzare tale forma di “flessibilizzazione” del lavoro. Difatti l’apposizione del termine viene prevista solamente a fronte di ragioni temporanee e circostanziate, ponendosi a carico del datore di lavoro anche l’onere di provare la ricorrenza delle medesime ragioni. Si consideri tuttavia che in realtà l’impatto del provvedimento sui datori di lavoro sarebbe in parte “ridimensionato” dal fatto che la giurisprudenza maggioritaria interpreta la normativa vigente nel senso che già la stessa impone al datore di lavoro i limiti più severi relativi all’apposizione del termine che il provvedimento in esame intende introdurre in maniera espressa.

Vengono introdotte disposizioni più restrittive nei confronti dei datori di lavoro anche per quanto riguarda la possibilità di prorogare il rapporto a termine, disponendosi la eccezionalità della proroga e la necessità che essa sia giustificata da ragioni contingenti ed imprevedibili.

Come conseguenza della disciplina più restrittiva prevista per i datori di lavoro, il provvedimento amplia sul piano strettamente giuridico le tutele di cui godono i lavoratori, sgravandoli dall’onere di provare l’insussistenza delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine e disponendo espressamente che l’insussistenza delle medesime ragioni non si ripercuote sulla validità del contratto, che quindi è da intendersi a tempo indeterminato. Inoltre viene introdotta per i lavoratori a tempo determinato, indipendentemente dalla natura delle prestazioni o dal settore produttivo, una disciplina più favorevole per quanto riguarda il diritto di precedenza nell’assunzione a tempo indeterminato presso la stessa azienda presso cui hanno prestato servizio.

Formulazione del testo

All’articolo 2 si osserva che dall’insussistenza delle ragioni “contingenti e imprevedibili” che giustificano la proroga del rapporto di lavoro il testo sembrerebbe far discendere l’inefficacia dell’apposizione del termine, per cui il rapporto di lavoro dovrebbe considerarsi a tempo indeterminato.


Schede di lettura


Quadro normativo precedente al D.Lgs. 368 del 2001

Casi nei quali era consentita la stipula di un contratto a termine

Il lavoro a tempo determinato, prima dell’introduzione del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 - emanato in attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES -, era regolato, in via principale, dalla L. 18 aprile 1962, n. 230[3], che, abrogando la precedente disciplina di cui all’articolo 2097 del codice civile[4], elencava in modo tassativo le ipotesi in cui fosse possibile apporre un termine al contratto di lavoro (articolo 1).

Pertanto il contratto di lavoro si reputava a tempo indeterminato, salvo i casi in cui l’apposizione del termine fosse, appunto, espressamente consentita, ovvero:

a)    quando ciò era richiesto dalla speciale natura dell'attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima;

b)    quando l'assunzione avesse luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussisteva il diritto alla conservazione del posto, purché nel contratto di lavoro a termine fosse indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione ;

c)    quando l'assunzione avesse luogo per la esecuzione di un'opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale;

d)    per le lavorazioni a fasi successive che richiedevano maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi fosse continuità di impiego nell'ambito dell'azienda;

e)         nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi ;

f)     quando l'assunzione venisse effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed avesse luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, nei periodi e nei limiti percentuali rispetto all'organico aziendale previsti dall'articolo unico della L. 84 del 1986[5], che aveva introdotto tale fattispecie nel testo del citato articolo 1 della richiamata L. 230 del 1962.

Si consideri come tutte le ipotesi elencate tassativamente dall’articolo 1 della L. 230 del 1962 erano connotate dalla caratteristica della temporaneità dell’esigenza aziendale di utilizzare una prestazione lavorativa.

Ai sensi dell'articolo 4 della stessa L. 230, inoltre, erano esclusi dal divieto di assunzione a termine i dirigenti tecnici ed amministrativi (i contratti a termine con questi soggetti non potevano avere una durata superiore a 5 anni). La medesima legge, inoltre (articolo 6), non si applicava ai rapporti tra i datori di lavoro agricolo ed i salariati fissi comunque denominati, rapporti per i quali l'articolo 1 della L. 533 del 1949[6] prevedeva una durata minima di 2 anni.

Un'ulteriore fattispecie di ammissibilità del contratto di lavoro a tempo determinato è stata in seguito introdotta, prima in via transitoria e poi in maniera stabile, per effetto del combinato disposto dell'articolo 1 del D.L. 3 dicembre 1977, n. 876[7] convertito, con modificazioni, dalla L. 3 febbraio 1978, n. 18, dell’articolo 1 della L. 24 novembre 1978, n. 737 e dell'articolo 1 della L. 26 novembre 1979, n. 598[8]. Tali disposizioni consentivano, nei settori del commercio e del turismo, la stipulazione di contratti di lavoro a termine allorché si verificasse, in determinati e limitati periodi dell'anno, una necessità di intensificazione dell'attività lavorativa alla quale non fosse possibile sopperire con il normale organico; tali condizioni e periodi dovevano essere accertati, prima delle assunzioni, con provvedimento del capo dell'ispettorato provinciale del lavoro, sentite le organizzazioni sindacali provinciali di categoria maggiormente rappresentative. In seguito l'articolo 8-bis del D.L. 29 gennaio 1983, n. 17[9], convertito, con modificazioni, dalla L. 25 marzo 1983, n. 79, ha esteso tale fattispecie di ammissibilità del contratto a termine a tutti i settori economici.

Successivamente, l'articolo 23 della L. 28 febbraio 1987, n. 56[10], stabilì che il ricorso all'istituto del contratto a termine fosse consentito anche nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, precisando che in tal caso i medesimi contratti collettivi dovessero stabilire la quota percentuale dei lavoratori che potevano essere assunti a termine rispetto al numero dei dipendenti a tempo indeterminato[11]. In tal modo, con una novità di notevole rilievo sul piano sistematico, si attenuava la regola della tassativa elencazione legale dei casi in cui era consentito apporre un termine al contratto di lavoro, attribuendo alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge purché contestualmente si definissero limiti percentuali di utilizzo del lavoro a termine rispetto a quello a tempo indeterminato.

Si ricorda inoltre che l'articolo 8, comma 2, della L. 23 luglio 1991, n. 223, allo scopo di favorire l'assunzione dei lavoratori collocati in mobilità, ha previsto che gli stessi possono essere assunti con contratto a termine di durata non superiore a 12 mesi e che la relativa quota di contribuzione a carico del datore di lavoro sia pari a quella, particolarmente favorevole, prevista per gli apprendisti. Inoltre nel caso in cui, durante lo svolgimento del rapporto, il contratto venga trasformato a tempo indeterminato, tale beneficio contributivo spetta per ulteriori dodici mesi, in aggiunta al beneficio normalmente previsto dal comma 4 dello stesso articolo 8 per i datori di lavoro che assumono a tempo pieno e indeterminato lavoratori in mobilità[12].

La L. 24 giugno 1997, n. 196 (articolo 3, comma 1), a proposito del lavoro interinale, prevedeva che il contratto di lavoro tra il lavoratore e l'impresa fornitrice potesse essere stipulato a tempo determinato, per il periodo corrispondente alla durata della prestazione lavorativa presso l'impresa utilizzatrice[13].

La L. 12 marzo 1999, n. 68[14], all'articolo 11, comma 2, ha introdotto la possibilità di stipulare contratti a termine come una delle modalità di attuazione delle convenzioni stipulate tra datore di lavoro e uffici competenti per il conseguimento degli obiettivi di occupazione dei disabili previsti dalla legge stessa.

L’articolo 4 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151[15] ha previsto che in sostituzione delle lavoratrici e dei lavoratori in congedo ai sensi delle disposizioni del medesimo decreto legislativo, il datore di lavoro può avvalersi di lavoratori a termine o temporanei. L'assunzione di questi lavoratori può essere effettuata anche a partire da un mese prima dell'inizio del congedo (eventuali periodi superiori possono essere previsti dalla contrattazione collettiva). Nelle aziende con meno di 20 dipendenti viene inoltre concesso uno sgravio contributivo del 50% in favore del datore di lavoro che stipula contratti a termine per queste finalità (articolo 4, comma 3).

Disciplina e limite dei rinnovi

L'articolo 2 della citata L. 230 del 1962, come modificato dall'articolo 12 della L. 196 del 1997, disciplinava i rinnovi del contratto a tempo determinato.

In base a tale disciplina, la proroga del contratto a termine aveva carattere eccezionale e poteva essere disposta, con il consenso del lavoratore, alle seguenti condizioni:

-      poteva intervenire una sola volta,

-      doveva riferirsi a un periodo di tempo non superiore alla durata del contratto iniziale,

-      doveva essere richiesta da esigenze contingibili ed imprevedibili,

-      doveva riferirsi alla stessa attività lavorativa del contratto prorogato.

Nel caso di prosecuzione del rapporto (originario o prorogato) dopo la scadenza del termine, il lavoratore aveva diritto ad una retribuzione maggiorata rispetto a quella pattuita: tale maggiorazione era del 20% per ogni giorno di prosecuzione fino al decimo e del 40% per ogni giorno ulteriore. Inoltre, se il rapporto prosegue dopo il ventesimo giorno dalla scadenza, quando il rapporto originario era di durata inferiore a sei mesi, oppure dopo il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto veniva trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato. La decorrenza del contratto a tempo indeterminato si faceva risalire alla scadenza dei suddetti termini e non alla data della prima assunzione.

Nel caso di successive assunzioni a termine (c.d. “contratti a catena”) era espressamente previsto un intervallo che doveva sussistere tra un rapporto a termine e l'altro: questo intervallo era di dieci giorni dalla scadenza del primo rapporto, quando questo aveva durata inferiore a sei mesi e di venti giorni per rapporti di durata superiore a sei mesi. In caso di riassunzione in violazione di questi termini, il secondo contratto si considerava a tempo indeterminato.

Infine nel caso di due assunzioni successive, il rapporto si considerava a tempo indeterminato sin dalla data di stipulazione del primo contratto[16].

Diritto di precedenza in favore dei lavoratori a tempo determinato

L'articolo 23, comma 2, della L. 56 del 1987 riconosceva a favore dei lavoratori a tempo determinato, nelle ipotesi di cui all'art. 8-bis del D.L. 17 del 1983, convertito dalla L. 79 del 1983, un diritto di precedenza nel caso in cui l'azienda, presso la quale hanno prestato la propria opera, effettuasse assunzioni (a tempo determinato o indeterminato) per la medesima qualifica, a condizione che i lavoratori stessi manifestassero la propria volontà in tal senso entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. Ai sensi dell'art. 8-bis del citato D.L. 17 del 1983, il diritto di precedenza si applicava alle seguenti categorie:

-      lavoratori stagionali di cui all'articolo 1, comma 2, lett. a), della L. 230 del 1962;

-      lavoratori assunti quando si verifichi, in determinati e limitati periodi dell'anno, una necessità di intensificazione dell'attività lavorativa cui non sia possibile sopperire con il normale organico (D.L. 876 del 1977, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 del 1978, come implicitamente modificato dal comma 2 dello stesso art. 8-bis del D.L. 17 del 1983);

-      lavoratori stagionali del settore turistico (articolo 2 della L. 598 del 1979).

Il lavoro a tempo determinato nel settore pubblico

Ai sensi dell'articolo 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165[17], anche le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale, possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. In particolare, alla contrattazione collettiva nazionale è demandata la disciplina della materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo. Peraltro, al fine di limitare l’utilizzazione delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale, si prevede che le pubbliche amministrazioni possono attivarle solamente per esigenze temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure inerenti assegnazione di personale anche temporanea (cioè tramite il comando o il collocamento fuori ruolo di personale appartenente ad altre pubbliche amministrazioni), nonché previa valutazione circa l’eventuale opportunità di attivazione di contratti con le agenzie di somministrazione di personale a tempo determinato ovvero di ricorrere all’esternalizzazione.

Il comma 2 del citato articolo 36 stabilisce comunque che, a differenza di quanto previsto nel rapporto di lavoro privato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può mai comportare la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni[18]; invece al lavoratore interessato è riconosciuto il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.

In attuazione di tale disposizione, i contratti collettivi di lavoro dei vari comparti del pubblico impiego hanno provveduto a disciplinare il rapporto di lavoro a tempo determinato.Per quanto riguarda il personale del comparto Ministeri, a disciplinare la materia è intervenuto l'articolo 19 del CCNL integrativo del 16 maggio 2001. Si consideri tuttavia che tali previsioni contrattuali, essendo state adottate sulla base della L. 230 del 1962 e successive modificazioni - che allora recava la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato -, a seguito dell’entrata in vigore della successiva disciplina del D.Lgs. 368 del 2001 sono da considerarsi in parte superate e sostituite da tale nuova disciplina legislativa, con particolare riferimento alle ragioni in presenza delle quali può farsi ricorso ai contratti a termine, alla durata, alle proroghe nonché alla successione dei medesimi contratti.

La direttiva 1999/70/UE

La direttiva 1999/70/CE, del Consiglio del 28 giugno 1999, ha dato attuazione all'accordo quadro CES (Confederazione europea dei sindacati), UNICE (Unione delle confederazioni dell'industria e dei datori di lavoro d'Europa) e CEEP (Centro europeo dell'impresa pubblica) sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999.

La procedura seguita per la sua adozione rappresenta il più recente caso di applicazione del c.d. "dialogo sociale europeo", introdotto dal Trattato di Amsterdam ai fini dell'adozione di atti normativi comunitari in materia di politica sociale . La direttiva si compone pertanto del vero e proprio articolato e di un allegato, che ne è parte integrante, che riproduce l'accordo stipulato dalle parti sociali.

Le disposizioni della direttiva ne individuano lo scopo nell'attuazione dell'accordo quadro (articolo 1) e danno indicazioni su modalità e termini per la sua trasposizione negli ordinamenti nazionali (articolo 2), per cui veniva posta la scadenza del 10 luglio 2001. Peraltro, la direttiva prevedeva che gli Stati membri potessero fruire di un periodo supplementare fino ad un anno, ove necessario e previa consultazione delle parti sociali, in considerazione di particolari difficoltà, informandone la Commissione.

Le norme sostanziali sono quindi dettate dall'accordo-quadro allegato alla direttiva. Esso ha l'obiettivo (clausola 1) di:

§         migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il rispetto del principio di non-discriminazione;

§         prevenire gli abusi risultanti dal rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato.

 

L'individuazione degli obiettivi è preceduta da un Preambolo e da alcune Considerazioni generali che inquadrano l'intervento, affermando tra l'altro che:

§         l'accordo si propone di contribuire ad un migliore equilibrio tra flessibilità dell'orario di lavoro e sicurezza dei lavoratori (1° capoverso del preambolo);

§         i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro, e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori (1° capoverso del preambolo e “Considerando.. n. 6”);

§         l'utilizzazione di contratti a termine basata su ragioni oggettive è una maniera di prevenire gli abusi (“Considerando.. n. 7”);

§         i contratti a termine rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro che a quelle dei lavoratori (2° capoverso del preambolo e “Considerando.. n. 8”);

§         l'accordo stabilisce principi generali e requisiti minimi in materia, riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tenere conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali (3° capoverso del preambolo);

§         si richiede di consultare le parti sociali prima di qualunque iniziativa assunta da uno Stato membro per conformarsi all'accordo (penultimo capoverso del preambolo) e si afferma che le parti sociali sono le più adatte a trovare soluzioni rispondenti alle esigenze in gioco, per cui deve essere assegnato loro un ruolo di spicco nell'attuazione e applicazione dell'accordo (“Considerando.. n. 12”).

 

Sono esclusi dall’accordo i regimi giuridici di previdenza sociale per i lavoratori a termine e la materia del lavoro interinale. Inoltre, gli Stati membri possono prevedere che l'accordo non si applichi alle relazioni di formazione professionale iniziale e di apprendistato e ai rapporti conclusi nel quadro di un programma di formazione, inserimento o riconversione professionali pubblici (clausola 2).

Nel merito, l'accordo, dopo aver definito i concetti di "lavoratore a tempo determinato" e "lavoratore a tempo indeterminato comparabile" (clausola 3), detta norme "anti-discriminatorie", vietando di riservare un trattamento meno favorevole ai lavoratori a tempo determinato rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato per la sola ragione di avere un contratto a tempo determinato, a meno che il trattamento differenziato non sia giustificato da ragioni oggettive, ed applicando, se del caso, il principio del pro rata temporis (clausola 4).

Per prevenire gli abusi risultanti dall'utilizzazione ripetuta di contratti a termine (clausola 5) si prevede che gli Stati membri, "in assenza di norme equivalenti" e previa consultazione delle parti sociali, adottino - tenendo conto delle esigenze dei settori specifici e delle categorie di lavoratori - "una o più misure" relative a:

-      ragioni obiettive che giustificano il rinnovo dei contratti/rapporti a termine;

-      durata massima complessiva dei contratti/rapporti a termine successivi;

-      numero dei rinnovi.

I datori di lavoro devono informare i lavoratori a termine dei posti vacanti disponibili in azienda, eventualmente sotto forma di annuncio pubblico, e facilitarne, nella misura del possibile, l'accesso a opportunità di formazione, per migliorarne le competenze professionali, lo sviluppo della carriera e la mobilità professionale (clausola 6).

I lavoratori a tempo determinato devono essere presi in considerazione per il calcolo della soglia oltre la quale possono essere costituiti organismi di rappresentanza dei lavoratori, secondo modalità definite previa consultazione delle parti sociali e tenendo conto delle norme anti-discriminatorie. Inoltre, nella misura del possibile, i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione la fornitura di informazioni agli organi di rappresentanza relativamente all'impiego del lavoro a termine nell'azienda (clausola 7).

Infine, la clausola 8 reca norme di attuazione, tra cui particolare rilievo assumono la previsione che gli Stati membri possano adottare o mantenere disposizioni più favorevoli per i lavoratori e che l'applicazione dell'accordo "non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo". D'altra parte, l'accordo stesso non pregiudica il diritto delle parti sociali di concludere a livello appropriato accordi che ne "adattino e/o completino le disposizioni […] in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate".

Il Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368

Il D.Lgs. 368 del 2001, in attuazione della delega di cui alla L. 29 dicembre 2000, n. 422 (legge comunitaria per il 2000), ha recepito la citata direttiva 1999/70/CE sul contratto di lavoro a tempo determinato. Il menzionato decreto legislativo, adottando sostanzialmente l’Accordo tra le parti sociali in ordine alle modalità di recepimento della medesima direttiva nell'ordinamento nazionale[19], ha introdotto una disciplina del lavoro a termine che ha innovato in maniera rilevante la disciplina previgente (cfr. supra), di cui si è prevista contestualmente l’abrogazione.

L’articolo 1 definisce sia le condizioni oggettive in presenza dei quali è consentita l'apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato sia i requisiti di forma da rispettare.

Rispetto alla normativa precedente, vengono ampliati i casi in cui è consentita l'apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, facendo venir meno la “tipizzazione” prevista dalla precedente disciplina (peraltro già “temperata” dall’attribuzione alla contrattazione collettiva della facoltà di individuare a sua volta ulteriori causali giustificative).

Difatti la nuova disciplina introdotta dal provvedimento consente la stipulazione dei contratti a termine per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (comma 1).

La norma si integra con l’individuazione espressa all’articolo 3 dei casi in cui è vietato il ricorso al contratto di lavoro a termine e con la previsione di cui all’articolo 10, commi 7 e 8 che attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di stabilire i limiti quantitativi di utilizzazione di tale forma contrattuale, salvo nei casi espressamente indicati come esenti da limiti quantitativi.

Si consideri che in dottrina sono state avanzate interpretazioni non univoche sulle novità introdotte dal richiamato D.Lgs. 368 del 2001. Volendo schematizzare, possono individuarsi due tesi contrapposte. Secondo una prima interpretazione, volta a ridimensionare l’impatto della nuova disciplina, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 368 del 2001 non sarebbe venuto meno il principio di regola/eccezione tra contratto a tempo indeterminato e contratto a termine, per cui l’apposizione del termine dovrebbe ancora rispettare sia il requisito dell’oggettività sia quello della temporaneità; invece secondo una diversa tesi, dovendo l’apposizione del termine rispettare il solo criterio dell’oggettività, si delineerebbe un cambiamento di impostazione che inverte la logica posta a base della normativa previgente (che vietava i contratti a termine, salvo nei casi espressamente ammessi), per cui si trasformerebbe in regola quella che è stata finora un'eccezione (peraltro, in progressivo ampliamento[20]). Secondo tale ultima interpretazione, pertanto, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 368/2001 sarebbe venuto meno il principio secondo cui il rapporto di lavoro si reputa “di norma” a tempo indeterminato, dando parità di status giuridico alle due forme contrattuali.

La giurisprudenza invece ha adottato una linea interpretativa più omogenea. Difatti l’orientamento giurisprudenziale ampiamente maggioritario ritiene che il D.Lgs. 368 del 2001 - da interpretare anche alla luce della disciplina comunitaria a cui ha dato attuazione -, non abbia determinato il venir meno del principio per cui il contratto di lavoro “di norma” si reputa a tempo indeterminato e quindi l’apposizione del termine costituisce una deroga a tale principio. Tale linea interpretativa è stata adottata dalla prevalente giurisprudenza di merito[21] (cfr. infra), mentre non si è ancora formata una giurisprudenza di legittimità in materia dal momento che le pronunce della Corte di Cassazione finora emesse si riferiscono a fattispecie concrete soggette ancora alla disciplina precedente al D.Lgs. 368 del 2001; peraltro la medesima linea interpretativa emerge, sia pure in via incidentale, da una isolata pronuncia della giurisprudenza di legittimità.

 

Si tratta della sentenza Cass. civ. Sez. lavoro 21 maggio 2002, n. 7468, relativa ad un caso concreto soggetto alla disciplina previgente, abrogata dal D.Lgs. 368 del 2001. Nelle motivazioni la Corte, in via incidentale, osserva che la tendenza della legislazione italiana verso una progressiva ampliamento della possibilità di apposizione del termine al contratto di lavoro ha condotto all’emanazione del D.Lgs. 368 del 2001, che elimina la tipizzazione normativa dei casi in cui era possibile stipulare il contratto a termine prevedendo che l’apposizione del termine è consentita per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Tuttavia la Corte ritiene che la tendenza in questione, anche dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina, incontra un limite nella direttiva comunitaria 1999/70/CE e nell’accordo-quadro CES-UNICE-CEEP ad essa allegato, in cui si afferma tra l’altro che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento” (punto n. 6 delle Considerazioni generali). Pertanto la sentenza ritiene che le disposizioni del D.Lgs. 368 del 2001, in particolare quelle che richiedono che l’apposizione del termine risulti da atto scritto e sia specificamente motivata (articolo 1, comma 2) e che “sanzionano” la prosecuzione del rapporto oltre il termine e la riassunzione a termine entro un breve lasso di tempo (articolo 5, commi da 2 a 4), sarebbero ispirate dal principio per cui “il termine costituisce deroga d’un generale sottinteso principio: il contratto di lavoro subordinato, per sua natura, non è a termine”.

 

La giurisprudenza di merito maggioritaria, partendo dal principio della eccezionalità del contratto di lavoro a termine, ha sostenuto che l’apposizione del termine richiede che le ragioni giustificative siano connotate non solamente dal requisito della oggettività, ma anche da quello della temporaneità. Pertanto sarebbe legittimo stipulare un contratto di lavoro a termine solamente per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che assumano un carattere oggettivo e temporaneo[22]. Inoltre la giurisprudenza prevalente sostiene che l’apposizione del termine richiede che nel contratto scritto si indichino in maniera specifica e circostanziata le ragioni giustificative[23], per cui una indicazione generica o comunque carente di tali ragioni comporterebbe inevitabilmente l’inefficacia della clausola relativa al termine e conseguentemente il rapporto di lavoro dovrebbe essere considerato ex tunc a tempo indeterminato[24]. Oltre all’onere di indicare nel contratto in maniera specifica e circostanziata le ragioni giustificative, al datore di lavoro spetterebbe la prova della ricorrenza delle medesime ragioni[25] nonché (come statuito da alcune sentenze) del nesso causale tra tali ragioni e la conclusione del contratto a tempo determinato nel caso specifico[26]; in mancanza di tale prova si determinerebbe la già menzionata conseguenza dell’inefficacia del termine per cui il contratto sarebbe da considerare ex tunc a tempo indeterminato.

Si deve inoltre considerare che la disciplina del D.Lgs. 368 del 2001 non si applica, in tutto o in parte, ai rapporti di lavoro instaurati con particolari categorie di lavoratori o in determinati settori (dirigenti amministrativi e tecnici; trasporto aereo e settore postale, agricoltura, turismo e pubblici esercizi), soggetti a una disciplina specifica ai sensi dello stesso decreto legislativo o di norme vigenti di cui non è prevista l'abrogazione.

Per quanto riguarda i requisiti di forma, l’articolo 1 dispone che l'apposizione del termine deve risultare, direttamente o indirettamente, da atto scritto, che specifichi le ragioni che la giustificano. In caso contrario - mancanza dell'atto scritto ovvero dell'indicazione delle ragioni giustificative -, il termine non ha efficacia e quindi il rapporto si deve ritenere a tempo indeterminato (comma 2). Il datore di lavoro deve consegnare al lavoratore - entro 5 giorni lavorativi - copia dell'atto scritto (comma 3). L'atto scritto non è necessario in caso di rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni (comma 4).

Pertanto, in ordine ai requisiti di forma, rispetto alle norme previgenti (articolo 1, commi dal terzo al quinto, della legge n. 230/1962) si introducono le seguenti innovazioni:

§      nell'atto scritto devono essere specificate le ragioni (di carattere, come detto, tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo) del ricorso a tale istituto;

§      si introduce un termine per la consegna al dipendente, pari, come si è detto, a 5 giorni lavorativi dall'inizio della prestazione;

§      la fattispecie di esenzione dal requisito della forma scritta è limitata ai rapporti di durata non superiore a "12 giorni", anziché "12 giorni lavorativi"; si restringono quindi i casi in cui si può fare a meno della forma scritta;

§      l'apposizione del termine può risultare dall'atto scritto anche "indirettamente".

 

L'articolo 2, confermando sostanzialmente la previgente disciplina speciale, consente di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato alle aziende del trasporto aereo o esercenti i servizi aeroportuali, ai fini dello svolgimento di servizi operativi di terra, di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e alle merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell’organico aziendale. Si prevede che tale percentuale possa essere aumentata per gli aeroporti minori, previa autorizzazione della direzione provinciale del lavoro. In ogni caso le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione da parte delle aziende delle richieste di assunzione in questione. Si prevede che la medesima disciplina si applica per le imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste possano stipulare contratti di lavoro a tempo determinato per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell’organico aziendale.

La nuova disciplina, stante l’impostazione che autorizza in maniera molto più ampia il ricorso al lavoro a termine, come detto all’articolo 3 individua tassativamente i casi in cui non è ammesso il ricorso a tale forma di lavoro:

§      sostituzione di lavoratori in sciopero (lett. a));

§      unità produttive ove si sia proceduto a licenziamenti collettivi nei 6 mesi precedenti (fatte salve le eccezioni appresso illustrate, che comprendono la possibilità di una diversa previsione da parte di "accordi sindacali") (lett. b));

§      unità produttive che abbiano in atto trattamenti di cassa integrazione[27] (lett. c));

§      imprese che non hanno effettuato la valutazione dei rischi (lett. d)).

 

Gli articoli 4 e 5 individuano i casi in cui è ammessa la proroga del contratto a termine, le conseguenze della prosecuzione del rapporto oltre il termine pattuito e della stipulazione di un nuovo contratto a termine. Si tratta di norme volte a prevenire abusi nell'utilizzo di tale forma contrattuale al solo scopo di evitare l'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato.

L’articolo 4 ha disciplinato l’istituto della proroga. Rispetto alla disciplina previgente (articoli 2, comma 1, e 3, della L. 230 del 1962) le innovazioni introdotte possono essere riassunte come segue:

§         sono eliminati i riferimenti al carattere eccezionale della proroga e alla sussistenza di "esigenze contingibili e imprevedibili", facendosi riferimento più semplicemente alla sussistenza di "ragioni oggettive" che la richiedano;

§         è eliminato la previsione che la durata della proroga non possa essere superiore a quella del contratto iniziale.

 

Quanto alle conseguenze della prosecuzione del rapporto oltre il termine pattuito - al di fuori o successivamente ai casi di proroga -, l'articolo 5 stabilisce che:

§         il contratto si reputa a tempo indeterminato qualora la prosecuzione superi il 20° giorno (per i contratti di durata inferiore a 6 mesi) ovvero il 30° giorno (per quelli di durata pari o superiore a 6 mesi). La "trasformazione" del rapporto decorre dallo scadere di tali termini (cioè, non retroattivamente) (comma 1);

§         per il periodo antecedente, il dipendente ha diritto a una maggiorazione retributiva, pari al 20% per i giorni fino al decimo e al 40% per quelli ulteriori (comma 2).

 

Quanto alla stipulazione di un nuovo contratto a termine con lo stesso lavoratore, lo stesso articolo 5 fissa intervalli temporali tra i successivi rapporti, il cui mancato rispetto determina la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato:

§         qualora la riassunzione avvenga entro 10 giorni (per i contratti fino a 6 mesi) ovvero 20 giorni (per quelli di più di 6 mesi) dalla scadenza del precedente, il rapporto si reputa a tempo indeterminato dalla stipulazione del secondo contratto: la trasformazione non ha quindi effetto retroattivo (comma 3);

§         qualora la riassunzione abbia luogo senza soluzione di continuità con il precedente contratto, il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla stipulazione del primo contratto, cioè con decorrenza retroattiva (comma 4).

 

L'articolo 6 è volto a garantire la non discriminazione dei dipendenti a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato, per quanto riguarda gli elementi essenziali del trattamento giuridico ed economico del lavoratore quali le ferie, la tredicesima mensilità e il trattamento di fine rapporto, in proporzione al periodo lavorativo prestato e purché tali trattamenti non siano incompatibili con la natura del rapporto.

L'articolo 7, innovando rispetto alla previdente disciplina, introduce disposizioni in materia di formazione dei lavoratori a termine, prevedendo che essi debbano ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle mansioni oggetto del contratto, ai fini della prevenzione dei rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro e che i contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi possano definire modalità e strumenti per agevolarne l'accesso ad opportunità di formazione, per aumentarne la qualificazione, le opportunità di carriera e la mobilità occupazionale.

L'articolo 8 stabilisce che, ai fini dell'applicazione delle disposizioni sull'attività sindacale previste dalla legge n. 300 del 1970, siano conteggiati solamente i lavoratori a termine il cui contratto abbia durata superiore a nove mesi.

L'articolo 9 attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di definire le informazioni che i datori di lavoro devono fornire ai lavoratori a termine e alle organizzazioni sindacali in materia di lavoro a tempo determinato.

L'articolo 10, ai commi da 1 a 5, individua alcuni casi di esclusione, totale o parziale, dall'applicazione della disciplina generale, in alcuni casi prevedendo al contempo una diversa disciplina specifica. Inoltre, è fatta salva la disciplina specifica già prevista dalla precedente normativa per particolari fattispecie di rapporti a tempo determinato.

Al comma 6 vengono espressamente fatte salve le discipline speciali relative ai contratti a tempo determinato conclusi con lavoratori in mobilità ai sensi dell’articolo 8, comma 2, della legge n. 233 del 1991, per la sostituzione di lavoratrici o lavoratori in maternità ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 53 del 2000 e con dipendenti che abbiano maturato il diritto al pensionamento di anzianità e lo rinviino per almeno un biennio ai sensi dell’articolo 75 della legge n. 388 del 2000.

Il comma 7 attribuisce ai contratti collettivi la definizione di limiti quantitativi, anche differenziati, di utilizzazione dei contratti a tempo determinato, con alcune eccezione per i casi espressamente elencati nel medesimo comma[28] e nel successivo comma 8.

Il comma 9 attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di individuare un diritto di precedenza nell'assunzione a termine presso la stessa azienda e con la medesima qualifica in favore dei soggetti che abbiano avuto un rapporto a termine per prestazioni di natura stagionale o per intensificazione dell'attività lavorativa in determinati periodi dell'anno, mentre il comma 10 specifica che il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto, e il lavoratore deve manifestare la volontà di avvalersene entro tre mesi dalla cessazione del rapporto.

L’articolo 11, infine, dispone l’abrogazione della legge n. 230/1962 (recante, come detto, la previgente disciplina generale in materia di contratti di lavoro a termine), dell'articolo 8-bis della legge n. 79/1983 (diritto di precedenza in caso di assunzione a tempo indeterminato; applicabilità in via permanente ed estensione a tutti i settori produttivi dei contratti a termine per intensificazione dell'attività produttiva) e dell'articolo 23 della legge n. 56/1987 (possibilità per i contratti collettivi di prevedere ulteriori causali giustificative dei contratti a termine; ulteriori norme sul diritto di precedenza in caso di assunzione a tempo indeterminato; ecc.), nonché di tutte le altre norme incompatibili con la nuova disciplina. Il medesimo articolo detta una disciplina transitoria per quanto riguarda l’ulteriore efficacia dei contratti collettivi stipulati in vigenza della precedente normativa.

Il contenuto della pdl 1807 (Burgio ed altri)

La pdl in esame, partendo dal presupposto che il D.Lgs. 368 del 2001 si presta ad un “abuso” dello strumento del contratto a tempo determinato, è volto – come si legge nella relazione illustrativa - a “ristabilire espressamente il rapporto regola/eccezione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato” già previsto dalla legge n. 230 del 1962 (abrogata a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 368 del 2001), limitando la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro solamente per comprovate esigenze aziendali di natura temporanea e circostanziata.

Nella relazione illustrativa, al fine di motivare l’opportunità di modificare la disciplina vigente sul rapporto di lavoro a termine, si evidenzia che il D.Lgs. 368 del 2001, lungi dal favorire una maggiore efficienza del mercato del lavoro sulla base dell’incrementata “flessibilità” dei rapporti di lavoro, ha invece contribuito a produrre - insieme ad altri aspetti della legislazione italiana in materia di lavoro -, per una non trascurabile parte degli occupati, una situazione di precarietà a causa della temporaneità e discontinuità dei rapporti di lavoro accompagnata da retribuzioni talvolta inferiori rispetto quelle dei lavoratori a tempo indeterminato.

La relazione illustrativa inoltre, partendo dalla considerazione che l’entrata in vigore del più volte richiamato D.Lgs. 368 del 2001 ha condotto, sia in giurisprudenza sia soprattutto in dottrina (cfr. supra), a “numerosi contrasti interpretativi sulla portata e sul reale significato della riforma dei contratti a termine introdotta con la norma in discussione”, evidenzia che il provvedimento, ripristinando a livello sistematico in maniera espressa il principio secondo cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la norma, ha anche lo scopo di risolvere i dubbi interpretativi sorti sulle questioni considerate più rilevanti[29].

Tali questioni, secondo la relazione illustrativa, sono le seguenti:

§         se, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 368 del 2001, anche in considerazione della formulazione dell’articolo 1 del medesimo decreto legislativo, sia venuto meno il principio per cui il contratto di lavoro “di norma” deve essere stipulato a tempo indeterminato e l’apposizione del termine costituisce una eccezione;

§         se il D.Lgs. 368 del 2001 sia rispettoso della disciplina comunitaria o se, al contrario, sia censurabile sul piano della violazione del principio di “non regresso dei livelli di tutela” stabilito dall’accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato e quindi dalla direttiva 1999/70/CE;

§         se spetta al lavoratore provare l’insussistenza delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine o, al contrario, l’onere probatorio ricade sul datore di lavoro;

§         se la carenza delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine determina la nullità del relativo contratto di lavoro o, al contrario, solamente l’inefficacia della clausola relativa all’apposizione del termine con la conseguenza che il rapporto si considera a tempo indeterminato sin dall’origine.

 

Si ricorda (cfr. supra) che, mentre la dottrina effettivamente si è espressa in maniera non univoca sulle su menzionate questioni interpretative, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che, anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 368 del 2001:

§         non sia venuto meno il rapporto di regola/eccezione tra contratto a tempo indeterminato e contratto a termine;

§         che è a carico del datore di lavoro l’onere della prova delle ragioni giustificative dell’apposizione del termine;

§         che la carenza di specifiche ragioni o la mancata prova delle stesse da parte del datore di lavoro determina solamente l’inefficacia della clausola relativa al termine per cui il contratto sarebbe da considerarsi ex tunc a tempo indeterminato.

 

Inoltre, sulla base delle linee interpretative adottate dalla giurisprudenza maggioritaria, verrebbero meno i principali profili problematici di censura del D.Lgs. 368 del 2001 rispetto alla disciplina comunitaria per violazione del principio di “non regresso dei livelli di tutela”.

 

In relazione alle considerazioni espresse in precedenza, l’articolo 1 della pdl in esame reca alcune modifiche all’articolo 1 del D.Lgs. 368 del 2001.

A seguito delle modifiche introdotte dalla lettera a), il nuovo testo del comma 1 dell’articolo 1del D.Lgs. 368 del 2001 stabilisce che il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salva la possibilità di apposizione di un termine in casi specifici, indicati al successivo nuovo comma 1-bis. Tale comma prevede la possibilità di apporre un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato esclusivamente a fronte di comprovate ragioni temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

La lettera b), per ragioni di coordinamento formale, sostituisce al comma 2 dell’articolo 1 del D.Lgs. 368 del 2001 il riferimento al “comma 1” con quello al “comma 1-bis” per quanto riguarda le ragioni che giustificano l’apposizione del termine.

 

Si ricorda che il comma 2 in questione dispone che l’apposizione del termine, a pena di inefficacia, deve risultare da atto scritto nel quale devono anche essere specificate le ragioni che giustificano l’apposizione del termine.

 

Si evidenzia che l’articolo in esame, prevedendo che il contratto di lavoro si reputa “di norma” a tempo indeterminato, provvede, modificando il testo dell’articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 368 del 2001, a reintrodurre espressamente il rapporto regola/eccezione tra rapporto di lavoro a tempo indeterminato e rapporto di lavoro a tempo determinato.

 

In tal modo si intende risolvere il dubbio interpretativo (di cui abbiano già fatto cenno), sorto dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, relativo alla natura sul piano sistematico del rapporto tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato, in particolare -come si legge nella relazione illustrativa - se tale rapporto “si sia trasformato, nel quadro del più generale fenomeno di favore per le forme di «flessibilità» del lavoro (vedi legge n. 30 del 2003 e decreti legislativi attuativi), in una vera e propria coesistenza di modelli negoziali alternativi, dotati ciascuno di pari dignità; o se invece tale rapporto possa essere ancora ricondotto”, secondo quanto avveniva nella legislazione previgente, al principio secondo cui “il rapporto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la norma, derogare alla quale presuppone la sussistenza di circostanziate e comprovate motivazioni”.

 

Si ricorda che la giurisprudenza maggioritaria si è espressa nel senso che il D.Lgs. 368 del 2001 non abbia fatto venir meno il rapporto di regola/eccezione tra contratto a tempo indeterminato e contratto a termine.

 

Si evidenzia inoltre che l’articolo in esame, ristabilito espressamente il principio per cui il rapporto a tempo indeterminato dovrebbe costituire “la norma”, conseguentemente introduce delle ulteriori modifiche alla formulazione del D.Lgs. 368 del 2001 volte a restringere la possibilità di apporre un termine.

 

In primo luogo si dispone che le ragioni che giustificano l’apposizione del termine devono essere caratterizzate dalla temporaneità, per cui non dovrebbe essere ammissibile l’apposizione del termine nel caso di esigenze che si presentano in maniera stabile o comunque con continuità nell’ambito dell’organizzazione e della gestione aziendale.

Inoltre, si richiede che le ragioni che giustificano l’apposizione del termine siano comprovate dal datore di lavoro; tale previsione viene poi meglio specificata dal successivo articolo 2, che, novellando l’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001, pone espressamente l’onere della prova a carico del datore di lavoro non solamente per quanto riguarda le ragioni che giustificano la proroga del rapporto (cfr. infra), ma anche per quelle che giustificano l’apposizione del termine al contratto iniziale.

In tal modo si risolve il dubbio interpretativo che caratterizza la normativa vigente, relativo alla parte contrattuale su cui incombe l’onere probatorio relativo all’apposizione del termine (cfr. supra). La relazione evidenzia che il dubbio nasce dal fatto che il D.Lgs. 368 del 2001 - al contrario di quanto previsto dall’abrogata disciplina di cui all’articolo 3 della legge n. 230/1962 -, non pone espressamente a carico del datore di lavoro l’onere di provare le ragioni che giustificano l’apposizione del termine, ponendo invece in maniera esplicita in capo al medesimo datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza delle ragioni che legittimano la proroga del rapporto (articolo 4, comma 2).

La relazione inoltre pone in rilievo che l’eventuale interpretazione della disciplina vigente secondo cui l’onere della prova spetterebbe al lavoratore potrebbe presentare profili di irragionevolezza data la difficoltà per il medesimo di dimostrare, attraverso elementi necessariamente presuntivi, l’insussistenza delle esigenze aziendali che giustificano l’apposizione del termine, su cui invece sarebbe molto più facile, per ipotesi, fornire una prova in positivo da parte del datore di lavoro.

 

Si ricorda che la giurisprudenza maggioritaria si è espressa nel senso che, anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 368 del 2001, l’onere della prova sulle specifiche ragioni giustificative del termine è a carico del datore del lavoro, che dovrebbe anche dimostrare il nesso causale tra tali ragioni e la stipula del contratto a termine con il singolo lavoratore.

 

L’articolo 2, come conseguenza della reintroduzione del principio per cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato dovrebbe costituire “la norma”, aggiunge una ulteriore disposizione all’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001 (comma 3), in modo da stabilire in maniera espressa che l’insussistenza delle ragioni addotte per giustificare l’apposizione del termine (a cui è da equiparare la mancata prova delle medesime) determina solamente l’inefficacia della relativa clausola ma non si ripercuote sulla validità dell’intero contratto di lavoro; pertanto, in tal caso, data l’inefficacia della previsione del termine, il rapporto di lavoro dovrebbe intendersi instaurato a tempo indeterminato ex tunc.

In questo modo il provvedimento, come detto, risolve il dubbio interpretativo relativo alle conseguenze della mancanza delle ragioni giustificative dell’apposizione del termine sulla sorte dell’intero contratto di lavoro.

La relazione illustrativa evidenzia al riguardo che l’attuale formulazione del D.Lgs. 368 del 2001 potrebbe prestarsi all’interpretazione secondo cui la clausola appositiva del termine dovrebbe considerarsi “essenziale”, ai sensi del primo comma dell’articolo 1419 c.c., per cui l’eventuale inefficacia della medesima clausola determinerebbe la nullità dell’intero contratto di lavoro.

 

Si ricorda che la giurisprudenza maggioritaria si è espressa nel senso che la carenza di specifiche ragioni o la mancata prova delle stesse da parte del datore di lavoro determina solamente l’inefficacia della clausola relativa al termine per cui il contratto sarebbe da considerarsi ex tunc a tempo indeterminato.

 

Si osserva che già dalla reintroduzione del rapporto “regola/eccezione” tra rapporto a tempo indeterminato e rapporto a tempo determinato disposta dall’articolo 1 del provvedimento in esame discenderebbe in via interpretativa la “conservazione” del contratto di lavoro, sulla base del secondo comma del menzionato articolo 1419 c.c., dal momento che la clausola relativa al termine apposta al contratto di lavoro sarebbe sostituita di diritto dalla previsione dell’instaurazione a tempo indeterminato del medesimo contratto. La previsione testuale di cui al comma 3 dell’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001 (così come riformulato dal provvedimento in esame) è volta a fugare ogni dubbio interpretativo al riguardo.

 

Si consideri, inoltre, che la disposizione introdotta dal nuovo comma 3 dell’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001 non è applicabile ai rapporti di lavoro a termine presso pubbliche amministrazioni, per i quali quindi l’inefficacia della clausola oppositiva del termine non determina la “trasformazione” del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato. Ciò deriva dalla disciplina speciale prevista dall’articolo 36, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, secondo cui, a differenza di quanto previsto nel rapporto di lavoro privato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può mai comportare la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni.

 

L’articolo 2, nel sostituire l’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001, modifica anche la disciplina relativa alla proroga del contratto a tempo determinato.

 

Si ricorda che l’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001, al comma 1 dispone che la proroga del contratto a termine è possibile, con il consenso del lavoratore, una sola volta e a condizione che:

§         la durata iniziale del contratto sia inferiore a 3 anni;

§         sussistano ragioni oggettive;

§         si riferisca alla medesima attività lavorativa del contratto iniziale.

La durata complessiva del rapporto, nel caso di proroga, non può superare i 3 anni complessivi.

Il comma 2 pone espressamente a carico del datore l'onere della prova circa la sussistenza delle "ragioni oggettive" per la proroga.

 

Il nuovo testo dell’articolo 4 del D.Lgs. 368 del 2001 dispone che il termine del rapporto a tempo determinato possa essere eccezionalmente prorogato, con il consenso del lavoratore, solamente nel caso in cui la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. La proroga è ammessa una sola volta, purché sia richiesta da ragioni contingenti e imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato. Con esclusivo riferimento all’ipotesi della proroga, la durata complessiva del rapporto a tempo determinato non può essere superiore a tre anni (comma 1).

Si prevede, inoltre, espressamente che l’onere della prova relativa all’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano sia l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l’eventuale proroga del termine stesso sia a carico del datore di lavoro (comma 2).

Infine (cfr. supra) si precisa che l’apposizione del termine è inefficace quando risulta accertato che non ricorrono le ragioni addotte al fine di giustificare l’apposizione del termine o la sua eventuale proroga (comma 3).

 

In sostanza, rispetto alla normativa vigente, il nuovo testo dell’articolo 4 dispone:

§         il carattere di eccezionalità della proroga;

§         che le ragioni che giustificano la proroga devono essere “contingenti e imprevedibili” e non meramente“oggettive”;

§         che è a carico del datore di lavoro anche l’onere della prova relativa all’esistenza delle ragioni che giustificano l’apposizione del termine al contratto di lavoro (cfr. supra);

§         che l’insussistenza delle ragioni addotte per giustificare l’apposizione del termine o l’eventuale proroga determina l’inefficacia dell’apposizione del termine.

 

Si evidenzia che dall’insussistenza delle ragioni “contingenti e imprevedibili” che giustificano la proroga del rapporto di lavoro il testo sembrerebbe far discendere l’inefficacia dell’apposizione del termine, per cui il rapporto di lavoro dovrebbe considerarsi a tempo indeterminato ex tunc.

 

L’articolo 3, infine, reca alcune modifiche all’articolo 10 del D.Lgs. 368 del 2001, con riferimento al diritto di precedenza all’assunzione a tempo indeterminato presso la medesima azienda.

In primo luogo si sostituisce interamente il comma 9 del citato articolo 10.

 

Si ricorda che il comma 9 dell’articolo 10 del richiamato D.Lgs. 368 del 2001 ha affidato ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, la individuazione di un diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente a favore dei lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato per prestazioni di natura stagionale o per intensificazione dell'attività lavorativa in determinati periodi dell'anno.

 

Il nuovo testo del citato comma 9, come evidenziato dalla relazione, è volto ad estendere in maniera generalizzata, indipendentemente dalla natura delle prestazioni o dal settore produttivo, il diritto di precedenza nell’assunzione a tempo indeterminato presso la stessa azienda. A tal fine prevede ope legis il medesimo diritto di precedenza nell’assunzione per tutti i lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato con la medesima qualifica, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Pertanto, rispetto alla vigente disciplina, il nuovo testo del comma 9:

§         dispone che il diritto di precedenza opera direttamente e non solamente qualora lo preveda la contrattazione collettiva;

§         estende il diritto di precedenza a tutti i lavoratori a tempo determinato, a prescindere dalla tipologia di prestazioni e da settore produttivo dell’azienda;

§         elimina la previsione secondo cui il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro.

 

 

Si evidenzia quindi che, sulla base di tale ultima modifica, il diritto di precedenza del lavoratore che manifestasse la volontà di avvalersene entro tre mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, non sarebbe più soggetto ad estinzione entro un periodo prefissato.

 

Conseguentemente, alla nuova formulazione del comma 9, viene abrogato il comma 10 del citato articolo 10.

 

Si ricorda che il citato comma 10 attualmente prevede che il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto e che il lavoratore deve manifestare la volontà di avvalersene entro tre mesi dalla cessazione del rapporto.

 

Infine, per quanto riguarda la questione relativa alla compatibilità della disciplina introdotta dal D.Lgs. 368 del 2001 con il quadro normativo comunitario, la relazione afferma che la proposta di legge, con le modifiche previste, servirebbe ad eliminare eventuali profili di illegittimità della vigente disciplina rispetto all’ordinamento comunitario per violazione del principio di “non regresso” di cui alla clausola 8.3 dell’accordo-quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE.

 

La citata clausola 8.3 dispone che l'applicazione dell'accordo "non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso".

Si evidenzia tuttavia che tale previsione presenta margini di interpretabilità. Ad esempio, il riferimento al "livello generale di tutela" potrebbe essere interpretato nel senso di fare salva la possibilità di introdurre "peggioramenti" in merito a specifici profili di tutela, bilanciandoli con interventi di segno opposto; inoltre è dubbio che rilevino, ai fini della clausola di “non regresso”, disposizioni meno “gravose” (rispetto alla normativa previgente) nei confronti dei datori di lavoro, le quali non incidono direttamente sulla tutela dei lavoratori a termine. Si deve inoltre tenere conto della possibilità che ulteriori accordi delle parti sociali adattino le norme dell'accordo in base ad esigenze specifiche (clausola 8.4)[30].

Nel limite di queste specificazioni, le innovazioni introdotte dal D.Lgs 368 del 2001 che sembrerebbero poter comportare una riduzione della tutela per i lavoratori a termine in relazione a specifici aspetti sono:

§         l’introduzione della possibilità che la scadenza del termine risulti da atto scritto anche indirettamente (articolo 1, comma 2);

§         lo spostamento in capo al lavoratore a termine dell'onere di provare che il contratto a termine è stato stipulato sulla base di ragioni non corrispondenti a quelle previste dalla legge (a seguito dell’abrogazione dell'articolo 3 della legge n. 230/1962, solo parzialmente ripreso dall'articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 368 del 2001), qualora si acceda a tale interpretazione del testo del D.Lgs. 368 del 2001[31];

§         la soppressione delle sanzioni amministrative connesse alle violazioni al principio di parità di trattamento rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato (precedentemente previste dall’articolo 7 della legge n. 230/1962);

§         la modifica della disciplina sul "diritto di precedenza" in caso di assunzioni a tempo indeterminato, con il passaggio da un sistema in cui esso è previsto direttamente dalla legge a uno in cui è rinviato ai contratti collettivi e con la previsione dell'estinzione del diritto dopo un determinato periodo dalla fine del rapporto (articolo 10, commi 9 e 10).

 

In Italia la giurisprudenza di merito maggioritaria (cfr. supra) ha talvolta attribuito una valenza sistematica al principio di “non regresso” in funzione interpretativa del D.Lgs. 368 del 2001, per avvalorare la tesi per cui tale provvedimento deve essere interpretato in maniera da escludere una regressione delle tutele dei lavoratori a termine rispetto alla normativa precedente. Utilizzando tale criterio ermeneutico la suddetta giurisprudenza, per esempio, giunge alla conclusione che l’inefficacia dell’apposizione del termine per mancata o insufficiente indicazione della ragione giustificativa comporterebbe non già la nullità dell’intero contratto bensì la conseguenza che il rapporto dovrebbe considerarsi a tempo indeterminato ex tunc.

 

Si consideri che la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 22/11/2005, in causa n. C-144/04[32], ha fornito alcune importanti precisazioni sul menzionato principio di “non regresso”, il quale per gli insiti margini di interpretabilità ha dato luogo a interpretazioni non univoche.

In particolare, la Corte di giustizia precisa che il rispetto del medesimo principio «non riguarda la sola iniziale trasposizione della direttiva 1999/70 e, in particolare, del suo allegato contenente l’accordo quadro, ma copre ogni misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta, completano o modificano le norme nazionali già adottate» (punto 51 della motivazione).

Inoltre, la Corte di giustizia puntualizza che «una reformatio in pejus della protezione offerta dalla legislazione nazionale ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall'accordo quadro quando non sia in alcun modo collegata con l'applicazione di questo» (punto 52 della motivazione).[33]

In sostanza, la Corte di giustizia sembra affermare che il principio di “non regresso” non ha una valenza assoluta e intangibile, potendo il legislatore nazionale ad esso derogare nell’ambito di finalità legislative diverse rispetto all’applicazione della disciplina comunitaria sul lavoro a tempo determinato. Pertanto, nel caso concreto sottoposto al suo esame, la Corte ha ritenuto legittimo da parte del legislatore tedesco l’abbassamento dell’età oltre la quale potevano concludersi senza limitazioni contratti di lavoro a termine motivato dall’obiettivo di promuovere l’occupazione.

 

La Corte Costituzionale è stata investita[34] in via incidentale della questione della legittimità costituzionale dell’articolo 10, commi 9 e 10 e dell’articolo 11, commi 1 e 2 del D.Lgs. 368 del 2001 per violazione dell’articolo 76 della Costituzione (eccesso di delega), nella parte in cui le menzionate disposizioni non riconoscono più ope legis il diritto di precedenza nell’assunzione presso la stessa azienda a favore dei lavoratori a termine che prestano attività stagionale affidando alla contrattazione collettiva il compito di individuare il medesimo diritto di precedenza. La Corte, con l’ordinanza n. 252 del 2006, ha ordinato al restituzione degli atti al giudice remittente poiché nelle more del giudizio costituzionale è intervenuta la su citata sentenza della Corte di giustizia 22/11/2005, in causa n. C-144/04, che come detto ha fornito una precisazione sul menzionato principio di “non regresso”.[35]

 

Si evidenzia che a livello comunitario non risultano avviate procedure di infrazione a carico dello Stato italiano per violazione della direttiva 1999/70/CE e in particolare della suddetta clausola di “non regresso”.

Peraltro, sulla base dell’interpretazione delle disposizioni del D.Lgs. 368 del 2001 adottata dalla giurisprudenza nazionale maggioritaria (cfr. supra) e dei richiamati chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia in merito alla clausola di “non regresso” dei livelli di tutela, verrebbero meno i principali profili problematici di censura del D.Lgs. 368 del 2001 rispetto alla disciplina comunitaria per violazione della medesima clausola.


Progetto di legge


 

N. 1807

¾

CAMERA DEI DEPUTATI

¾¾¾¾¾¾¾¾

PROPOSTA DI LEGGE

 

d’iniziativa del deputato

¾

BURGIO, MIGLIORE, ZIPPONI, ROCCHI, DE CRISTOFARO, ACERBO, CACCIARI, CANNAVÒ, CARDANO, CARUSO, COGODI, DE SIMONE, DEIANA, DIOGUARDI, DURANTI, FALOMI, DANIELE FARINA, FERRARA, FOLENA, FORGIONE, FRIAS, GUADAGNO detto VLADIMIR LUXURIA, IACOMINO, KHALIL, LOCATELLI, LOMBARDI, MANTOVANI, MASCIA, MUNGO, OLIVIERI, PEGOLO, PERUGIA, PROVERA, ANDREA RICCI, MARIO RICCI, FRANCO RUSSO, SINISCALCHI, SMERIGLIO, SPERANDIO

 

Modifiche al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368,

in materia di contratti di lavoro a tempo determinato

 

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Presentata l'11 ottobre 2006

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Onorevoli Colleghi! - È noto come la legislazione sul lavoro entrata in vigore nel corso degli ultimi vent'anni sia stata contrassegnata da una marcata tendenza all'ampliamento dei contesti di utilizzo degli strumenti di «flessibilità». Tale processo è stato attuato dal legislatore attraverso l'introduzione di una pluralità di tipi di contratto riconosciuti dalla legge che vanno idealmente a collocarsi, secondo una gamma di tutele differenziate, in quella vasta area ricompresa tra il contratto d'opera di cui all'articolo 2222 e seguenti del codice civile e il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato di cui all'articolo 2094 del medesimo codice. Nel novero di tali tipologie negoziali un ruolo di particolare rilievo, sia sul piano storico che su quello sociale e giuridico, rivestono i contratti di lavoro a tempo determinato.

      Sul piano storico, tali contratti furono introdotti con la legge 18 aprile 1962, n. 230, allo scopo di regolare le assunzioni per prestazioni d'opera «aventi carattere straordinario e occasionale». L'evoluzione della normativa è stata tuttavia informata dal progressivo allentamento dei vincoli di ammissibilità. In questo processo spiccano la legge 28 febbraio 1987, n. 56, che delega la definizione dei casi di ammissibilità ai singoli contratti collettivi, e soprattutto il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che introducendo la massima «flessibilità» nei rapporti di lavoro, «liberalizza» il contratto a tempo determinato e - sortendo l'effetto di delineare un quadro molto simile a quello riguardante il lavoro interinale - ne estende il ricorso a tutti i casi in cui vengono addotte, da parte del datore di lavoro, «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» (articolo 1, comma 1).

      Sul versante delle conseguenze di tale legislazione, è ormai opinione acquisita in letteratura che essa abbia fortemente contribuito all'accentuazione dei tratti di «dualismo» del mercato del lavoro in Italia, con la polarizzazione tra il grosso degli occupati piuttosto stabile e una rilevante frazione degli stessi con storie lavorative accidentate, scandite da frequenti transizioni. Come risulta dai dati più recenti (confronta la «Rilevazione sulle forze di lavoro - II semestre 2006», ISTAT www.istat.it), tale frazione è valutabile, limitatamente all'ambito degli occupati dipendenti a termine, nella misura del 13 per cento. Vale la pena di sottolineare che, ove si considerasse l'insieme dei lavoratori dipendenti e «parasubordinati» atipici (a tempo parziale con contratti a tempo determinato o indeterminato, interinali, a progetto o con contratti di lavoro occasionale, eccetera), il totale dei soggetti interessati supererebbe le 2.900.000 unità su un totale di circa 23 milioni di occupati, registrando nel corso dell'ultimo decennio una crescita annua del 6,8 per cento.

      Non si è verificata quella evoluzione complessiva del mercato del lavoro in direzione di una organica dinamizzazione che era stata auspicata dai fautori della cosiddetta «flessibilità» quale supposta premessa di una accresciuta efficienza del sistema. Pur in un contesto contrassegnato da un generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori dipendenti (ben riassunto dal trasferimento di risorse dal reddito da lavoro a quello di impresa pari a quasi 75 miliardi di euro nel corso dell'ultimo decennio - confronta Roberto Romano, «Politica dei redditi tra il 1993 e il 2005», allegato a «PubblicAzione 75, 2006, pagina 16), si è determinato piuttosto un ampliamento della «flessibilità al margine», con la conseguente netta divaricazione tra le posizioni relativamente protette (sia sul piano delle tutele normative che sul terreno salariale) e quelle più deboli (prevalentemente riferibili ai giovani, alle donne e ai residenti di recente immigrazione) proprie degli occupati con carriere lavorative instabili, maggiormente esposte all'incertezza, al ripetersi di episodi di occupazione temporanea (di norma caratterizzati da livelli retributivi modesti e da ancora più modesti benefìci previdenziali) e agli effetti di eventi congiunturali negativi.

      Al di là delle proclamazioni ideologiche, non vi è evidenza di una crescita nella probabilità di transizione da contratti a tempo determinato a contratti a tempo indeterminato. La tendenza è anzi nel senso opposto (confronta Tito Boeri - Andrea Brandolini, «The Age of Discontent: Italian Households at the Beginning of the Decade», in «Giornale degli Economisti e Annali di Economia», 63, 2004; Anna de Angelini, «Mobilità e percorsi di ingresso nel lavoro dei giovani», in Bruno Contini - Ugo Trivellato, a cura di, «Eppur si muove. Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano», Il Mulino, Bologna 2005, pagine 392-393) e per centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti la «flessibilità» si tramuta nella «trappola della precarietà». Lungi dal confermare gli effetti virtuosi che si vorrebbero associati a una più marcata «flessibilità» del mercato e dei rapporti di lavoro, le carriere lavorative di un circoscritto ma significativo settore del lavoro dipendente italiano appaiono segnate dal ripetersi di episodi di lavoro temporaneo inframmezzati da periodi di disoccupazione.

      Il panorama offerto dal mercato del lavoro italiano a seguito della legislazione prodotta in materia di lavoro nel corso degli ultimi vent'anni appare, insomma, segnato da gravi distorsioni, da una marcata segmentazione e da un prevalente connotato di iniquità. Conviene in proposito riportare la sintetica conclusione di una recentissima analisi delle dinamiche del mercato del lavoro italiano ad opera di una riconosciuta équipe di studiosi: «L'evidenza empirica non nega una (moderata) associazione positiva tra flessibilità e occupazione, ma sono numerose le perplessità che tale evidenza genera. Disuguaglianze crescenti, esclusione sociale dei meno privilegiati, polarizzazione tra lavori buoni e lavori cattivi, segmentazione tra gruppi a cui si offrono prospettive di mobilità sociale e altri gruppi a cui tale offerta è preclusa, tra popolazioni nazionali e immigrati appaiono prezzi alti da pagare: soprattutto se le contropartite sono un modesto incremento dell'occupazione e un'inadeguata crescita economica» (Bruno Contini - Ugo Trivellato, «Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano: una sintesi», in Bruno Contini - Ugo Trivellato, a cura di, «Eppur si muove. Dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano», citato, pagina 84).

      Pochi ulteriori dati bastano a documentare la fondatezza di tale quadro di sintesi per ciò che attiene ai rapporti di lavoro a termine.

      Stando alle ultime rilevazioni dell'ISTAT sulle forze di lavoro in Italia (II trimestre 2006), i lavoratori dipendenti con contratto a termine sono attualmente 2.214.000 (di cui 1.724.000 a tempo pieno e 490.000 a tempo parziale) pari, come si diceva, al 13 per cento del totale dei dipendenti (+0,6 per cento rispetto al II trimestre 2005). Benché il notevole incremento del lavoro a termine (+8,1 per cento rispetto al II trimestre 2005, pari a +166.000 unità) abbia riguardato entrambe le componenti di genere, tutte le aree geografiche (con particolare intensità per le regioni centrali del Paese) e tutti i settori produttivi (in specie l'agricoltura e i servizi, con percentuali di aumento pari rispettivamente al 10,2 e al 9,2 per cento rispetto al II trimestre 2005), i dati più significativi riguardano le donne (il 15,3 per cento di esse risulta coinvolto in contratti a termine, contro l'11,3 per cento dei maschi) e soprattutto i giovani (120.000 nuovi posti di lavoro a tempo determinato creati nel corso dell'ultimo anno hanno interessato lavoratori di età inferiore ai 50 anni, mentre l'occupazione a termine riguarda oltre il 21 per cento dei lavoratori sotto i 34 anni di età).

      Anche le prospettive confermano la crescente rilevanza del fenomeno. L'Istituto di studi e analisi economica (ISAE) prevede che alla fine del 2006 si attesterà sul 35,5 per cento dell'insieme di quelle che intendono assumere (contro il 43,4 per cento del 2005), con un calo più marcato nei servizi, dove la quota delle imprese che si orienteranno sul tempo indeterminato passerà dal 36 per cento al 26 per cento (ISAE, «Inchiesta sulle assunzioni effettuate dalle imprese nel 2005 e le previsioni per il 2006», www.isae.it/nota mensile marzo 2006, pagine XVIII-XIX). Il dato appare del tutto coerente con le previsioni contenute nel rapporto Excelsior-Unioncamere 2006, secondo cui nel corso del corrente anno il rapporto di lavoro a termine riguarderà il 41,1 per cento dei nuovi assunti (contro una percentuale del 37,8 per cento del 2005 e addirittura del 30,8 per cento nel 2001); per contro, la percentuale dei nuovi assunti a tempo indeterminato cadrà al 46,3 per cento nel 2006, contro il 50 per cento del 2005 e il 60 per cento del 2001 (Unioncamere, «Progetto Excelsior. Sistema informativo per l'occupazione e la formazione. Sintesi dei principali risultati - 2006», www.unioncamere.it, pagina 145).

      Come accennato, il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, ha rappresentato una tappa importante nella evoluzione legislativa sul mercato del lavoro italiano. Tale rilevanza discende dal fatto che la norma ha reso non più necessaria la mediazione del contratto collettivo e soprattutto «liberalizza» il contratto a tempo determinato estendendone il ricorso a tutti i casi in cui vengano addotte, da parte del datore di lavoro, «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» (articolo 1, comma 1). Con l'entrata in vigore di questo decreto legislativo sono tuttavia sorti, sia in giurisprudenza sia in dottrina, numerosi contrasti interpretativi sulla portata e sul reale significato della riforma dei contratti a termine introdotta con la norma in discussione. In particolare, i dubbi interpretativi si sono incentrati su cinque questioni.

      In primo luogo, ci si chiede se, sotto la vigenza del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, il rapporto tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato si sia trasformato, nel quadro del più generale fenomeno di favore per le forme di «flessibilità» del lavoro (vedi legge n. 30 del 2003 e decreti legislativi attuativi), in una vera e propria coesistenza di modelli negoziali alternativi, dotati ciascuno di pari dignità; o se invece tale rapporto possa essere ancora ricondotto - secondo quanto avveniva in precedenza (sotto la vigenza della legge 18 aprile 1962, n. 230) e dovrebbe avvenire in ottemperanza a quanto previsto nel programma elettorale de L'Unione - allo «schema regola/eccezione» (in base al quale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la norma, derogare alla quale presuppone la sussistenza di circostanziate e comprovate motivazioni). Il dubbio è sorto in quanto l'articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, non propone una disposizione analoga a quella contenuta nel comma 1 dell'articolo 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230, in base al quale «il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate».

      Per risolvere in modo univoco tale grave e persistente dubbio interpretativo si ritiene indispensabile ristabilire espressamente il rapporto regola/eccezione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato, nonché assicurare la natura essenzialmente contingente e circostanziata delle esigenze aziendali sottese all'apposizione del termine, escludendo l'ammissibilità di esigenze ordinarie e continuative (da soddisfare a mezzo di assunzioni a tempo indeterminato). L'introduzione di provvedimenti normativi che muovano in tale senso appare necessaria e urgente al fine di dare attuazione a precisi impegni assunti in materia di lavoro dall'attuale maggioranza di Governo. Ricordiamo in proposito che a più riprese il programma de L'Unione ribadisce come il lavoro a tempo indeterminato - il solo in grado di consentire ai lavoratori di «costruirsi una prospettiva di vita e di lavoro serena» - costituisca «la normale forma di occupazione» («Per il bene dell'Italia. Programma di governo 2006/2011», capitolo [XI], «Lavoro, diritti e crescita camminano insieme») e debba pertanto tornare ad essere la forma normale del rapporto di lavoro dipendente. Accanto a considerazioni di ordine politico, ne sussistono tuttavia altre, non meno stringenti, di ordine giuridico.

      Appare opportuno, al riguardo, sottolineare gli effetti che la presente proposta di legge sortirebbe ai fini dell'armonizzazione normativa rispetto alla legislazione comunitaria richiamata nel titolo del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEEP). Nella misura in cui risolverebbe cruciali questioni interpretative sorte dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, riportando i livelli di tutela delle centinaia di migliaia di lavoratori a termine ad una situazione analoga a quella (certamente più garantista) che sussisteva sotto la vigenza della legge 18 aprile 1962, n. 230, la proposta di legge appare in primo luogo coerente con la citata direttiva 1999/70/CE che recepisce l'accordo-quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. Tale accordo (in particolare nelle considerazioni generali n. 6 e n. 7) ribadisce infatti il rapporto regola/eccezione, precisando che «i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento», e che «l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi».

      La presente proposta di legge appare in secondo luogo coerente con l'orientamento della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 41 del 7 febbraio 2000, aveva rigettato una richiesta di referendum popolare per l'abrogazione, tra l'altro, dell'articolo 1, comma 1, della legge n. 230 del 1962 (ossia della norma sopra citata che poneva il rapporto regola/eccezione) con la motivazione che i princìpi e l'impostazione della legge n. 230 del 1962 costituivano attuazione anticipata della direttiva comunitaria 1999/70/CE. «Qualora si consideri la lettera e lo spirito della direttiva in questione [recita la sentenza], l'ordinamento italiano risulta anticipatamente conformato agli obblighi da essa derivanti. Infatti, proprio la legge n. 230/1962 assoggettata a referendum [...] ha da molto tempo adottato una serie di misure puntualmente dirette ad evitare l'utilizzo della fattispecie contrattuale del lavoro a tempo determinato per finalità elusive degli obblighi nascenti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato». Alla luce di tale sentenza della Suprema Corte, è agevole comprendere come la modifica qui proposta contribuirebbe a porre il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, al riparo da qualsivoglia censura di violazione della clausola n. 8 (di «non regresso dei livelli di tutela») dell'accordo-quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (la quale stabilisce che «L'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso»).

      Alla prima, cruciale questione testé trattata sono strettamente connesse le altre questioni interpretative che la presente proposta di legge intende affrontare. Ci si chiede innanzitutto su chi (datore di lavoro o lavoratore) incomba, nel processo del lavoro, «l'onere probatorio circa la sussistenza delle ragioni volte a giustificare l'apposizione del termine». Più precisamente, ci si domanda se al lavoratore possa ragionevolmente richiedersi di dimostrare l'insussistenza di tali ragioni (producendo una prova «diabolica» poiché finalizzata a dimostrare, attraverso indizi necessariamente presuntivi, un fatto «negativo»); o se invece - come appare ben più logico nonché del tutto coerente con l'affermazione della eccezionalità del rapporto a termine e con il principio di vicinanza o disponibilità della prova da ultimo pure sancito dalla Corte di cassazione, sezioni unite, con sentenza n. 141 del 10 gennaio 2006 - la prova «positiva» della sussistenza di siffatte ragioni stia (come avveniva sotto la vigenza della legge n. 230 del 1962) a carico del datore di lavoro.

      La questione interpretativa è sorta in quanto il comma 2 dell'articolo 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, nel riprodurre il vecchio testo dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, che poneva espressamente tale onere probatorio in capo al datore di lavoro, ne ha limitato la portata alle sole ipotesi di «proroga» del contratto di lavoro a tempo determinato, omettendo l'inciso «sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro sia», e limitandosi a disporre che «L'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro». In sostanza, allo stato, la norma in questione pone a carico del datore di lavoro esclusivamente l'onere della prova delle ragioni volte a giustificare la «proroga» del termine, ma non l'onere della prova delle ragioni tese a giustificare l'«apposizione del primo termine».

      Appare senz'altro coerente con la reintroduzione del rapporto regola/eccezione porre a carico del datore di lavoro che intenda ricorrere allo strumento «eccezionale» del contratto a termine l'onere di provare la sussistenza delle ragioni che ne giustificano l'impiego.

      Ci si chiede inoltre come si configurino il regime delle conseguenze giuridiche e, in definitiva, la stessa sorte del contratto di lavoro, nell'ipotesi di omessa prova (da parte del datore di lavoro) a suffragio delle ragioni addotte per l'apposizione del termine.

      Sotto la vigenza del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (in assenza di una esplicita disciplina e per effetto della insufficiente determinazione del rapporto regola/eccezione), si è venuto affermando un orientamento interpretativo che, nella ipotesi di carenza di ragioni giustificative, tende a considerare come «essenziale» la clausola appositiva del termine e quindi - per l'effetto - a inficiare (in base all'articolo 1419, primo comma, del codice civile) l'intero contratto di lavoro, in spregio a qualsivoglia principio di conservazione del contratto («utile per inutile non vitiatur»).

      La reintroduzione del rapporto regola/eccezione consentirebbe, invece, di introdurre senza contraddizione alcuna, ma anzi in piena coerenza con la premessa, una norma di legge finalizzata a circoscrivere e a limitare l'inefficacia alla sola clausola appositiva del termine, con la conseguenza di salvaguardare la persistenza del rapporto di lavoro (ricondotto alla configurazione normale di contratto a tempo indeterminato).

      Quest'ultima osservazione comporta una puntuale determinazione del quadro di riferimento delle considerazioni in atto, nella misura in cui queste evocano disposizioni tese a trasformare i rapporti di lavoro a termine dei quali si sia verificata la carenza di motivazioni in rapporti a tempo indeterminato. Inevitabilmente tale finalità implica l'esclusione del pubblico impiego dall'ambito interessato dall'intervento normativo qui proposto, atteso che, per esigenze di pianificazione della spesa pubblica e di coerenza con le superiori norme attinenti all'accesso alle piante organiche della pubblica amministrazione mediante concorso (ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione), il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, stabilisce (articolo 36, comma 2) che «In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione». Con tutta evidenza deriva da tale disposizione una clausola limitativa in base alla quale tutte le questioni su cui verte la presente proposta di legge non coinvolgono il pubblico impiego.

      Occorre ora affrontare un'ulteriore materia - la disciplina della proroga del termine - al fine di restituire centralità al tempo indeterminato.

      In tema di proroga la precedente normativa contemplava tassative limitazioni. L'articolo 2 della legge 18 aprile 1962, n. 230, ammetteva la proroga «eccezionalmente» e solo per esigenze contingenti ed imprevedibili. Rovesciando tale impianto in direzione di una estrema genericità, il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (articolo 4, comma 1) ammette la proroga «a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive». Con tutta evidenza, legittimando il ricorso a proroghe anche in presenza di ragioni conosciute e pianificate a priori dall'azienda, tale norma presta il fianco a gravi abusi dello strumento della proroga (quale surrettizio surrogato del contratto a tempo indeterminato). Si impone pertanto la necessità di reintrodurre precise condizioni, che vincolino la concessione di proroghe a circostanze eccezionali, contingenti e non prevedibili da parte del datore di lavoro.

      La scelta di privilegiare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e in generale le forme che garantiscono, comunque, la massima stabilità dell'occupazione suggerisce, infine, di intervenire in materia di diritto di precedenza al fine di assicurarne la piena esigibilità.

      La legge 28 febbraio 1987, n. 56 (articolo 23), riconosceva al lavoratore un diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda con la medesima qualifica. In un quadro normativo in cui le ipotesi di assunzione a tempo determinato erano - come si è osservato - tassativamente specificate dal legislatore o dai contratti collettivi, coerentemente la norma limitava il diritto di precedenza ai soli lavoratori che avessero prestato attività lavorativa con contratto a termine nelle ipotesi previste dall'articolo 8-bis del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, ossia nelle ipotesi di assunzione a termine per lo svolgimento di attività lavorative a carattere stagionale. Non sussistendo più, a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, le ipotesi tassative predeterminate dalle predette fonti, è tuttavia venuta meno, anche sotto un profilo di logicità e di coerenza interna del sistema, la ragione della limitazione del diritto di precedenza a una singola ipotesi. Al fine di rendere effettivamente esigibile il diritto di precedenza in un quadro normativo coerente con la restituita centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, appare al contrario indispensabile estendere il diritto di precedenza a tutti i lavoratori assunti con contratti a termine (indipendentemente dal settore produttivo o dalle ipotesi - oggi «liberalizzate» - di assunzione), sopprimere qualsiasi termine di estinzione e conferirgli la tutela della norma imperativa, sottraendone il riconoscimento all'alea inerente alla contrattazione tra le parti.

      L'articolo 1 della presente proposta di legge stabilisce il principio che il contratto di lavoro si intende a tempo indeterminato, salva la possibilità di apposizione di un termine esclusivamente per comprovate ragioni temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Al fine di risolvere in modo univoco i gravi e persistenti dubbi interpretativi concernenti il legittimo ricorso al rapporto di lavoro a termine, la norma ristabilisce espressamente il rapporto regola/eccezione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a tempo determinato, e sottolinea la natura essenzialmente limitata (sul piano causale e temporale) delle esigenze aziendali sottese all'apposizione del termine.

      L'articolo 2 modifica la disciplina della proroga, con particolare riguardo alla parte relativa all'onere della prova. Si stabilisce infatti che l'onere di dimostrare l'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'apposizione del primo termine e la sua eventuale proroga ricade sul datore di lavoro e che, accertata la mancanza delle ragioni addotte a giustificazione, l'apposizione del termine è priva di effetto.

      L'articolo 3 stabilisce per i lavoratori il diritto di precedenza nell'assunzione a tempo indeterminato presso l'azienda dove hanno prestato lavoro con contratto a tempo determinato, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. In questo modo si estende per legge l'effettività di tale diritto a tutti i lavoratori (indipendentemente dal settore produttivo e dalle ipotesi di assunzione) senza termini di estinzione.


 


 


proposta di legge

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Art. 1.

(Condizioni per l'apposizione del termine).

 

      1. All'articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) il comma 1 è sostituito dai seguenti:

      «1. Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salva la possibilità di apposizione di un termine nei casi indicati al comma 1-bis.

      1-bis. È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato esclusivamente a fronte di comprovate ragioni temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo»;

          b) al comma 2, le parole: «le ragioni di cui al comma 1» sono sostituite dalle seguenti: «le ragioni di cui al comma 1-bis».

 

 

Art. 2.

(Disciplina della proroga).

 

      1. L'articolo 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, è sostituito dal seguente:

      «Art. 4. - (Disciplina della proroga) - 1. Il termine del contratto a tempo determinato può essere eccezionalmente prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto è inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni contingenti e imprevedibili, e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a tempo determinato non può essere superiore a tre anni.

      2. L'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l'eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro.

      3. L'apposizione del termine è priva di effetto quando risulta accertato che non ricorrono le ragioni addotte al fine di giustificare l'apposizione del termine o la sua eventuale proroga».

 

 

Art. 3.

(Diritto di precedenza).

 

      1. All'articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) il comma 9 è sostituito dal seguente:

      «9. I lavoratori che hanno prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato hanno diritto di precedenza nell'assunzione a tempo indeterminato presso la stessa azienda, con la medesima qualifica, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro»;

          b) il comma 10 è abrogato.

 

 




[1]    Il Consiglio europeo di giugno 2005 ha approvato le linee direttrici integrate per la crescita e l’occupazione per il periodo 2005-2008[1], in conformità alla richiesta del Consiglio europeo di Bruxelles del 22-23 marzo 2005.  Le linee direttrici si articolano in:

·     una raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 2005 recante i grandi orientamenti di politica economica (GOPE), applicabili a tutti gli Stati membri e alla Comunità.

·     una decisione del Consiglio del 12 luglio 2005 recante le linee direttrici per l’occupazione che enunciano gli obiettivi generali e le azioni prioritarie in materia di occupazione nell’Unione europea e nei suoi Stati membri.

[2]    Orientamento 21: favorire al tempo stesso flessibilità e sicurezza occupazionale e ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, tenendo debito contro del ruolo delle parti sociali.

[3]    “Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato”.

[4]    Prima della vigenza della L. 230 del 1962, l’apposizione del termine al contratto di lavoro era disciplinata dall’articolo 2097 del codice civile, secondo cui l’apposizione del termine doveva risultare dalla specialità del rapporto o da atto scritto, altrimenti il contratto si considerava concluso a tempo indeterminato. Si disponeva inoltre, a garanzia del lavoratore, che era inefficace l’apposizione del termine volta ad eludere le norme relative al contratto a tempo indeterminato. Nel caso in cui il rapporto proseguiva dopo la scadenza del termine e non risultava una diversa volontà delle parti, il rapporto si reputava a tempo indeterminato.

[5]    “Assunzione di personale a termine nelle aziende di trasporto aereo ed esercenti i servizi aeroportuali”.

[6]    “Norme sulla durata dei contratti individuali di lavoro dei salariati fissi dell'agricoltura e sulle relative controversie”.

[7]    “Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato nei settori del commercio e del turismo”.

[8]    “Ulteriore proroga dell'efficacia delle norme sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato nei settori del commercio e del turismo”.

[9]    “Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione”.

[10]   “Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro”.

[11]    Ai sensi del richiamato articolo 23, i contratti collettivi di lavoro potevano prevedere ulteriori ipotesi nelle quali è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro. I contratti collettivi in questione dovevano anche stabilire il numero massimo di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine, in rapporto ai dipendenti a tempo indeterminato presenti nell'azienda. Era da ritenersi che la mancata indicazione di tale numero massimo rendesse illegittima la stipula dei contratti a termine.

[12]   L'articolo 68, comma 6, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha specificato che la riduzione di cui al comma 2 dell'articolo 8 citato non si applica ai premi INAIL.

[13]   Si ricorda che il D.Lgs. 276/2003, ha introdotto il contratto di somministrazione di lavoro (Titolo III, Capo I) che in sostanza sostituisce il contratto di fornitura di lavoro interinale (la cui disciplina viene contestualmente abrogata). Anche il contratto di lavoro tra impresa somministratrice e il lavoratore può essere stipulato a tempo determinato.

[14]   Recante "Norme per il diritto al lavoro dei disabili",

[15]   Recante "T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità".

[16]   Si ricorda che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 41 del 3-7 febbraio 2000, ha dichiarato inammissibile una richiesta di referendum popolare volta all’abrogazione, tra le altre, di numerose disposizioni della legge n. 230/1962, potendo derivarne l’esposizione dello Stato italiano a responsabilità rispetto all’ordinamento comunitario. La richiesta referendaria, in sostanza, sopprimendo tutte le disposizioni che - al fine di impedire l’elusione degli obblighi connessi al rapporto di lavoro a tempo indeterminato -, limitavano e circostanziavano l’apposizione del termine e apprestavano apposite garanzie nel caso di proroga o rinnovo del contratto a termine, era volta a conservare nella legge n. 230/1962 esclusivamente la previsione della generale legittimità della conclusione di contratti a tempo indeterminato. La Corte Costituzionale ha adottato la decisione sulla base della motivazione che la sostanziale “liberalizzazione” della possibilità di prorogare, rinnovare o comunque proseguire dopo la scadenza i rapporti di lavoro a termine avrebbe comportato non una semplice modifica delle garanzie previste per i lavoratori a termine dalla normativa allora vigente, ma il venir meno in maniera radicale di tali garanzie in contrasto e in violazione con i principi della direttiva 1999/70/CE, volta invece a introdurre negli ordinamenti nazionali una tutela essenziale per i lavoratori con riferimento alla proroga o al rinnovo dei contratti a termine in funzione antielusiva degli obblighi connessi al rapporto a tempo indeterminato.

[17]    Recante "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche".

[18]   Ciò, tra l’altro, risponde al principio dell’accesso all’impiego presso pubbliche amministrazioni mediante concorso pubblico, previsto dall’articolo 97 della Costituzione.

[19]   Si ricorda che, ancor prima dell'approvazione della delega, era stato avviato, dal precedente Governo, un confronto con le parti sociali in ordine alle modalità di recepimento della direttiva 1999/70/CE nell'ordinamento nazionale. Tale confronto - oltre a corrispondere alle prassi abituali nel nostro Paese – era stato espressamente richiesto dal Preambolo dell'accordo attuato dalla direttiva, nella forma della "consultazione" precedente alle conseguenti iniziative legislative, normative o amministrative degli Stati membri. La "trattativa" è stata avviata il 24 luglio 2000 nell'ambito del "Comitato consultivo permanente sulla legislazione del lavoro" previsto dal Patto per lo sviluppo e l'occupazione del dicembre. All'inizio del 2001, si è arrivati all'elaborazione di una prima proposta di testo dei rappresentanti dei datori di lavoro, inviata al Ministro del lavoro. Nei mesi successivi, la proposta - modificata ed integrata - raccolse l'adesione di alcune delle organizzazioni sindacali dei lavoratori (tra cui la Cisl e la Uil) e l'opposizione nel merito della Cgil. Dopo ulteriori trattative si giunse ad un accordo definitivo tra alcune delle parti interessate, con l'invio di una lettera e di un testo ufficiali al Ministro del lavoro. Le parti che hanno sottoscritto tale accordo fin dall'inizio erano le seguenti: Abi, Agci, Ania, Casartigiani, Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Confartigianato, Confcooperative, Confetra, Confindustria, Unci, nonché, tra le organizzazioni dei lavoratori dipendenti, Cisal, Cisl, Ugl e Uil. Altre associazioni datoriali - tra cui Confesercenti, Confcommercio e Confapi - ritennero di non aderire all'accordo, almeno in un primo momento, ritenendo opportuno ricevere l'adesione di tutte le principali parti sociali. Più specificamente, la Cgil rimase sulle proprie posizioni di contrarietà, non risultando accolte le modifiche cui subordinava la propria adesione. Il Governo precedente, peraltro, anche a seguito dell'esito delle elezioni politiche del 13 maggio 2001, non aveva ritenuto di fare proprio il testo così elaborato e di esercitare la propria facoltà di trasmetterlo alle Camere come schema di decreto legislativo. Il nuovo Governo invece procedette in tal senso il 12 luglio 2001.

 

[20]    Lo schema strettamente tassativo delineato dalla legge n. 230/1962 era stato nel corso degli anni reso progressivamente più flessibile, da una parte "ampliandolo" con l'introduzione di nuove specifiche "causali" previste dalla legge, dall'altra attribuendo alla contrattazione collettiva la generale facoltà di individuarne a sua volta di ulteriori.

[21]   Cfr. tra le altre: Trib. Milano, 31 ottobre 2003; Trib. Milano, 13 novembre 2003; Trib. Firenze, 5 febbraio 2004; Trib. Marsala, 27 gennaio 2005.

[22]   Cfr. tra le altre: App. Milano, 29 aprile 2004; App. Bari, 20 luglio 2005.

[23]   Cfr. tra le altre: Trib. Milano, 21 aprile 2004; Trib. Firenze, 23 aprile 2004.

[24]   Cfr. tra le altre: Trib. Milano, 15 ottobre 2003; Trib. Milano, 8 gennaio 2004; Trib. Firenze, 20 luglio 2004; Trib. Milano, 14 ottobre 2004; Trib. Bologna, 2 dicembre 2004; Trib. Roma, 12 gennaio 2005; Trib. Monza, 18 gennaio 2005; Trib. Marsala, 27 gennaio 2005; Trib. Roma, 3 febbraio 2005.

[25]   Cfr. tra le altre: Trib. Firenze, 5 febbraio 2004; Trib. Milano, 25 novembre 2004; Trib. Roma, 12 gennaio 2005.

[26]   Cfr. tra le altre: Trib. Milano, 15 ottobre 2003; Trib. Milano, 31 ottobre 2003; Trib. Milano, 13 novembre 2003; App. Milano, 9 dicembre 2003; App. Milano, 29 aprile 2004; App. Bari, 20 luglio 2005.

[27]    Le esclusioni relative ai licenziamenti collettivi e alla cassa integrazione sono limitate ovviamente ai posti di lavoro coinvolti nei relativi provvedimenti.

[28]   I casi previsti dalla lettera a) del comma 7, che intrinsecamente presentano un carattere di temporaneità, sostanzialmente corrispondono ad alcuni casi espressamente elencati dalla precedente disciplina di cui alla legge n. 230/1962.

[29]   Si ricorda che indicazioni interpretative sulla nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. 368 del 2001 sono state fornite dal Ministero del lavoro con la circolare 1° agosto 2002, n. 42. Secondo la menzionata circolare, a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina, sarebbe venuto meno per l’apposizione del termine il requisito della necessaria temporaneità delle esigenze aziendali rispetto alla prestazione lavorativa, fermo restando che le ragioni giustificative (da specificare nel contratto) devono essere oggettive e verificabili e che la conclusione del contratto a termine non deve avere una finalità fraudolenta intesa ad eludere le garanzie volute dal legislatore. Nella medesima circolare si precisa che nel caso in cui le ragioni addotte per giustificare l’apposizione del termine non rispettino i requisiti legali, la relativa clausola contrattuale dovrebbe considerarsi inefficace e quindi il contratto di lavoro dovrebbe considerarsi concluso a tempo indeterminato sin dall’origine.

[30]   Inoltre, il terzo punto del Preambolo dell'accordo afferma che esso "stabilisce i principi generali e i requisiti minimi […], riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali".

[31]   Si ricorda tuttavia che la giurisprudenza maggioritaria propende per l’interpretazione secondo cui l’onere della prova sulle ragioni che giustificano l’apposizione del termine spetterebbe al datore di lavoro anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 368 del 2001. Tale giurisprudenza pertanto ritiene non decisivo il dato testuale di cui all’articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 368 del 2001, facendo prevalere ragioni sistematiche connesse al principio di eccezionalità del contratto di lavoro a termine per cui spetterebbe al datore di lavoro in primo luogo indicare in maniera specifica nel contratto le ragioni giustificative e in seguito fornire prova di tali specifiche ragioni.

[32]   La Corte di giustizia è stata chiamata dal giudice del lavoro di Monaco, nell’ambito di una specifica controversia in merito alla stipulazione di un contratto di lavoro a termine, a emettere una pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione di alcune norme comunitarie, tra cui le clausole 2, 5 e 8 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE.

[33]   La Corte di giustizia giunge quindi alla conclusione (punto 54 della motivazione) che «la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa quale quella controversa nella causa principale, la quale, per motivi connessi con la necessità di promuovere l’occupazione e indipendentemente dall’applicazione del detto accordo, ha abbassato l’età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a tempo determinato».

[34]   Il giudizio di legittimità costituzionale è stato promosso dal Tribunale di Rossano con ordinanza del 17/05/2004. Il remittente ha ravvisato la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10, commi 9 e 10 e dell’articolo 11, commi 1 e 2 del D.Lgs. 368 del 2001 per violazione dell’articolo 76 della Costituzione, in quanto le citate disposizioni nel disciplinare il diritto di precedenza avrebbero violato il principio di “non regresso” di cui alla clausola 8.3 dell’accordo-quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE e quindi indirettamente anche la norma di delega di cui alla legge n. 422/2000.

[35]   La restituzione degli atti al remittente è stata disposta al fine di permettergli di riesaminare la questione sulla base della sentenza della Corte di giustizia, poiché – come precisato ripetutamente dalla Corte costituzionale -, i principi enunciati nelle sentenze della Corte di giustizia, essendo direttamente applicabili nell’ordinamento interno, assumono valore di jus superveniens.