XV LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 41 di lunedì 25 settembre 2006

[frontespizio]
[elenco e sigle dei gruppi parlamentari]
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[indice cronologico]
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[allegato A]
[allegato B]

[riferimenti normativi]
Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIULIO TREMONTI

La seduta comincia alle 11,30.

GIACOMO STUCCHI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 22 settembre 2006.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, i deputati Albonetti, Amato, Benedetti Valentini, Bersani, Bindi, Boco, Bonino, Cento, Cirino Pomicino, Colucci, Compagnon, Damiano, D'Antoni, De Piccoli, Fabris, Fioroni, Galante, Lanzillotta, Levi, Marcenaro, Maroni, Melandri, Minniti, Pecoraro Scanio, Pisicchio, Pollastrini, Provera, Sgobio e Visco sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati complessivamente in missione sono trentadue, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Convocazione della Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa.

PRESIDENTE. Comunico, d'intesa con il Presidente del Senato, che la Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa è convocata per mercoledì 27 settembre 2006, alle ore 14,30, presso la sede di vicolo Valdina, per procedere alla propria costituzione.

Convocazione della Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare dell'Unione dell'Europa Occidentale (UEO).

PRESIDENTE. Comunico, d'intesa con il Presidente del Senato, che la Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare dell'Unione dell'Europa Occidentale (UEO) è convocata per mercoledì 27 settembre 2006, alle ore 14, presso la sede di vicolo Valdina, per procedere alla propria costituzione.

Convocazione della Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare della NATO.

PRESIDENTE. Comunico, d'intesa con il Presidente del Senato, che la Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare della NATO è convocata per mercoledì 27 settembre 2006, alle ore 15, presso l'aula della Commissione politiche dell'Unione europea del Senato della Repubblica, per procedere alla propria costituzione.

Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 28 agosto 2006, n. 253, recante disposizioni concernenti l'intervento di cooperazione allo sviluppo in Libano e il rafforzamento del contingente militare italiano nella missione UNIFIL, ridefinita dalla risoluzione 1701 (2006) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (A.C. 1608) (ore 11,34).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: ConversionePag. 2in legge del decreto-legge 28 agosto 2006, n. 253, recante disposizioni concernenti l'intervento di cooperazione allo sviluppo in Libano e il rafforzamento del contingente militare italiano nella missione UNIFIL, ridefinita dalla risoluzione 1701 (2006) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 1608)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari di Alleanza Nazionale, de L'Ulivo e di Forza Italia ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione, presidente Ranieri, ha facoltà di svolgere la relazione.

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, con la mia relazione sul provvedimento in esame, che disciplina la partecipazione italiana alla missione in Libano, così come definita nella risoluzione n. 1701 delle Nazioni Unite, desidero svolgere alcune rapide considerazioni sul contesto politico internazionale nel quale è maturata la missione e sulle sue prospettive.
Il conflitto israelo-libanese ha avuto inizio nel mese di luglio con il lancio di razzi sul territorio di Israele da parte di Hezbollah, che ha successivamente attaccato due veicoli corazzati israeliani, uccidendo tre soldati e catturandone altri due. Dura è stata la reazione di Israele, che ha considerato l'attacco di Hezbollah un vero e proprio atto di guerra ed ha reagito con bombardamenti aerei, blocchi navali ed incursioni nei territori del sud del Libano.
Un conflitto che non era nei piani del Governo israeliano di Olmert, che aveva vinto le elezioni politiche lo scorso maggio sulla base di un impegno di graduale ritiro, ancorché unilaterale, da una parte dei territori occupati, e che probabilmente non era neanche nei programmi delle milizie di Hezbollah che pure, con la loro incursione, hanno innescato la drammatica spirale.
In realtà, il conflitto affonda le proprie radici nel crescente deterioramento che il tessuto di sicurezza dell'intera regione ha subito nel corso degli ultimi anni. Vari fenomeni hanno contribuito a questa involuzione: l'offensiva del terrorismo senza dubbio, ma certamente la guerra iniziata nel 2003 in Iraq, ha riacceso in gran parte delle opinioni pubbliche arabe un forte risentimento antioccidentale, che, come sempre accade, si orienta anche contro Israele. Ciò ha contribuito a diffondere nella classe dirigente israeliana la sensazione che in una parte del mondo arabo riaffiorasse l'obiettivo, sopito fino a pochi anni fa, dell'eliminazione stessa dello Stato di Israele. La percezione di questa minaccia è stata uno dei fattori all'origine di quanto accaduto nei 34 giorni di guerra in Libano.
L'intensa iniziativa diplomatica dispiegatasi per giungere al cessate il fuoco ha origine nella consapevolezza, forse più acuta del passato, dei rischi che il conflitto potesse innescare una crisi regionale dalle conseguenze difficilmente calcolabili. L'Italia è stata tra i protagonisti di questa iniziativa diplomatica volta a porre fine alle ostilità, presupposto per qualunque ipotesi di trattativa, ed ha lavorato per un'assunzione di responsabilità dell'Unione europea nella stabilizzazione del Libano. La Conferenza di Roma del 26 luglio - la Conferenza del Lebanon Core Group allargata ad altri Governi, cui ha partecipato il Segretario generale dell'ONU - ha avviato una più stretta e coordinata cooperazione fra Europa, Stati Uniti e la maggior parte dei paesi arabi. Quella Conferenza ha consentito, inoltre, che si avviasse un processo di graduale avvicinamento fra le posizioni dei vari paesi europei e che si dipanasse la complessa trama politica che ha portato, poi, alla risoluzione n. 1701.Pag. 3
Con tale risoluzione, la comunità internazionale si propone due obiettivi. Una riaffermazione del diritto di Israele a vivere in sicurezza, impedendo che una parte del territorio del Libano venga usato come base per attacchi all'alta Galilea, e la ricostruzione della sovranità del Libano, evitando che quel paese, che appena un anno fa si è liberato dall'occupazione siriana, si trasformi nella palestra per giochi di potere di paesi limitrofi. La risoluzione restituisce al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un ruolo che per molti anni gli è stato di fatto precluso dal meccanismo dei veti incrociati e da una profonda crisi di legittimità che ha investito l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non c'è dubbio, tuttavia, che a tali risultati positivi non si sarebbe pervenuti senza il maturare di una posizione comune dell'Unione europea ed un particolare rilievo va attribuito al ruolo della Francia, che, memore dell'impotenza delle proprie truppe in Bosnia e della tragedia del 1983 in Libano, ha tuttavia accettato di partecipare alla missione in modo consistente, con un ruolo di comando condiviso con l'Italia.
In questo delicato passaggio la bussola che ha guidato il Governo italiano è stata la convinzione che l'Europa non avrebbe dovuto, né potuto del resto, sottrarsi ad un impegno teso a contribuire alla pacificazione di una regione strategicamente cruciale del Medio Oriente come il Libano. Del resto, un nuovo disimpegno avrebbe drammaticamente compromesso la credibilità dell'Unione e reso vano, probabilmente, ogni sforzo di rilanciare il progetto europeo.
Merito del Governo italiano è stato quello di aver tenuto aperta, con la propria costante disponibilità, la prospettiva di una missione con un forte profilo europeo, anche quando questa sembrava sfumare a causa delle esitazioni di altri partner. Certo, nessuno si nasconde i problemi che continuano ad attanagliare l'Unione europea. Anche nella vicenda libanese, del resto, non sono mancati i limiti; una missione europea condotta con quella forza di reazione rapida che è stata preparata per «missioni di Petersberg» avrebbe avuto molti evidenti vantaggi. Purtroppo, non è stato così e tuttavia la vicenda libanese segna, in ogni caso, un riconoscimento dell'importanza che sta assumendo l'Unione europea negli affari internazionali, specie in una fase di difficoltà evidente della leadership americana.
In questo contesto, va sottolineata la novità che con la risoluzione n. 1701 si è prodotta tra Israele e la comunità internazionale. Per la prima volta, nella sua difficile storia, la sicurezza dello Stato ebraico su un versante delicato, come quello libanese, viene garantita internazionalmente con un ruolo fondamentale degli europei. Si tratta di una novità, una novità che potrebbe rappresentare un punto di svolta nella storia drammatica di guerre e conflitti affrontati da Israele nei 60 anni dalla sua fondazione. La guerra preventiva nella storia di Israele è stata condotta con successo in molte occasioni, da Suez alla guerra dei sei giorni, e tuttavia si impone un interrogativo, che suscita discussione e inquietudine nella stessa società israeliana: può Israele affidare essenzialmente, per sempre, la propria sicurezza alla deterrenza militare? Lo Stato di Israele ha dato al popolo ebraico una volontà nazionale, una capacità di difesa straordinarie, ma il costo politico dei successi militari si è rivelato sempre più alto.
Oggi Israele dovrebbe cogliere la novità che emerge dalla posizione dell'Europa e degli stessi Stati Uniti: è la comunità internazionale che intende contribuire alla sua sicurezza. Se così fosse, si determinerebbe un quadro più favorevole per la ripresa stessa del difficile negoziato tra israeliani e palestinesi. L'auspicio del Parlamento italiano credo sia quello che, sull'onda dell'operazione positiva per il Libano, avanzino le condizioni di una pace durevole per l'intera regione mediorientale. Certamente, non tutto dipende da Israele, ma sarebbe una scelta lungimirante da parte del Governo israeliano sostenere il tentativo di Abu Mazen di costruire, su basi che, nei fatti, aprirebberoPag. 4al riconoscimento dello Stato ebraico, un Governo di unità nazionale in Palestina.
Ci auguriamo che, in questo contesto, il Governo israeliano non congeli la prospettiva di un ritiro dalla Cisgiordania e non decida di finanziare nuovi insediamenti nei territori, perché questo costituirebbe un macigno sulle esili prospettive di ripresa del dialogo. Certo, queste richieste al Governo israeliano devono accompagnarsi, da parte della comunità internazionale, ad un'energica pressione, ad un'incisiva iniziativa diplomatica verso la Siria e l'Iran.
Per quanto riguarda la Siria, credo siano stati importanti le parole con cui il ministro degli esteri italiano ha chiesto al Governo siriano di cooperare al processo aperto in Libano, ricordando che l'eventuale violazione della risoluzione n.1701, nella parte in cui essa prevede che sia impedito l'ingresso di armi nel territorio libanese, non incontrerebbe l'indifferenza della comunità internazionale.
Sul versante iraniano, crediamo sia giusto condividere lo sforzo negoziale ulteriore che l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, a nome dell'Unione nel suo complesso e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite medesimo, porta avanti. Qualche spiraglio sembra aprirsi, tuttavia è decisivo scongiurare divisioni nella comunità internazionale tra Europa e Stati Uniti sulle risposte da fornire alle autorità iraniane sul contenzioso delicatissimo e cruciale riguardante la questione nucleare.
Signor Presidente, colleghi, nel modo in cui è stata affrontata la crisi libanese si colgono i primi tenui segni di quel multilateralismo costruttivo ed efficace che l'Italia ritiene debba costituire la strategia con cui affrontare le gravi ed irrisolte questioni della sicurezza internazionale. Del resto, l'esigenza di una nuova fase nella vita della comunità internazionale appare diffusa, perché l'unilateralismo militare non porta lontano, la messa in mora degli organismi di garanzia, come le Nazioni Unite, è una condotta gravida di rischi e il ricorso alla forza, la scelta più drammatica dinanzi a cui può trovarsi la comunità internazionale, non può essere affidato all'arbitrio o alle valutazioni di un solo paese, fosse anche la superpotenza. Del resto, nella stessa amministrazione statunitense sembra farsi strada, di fronte alla dura realtà della vicenda irachena, la consapevolezza che anche la superpotenza ha bisogno di alleati, la consapevolezza del ruolo dell'Europa e delle Nazioni unite e, quindi, un ripensamento sull'indirizzo unilateralistico.
È certo - concludo, Presidente - che il multilateralismo sarà all'altezza dei problemi solo se comporterà assunzioni di responsabilità, efficacia e prontezza nelle risposte da parte della comunità internazionale; un multilateralismo nel cui quadro la comunità internazionale sappia adoperarsi, intervenendo per sostenere i diritti umani, principi di libertà, pluralismo politico e religioso per tutti, senza pregiudiziali e discriminazioni, nel rispetto reciproco, ma contro fanatismi di qualunque tipo (il nostro pensiero va a quei cristiani che non vedono rispettato il loro diritto alla libertà religiosa). Ecco perché condividiamo lo sgomento di fronte all'esecuzione della condanna a morte di tre cattolici indonesiani.
La missione in Libano è difficile e rischiosa, la consapevolezza di ciò è forte nella maggioranza che sostiene il Governo ed è comune all'intero Parlamento. È per questo che ci si è impegnati come Governo, nell'ambito delle Nazioni Unite, per definire un complesso di regole di ingaggio robusto, tale da garantire la sicurezza dei nostri militari e l'efficacia della missione. Accrescono le nostre preoccupazioni le affermazioni fatte da Sayed Hassan Nasrallah durante la manifestazione svoltasi a Beirut nei scorsi giorni.
Il compromesso raggiunto nella risoluzione n. 1701, per quanto riguarda il superamento di gruppi armati nel sud del Libano, deve essere rispettato da tutti, anche da Hezbollah, ed è inaccettabile da parte della comunità internazionale e delle Nazioni Unite rispolverare la retorica delle armi, soprattutto quando gli israeliani si sono ritirati da quasi tutto il territorio libanese occupato.Pag. 5
La complessità della situazione ed allo stesso tempo il dovere di un paese come l'Italia di partecipare alla missione di pace in Libano spingono alla ricerca di una convergenza ampia in Parlamento a sostegno dei militari italiani impegnati in quel delicato e complesso contesto. Manifestiamo, quindi, l'apprezzamento per la scelta compiuta dai partiti dell'opposizione parlamentare di disporsi positivamente, come avvenuto nelle riunioni delle Commissioni esteri e difesa congiunte di agosto e settembre, circa la decisione di impegnare un contingente militare italiano nella missione in Libano. Mi auguro che tale scelta trovi conferma anche in quest'aula, sostenendo una missione che si propone di contribuire a determinare le condizioni di pace e di stabilità in Medio Oriente.
Il prevalere di queste valutazioni da parte dell'opposizione, anche in un contesto politico come quello italiano, segnato da una aspra dialettica, sarebbe una manifestazione di serietà, di responsabilità e costituirebbe un omaggio all'impegno dei nostri militari, il cui lavoro nel corso delle differenti missioni all'estero è stato dall'intero Parlamento apprezzato. Esso è stato apprezzato anche quando, come nel caso dell'Iraq, le forze dell'attuale maggioranza non condivisero (e non condividono) la scelta perché non condividevano il quadro complessivo entro il quale quella missione si veniva configurando. Tuttavia, questo non ha mai messo in discussione l'apprezzamento forte dell'opera cui hanno assolto i nostri militari nelle varie missioni nel corso di questi anni (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, dei Verdi e dell'Italia dei Valori).

PRESIDENTE. La relatrice per la IV Commissione, presidente Pinotti, ha facoltà di svolgere la relazione.

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, il decreto di cui cominciamo oggi a discutere in Assemblea definisce lo stato giuridico, il trattamento economico e la speciale condizione giurisdizionale entro cui agiscono i nostri militari in missione in Libano, quella prevista dal codice militare di pace con alcune integrazioni. Il primo passo verso questa decisione il Parlamento lo ha assunto il 18 agosto, una settimana dopo che alle Nazioni Unite era stata votata la risoluzione n. 1701, che ha definito le condizioni per il «cessate il fuoco» e l'avvio di una soluzione del conflitto israelo-libanese.
L'Italia è stata assai tempestiva nel dare il proprio appoggio affinché la risoluzione dell'ONU potesse attuarsi ed è stato importante che le Commissioni esteri e difesa di Camera e Senato abbiano sostenuto, quasi all'unanimità e comunque senza alcun voto contrario, il testo della risoluzione che dava mandato al Governo di fare quanto necessario per rispondere alle richieste del Consiglio di sicurezza. Si pensava che già nei primi giorni della settimana successiva si potesse varare il decreto in sede di Consiglio dei ministri, poi varato qualche giorno dopo, il 28 agosto.
Il tempo intercorso è stato utilizzato per garantire che il contingente militare potesse partire nelle migliori condizioni per portare a termine la missione. Si è attivata, quindi, sia un'azione politico-diplomatica volta a favorire l'ampliamento del coinvolgimento dell'Europa, sia un approfondimento tecnico per accertarsi e lavorare affinché la catena di comando e le regole di ingaggio fossero adeguate alla missione. Prima dell'invio dei nostri soldati il Governo, e segnatamente il ministro della difesa, hanno svolto iniziative ed incontri proprio per definire gli aspetti operativi della missione militare, le regole di ingaggio e la catena di comando. Questi contratti hanno portato a delineare meglio la cornice operativa della missione. Si è lavorato in sede ONU, presso il Dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace, con un contributo attivo anche da parte di un ufficiale italiano del COE, che ringraziamo.
Il 6 settembre è cominciata la discussione nelle Commissioni esteri e difesa della Camera. Tale lavoro si è svolto in due settimane, ma ha consentito un'analisiPag. 6approfondita e numerosi interventi. Giudico importante ed utile quella discussione ed è assai positivo che si sia conclusa nuovamente con un voto quasi unanime, con la sola astensione della Lega nord. Auspico - come già affermato dal presidente Ranieri - che anche il voto dell'Assemblea possa sostenere con la stessa compattezza la missione dei nostri militari.
Dicevo che assai importante è stata la tempestività e la determinazione dell'Italia. Vi è stato un momento in cui il cessate il fuoco rischiava di non tenere, mentre all'ONU si registrava un'iniziale difficoltà a trovare paesi disponibili ad inviare le truppe necessarie per formare il contingente dei 15 mila soldati previsti dalla nuova missione UNIFIL. L'Italia è stata la prima esprimersi con un voto del Parlamento, ha tenuto dritta la barra del proprio impegno, spendendosi a fondo affinché le condizioni di comando potessero essere le migliori per la riuscita e la funzionalità della missione ed è stata anche la prima ad arrivare con il proprio contingente in territorio libanese.
Il contingente militare italiano ha costituito in tempi brevissimi una forza di intervento navale, con la quale è iniziata l'operazione Leonte. La documentazione che accompagna il decreto-legge in discussione rende conto dettagliatamente della composizione di questo particolare assetto inviato in Libano: è una forza di primo intervento, early entry force, come si dice in linguaggio tecnico. Le dettagliate tabelle che ne definiscono i costi e la composizione non rendono minimamente lo sforzo compiuto dall'insieme delle nostre Forze armate per consentire questo straordinario risultato in pochi giorni. Me ne sono resa conto il giorno della cerimonia svoltasi a largo di Brindisi, all'atto della partenza del contingente militare, con la quale si è voluta esprimere la vicinanza dell'intero paese ai nostri soldati in partenza.
Ancora una volta, in questa sede, voglio ringraziare i nostri militari, estendendo questo sentimento alle loro famiglie, ai legami e agli affetti che li seguono dall'Italia e che non nascondono le difficoltà, i rischi e i pericoli che, in nome della pace, questi militari - insieme ai soldati degli altri paesi - si stanno assumendo. Rischi e pericoli che neppure noi sottovalutiamo e, proprio per questo, ci sentiamo impegnati a ridurli al minimo facendo la nostra parte.
La rimozione del blocco navale è stato un altro passo significativo sulla via della ricomposizione del conflitto ed è stata agevolata anche dalla presenza nell'area delle nostre navi. Molte sono le questioni da esaminare, a cominciare anche dal rilascio dei soldati israeliani tenuti ancora in ostaggio e dalla messa in sicurezza del territorio.
Il decreto ha formalizzato l'invio di 2.496 militari; sono già sbarcati in territorio libanese 800 soldati italiani: una compagnia di lagunari dell'esercito e due compagnie del battaglione San Marco della Marina militare, accompagnate dai primi indispensabili supporti operativi e tattici. Sarà il comando UNIFIL, sulla base dell'evolversi della situazione sul territorio e una volta definiti i livelli di partecipazione da parte di altre nazioni che hanno dichiarato di voler contribuire, a stabilire l'assetto complessivo futuro della nostra missione, che potrebbe attestarsi intorno ai 2.500 soldati sbarcati sul territorio.
La nostra partecipazione ha il compito di far rispettare la risoluzione n. 1701 e di rendere sicuro un territorio di circa 300 chilometri quadrati. Sicurezza del territorio, oggi, significa anche affrontare da subito la difficile opera di bonifica dell'inquietante eredità che gli ultimi giorni di guerra hanno lasciato sul territorio libanese. A guerra finita, il rischio di morte continua per effetto delle bombe a grappolo. Credo sia ora che la comunità internazionale si misuri seriamente con tale problema e metta al bando questa tipologia di armi, che espone a gravi rischi soprattutto le popolazioni civili e i bambini. L'Italia potrebbe assumere un'iniziativa diplomatica e anche legiferare in tal senso, avviando così un processo che, per essere efficace, deve riuscire a coinvolgerePag. 7molti paesi e, soprattutto, quelli che di questo tipo di armamento si avvalgono.
Ho ricordato la tempestività e la consistenza del nostro intervento non per sollecitare l'orgoglio nazionale; siamo infatti consapevoli dei rischi e delle difficoltà della missione che, come più volte affermato dal ministro Parisi, sarà lunga, impegnativa, costosa e rischiosa.
Tuttavia, oggettivamente, il ruolo c'è stato ed è stato riconosciuto dalla comunità internazionale e dai due Governi coinvolti nel conflitto: quello israeliano e quello libanese. Qualcuno ha insinuato che la molla di tutto ciò sia stata il bisogno di sentirsi primi della classe, come se dovessimo cancellare colpe del passato oppure recuperare su altre scelte, come se vivessimo una sorta di complesso di inferiorità da recuperare con un attivismo ed una disponibilità eccessivi, una sorta di sindrome di Crimea attualizzata, come se questa l'avessimo considerata, in fin dei conti, un'occasione. La guerra non è mai un'occasione, è sempre una tragedia e noi ci siamo mossi per fermarla.
Ecco perché sono convinta che la scelta di impegno sia stata fatta perché era necessaria, utile e giusta. Ciascuno di noi ricorda le tragiche immagini che hanno funestato le nostre giornate estive: bombardamenti, morti, distruzioni, civili terrorizzati, quasi un milione di profughi, genitori straziati con in braccio i cadaveri dei loro figli. Possiamo, per una volta, pensare che la politica sia un'attività alta e che si sia mossa per fermare tutto questo? Credo che tale sentire condiviso ci sia ed il consenso ampio del Parlamento ed anche a livello internazionale lo dimostra.
Lo svolgersi della crisi israelo-libanese ha rappresentato chiaramente quanto sia necessario che le istituzioni internazionali siano in grado di intervenire con tempestività ed autorevolezza. Un giovane caporale in partenza per il Libano, intervistato da una televisione, ha detto: ho partecipato ad altre missioni in Kosovo, in Albania ed a Nassiriya; con il casco blu è un'altra cosa, un motivo di orgoglio in più. È fondamentale che l'ONU si impegni a fondo perché le attese non vadano deluse. Questa volta l'ONU mette alla prova anche se stessa, la sua capacità di assumere posizioni politiche e di tradurle in comportamenti concreti ed efficaci.
A questo fine, come ha ricordato anche in conclusione il collega Ranieri, è stata anche decisa un'innovazione significativa: un responsabile militare interfaccia del comandante presso l'ONU, costituendo a quel livello una cellula strategica. Si tratta di una scelta innovativa che può essere, oltre che una garanzia per il funzionamento della missione, anche l'occasione per costruire un modello funzionante di comando ONU. Erano dodici anni che l'ONU non assumeva il comando diretto di una missione militare. Oggi all'ONU si guarda con rinnovata fiducia e deve essere in grado di vincere questa sfida.
Avviandomi alla conclusione, vorrei soffermarmi sulle parti più innovative e significative del decreto-legge. Come si è detto, alla missione Leonte si applica il codice penale militare di pace, adeguandone alcuni aspetti alle condizioni di applicabilità nella particolare situazione in cui operano i nostri soldati, quindi al di fuori dei confini nazionali. Si tratta di una soluzione da noi condivisa e voluta, ma che ha bisogno di essere perfezionata con l'adozione di un codice per missioni militari all'estero: ne abbiamo parlato a lungo nella discussione in Commissione e si è registrato un consenso ampio su tale necessità. Faccio nuovamente appello al Governo perché questo obiettivo si realizzi nell'ambito di una riforma della giustizia militare per adeguare l'ordinamento italiano al contesto internazionale e, soprattutto, alla legislazione degli altri paesi dell'Unione europea. La distinzione fin qui vigente tra codice di pace e codice di guerra è ormai inadeguata alle missioni fuori area, in quanto non risulta rispondente né all'una, né all'altra.
La questione di una riforma investe anche il ruolo della magistratura militare, poiché con la cessazione della leva obbligatoria è diminuito e diminuirà il numero di reati militari, gran parte dei quali nascevano da tentativi di sfuggire ad unPag. 8obbligo e davano vita a comportamenti conseguenti nel tentativo di sottrarsi ad esso e di ridurne gli effetti. Nella nuova realtà dell'esercito professionale molti comportamenti definiti come reati potrebbero essere utilmente depenalizzati, la fattispecie del reato militare ulteriormente circoscritta e la magistratura militare essere assorbita nell'ambito della magistratura ordinaria con l'istituzione di apposite sezioni specializzate, come avvenuto in molti paesi europei.
Un'altra novità in questo decreto-legge è lo stanziamento di risorse per corsi di introduzione alla lingua ed alla cultura araba a favore del personale impiegato nella missione: è un segnale significativo della volontà di lavorare insieme alle popolazioni locali.
Altra novità è nel fatto che parte dei rimborsi ONU saranno riassegnati nello stato di previsione della spesa del Ministero della difesa per la costituzione di un fondo per le spese di ripristino di scorte, di sostituzione e manutenzione straordinaria di mezzi, materiali, sistemi ed equipaggiamenti impiegati nella missione.
Le risorse rese disponibili da questo decreto sono pari a 219 milioni e 461 mila euro per l'anno 2006. Questa cifra rappresenta le spese vive del contingente inviato in missione e non tiene conto, però, dei costi indiretti che graveranno su questa missione attraverso il logoramento dei mezzi e le esigenze di manutenzione e di ripristino in efficienza, per non parlare del personale.
I costi indiretti delle tante missioni svolte dalle nostre Forze armate hanno avuto, in questi anni, un effetto pesante sul nostro strumento militare e vanno aggiunti alle drastiche riduzioni di bilancio che sono state operate con le ultime leggi finanziarie. Vi è, quindi, la necessità di recuperare una situazione che ha raggiunto il limite di sostenibilità e, per diversi settori delle componenti operative, soglie di efficienza al di sotto del 50 per cento.
Infine, nel corso dei lavori proporremo un emendamento che intende correggere un'anomalia nel trattamento economico corrisposto ai nostri militari sotto forma di indennità operativa di base. Durante il trasferimento via nave dall'Italia al teatro delle operazioni, i soldati imbarcati sulle navi militari percepiscono una maggiorazione di questa indennità, che cessa nel momento dello sbarco, ossia proprio quando iniziano le attività operative e crescono i disagi e i rischi ad esse connessi. Nonostante il nuovo ruolo di protezione assunto dalle forze terrestri (esercito e carabinieri) nei mutati scenari di impiego, questa disarmonia continua a permanere ed è motivo di disagio per le donne e gli uomini impegnati sul terreno, che sono fatalmente i più esposti, come, purtroppo, anche gli eventi degli ultimi giorni ci hanno tragicamente confermato, con la morte del caporalmaggiore Massimo Vitagliano a Nassiriya e di Giuseppe Orlando a Kabul.
Ricordando questi ultimi due lutti e rinnovando la nostra vicinanza a tutti i militari impegnati in questa e nelle altre missioni, concludo la mia relazione (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dell'Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gasparri. Ne ha facoltà.

MAURIZIO GASPARRI. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, colleghi, con questo decreto affrontiamo non soltanto il problema del finanziamento della partecipazione italiana alla missione decisa dall'ONU in Libano, ma, più in generale, tutti i temi complessi della politica mediorientale e delle posizioni e delle valutazioni italiane in riferimento a quanto si è verificato nel corso dell'estate e che, purtroppo, si verifica da decenni, se non addirittura da secoli, in questa tormentata area del nostro pianeta.Pag. 9
Il relatore Ranieri ha ricordato prima le parole allarmanti che, nelle ultime giornate, proprio la settimana scorsa (venerdì), ancora una volta sono state pronunciate dal leader degli Hezbollah, Nasrallah, il quale, parlando ad una manifestazione di fanatismo - perché così dobbiamo definirla, più che di orgoglio della propria parte -, ha detto esplicitamente: «Durante la guerra abbiamo utilizzato soltanto una piccola parte del nostro arsenale. Abbiamo ancora decine di migliaia di missili e questo sia ben chiaro a chi pensa di mettere al sicuro i confini con Israele, via terra o via mare. Nemmeno le truppe Unifil e nessun esercito al mondo riusciranno a toglierci queste armi».
Credo che queste dichiarazioni confermino una posizione di incompatibilità con il contesto internazionale della costruzione faticosa di un processo di democrazia e di convivenza da parte di Hezbollah. Del resto, la risoluzione ONU n. 1701, già nelle sue prime righe, pur nella difficoltà da parte dell'ONU di deliberare per la presenza di molti paesi e di veti e con la necessità di addivenire ad una sintesi, non può negare l'evidenza, ossia che c'è stato un attacco di Hezbollah nei confronti di Israele il 12 luglio 2006. Così parte la risoluzione dell'ONU.
Purtroppo, c'è una perdurante minaccia, che nei giorni scorsi anche autorevoli commentatori hanno rilevato. Cito, tra gli altri, Franco Venturini che, sul Corriere della Sera, commentando queste parole deliranti di Sayed Hassan Nasrallah alla festa della presunta vittoria, ha evidenziato la debolezza di una posizione troppo muta, anche del Governo italiano.
È una sorta di equidistanza, che finisce per accomunare in un unico giudizio gli aggressori - che tuttora minacciano Israele e, di fatto, la comunità internazionale - e gli aggrediti.
La questione del disarmo di Hezbollah - come ha affermato Venturini sul Corriere della Sera - non da oggi è la chiave di volta della crisi libanese. Ricordo, del resto, che quando il segretario dei Democratici di sinistra Fassino, qualche settimana fa, in un'intervista disse che il problema è smantellare gli Hezbollah, è stato subito raggiunto dagli strali di parte della coalizione della cosiddetta Unione, che lo ha richiamato all'ordine. Parlo di esponenti del partito di Diliberto che - come sappiamo - si vanta di essere stato tempo fa in Libano, di aver incontrato rappresentanti di Hezbollah e di avere stretto mani. Adesso, in giro per il mondo se ne stringono un po' troppe, ma Diliberto ne ha fatto un'ostentazione di adesione militante alle posizioni di Hezbollah. E, in coerenza con la stretta di mano con chi anima il terrorismo e vuole sterminare Israele, sono state mosse critiche alla sinistra. Ma perfino Fassino - mi rifaccio alle sue posizioni - ha parlato di smantellamento di Hezbollah. A me va bene anche la lettura fassiniana, se non dobbiamo essere di parte, visto che si auspica una convergenza: dell'Unione o di un largo arco di forze parlamentari convergenti, se non con noi, almeno con Fassino.
Vi è una forte preoccupazione da parte nostra rispetto alla pericolosità di Hezbollah e rispetto alla mancata volontà di accettare il disarmo, che sappiamo essere affidato all'esercito libanese. Tuttavia, le truppe UNIFIL dovranno soccorrere e coadiuvare l'esercito libanese, e ci sono molti margini di ambiguità sulle regole e sulla definizione di questa missione.
L'esercito libanese, peraltro, appartiene ad un paese governato anche da Hezbollah, che vede suoi esponenti nei ministeri: era un esponente del Governo quel rappresentante di Hezbollah che passeggiava sotto braccio con il ministro degli affari esteri D'Alema per le strade di Beirut. Quindi, il confine tra ciò che è terrorismo e ciò che è Governo in Libano è molto labile e incerto. Riuscirà l'esercito libanese ad esprimere una sovranità contro il terrorismo o sarà, in qualche modo, guidato anche da chi, essendo terrorista, ma nello stesso tempo nel Governo, forse non è molto d'accordo sul disarmo? Questi sono i problemi che abbiamo di fronte.
Siamo lieti che la missione si sia avviata in un contesto sin qui tranquillo, tra virgolette, per quanto lo possono essere quelle situazioni. Ma non sappiamo se ePag. 10come questa situazione perdurerà, soprattutto alla luce del delirio di Nasrallah e della sua rinnovata e reiterata minaccia.
Dico ciò in un contesto in cui anche in Italia le ambiguità sono molte. Gli armamenti continuano ad affluire a Hezbollah, ed è ancora da chiarire il contesto dei rapporti con la Siria e ovviamente con l'Iran, protagonista di vicende multiple. Non mi riferisco solo all'armamento di Hezbollah in Libano, ma anche alle vicende che sono all'attenzione della comunità internazionale concernenti la possibile preparazione di armi nucleari.
Ma ci sono anche equivoci nella situazione italiana: un paese che sui temi del terrorismo, forse, deve ancora chiarire le sue posizioni, soprattutto nell'ambito della sinistra. Dovrebbe essere, forse, motivo di riflessione ciò che un autorevole giornalista, D'Avanzo, ha scritto su la Repubblica nell'ottobre del 2005. Egli commentava la decisione del ministro dell'interno dell'epoca di costituire la consulta islamica: una decisione saggia, anche se, forse, i suoi componenti potevano essere selezionati meglio. Infatti, gli esponenti dell'UCOII non mi sembra abbiano dimostrato di meritare, nel corso del tempo, l'accesso alla consulta islamica. D'Avanzo, su la Repubblica, scrisse che questo atto dimostrava comprensione da parte del Governo di allora nei confronti di Osama Bin Laden. In questo articolo si parlava della consulta, del rapporto con l'islam, dei problemi connessi a questo conflitto che, tra integrazione e guerre, procede con grandi drammi. E si diceva che il Governo dell'epoca aveva compreso che Osama Bin Laden non è il terrorista apocalittico o il Satana narcisista della vulgata, ma un leader che fa quel che dice e crede in quel che fa, una guida che non vuole cancellare la nostra democrazia, ma scoraggiarci con le armi dal distruggere le cose che l'islam ama, un uomo che sta vincendo la guerra non con il terrore ma con le parole.
Siamo condannati al dialogo, diceva D'Avanzo. Non so se D'Avanzo abbia avuto modo di dialogare con Bin Laden, che non sappiamo se sia vivo o malato di tifo. Ma il problema politico è proprio questo: dobbiamo essere quelli che dialogano con Bin Laden o con Nasrallah o stringere loro la mano? C'è chi ha stretto la mano ai capi di Hezbollah, chi ha affermato in autorevoli giornali che, in fondo, Bin Laden, con mezzi un po' arbitrari, quasi difende una causa giusta. Chissà se anche abbattere i grattacieli nelle capitali dell'Occidente o far saltare i treni e le metropolitane a Madrid o a Londra può essere un modo accettabile? A nostro avviso, non lo può essere.
Ma le nostre preoccupazioni si estendono dal Libano alle situazioni limitrofe, poiché vi è anche il problema della sicurezza di Israele.
Vorrei segnalare che Simon Peres - il quale è certamente un simbolo, perché non credo che essere israeliano faccia venir meno, di fronte alla sinistra italiana, i meriti da lui acquisiti nella sua lunga opera di ricerca della pace, che lo ha portato anche a ricevere riconoscimenti altissimi da parte della comunità internazionale - ha accettato di costituire, nei mesi scorsi, un Governo di larghe convergenze in Israele proprio per supportare il ritiro dai territori occupati. Ricordo che, su tale questione, si sono divisi i tradizionali partiti israeliani e ne sono nati di nuovi; in altri termini, vi è stata una forte discussione in Israele, il quale, a differenza di altri dell'area, è un paese democratico.
Ebbene, Simon Peres, in un'intervista rilasciata l'8 agosto scorso, in piena aggressione di Hezbollah ad Israele, si riferiva, ad esempio, ad Ahmadinejad. Ricordo che egli diceva alla intervistatrice: «(...) Li ha visti, questi nuovi eroi? Ahmadinejad? Non le sembra la vergogna del nostro tempo, con le sue parole inconsulte, la sua ferocia, il suo ripetere che vuole distruggere questo e quello? E Nasrallah? O i capi di Hamas? Non c'è spazio per loro nella storia: come ci insegna la fine di Saddam Hussein, sono destinati ad affondare, non portano nessun messaggio di speranza, ma solo di amarezza e desiderio di uccidere (...)».
Inoltre, riferendosi agli Hezbollah, Simon Peres (con una ironia molto amara,Pag. 11ovviamente) ha affermato: «(...) C'è chi si tiene in casa un gatto, agli Hezbollah piace tenere i missili (...)». Questo è ciò che ha affermato Simon Peres, che non credo possa essere «scomunicato» perché difende il diritto alla vita ed alla libertà del suo popolo; pertanto, esistono problemi complessi. Come avverrà il disarmo, ad esempio, se questi missili sono nascosti nelle case?
Vorrei inoltre ricordare che, durante questa drammatica estate, alcuni civili sono stati coinvolti nella reazione di Israele. Ciò, probabilmente, è derivato dal fatto che gli attacchi non partivano da sedi «militari», ma che i missili sono stati lanciati su obiettivi israeliani dalle case, quasi per suscitare una reazione che andasse a colpire il luogo di provenienza della minaccia: in un contesto ormai bellico, infatti, era diventato difficile distinguere i civili dalle milizie.
Visto che, nella sua intervista, Simon Peres ha citato non solo gli Hezbollah, ma anche Hamas o Ahmadinejad, vorrei ricordare anche le frasi pronunciate sabato (vale a dire, 48 ore fa) dal leader di Hamas, riportate anche dai quotidiani italiani. Il premier Haniyeh, infatti, ha affermato che non guiderà nessun Governo che sia pronto a riconoscere Israele e che, in questa fase, Hamas sostiene il progetto della creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 (e vorrei rilevare che si tratta di una questione un po' complessa). Mi riferisco, in altri termini, ad un altro capo di Governo dell'area, che appartiene ad un movimento che non so se darà vita all'Esecutivo di unità nazionale, cui lavora il Presidente palestinese Abu Mazen, e che parla un linguaggio simile allo statuto di Hamas, il quale considera il terrorismo e la distruzione di Israele scelte normali (e vi invito a rileggervi tale statuto).
Ebbene, tutto ciò ci preoccupa. È questo il motivo per cui il problema non è solamente il nostro voto sul decreto-legge in esame. Non saremo certo noi, infatti, a negare l'appoggio ai nostri militari, tuttavia ci preoccupa cosa accade in quell'area. Cosa andranno a fare i nostri militari? A cosa serve questa missione? C'è il diritto alla vita e all'esistenza di Israele, oppure bisogna un po' sorridere, stringere mani e negoziare, perché così, alla fine, forse Bin Laden, il capo del Governo palestinese appartenente ad Hamas, Nasrallah o qualcun altro, saranno un po' più gentili con noi?
Vorrei altresì ricordare che vi sono state alcune polemiche, nei giorni scorsi, a causa dell'aggressione subita dal Santo Padre. Lo segnalo perché lo scenario, cari amici, è unitario: non si può discutere soltanto del decreto-legge sulla missione in Libano o del trattamento economico dei militari, ma dobbiamo capire quale sia la politica estera del nostro paese e quale sia il ruolo dell'Italia nel Mediterraneo, altrimenti ci perderemmo in dettagli senza comprendere il quadro complessivo.
Vorrei evidenziare che, ieri, ha fatto sentire nuovamente la sua voce il Presidente del Commissione europea, Barroso, per affermare che è del tutto inaccettabile che il Papa venga attaccato per aver citato, nel suo discorso, un documento storico. Barroso, inoltre, si dichiara deluso di constatare come non vi siano stati più leader europei che abbiano affermato che, ovviamente, il Santo Padre ha diritto di esprimere i propri punti di vista, ma il problema sono non le sue parole, bensì le reazioni degli estremisti.
Il Presidente Barroso ha affermato ciò dopo che anche il Governo italiano, riguardo a tale vicenda, ha fatto una figura penosa. Abbiamo letto veramente con raccapriccio - perché siamo italiani e vorremmo poter portare rispetto verso il nostro Esecutivo, poiché rappresenta l'Italia - le parole penose pronunciate dal Presidente del Consiglio giorni fa (non sappiamo se vittima del fuso orario o della fatica del viaggio). Quelle sulle famose «guardie» che avrebbero dovuto difendere il Papa, infatti, sono state parole davvero penose.
Ci sono problemi d'intolleranza, che segnalo qui anche ai rappresentanti del Governo: qualche mese fa un ministro si dimise perché esibiva magliette con vignette. Ora invece osserviamo che non c'èPag. 12nessuna reazione ufficiale di fronte a vignette che nel mondo islamico rappresentano il Papa che imbraccia fucili o mostra svastiche, come pubblicato anche sui principali quotidiani italiani. Questo è il contesto in cui si inquadrano le nostre missioni: la minaccia, l'intolleranza. È vero, da noi non si possono tollerare offese alle religioni altrui - ci mancherebbe altro -, ma perché dobbiamo subire nel silenzio l'offesa alle persone, alle religioni, ai valori che condividiamo? Non si può essere severi a casa propria se poi si subisce qualsiasi dileggio.
Potremmo continuare a lungo per chiedere al Governo e alla maggioranza se abbiano consapevolezza di cosa stiamo parlando e cosa stiamo facendo: questa mattina su la Repubblica vi è un'ulteriore intervista del presidente iraniano che, alla domanda di un giornalista: «Ma lei vuole cancellare Israele dalla faccia della terra?», risponde: «Il mio suggerimento è molto chiaro: lasciamo che il popolo palestinese decida del proprio destino con un referendum libero ed equo. L'esito, quale esso sia, andrà accettato. Ora quella terra è governata da un popolo senza radici». Ora, si può dire tutto di Israele, i Governi possono essere giudicati e anche il Governo di Israele può essere apprezzato o condiviso, ma dire che quel popolo è senza radici significa che questo signore è, oltre che un pericoloso promotore di terrorismo, anche un grande ignorante: credo che la storia sia abbastanza antica e non è qui mia intenzione ripercorrerla o riproporla. Oggi noi dobbiamo renderci conto del contesto in cui ci troviamo. Anche la realtà occidentale, forse, non ha ancora compreso che c'è un'offensiva epocale da parte del terrorismo fondamentalista, di cui anche Hezbollah ed altri sono momentanea - nel senso della storia, ma ormai sono decenni che questa minaccia si manifesta - e preoccupante espressione.
Quindi, credo che dobbiamo anche offrire un chiarimento, in occasione di questo dibattito, sul tema del terrorismo e sulla colpevolizzazione del mondo occidentale. Giuliano Ferrara, su Il Foglio dell'11 settembre, ha scritto che bisogna piantarla di dire che in Iraq la guerra ha diffuso il terrorismo. La guerra ha battuto Saddam e varato un tentativo di democrazia costituzionale, con tre elezioni di seguito e un Governo legittimo, come certamente anche il relatore Ranieri non potrà negare. Il terrorismo è un tentativo di rivincita che viene animato in alcune realtà, tutte collegate tra loro. Non a caso, gli iraniani danno le armi a Hezbollah, così in Hamas si risvegliano alcuni sentimenti. Dunque, non sono cose solo geograficamente limitrofe, ma sono storicamente, politicamente e «culturalmente» - e uso le virgolette - collegate tra loro.
Vi è una situazione in cui, invece, abbiamo un Occidente troppe volte diviso e una guerra al terrorismo che - come dice Giuliano Ferrara - ha i suoi terroristi disertori e le sue battaglie perse, come tutte le guerre. Siamo uniti o no su questo? Non è tanto il voto sui soldati, ci mancherebbe: noi abbiamo animato missioni nel mondo con lo scopo di espandere i diritti e la democrazia e per far sì che gli iracheni votassero tre volte, cari colleghi dell'Unione, in un contesto difficile in cui le bombe seminano morte più tra i musulmani che, a volte, tra gli stranieri, pur avendo noi pagato un prezzo altissimo a Nassiriya o altrove. Dobbiamo avere il coraggio della verità.
Un altro riferimento: André Glucksmann, un noto uomo di pensiero europeo, nei giorni scorsi, in un articolo ripubblicato anche in Italia dal Corriere della Sera ha detto con chiarezza: «Quali che siano i suoi tentennamenti e i suoi errori, Bush non ha inventato l'estensione planetaria di un terrorismo che esisteva ben prima di lui e che durerà» - aggiungo io: ahimè - «chiunque sarà il suo successore». «La violenza dei secoli moderni» - continua questo autorevole filosofo - «ha finito per sradicare i punti di riferimento tradizionali. Né possono integrarsi come noi in Stati di diritto che da loro non esistono (non ancora, dicono gli ottimisti)». Così commenta Glucksmann, parlando di alcune aree del Medioriente, e continua: «In questo intermezzo, terroristi di ogni genere proclamano: "Noi vinceremo, poichéPag. 13voi amate la vita, mentre noi non temiamo la morte". Chi vincerà? I molteplici combattenti nichilisti che coltivano l'omicidio e il suicidio? O una maggioranza di persone oneste che hanno l'intenzione, nelle bidonville come nei quartieri chic, di esistere civilmente? Accettare o non accettare la legge delle bombe umane? Sarà questo, temo, per il "figlio del secolo"» - conclude in questo suo scritto Glucksmann - «la grande questione, quella della libertà e della sopravvivenza».
Noi vorremmo che vi fosse convergenza su politiche di maggiore chiarezza, che anche Tony Blair ha indicato più volte. Tony Blair è stato decantato dalla sinistra italiana come esempio, come modello per la nuova sinistra moderna; poi, quando Tony Blair ha preso atto, ben prima degli attentati di Londra del 2005, che il mondo doveva fronteggiare l'emergenza del terrorismo, le sue quotazioni sono venute meno, forse anche in Inghilterra, ma certamente nel cuore della sinistra italiana, che ne aveva fatto, anni fa, un suo paladino.
Recentemente, proprio Tony Blair ha ribadito: «Il terrorismo non sarà sconfitto finché non affronteremo i metodi degli estremisti ma anche le loro idee. Non intendo, quindi, semplicemente» - afferma Blair - «il fatto di dir loro che il terrorismo è sbagliato: è necessario dire che il loro atteggiamento nei confronti dell'America è assurdo, che la loro concezione del modo di governare è prefeudale, che la loro posizione nei confronti delle donne e di altre fedi religiose è reazionaria. Dobbiamo non soltanto condannare le loro azioni barbariche, ma anche non giustificare il loro rancore verso l'Occidente». Quella di questo terrorismo-fondamentalismo - dice Blair - «è un'ideologia globale. Questa ideologia può essere sconfitta soltanto con la forza dei valori e delle idee che sapremo contrapporre a quelle dei terroristi».
Questi sono i problemi che abbiamo di fronte, ma non so quanto l'attuale Governo ne abbia consapevolezza. Quanto alla crisi iraniana ed a quello che succederà in Iraq, si tratta di scenari collegati. Ce ne andremo (intanto, c'è stato il passaggio di consegne)? Questo aiuterà la diffusione della democrazia in quella parte del mondo? Non è, in fondo, quello che vogliono i vari Bin Laden, vivo o morto che sia, ed i suoi collaboratori e successori? «Andatevene!»: oggi dall'Iraq, domani dall'Afghanistan, dopodomani dal Libano, e via dicendo.
Noi non vogliamo andarcene; o, meglio, vorremmo andarcene, ma per lasciare paesi governati in maniera libera e democratica: come accade in Israele, dove nascono partiti che si scindono, si fondono, formano Governi, dove si vota! Israele è l'unica democrazia consolidata di quell'area: vogliamo dimenticarlo? Non so neppure, francamente, quanta autonomia e autorevolezza abbia il Governo libanese e se esso sia condizionato, al suo interno, da gruppi che praticano il terrorismo. Per non parlare, poi, di altre satrapie che, in quella parte del mondo, tutto sono tranne che normali democrazie!
Vogliamo dire queste cose anche in questo dibattito con maggiore forza e chiarezza, o questo crea problemi nella maggioranza? Il problema, cari colleghi, non è tanto come voteremo noi, ma quale politica farete voi, quali prezzi dovrete pagare pur di tenere «incollati» chi stringe le mani a Nasrallah ed ai suoi amici e chi - e, forse, ce ne sono nelle vostre file - ha una consapevolezza un po' più lucida e chiara di quanto sta accadendo e la penserà, forse, come Glucksmann e Tony Blair (se non vuole arrivare a pensarla come noi o come Giuliano Ferrara).
Questi sono i problemi. Da parte nostra, c'è sicuramente apertura, disponibilità. Valuteremo anche nel corso del dibattito. I nostri leader hanno espresso più volte posizioni di apertura e sono intervenuti loro stessi nei dibattiti in Commissione. Il presidente del mio partito, Fini, già ministro degli esteri e Vicepresidente del Consiglio, ha preso più volte la parola, anche per sottolineare, però, la necessità di atti parlamentari - e qui chiamiamo il Governo e la maggioranza ad atti di chiarezza - che contengano un giudizio riguardantePag. 14le varie e diverse missioni militari cui ha partecipato l'Italia in questi anni ed un apprezzamento alle Forze armate, che si sono recate ancora una volta in Libano, ma che sono state, e che sono ancora, in queste settimane, in Iraq ed in Afghanistan e che, giorno dopo giorno, pagano un prezzo, talvolta non solo per situazioni drammatiche, ma anche per incidenti o per altre situazioni, che nascono, però, dal fatto che si trovano lì e che, di conseguenza, rischiano anche quando spostano un mezzo militare o quando pattugliano in un quartiere (abbiamo avuto gli ultimi caduti in contesti non di attentati, ma di normale operatività).
Noi riteniamo di dover difendere le basi della nostra civiltà occidentale - la tolleranza e la democrazia -, che vuole, appunto, aiutare quei popoli a conquistare democrazia, non vogliamo importare i problemi. Mi fanno ridere le discussioni sulla cittadinanza o vedere, sui giornali, che nel nostro paese si dà la cittadinanza a famiglie che si presentano con la moglie che porta il burqa (c'era anche questa foto, come avete visto)! Dove stanno i garanti dei diritti? Sono libere quelle donne che vanno ad acquisire la cittadinanza italiana con il marito che le tiene con il burqa? È una scelta loro, quella di portare quell'abito, o è un'imposizione feudale? Dov'è il dibattito? Dove sono le femministe? Dov'è una sinistra che su questi temi si è caratterizzata, facendo dei temi dei diritti e della parità tra uomini e donne una bandiera? Un silenzio totale!
Noi riteniamo che il problema sia esattamente questo: che cosa andiamo a fare in Libano?
Ci attendiamo, anche nelle prossime ore, chiarezza sugli atti parlamentari riguardo agli aspetti che, in particolare il presidente Fini, ma anche altri esponenti del centrodestra, hanno sollecitato.
Ciò affinché vi sia una scelta dell'Assemblea di pronunciarsi - e mi avvio a concludere - in maniera unanime, noi ci auguriamo, e positiva su tutto l'impegno dei nostri militari. Noi non siamo stati, infatti, d'accordo sulla scelta del ritiro dei nostri militari dall'Iraq, ma un giudizio lo si deve comunque esprimere su ciò che è stata la presenza e l'azione dei nostri militari; e ciò non deve avvenire solo nei commenti in occasione di una tragedia. Qualcuno nemmeno in tale occasione l'ha fatto! Lo voglio ribadire: vi sono persone che ancora girano nei cortei (forse non siedono in questo Parlamento, ma forse qualcuno un po' «limitrofo» vi è) urlando: «Dieci, cento, mille Nassiriya!» o nefandezze del genere.
Dobbiamo, dunque, aver presente ciò che i nostri militari stanno facendo in Afghanistan, in un quadro di incertezze. Mi ha fatto ridere, in queste settimane, sentire più volte il ministro della difesa Parisi dire che, se vi saranno emergenze, si daranno risposte nell'arco di 48 ore. Non so se il ministro Parisi, che pure è stato più volte in Iraq, abbia un'idea di cosa stia parlando. Che fa, il comandante, chiama il capo di Stato maggiore o il sottocapo ed aspetta 48 ore? Ci si lamenta che i taxi arrivano in ritardo e si sostiene che bisogna moltiplicarne il numero, e il ministro della difesa può arrivare con 48 ore di ritardo a rispondere ad eventuali emergenze? È stato detto anche questo!
In Afghanistan noi riteniamo che si debba stare, ma bisogna rimanervi con chiarezza, condividendo alcune scelte e alcuni rischi, oppure dobbiamo starvi «a mezzo servizio»? O, ancora, vi preparate a dire: beh, ora via dall'Iraq, poi, casomai, via dall'Afghanistan? In Libano ci andiamo, ma forse più per stringere le mani - non parlo dei soldati, ovviamente, ma di qualche politico - agli hezbollah, che per difendere il diritto di tutti popoli, ma, se me lo consentite, in primis di Israele, che subisce una pluridecennale, ma potremmo anche dire una plurisecolare o millenaria, aggressione ad essere libero e vivo.
Noi seguiremo con grande attenzione il dibattito, ma vorremmo che soprattutto il Governo e la maggioranza - se c'è - si esprimano con chiarezza su tutti questi problemi. Non andiamo in Libano a fare «i vigili urbani». I nostri soldati non vanno in Libano solo per svolgere una, purPag. 15lodevole, missione umanitaria. Vi è anche tale ultimo aspetto, come è avvenuto, del resto, in Iraq o in Afghanistan.
Ricordo che, anni fa, l'allora ministro della difesa Corcione (ero all'inizio della mia attività parlamentare; credo fosse in carica il Governo Dini e vi erano stati vari eventi in Parlamento), in Commissione difesa, disse che i nostri militari all'estero - Corcione era allora, lo ricordo, ministro della difesa, ma era stato fino a poco tempo prima ai vertici delle Forze armate - agiscono più «con i mestoli che con i mitra». Disse una frase, in fondo, accettabile: che i nostri soldati, in molti contesti, si sono caratterizzati più per portare sollievo, soccorso, alimenti e solidarietà. Anche la missione in Libano, ben precedente alla vicenda di cui si parlava in quelle settimane - credo fosse la Somalia a destare preoccupazione -, negli anni Ottanta si caratterizzò per la grande amicizia tra i popoli, con vicende di ragazzi che successivamente vennero in Italia a lavorare ed a vivere. Tuttavia, dobbiamo avere ben chiaro che vi è chi ha ragione e chi ha torto in questo contesto.
Il nostro voto, quindi, è addirittura un dettaglio. È ben più importante ciò che l'Italia farà in Libano con i nostri militari, ai quali - è inutile dirlo - vanno la nostra solidarietà ed il nostro sostegno: loro li hanno sempre avuti e non mancheranno neanche in questa occasione. Forse, i nostri militari dovrebbero guardarsi dai sostegni di chi li ha più insultati che apprezzati. Non siamo dunque noi a dover dimostrare chiarezza e coerenza verso i militari. Sono altri, che forse erano anche in quei cortei in cui si pronunciavano quelle frasi irriferibili (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)!

SALVATORE CANNAVÒ. Ogni volta questa storia: non regge!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Venier. Ne ha facoltà.

IACOPO VENIER. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, ha un solo pregio l'intervento dell'onorevole Gasparri, che mi ha preceduto, ossia quello di chiarire perché è del tutto indifferente, per noi, come i suoi alla fine decideranno di votare su questo provvedimento, che rappresenta un secondo importantissimo passo in politica internazionale dell'Italia, per la sua uscita da quella scelta sciagurata che è stata essere subalterna alla cosiddetta guerra scatenata da George Bush al terrorismo, che ci consegna - a parere non nostro, ma di tutte le agenzie americane della sicurezza - un mondo molto più insicuro, un mondo dove i terroristi sono più forti, un mondo dove la legalità, il diritto e la democrazia sono meno forti e meno diffusi.
Noi pensiamo, come partito dei Comunisti Italiani, che la missione in Libano sia un fatto molto importante, perché rappresenta un ritorno della politica italiana alla sua missione storica, al suo dare attuazione ad un'idea di funzione del nostro paese al centro del Mediterraneo, un paese certo ancorato con l'Europa, ma che deve avere con il mondo arabo, con il mondo musulmano e con il mondo che gli sta intorno, un rapporto positivo, di dialogo e di sostegno.
A differenza di quanto abbiamo fatto in Afghanistan e in Iraq, noi andiamo in Libano con un mandato preciso delle Nazioni Unite, un mandato che non era scontato e che è stato ottenuto dal nostro Governo nel corso di un dibattito internazionale durante il quale altri si sono mostrati più timidi e hanno formulato maggiori dubbi sulla possibilità di riportare l'azione della comunità internazionale nell'ambito del multipolarismo e di quella legalità che è stata rotta da iniziative militari dagli esiti disastrosi. Ecco perché il primo punto che dobbiamo sottolineare è che in Libano ci vanno le Nazioni Unite, con il loro comando, con regole di ingaggio da esse decise e sulla base di una risoluzione - la risoluzione n. 1701 - la quale chiarisce che l'obiettivo fondamentale della forza multinazionale è il sostegno al Governo libanese nel suo processo di ricostruzione della sovranità dello Stato e della sicurezza dei propri cittadini.Pag. 16
Andiamo in Libano - anche questo è merito del nostro Governo - in un contesto fortemente europeo. Un altro obiettivo fallito, per fortuna, dall'amministrazione Bush era quello di disaggregare l'Europa. Oggi l'Europa è di nuovo in campo con una missione che interviene nel centro, nel cuore dei problemi internazionali del Medio Oriente. Questa missione è stata decisa dal Consiglio europeo e i principali paesi europei sono impegnati in una condivisione di responsabilità che può aprire la strada ad una nuova funzione dell'Europa, non più soltanto spettatrice di ciò che accade ma protagonista nella ricostruzione del Medio Oriente sulla base del diritto. Da quest'ultimo io partirei, dal diritto internazionale, al quale tutti noi ogni tanto ci richiamiamo ma al quale nessuno vuole riferirsi nella sua concretezza.
Il diritto internazionale, oggi, è violato in primo luogo da Israele, che occupa militarmente territori non propri, a Gaza ed in Cisgiordania, e che agisce fuori dal contesto della legalità internazionale, con il rapimento di ministri e rappresentanti del Parlamento palestinese e con la detenzione, senza processo, di migliaia e migliaia di persone, tra le quali anche cittadini libanesi che hanno combattuto contro un'altra invasione del Libano, anche allora compiuta al di fuori del contesto del diritto internazionale. In occasione di quella invasione di alcuni anni fa, Israele si illuse, come si è sempre illuso, che attraverso la forza delle armi si potessero risolvere i problemi della propria sicurezza e che tale sicurezza potesse derivare dall'instabilità e dalla distruzione ed occupazione dei territori dei propri vicini. Quell'invasione, che era stata programmata, che è durata per 10 anni e che ha dovuto essere risolta con una lunga guerra di liberazione da parte del popolo libanese, ormai è alle nostre spalle ma, con la nuova invasione dell'estate scorsa, abbiamo assistito ad una seconda puntata. Ogni volta che Israele è entrato in Libano ha evocato un nemico più potente, più grave, più forte, un nemico maggiormente indisponibile a trovare le ragioni di una pace. Quando si viola il diritto, si evocano anche gli spettri del fanatismo e si alimentano quei bacini in cui forze di carattere estremista trovano le risorse.
Ecco perché crediamo che la missione che noi oggi stiamo per approvare e finanziare avrà un esito positivo se riporterà nel Medio Oriente la sicurezza collettiva, che non può non partire dalla risoluzione del problema dei problemi, cioè la nascita dello Stato di Palestina, uno Stato che deve nascere all'interno dei confini del 1967, sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Proprio il diritto internazionale è violato in quell'area, prima di tutto, per la presenza di una occupazione militare israeliana dei territori palestinesi. Quanto accaduto a Gaza prima dell'invasione del Libano costituisce un'altra invasione, quella di un territorio che non dovrebbe vedere la presenza delle truppe israeliane.
Per questo, pensiamo - come hanno affermato il presidente Ranieri e, soprattutto, il ministro degli affari esteri - che la missione avrà successo se rappresenterà un modello di internazionalizzazione del problema della sicurezza di Israele. Si deve spiegare ad Israele che la nascita di uno Stato di Palestina - come ha detto il ministro degli affari esteri in sede di Commissione - è la premessa per la sicurezza dello Stato di Israele, che deve essere raggiunta.
La sicurezza dello Stato di Israele è uno dei nostri obiettivi, anzi l'obiettivo da cui partire, ma è certo che Israele ha fatto di tutto per metterlo in discussione, violando la base della sicurezza, vale a dire la possibilità di avere un dialogo con l'interlocutore. Noi pensiamo allora che sia giusto inquadrare la missione libanese nel contesto internazionale.
Il contesto internazionale sta cambiando, fortunatamente. Cinque anni sono trascorsi da quel gravissimo attentato terrorista, celebrato pochi giorni fa (mi riferisco all'attacco alle torri gemelle), in ordine al quale le prime reazioni dell'allora presidente Bush, del Governo americano, sembravano indicare la strada di unaPag. 17risposta politica alla sfida terrorista. Invece, è stata aperta la strada della guerra, prima con l'invasione dell'Afganistan e poi con quella dell'Iraq, che è stata come un pugno su un formicaio, poiché ha alimentato tutto il peggio che c'era nel mondo, consegnandoci un mondo molto più insicuro.
La «zanzara» Bin Laden, che fa capo ad una piccola, ma pericolosissima organizzazione, non poteva essere abbattuta con un colpo di cannone! La bomba che è stata sparata sta distruggendo il mondo; pertanto, il mondo che abbiamo di fronte è infinitamente più insicuro di quello che poteva essere realizzato se vi fosse stata una risposta politica ai problemi del Medio Oriente, in primo luogo, e del mondo, in generale. Una risposta che non può partire se non dalla riaffermazione del multilateralismo, del multibipolarismo, della funzione delle grande organizzazioni regionali che si stanno consolidando nel pianeta, per ricostruire la legittimità delle Nazioni Unite sulla base di un nuovo e diverso rapporto di forza, quello per cui non si può attribuire ad un unica superpotenza il compito di determinare le dinamiche della politica internazionale, i destini dei singoli Stati sulla base della sua convenienza momentanea. È bene ricordare il cambio repentino e continuo di giudizio da parte dell'amministrazione Bush sui cosiddetti Stati canaglia, gli Stati terroristi. Il Pakistan era un grande nemico prima che Musharraf, il presidente dittatore, cambiasse fronte. Inoltre, oggi non si sa più cosa stia accadendo in Afghanistan, e mi riferisco al presidente Karzai che, all'Assemblea delle Nazioni Unite, ha indicato proprio nel Governo pakistano il sostegno a quelle organizzazioni talebane che stanno combattendo e si stanno trasformando in fronti di liberazione nel sud di quel paese.
Vi è l'ipocrisia degli amici di oggi che diventano nemici domani, come Saddam Hussein, grande alleato degli Stati Uniti nell'area centrale del Medio Oriente, poi diventato nuovo Hitler da abbattere. Dobbiamo cancellare questa ipocrisia degli amici che servono, se vogliamo capire quali sono le responsabilità che dobbiamo assumerci in termini di dialogo, di interlocuzione, di rispetto anche dell'autonomia dei popoli. È stato detto che questa guerra preventiva è stata scatenata nel mondo per diffondere la democrazia, i diritti democratici. Due paesi, la cui sovranità ci impegniamo a garantire, la Palestina ed il Libano, hanno scelto democraticamente i loro Governi. La comunità internazionale ha verificato i processi elettorali; ha visto quali sono state le volontà politiche di quel popolo nel determinare le loro rappresentanze. Questi processi vanno rispettati! Non potete usare due standard diversi, rilevando che la democrazia va bene solo quando vengono scelti i rappresentanti che fanno comodo. Questi sono i rappresentanti dei popoli con cui noi dobbiamo rapportarci e con cui dobbiamo parlare!
Se gli hezbollah organizzano una manifestazione dopo ciò che è accaduto, dopo le distruzioni di quel paese, raggruppando un milione di persone a Beirut, non possono essere considerati (le finalità del partito non sono chiaramente quelle di una forza progressista e laica) come un'organizzazione terroristica tout court. È un'organizzazione di massa, con un consenso ampio in quella popolazione. Se bisogna affrontare i problemi di quella popolazione, va aperto un confronto con cosa quella realtà rappresenta e occorre chiedersi perché essa è così forte, tenuto conto che è stata capace di organizzare, all'interno di quel paese, un sistema di risposte sociali che non è stato in grado di garantire il Governo libanese. Io dico, allora, che ha fatto bene il Governo italiano ad essere protagonista di questa fase. Si doveva ottenere prima di tutto il cessate il fuoco ed il Governo italiano è stato protagonista della Conferenza di Roma e fautore di una pressione a livello internazionale per giungere al cessate il fuoco.
Oggi dobbiamo andare in Libano per svolgere una missione chiara, che è quella di interposizione e di aiuto alla ricostruzione di quel paese. Il Libano è stato devastato. Il 90 per cento delle vittime di questa azione militare israeliana sono civili, e, tra questi, l'80 per cento sonoPag. 18bambini. Quei bambini che continuano a morire, come è stato ricordato poc'anzi dal presidente della Commissione difesa, per l'uso di bombe che sono da bandire dal punto di vista del diritto internazionale, ma che pure sono state continuamente usate sia in Libano, sia in Iraq, sia in Afghanistan. Bombe che seminano distruzione e morte. È inutile che si approvano le risoluzioni contro l'uso delle mine anti-uomo quando poi queste sono sparse sui territori che utilizzano quelle tipologie di armamenti.
Il Libano è stato distrutto scientificamente in tutte le sue infrastrutture: non c'è più un ponte; è stata anche colpita la centrale elettrica, che ha causato un enorme inquinamento ambientale del Mediterraneo. Che c'entrava la centrale elettrica? Che c'entrava la centrale del latte? Che c'entravano le infrastrutture civili che sono state distrutte? Un intero quartiere di Beirut, dove abitavano seicentomila persone, è stato raso al suolo. Questa è la reazione di uno Stato democratico, di una democrazia, ad un problema di confine, al rapimento o alla cattura, come riportano gli organi di stampa arabi, di alcuni soldati israeliani? Gli israeliani, lo ricordo, hanno fatto mille incursioni all'interno del territorio libanese. Questa è una reazione possibile e tollerabile?
Ciò detto, ci si torna ad interrogarsi su quale tipo di diritti e su quale tipo di democrazia si intenda esportare quando il Presidente degli Stati Uniti d'America sostiene che, per l'affermazione di questo tipo di strategia, è necessario tollerare la tortura dei prigionieri che sono catturati. A mio avviso, bisogna interrompere questa catena di ipocrisie. Se si vuole un mondo più sicuro e sostenere che quella democrazia e quei diritti civili sono un modello a cui fare riferimento, noi, prima di tutto, dobbiamo dimostrare di essere coerenti con i nostri principi e con le nostre affermazioni. È necessario, quindi, iniziare con un'azione che ha per scopo quello di interporsi, di garantire la sicurezza e la ricostruzione ed agire per giungere ad una conferenza internazionale di pace di tutto il Medio Oriente. È chiaro che la vicenda libanese ha a che fare anche con la questione del nucleare iraniano. Nessuno di noi, che si batte per la denuclearizzazione del mondo, può pensare di sostenere il diritto di uno Stato di dotarsi di armamenti atomici. Ma vogliamo dire che Israele è una potenza nucleare al centro del Mediterraneo e che nessuno fa notare il problema della non proliferazione ad Israele; ciò finisce per alimentare nelle masse arabe il risentimento, l'esistenza di un doppio standard. Ci si chiede perché l'atomica islamica non va bene quando il Pakistan è dotato di armamenti atomici.
Per tali motivi è giusto, a mio parere, pensare ad una sicurezza collettiva di tutta l'area, e, in quest'ambito, ragionare sulla sicurezza dell'Europa. Dico ciò perché se fossimo stati lì a guardare, a vedere questa guerra espandersi, a vedere coinvolti anche la Siria e l'Iran, allora anche la nostra sicurezza sarebbe stata direttamente in pericolo, perché l'Europa è il centro del Mediterraneo, l'Italia è al centro del Mediterraneo. Conseguentemente, il nostro paese deve occuparsi, per questioni non solo di sicurezza, ma anche di interesse nazionale di quanto accade. Bene ha fatto il ministro D'Alema a ricordarlo. Non si può far finta di non sapere che il primo partner commerciale del Libano e dell'Iran è l'Italia. Si tratta, quindi, di questioni che riguardano anche lo sviluppo delle relazioni del nostro paese con questi popoli. Altrimenti, con chi parleremo? Con chi costruiremo la comunità del Mediterraneo se lasceremo che il processo, cosiddetto della distruzione del Medio Oriente e la sua ricostruzione nel grande Medio Oriente, sotto l'egida statunitense, ci consegni soltanto macerie?
Parliamo allora - è giusto parlarne, ne ha fatto cenno il collega della destra - della questione dell'Iraq. Che cos'è l'Iraq oggi? Una democrazia o una mattanza, dove si sono alimentati i peggiori spiriti tribali e le appartenenze di carattere etnico-religioso che provocano ogni giorno decine e decine di morti? Siamo indifferenti a quello che abbiamo prodotto? Noi forse sì, perché siamo stati spettatori di questo evento, ma, ad esempio, gli StatiPag. 19Uniti cominciano ad interrogarsi sull'esito disastroso di quella guerra proprio sul terreno della costruzione di una società più sicura e disposta ad accettare i diritti. Oggi la tortura - lo denunciano le organizzazioni internazionali - l'omicidio politico, l'omicidio in tutte le sue forme è pratica comune in Iraq e centinaia di persone scompaiono ogni giorno: non c'è alcuna forma di tutela e la sicurezza non esiste. Questo siamo andati a portare in Iraq?
Bene abbiamo fatto a decidere il ritiro delle nostre truppe da quel quadrante ed è stato il primo atto fondamentale che ha impostato la politica del nostro Governo, quello di ritirare le truppe da una guerra sbagliata e dagli esiti disastrosi, che non significa non occuparsi e non avere a cuore il destino di quelle popolazioni, ma farlo con altri strumenti.
La terza tappa, ovviamente per noi del gruppo dei Comunisti Italiani, sarà quella del ritiro delle truppe dall'Afghanistan, altra guerra destinata al fallimento, anzi, già fallita. Infatti, quando il presidente Karzai autorizza la ricostruzione in Afghanistan della polizia morale per il controllo sulle donne, sui mezzi di informazione, per la prevenzione del peccato indica che c'è una continuità che, ormai, non si può più spezzare, anche nel Governo più vicino alle forze occidentali lì occupate e presenti. Il Governo Karzai dimostra che c'è una contiguità con le pratiche e le forme di governo dei vecchi talebani ed una contiguità spaventosa e pericolosa con i signori della guerra, con i signori dell'oppio, che viene prodotto in maniera sempre più diffusa in quel quadrante. Ecco perché noi pensiamo che sussista la necessità di uno scarto ulteriore di azione e di coraggio politico. Il Libano, certo, può essere anche una trappola, l'hanno detto tanti commentatori internazionali. Dicono che Israele ha bisogno di una pausa, che noi andiamo nel centro del ciclone, che fra pochi mesi ci potrebbe essere un'azione militare israeliana nei confronti dei reattori iraniani e che l'Europa potrebbe trovarsi in prima linea in quel contesto.
Bene, compito di quella missione è proprio impedire questo esito, dare sicurezza nel dialogo con l'Iran perché non ci sia la costruzione dell'atomica e, nello stesso tempo, creare una condizione per cui Israele si senta più sicuro, perchè le forze più avanzate all'interno della democrazia israeliana possano di nuovo usare la loro voce e trovare le ragioni del dialogo. Quindi, occorre tornare a Ginevra, come fecero alcuni anni fa i leader israeliani e palestinesi, e scrivere insieme un documento su una possibile pace, che deve risolvere anche la grande questione di Gerusalemme, che deve essere capitale del mondo e di tutte le religioni, non città divisa e contesa tra due integralismi.
Ecco perché davvero siamo indifferenti a ciò che farà la destra in quest'aula. Fate come credete, recitate ancora una volta la stanca presa di posizione a favore di una guerra preventiva già fallita e morta. Comunque, non ci siete riusciti, non avete ancora cambiato le regole di ingaggio. Ci avete chiesto di andare in Libano a distruggere hezbollah. Come potremo distruggere una parte di quel Governo che ci chiede di entrare in Libano? Come ci potete chiedere di distruggere un'organizzazione che rappresenta centinaia di migliaia di persone, una parte fondamentale della società libanese? Noi andiamo lì a garantire che l'esercito libanese possa dispiegare la sua sovranità fino ai suoi confini naturali, ai confini internazionalmente riconosciuti; non faremo di questa missione una missione di guerra, di combattimento, una missione dentro un nuovo gorgo e un nuovo massacro.
Lo abbiamo detto, anche respingendo la vostra proposta di introdurre il codice di guerra come strumento per la regolazione delle nostre iniziative.
Vedete, nel decreto-legge che ha finanziato le altre missioni abbiamo deciso che le nostre sono missioni di pace, ma questo dipende dal comando politico e noi ci fidiamo di questo Governo e della sua capacità di dare ordini chiari alle nostre truppe all'estero, ordini che stanno dentro la legalità e nel contesto del diritto internazionale. Non ci interessa questa discussionePag. 20sulla continuità. Non c'è alcuna continuità tra la missione in Libano, che risponde all'articolo 11 della nostra Costituzione, e quelle missioni in Afghanistan e in Iraq che sono state scelte per un'operazione che con tutto aveva a che fare tranne che con la diffusione della pace e della democrazia.
Questa missione risponde anche al programma dell'Unione. L'Unione ha un programma che deve essere rispettato. È il patto che noi tutti dobbiamo rispettare, perché è il patto con i nostri cittadini. Quel patto dice che possiamo inviare missioni all'estero solo se queste sono sotto il comando delle Nazioni Unite, se sono terze rispetto ai contendenti, se sono congrue nel raggiungimento dei fini attraverso gli strumenti che essi si danno. Questo è l'obiettivo e questa missione corrisponde all'obiettivo di ricostruire una funzione dell'Italia. L'Italia, giustamente, deve essere orgogliosa del coraggio dimostrato dal suo Governo in quest'estate difficile, un Governo che ha preso un'iniziativa e ha trascinato gli altri dietro un'iniziativa positiva, che ha come scopo la pace.
A volte, ci troviamo in una situazione paradossale; siamo addirittura accusati di nutrire qualche sentimento antisemita per il solo fatto che critichiamo il Governo di Israele. Noi dobbiamo garantire la sicurezza in Israele, ma dentro il diritto internazionale. Guai se tollerassimo, in qualunque forma, la diffusione di un morbo che ha distrutto l'Europa, come quello dell'antisemitismo! Ma il pericolo principale che mettiamo in evidenza rispetto a questo tema è la confusione tra l'azione del Governo di Israele e la questione della relazione con il popolo ebraico, tra il contrasto all'azione del Governo di Israele e la possibilità di avere qualsiasi tipo di convivenza o collusione con chi alimenta l'antisemitismo. Proprio separando i piani, separando la politica, la critica politica al Governo israeliano, anche la più aspra, con la continua ed assoluta avversione, il contrasto e il combattimento contro ogni forma di antisemitismo, noi faremo un servizio affinché questo morbo non si diffonda.
Guai alla confusione dei piani! Quando si dice non potete criticare il Governo di Israele in questo modo, è proprio questo lo strumento intellettuale e culturale che alimenta un confusione tra l'azione di un Governo e la relazione con un popolo ed una religione che devono essere rispettati, tutelati e con cui dobbiamo avere relazioni di grande amicizia, perché è parte della nostra storia e della nostra cultura.
Vorremmo che il nostro Governo avesse con il Governo di Israele un rapporto di amicizia, ma come quello con qualsiasi altro governo amico. Non si tollerino da Israele azioni che da altri non vengono tollerate. Non c'è alcuna specialità; se togliamo l'elemento della specialità nella relazione tra l'Italia, tra il mondo e lo Stato di Israele, allora sì che finalmente potremo indurre le classi dirigenti di quel paese ad accettare che la sicurezza di Israele stia nel diritto internazionale! La sicurezza di Israele non può derivare da distruzioni, da morte, da odio alimentato in tutti i popoli che gli vivono vicino.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIORGIA MELONI (ore 13)

IACOPO VENIER. Israele deve vivere vicino ai popoli che rispettino la sua storia, che abbiano una relazione di amicizia e deve rispettare la storia degli altri. Non può pensare che la propria sicurezza venga dai check point o dalla costruzione di nuovi insediamenti che tolgono la terra, che umiliano i popoli, che costruiscono quell'odio profondo entro cui anche organizzazioni di carattere terrorista trovano alimento, ma più in generale trova alimento un sentimento che certamente non è sicuro per lo stesso Israele.
A questo punto dobbiamo investire ulteriormente nella nostra politica estera. Credo che questo Governo avrà il coraggio di seguire con coerenza il mandato - che il suo popolo, il popolo della pace, gli ha dato - di sganciarsi e di costruire un'alternativa. L'alternativa non può essere quella di farsi chiudere in una trappola, ma quella di lavorare in avanti. VediamoPag. 21la possibilità di lavorare in avanti e di realizzare l'obiettivo che noi tutti vogliamo: un Medio Oriente sicuro sulla base del diritto internazionale, dentro cui tutti trovino la ragione per poter stare insieme, all'interno di una comunità internazionale che non usi in alcun caso il doppio standard.
Un'ultima raccomandazione. Questa è una missione di pace, noi andiamo in Libano per garantire la pace a quel popolo; comportiamoci con coerenza e, accanto all'azione militare di interposizione, portiamo un'azione civile forte, di interazione con la comunità, con la cultura, con il popolo libanese, che è un popolo complesso e complicato, che ha una relazione storica con quello italiano e con la cultura europea, un popolo vicinissimo ai nostri usi e consumi, un popolo libero, molto simile a tutti i popoli del Mediterraneo. Andiamo lì con la forza delle armi, per quello che serve, ma anche con la forza della nostra cooperazione internazionale, con la forza della cultura, della relazione tra le società, costruiamo ponti ed aiutiamo quel paese ad uscire da una distruzione tremenda, all'interno della quale non potranno che alimentarsi - se non verranno curati in tempo - nuovo odio e nuova distruzione.
Per tutte queste ragioni ci apprestiamo a votare a favore del decreto-legge. Sentiremo la discussione, ascolteremo il Governo nelle sue conclusioni, ma questo non è un voto scontato o semplice, è un voto che rappresenta un investimento, una apertura di credito, un atto di grande fiducia nelle capacità che noi avremo - come nuova maggioranza e come Governo di questo paese - di rappresentare un salto in avanti, chiudendo definitivamente, a livello internazionale - per quanto ci riguarda, la nostra prima responsabilità è a livello europeo e nel Mediterraneo - , la fase disastrosa e tremenda della guerra preventiva, dell'azione unilaterale, di una guerra basata su un doppio standard e su falsi obiettivi, che non sono stati ovviamente realizzati.
Credo che questa Camera debba ascoltare con rispetto le ragioni di una destra antica, ormai superata dalla dinamica internazionale, che non ha capito che la guerra è finita, ma non debba farsi in alcun modo irretire da questo tentativo volto alla ricerca di un alibi per votare a favore e possa tranquillamente procedere, con un voto tranquillo, sereno e consapevole, per dare un nuovo ruolo all'Italia.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Boniver. Ne ha facoltà.

MARGHERITA BONIVER. Signor Presidente, non utilizzerò tutto il tempo concessomi, anche perché parlo anticipatamente grazie alla cortesia del collega Brusco.
La mia parte politica ha espresso sin dall'inizio una adesione in linea di principio alla partecipazione italiana alla missione UNIFIL 2 - ci sono indubbiamente degli elementi in questa missione che corrispondono pienamente ad un interesse nazionale, perché sarebbe difficile negare un interesse dell'Italia ad essere presente come protagonista nell'area mediorientale e in tutto il bacino del Mediterraneo -, ma lo abbiamo fatto a denti stretti e di malavoglia, sostanzialmente perché siamo convinti che questa missione, i cui rischi non sfuggono ad alcuno, doveva essere oggetto di un mandato politico il più ampio possibile da parte delle Camere. Così dovrebbe essere non tanto perché lo ha autorevolmente chiesto il Presidente della Repubblica, ma perché, e non da oggi, questo è il nostro modo di intendere la presenza internazionale dell'Italia, soprattutto quando è in gioco l'invio di nostri militari all'estero.
Diversamente da come è stata presentata da questa maggioranza, la missione in oggetto è stata creata, tra l'altro, per far osservare il cessate il fuoco intervenuto tra Israele e Libano; pertanto, si tratta di una missione che contribuirà alla pace esattamente come è stata, fin dalle prime battute, l'operazione Antica Babilonia in Iraq ed esattamente come è stata configurata fin dai primissimi giorni la missione in Afghanistan. Si tratta di missioni (al plurale) «di pace», dunque, che si svolgono inPag. 22contesti molto diversi, ma che hanno come obiettivo prioritario il contrasto al terrorismo e la costruzione di un quadro democratico. Ieri lo scopo era l'abbattimento della più che trentennale dittatura di Saddam Hussein, che aveva martirizzato il suo popolo e sbeffeggiato l'ONU per undici, lunghissimi anni, oggi un obiettivo che è stato già raggiunto in Afghanistan, dove è stato sgominato l'oscurantismo del regime dei talebani ed instaurato l'ordine costituzionale. In entrambi i casi, in Iraq e in Afghanistan, la partecipazione italiana è stata accompagnata da un'impressionante pluralità di interventi, spesso molto generosi, umanitari e di cooperazione economica, che ci hanno reso molto graditi alle popolazioni locali e che hanno contribuito anche a proteggere la presenza dei nostri militari in quei territori.
Stiamo parlando, quindi, di «truppe di pace» in tutte le missioni, con i nostri militari impegnati nel rafforzamento della legalità e della sovranità territoriale in scenari molto ardui, molto difficili e molto rischiosi. Si tratta di truppe di pace, quindi, e non di truppe di occupazione come continuiamo a sentirli definire anche in quest'aula, come li si sente definire nelle tante manifestazioni di piazza e addirittura come li ha definiti il Presidente del Consiglio, Prodi, in piena campagna elettorale. I moltissimi, variegati deliri pacifisti, così ampiamente rappresentati in questa maggioranza, a conti fatti, non riescono a nascondere e a camuffare questa elementare verità. Vi è una vera e propria continuità, dunque, nella politica estera dell'Italia che la rende essenziale nel quadro multilaterale e che le risoluzioni dell'ONU, ex post ed ex ante hanno sempre inquadrato dal punto di vista del diritto internazionale, sia nell'operazione in Iraq, sia anni prima con i bombardamenti in Serbia, sia nello scenario afghano e tanto più oggi nel Libano meridionale.
La risoluzione n. 1701, malgrado le sue ovvie incongruità e gli inevitabili compromessi ai quali hanno soprattutto lavorato gli Stati Uniti e la Francia, è stata oggetto tuttavia di un raro e prezioso voto unanime del Consiglio di sicurezza dell'ONU. È questo forse, dal nostro punto di vista, l'elemento più rassicurante. Infatti, non possiamo dimenticare che la precedente missione UNIFIL che si svolge con pressoché identico mandato da oltre un quarto di secolo nel Libano meridionale non ha minimamente impedito ad Hezbollah di armarsi sontuosamente, di costruire un reticolo molto esteso e molto sofisticato di rifugi sotterranei nei quali nascondere migliaia di missili, molti di fattura russa, arrivati chissà come e puntati su un unico obiettivo: il territorio di Israele.
È proprio questa incognita terrorista di Hezbollah a rappresentare ancora una volta l'epicentro di una possibile ripresa del conflitto che, naturalmente, nessuno in Europa si augura.
Questa formazione ha rappresentato e, probabilmente, continuerà a rappresentare uno Stato nello Stato libanese; è una formazione che controlla perfettamente tutto il Libano meridionale da oltre vent'anni, malgrado la massiccia presenza prevista dei caschi blu all'interno di UNIFIL 2. Uno Stato nello Stato quindi, un partito politico con rappresentanti in Parlamento e nel debolissimo esecutivo di Siniora, una milizia di decine di migliaia di uomini armati di tutto punto che ha sempre ignorato le risoluzioni dell'ONU, non ultima la n. 1559 che ne imponeva il disarmo.
Al contempo, Hezbollah è anche una forza economica intenta in questi giorni a risarcire, pronto cassa, coloro che hanno subito le devastazioni dei bombardamenti israeliani. È un'entità che costituisce parte integrante del multiforme accordo intralibanese, ma che di fatto ha dichiarato guerra allo Stato ebraico, ha rapito i suoi militari che ancora oggi, ad oltre un mese dal cessate il fuoco, non sono stati liberati ed ha lanciato centinaia di missili su Haifa ed altre località israeliane.
Paradossalmente, Hezbollah non è stata oggetto di quelle critiche, così pronte e puntuali, che hanno invece riguardato Israele, rea di aver reagito in modo sproporzionato, come se ci potesse essere una sorta di metro e di misura di una reazione nei confronti di una cosiddetta guerraPag. 23asimmetrica, come quella derivante dall'episodio del 12 luglio che ha scatenato la reazione dello Stato di Israele.
Hezbollah è la formazione che, due giorni fa, ha organizzato un'imponente manifestazione a Beirut per celebrare la vittoria su Israele. È riapparso Nasrallah, il quale ha confermato semplicemente quanto tutte le parti in causa ben sanno: Hezbollah continua a possedere una immensa quantità di missili e non intende in alcun modo sbarazzarsene.
In sintesi, questo è il quadro all'interno del quale il Governo ha deciso, con una fretta che ha stupito solo gli ingenui, derivata probabilmente dalla necessità di tenere assieme una cacofonia di voci all'interno della sua maggioranza e all'indomani di una mortificante maratona parlamentare che ha costretto il Governo a porre quattro volte la questione di fiducia sulla missione in Afghanistan, utilizzando una procedura molto disinvolta dal punto di vista istituzionale.
A Camere chiuse, senza aspettare il responso dell'Assemblea, è stato deciso l'invio dei primi militari italiani che, a schieramento completato, rappresenteranno circa un quinto di quel poderoso contingente di UNIFIL 2 che dovrebbe salire a 15 mila unità.
Basti pensare ad un'altra missione ONU, nel Congo, dove sono morti più di un milione e mezzo di civili in una lunghissima e sanguinosa guerra civile. Il territorio del Congo è immenso rispetto al minuscolo territorio libanese e ha una popolazione quindici volte superiore. Ebbene, i caschi blu nel Congo sono 16 mila in tutto.
Rimangono, quindi, intatte le nostre più vive preoccupazioni, alle quali si aggiungono gli interrogativi riguardo alle regole di ingaggio definite dal ministro della difesa Parisi «robuste» e considerate in certi ambienti del Palazzo di vetro perfino troppo robuste.
Non vorrei dimenticare il rammarico per l'improvviso e subitaneo siluramento da parte del Segretario generale Kofi Annan del generale italiano Fabrizio Castagnetti, reo palesemente di aver descritto con una desolante accuratezza l'elefantiaca burocrazia onusiana e, soprattutto, di aver elencato l'altissimo numero di missioni ONU fallite, a cominciare da quella nel Ruanda che oggi si ripropone, purtroppo, in tutta la sua drammatica violenza nel Darfur.
Dunque, nessun disarmo delle milizie sciite; la sicurezza di Israele è minacciata esattamente come prima del 12 luglio; nessun efficace controllo alla frontiera con la Siria per impedire il passaggio, probabilmente mai interrotto del tutto, di armi provenienti dall'Iran e destinate al cosiddetto Partito di Dio. Si tratta di un quadro sufficientemente fosco che in nessun modo giustifica il trionfalismo parolaio e provinciale delle formazioni estremiste presenti in questa maggioranza che hanno inneggiato a lungo ed al limite del pudore nei confronti dell'invio dei nostri valorosi militari in terra libanese.
In conclusione, confidiamo, tuttavia, che il Governo vorrà e saprà correggere al meglio quanto meno il metodo usato fino ad oggi, informando con tempestività e completezza il Parlamento e ripresentando, come è giusto e doveroso, un nuovo provvedimento al termine della scadenza del 31 dicembre di quest'anno (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Scotto. Ne ha facoltà.

ARTURO SCOTTO. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, forse nella «rassegna stampa» richiamata durante il suo intervento l'onorevole Gasparri ha dimenticato di inserire il rapporto dei servizi segreti americani che questa mattina è stato pubblicato dai maggiori giornali italiani. Mi riferisco al rapporto chiesto dal NIC, che include sedici servizi americani, dove veniva denunciato l'effetto domino, la moltiplicazione di centrali terroristiche all'indomani della scelta sciagurata operata dal Governo Bush di inviare le truppe in Iraq. L'eredità pesante di quella guerra ha avuto come effetto principale l'incremento progressivo dei terrorismi, la moltiplicazione di milizie armate,Pag. 24la diffusione di uomini - e talvolta donne - bomba, il generale sorgere di integralismi che rischiano di minare il già fragile equilibrio istituzionale di paesi arabi moderati.
L'Iraq e l'Afghanistan hanno prodotto una sorta di calamita, sconvolgendo le popolazioni civili, ritardando la stabilizzazione di assetti istituzionali in quei paesi che avevano vissuto e che vivono ancora un lungo dopoguerra, mietendo decine di migliaia di vittime civili. Non possiamo sfuggire di fronte a questo dato: è quest'ultimo, infatti, che oggi ci costringe a discutere di Libano ed è questo il contesto delineato all'indomani della scelta del Parlamento italiano, delle Commissioni esteri e difesa, di inviare un contingente italiano all'interno della missione UNIFIL.
È del tutto evidente che, se non ci fosse stato un intervento deciso e tempestivo della comunità internazionale, il conflitto israelo-libanese sarebbe scivolato inevitabilmente verso un potenziale allargamento, con l'effetto domino di coinvolgere altri paesi nel perimetro di quella guerra. Mi riferisco a Siria ed Iran, innanzitutto, che, con il loro sostegno, diretto o indiretto, a Hezbollah, inevitabilmente avrebbero finito per condividere l'incendio mediorientale.
In questo contesto si è inserita l'Europa. Il Libano ha recuperato una centralità. La tragedia di milioni di cittadini e la guerra, cominciata il 12 luglio scorso, recuperano una nuova centralità grazie all'Europa e alla scelta dell'Italia che, insieme ad altri paesi, ha promosso un'iniziativa forte nei confronti delle parti in contenzioso, portandole per mano verso la risoluzione delle Nazioni Unite n. 1701, che delinea tre aspetti fondamentali.
In primo luogo, va sicuramente ribadita con forza, perché è un atto fondamentale, la centralità della questione della sicurezza di Israele e, allo stesso tempo, il recupero progressivo di sovranità del Libano, che soltanto un anno fa era uscito da un lungo braccio di ferro che aveva portato all'abbandono delle truppe siriane del territorio libanese, quella che fu salutata come la «rivoluzione dei cedri».
Il Libano oggi ha un Governo democratico, sicuramente fragile, ma che va sostenuto e che è basato su un equilibrio etnico e religioso molto difficile da mantenere. Sicuramente una possibile escalation di quella guerra avrebbe determinato ulteriore instabilità e ulteriori difficoltà.
Infine, l'altro tema fondamentale riguarda il disarmo dei gruppi armati presenti sul territorio, le milizie parallele all'esercito libanese. Si tratta di un dato fondamentale. Ricordo che erano già intervenute le due risoluzioni delle Nazioni Unite n. 1559 e n. 1680. Questo compito spetterà prioritariamente all'esercito libanese, coadiuvato dai caschi blu delle Nazioni Unite. La tregua, che ha portato alla scelta della risoluzione n. 1701 per l'invio dei caschi blu dell'Unifil, deve necessariamente comportare un successivo trattato di pace e, progressivamente - questo è l'altro dato importante che è scaturito dalla discussione nelle Commissioni competenti -, una conferenza regionale di pace in tutta l'area. Essa deve definire una pacifica convivenza tra Libano ed Israele, a partire dalla definizione dei confini, dentro cui c'è anche la questione, non ancora chiusa, che è stata anche oggetto del famoso comizio di Nasrallah, due giorni fa, ossia quale destino abbiano le Fattorie di Sheba'a, che costituiscono uno dei punti critici del rapporto tra Israele e Libano.
Vi è un altro tema fondamentale e centrale della Palestina e della pace in Medio Oriente, come hanno detto più volte i relatori questa mattina, gli onorevoli Pinotti e Ranieri, e come ha ribadito in queste settimane il ministro D'Alema. George Bush, all'indomani dell'11 settembre, dell'attentato terribile alle Torri gemelle, sottolineò che, per bonificare quei giacimenti di odio entro cui si era annidato il terrorismo internazionale e qaedista, era necessario rimuovere definitivamente quell'alibi terribile che da cinquant'anni alimentava il conflitto mediorientale, con riferimento alla richiesta dei palestinesi, giusta e legittima, di avere uno Stato. Egli disse che andava prodotto uno sforzo da parte della comunità internazionalePag. 25per dare uno Stato ai palestinesi, procedendo non per ritiri unilaterali, ma con un vero e proprio accordo di pace, che, sotto la formula «due popoli, due Stati», avrebbe restituito a quell'area pace, sviluppo e sicurezza.
Quel tema è stato rimosso dalla scelta della guerra preventiva. Anzi, la guerra preventiva ha accentuato ancora di più la disperazione e le difficoltà di quell'area, ed ha prodotto ulteriormente la crescita di quell'alibi.
Oggi, ancora ci domandiamo cosa succede a Gaza, cosa succede in quei territori. È calato un silenzio inquietante, che impone alla comunità internazionale di intervenire subito, perché altrimenti quella difficile tregua che è stata raggiunta in Libano e che oggi ci porta a ben sperare verso un rapido accordo di pace rischierà di non reggere e di portare ulteriori difficoltà all'interno di quell'area.
Non sarà semplice reggere questo passaggio, soprattutto se all'interno degli Stati e della stessa Israele non passerà l'idea che soltanto la parte più illuminata di quel paese comincia a comprendere: non può essere soltanto con la deterrenza militare che si raggiungeranno sicurezza, stabilità e sviluppo; ma attraverso scelte di dialogo, diplomazia, multilateralismo quel paese potrà uscire dalla spirale della violenza, dalla spirale degli attentati kamikaze, dalle difficoltà di dialogo all'interno di quell'area. Allo stesso tempo, si comincia a comprendere come restituire al Libano diritti e centralità, attraverso il dialogo e la diplomazia.
Attenzione: il Libano è il paese più povero di quell'area! Secondo le rilevazioni di The Economist, è un paese che ha quattro dollari e mezzo di reddito pro capite. Parliamo di un paese poverissimo all'interno di un'area molto complessa e difficile. Non possiamo pensare di liquidare il fenomeno di Hezbollah, di quel movimento che sicuramente ha dentro di sé enormi contraddizioni e che ha una grande responsabilità in quella guerra, attraverso una lettura miope ed approssimativa, esclusivamente determinata dall'impatto delle bombe e dei missili Kassam lanciati sul territorio israeliano. È una forza presente in Parlamento, che contribuisce oggi alla ricostruzione civile di quel paese, attraverso una forza economica assistenziale, che talvolta supplisce alle difficoltà economiche di quel paese.
Se non ci rendiamo conto di questo, se non riusciamo ad eliminare il consenso esistente oggi attorno a quella forza, che è ampio, soprattutto all'indomani della guerra in Libano, non riusciremo ad intervenire seriamente nella direzione della stabilizzazione e del recupero di sovranità di quel paese.
Quindi, sarà necessario e fondamentale agire anche sul versante economico. Se c'è un aspetto che va sottolineato (e viene sottolineato troppo poco all'interno del nostro dibattito) è che, nel decreto-legge che questo Parlamento si accinge a convertire in legge nei prossimi giorni, è prevista anche una quota importante destinata alla cooperazione internazionale: trenta milioni di euro. Sono ancora troppo pochi e andranno incrementati, perché non c'è dubbio che anche attraverso un'aggressione economica, politica e diplomatica, un maggior intervento sociale ed economico quel paese potrà risollevarsi ed avere una normale dialettica politica e una normale convivenza civile.
È necessario, dunque, un ritorno alla politica, alla diplomazia, alle regole del diritto internazionale, quelle che erano state calpestate nel corso degli ultimi anni e che avevano ridotto l'ONU soltanto ad uno spettatore.
Nel corso degli ultimi anni, negli anni della guerra preventiva, tutto ciò è stato considerato semplicemente una variabile dipendente. Anche qui vale ed è fondamentale il ruolo della politica e della diplomazia. Abbiamo visto in questi giorni a New York quanto contino i rapporti e le relazioni internazionali per distendere il clima e quanto abbiano contato il ruolo del Governo Prodi, nonché l'intervento intelligente svolto dal presidente Casini presso Ahmadinejad nei giorni scorsi, che ha prodotto anche all'interno della dirigenza iraniana un comportamento meno arrogante e meno estremistico.Pag. 26
L'Iran va assediato politicamente: non possiamo immaginare per quel paese, infatti, una nuova fase di deterrenza militare. Ciò perché è chiaro che il ruolo preponderante che l'Iran ha acquisito, nel corso degli ultimi mesi e degli ultimi anni, è direttamente legato alla fine dell'Iraq di Saddam, il quale, nonostante si trattasse sicuramente di una dittatura terribile, costituiva comunque un contrappeso.
Quel paese esercita oggi un ruolo egemone all'interno dell'area, ma noi dobbiamo tentare di eliminare tale egemonia attraverso la diplomazia e la politica. Occorre aprire, allo stesso tempo - si tratta di un tema fondamentale -, una nuova stagione di disarmo in Medio Oriente; altrimenti, da questo punto di vista non riusciremmo ad intervenire strutturalmente all'interno di una regione profondamente segnata dalla guerra, dalla violenza e dal traffico di armi.
L'obiettivo di denuclearizzare il Medio Oriente è più forte di una trattativa estenuante con l'Iran sulla possibilità di accedere all'energia nucleare per usi sia civili, sia militari. Denuclearizzare il Medio Oriente significa, inoltre, intervenire presso quelle dittature che, nel corso di questi anni, sono state spesso sostenute, finanziate e protette. Infatti, non si può invocare la giusta espansione dei diritti democratici in ogni paese del mondo ed in ogni angolo della terra e, poi, dimenticarsene ogni qualvolta si pongono in essere poderosi contratti commerciali con paesi che praticano la restrizione delle libertà civili e dei diritti umani, ricorrono alla tortura e discriminano le diversità religiose, politiche e sessuali.
Ho concluso, signor Presidente. Voglio soltanto sottolineare un altro aspetto. Dopo che è stato conseguito questo importante risultato nelle Commissioni affari esteri e difesa, con un voto pressoché unanime di tutte le forze politiche presenti in Parlamento sul decreto-legge in esame, è necessario compiere uno sforzo ulteriore per dare continuità e per raggiungere l'unità tra i Governi dell'Unione europea. Affinché la stessa Unione europea recuperi una centralità che ritengo fondamentale ed importante, occorre soprattutto che la politica torni a parlare. Accanto all'invio delle truppe in Libano, infatti, deve ripartire un'iniziativa politica e diplomatica di ampio respiro, che conduca alla convocazione di una conferenza di pace per la regione.
La sfida è certamente ardua: essa comporta uno sforzo, oltre che militare, politico e diplomatico, nonché la determinazione nel voler giocare un ruolo costruttivo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, a partire dal coinvolgimento di tutti gli attori di tale regione, Iran e Siria compresi.
Vorrei ricordare che solo pochi anni fa, illusoriamente, erano in molti a pensare che il mondo avesse lasciato definitivamente da parte, con la fine della guerra fredda, quei timori e quelle ansie che, per tanto tempo, hanno influito nella dinamica e nella rappresentazione delle relazioni internazionali. Infatti, l'unilateralismo, con la sua aura da «fine della storia», e la guerra preventiva di Bush sembravano costituire il corollario teorico di questa nuova fase. L'Iraq ieri ed il Libano oggi ci mostrano invece, ancora una volta, che questa strategia non paga e che vi è solo una via per conseguire la pace: la diplomazia, il dialogo ed il confronto politico costruttivo (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dei Verdi - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cossiga. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE COSSIGA. Signor Presidente, vorrei innanzitutto svolgere una premessa e parlare del nostro dibattito, nonché degli interventi pronunciati da alcuni colleghi.
Vorrei infatti rilevare che, molto spesso, la fase della discussione sulle linee generali dei provvedimenti è trascurata; o meglio, si tratta di una funzione parlamentare nata in un'epoca in cui le esigenze di comunicazione erano diverse. In effetti, nel mondo politico medializzato che viviamo in Italia, essa potrebbe apparire superflua.
Debbo riconoscere, invece, che l'esperienza maturata sia nella scorsa, sia inPag. 27questa legislatura mi ha fatto parzialmente ricredere su tale aspetto. Mi auguro, dunque, che la discussione sulle linee generali diventi nuovamente un momento importante nella vita parlamentare, nella quale la parola «dibattito» è utilizzata in maniera diversa rispetto a quanto fanno i cittadini: infatti, in Parlamento, come è noto, chi interviene non può più parlare successivamente.
Mi permetterò, quindi, di citare - infatti ho avuto la fortuna di intervenire dopo alcuni colleghi e magari altri avranno la fortuna di intervenire dopo di me - l'ultimo collega che ha parlato, l'onorevole Scotto, ma anche l'onorevole Venier, per la significatività dell'intervento e per la preparazione che evidentemente era sottesa nonché la passione che è stata dimostrata. Ora, non è che io condivida necessariamente tutto ciò che hanno detto i miei colleghi; anzi, in gran parte non lo condivido. Tuttavia, ho apprezzato molto l'intervento, in primis, dell'onorevole Venier perché mi è sembrato un intervento dettato da una voglia di verità.
Egli ha detto esattamente ciò che riteneva giusto dire e ciò non stupisce dato che proviene da un partito che si gloria ancora di chiamarsi partito dei Comunisti Italiani. Invece, altri partiti all'interno di questa aula hanno ritenuto legittimamente di cambiare il nome, ma forse anche di dimenticare una certa storia e determinate posizioni. Io non ero d'accordo con i comunisti quando da ragazzo non ero in Parlamento, ma votavo soltanto; mi fa piacere quando qualcuno dice di essere comunista e non se ne vergogna, perché vuol dire che non dimentica le radici. Qualcun altro mi sembra che le abbia dimenticate: bisogna dire che questi ultimi hanno poi avuto successo politicamente, ma non sembra che ci siano attualmente esponenti di primissimo piano nel partito dei Comunisti Italiani al Governo. Ci sono, invece, esponenti di primissimo piano di partiti che si dicevano democratici: lo hanno dimenticato, hanno difficoltà ad ammetterlo in pubblico; qualcuno - ma non è più in questo Parlamento - addirittura ha detto di non esserlo mai stato; piuttosto di essere stato kennediano. Ora, portare le camicie bottom-down è una cosa ed essere kennediani è un'altra, ma sinceramente non si capisce cosa ci facesse un kennediano nel partito comunista!
Ma così è l'Italia. Ho apprezzato l'intervento dell'onorevole Venier perché credo abbia detto la verità: una verità che è presente in parti importanti di questa maggioranza, ma che non trova visibilità nelle affermazioni del Governo. Si capisce, perché l'onorevole Venier non deve difendere nessuna poltrona: ha il suo seggio e il suo mandato parlamentare. Evidentemente il Governo Prodi qualche poltrona da difendere l'avrà e quindi preferisce parlare un po' meno di verità e un po' più di pragmatismo e di comodità. Tuttavia, io credo che la verità dovrebbe essere sempre presente nei nostri interventi.
L'intervento dell'onorevole Scotto lo cito - come già detto - oltre per l'evidente qualità, anche per una battuta che ha voluto riservare ad un nostro collega che si è espresso in precedenza, l'onorevole Gasparri. L'onorevole Scotto ha detto che l'onorevole Gasparri nel suo intervento - che ha definito una rassegna stampa in maniera ingenerosa: non so se l'onorevole Scotto abbia mai fatto una rassegna stampa, forse l'ha anche letta, una rassegna stampa, per il suo intervento, ma l'importante è che ognuno dica ciò che ritiene giusto e opportuno - ha dimenticato di citare che sui giornali di oggi compare un rapporto che i servizi segreti americani hanno preparato in relazione alla situazione del terrorismo internazionale, dopo la guerra in Afghanistan e in Iraq. Ha utilizzato il riferimento a questa pubblicazione per dire che era tutto sbagliato e che addirittura i servizi segreti americani dicono che l'amministrazione Bush ha commesso crimini ed errori.
Ora, non so se l'onorevole Scotto abbia letto interamente il rapporto dei servizi americani, ma è evidente - come tutti quelli di buona volontà sanno - che il rapporto non è stato pubblicato interamente e che al riguardo ci sono state reazioni, che però l'onorevole Scotto non ha citato. Io non so se è stato fatto tuttoPag. 28bene in Iraq, ma non credo che sia stato fatto tutto male. Pubblicare solo una parte di un rapporto indirizzato al Governo degli Stati Uniti da parte dei suoi servizi segreti per provare una vera e propria idea preconcetta sulla politica dell'amministrazione Bush non mi sembra un servizio, per lo meno, alla verità. Non so se sia utile, ma sicuramente non è un servizio alla verità.
Ora, per quanto riguarda invece il mio intervento, devo dire che, a differenza anche di alcuni interventi dei colleghi della mia parte politica che mi hanno preceduto, è fatto di dubbi e di riserve. Non mi è sembrato che l'onorevole Venier avesse molti dubbi, ma era estremamente convinto della sua posizione, al punto che si è addirittura lasciato andare ad una dichiarazione di voto. Grazie a Dio - questo lo dico per me - non siamo al momento delle dichiarazioni di voto, ma quello in cui - ahimè - forse bisogna esprimere delle riserve e dei dubbi. Poi alle dichiarazioni di voto ci arriveremo, e io credo anche rapidamente. Perlomeno, per quanto mi riguarda, questo è il momento delle riserve e dei dubbi.
Innanzitutto, si tratta di riserve e di dubbi sulla missione in sé e, di conseguenza, anche sulla risoluzione che alla missione fa da cornice.
La risoluzione n. 1701 non è sicuramente la prima delle Nazioni Unite che si pone come obiettivo la pacificazione (nello specifico del Libano ma, più in generale, della zona tormentata del Medio Oriente). Sinceramente, temo che non sarà neanche l'ultima, perché non riesco a capire come si possa pensare, nell'attuale situazione politica internazionale, che la risoluzione n. 1701 sia l'ultima. Ebbene, l'enfasi che viene data alla risoluzione, in particolare da parte del Governo - per motivi che, ahimè, non sono certo di verità -, è sicuramente eccessiva.
Peraltro, com'è noto, la risoluzione non crea una nuova missione, ma si limita a ritoccare una missione che esiste già e che ha il nome di UNIFIL. Non c'è alcuna UNIFIL 2: c'è soltanto la missione UNIFIL, quella del 1978 (se non erro), quella stessa che non ha evitato alcuno dei disastri che dal 1978 si sono succeduti in quella regione. Ricordiamo l'operazione Pace in Galilea e l'invasione del Libano del sud da parte di Israele: l'invasione non è stata evitata dalla missione UNIFIL!
Le successive risoluzioni sullo stesso argomento (è stata citata la n. 1559) si ponevano come obiettivo il disarmo delle milizie. Dopo il 1982, le milizie nel sud del Libano hanno cambiato natura, ma il problema che le risoluzioni si sono sempre poste è stato quello del disarmo delle milizie e del ritorno del legittimo Governo libanese. Ora, non mi sembra che sia successo granché dalla risoluzione n. 1559 ad oggi. Non mi sembra, in particolare, che la missione UNIFIL abbia contribuito al disarmo delle milizie o al ristabilimento del potere del legittimo Governo nel Libano del sud; in caso contrario, Hezbollah non avrebbe raggiunto quella capacità di combattimento che è stata una delle ragioni per le quali questa stessa risoluzione ha avuto un iter così travagliato.
È ovvio che tutte le risoluzioni dell'ONU sono basate su un compromesso: senza compromesso, non c'è voto! È anche vero, al di là di alcuni buoni sogni, ahimè, che alcuni di noi coltivano, che all'ONU non si decide sulla base dei trattati e delle leggi: io credo che all'ONU si decida, oggi come ieri - e questo è un grave difetto degli esseri umani -, sulla base dell'interesse. La ragione per la quale la risoluzione n. 1701 ha riscosso un consenso unanime nel Consiglio di sicurezza è la stessa per la quale - che so? - non è stata mai votata, né all'unanimità né a maggioranza, una condanna dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. Il Consiglio di sicurezza dell'ONU funziona in un certo modo: non si è tutti uguali al Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma qualcuno è più uguale degli altri: se qualcuno non vuole che si voti, non si vota! L'invasione dell'Afghanistan non è stata condannata dal Consiglio di sicurezza perché, ovviamente, uno dei protagonisti del Consiglio, l'Unione Sovietica, era l'invasore (quindi, non si è votato)!
Questa è una delle ragioni per le quali quando sento citare l'articolo 11 dellaPag. 29Costituzione mi sembra legittimo nutrire qualche dubbio. Forse, il mondo al quale fa riferimento l'articolo 11 della nostra Costituzione non è, oggi, o non è ancora (perché la speranza non muore mai) quello a cui facevano riferimento i padri costituenti: un mondo in cui l'Italia possa cedere la sua sovranità ad un organo sovranazionale - non multinazionale, ma sovranazionale - per la tutela della pace (sarebbe estremamente bello, e mi auguro che ci si arrivi, ma temo che non lo vedremo né io né mio figlio). Purtroppo, non esiste quest'organo realmente sovranazionale in cui tutti i paesi siedono con lo stesso diritto. Se esistesse, molte cose sarebbero diverse, ma non esiste. Al Consiglio di sicurezza dell'ONU c'è chi conta e chi non conta e, com'è noto, noi non contiamo (non facciamo parte del Consiglio di sicurezza; ne faremo parte tra breve, ma non siamo stati, diciamo così, estratti per farne parte); comunque, non ci sediamo in Consiglio di sicurezza come si siedono i nostri alleati - Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna - perché questi paesi hanno il diritto di veto.
Quindi, come mai è stata votata all'unanimità la risoluzione n. 1701? Perché tutti erano d'accordo. E perché erano d'accordo?
Secondo me, erano d'accordo perché - una volta tanto - gli interessi coincidevano. L'interesse degli Stati Uniti probabilmente richiederebbe ben più di mezz'ora per essere affrontato, ma è legato all'evoluzione che vi è stata dopo l'11 settembre del 2001, a ciò che gli stessi Stati Uniti hanno, io dico dovuto fare, altri dicono semplicemente fatto, in relazione alla lotta contro il terrorismo internazionale, ad un'evoluzione che tutti questi avvenimenti ha portato. Era - ed è - interesse degli Stati Uniti, per quanto riguarda la situazione libanese, che l'intervento sia il più condiviso possibile ed avvenga all'interno dell'alveo del diritto internazionale.
Il voto è stato espresso perché è anche interesse della Francia. La Francia era stata protagonista in negativo in altri momenti. Ricordiamo che, molto probabilmente, è per l'esplicita dichiarazione da parte della Francia di votare contro che non si è addivenuti ad una risoluzione prima della guerra in Iraq. Quindi, la Francia, in un modo o nell'altro, anche nei confronti di uno tra i suoi principali alleati, quali gli Stati Uniti, ha rivestito un ruolo negativo sino ad oggi. Le mutate condizioni hanno fatto sì che la Francia decidesse di mettersi in prima fila nell'elaborazione di questa risoluzione.
Queste sono le valutazioni che esprimo e che si leggono anche sui giornali; magari vi sono anche altri aspetti che in queste aule non ho sentito affrontare, altre motivazioni per cui gli Stati Uniti e la Francia erano favorevoli. Gli Stati Uniti, come è noto, al Consiglio di sicurezza dell'ONU tutelano anche gli interessi di Israele, che è il loro principale alleato nell'area mediorientale.
Era evidente che, al di là del diritto di Israele di intervenire in quanto paese aggredito (e ciò non va dimenticato) è anche vero - e su tale aspetto potremmo, ancora una volta, parlare a lungo e sarebbe opportuno che nelle sedi appropriate si svolgesse una riflessione, come peraltro sta avvenendo in Israele, un paese veramente democratico - che Israele, nei 34 giorni di guerra nel sud del Libano, non aveva svolto le operazioni, né del punto di vista militare, né dal punto di vista politico, in maniera particolarmente brillante. Si può affermare che Israele si era cacciata in un guaio. Per 34 giorni di operazioni del più potente esercito del mondo, infatti, i missili hanno continuato a cadere su Haifa e ciò è un problema politico grave, che - è noto - sta portando in Israele ad un vero e proprio attacco nei confronti del ministro della difesa. Tale attacco è parzialmente dovuto al fatto che qualcuno ritiene si sia esagerato, ma è assai più puntualmente dovuto alla circostanza che gli israeliani non amano perdere. Il concetto di vittoria o di sconfitta in una guerra è estremamente complicato; comunque le cose non sono andate molto bene per Israele in questa guerra e gli americani hanno, anzi, ritardato il voto su questa risoluzione per permettere che laPag. 30situazione sul campo divenisse almeno un po' più accettabile per Israele. Questa risoluzione era pronta, infatti, molto prima del trentaquattresimo giorno di operazioni, ma le condizioni sul campo non la rendevano opportuna e perciò è stata ritardata.
Quindi, su questa risoluzione è evidente che vi è anche l'interesse di Israele, che aveva bisogno di una risoluzione di questo tipo per poter dire di essere in procinto di interrompere le operazioni, perché è stata votata una risoluzione. È un'ottima cosa perché, comunque, l'effetto vi è stato: sono cessati i bombardamenti sulle città, sono cessati i missili di Hezbollah sulla città israeliane e vi è stata quella reazione che anche il nostro ministro degli esteri ha definito eccessiva, ma che - ahimè - si esprime con una triste parola, che è guerra, da parte dell'aggredito.
Qualcuno si è chiesto: perché distruggere i ponti, perché distruggere le centrali elettriche? Purtroppo, in guerra, quando il tuo avversario è rifornito e alimentato da Stati «canaglia» o «terroristi» o, comunque, da Stati vicini, l'unico modo per evitare che gli arrivino le armi è distruggere i ponti. Quando la grande efficacia del tuo avversario è dovuta ad un evidente ed ottimo sistema di comunicazione, l'unico modo è impedirgli di comunicare. Di ciò sono stati vittime le città ed il popolo libanese, così come il loro paese è vittima ed ostaggio delle milizie terroriste, che siedono anche in Parlamento, come peraltro è stato per Hitler, legittimamente eletto nel partito nazista. Infatti, non è che la democrazia non abbia difetti: la democrazia porta al Parlamento ed al potere, a volte, anche Hitler ed i nazisti. Quindi, Hezbollah è in Parlamento. È un dato di cui dobbiamo prendere atto, ma non per questo dobbiamo dire che, in quanto al Parlamento, è cosa positiva.
Questa risoluzione - sulla quale, come ho appena detto, nutro forti riserve e sulla quale do valutazioni forse sbagliate, come quelle di ciascuno di noi, ma che sono le mie - non mi sembra sufficientemente chiara nell'identificare cosa andiamo a fare in Libano.
Ognuno ne dà la lettura che vuole e questa è la ragione per la quale è stata approvata all'unanimità. Ognuno può leggere, lo ripeto, quello che vuole, nella risoluzione n. 1701. Ciò che io ci leggo è che essa si pone un obiettivo condivisibile, cioè la pace in quel territorio. Inoltre, indica alcuni mezzi e, per come io la interpreto, indica, come principale passo per il raggiungimento della pace il disarmo delle milizie. Senza il disarmo, infatti, il Governo libanese non potrà mai avere la piena sovranità sul suo territorio e senza la piena sovranità del Governo libanese ci saranno sempre altre milizie, altri rischi di aggressione, altri interventi militari da parte di chi si sente aggredito.
Ebbene, io leggo la risoluzione n. 1701 nel senso della necessità di disarmare Hezbollah. Poi, si può entrare nel dettaglio: il disarmo deve avvenire a carico dell'esercito e del Governo libanese con l'appoggio dell'UNIFIL, se richiesto. Tuttavia, nella risoluzione si afferma anche che le forze dell'UNIFIL devono intervenire ogni volta che sia palese una violazione della stessa risoluzione. In poche parole, andare a togliere le armi ad Hezbollah è un compito dell'esercito libanese il quale, come sappiamo tutti, non può farlo, perché non ne ha le capacità, e non vuole farlo, perché manca del necessario supporto politico. Tale supporto, guardate, non manca perché Hezbollah è una componente della coalizione di Governo; infatti, è una componente non maggioritaria ma secondaria. Non lo può fare perché, in questo momento, il popolo libanese - e mi dispiace - in gran parte è con Hezbollah. Forse, l'eccezione è costituita da alcune ex milizie cristiane. Abbiamo visto, nei giorni scorsi, che non sono stati soltanto gli hezbollah a riunirsi ma anche le forze libanesi.
Ebbene, il popolo libanese, ahimè, in questo momento è con Hezbollah e nessuno in Libano vuole disarmare Hezbollah. Questo, evidentemente, è prima di tutto un problema libanese.
Tuttavia, la ragione per la quale l'ONU è in Libano non è la soluzione dei problemi dei libanesi ma la tutela della pacePag. 31e della sicurezza globali. Quindi, il problema libanese, evidentemente, è anche un problema nostro. I libanesi potrebbero ritenere di risolverlo inglobando Hezbollah nelle forze armate o svolgendo elezioni a seguito delle quali Hezbollah, con il sostegno della gran parte dei cittadini, non solo sciiti ma anche sunniti, e magari anche di qualche cristiano, potrebbe ottenere la maggioranza in Parlamento e diventare il vero leader del Libano.
Se questa può essere la soluzione dei problemi del Libano, sicuramente non sarebbe una soluzione dei problemi del mondo. Infatti, un Hezbollah al potere in Libano non credo ci aiuterebbe a risolvere i problemi che riguardano la pace e la sicurezza di tutto il mondo, soprattutto dei nostri cittadini. Quando parliamo di pace nel mondo globalizzato, in realtà, stiamo parlando della sicurezza dei nostri cittadini, della sicurezza di coloro che vivono qui e non di coloro che vivono in Cina. Noi ci occupiamo di coloro che vivono qui, qualcun altro si occuperà degli altri.
Ebbene, queste riserve mi fanno nutrire molti dubbi sulla reale volontà di questa missione, alla quale partecipiamo, di essere efficace. Le parole di Nasrallah mi ricordano quelle di Tigran il Grande che, quando vide arrivare l'esercito di Silla, disse: se sono venuti qui come diplomatici, sono troppi; se sono venuti qui come soldati, sono troppo pochi.
Noi non siamo troppo pochi, perché nel sud del Libano i 15 mila uomini di UNIFIL sono pari a un decimo della popolazione (il Libano non è la Cina); quindi, siamo molti. Il problema è che manca la volontà di fare qualche cosa. Come ha affermato l'onorevole Venier, l'UNIFIL non è lì a difendere la pace e la sicurezza del mondo, non è lì a disarmare Hezbollah e credo che questa sia una parola di verità. UNIFIL si trova lì ad evitare che Israele aggredisca, ad evitare che reagisca. Probabilmente è questo il vero. Allora, se le ragioni sono queste, non vedo perché dovrei essere a favore di questa missione; se la verità è questa, ancor meno potrei essere favorevole quando il mio Governo non la dice. Mentre la maggioranza afferma questo, il Governo si appella a mezze parole, mezze verità e molto fumo.
Un altro elemento riguardo al quale nutro forti dubbi e forti riserve è proprio l'atteggiamento del mio paese nei confronti di questa missione, che ci è stata presentata come il grande ritorno della multilateralità, il grandissimo ritorno della multilateralità, che è il bene, opposta alla unilateralità, che è il male. Il male assoluto è la guerra preventiva.
Per alcune delle ragioni esposte in precedenza, come parlamentare, ma anche come cittadino, il metro del mio operare è rappresentato dalla giustizia (il giusto) e dal legale (il legittimo). Questa è la ragione per cui certe cose, che non credo giuste, ma che sono previste nella legislazione del mio paese, non diventano oggetto di violazione di legge, perché si tratta di discipline legislative approvate dal Parlamento sulla base di un mandato popolare, di un patto della Costituzione che ci lega tutti.
Nel campo del diritto internazionale le cose sono diverse. È facile dire che il diritto internazionale deve prevalere quando fa comodo, mentre bisogna comportarsi in altro modo quando così non è più. Penso che il diritto internazionale sia estremamente utile per gestire i rapporti, ma temo anche che le relazioni internazionali siano ancora basate sugli interessi.
È vero che, secondo i principi del diritto internazionale, non bisogna fare la guerra se non lo decide l'ONU, ma è anche vero che, in più casi, le guerre si sono fatte senza la decisione dell'ONU. Si può anche discutere sull'utilità e sulla giustizia di una guerra piuttosto che un'altra, ma bisogna mettere le cose sullo stesso piano. Non vi era mandato internazionale quando la coalizione di americani, britannici e di altri paesi ha attaccato Saddam, come non vi era quando i nostri aerei hanno bombardato la Serbia, perché una cosa è l'ONU e una cosa è la Nato!
La Nato è un'alleanza politico-militare, di cui facciamo parte, che ha garantito la pace in Europa e che continua a garantire gran parte della sicurezza del mondo, ma non è l'ONU e, quindi, non capisco perché bisogna vergognarsi dei propri atti.Pag. 32
Il ministro degli esteri, come è noto, è stato più che protagonista della guerra in Kosovo. Diciamo la verità: l'attuale ministro degli esteri è diventato Presidente del Consiglio per la guerra nel Kosovo e non gliene faccio una colpa, anzi un merito, il doppio merito di avere rotto una conventio ad excludendum nel nostro paese dopo la caduta del muro, con il primo rappresentante di un partito che era comunista (comunque, anche se non lo si chiamava più comunista lo era stato). Il fatto che un esponente di quel partito sia diventato Presidente del Consiglio ha rappresentato la fine di un'epoca e, secondo me, è stata giusta la guerra in Kosovo contro la Serbia, perché era necessaria.
Che il placet delle Nazioni Unite e che l'informativa al Parlamento siano arrivate dopo sinceramente è un problema secondario, perché quella era una guerra giusta. Non mi lamento del fatto che, dopo la risoluzione votata ad agosto, il Governo non abbia tenuto il Parlamento informato, perché, purtroppo, le cose possono prendere una piega tale per cui il Governo deve assumersi le sue responsabilità. Penso che il Governo se le sia assunte, anche con riferimento al Kosovo, all'Iraq e all'Afghanistan.
Quindi, non vedo per quale ragione di verità il Governo si debba trincerare dietro al fatto che questa è la guerra - scusate il termine «guerra» utilizzato, non apprezzato su alcuni banchi di questo Parlamento -, la missione che ha voluto l'ONU e, pertanto, questa è la missione buona, mentre le altre erano missioni cattive! Non posso accettare che anche sulla base di ragionamenti corretti ci si nasconda dietro un velo di bugie.
Non posso accettare il comportamento di questo Governo quando afferma di essere in posizione equidistante o «equivicina», come mi viene corretto. È evidente che l'onorevole Venier tutto è tranne che equidistante ed «equivicino», ma è evidente che anche il nostro ministro degli esteri tutto è tranne che equidistante ed «equivicino» agli Hezbollah ed all'Iran.
Non si è equidistanti o «equivicini» quando si dice che, comunque, l'Iran ha diritto di sviluppare il nucleare, mentre in altre occasioni si afferma che bisogna evitare che abbia la bomba atomica. È uno strano concetto di equidistanza o di «equivicinanza»!
Credo che anche questo faccia parte di quell'azione di non verità, di disinformazione che ha caratterizzato l'operato di questo Governo e devo dire che lo caratterizza su tutto, non solo in politica estera.
A sentire il Presidente Prodi non vi sono mai problemi né dal punto di vista dell'economia, né dal punto di vista della questione Telecom.
Va tutto bene. La linea di questo Governo, quindi, è quella di alzare una cortina di fumo e di nascondere la verità. La cortina di fumo che si alza include anche grossi paroloni quali, ad esempio, «questa è la missione che è stata organizzata dall'Europa». Ma questa, desidero ricordarlo, è quella stessa Europa che, in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU - torno sempre lì, evidentemente la lingua batte dove il dente duole -, ha due rappresentanti, Regno Unito e Francia, i quali non si consultano né tra di loro né con il resto dei paesi europei nel momento in cui c'è da prendere una decisione. È un sogno quello che abbiamo: il sogno che domani avremo una grande politica estera europea. Però, ahimè, si tratta di un sogno che è tutt'altro che realizzato.
Il presidente Ranieri ha fatto riferimento al fatto di non essere riusciti ad avere una forza di dispiegamento rapida in Libano. Purtroppo, non ci siamo riusciti, ma le ragioni sono sempre le stesse: la politica estera europea nei fatti, e cioè nel momento in cui si scontra con la politica degli interessi delle potenze, non esiste. Ci sono i francesi in Libano: c'erano prima, e ci sono anche adesso. Il Governo italiano ha tenuto a far sapere che noi italiani eravamo stati grandi protagonisti di questa risoluzione e, quindi, di questa missione. Ma se voi avete avuto modo di leggere i giornali stranieri nel corso di queste settimane avrete sicuramente potuto osservare che di questo ruolo di protagonista del nostro paese non se n'è accorto nessuno. Nessun giornale francese,Pag. 33americano, tedesco o inglese ci pone in prima fila; in prima fila ci sono altri, in Europa ci sono i francesi. D'altronde, il comandante è francese: il responsabile ONU della missione di pace è infatti francese. Pertanto, quella di cui si discute è una missione francese a cui non si sa perché noi contribuiamo con il 20 per cento degli effettivi e con il sostenimento di costi sui quali non mi dilungo. Il comando della missione, come detto, è affidata ad un francese: l'Italia è presente, se non erro, con un ammiraglio a due stelle che sostanzialmente dipende da un generale ad una stella (anche questo non è molto bello per un militare). Noi, quindi, non solo non abbiamo il comando di quella missione ma siamo anche vittime di veri e propri schiaffi in faccia. Dopo che il Governo ci aveva spiegato che questo nostro grande protagonismo sarebbe stato premiato dalla responsabilità di una cellula all'interno dell'ONU, creata apposta per questa missione per garantirne l'efficacia dopo i fallimenti tristissimi delle altre missioni militari dell'ONU, ad esempio in Ruanda e in tanti altri posti, abbiamo dovuto subire anche, senza battere ciglio, uno schiaffo in faccia da parte di un imbelle segretario delle Nazioni Unite - che grazie a Dio se ne sta per andare che ha detto «no» - al comando della missione all'Italia. Questo è quello che è successo. Ma questo non viene detto, nessuno cioè si è stracciato le vesti per quanto è accaduto. Noi prendiamo schiaffi in faccia a piene mani da parte del segretario generale dell'ONU e il Governo italiano non fa nulla perché non può fare nulla in quanto ha costruito, dietro questa cortina di fumo, la sua posizione.
In conclusione, ho molte riserve e molti dubbi su quella che è stata la scelta dell'opposizione nella gestione del provvedimento in esame. Noi siamo stati molto « leggeri » ad agosto a votare a favore di una risoluzione che poi il Governo, al di là delle parole, ha considerato un via libera. Siamo stati leggeri anche a votare il mandato a riferire al relatore. Noi abbiamo ancora un po' di tempo, io ho ancora un po' di tempo affinché qualcuno mi faccia cambiare idea oppure, come mi auguro, riesca a chiarire i dubbi che ho.
Colleghi, il voto a favore di questo provvedimento non ci viene chiesto, ma viene «schifato» dalla maggioranza. Questo voto non serve perché, con o senza il nostro voto, questa missione andrà avanti. Ritengo che sarebbe più importante dire al paese e ai nostri alleati su che cosa non siamo d'accordo e poi agire di conseguenza (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15,10.

La seduta, sospesa alle 14,05, è ripresa alle 15,15.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, i deputati Aprea, Folena e Prodi sono in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati complessivamente in missione sono trentacinque, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Si riprende la discussione.

(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 1608)

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole De Zulueta. Ne ha facoltà.

TANA DE ZULUETA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la tranquillità di questo dibattito è il segno della percezione di un'emergenza passata, è il riflesso - e questo è un fatto positivo - di un obiettivo miglioramento della situazione nel Libano. La risoluzione delle Nazioni Unite n. 1701, che in un primo momento appariva un fragile compromesso, si è rivelata fin quiPag. 34di una notevole efficacia. Il «cessate il fuoco» - o, meglio, la cessazione delle ostilità, come recita la risoluzione - che questa impone ha retto malgrado tante violazioni all'inizio, denunciate fra l'altro dal Segretario generale delle Nazioni Unite.
Il calendario di dispiegamento dell'UNIFIL rafforzata e dell'esercito libanese nel sud del paese è stato rispettato. Siamo vicini alla soglia di 5 mila truppe UNIFIL richiesta da Israele come garanzia prima di completare il proprio ritiro dal territorio libanese occupato.
Alla Conferenza dei donatori, a Stoccolma, la risposta della comunità internazionale per la ricostruzione del Libano è andata al di là delle speranze: la cifra di 400 milioni di dollari, data come obiettivo minimo, è stata più che raddoppiata. Con la grande vitalità che caratterizza quel complicato paese, i libanesi sono riusciti in qualche modo a rimettere in moto buona parte della propria vita sociale, economica e civile. Questo non ci deve, comunque, illudere perché il danno subito dal Libano è stato calcolato dalle istituzioni finanziarie internazionali come equivalente al valore del prodotto interno lordo di quel paese in sei mesi: si tratta di un danno enorme, che quelle donazioni internazionali non copriranno affatto.
Di questo scenario, dunque - che, probabilmente, sarebbe eccessivo definire di speranza, ma che sicuramente ci offre l'opportunità di una risoluzione in primo luogo del conflitto tra Libano e Israele, drammaticamente riesploso questa estate -, l'Italia può, in qualche modo, ritenersi artefice. Al nostro paese viene generalmente riconosciuto il merito di aver agito come vero e proprio facilitatore della ripresa di un processo di pace e questo risultato positivo è stato raggiunto invocando e attivando le sedi multilaterali: l'Unione europea, nel seno della quale l'Italia è stata promotrice di una risposta positiva all'appello della risoluzione ad un contributo sostanzioso per rafforzare l'UNIFIL, e poi le Nazioni Unite, rinvigorite e ristabilite come sede legittima per un processo di pace che deve coinvolgere la regione.
Intendiamoci, però, Israele e il Libano devono ancora aprire un negoziato di pace - lo sappiamo -, ma la ruota della diplomazia, da ferma che era, si è rimessa a girare, non solo per quanto riguarda il Libano. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Kofi Annan ha preso contatto con tutti gli attori regionali, sottolineando più volte che le crisi della regione sono tutte interconnesse.
Questa constatazione, apparentemente evidente ma troppo a lungo ignorata, è stata la linea guida di tutta l'azione diplomatica del Governo italiano, e del ministro degli esteri in particolare, dall'inizio della guerra, riesplosa a luglio. Lo voglio riconoscere, da questo deriva la particolare importanza della missione militare in Libano; dall'esito di questa missione, come recita la stessa relazione al decreto-legge in esame, dipenderanno in gran parte le sorti della regione mediorientale e le prospettive di sicurezza e stabilità, anche rilanciando il processo di pace in tutte le sue dimensioni.
La posta in gioco, come vediamo, è altissima. Siamo tutti consapevoli della particolare fragilità e delicatezza del compito e della missione. I rischi sono evidenti, lo ha ricordato un portavoce di quella nebulosa del terrore che è Al Qaeda, che vorrebbe cavalcare gli elementi incontrollabili di tutti i teatri di conflitto e a questo appuntamento non poteva mancare.
Poi, ci sono i rischi particolari del teatro libanese, a cominciare dall'altissimo numero di bomblets, le mini bombe inesplose rilasciate dalle bombe a grappolo, sparate a pioggia dell'esercito israeliano negli ultimi giorni del conflitto. Queste bombe, equiparabili nei loro effetti alle mine antiuomo, già messe al bando da tutti gli eserciti europei, hanno già ucciso 12 civili dopo la cessazione delle ostilità e il numero è destinato a salire. Ricordo, a questo proposito, che è in atto un'azione internazionale promossa dalla società civile per mettere al bando queste armi. Va,Pag. 35comunque, sottolineato che il pieno rispetto delle convenzioni esistenti ne dovrebbe vietare l'uso nelle zone abitate.
Saluto con favore - e spero che potremo dar seguito presto alla proposta dell'onorevole Pinotti, presidente della Commissione difesa - l'avvio di un percorso che possa portare alla messa al bando anche di queste bombe, di queste armi che, di fatto, sono disumane nei loro effetti. Purtroppo, man mano che si andava placando lo scontro militare tra Hezbollah e le forze armate israeliane, è riemersa un'altra punta di fragilità locale, la diffidenza reciproca, la conflittualità delle stesse forze politiche libanesi.
A questo proposito, sarebbe forse opportuna un'azione di quella che viene chiamata la diplomazia parlamentare europea che facesse presente ai colleghi libanesi l'ammirazione internazionale che il Libano ha raccolto nei giorni più duri della guerra, proprio per il fatto che erano prevalsi in quel paese la solidarietà e l'unità nazionale, un patrimonio di stima e di fiducia che i libanesi non dovrebbero disperdere.
La relazione del Governo sottolinea quanto la presenza militare, per quanto decisiva, costituisca, di fatto, un'integrazione dell'azione politico-diplomatica sviluppata dall'Italia a favore della sicurezza e della stabilità nel Medio Oriente. Ciò nondimeno, gli aspetti militari sono molto importanti. Il primo punto sono le regole di ingaggio.
Su questo punto abbiamo rischiato di non riuscire a convogliare un sostegno adeguato all'UNIFIL. La Francia, in particolare, era preoccupata su questo punto. Il ministro Parisi ha detto che queste regole sono ora robuste (è un aggettivo di cui diffido, poiché troppo utilizzato); comunque, sembrano appropriate ed adeguate, anche se non le conosciamo. Vedo che sono stati sufficienti per convincere paesi, all'inizio titubanti, quali la stessa Francia e la Spagna, a partecipare alla missione.
Altro punto sollevato dall'onorevole Pinotti riguarda la nuova struttura di comando doppio, con Francia e Italia che si dividono questa responsabilità, dislocando un proprio rappresentante in sede ONU e in teatro.
Spero che questo nuovo meccanismo si riveli più efficace di quelli sperimentati in passato e consenta in questa occasione alle Nazioni Unite di adempiere in pieno alla missione di garanzia e di sicurezza a cui sono chiamate.
Il vero nodo, il più delicato, della risoluzione e della missione è stato sollevato già da qualche collega; mi riferisco alla questione del disarmo di Hezbollah. La risoluzione è abbastanza chiara, nel senso che dice che non dovrebbero più girare nel territorio libanese né armi né milizie che non siano sotto il controllo del Governo libanese, ma lascia il compito materiale del disarmo alle forze armate libanesi (non potrebbe essere diversamente). Cosa potranno fare, dunque, le forze armate internazionali? Credo che, per la loro stessa presenza, dovrebbero - e forse il cuore della scommessa è qui - innestare una nuova dinamica. Lo stesso Nasrallah, a parte l'uscita infelice che fece in piazza nella celebrazione della propria vittoria, ha detto, in una intervista rilasciata ad un giornalista italiano, che i soldati stranieri non vedranno né le armi di Hezbollah né le milizie, in quanto i miliziani sono gli stessi civili che vivono e lavorano nelle zone del sud. C'è probabilmente molto di vero in questa dichiarazione, però questo vuol dire che l'attività militare vera e propria verrà a cessare in quella zona e, se questa dinamica si consoliderà, si creerà una nuova struttura di sicurezza per il Libano. Lo stesso fatto che non saranno possibili - o almeno dovrebbero esserlo con il consenso esplicito dell'esercito libanese - importazioni attraverso la frontiera della Siria ed un recente sequestro in alto mare di un carico di armi provenienti dalla Nord Corea stanno a dimostrare che le opzioni militari di Hezbollah si stanno restringendo, anche se le sue possibilità politiche sono molto grandi, come abbiamo potuto verificare dall'ampiezza del consenso che ha riscosso.Pag. 36
Speriamo che la dinamica politica, a cui la nostra presenza dovrebbe contribuire, sia sufficiente per portare avanti quel processo positivo in cui la comunità internazionale depone molta speranza.
Il nuovo protagonismo europeo, di cui ha parlato il presidente della Commissione esteri, è uno degli aspetti importanti di questa nuova fase diplomatica. L'Europa - lo ha detto il ministro degli esteri D'Alema (ed è vero) -, presente in Medio Oriente non più solo come ufficiale pagatore, ma come promotore di una nuova dinamica di pace, è un fatto nuovo, che già sta dando segnali di interessanti sviluppi. La presenza di un forte contingente ONU, con una presenza prevalente europea, è stata definita una novità, con la quale l'Europa segnala il proprio impegno per farsi garante della sicurezza di Israele e della sovranità del Libano. Il risultato è già apparso nel dibattito in Israele: si parla per la prima volta della concreta possibilità del dispiegamento di una forza simile a garanzia dei territori palestinesi occupati.
Onorevoli colleghi, se tutti i conflitti del Medio Oriente sono, come si è detto, interconnessi, il primo, quello da cui dipende la soluzione di pace della regione, è il conflitto, drammaticamente tuttora aperto, tra Israele e Palestina, ma, mentre lo scenario del Libano si sta avviando a rapido miglioramento, Gaza - molto vicina geograficamente al Libano - sta sprofondando in un collasso pauroso.
Gli stessi rappresentanti delle Nazioni Unite nella striscia di Gaza parlano di una situazione al collasso dal punto di vista umanitario, politico, dell'ordine pubblico e della stessa tenuta della società civile palestinese. Questo è un disastro che è stato sostanzialmente sottaciuto. Da quando il soldato Shalid è stato sequestrato, sono morti più di 200 abitanti di Gaza, di cui oltre un quarto erano bambini. Tutto questo è avvenuto senza ottenere alcun effetto positivo sul piano militare. I famosi missili kassam, che vengono ogni tanto sparati quasi per sfida da quella striscia, non hanno ucciso nessuno da più di 13 mesi, mentre le vittime nei territori palestinesi non fanno che crescere.
Non possiamo più passare sotto silenzio questa situazione. I palestinesi sono le vittime di una specie di punizione collettiva per aver votato, anche se quell'opzione non era stata loro preclusa dalla comunità internazionale e dagli stessi osservatori europei che hanno garantito le elezioni, un partito che non ci era gradito, Hamas. Non possiamo continuare ad esercitare questo tipo di pressione perché ha un costo umanitario ingiustificabile. Bisogna che venga garantita ai palestinesi non solo una ripresa di un percorso politico, al quale stanno in qualche modo tentando di lavorare, ma soprattutto la possibilità di una minima dignità. La società palestinese è straordinariamente robusta; in tempi difficilissimi sono riusciti a garantire la sopravvivenza della comunità e a distribuire risorse e cibo e a tenere vive ed aperte le proprie istituzioni e la propria educazione. Quello che sta avvenendo in queste ultime settimane è ingiustificabile e molto pericoloso per tutta l'area e per Israele in primo luogo. I segnali di indurimento della politica israeliana, con un progetto di rifinanziamento delle colonie ed anche l'abbandono di un percorso di ritiro dai territori occupati, sono preoccupanti e bisogna che l'Europa, protagonista in Libano, diventi protagonista di un percorso di pace più stringente anche in Palestina.
L'ultimo punto che volevo menzionare non è stato toccato da altri colleghi nel corso di questa discussione; il gruppo dei Verdi, tuttavia, gli attribuisce una certa importanza, come credo che sia giusto. Si tratta del problema della «marea nera», il disastro ambientale provocato dal bombardamento dei depositi di combustibile sulla costa del Libano. La «marea nera» ha contaminato l'intera costa libanese, dal punto del bombardamento fino alla Siria, con strascichi fino a Cipro. Siccome non è stato possibile agire subito con le normali procedure di contenimento, i suoi effetti sono doppiamente dannosi e devastanti. Ad esempio, l'organizzazione Greenpeace lo scorso mese ha accertato che buonaPag. 37parte di quella cappa di prodotti oleosi si è depositata sul fondo marino e rischia di soffocare ogni vita in quella parte della costa.
L'Italia ha risposto prontamente all'appello internazionale coordinato dall'UNEP e credo che si tratti di un aspetto molto importante. In questi giorni sono attivi lungo la costa tecnici italiani impegnati nel percorso di bonifica. Questo tipo di azione di solidarietà concreta è molto importante perché la verità è che, onorevoli colleghi, per la ricostruzione del Libano l'Italia non sarà in grado di dare un enorme contributo. Infatti, il grosso delle nostre spese è assorbito dall'aspetto della nostra azione per noi centrale, ovvero la presenza delle nostre Forze armate in missione di pace.
Credo che il fatto di avere agito con i propri tecnici da subito sia stato utile per segnalare la propria solidarietà. Infatti, il disastro ambientale è stata una delle vittime sottaciute di questo conflitto, ma si tratta di un problema molto sentito dai libanesi e da tutti i cittadini del Medio Oriente.
Ritengo, pertanto, che se continuiamo ad essere presenti nella ripresa della vita politica e sociale del Libano quali attori disinteressati potremo rafforzare un'azione politica in tutta la regione, che sta producendo frutti importanti e che certamente impegnerà in modo gravoso il Governo nei prossimi mesi.
Spero che il Parlamento continui a seguire con attenzione gli sviluppi di tale situazione e che a breve si possano avere ulteriori aggiornamenti. Fino a questo momento il Governo è stato estremamente rapido nel riferire e nel consultare le Camere, e di ciò lo voglio ringraziare. Abbiamo interrotto le nostre ferie, ma questo è servito per ottenere una risposta puntuale supportata da un ampio sostegno (Applausi dei deputati dei gruppi dei Verdi, di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, de La Rosa nel Pugno e dei Popolari-Udeur).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.

Testo sostituito con errata corrige volante ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, colgo l'occasione di questo dibattito anche per esprimere lo sconcerto mio e del gruppo al quale appartengo per la decisione della procura di Monaco di Baviera di prosciogliere l'allora sottotenente Otmar Mulhauser dall'accusa di strage nei confronti dei soldati italiani asserragliati a Cefalonia. Nella motivazione della sentenza, assai importante perché si intreccia con questioni di grandissima attualità, è scritto che i soldati italiani, da ex alleati del Reich, si sarebbero trasformati in nemici combattenti, quindi traditori e meritevoli dello status di prigionieri di guerra. Non intendo aggiungere altro, mi auguro soltanto che le autorità italiane trovino la strada per riparare ad una decisione di tal genere, che lede la storia dei rapporti amichevoli tra l'Italia e la Germania; si tratta di un'offesa alla storia di un grande paese democratico qual è la Germania di oggi.
Nel confermare il pieno sostegno del mio gruppo alla missione di interposizione sotto mandato e comando dell'ONU nel sud del Libano, per la quale il nostro paese si è speso con grande determinazione ed efficacia operativa, intendo subito sottolineare un aspetto politico che per noi è di grande importanza. Siamo di fronte ad un cambio di passo, non piccolo e non senza significato, sul piano delle scelte di politica internazionale italiana. Cambio di passo che può offrire l'opportunità - non l'automaticità - di un nuovo corso, più ampio e complessivo, delle relazioni internazionali, all'interno del quale - ancora una volta - l'Italia può giocare un ruolo importante.
Sottolineo questo aspetto senza alcun trionfalismo e sapendo quanto in realtà l'intera questione libanese sia attraversata dalle difficili ed aspre controversie del passato, dalle contraddizioni insuperate della sua storia e, soprattutto, dalle logiche di dominance globale perseguite in quell'area dalla potenza americana, in connubio con Israele.
Il cambio di passo riguarda già aspetti strategici, di primaria importanza per una nuova agenda delle relazioni internazionali.Pag. 38Innanzitutto, penso all'assunzione di responsabilità alla quale, finalmente - grazie anche all'esistenza e alla determinazione dell'Italia - l'Europa è giunta.
Penso, inoltre, alla rivitalizzazione importante del ruolo delle Nazioni Unite dopo gli anni della mortificazione e dello svuotamento, alla riaffermazione di un'ottica multipolare, oltre che multilaterale, e all'incoraggiamento che da tutto questo può venire a che la strada del dialogo, della diplomazia, della cooperazione civile si affermi con decisione cominciando a sanare, per quanto sarà possibile, le micidiali devastazioni dell'unilateralismo omicida dell'amministrazione Bush, che ha prodotto guasti inenarrabili nelle relazioni internazionali.
Giudichiamo pretestuoso e del tutto propagandistico il tentativo della Casa delle libertà di tirare un segno di uguaglianza tra la politica estera inaugurata da questo Governo e quella del precedente Governo. Vorrei dire con chiarezza che non vi è nulla in comune tra partecipare ad una guerra, in forma diretta o di accompagnamento ex post, decisa fuori e contro il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, contro l'articolo 11 della Costituzione italiana, contro ogni vincolo del diritto internazionale, e l'impegno profuso dall'attuale Governo non per partecipare ad una guerra ma per interromperne una, non per legittimare i bombardamenti ma per bloccarli, non per distruggere e smantellare la statualità di un paese (come è stato nel caso dell'Iraq), ma per contribuire a ristabilire la statualità, la sovranità, il diritto di quel paese. Parliamo dei contenuti di fondo della risoluzione n. 1701, che vedono nell'aiuto a che il Libano ricostruisca gli elementi di fondo della propria statualità e della propria sovranità uno dei punti qualificanti dell'impegno della comunità internazionale.
L'operazione è tutt'altro che facile e tutt'altro che indenne dal rischio di improvvise svolte sul campo. Non saranno né rose né fiori, lo ha detto con estrema chiarezza ed onestà il ministro Parisi; è un'impresa complessa, difficile, pericolosa, come egli ha sottolineato più volte. Condivido tale giudizio di grande realismo, che deve accompagnare con forza l'impegno nel nostro paese. Il dispiegamento dei contingenti avviene mentre le truppe israeliane continuano a restare là, anzi ad implementare diverse impostazioni. Il capo di Hezbollah, lo sceicco Nasrallah, confermandosi un leader politico di primo piano, dichiara l'indisponibilità a subire il disarmo delle proprie milizie. Anche in questo caso si tratta di un punto ovvio: la missione UNIFIL non ha, né potrebbe avere il compito di intervenire sul campo in questa maniera, quindi mi sembra doveroso fare un punto di chiarezza rispetto alle continue sollecitazioni che vengono dalla Casa delle libertà circa la connessione di efficacia che la missione avrebbe solo nel caso in cui questo punto fosse chiarito in termini di robustezza delle regole di ingaggio come garanzia perché la missione abbia un carattere positivamente risolutivo.
Credo che la missione UNIFIL non possa avere assolutamente questo scopo, ed il testo è assolutamente chiaro. Nello stesso tempo, è evidente che il ruolo, la forza militare, la capacità di presa di Hezbollah, soprattutto dopo quanto è successo a luglio, ed il prestigio che da ciò discende per la formazione di Nasrallah nell'area, oltre che nel paese, costituiscano la ragione strutturale delle tensioni tra Libano ed Israele. Ciò mette anche in luce le difficoltà che si incontreranno nell'applicare il punto vero, politico e diplomatico, nel dare una soluzione alla questione, che non è costituito certamente dal dispiegamento dei contingenti militari, ma dall'avvio di un percorso politico e diplomatico che stabilisca nuove regole di convivenza tra i due paesi.
Voglio insistere sull'aspetto della discontinuità, non perché io creda che siamo di fronte ad una svolta risolutiva, ma perché vedo, in questi elementi di discontinuità, una nuova politica internazionale e un nuovo spazio pubblico di contrattualizzazione, prima ancora che di operatività, delle grandi questioni politiche relativamente allo scenario internazionale,Pag. 39specialmente sullo scacchiere che così da vicino tocca i nostri interessi e le nostre prospettive.
Sottolineo l'importanza del modo in cui i problemi vengono denominati, a partire dal coinvolgimento e dal modo di affrontarli del ministro degli affari esteri, D'Alema, che, non a caso, in queste settimane, ha continuato a sottolineare la portata della questione palestinese come focus strategico che deve essere affrontato per avviare la situazione mediorientale ad una qualche ragionevole soluzione.
Credo che si tratti del problema dei problemi, che deve essere affrontato, innanzitutto, ristabilendo una base di equipollenza e di equità dei diritti di un popolo e dell'altro popolo: diritti all'esistenza, innanzitutto, e diritti alla sicurezza. Già altri colleghi ricordavano l'enorme disparità di trattamento, di storia e di concettualizzazione della dimensione del diritto e, quindi, della veridicità del principio «due popoli, due Stati ».
Il modo in cui finalmente viene denominata tutta la questione nel dibattito pubblico internazionale e nelle relazioni diplomatiche e il modo in cui gli esponenti del Governo italiano affrontano la questione rappresentano un punto di forza straordinaria, perché si è legittimata la possibilità di discutere partendo da un'ottica completamente diversa. Non è tutto, ma è qualcosa di estremamente importante, così come è importante, come ha fatto il ministro D'Alema, cominciare ad operare distinzioni di fondo che smantellano il modo in cui, in questi anni, alle nostre spalle, sono stati presentati i problemi di enorme importanza relativi alle relazioni con gli Stati di quell'area.
Mi riferisco alla teorizzazione sugli «Stati canaglia». Penso alla omologazione, dentro l'unica denominazione di «terrorismo internazionale», di formazioni che, nelle loro pratiche militari, hanno anche forme assolutamente inaccettabili di terrorismo, ma che sono tutt'altro che riducibili a formazioni terroristiche. Si tratta di formazioni estremistiche, con propensione a forme militari violente, che però non possono essere ridotte al terrorismo puro e semplice e alla rete di Al Qaeda, come nel caso libanese di Hezbollah e palestinese di Hamas.
Quindi, è importante come viene affrontata, in questo nuovo contesto, la questione spinosissima del nucleare iraniano e come Italia ed Europa - lo diceva il collega Scotto - cerchino di accerchiare politicamente Ahmadinejad e Teheran, ossia spingendo all'estremo i processi di diplomatizzazione delle questioni, anche pesanti, come quella del nucleare, e obbligando a confrontarsi sul piano della diplomazia, degli accordi e delle mediazioni, per rompere la logica infernale della guerra preventiva, delle sanzioni e della drammatizzazione del confronto. È una logica che ha prodotto i guasti che abbiamo alle spalle.
Ciò significa che la lunga fase della desertificazione del diritto internazionale operata da Bush - parlo dei terribili cinque anni seguiti all'11 settembre - si è esaurita e siamo giunti ad un tornante delle relazioni internazionali.
Ovviamente, non credo sia questo il punto. Tutto ciò che è avvenuto prima permane e opera da sottotesto molto potente. Gli USA hanno concorso potentemente alla configurazione di questo nuovo contesto, operando sia per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1701 sia per necessità. Infatti, i margini per una politica di estremo unilateralismo, perseguita negli anni precedenti, si sono ampiamente ridotti, dopo il fallimento delle strategie di guerra preventiva, dopo il disastro iracheno e dopo la ripresa dell'escalation violenta in Afghanistan ad opera dei talebani.
Inoltre - questo punto mi sembra di estrema importanza -, l'unilateralismo americano, anche nei momenti di più acceso fanatismo ideologico degli anni precedenti, non è stato mai disgiunto dalla furbizia strumentale della cosiddetta strategia a geometria variabile, entro la quale si sono, di volta in volta, ricomposti il disprezzo per le Nazioni Unite, ma anche la richiesta di risoluzioni ONU ex post, che autorizzassero e riconoscessero lo stato di occupazione, ad esempio, in Afghanistan ePag. 40poi in Iraq, e invocassero l'aiuto della comunità internazionale, dei paesi donatori, come è stato nel caso dell'Afghanistan e come continua ad accadere in tutte le vicende militari di guerra e occupazione.
Così, agli attacchi ai paesi europei contrari alla guerra in Iraq ha fatto seguito il continuo tentativo di coinvolgere l'esaltazione del ruolo della NATO nel condurre a buon fine operazioni belliche di largo respiro, come sta succedendo nel sud-est dell'Afghanistan. Quindi, una strategia - l'unilateralismo - coniugata ad un uso tattico estremamente spregiudicato di tutto quello che può concorrere ad assettare le relazioni internazionali secondo gli schemi di dominance degli Stati Uniti d'America.
Proprio per le difficoltà incontrate dalla strategia dominante degli anni precedenti, l'unilateralismo ideologico e pratico degli Stati Uniti conosce oggi una battuta d'arresto pesante, perché pesanti sono le conseguenze negative di quella strategia per gli Stati Uniti.
Il mutamento del passo può produrre l'avvio di un percorso e sedimentare elementi e responsabilità positive, nonché il ruolo in prima persona di altri attori: penso, in primis, all'Europa ed alle Nazioni Unite. È di estrema importanza guadagnare uno spazio pubblico, dove la parola politica e l'iniziativa diplomatica provino a costruire in una diversa maniera, attraverso altre coordinate ed altre priorità, i riferimenti, le iniziative, la diplomazia sul campo.
Per questo motivo, mi sembra importante sottolineare che la missione UNIFIL 2 non è la conclusione di un percorso. La presenza militare è una garanzia di sospensione delle ostilità, di aiuto alla ricomposizione di una rete di statualità e di sovranità del Libano, affinché da ciò possa avviarsi, tra Libano e Israele, un percorso di reciprocità per quanto riguarda la ricerca di una soluzione. Soprattutto, vorremmo si rimettesse definitivamente in discussione l'assetto complessivo che si è venuto a determinare. Infatti, riteniamo l'assetto mediorientale ingiusto e foriero di contraddizioni esplosive, a partire dalla questione dei rapporti tra Israele e Palestina, a causa della logica cui ho precedentemente accennato.
Occorre, dunque, gettare le basi per ristabilire l'equivalenza del diritto, affinché il principio «due popoli, due Stati» non resti solo uno slogan privo di significato, ma costituisca effettivamente il quadro di riferimento entro cui implementare, valorizzare e rendere veramente operativi, a tutto campo, gli elementi positivi introdotti da questo «cambio di passo» in politica estera.
Intendiamo garantire, allora, il nostro appoggio all'impegno grande e convinto che il Governo italiano si è assunto. Auspichiamo, dunque, che il voto del Parlamento rappresenti un passaggio decisivo, affinché una politica di questo genere possa effettivamente diventare un segno distintivo dell'attuale Esecutivo.
Ci auguriamo, in particolare, che tale decisione costituisca un forte segnale di speranza per le grandi questioni inevase che la contemporaneità ci consegna continuamente ed a cui, fino ad adesso, la comunità internazionale non è stata in grado di fornire risposte né definitive, né, soprattutto, foriere di svolte positive.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, colgo l'occasione di questo dibattito anche per esprimere lo sconcerto mio e del gruppo al quale appartengo per la decisione della procura di Monaco di Baviera di prosciogliere l'allora sottotenente Otmar Mulhauser dall'accusa di strage nei confronti dei soldati italiani asserragliati a Cefalonia. Nella motivazione della sentenza, assai importante perché si intreccia con questioni di grandissima attualità, è scritto che i soldati italiani, da ex alleati del Reich, si sarebbero trasformati in nemici combattenti, quindi traditori e immeritevoli dello status di prigionieri di guerra. Non intendo aggiungere altro, mi auguro soltanto che le autorità italiane trovino la strada per riparare ad una decisione di tal genere, che lede la storia dei rapporti amichevoli tra l'Italia e la Germania; si tratta di un'offesa alla storia di un grande paese democratico qual è la Germania di oggi.
Nel confermare il pieno sostegno del mio gruppo alla missione di interposizione sotto mandato e comando dell'ONU nel sud del Libano, per la quale il nostro paese si è speso con grande determinazione ed efficacia operativa, intendo subito sottolineare un aspetto politico che per noi è di grande importanza. Siamo di fronte ad un cambio di passo, non piccolo e non senza significato, sul piano delle scelte di politica internazionale italiana. Cambio di passo che può offrire l'opportunità - non l'automaticità - di un nuovo corso, più ampio e complessivo, delle relazioni internazionali, all'interno del quale - ancora una volta - l'Italia può giocare un ruolo importante.
Sottolineo questo aspetto senza alcun trionfalismo e sapendo quanto in realtà l'intera questione libanese sia attraversata dalle difficili ed aspre controversie del passato, dalle contraddizioni insuperate della sua storia e, soprattutto, dalle logiche di dominance globale perseguite in quell'area dalla potenza americana, in connubio con Israele.
Il cambio di passo riguarda già aspetti strategici, di primaria importanza per una nuova agenda delle relazioni internazionali.Pag. 38Innanzitutto, penso all'assunzione di responsabilità alla quale, finalmente - grazie anche all'esistenza e alla determinazione dell'Italia - l'Europa è giunta.
Penso, inoltre, alla rivitalizzazione importante del ruolo delle Nazioni Unite dopo gli anni della mortificazione e dello svuotamento, alla riaffermazione di un'ottica multipolare, oltre che multilaterale, e all'incoraggiamento che da tutto questo può venire a che la strada del dialogo, della diplomazia, della cooperazione civile si affermi con decisione cominciando a sanare, per quanto sarà possibile, le micidiali devastazioni dell'unilateralismo omicida dell'amministrazione Bush, che ha prodotto guasti inenarrabili nelle relazioni internazionali.
Giudichiamo pretestuoso e del tutto propagandistico il tentativo della Casa delle libertà di tirare un segno di uguaglianza tra la politica estera inaugurata da questo Governo e quella del precedente Governo. Vorrei dire con chiarezza che non vi è nulla in comune tra partecipare ad una guerra, in forma diretta o di accompagnamento ex post, decisa fuori e contro il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, contro l'articolo 11 della Costituzione italiana, contro ogni vincolo del diritto internazionale, e l'impegno profuso dall'attuale Governo non per partecipare ad una guerra ma per interromperne una, non per legittimare i bombardamenti ma per bloccarli, non per distruggere e smantellare la statualità di un paese (come è stato nel caso dell'Iraq), ma per contribuire a ristabilire la statualità, la sovranità, il diritto di quel paese. Parliamo dei contenuti di fondo della risoluzione n. 1701, che vedono nell'aiuto a che il Libano ricostruisca gli elementi di fondo della propria statualità e della propria sovranità uno dei punti qualificanti dell'impegno della comunità internazionale.
L'operazione è tutt'altro che facile e tutt'altro che indenne dal rischio di improvvise svolte sul campo. Non saranno né rose né fiori, lo ha detto con estrema chiarezza ed onestà il ministro Parisi; è un'impresa complessa, difficile, pericolosa, come egli ha sottolineato più volte. Condivido tale giudizio di grande realismo, che deve accompagnare con forza l'impegno nel nostro paese. Il dispiegamento dei contingenti avviene mentre le truppe israeliane continuano a restare là, anzi ad implementare diverse impostazioni. Il capo di Hezbollah, lo sceicco Nasrallah, confermandosi un leader politico di primo piano, dichiara l'indisponibilità a subire il disarmo delle proprie milizie. Anche in questo caso si tratta di un punto ovvio: la missione UNIFIL non ha, né potrebbe avere il compito di intervenire sul campo in questa maniera, quindi mi sembra doveroso fare un punto di chiarezza rispetto alle continue sollecitazioni che vengono dalla Casa delle libertà circa la connessione di efficacia che la missione avrebbe solo nel caso in cui questo punto fosse chiarito in termini di robustezza delle regole di ingaggio come garanzia perché la missione abbia un carattere positivamente risolutivo.
Credo che la missione UNIFIL non possa avere assolutamente questo scopo, ed il testo è assolutamente chiaro. Nello stesso tempo, è evidente che il ruolo, la forza militare, la capacità di presa di Hezbollah, soprattutto dopo quanto è successo a luglio, ed il prestigio che da ciò discende per la formazione di Nasrallah nell'area, oltre che nel paese, costituiscano la ragione strutturale delle tensioni tra Libano ed Israele. Ciò mette anche in luce le difficoltà che si incontreranno nell'applicare il punto vero, politico e diplomatico, nel dare una soluzione alla questione, che non è costituito certamente dal dispiegamento dei contingenti militari, ma dall'avvio di un percorso politico e diplomatico che stabilisca nuove regole di convivenza tra i due paesi.
Voglio insistere sull'aspetto della discontinuità, non perché io creda che siamo di fronte ad una svolta risolutiva, ma perché vedo, in questi elementi di discontinuità, una nuova politica internazionale e un nuovo spazio pubblico di contrattualizzazione, prima ancora che di operatività, delle grandi questioni politiche relativamente allo scenario internazionale,Pag. 39specialmente sullo scacchiere che così da vicino tocca i nostri interessi e le nostre prospettive.
Sottolineo l'importanza del modo in cui i problemi vengono denominati, a partire dal coinvolgimento e dal modo di affrontarli del ministro degli affari esteri, D'Alema, che, non a caso, in queste settimane, ha continuato a sottolineare la portata della questione palestinese come focus strategico che deve essere affrontato per avviare la situazione mediorientale ad una qualche ragionevole soluzione.
Credo che si tratti del problema dei problemi, che deve essere affrontato, innanzitutto, ristabilendo una base di equipollenza e di equità dei diritti di un popolo e dell'altro popolo: diritti all'esistenza, innanzitutto, e diritti alla sicurezza. Già altri colleghi ricordavano l'enorme disparità di trattamento, di storia e di concettualizzazione della dimensione del diritto e, quindi, della veridicità del principio «due popoli, due Stati ».
Il modo in cui finalmente viene denominata tutta la questione nel dibattito pubblico internazionale e nelle relazioni diplomatiche e il modo in cui gli esponenti del Governo italiano affrontano la questione rappresentano un punto di forza straordinaria, perché si è legittimata la possibilità di discutere partendo da un'ottica completamente diversa. Non è tutto, ma è qualcosa di estremamente importante, così come è importante, come ha fatto il ministro D'Alema, cominciare ad operare distinzioni di fondo che smantellano il modo in cui, in questi anni, alle nostre spalle, sono stati presentati i problemi di enorme importanza relativi alle relazioni con gli Stati di quell'area.
Mi riferisco alla teorizzazione sugli «Stati canaglia». Penso alla omologazione, dentro l'unica denominazione di «terrorismo internazionale», di formazioni che, nelle loro pratiche militari, hanno anche forme assolutamente inaccettabili di terrorismo, ma che sono tutt'altro che riducibili a formazioni terroristiche. Si tratta di formazioni estremistiche, con propensione a forme militari violente, che però non possono essere ridotte al terrorismo puro e semplice e alla rete di Al Qaeda, come nel caso libanese di Hezbollah e palestinese di Hamas.
Quindi, è importante come viene affrontata, in questo nuovo contesto, la questione spinosissima del nucleare iraniano e come Italia ed Europa - lo diceva il collega Scotto - cerchino di accerchiare politicamente Ahmadinejad e Teheran, ossia spingendo all'estremo i processi di diplomatizzazione delle questioni, anche pesanti, come quella del nucleare, e obbligando a confrontarsi sul piano della diplomazia, degli accordi e delle mediazioni, per rompere la logica infernale della guerra preventiva, delle sanzioni e della drammatizzazione del confronto. È una logica che ha prodotto i guasti che abbiamo alle spalle.
Ciò significa che la lunga fase della desertificazione del diritto internazionale operata da Bush - parlo dei terribili cinque anni seguiti all'11 settembre - si è esaurita e siamo giunti ad un tornante delle relazioni internazionali.
Ovviamente, non credo sia questo il punto. Tutto ciò che è avvenuto prima permane e opera da sottotesto molto potente. Gli USA hanno concorso potentemente alla configurazione di questo nuovo contesto, operando sia per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1701 sia per necessità. Infatti, i margini per una politica di estremo unilateralismo, perseguita negli anni precedenti, si sono ampiamente ridotti, dopo il fallimento delle strategie di guerra preventiva, dopo il disastro iracheno e dopo la ripresa dell'escalation violenta in Afghanistan ad opera dei talebani.
Inoltre - questo punto mi sembra di estrema importanza -, l'unilateralismo americano, anche nei momenti di più acceso fanatismo ideologico degli anni precedenti, non è stato mai disgiunto dalla furbizia strumentale della cosiddetta strategia a geometria variabile, entro la quale si sono, di volta in volta, ricomposti il disprezzo per le Nazioni Unite, ma anche la richiesta di risoluzioni ONU ex post, che autorizzassero e riconoscessero lo stato di occupazione, ad esempio, in Afghanistan ePag. 40poi in Iraq, e invocassero l'aiuto della comunità internazionale, dei paesi donatori, come è stato nel caso dell'Afghanistan e come continua ad accadere in tutte le vicende militari di guerra e occupazione.
Così, agli attacchi ai paesi europei contrari alla guerra in Iraq ha fatto seguito il continuo tentativo di coinvolgere l'esaltazione del ruolo della NATO nel condurre a buon fine operazioni belliche di largo respiro, come sta succedendo nel sud-est dell'Afghanistan. Quindi, una strategia - l'unilateralismo - coniugata ad un uso tattico estremamente spregiudicato di tutto quello che può concorrere ad assettare le relazioni internazionali secondo gli schemi di dominance degli Stati Uniti d'America.
Proprio per le difficoltà incontrate dalla strategia dominante degli anni precedenti, l'unilateralismo ideologico e pratico degli Stati Uniti conosce oggi una battuta d'arresto pesante, perché pesanti sono le conseguenze negative di quella strategia per gli Stati Uniti.
Il mutamento del passo può produrre l'avvio di un percorso e sedimentare elementi e responsabilità positive, nonché il ruolo in prima persona di altri attori: penso, in primis, all'Europa ed alle Nazioni Unite. È di estrema importanza guadagnare uno spazio pubblico, dove la parola politica e l'iniziativa diplomatica provino a costruire in una diversa maniera, attraverso altre coordinate ed altre priorità, i riferimenti, le iniziative, la diplomazia sul campo.
Per questo motivo, mi sembra importante sottolineare che la missione UNIFIL 2 non è la conclusione di un percorso. La presenza militare è una garanzia di sospensione delle ostilità, di aiuto alla ricomposizione di una rete di statualità e di sovranità del Libano, affinché da ciò possa avviarsi, tra Libano e Israele, un percorso di reciprocità per quanto riguarda la ricerca di una soluzione. Soprattutto, vorremmo si rimettesse definitivamente in discussione l'assetto complessivo che si è venuto a determinare. Infatti, riteniamo l'assetto mediorientale ingiusto e foriero di contraddizioni esplosive, a partire dalla questione dei rapporti tra Israele e Palestina, a causa della logica cui ho precedentemente accennato.
Occorre, dunque, gettare le basi per ristabilire l'equivalenza del diritto, affinché il principio «due popoli, due Stati» non resti solo uno slogan privo di significato, ma costituisca effettivamente il quadro di riferimento entro cui implementare, valorizzare e rendere veramente operativi, a tutto campo, gli elementi positivi introdotti da questo «cambio di passo» in politica estera.
Intendiamo garantire, allora, il nostro appoggio all'impegno grande e convinto che il Governo italiano si è assunto. Auspichiamo, dunque, che il voto del Parlamento rappresenti un passaggio decisivo, affinché una politica di questo genere possa effettivamente diventare un segno distintivo dell'attuale Esecutivo.
Ci auguriamo, in particolare, che tale decisione costituisca un forte segnale di speranza per le grandi questioni inevase che la contemporaneità ci consegna continuamente ed a cui, fino ad adesso, la comunità internazionale non è stata in grado di fornire risposte né definitive, né, soprattutto, foriere di svolte positive.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Paoletti Tangheroni. Ne ha facoltà.

PATRIZIA PAOLETTI TANGHERONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori rappresentanti del Governo, credo sia importante collocarci esattamente nel contesto internazionale nel quale attualmente ci troviamo. Stiamo vivendo, infatti, un periodo di guerra; per la precisione, stiamo vivendo la quarta guerra mondiale, essendo stata la terza la guerra fredda tra Occidente e paesi comunisti. L'11 settembre 2001, dunque, è scoppiata, con tutta la sua violenza, la quarta guerra mondiale. Si tratta di una guerra dichiarata all'Occidente dall'ultrafondamentalismo islamico, con chiarezza e con i mezzi che i network internazionali oggi consentono.
Prima dell'attacco ad Israele, tale guerra era combattuta secondo la strategiaPag. 41cosiddetta asimmetrica, vale a dire con barbare e vili azioni terroristiche; successivamente, la «cupola» che guida la grande jihad contro l'Occidente, costituita dall'Iran, dalla Siria e dalla galassia di Al Qaeda, ha scelto, senza abbandonare la tattica terroristica, di scatenare una guerra a metà strada tra il terrorismo e la campagna militare tradizionale.
Il primo bersaglio è ora Israele, ma quello applicato oggi in Libano potrebbe essere uno schema da ripetere successivamente contro gli alleati musulmani dell'Occidente, come l'Iraq e l'Afghanistan (qualora fossero privati del presidio militare europeo ed americano), o forse la Giordania e, in futuro, l'Arabia Saudita ed il Marocco.
Attenzione, però. Chi sono i veri fautori dell'attacco ad Israele? Non sono gli aderenti agli hezbollah libanesi, né lo sono le milizie palestinesi, ormai divise in microbande che si uccidono quotidianamente tra di loro (a questo punto, infatti, non sono più controllate né da Abu Mazen, né da Hamas). Se dobbiamo rintracciare i luoghi ove si concepiscono le strategie, da dove vengono impartiti gli ordini e dove viene reperito il denaro per finanziare le operazioni belliche, allora essi si situano in Iran ed in Siria, nonché nella rete di Al Qaeda.
I cittadini libanesi e palestinesi morti nel conflitto sono vittime non di Israele, ma dell'asse del terrore che congiunge Damasco a Teheran. Dopo la morte - probabilmente pianificata dalla stessa dirigenza di Al Qaeda, come dirò più avanti - di Al Zarkawi, il quale si opponeva all'alleanza tra il terrorismo sunnita e quello sciita, tale «asse» comprende anche Bin Laden e Al Zawahiri.
Bisogna quindi prendere atto, finalmente, - e qui mi rivolgo ai colleghi dell'estrema opposizione - che termini come moderazione, reazione proporzionata, soluzioni diplomatiche e perfino road map, nel contesto di guerra che oggi viviamo, hanno ormai perso qualunque significato.
Quando s'invita Israele a negoziare, ad esempio, ci si rende conto o no che non ci sono interlocutori locali con cui farlo? L'autorità palestinese non esiste più, Abu Mazen rischia la vita quotidianamente, e non per mano israeliana ma degli stessi palestinesi. Certo, egli ha dato prova del suo coraggio e della sua caratura di leader con l'audace iniziativa condotta all'ONU, dove è andato ad affermare che non ci potrà essere un governo di unità nazionale senza il riconoscimento dello Stato di Israele, incassando il pieno e convinto appoggio non solo della Russia, della Cina, dell'Europa e delle Nazioni Unite - cosa che era abbastanza prevedibile -, ma dello stesso Bush. Tuttavia, appena rientrato nei territori, è stato sconfessato da Hamas, che ha rifiutato le condizioni poste dalla comunità internazionale e soprattutto il diritto di esistere per Israele.
Questa è la cronaca recente di questi giorni: il Governo di Hamas nei territori rilascia dichiarazioni che sono regolarmente smentite dai dirigenti della stessa Hamas che vivono a Damasco e che si ritengono mandatari non degli elettori palestinesi, ma degli hezbollah di Teheran. Quindi, che senso ha chiedere ad Israele - come ho appena sentito fare, del resto - dei percorsi di diplomazia? Dove e con chi? La millenarista follia di Ahmadinejad e di Nasrallah ha trovato il proprio capro espiatorio, che è poi quello che aveva già trovato la stessa follia di Hitler, cioè il popolo ebraico. Ogni giorno, il presidente iraniano predica sempre più chiaramente lo sterminio non solo di Israele, ma degli ebrei in genere, esattamente come Hitler negli anni Trenta. Come allora, Presidente ed onorevoli colleghi, vi è una classe politica del mondo libero che sceglie di essere sorda e cieca. Allora io chiedo: con quali finalità andiamo in Libano, Presidente e onorevoli colleghi? Vogliamo combattere l'islam nazista o vogliamo proteggerlo da Israele? Non dobbiamo dare risposte ambigue, ma soprattutto non chiaramente antisraeliane, come ha fatto esplicitamente - senza peraltro sorprendere nessuno - l'onorevole Diliberto. Se sceglieremo di non vedere e di non sentire, ci meriteremo quanto disse Churchill circa il comportamento dell'Europa di fronte alPag. 42nazismo: «Scelse la vergogna per non avere la guerra e finì per avere sia la vergogna sia la guerra».
Oggi, Ahmadinejad riprende gli spunti più millenaristi del complesso pensiero di Khomeini. Egli crede fermamente nel mito sciita dell'imam nascosto, che riemergerà dal suo plurisecolare occultamento per guidare la jihad a conquistare tutto il mondo. Anche i sunniti, con Bin Laden, utilizzano una cultura letteraria sunnita, soprattutto egiziana, ma tutta imperniata sullo scontro finale tra l'anticristo ed il messia islamico, cioè il Mahdi. Anche loro hanno bisogno di un capro espiatorio e anche loro lo individuano in Israele. Tuttavia, oggi, una parte non piccola di musulmani ha scoperto un nuovo nemico, il Papa, la cui magistrale lezione all'università di Ratisbona ha provocato reazioni scomposte nel mondo islamico.
Ciò che sto per dire non è non pertinente al tema, come vedrete, Presidente, colleghi e rappresentanti del Governo. Il Pontefice ha commentato un dialogo del 1391 tra l'imperatore bizantino Manuele II Paleologo - come tutti sappiamo - e un erudito persiano. La frase che egli citava diceva « Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predica».
Il Papa, in modo molto pertinente, ricorda pure la distinzione tra varie sure del Corano: le prime, quelle del periodo de La Mecca, in cui Maometto non ha ancora il potere a Medina, sono aperte e, anzi, prevedono che non si possa imporre, minacciandola, la libertà religiosa; invece, nel periodo delle sure non meccane, ma medinesi, Maometto ha il potere e decide di mantenerlo con la spada (quindi, usa la religione per affermare il suo potere con la spada). Il Papa fa queste distinzioni.
Allora, il problema qual è? È che Al Jazeera e la stampa turca, ma anche tanti media occidentali, hanno, purtroppo, la pessima abitudine di leggere i discorsi del Papa solo nei riassunti delle agenzie di stampa. A Ratisbona, come in numerose altre occasioni, Benedetto XVI ha posto un tema che gli è stato chiaro sin dall'inizio, quello del rapporto tra la fede e la ragione: quando tra fede e ragione vi è una frattura, si ha violenza. In modo molto erudito e pertinente, ma anche molto moderno - se n'è parlato anche riguardo alla Costituzione europea -, il Papa individua nella frattura con il mondo classico greco la rinuncia a trovare una soluzione al problema del rapporto tra fede e ragione. Nell'islam, che pure ha attraversato un momento in cui sono stati letti e discussi i classici greci, il rifiuto della ragione si è annidato nella sua stessa nozione di un Dio che potrebbe agire in modo arbitrario e dare al mondo un ordine non razionale.
Insomma, dimostrando fiducia e grande ottimismo, Benedetto XVI chiede un dialogo e invita l'islam al dialogo. Su quale base? Occorre riannodare i fili del rapporto tra fede e ragione: un'operazione che la storia ha reso difficile, ma che il Papa non crede impossibile (e che, del resto, è utile anche per noi, considerati i guasti perpetrati dal laicismo in Occidente). Occorre riannodare questi fili tutti insieme: il Papa ci crede.
Non è inutile, ripeto, questo discorso, perché, a parte la sua attualità, non credo assolutamente - mi permetto di uscire un po' dallo schema consueto - che si debba cercare un rapporto con un laicismo intellettuale dell'islam: bisogna ricercare una sana laicità, magari anche con i fondamentalisti, che non sono tutti terroristi. In questo momento storico, quindi, non è fuori luogo ricordare la posizione del Santo Padre. Si tratta di una posizione sostanzialmente ottimista, di una posizione che stabilisce anche possibilità di apertura e, soprattutto, si basa sulla fiducia che un rapporto, un colloquio, un dialogo non siano impossibili.
Per quel che può valere, debbo dire, signor Presidente, amici, che io condivido tale speranza. Invece, all'improvviso, sembra che i moderati ed i conservatori occidentali, alcuni di essi, quelli che pure hanno condiviso molte delle scelte di Bush o, ad esempio, anche di Berlusconi, non abbiano più una strategia condivisa sullaPag. 43questione musulmana. Si è diffusa una mentalità che denuncia, alla fine, il sostanziale convincimento secondo il quale promuovere la democrazia nei paesi a maggioranza islamica sarebbe, oggi, una strategia errata, perché, dove si sono tenute elezioni, qualche volta non le hanno vinte i laici, ma i fondamentalisti. Intelligenti ed attenti osservatori del mondo islamico, come, ad esempio, il nostro ottimo giornalista Magdi Allam, giudicano un gravissimo errore estendere il dialogo a quella parte di fondamentalisti che pure rifiutano il terrorismo, poiché, in realtà, non credono alla presa di distanza dal terrorismo e ritengono che tutti i fondamentalisti sostengano, in qualche modo, il terrorismo.
Se esiste, come certamente esiste, una guerra scatenata dall'ultrafondamentalismo islamico contro l'identità occidentale (che credo meriti di essere difesa, contro i multiculturalisti ed i relativisti) e se è vero, come è certamente vero, che i fondamentalisti hanno generato storicamente il terrorismo di matrice islamica, è vero, però, anche che, oggi, non tutti i fondamentalisti sono terroristi: la complessa galassia fondamentalista e gli stessi fratelli musulmani sono una realtà non unitaria e non guidata da cupole uniche.
Al loro interno c'è chi pratica il terrorismo, chi finge di condannarlo e c'è chi lo condanna davvero, accettando la democrazia e magari vincendo le elezioni. Certo, da parte nostra occorre procedere con i piedi di piombo, distinguendo la retorica dai fatti. Ma rifiutare pregiudizialmente qualunque rapporto con questi neofondamentalisti, tornare magari ad appoggiare i dispotismi militari, restringere il dialogo con l'immigrazione ultraminoritaria di un islam laicista di qualche intellettuale, significa disfare, come Penelope, una tela che una certa diplomazia ha tessuto pazientemente dopo l'11 settembre e significa avviarsi all'unico esito possibile in questa prospettiva, ossia uno scontro finale, apocalittico con l'islam.
La nostra azione in Libano, onorevoli colleghi, signor Presidente, deve tener conto di tutta l'ampiezza e la complessità della situazione nel mondo islamico. Ahmadinejad in Iran e Nasrallah a Beirut stanno cercando di rovesciare il tradizionale rapporto di forze del mondo islamico che vede gli sciiti, al 15 per cento, subordinati ai sunniti, all'80 per cento. Il loro piano preoccupa non poco le monarchie tradizionali sunnite, la Giordania, il Marocco, l'Arabia Saudita e perfino alcuni sunniti di Al-Qaeda. Se Bin Laden dialoga discretamente e con prudenza con Teheran, il suo numero due, Al-Zawahiri, nonché alcuni comandanti di seconda generazione qualche volta, attraverso la rete di Internet, fanno fioccare alcune critiche agli errori strategici e dottrinali di Hezbollah e, implicitamente, quindi, anche contro chi tiene le fila, in un certo senso, di questa compagine di falangi di terroristi.
Sfruttare il contrasto tra sciiti e sunniti potrebbe rappresentare una strategia per l'Occidente. Vi è un professore iraniano, Vali Nasr, che insegna negli Stati Uniti, che sostiene che l'unico modo per scongiurare una guerra atomica - che egli ritiene incombente perché l'Iran, in un modo o in un altro, si doterà della bomba - sia dialogare con Iran ed Hezbollah in via prioritaria. Secondo il mio modestissimo avviso, la tesi di Vali Nasr ha il difetto di ignorare la natura millenarista ed apocalittica dell'ideologia di Ahmadinejad e di Nasrallah. Pertanto, risulta di fatto - credo - impossibile il dialogo con chi aspetta la fine del mondo e lo sterminio definitivo degli ebrei. Vi è forse un'altra via: le critiche, durissime, che le massime autorità religiose sciite libanesi stanno rivolgendo, in questi giorni, a Nasrallah, accusandolo di avventurismo e dichiarando che non rappresenta affatto tutti gli sciiti del Libano, costituiscono una novità storica, che non va lasciata perdere. Tradizionalmente la jihad ha predicato l'obbedienza alle autorità costituite. Ora constatiamo che vi sono alcune crepe in tale compagine. Certo, tutto è cambiato con Khomeini e la rivoluzione iraniana del 1979, ma Khomeini non ha sostituito il costituzionalismo con la teocrazia del GovernoPag. 44islamico, non ha mai rappresentato tutto il mondo sciita e non mancano i critici dello stesso Khomeini in Iran.
Quindi, il mondo fondamentalista islamico è tutt'altro che compatto. Il caso di Al-Zarkawi, probabilmente condannato a morte dai suoi stessi compagni di Al-Qaeda, né è evidentemente la prova. Il rappresentante più in alto in grado del mondo della gerarchia degli sciiti, l'ayatollah Al-Sistani di Najaf, in Iraq, cauto ma intelligente protagonista del dialogo con l'Occidente e con gli Stati Uniti è, ad esempio, non favorevole ad Hezbollah. Lo ripeto, è molto cauto. L'Azerbaigian, Stato a maggioranza sciita, che peraltro sorge su una notevolissima riserva di petrolio, ha una gerarchia religiosa moderata, cui fa riferimento anche la minoranza sciita nella cristiana Georgia. Gli sciiti dell'Arabia Saudita, a lungo discriminati, sono ora in dialogo con il re Abdallah, il quale ha ottenuto grandi successi per evitare che essi si schiacciassero sulle posizioni degli sciiti dell'Iran e rimanessero, invece, all'interno dell'Arabia Saudita.
Constatiamo, dunque, che non tutti gli sciiti sono terroristi. Dialogare con la jihad non terrorista e insistere sul fatto che la posizione sciita tradizionale è diversa da quella di Ahmadinejad e di Nasrallah può essere una carta importante per isolare i terroristi e chi li sostiene. È un peccato, però, che questi sviluppi sembrino sfuggire completamente al nostro Governo, che continua a considerare come legittimi rappresentanti del mondo sciita solo gli Hezbollah ed il Governo di Teheran. Spero di avere chiarimenti dai rappresentanti del Governo su questo punto.
In apertura ho affermato che è in atto la quarta guerra mondiale. Ebbene, come in tutte le guerre mondiali si vede bene in quale direzione si stia procedendo e in quale direzione la storia stia procedendo. Tuttavia, come avviene mentre si sta vivendo la storia, pochi hanno voglia di affrontare il tema con lucidità, nessuno ha troppa voglia di parlarne. In realtà, questa guerra può finire solo in un modo: con la caduta dei regimi in Siria ed in Iran. È evidente che questa soluzione non potrà essere perseguita evitando lo strumento militare. È davvero difficile che possa essere raggiunta tramite rivolte popolari locali. Noi, comunque, continuiamo a sperare ovviamente che si verifichi tale possibilità. Soprattutto, questa speranza è supportata dalle difficoltà esistenti nel mondo islamico, che vanno studiate ed analizzate.
Nel frattempo, non si tratta di evitare una guerra in Medio Oriente, come pensa qualche burocrate europeo e, mi pare, il Presidente del Consiglio Romano Prodi. La guerra c'è già. Per l'Occidente la prima battaglia da vincere è al fianco di Israele, ma è anche al fianco di chi combatte le cellule che preparano attentati in Europa. La battaglia da vincere è lo smantellamento delle milizie terroriste che operano agli ordini diretti della Siria, dell'Iran e di Al-Qaeda, con la consapevolezza che, vinta questa battaglia, purtroppo la guerra non sarà finita. Una guerra con una missione per cui una recente agenzia, che riporta un articolo del New York Times di oggi, afferma che è molto più noto ciò che non farà piuttosto che quello che andrà a fare. Mi auguro allora che il Governo ed il corso della discussione che seguirà potranno contribuire a dissipare dubbi ed incertezze che, certamente, analizzando e studiando a fondo il problema sorgono (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cannavò. Ne ha facoltà.

SALVATORE CANNAVÒ. Signor Presidente, signori del Governo, colleghe e colleghi, la missione in Libano sta riscontrando un unanimismo un po' curioso, con molti entusiasmi e qualche retorica di troppo, anche nel versante della maggioranza. Cercherò sommessamente di spiegare perché non mi sento di partecipare a questo coro e perché l'intervento, così come è stato prodotto, mi sembra sbagliato. Ovviamente, non possiamo sottovalutare l'effetto del cessate il fuoco, come ha opportunamente sottolineato questa mattina la presidente Pinotti, ma la storia delle risoluzioni ONU è densa di cessate ilPag. 45fuoco violati rapidamente per dare vita a nuove escalation. Occorre, quindi, fare una valutazione attenta del contesto internazionale in cui si svolge questa missione. Vorrei soffermarmi su questo punto prima di arrivare a quelli che ritengo siano i punti ambigui della risoluzione e che mi sembra generino più di una contraddizione. Del resto, è proprio il contesto internazionale il retroterra evidente che motiva questo intervento, come è stato ampiamente documentato questa mattina nella relazione dell'onorevole Ranieri e come è stato detto in più di un intervento di quelli che mi hanno preceduto.
Un punto che, forse, si è posto al centro dell'attenzione è proprio quello del multilateralismo che oggi prenderebbe il sopravvento rispetto all'unilateralismo statunitense che ha caratterizzato le precedenti operazioni di guerra degli ultimi anni in Iraq ed in Afghanistan. Lo stesso ministro D'Alema ha più volte parlato di una opportunità che si apre per il ripristino di questo multilateralismo e si è sempre mosso, avendo chiara la missione in questo senso dell'Unione europea ed il ruolo dell'Italia in questo ambito. È a questo che vorrei fare riferimento.
Non vi è dubbio che le mire espansionistiche dell'unilateralismo statunitense siano oggi alle prese con un'impasse strategica.
Come segnalava recentemente la rivista Time, siamo di fronte alla crisi della diplomazia dei cowboy, cioè ad una difficoltà evidente di quel progetto di grande Medio Oriente ideato dai neoconservatori statunitensi che ha ispirato le missioni militari americane in Iraq o, comunque, in generale, la politica estera statunitense dell'amministrazione Bush.
Va detto che è in questo contesto di crisi che si collocano gli ultimi rapporti dell'intelligence, quelli pubblicati oggi sui giornali, in particolare quelli che fanno dire ai servizi USA che la guerra ha favorito i terroristi. Vorrei che il centrodestra tenesse conto di queste agenzie di informazione (ben 16 vanno nella stessa direzione), quando ci illustra le virtù taumaturgiche dell'intervento militare o il ruolo del terrorismo internazionale, svincolato dall'azione politica e militare delle potenze occidentali.
La guerra in Iraq ed in Afghanistan ha avuto l'effetto immediato di alimentare il terrorismo (va detto e sottolineato, forse non lo abbiamo fatto abbastanza, che un'ottima attività di intelligence svolta dai servizi segreti britannici ha evitato molti più morti di quanti ne siano stati evitati con l'intervento militare in Iraq ed in Afghanistan). Quindi, vi è una condizione di crisi in questa strategia e non vi è dubbio che si sia aperto un nuovo ruolo per l'Unione europea ispirato ovviamente ai canoni del multilateralismo più classico, quello cioè che, senza rompere l'asse con gli Stati Uniti, cerca di consolidare gli interessi europei in aree a rilevante interesse geoeconomico ed energetico.
Credo che non possiamo non tenere conto di questa definizione, quando parliamo di multilateralismo, per la storia della politica estera europea ed anche italiana, in un'area così nevralgica del mondo come quella mediorientale.
Mi interessa però sottolineare che questa strategia ha già dato cattiva prova di sé in passato con la missione in Somalia ed alcuni bombardamenti su Belgrado, e mi permetta, ministro, di aprire al riguardo una parentesi: sarebbe molto opportuno che approfondissimo anche in sede parlamentare la situazione del Kosovo, perché si avvicinano scadenze molto importanti che ci chiamano in causa direttamente a livello di presenza militare. Sarebbe, inoltre, molto opportuno che riflettessimo su ciò che sta accadendo e che sta per avvenire in quel paese, perché potremmo essere coinvolti in una situazione molto complicata a brevissimo tempo.
Quindi, quella multilateralista è una strategia che non solo ha dato queste prove in passato ma io credo soffra di un limite profondo: l'asse privilegiato di questa strategia con gli Stati Uniti non permette di modificare in radice un approccio, passatemi il termine, occidentalista, in cui le coordinate del rapporto con il mondo arabo musulmano sono tracciate in senso verticale, cioè sotto il segno dell'egemonia,Pag. 46del controllo, della subordinazione di un'area del mondo strategica, e non in senso orizzontale, nel senso della cooperazione, del dialogo, del capovolgimento delle coordinate di fondo della politica internazionale.
Cito a questo proposito la recente intervista del ministro D'Alema al quotidiano francese Le Monde. La cito semplicemente, perché il senso di queste parole è stato ampiamente ripreso dalla relazione, dalla comunicazione che il ministro stesso ha reso in sede di Commissioni esteri e difesa congiunte.
D'Alema afferma che gli americani hanno anch'essi un grande interesse al successo della risoluzione ONU n. 1701. Con tutta evidenza, essi cercano una via di uscita alla crisi. L'Iraq è una tragedia ed i progetti di un nuovo Medio Oriente un disastro. Questa volta gli Stati Uniti hanno bisogno dell'Europa. Bisogna aiutarli e approfittarne per aiutarli a cambiare il loro approccio. Questa è l'idea di fondo.
Non credo che il ruolo dell'Europa e dell'Italia sia quello di aiutare gli Stati Uniti a cambiare il loro approccio, cioè la loro strategia in funzione dei propri interessi vitali, nel senso che gli Stati Uniti si guardano i propri interessi da soli. Non credo che accettino l'aiuto dell'Italia o di paesi europei in questo loro approccio.
Io, invece, credo che, dietro questa impostazione, si riveli in filigrana una tendenza presente nella politica europea a ritagliarsi spazi in accordo sempre con gli Stati Uniti per controllare e mantenersi nella geopolitica mediorientale. È un approccio che non riesce a modificare in profondità la politica internazionale con misure strutturali. Le misure strutturali di cui oggi avremmo bisogno in quell'area del mondo o, in generale, nella politica internazionale sono, in primo luogo, la fine dell'unilateralismo in Medio Oriente, che vuol dire la fine della politica dei fatti compiuti portata avanti dal Governo di Israele. In secondo luogo, la restituzione del controllo delle risorse naturali a quelle popolazioni. A questo riguardo, noi siamo consapevoli di come i governi e le multinazionali occidentali controllano le risorse petrolifere. In terzo luogo, una politica reale di riduzione del debito. In quarto luogo, misure di cooperazione strutturali e di lotta alla povertà. A tale proposito, è sufficiente ricordare che, in questo stesso provvedimento, su 220 milioni di euro stanziati per la missione, solamente 30 milioni sono destinati alla cooperazione. Ciò ritengo costituisca un limite al nostro intervento. Tale limite rappresenta la fragilità del discorso occidentale rispetto a questa parte rilevante del mondo, in una fase in cui rischia di affermarsi lo scontro di civiltà. Non aiuta certamente neanche il ricorso a categorie come fascismo-islamico, nazi-islamismo, che ho sentito pronunciare in questa sede, per cercare di contrastare questa corrente profonda che muove ed anima le nostre stesse società. Credo sia questa fragilità della politica a costituire la ragione delle tante ambiguità della risoluzione n. 1701. È questa politica incerta che sta alla base della contraddittorietà di fondo della risoluzione. Innanzitutto, la missione, che è di interposizione, si disloca solo su uno dei territori oggetto dell'interposizione, all'interno di uno Stato sovrano che, tra l'altro, è il paese maggiormente aggredito in questa guerra. Inoltre, non si agisce per nulla nei confronti del paese aggressore. Questo, di per sé, è già un elemento che viola la stessa carta delle Nazioni Unite: la missione di interposizione sarebbe dovuta intervenire sui confini tra Libano ed Israele, mentre interviene solamente all'interno del Libano.
L'Italia non brilla per terzietà in questa missione, visto che ha in vigore un accordo di cooperazione militare con Israele che andrebbe perlomeno sospeso nel corso della missione UNIFIL. Ricordo che il sottosegretario Forcieri in Commissione ha ribadito che tale accordo non può essere sospeso perché non è ancora in vigore dal momento che non è stato ratificato dal Parlamento di Israele. Però, ricordo anche che quest'estate, come è documentato dalla Rivista aeronautica, forze armate israeliane hanno compiuto delle esercitazioni militari insieme a forze NATO e, quindi, italiane in quel di Sardegna. Pertanto,Pag. 47c'è qualcosa che non è chiaro, che non funziona da questo punto di vista.
Desidero anche ricordare che questa sottolineatura e questo approccio non è soltanto il frutto di qualche agguerrito no global o comunista d'antan, ma è anche l'elemento centrale di un importante appello di padre Alex Zanotelli - purtroppo non molto pubblicizzato dalla grande stampa ma che ha già raccolto migliaia di firme - con il quale, non a caso, si chiede al Governo di impegnarsi in questo senso.
Lo stesso dibattito sul disarmo o meno dei militanti hezbollah e, quindi, sulle regole di ingaggio - tali regole, robuste o meno, riguardano esattamente questo problema - è indicativo della natura unilaterale della missione visto che la stessa produce una chiara ingerenza interna al Libano. Con riguardo alla questione del disarmo, non si può non considerare il fatto che non è vero che nella risoluzione il disarmo sia escluso in maniera categorica. La risoluzione, in realtà, non dice nulla al riguardo, ma ciò non significa che lo escluda categoricamente. Dobbiamo stare, pertanto, molto attenti alle parole che utilizziamo. Non è un caso che il dibattito si sia concentrato esclusivamente su questo punto. Non è un caso perché il senso profondo della risoluzione stessa va in questa direzione. Da questo punto di vista è comprensibile che il leader di Hezbollah, Nasrallah, puntualizzi immediatamente, nelle prime settimane di avvio della missione internazionale, che il suo movimento non cederà le armi proprio perché comprende chiaramente che ciò avrebbe una ricaduta molto evidente nella politica libanese e, quindi, negli equilibri interni al Libano, rispetto ai quali la missione internazionale si pone in forme che, secondo me, non sono congrue.
Infine, un'ultima considerazione. La risoluzione in questione non contiene la benché minima condanna dei disastri causati dall'esercito israeliano in Libano ed è, quindi, sintomatica di uno strabismo di cui la cosiddetta comunità internazionale soffre da oltre quarant'anni.
Ma è soprattutto la totale assenza della questione palestinese a non far sperare per la pace e per il successo della missione. Il fatto che l'interposizione in Gaza e nei territori occupati venga solo auspicata è indicativo della cattiva coscienza degli occidentali, perché il massacro opera rappresaglie israeliane e colonizzazione dei territori occupati, va avanti indisturbato. In realtà, il rischio vero della missione - e, quindi, il suo peggiore limite - è quello di lasciare indisturbato Israele nella sua azione contro i palestinesi e di promettere una soluzione complessiva dell'equilibrio mediorientale solo quando Israele sarà pronto, cioè quando la colonizzazione arriverà al punto di soddisfazione massima per il governo israeliano. Credo che questo sia il punto sul quale il Governo italiano dovrà intervenire con maggior forza.
Per questi motivi non mi sento di appoggiare la missione, almeno fino a quando non ne venga dimostrata l'intenzionalità reale di pace. Questo, secondo me, può avvenire con una serie di garanzie e di punti fermi, tra cui l'interposizione a Gaza e in Cisgiordania, cioè sui confini del 1967, in funzione della nascita dello Stato palestinese e, quindi, in questo senso un impegno reale per una rapida convocazione di una Conferenza internazionale di pace. Da questo punto di vista, bisognerebbe lavorare per il conseguente schieramento delle truppe ONU sul confine israelo-libanese, risolvendo in questo modo la chiara ambiguità circa il disarmo di Hezbollah; bisognerebbe inoltre che il Governo ci garantisse e ci rassicurasse sulla questione dell'aumento delle spese militari. Questo è un punto cruciale, non possiamo pensare che, in prossimità di una legge finanziaria che si annuncia rigorosa, il Governo continui ad aumentare in maniera esponenziale le spese per le missioni militari.
Inviterei, infine, ad avviare una riflessione sincera e profonda sull'idea di supplire ai limiti della politica internazionale, a quelle sue fragilità di cui parlavo prima, con l'ausilio solo della politica militare, in un susseguirsi di missioni, onerose ed impegnative, che non riescono mai a modificare il corso della politica globale, maPag. 48che producono, invece, nuove guerre, nuovi scontri, una militarizzazione crescente della politica complessiva.
L'ultimo punto che vorrei analizzare brevemente riguarda il problema di riuscire a realizzare, nel momento in cui si compie una missione di questo tipo, un chiaro cambio di strategia politica e diplomatica sullo scacchiere internazionale. Se ne è parlato molto in relazione alla missione UNIFIL, ma credo che oggi questo obiettivo sia risolvibile in particolare con una misura chiarissima: il ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan. La guerra in quel paese sta dilagando e lambisce ormai le zone di controllo dell'esercito italiano. Credo che possa valere la pena di citare le parole relative ad un'intervista del generale Mini: «Il problema in Afghanistan nasce dall'inserimento della missione ISAF in un contesto artificiosamente dichiarato post-bellico e dalla sottovalutazione della capacità dei guerriglieri talebani di costituire un'aperta minaccia nei riguardi delle forze USA, del Governo di Kabul e di chiunque lo appoggi... La guerra contro i talebani continua ed è stata inserita nel quadro più vasto della «guerra al terrore», il che significa che è destinata a durare a lungo». Prima che sia troppo tardi, prima di assistere ad un nuovo disastro annunciato, è bene che il Governo e la sua maggioranza prendano questa decisione, cioè il ritiro delle truppe dall'Afghanistan. Tutto ciò farebbe bene al ruolo dell'Italia nel mondo, alla politica internazionale e alle sue prospettive di pace e, in fondo, farebbe bene anche all'attuale maggioranza parlamentare.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Brusco. Ne ha facoltà.

FRANCESCO BRUSCO. Signor Presidente, onorevoli rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, è problematico e non semplice intervenire a cuor leggero su questo provvedimento, su questo decreto-legge, su questa missione. Non solo perché, mentre siamo qui a discutere, il nostro contingente, i nostri soldati sono già in zona di operazione, con tutti i rischi che questo comporta, ma soprattutto perché a me sembra che, sino ad oggi, molto spesso nelle aule della politica come sui media è prevalsa l'enfasi, la fretta e non, invece, un'analisi serena, seria e rigorosa della situazione, dei rischi, del contesto politico in cui essa si svolge e dei più probabili sviluppi a breve e medio termine. È prevalsa, in buona sostanza, la volontà di apparire anziché la sostanza. In una parola, è mancata la politica, almeno quella dei fatti e, quando manca la politica, ahimè, i rischi aumentano, il rischio di non fare bene, il rischio di non essere capiti dai cittadini e, perché no, il rischio per i nostri soldati.
Premetto che non credo si possa essere, per definizione, contro questa missione, così come non lo siamo stati nei confronti di tutte le altre a cui abbiamo partecipato, ma sento che sono ancora tanti i «ma», tantissime le domande senza risposta che l'operato di questo Governo si trascina dietro per forza di cose, molti i distinguo, molti i «nonostante». Quindi, con questo stato d'animo, convinto ma indeciso, proverò ad attenermi ai fatti, per provare a motivare le mie certezze, ma, al tempo stesso, le mie decisioni, per far prevalere poi, me lo auguro, le ragioni del sì.
Prima di tutto elencherò quelli che, a mio avviso, sono i punti deboli della missione. In primo luogo la sicurezza dei nostri soldati.
È fuor di dubbio che questa missione, questa spedizione in Libano è potenzialmente più pericolosa di quelle in Iraq e in Afghanistan, amici della sinistra. I nostri soldati sono schierati in un teatro di guerra ininterrotta da sessant'anni circa, a poche settimane dalla fine di uno scontro sanguinoso ed incerto tra una milizia terrorista, armatissima e addestratissima, ed uno dei più efficienti eserciti del mondo.
La situazione politica non è in Libano ed in Medio Oriente meno tesa che prima della guerra. Se la situazione dovesse degenerare, i nostri soldati si troverebbero tra due fuochi. Ma penso che ancora più preoccupante sarebbe nel caso di un peggioramento - ahimè molto probabile aPag. 49questo punto - delle relazioni tra la comunità internazionale e l'Iran a causa del tentativo di questo paese di dotarsi di armi nucleari.
Ha poco da fare battute l'onorevole D'Alema. Un paese ricco di petrolio - è la domanda che gli rivolgo -, come l'Iran, cosa se ne fa dell'energia nucleare a scopi pacifici? E se appunto la situazione dovesse degenerare, i nostri soldati si troverebbero nel mezzo, sarebbero ostaggi di Hezbollah nelle mani dell'Iran pronto a ricattarci, per rompere eventualmente il fronte internazionale. O forse D'Alema ha preso accordi, alle spalle dell'ONU e dei nostri alleati, con Teheran ed Hezbollah, perché evitino di attaccare il nostro contingente in cambio di un appoggio diplomatico? Non me ne stupirei...
In secondo luogo, vi è l'inefficacia della risoluzione n. 1701; lo hanno chiaramente detto i colleghi in Commissione e in questa sede stamattina. Non credo che questa risoluzione, come le tante altre prima, riuscirà a portare al disarmo delle milizie di Hezbollah. Non dimentichiamo le affermazioni recentissime, gravi, deliranti, preoccupanti, anche per noi che siamo già presenti in forze nella zona calda del sud del Libano, fatte da Nasrallah durante la sua festa della vittoria. Il capo del partito di Dio (come se Dio o Allah potesse avere per partito un gruppo di terroristi) ha detto che Hezbollah dispone, al momento, ancora di ventimila razzi o missili e che non si lascerà disarmare (le testuali parole sono state: non ci disarmerete mai, per fare il gioco dei sionisti, questo è il pretesto). La questione del disarmo di Hezbollah è, non da oggi, la chiave di volta della crisi libanese.
La risoluzione n. 1701 del Consiglio di sicurezza stabilisce che a dover disarmare gli hezbollah, per disinnescare preventivamente il rischio di un ritorno di guerra con Israele, sono le autorità libanesi, ma, nel momento in cui questa formula - io dico ipocrita - di compromesso veniva sottoscritta al palazzo di vetro, tutti i contraenti erano consapevoli che l'esercito regolare libanese - io aggiungerei sgangherato - non avesse, come non ha avuto in passato, la forza e la determinazione necessaria per svuotare gli arsenali delle milizie di Hezbollah; anzi, dopo la rimozione del blocco, queste sono ritornate al loro sport preferito, al loro passatempo: esercitare la pratica indisturbata delle importazioni di armi dai loro fornitori privilegiati. Il fuoco dunque - c'è da temere - cova sotto le ceneri.
Se non c'è disarmo di Hezbollah, residuali sono le speranze di una vera pace tra Israele e Libano, di un riaffermarsi o affermarsi della sovranità del governo di Beirut nel sud del paese; anzi, c'è da temere l'opposto, con conseguenze ancora più gravi. Eppure mi sembra di capire che questa preoccupazione sia remota nei pensieri e nelle preoccupazioni del nostro ministro degli esteri (beato lui!).
Terzo punto riguarda il costo della missione. È sin troppo evidente che 185 milioni di euro per tre mesi (750 milioni di euro per 1 anno) rappresentano una cifra molto elevata, innalzata in senso assoluto pur di apparire belli e i primi della classe, rischiando di non poter coprire le spese per formare i nostri soldati.
Che bisogno c'era di mandare in Libano molti più uomini della Francia, che poi si è tenuta il comando di UNIFIL e la direzione di unità di missioni di pace dell'ONU? Perché prenderci tutti i rischi e gran parte dei costi quando a comandare sono altri?
Forse è questo il prezzo che dobbiamo pagare, questo è il prezzo che D'Alema e Prodi vogliono pagare per potersi sedere agli stessi tavoli intorno ai quali Berlusconi ha riportato l'Italia, per far dimenticare il loro atteggiamento su Iraq ed Afghanistan, per cancellare le tracce di quel pacifismo becero delle 10, 100, 1000 Nassiriya dei loro amici e compari di maggioranza.
Nonostante tutto questo, noi di Forza Italia faremo prevalere il nostro senso di responsabilità, la nostra coerenza, al di là del nostro temporaneo ruolo di opposizione in Parlamento, non certo nel paese.
In Kosovo è guerra preventiva, deterrenza militare, quando siete voi opposizione; per voi le missioni diventano diPag. 50pace quando governate, così come state facendo. Quando è in gioco invece la credibilità internazionale del nostro paese, anche se per colpa di un Governo incapace, è il senso della responsabilità e quello dello Stato e la cultura dell'interesse del paese e del buon Governo che devono guidarci, così come ci stanno guidando.
Sicuramente siamo stati frettolosi lo scorso agosto a votare una mozione bipartisan che poi questo Governo ha disatteso e trasformato in un mandato in bianco, mentre avevamo convenuto che il Parlamento fosse costantemente informato. Ciò fu detto il 18 agosto scorso e invece i nostri soldati sono partiti senza che alle Camere fosse detto niente; le regole di ingaggio sono state definite nel silenzio, senza alcun convincimento. Forse avremmo dovuto e potuto mutare atteggiamento, vista la piega data agli eventi da questo Governo, vista anche la ridicola gazzarra mediatica che ha caratterizzato l'azione di D'Alema e di Prodi (lo sbarco in diretta, le marce della pace).
Il nostro senso di responsabilità ha retto, il cinismo appartiene ad altri, ad altre culture. E di cinismo ne sa qualcosa il nostro nuovo Taillerand, il peripatetico ministro D'Alema che va a braccetto di Hezbollah, anziché farsi vedere ed essere - come pure afferma a parole - equidistante tra le parti in causa e rassicurare tutti sulla bontà della missione. Egli condivide la lotta in Palestina e quindi mezzi e metodi per ottenere uno Stato. Insieme a questo diritto, che si badi bene tutti riconosciamo a questo popolo, non possiamo condividere quella lotta, non solo fatta con i sassi dell'intifada, ma anche con i razzi contro i kibbutz, con i kamikaze che fanno strage di innocenti.
E di cinismo, ahimé, danno prova anche altri che pur di apparire in tv - causa ostentationis, direbbero i latini - non hanno problemi ad incontrare e a stringere la mano al capo di uno Stato terrorista, che vuole la cancellazione di Israele per poi votare «senza se e senza ma», a prescindere. Questo atteggiamento - come bene ha commentato Arturo Diaconale - evoca la prima metà degli anni Trenta, quando Berlino era diventata la meta preferita dei politici delle democrazie occidentali in cerca di notorietà presso le opinioni pubbliche pacifiste dei rispettivi paesi.
Eppure, nonostante tutte le doverose riserve, sappiamo da quale parte stare, ovvero da quella dei nostri soldati di pace che devono vedere e sentire un paese unito dietro di loro; dalla parte dell'Occidente e degli Stati Uniti, oggi in Libano e in Afghanistan, come ieri in Iraq e in Kosovo; dalla parte della pace, anche con le armi, in continuità con la politica del Governo Berlusconi e a tutela dell'interesse del nostro paese.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Elia. Ne ha facoltà.

Testo sostituito con l'errata corrige del SERGIO D'ELIA. Signor Presidente, colleghe e colleghi, signori rappresentanti del Governo, credo che vada riconosciuto al Governo italiano il merito di aver contribuito a spostare quanto meno la crisi tra Israele e Libano dal terreno militare a quello politico-diplomatico. Direi meglio che è stata spostata sul terreno diplomatico, anche se so che in diplomazia esiste un contenuto politico che il nostro Governo ha sicuramente utilizzato ed esercitato.
Per la prima volta, o comunque per la prima volta in tempi così brevi, l'Italia, l'Unione europea e Kofi Annan sono riusciti a trasferire davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una crisi tra Israele e uno dei suoi vicini, far approvare una risoluzione condivisa, non solo dai membri del Consiglio di sicurezza, ma anche dalle parti in causa e fare accettare una tregua ed una missione militare ONU non propriamente simbolica, quanto a forze, almeno quelle numeriche e dispiegate, ed obiettivi prefissati. Si è parlato di svolta multilateralista quantomeno nel modo di affrontare le crisi internazionali, i pericoli alla pace ed alla sicurezza. Se svolta vi è stata - e credo vi sia stata - più che dell'Italia, dell'Europa o dell'ONU, vi è stata nella politica statunitense, che haPag. 51lasciato un unilateralismo che ha dimostrato tutti i suoi limiti o comunque un multilateralismo parziale, limitato alla coalition of the willings. Sotto questo punto di vista, la svolta sicuramente vi è stata.
Ora, che al successo diplomatico multilateralista segua quello politico nella missione in Libano credo che sia tutto da dimostrare, se per successo politico intendiamo una pace duratura tra Israele e il Libano, tra Israele e i palestinesi.
Non possiamo considerare un successo politico il ritorno allo status quo ante - il conflitto -, con Hezbollah che mantiene intatto il suo arsenale di missili e la sua minaccia verso Israele, nonché l'ipoteca sulla vita democratica libanese. Nasrallah, lo sceicco sciita capo di Hezbollah, ha reso dichiarazioni che nulla promettono rispetto al successo della missione in Libano. Inoltre, il Governo di Hamas, in Palestina, rifiuta ancora di riconoscere lo Stato di Israele e, in ogni caso, il successo della missione in Libano non può coincidere con la legittimazione di uno Stato, la Repubblica islamica dell'Iran, che a mio avviso non fa parte della soluzione, ma del problema del Medio Oriente e non solo.
Lo stesso esito militare della missione Libano è appesa ad un filo, esiste una sorta di spada di Damocle che pende sulla nostra missione, sulla sicurezza dei nostri militari, che è affidata ad una condizione molto chiara e precisa, vale a dire al fatto che non si metta in discussione il regime fondamentalista dei mullah iraniani, il suo programma di armamento nucleare, il suo progetto aggressivo che giunge fino alla cancellazione dalla carta geografica di Israele.
In questo senso la risoluzione n. 1701 mostra tutti i suoi limiti e le sue fragilità. Bene che vada, ci riproporrà una situazione di Stati in azione, di movimenti di liberazione nazionale, di partiti nazionalisti e di fazioni nazionaliste, se non apertamente terroristiche, che verranno legittimati quali attori di stabilizzazione dell'area, mentre sono cause strutturali di crisi, di guerre internazionali e guerre civili non soltanto nell'area mediorientale, ma anche nel resto del mondo.
Non esiste luogo al mondo, lembo di terra, che abbia conosciuto, come il Medio Oriente, come la Palestina in particolare, esplosioni di conflitti e guerre civili periodiche nell'ultimo mezzo secolo.
Tutti sono anche concordi nell'affermare che da quel lembo di terra può deflagrare un conflitto mondiale dalle proporzioni mai viste e con l'uso di armi alle quali non si sarebbe mai immaginato di ricorrere. Eppure, pochi operano di conseguenza per superare queste cause strutturali, vale a dire il nazionalismo, l'ideologia della sovranità assoluta e l'assenza di democrazia, di quella che viene definita come crisi mediorientale.
Ciò è quanto stiamo tentando di fare come partito radicale transnazionale attraverso un manifesto appello per un satyagraha mondiale per la pace, che è stato lanciato da Marco Pannella e che è stato già sottoscritto da numerosi parlamentari non solo italiani, da intellettuali e da scrittori anche del mondo arabo. È arrivata l'adesione a questo manifesto-appello anche di uno scrittore molto noto in Occidente, David Grossman, la cui vicenda familiare (un figlio mandato in guerra ed ucciso un mese e mezzo fa) ci ha colpito molto. Si tratta di uno scrittore pacifista che ha capito che la sicurezza del suo paese non può essere limitata soltanto all'armamento ed alle potenzialità militari del suo esercito.
Credo sia urgente, se non è già troppo tardi, costruire un'alternativa politica, ma anche istituzionale e strutturale, quindi democratica e sovranazionale, alla rovinosa situazione in atto nel cosiddetto Medio Oriente. Lo Stato di Israele è l'unico in quella ristretta area fondato su principi di democrazia, di libertà, principi costituzionali di rispetto di diritti civili e politici. Ciò nonostante, riteniamo che lo Stato di Israele ed il suo connotato nazionale e nazionalista stia diventando un pericolo per sé e per gli altri, un pericolo per i fondamenti dello Stato di diritto e di democrazia israeliana e per l'intera regione.Pag. 52Le sue sacrosante ragioni di difesa e di vita in sicurezza non possono più affermarsi nei limiti dei confini nazionali di un territorio che equivale solo allo 0,2 per cento del territorio mediorientale; non possono basarsi esclusivamente sulle capacità militari del suo esercito e sulla mobilitazione di una popolazione che non arriva all'1 per cento della popolazione mediorientale, molto spesso ostile, che la circonda. È un'illusione, ma anche un pericolo e forse anche un'ipocrisia: tutti sanno che la vita di Israele, il potenziale del suo esercito, la sua sicurezza non si basano tanto sui suoi carri armati, ma su armi che vengono fornite ad Israele soprattutto da paesi amici, in particolare dagli Stati Uniti d'America. È bene che Israele prenda atto anche di questo: o diventa la cinquantunesima stella della federazione americana, oppure deve trovare un'altra soluzione. Noi una soluzione la proponiamo anche con l'iniziativa che ricordavo prima del satyagraha per la pace.
La difesa di Israele non può essere garantita neanche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ho sentito la relazione del presidente della mia Commissione, Ranieri, molto fiduciosa sulle potenzialità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come alternativa alla forza militare israeliana, alternativa a quella che ho definito l'illusione di potersi difendere da soli. Dice l'amico Ranieri: bisogna affidarsi alle Nazioni Unite, ai caschi blu. Credo che questo non sia possibile, ma sia necessaria solo una prospettiva e la certezza di essere parte di una comunità più ampia, come quella europea. Si tratta di essere all'interno di uno spazio giuridico, politico ed istituzionale cui devolvere ciò a cui si decide di rinunciare, cioè quote di propria sovranità nazionale, per riceverne in cambio la forza e la sicurezza che può dare una comunità di mezzo miliardo di persone. Credo che questa sia la prospettiva per la pace, per la sicurezza e la difesa di Israele.
Lo stesso discorso vale anche per il futuro Stato palestinese il quale, in una prospettiva non nazionalista ma federalista-europea - e può apparire velleitario dirlo in questo momento -, non può nascere in base alla formula che ritengo pericolosa, se non declinata in maniera più precisa, di due popoli e due Stati. Credo che i cittadini palestinesi, non il popolo palestinese, i cittadini, gli individui, le persone che vivono in Palestina abbiano tutto il diritto di non divenire sudditi di una forma di Stato qualsiasi, come tanti lo sono in quella terra e negli Stati limitrofi (che sono la quasi totalità nel Medio Oriente, fatta eccezione per Israele), che sono autoritari, dittatoriali, illiberali. I cittadini palestinesi devono poter godere di diritti umani, politici, civili e di coscienza almeno pari a quelli di cui godono i cittadini d'Israele.
Non due popoli e due Stati: potremmo trovarci d'accordo, e dobbiamo fare in modo di andare in questa direzione, su un'altra formula, quella di due popoli e due democrazie. Multilateralismo non può significare solo Nazioni Unite, intervento dei caschi blu invece di quelli della NATO, di quelli americani o di quelli israeliani. Multilateralismo significa anche primato delle regole, dei principi, dei diritti umani universalmente condivisi, sanciti nei trattati e patti internazionali sui diritti civili e politici, il diritto alla libertà e alla democrazia, innanzitutto, che sono negati in quasi tutti - direi, anzi, in tutti - gli Stati del Medio Oriente, eccetto Israele.
Multilateralismo non può significare soltanto internazionalismo, quello originario della Società delle nazioni; multilateralismo significa anche federalismo, istituzioni e comunità sovranazionali, alternative alle realtà nazionali e alle ideologie nazionaliste, che sono la causa prima delle crisi e delle guerre internazionali.
La pace non può essere solo evocata o invocata, né può essere una petizione di principio: la pace va costruita, affinché sia durevole come dato strutturale. La missione in Libano, bene che vada, manterrà una tregua tra realtà nazionali che sono però pronte a riesplodere; è di una missione più ampia di quella dell'ONU - di una visione strategica come si sarebbe detto un tempo - che abbiamo bisogno,Pag. 53cioè di un dato strutturale, democratico e federalista, che costituisca un antidoto alla guerra.
Colleghe e colleghi, il sogno federalista europeo dei primi anni Quaranta, quello del Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, cosa proponeva se non l'alternativa strutturale, cioè politica, istituzionale e giuridica, alla realtà altrettanto strutturale di Stati-nazione indipendenti e sovrani, la cui indipendenza e sovranità assolute sono state causa del nazismo e del comunismo, di guerre fratricide e mondiali nel continente europeo?
La nascita della Comunità europea, cioè di Stati democratici che hanno rinunciato a quote di propria sovranità, ha costituito l'antidoto alla guerra, il passaggio necessario che ha portato alla pace duratura nel continente europeo, unico continente che nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo ha conosciuto conflitti e guerre mondiali, conclusi una volta che i singoli Stati, aderendo ad una comunità più ampia (quella europea), come fatto politico-istituzionale hanno deciso di rinunciare a quote di propria sovranità, avendo in cambio pace e sicurezza.
Nel federalismo europeo che ho richiamato non troviamo solo un esempio del passato, ma vediamo un destino (nel senso in cui gli ispanici interpretano il senso di destinazione), ed anche uno scenario di futuro, che io ritengo essere più prossimo che futuro, dell'Europa.
La sua missione, il suo impegno e la sua influenza non possono essere più limitati alla sfera continentale europea. La nuova frontiera dell'Europa non è a nord o a est, ma è a sud, nell'area del Mediterraneo, dove, peraltro, affondano le radici della storia e della cultura europea. In particolare, mi riferisco a quel lembo di terra, detta Palestina, dove sono fiorite le tre grandi religioni monoteiste e che oggi coincide con quel focolaio di crisi e di guerre fra nazioni e fra fazioni, che rischia di propagarsi a livello mondiale.
Ciò è velleitario, è un sogno, è una visione. Credo che questo sia ciò di cui abbiamo bisogno, e per questo stiamo lavorando: è il senso e l'obiettivo del manifesto-appello per un satyagraha mondiale per la pace lanciato da Marco Pannella. Una Palestina democratica, un Libano democratico, Israele e la Giordania con una democrazia già molto vicina all'Europa, con la Turchia candidata ad entrare in Europa entro il 2014, se gli ostacoli che questa Europa sta frapponendo nel negoziato per l'adesione turca non saranno tali da spingere tale paese a rinunciare all'Europa e ad affogare nell'ideologia nazionalista e nel mare del fondamentalismo islamico.
Ma vorrei riferirmi anche al Marocco che, con il sovrano Hassan II, discendente diretto del profeta Maometto, già nel 1987 aveva chiesto ufficialmente, in quanto Marocco, l'adesione all'Unione europea. Poi, vi sono altri paesi, ma direi tutto il sud del Mediterraneo: lì è la missione europea, lì è il futuro dell'Europa, ed anche un po' il futuro delle persone, dei popoli e dei cittadini che vivono in Europa e nel Mediterraneo.
Questa, colleghe e colleghi, è la visione di Europa di cui abbiamo bisogno con urgenza, se non vogliamo che la missione in Libano si trasformi in un incubo per il nostro paese, per l'Europa e temo anche per la comunità internazionale (Applausi dei deputati del gruppo de La Rosa nel Pugno, de L'Ulivo e di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
SERGIO D'ELIA. Signor Presidente, colleghe e colleghi, signori rappresentanti del Governo, credo che vada riconosciuto al Governo italiano il merito di aver contribuito a spostare quanto meno la crisi tra Israele e Libano dal terreno militare a quello politico-diplomatico. Direi meglio che è stata spostata sul terreno diplomatico, anche se so che in diplomazia esiste un contenuto politico che il nostro Governo ha sicuramente utilizzato ed esercitato.
Per la prima volta, o comunque per la prima volta in tempi così brevi, l'Italia, l'Unione europea e Kofi Annan sono riusciti a trasferire davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una crisi tra Israele e uno dei suoi vicini, far approvare una risoluzione condivisa, non solo dai membri del Consiglio di sicurezza, ma anche dalle parti in causa e fare accettare una tregua ed una missione militare ONU non propriamente simbolica, quanto a forze, almeno quelle numeriche e dispiegate, ed obiettivi prefissati. Si è parlato di svolta multilateralista quantomeno nel modo di affrontare le crisi internazionali, i pericoli alla pace ed alla sicurezza. Se svolta vi è stata - e credo vi sia stata - più che dell'Italia, dell'Europa o dell'ONU, vi è stata nella politica statunitense, che halasciato un unilateralismo che ha dimostrato tutti i suoi limiti o comunque un multilateralismo parziale, limitato alla coalition of the willings. Sotto questo punto di vista, la svolta sicuramente vi è stata.
Ora, che al successo diplomatico multilateralista segua quello politico nella missione in Libano credo che sia tutto da dimostrare, se per successo politico intendiamo una pace duratura tra Israele e il Libano, tra Israele e i palestinesi.
Non possiamo considerare un successo politico il ritorno allo status quo ante - il conflitto -, con Hezbollah che mantiene intatto il suo arsenale di missili e la sua minaccia verso Israele, nonché l'ipoteca sulla vita democratica libanese. Nasrallah, lo sceicco sciita capo di Hezbollah, ha reso dichiarazioni che nulla promettono rispetto al successo della missione in Libano. Inoltre, il Governo di Hamas, in Palestina, rifiuta ancora di riconoscere lo Stato di Israele e, in ogni caso, il successo della missione in Libano non può coincidere con la legittimazione di uno Stato, la Repubblica islamica dell'Iran, che a mio avviso non fa parte della soluzione, ma del problema del Medio Oriente e non solo.
Lo stesso esito militare della missione Libano è appesa ad un filo, esiste una sorta di spada di Damocle che pende sulla nostra missione, sulla sicurezza dei nostri militari, che è affidata ad una condizione molto chiara e precisa, vale a dire al fatto che non si metta in discussione il regime fondamentalista dei mullah iraniani, il suo programma di armamento nucleare, il suo progetto aggressivo che giunge fino alla cancellazione dalla carta geografica di Israele.
In questo senso la risoluzione n. 1701 mostra tutti i suoi limiti e le sue fragilità. Bene che vada, ci riproporrà una situazione di Stati nazione, di movimenti di liberazione nazionale, di partiti nazionalisti e di fazioni nazionaliste, se non apertamente terroristiche, che verranno legittimati quali attori di stabilizzazione dell'area, mentre sono cause strutturali di crisi, di guerre internazionali e guerre civili non soltanto nell'area mediorientale, ma anche nel resto del mondo.
Non esiste luogo al mondo, lembo di terra, che abbia conosciuto, come il Medio Oriente, come la Palestina in particolare, esplosioni di conflitti e guerre civili periodiche nell'ultimo mezzo secolo.
Tutti sono anche concordi nell'affermare che da quel lembo di terra può deflagrare un conflitto mondiale dalle proporzioni mai viste e con l'uso di armi alle quali non si sarebbe mai immaginato di ricorrere. Eppure, pochi operano di conseguenza per superare queste cause strutturali, vale a dire il nazionalismo, l'ideologia della sovranità assoluta e l'assenza di democrazia, di quella che viene definita come crisi mediorientale.
Ciò è quanto stiamo tentando di fare come partito radicale transnazionale attraverso un manifesto appello per un satyagraha mondiale per la pace, che è stato lanciato da Marco Pannella e che è stato già sottoscritto da numerosi parlamentari non solo italiani, da intellettuali e da scrittori anche del mondo arabo. È arrivata l'adesione a questo manifesto-appello anche di uno scrittore molto noto in Occidente, David Grossman, la cui vicenda familiare (un figlio mandato in guerra ed ucciso un mese e mezzo fa) ci ha colpito molto. Si tratta di uno scrittore pacifista che ha capito che la sicurezza del suo paese non può essere limitata soltanto all'armamento ed alle potenzialità militari del suo esercito.
Credo sia urgente, se non è già troppo tardi, costruire un'alternativa politica, ma anche istituzionale e strutturale, quindi democratica e sovranazionale, alla rovinosa situazione in atto nel cosiddetto Medio Oriente. Lo Stato di Israele è l'unico in quella ristretta area fondato su principi di democrazia, di libertà, principi costituzionali di rispetto di diritti civili e politici. Ciò nonostante, riteniamo che lo Stato di Israele ed il suo connotato nazionale e sostanzialmente nazionalista stia diventando un pericolo per sé e per gli altri, un pericolo per i fondamenti dello Stato di diritto e di democrazia israeliana e per l'intera regione.Le sue sacrosante ragioni di difesa e di vita in sicurezza non possono più affermarsi nei limiti dei confini nazionali di un territorio che equivale solo allo 0,2 per cento del territorio mediorientale; non possono basarsi esclusivamente sulle capacità militari del suo esercito e sulla mobilitazione di una popolazione che non arriva all'1 per cento della popolazione mediorientale, molto spesso ostile, che la circonda. È un'illusione, ma anche un pericolo e forse anche un'ipocrisia: tutti sanno che la vita di Israele, il potenziale del suo esercito, la sua sicurezza non si basano tanto sui suoi carri armati, ma su armi che vengono fornite ad Israele soprattutto da paesi amici, in particolare dagli Stati Uniti d'America. È bene che Israele prenda atto anche di questo: o diventa la cinquantunesima stella della federazione americana, oppure deve trovare un'altra soluzione. Noi una soluzione la proponiamo anche con l'iniziativa che ricordavo prima del satyagraha per la pace.
La difesa di Israele non può essere garantita neanche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ho sentito la relazione del presidente della mia Commissione, Ranieri, molto fiduciosa sulle potenzialità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come alternativa alla forza militare israeliana, alternativa a quella che ho definito l'illusione di potersi difendere da soli. Dice l'amico Ranieri: bisogna affidarsi alle Nazioni Unite, ai caschi blu. Credo che questo non sia possibile, ma sia necessaria solo una prospettiva e la certezza di essere parte di una comunità più ampia, come quella europea. Si tratta di essere all'interno di uno spazio giuridico, politico ed istituzionale cui devolvere ciò a cui si decide di rinunciare, cioè quote di propria sovranità nazionale, per riceverne in cambio la forza e la sicurezza che può dare una comunità di mezzo miliardo di persone. Credo che questa sia la prospettiva per la pace, per la sicurezza e la difesa di Israele.
Lo stesso discorso vale anche per il futuro Stato palestinese il quale, in una prospettiva non nazionalista ma federalista-europea - e può apparire velleitario dirlo in questo momento -, non può nascere in base alla formula che ritengo pericolosa, se non declinata in maniera più precisa, di due popoli e due Stati. Credo che i cittadini palestinesi, non il popolo palestinese, i cittadini, gli individui, le persone che vivono in Palestina abbiano tutto il diritto di non divenire sudditi di una forma di Stato qualsiasi, come tanti lo sono in quella terra e negli Stati limitrofi (che sono la quasi totalità nel Medio Oriente, fatta eccezione per Israele), che sono autoritari, dittatoriali, illiberali. I cittadini palestinesi devono poter godere di diritti umani, politici, civili e di coscienza almeno pari a quelli di cui godono i cittadini d'Israele.
Non due popoli e due Stati: potremmo trovarci d'accordo, e dobbiamo fare in modo di andare in questa direzione, su un'altra formula, quella di due popoli e due democrazie. Multilateralismo non può significare solo Nazioni Unite, intervento dei caschi blu invece di quelli della NATO, di quelli americani o di quelli israeliani. Multilateralismo significa anche primato delle regole, dei principi, dei diritti umani universalmente condivisi, sanciti nei trattati e patti internazionali sui diritti civili e politici, il diritto alla libertà e alla democrazia, innanzitutto, che sono negati in quasi tutti - direi, anzi, in tutti - gli Stati del Medio Oriente, eccetto Israele.
Multilateralismo non può significare soltanto internazionalismo, quello originario della Società delle nazioni; multilateralismo significa anche federalismo, istituzioni e comunità sovranazionali, alternative alle realtà nazionali e alle ideologie nazionaliste, che sono la causa prima delle crisi e delle guerre internazionali.
La pace non può essere solo evocata o invocata, né può essere una petizione di principio: la pace va costruita, affinché sia durevole come dato strutturale. La missione in Libano, bene che vada, manterrà una tregua tra realtà nazionali che sono però pronte a riesplodere; è di una missione più ampia di quella dell'ONU - di una visione strategica come si sarebbe detto un tempo - che abbiamo bisogno,cioè di un dato strutturale, democratico e federalista, che costituisca un antidoto alla guerra.
Colleghe e colleghi, il sogno federalista europeo dei primi anni Quaranta, quello del Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, cosa proponeva se non l'alternativa strutturale, cioè politica, istituzionale e giuridica, alla realtà altrettanto strutturale di Stati-nazione indipendenti e sovrani, la cui indipendenza e sovranità assolute sono state causa del nazismo e del comunismo, di guerre fratricide e mondiali nel continente europeo?
La nascita della Comunità europea, cioè di Stati democratici che hanno rinunciato a quote di propria sovranità, ha costituito l'antidoto alla guerra, il passaggio necessario che ha portato alla pace duratura nel continente europeo, unico continente che nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo ha conosciuto conflitti e guerre mondiali, conclusi una volta che i singoli Stati, aderendo ad una comunità più ampia (quella europea), come fatto politico-istituzionale hanno deciso di rinunciare a quote di propria sovranità, avendo in cambio pace e sicurezza.
Nel federalismo europeo che ho richiamato non troviamo solo un esempio del passato, ma vediamo un destino (nel senso in cui gli ispanici interpretano il senso di destinazione), ed anche uno scenario di futuro, che io ritengo essere più prossimo che futuro, dell'Europa.
La sua missione, il suo impegno e la sua influenza non possono essere più limitati alla sfera continentale europea. La nuova frontiera dell'Europa non è a nord o a est, ma è a sud, nell'area del Mediterraneo, dove, peraltro, affondano le radici della storia e della cultura europea. In particolare, mi riferisco a quel lembo di terra, detta Palestina, dove sono fiorite le tre grandi religioni monoteiste e che oggi coincide con quel focolaio di crisi e di guerre fra nazioni e fra fazioni, che rischia di propagarsi a livello mondiale.
Ciò è velleitario, è un sogno, è una visione? Credo che questo sia ciò di cui abbiamo bisogno, e per questo stiamo lavorando: è il senso e l'obiettivo del manifesto-appello per un satyagraha mondiale per la pace lanciato da Marco Pannella. Una Palestina democratica, un Libano democratico, Israele e la Giordania con una democrazia già molto vicina all'Europa, con la Turchia candidata ad entrare in Europa entro il 2014, se gli ostacoli che questa Europa sta frapponendo nel negoziato per l'adesione turca non saranno tali da spingere tale paese a rinunciare all'Europa e ad affogare nell'ideologia nazionalista e nel mare del fondamentalismo islamico.
Ma vorrei riferirmi anche al Marocco che, con il sovrano Hassan II, discendente diretto del profeta Maometto, già nel 1987 aveva chiesto ufficialmente, in quanto Marocco, l'adesione all'Unione europea. Poi, vi sono altri paesi, ma direi tutto il sud del Mediterraneo: lì è la missione europea, lì è il futuro dell'Europa, ed anche un po' il futuro delle persone, dei popoli e dei cittadini che vivono in Europa e nel Mediterraneo.
Questa, colleghe e colleghi, è la visione di Europa di cui abbiamo bisogno con urgenza, se non vogliamo che la missione in Libano si trasformi in un incubo per il nostro paese, per l'Europa e temo anche per la comunità internazionale (Applausi dei deputati del gruppo de La Rosa nel Pugno, de L'Ulivo e di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).

PRESIDENTE. È pervenuta dalle due Commissioni competenti la richiesta di una breve sospensione della seduta per consentire una riunione del Comitato dei diciotto presso la sala dei ministri.
Sospendo, quindi, brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 17,05, è ripresa alle 17,25.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIULIO TREMONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Briguglio. Ne ha facoltà.

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CARMELO BRIGUGLIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori rappresentanti del Governo, la posizione del gruppo di Alleanza Nazionale sul decreto-legge che autorizza la nostra missione militare in Libano è stata già esternata attraverso due votazioni in sede di Commissione, e precisamente nelle sedute svolte dalle Commissioni riunite affari esteri e difesa della Camera dei deputati.
Dunque, malgrado grandi perplessità, e nonostante vi siano numerosi elementi ancora da approfondire, abbiamo manifestato apertura e disponibilità, poiché quando l'Italia si è resa protagonista di missioni militari all'estero con l'obiettivo di mantenere la pace, fornire aiuti umanitari, favorire la ricostruzione civile e garantire assistenza e sicurezza alle popolazioni interessate, abbiamo tradizionalmente assunto posizioni favorevoli. È questo, infatti, il filo conduttore delle nostre missioni militari in Iraq, in Afghanistan, in Kosovo, in Bosnia e in altre parti del mondo.
In questo momento ed in questa occasione, quindi, crediamo di dover rivendicare il DNA della destra politica italiana, rappresentato dalla solidarietà verso le nostre Forze armate, dal perseguimento dell'interesse nazionale, dalla lotta al terrorismo internazionale e dalla difesa dei valori dell'Occidente.
La nostra, dunque, è una posizione di apertura. Già in sede di Commissioni, tuttavia, come forza politica e parlamentare responsabile, assieme alle altre forze appartenenti al centrodestra, abbiamo ritenuto di dover puntare i riflettori su alcuni problemi, emersi nel corso dell'iter del decreto-legge, che pensiamo non possano essere nascosti e che il presidente del nostro partito, onorevole Fini, ha autorevolmente evidenziato in modo abbastanza stringente.
Quindi, al di là di questa posizione di apertura, non pregiudiziale e non viziata da polemiche politiche di natura interna, riteniamo nostro dovere sottolineare alcune questioni che analisti ed osservatori sia interni, sia internazionali hanno posto alla nostra attenzione a proposito della missione in Libano, nonché del ruolo del Governo italiano.
Signor Presidente, vorrei ricordare che, in questi giorni, si sono verificati alcuni eventi che forse costituiscono la trama di quanto sta accadendo in queste ultime ore in Libano, e che danno l'idea del quadro reale della situazione in Medio Oriente. Si tratta di una chiave di lettura che dobbiamo adottare per essere sereni e responsabili e non lasciare irrisolti dei problemi: vista la posta in gioco, infatti, non possiamo permetterci di esprimere un voto acritico.
La nostra impressione - perché, su tale materia, dobbiamo essere estremamente franchi - è che il pericolo maggiore che, sul piano politico, la nostra missione corre sia quello di avere una sorta di doppia finalità. Da una parte, infatti, vi è la finalità ufficiale che conosciamo, vale a dire insediare una forza di interposizione in Libano, stabilizzare il «cessate il fuoco» e pervenire ad una pace duratura, con l'obiettivo - dichiarato dalla risoluzione ONU n. 1701 - di giungere al disarmo di Hezbollah.
Inoltre, c'è forse - questa è la nostra impressione sulla base del dibattito politico che c'è stato - una sorta di finalità non dissimulata, non detta, sottaciuta, ma abbastanza palese, visibile ed almeno intuibile: alcune forze intendono interpretare questa missione come un modo per fermare Israele, per bloccare Israele, per intimidire Israele, per «fare la guerra» ad Israele.
È appena di qualche giorno fa un discorso preoccupante, che è stato come tale giudicato da tutti gli osservatori e, unanimemente, dalla stampa internazionale. Mi riferisco al discorso che il capo degli hezbollah, Nasrallah, ha fatto proprio qualche giorno fa e che, se dovesse corrispondere alle reali intenzioni del cosiddetto partito di Dio, farebbe sì che la missione in Libano rischierebbe già sin dall'inizio un clamoroso fallimento. Infatti, una delle architravi su cui poggia la missione in Libano è quella del disarmo degli hezbollah. Ebbene, il leader degli hezbollahPag. 55dice: noi non disarmeremo mai, perché abbiamo il dovere di difendere il Libano. Ed Hezbollah pensa di continuare a farlo con le decine di migliaia di missili, che, in modo aperto, direi quasi impudente, dichiara di possedere e di poter usare in qualunque momento.
Vi sono poi alcuni reportage, che sono passati sotto silenzio, di giornalisti di autorevoli quotidiani italiani, che hanno intervistato ufficiali che facevano parte della vecchia UNIFIL, i quali hanno fornito un quadro molto chiaro anche su posizioni che pensavamo fossero avventate da parte del Governo e dell'esercito israeliano. Questi reportage hanno sostanzialmente messo in luce che negli anni scorsi era ben noto che Hezbollah andasse a piazzare le proprie postazioni missilistiche, da cui lanciare i missili su Israele, proprio a ridosso delle sedi UNIFIL, cioè delle sedi dell'esercito dell'ONU. Ciò in modo da rimanere coperti, cioè in modo da poter avere una sorta di protezione e di copertura indiretta. Quando ciò è stato fatto osservare alle milizie Hezbollah - questo ci fa temere la fragilità delle missioni ONU ed anche di questa specifica missione, che si svolge sullo stesso teatro -, questi ufficiali sono stati minacciati.
In proposito, c'è una testimonianza che è stata raccolta proprio da un inviato del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, il quale ha intervistato uno di questi ufficiali, William Nortey. Ebbene, questo ufficiale, quando si è trovato dinanzi a tale condizione, cioè ha richiamato Hezbollah, è stato minacciato di morte. Si tratta di un ufficiale appartenente alle truppe ghanesi, inquadrate proprio nel contingente UNIFIL, al quale è stato detto chiaramente che non avrebbe mai più rivisto il proprio paese, né la propria famiglia in Africa. Quindi, vi sono non soltanto dichiarazioni molto pesanti, ma anche un'esperienza collaudata di ciò che è stata la missione UNIFIL fino all'approvazione della risoluzione n. 1701.
C'è da essere estremamente preoccupati, allora, per il rischio che corrono i nostri militari, per l'avventura - utilizzo il termine in senso asettico, senza volerne accentuare il significato profondo - alla quale il Governo italiano, l'Italia, si trova a prendere parte (anzi, l'Italia si trova ad essere protagonista della missione militare).
Dobbiamo stare molto attenti a ciò che diciamo. Per quanto mi riguarda, non sono disponibile a sorvolare su alcune dichiarazioni, altrettanto preoccupanti, del nostro ministro degli esteri. Mi riferisco, in particolare, all'intervista che il ministro D'Alema ha rilasciato al Corriere della Sera il 29 agosto scorso, nella quale vengono lanciati messaggi mediante dichiarazioni abbastanza incaute, almeno a mio parere, in ordine alla natura, alle finalità ed alla stessa struttura di formazioni che vengono chiamate politico-militari, ma che sono, per me, formazioni terroristiche (certo, esse hanno anche una natura politica). Sentite, colleghi, il tono delle predette dichiarazioni: «Hamas ed Hezbollah non sono Al Qaeda. Oltre alle note responsabilità di azioni terroristiche, hanno anche snodi politici e si occupano di assistenza. L'IRA e l'ETA, da gruppi terroristici, sono diventati movimenti politici».
A me pare che queste dichiarazioni del ministro degli esteri siano di tipo giustificazionista e possano incoraggiare approcci sbagliati. Come tali, esse sono state interpretate anche da molti analisti, perché le parole sono importanti; anzi, direi che le parole sono tutto in politica: sia in politica internazionale sia in diplomazia. Ebbene, il Governo italiano, per il tramite del ministro degli esteri, al suo massimo livello, lancia idee e tesi di questo tipo, che a me sembrano espressione di convinzioni profonde. Credo che abbia molto impressionato, anche sotto il profilo della percezione visiva, la nota passeggiata di D'Alema a braccetto con un parlamentare esponente di Hezbollah. A me pare che quella sia la dimensione fattuale di convinzioni politiche più profonde, che sono ancora più preoccupanti: non preoccupa soltanto il cosiddetto infortunio, se di infortunio si è trattato, ma ciò che quella - come dire? - esposizione del ministro degli esteri italiano sottende a livello di convinzioni, tesi, linea politica del Governo italiano, segnatamente della Farnesina.Pag. 56
Orbene, se le parole hanno un peso, un valore, non è possibile lanciare messaggi come quelli di cui ho detto. Allo stesso modo, non è possibile dire: «Attenzione, perché gli Stati Uniti hanno dato prova, con le torture ed altro, di comprimere i diritti!». Sappiamo tutti che si è trattato di casi isolati e che gli episodi in parola hanno avuto grande risalto perché sono stati denunciati - è questa la differenza tra una democrazia ed i regimi dittatoriali ed autoritari - proprio dai media americani. Pertanto, tali episodi non possono essere «utilizzati» nelle dichiarazioni di un Governo che, come quello italiano, ha come direttrici il multilateralismo e la solidarietà tra i partner europei, sicuramente, ma anche - e questa è una direttrice tradizionale dalla quale non credo sia possibile allontanarsi - i rapporti di amicizia con gli Stati Uniti d'America.
Allora, noi pensiamo che, in questo quadro, tali dichiarazioni, che provengono da lontano, proprio dal teatro del Libano, e dal nostro Governo consolidino, per certi versi, le nostre preoccupazioni. È anche una sorta di problema culturale: il silenzio della sinistra pacifista rispetto a questa dimensione di partiti che fanno politica con le truppe armate, che hanno eserciti per fare politica. Dove è finito il pacifismo dinanzi a cosiddette formazioni politiche che si vorrebbero assolvere perché, oltre a fare attività terroristica, fanno anche attività politica, addirittura politica, sociale od assistenziale? Noi siamo preoccupati da questa sorta di acriticità diffusa.
Vi sono, poi, altre dichiarazioni, rilasciate proprio in questi giorni, che incrementano questo stato di preoccupazione: tra di esse vi è l'intervento, o meglio la nuova dottrina sulla politica internazionale che il presidente dell'Iran, Ahmadinejad, ha esposto, in forma direi organica, all'ONU. Non so se si tratta di dichiarazioni di tipo propagandistico oppure di uno di quei segni dei tempi che dobbiamo imparare a leggere per capire cosa verrà in futuro. Certo è che sono dichiarazioni allarmanti. Infatti, esse provengono da un leader negazionista in senso doppio, non soltanto nel senso che egli nega l'esistenza o la portata della Shoah, ma anche che si tratta di un presidente di uno Stato straniero, l'Iran, che nega la stessa legittimità dell'ONU, quando afferma, testualmente, che il Consiglio di sicurezza dell'ONU non può proteggere i diritti degli indifesi perché le potenze coinvolte nelle ostilità sono suoi membri permanenti.
È vero che nel rapporto tra destra e sinistra, sia a livello internazionale sia a livello della storia politica del nostro paese, vi è una sorta di eterogenesi dei fini, ma non è concepibile che il Presidente Prodi ed anche la sinistra oggi facciano una sorta di scudo ad un leader che nega la shoah ed accusa gli Stati Uniti d'America di aver usato per primi - e direi, da soli - nella storia dell'umanità la bomba atomica - ed allude chiaramente alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki; così come non è concepibile che lo stesso Presidente del Consiglio italiano, con grande serenità vada a colloquiare, a discutere ed a fare aperture di credito con un leader politico di tale fatta, unico capo di Governo ad essersi incontrato con Ahmadinejad, rompendo anche - ricordo le polemiche, e ne parleremo in seguito, tra continuità e discontinuità - quella solidarietà tra i partner europei che avevano affidato all'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, Solana, il compito di affrontare il dossier nucleare e, quindi, la questione iraniana. Abbiamo voluto fare un poco i «pierini».
Quindi, Prodi è andato a fare aperture di credito, peraltro non portando nulla a casa, in termini molto concreti, ossia restando all'insegna di un colloquio assolutamente rituale ed interlocutorio. Però, questo è il secondo segnale, il retropensiero, la linea politica che bisogna leggere, la convinzione profonda del Governo italiano rispetto alla nostra missione militare in Libano.
A ciò va aggiunta la dichiarazione di Hamas, riportata da altri colleghi, che ha sconfessato Abu Mazen, il quale all'ONU si era impegnato sul riconoscimento di Israele. Hezbollah e Hamas hanno e continuano ad avere nelle proprie finalità e nella propria ragione sociale la cancellazionePag. 57di Israele dalla carta geografica del mondo. Questo è il punto. Questo è uno degli interrogativi che noi abbiamo posto quando si è cominciato a discutere della missione militare in Libano e su cui non abbiamo avuto risposte. Anzi, per quanto concerne il problema del disarmo, noi abbiamo ascoltato, con la comprensione della ragion di Stato, con grande attenzione e con grande rispetto, più relazioni del ministro Parisi e, in particolare, quella che ci chiariva come le regole d'ingaggio sarebbero state robuste pur non potendole esplicitare nel dettaglio. Immaginate se alcuni mesi fa il ministro Martino avesse fatto dichiarazioni di questo genere: sarebbero state accettate dal centrosinistra, dalla sinistra radicale e pacifista con la stessa serenità? Fatto sta che le stesse regole d'ingaggio, ossia i criteri con cui i nostri militari possono difendere se stessi, le popolazioni e la finalità della missione, rimangono tuttora un segreto per la pubblica opinione e per il Parlamento italiano.
Andando ad affrontare ora la questione dei rapporti con la politica interna italiana, vi sono alcune ulteriori perplessità su cui speriamo vi sia nelle prossime ore un'iniziativa della coalizione di Governo per chiarire alcuni elementi basilari, perché noi vogliamo concorrere al sostegno di questa missione militare, in quanto in ogni caso, come è stato detto dai leader del centrodestra, non vogliamo lasciare soli i nostri soldati. Ci sono alcune questioni che la politica ci impone di sollevare.
Vi è una sorta di doppiezza che è arrivato il momento di sciogliere, perché da un lato, nelle sedi ufficiali e nelle Commissioni parlamentari, vi è una sorta di apprezzamento, a parole, da parte del Governo e della coalizione, della necessità - in linea con quanto auspicato dal Capo dello Stato - che l'opposizione assuma una posizione bipartisan, sostenendo con il proprio voto in Parlamento la missione in Libano, in modo da manifestare una unità d'intenti anche da parte del centrodestra; dall'altro, la voce tesa a coprire questo flebile apprezzamento è quella della riaffermazione puntigliosa, orgogliosa e, direi, anche arrogante, di una discontinuità della politica estera di questo Governo rispetto a quello precedente.
Di questo si tratta, vale a dire di una rottura della continuità, sul piano politico e anche storico, se mi consentite, della politica estera dell'Italia, del nostro ruolo nel mondo, come se avessimo cambiato tutte le coordinate della nostra politica estera; è come dire che oggi si rispetta l'articolo 11 della Costituzione, vale a dire il ripudio della guerra come soluzione delle controversie internazionali, mentre ieri vi era un Governo guerrafondaio con vocazione al conflitto internazionale, con propositi nazionalistici o imperialisti o neocolonialisti!
Ho sentito la collega Deiana parlare di unilateralismo omicida di Bush, degli Stati Uniti, ma mi pare che siano considerazioni, per carità legittime, perché questo è un Parlamento, ma estremamente azzardate. Quindi, vi è una sorta di doppio binario, direi soprattutto il secondo ad uso interno, perché occorre che la sinistra riformista fornisca alla sinistra radicale, alla sinistra antagonista un argomento per superare la contraddizione profonda che almeno in una parte della sinistra e, quindi, in tutto il centrosinistra, è presente; mi riferisco al fatto che la politica estera non si cambia con i singoli Governi. La politica estera di un paese cambia, ma nel corso dei decenni; noi, pertanto, crediamo in una linea di continuità dei Governi, che devono essere legati dall'interesse nazionale, dalle alleanze internazionali e dal ruolo dell'Italia nel mondo. Dopodiché si può parlare, spacciandola per tale, di rottura di continuità delle posizioni, ma è necessario che la sinistra radicale spieghi alcune cose perché non si possono fare delle scelte opportunistiche.
Nutro grande stima ed ammirazione per alcuni colleghi della sinistra radicale (sono pochissimi e, fra questi, il collega Cannavò, da cui sono molto distante), ma, per essere estremamente chiari, vorrei ricordare, a proposito della continuità della missione in Iraq, avvenuta senza la copertura ONU, che anche il bombardamento in Kosovo a cui abbiamo partecipato,Pag. 58provocando anche in quel caso delle vittime involontarie (è arrivato il momento di aprire tale questione) è avvenuto in mancanza di copertura ONU, vale a dire del salvacondotto, dell'attestazione della legittimità internazionale.
In tale contesto, si dovrebbe spiegare, perché è stata votata con il voto contrario di parti preponderanti della sinistra radicale (penso anche, in altro ruolo, al Presidente della Camera) la missione in Afghanistan, mentre, nelle scorse settimane, si è deciso di scagliare l'anatema nei confronti della missione in Iraq e salvare quella in Afghanistan. Ma i problemi, in termini di coerenza, verranno al pettine e verranno riproposti in quest'aula anche domani.
In conclusione, credo sia necessario ed importante che questi chiarimenti vengano forniti all'opposizione, al centrodestra, che si è sempre fatto guidare dall'interesse nazionale. Noi abbiamo votato senza guardare a logiche di schieramenti ed all'opportunismo del momento; abbiamo votato in favore delle missioni militari quando eravamo all'opposizione (penso al quinquennio 1996-2001, quindi al Governo Prodi), successivamente, quando eravamo al Governo e, adesso, nel ruolo di opposizione, perché la difesa dell'Occidente e l'interesse nazionale vengono prima di ogni piccolo calcolo politico.

PRESIDENTE. Colleghi, vi ricordo che ci sono ancora altri undici iscritti su questo provvedimento ed ulteriori venti sui due successivi punti posti all'ordine del giorno: lo dico ciò per formulare un sommesso invito alla sintesi.
È iscritto a parlare l'onorevole Tanoni. Ne ha facoltà.

ITALO TANONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge di conversione in discussione rappresenta il definitivo imprimatur alla missione di pace in Libano, che ha già visto un condiviso ed ampio sostegno con il via libera delle competenti Commissioni il 14 settembre scorso.
Il Mediterraneo è, com'è noto, attraversato storicamente da focolai di guerra e da tensioni persistenti che ovviamente, per la nostra posizione strategica, hanno in diverso modo influenzato la nostra politica estera. Sappiamo anche, purtroppo, che dal 12 luglio la già incandescente crisi mediorientale è sfociata in un scontro militare al confine tra Libano e Israele, precipitando l'intera area ai momenti più bui della sua storia. Il prezzo in termini di vite umane pagato in questi 34 giorni di scontri violenti è stato molto alto, senza dimenticare il dramma legato alla ricostruzione, alla grave situazione dell'economia libanese, già colpita dal blocco aeronavale, e alle catastrofi ambientali originate dai bombardamenti in una regione travagliata e già in passato destinataria di diverse risoluzioni ONU.
In un quadro internazionale così difficile, grazie al deciso intervento dell'ONU si è riusciti a stabilire una tregua tra le parti. La risoluzione n. 1701, adottata l'11 agosto dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, ha infatti stabilito che la forza internazionale UNIFIL dovrà assistere il Governo libanese nel far rispettare il cessate il fuoco in atto, nel riguadagnare la piena sovranità su tutto il proprio territorio e nel permettere un valido aiuto alle popolazioni civili del sud del Libano duramente colpite da oltre un mese di guerra. L'Italia, in ossequio alla risoluzione ONU, ha deciso di impegnarsi attivamente e in prima fila per mantenere la pace in Medio Oriente, stabilendo l'invio di un consistente contingente militare e assumendo direttamente, assieme alla Francia, la responsabilità di un comando della forza internazionale UNIFIL, che già da marzo prossimo sarà guidata dal nostro paese.
Ritengo che la risoluzione n. 1701 abbia segnato la fine della gestione unilaterale della politica internazionale che, nel corso di questi anni, ha mostrato tutti i suoi limiti, culminati nel fallimentare intervento in Iraq, che ha visto anche la partecipazione del nostro paese e che registra nelle ultime settimane un drammatico inasprimento delle violenze, tanto da spingere il segretario generale dell'ONU,Pag. 59Kofi Annan, ad esprimere profonda preoccupazione per la drammatica evoluzione della crisi irachena.
In questo scenario di guerra, invece, l'Europa, con l'Italia in prima fila, sta facendo sentire nuovamente la propria voce. Il nostro Governo si è fin dall'inizio attivato alla ricerca di una soluzione per giungere ad una tregua tra le parti al confine con il Libano. La Conferenza di Roma sulla crisi libanese del 26 luglio, da alcuni criticata quale propaganda di Governo, ha gettato le basi per giungere ad un cessate il fuoco e ad un impegno decisivo per la pace da parte dell'Europa e della comunità internazionale in Libano.
Sappiamo tutti come ci siano state ore in cui era forte il rischio che la risoluzione ONU rimanesse lettera morta e che il fragile equilibrio raggiunto si spezzasse, con prevedibili effetti devastanti su quell'area del Mediterraneo.
Non è un caso, infatti, che il vicesegretario dell'ONU, Malloch Brown, prima, e da ultimo il vicepremier israeliano, Simon Peres, abbiano riconosciuto il ruolo decisivo e fondamentale svolto fin dall'inizio dal premier Prodi e dal ministro D'Alema ai fini dell'applicazione della risoluzione n. 1701, soprattutto in quelle ore in cui gli altri partner europei vacillavano, frenati da pur legittime e comprensibili esitazioni. Pur sapendo che la missione di pace in Libano è impegnativa ed altamente rischiosa, così come lo sono tutti gli interventi militari, il rischio di una nuova escalation di violenze, che avrebbe portato ad un drammatico allargamento del conflitto, è stato il motivo per il quale si è reso necessario un intervento rapido ed efficace dell'Europa e della comunità internazionale, e che ha, inoltre, legittimato l'adozione del decreto-legge di cui oggi chiediamo la conversione in legge.
L'Italia ha risposto alle richieste dell'ONU con alto senso di responsabilità e con grande sollecitudine, per far fronte ad una crisi che, oltre al dispiegamento di una forza militare, impone interventi umanitari e il sostegno dello sviluppo sociosanitario della popolazione civile, consapevoli, come giustamente dice il ministro Parisi, che la missione di pace è lunga, difficile, costosa ma doverosa.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI (ore 18,03)

ITALO TANONI. Anche in quest'ottica il nostro Governo, così come il nostro alleato francese, ha richiesto regole di ingaggio chiare, che, da un lato, specificassero la natura dell'intervento della forza armata in Libano e, dall'altro, garantissero, per quanto più possibile, la sicurezza dei nostri soldati impegnati sul campo. Bene ha fatto il Presidente Prodi ad esigere regole di ingaggio chiare, precise e robuste. Abbiamo lavorato alla costituzione di una cabina di comando efficiente al Palazzo di vetro, che possa essere in grado di gestire tempestivamente ogni tipo di emergenza che si presenterà sul campo. Siamo convinti che il buon esito della missione UNIFIL 2 aprirebbe scenari favorevoli alla soluzione della questione mediorientale, fino a poco tempo fa difficilmente ipotizzabile. L'auspicio, infatti, è che la missione in Libano - che vede finalmente un'Europa forte e coesa sulla politica internazionale e l'ONU finalmente protagonista sullo scenario mondiale - possa inoltre ridare speranza al difficile processo di pace tra Israele e Palestina, questione irrisolta da decenni che pesa sulla coscienza di ognuno e dalla cui risoluzione dipende gran parte della stabilità futura di quell'area geografica.
Ritengo, pertanto, che la missione di pace nella quale siamo oggi impegnati sia il primo passo verso una politica internazionale di largo respiro, in grado di rilanciare le relazioni diplomatiche e la collaborazione fra gli Stati del Mediterraneo orientale e del vicino oriente. Con questo obiettivo la politica e la diplomazia dovranno continuare il loro incessante lavoro, consapevoli degli stretti legami intercorrenti tra scenari di guerra anche molto distanti. Concordo con chi crede che le truppe possono servire a preservare quello che solo la politica ha precedentementePag. 60realizzato. Questo significa ridare voce alla politica, vuol dire percorrere ogni via del dialogo con pazienza, senza rinunciare a nulla, nel tentativo di comporre le divergenze, anche le più aspre. Siamo consapevoli della vanità di ogni sforzo militare senza una strategia politica di ampio raggio, tesa a comprendere tutte le diversità in campo. L'Italia si è posta come interlocutore credibile ed autorevole nei confronti di quei paesi dell'area mediorientale che, primi fra tutti Libano e Israele, in più occasioni hanno espresso la loro sfiducia nei confronti del nostro paese.
Il coinvolgimento italiano nei principali dossier internazionali, non solo mediorientali, testimonia del valore della politica estera del nostro paese.
Non dimentichiamoci che la nostra azione politica, che in queste ore, sta andando avanti incessantemente, potrà essere espressa con più forza e vigore dal mese di gennaio, quando, infatti, l'Italia avrà l'onore e l'onere di occupare il seggio non permanente del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Sfrutteremo, come più volte ha dichiarato Prodi, quest'opportunità per accrescere l'impegno e il ruolo dell'Unione europea nelle Nazioni Unite, consapevoli che più Europa ci sarà nelle Nazioni Unite, più esse saranno forti e convincenti.
Siamo, dunque, impegnati nel processo di pacificazione di quell'intera area senza forzature, in virtù di una volontà chiara e condivisa, così com'è emerso dal pressoché unanime voto favorevole nelle competenti Commissioni parlamentari.
Questo è il contributo che, a mio avviso, l'Italia ha il dovere di dare per il rafforzamento ed il potenziamento della giovane e fragile democrazia libanese e per salvaguardare la più volte minacciata esistenza ed integrità territoriale di Israele.
Auspichiamo che su questo disegno di legge di conversione vi sia un voto il più possibile ampio e condiviso, così come richiamato in più occasioni dal Capo dello Stato.
Mi auguro, a tal fine, che anche in quest'occasione l'opposizione dimostri senso di responsabilità, affinché i nostri soldati possano operare sotto l'egida dell'ONU e in virtù di un ampio consenso delle forze politiche del nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Forlani. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO FORLANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, nella scorsa estate un conflitto sanguinoso ha investito ancora una volta il Medio Oriente ed ha avuto origine, nella generale instabilità di quell'area, da attacchi della formazione di Hezbollah ad Israele, alla sua sicurezza, alla sua integrità, ai territori della Galilea. Si è verificato poi un eccidio da parte di Hezbollah di militari israeliani e il rapimento di altri. La comunità internazionale, quindi, è giunta alla consapevolezza che, rispetto all'insidia di una formazione non rappresentativa del Governo libanese, di una formazione paramilitare, di un movimento che non esito a definire terroristico nella sua azione, vi è la necessità di porre fine alla minaccia che questa formazione riveste per lo Stato di Israele.
Già da troppo tempo il problema era stato disatteso dalla comunità internazionale. Precedenti risoluzioni delle Nazioni Unite che riguardavano questo problema erano state disattese. Questa situazione anomala tanto per la condizione di Stato sovrano della Repubblica libanese, quanto per la condizione di Stato sovrano di Israele è stata lasciata incancrenire con grave danno di Israele e di tutta l'area, area in cui si è sviluppato un conflitto sanguinoso a seguito della comprensibile reazione di Israele, che però si è scatenata con esiti assai drammatici.
Infatti, ha poi colpito, come spesso avviene in queste condizioni, tanti cittadini inermi, popolazioni civili innocenti, funzionari delle Nazioni Unite della missione UNIFIL e sono stati usati armamenti micidiali, che possono avere effetti devastanti anche in futuro. Quindi, è stato un conflitto sanguinoso, un ulteriore elemento di instabilità in quell'area, già in questi anni così fortemente investita dai conflitti ePag. 61dall'instabilità, al quale soltanto una iniziativa ferma del multilateralismo e della comunità internazionale avrebbe potuto porre un argine.
È così maturata in tempi brevi la risoluzione n. 1701 delle Nazioni Unite, che ha costituito l'unica condizione in grado di garantire il cessate il fuoco nell'area. Una risoluzione che prevede il disarmo di Hezbollah, che prevede il cessate il fuoco, che prevede un incremento di quella che prima era la debole ed inefficace missione UNIFIL, così come era stata deliberata e costituita ormai qualche decennio fa. Questo atto deciso della comunità internazionale ha indotto i contendenti alla tregua, che fortunatamente si è verificata.
Naturalmente, rispetto alla risoluzione, occorrerà essere conseguenti, occorrerà realizzare le disposizioni in essa contenute. Le contingenze, lo scenario internazionale del momento, i presupposti storici di questa vicenda hanno portato l'Italia a trovarsi in prima linea nell'assunzione di una responsabilità prevalente rispetto all'incremento e al rafforzamento della missione stessa.
Ci sono momenti nei quali non ci si può tirare indietro, ci sono momenti in cui alcuni paesi più di altri per tante ragioni si trovano di fronte alla necessità di assumere determinati oneri, anche pericolosi, anche molto impegnativi. Questo è stato il caso, in particolare, dell'Italia, nella crisi di questa estate, ma è stato più in generale il caso di alcuni dei maggiori paesi dell'Unione europea.
Le circostanze drammatiche in cui ci siamo trovati non consentivano di disattendere questa necessità. Sottrarsi avrebbe significato contraddire una linea di politica estera adottata dall'Italia, ma anche nell'Unione europea in questo ultimo decennio, fatta propria con convinzione dagli ordinamenti, dalle classi dirigenti dei maggiori paesi europei: la consapevolezza della necessità di un coinvolgimento della comunità internazionale rispetto a quelle crisi, a quei focolai, che pongano a repentaglio l'incolumità delle popolazioni civili, che possano minare la stabilità della regione interessata, provocando effetti a catena, che possano incancrenirsi e produrre gli effetti devastanti dei flussi migratori indotti, dei rifugiati, della devastazione anche materiale, infrastrutturale, dei territori interessati.
Le vicende che interessarono aree molto vicine a noi, come quella balcanica negli anni Novanta, l'aggravarsi di quei conflitti proprio sotto i nostri occhi di fronte ad una reazione inizialmente «soporifera» della comunità internazionale e tutto ciò che questa situazione produsse in termini di sofferenza delle popolazioni, di instabilità e di effetti a catena ci ha spinto negli anni ad acquisire la coscienza della necessità di pronto intervento, laddove le parti interessate non siano autonomamente in grado - per motivi soggettivi o anche per circostanze oggettive - di porre termine ai conflitti, ai massacri e regolare autonomamente le proprie contese.
In questo spirito, con questo tipo di cultura e di visione ed avendone riscontrato il fondamento con le tragedie negli anni della Bosnia, del Kosovo, del Ruanda, della Somalia, non avremmo potuto in alcun modo sottrarci a quella chiamata in soccorso che proveniva dal Libano nella fase tanto delicata della scorsa estate. Purtroppo sappiamo che il Medio Oriente è una polveriera. Il disarmo dell'ala militare e dei bracci armati di Hezbollah ed Hamas (infatti Hezbollah ed Hamas sono anche partiti politici, presenti rispettivamente nella vita parlamentare del Libano e addirittura forza di Governo nell'ambito della Autorità nazionale palestinese), che sono tanto spesso forieri delle iniziative che danno vita all'instabilità e ai conflitti, diventa necessità ormai ineludibile affinché gli scontri e le contese di carattere politico che ancora interessano quei territori possano finalmente essere risolti.
Di importanza centrale ritengo che sia il recupero da parte del Governo libanese di quella sovranità che deve essergli riconosciuta e che deve potere espletare in modo effettivo; centrale è anche la soluzione del problema palestinese con la creazione di uno Stato in grado di convivere con Israele, entro confini certi e conPag. 62atteggiamenti di reciproca legittimazione e riconoscimento. Accanto a questi due problemi vi è un'altra questione centrale, di cui forse oggi siamo portati a parlare meno, sia perché ormai la situazione sta degenerando da qualche anno, sia perché il Libano e la questione palestinese in questa fase attirano maggiormente la nostra attenzione. Tuttavia, in Iraq è ancora in corso una guerriglia spietata e quotidiana che mina la stabilità del Governo e del Parlamento, ricostituiti in virtù del processo costituzionale e democratico posto in atto in questi anni e che dà luogo ad un vero e proprio genocidio tendenziale di sciiti. Continui massacri ed attentati si verificano contro questa etnia che è maggioritaria nel paese e che grazie al nuovo sistema democratico, dove contano prevalentemente i numeri, detiene le maggiori responsabilità legislative e di governo. Si tratta di problemi tra loro in qualche modo tutti collegati, che forse si possono anche ricondurre ad una comune strategia di destabilizzazione; strategia di rendere non risolvibili i conflitti e non superabili i focolai di guerra e che fa parte di un comune terreno di azione che dovrà impegnare, anche nei prossimi mesi, la comunità internazionale.
Il rafforzamento della missione UNIFIL, con una forza che può costituire nel contempo un momento di interposizione tra Israele e gli hezbollah, costituisce anche un momento di deterrenza nei confronti di eventuali intenti volti a scatenare nuovamente il conflitto. Questa missione sta producendo già alcuni timidi risultati, che comunque vanno nel senso perseguito dalla risoluzione delle Nazioni Unite, segnando il ritorno di questo organismo, della cui forza ed efficacia siamo stati per un momento tutti portati a dubitare negli scorsi anni. È un momento di forte ritorno delle Nazioni Unite, del multilateralismo, della cooperazione paritaria tra i paesi nella soluzione delle crisi.
I primi risultati sono sotto i nostri occhi: il Libano comincia a dispiegare le sue forze nel sud del paese e ciò, al di là di quanto poi accadrà nei fatti, è soprattutto un segnale, una prima spinta nei confronti di questo paese così martoriato da tanti anni, che era divenuto ormai una sorta di colonia della Siria, per riaffermare una piena sovranità sul proprio territorio. Ciò costituisce un segnale positivo, in quanto si tratta di un paese che, sia pure con alcune contraddizioni, legate in particolare alla presenza degli hezbollah, appare fondato su un ordinamento democratico, con una classe dirigente prevalentemente moderata, che vuole nuovamente assurgere alla dignità di paese sovrano che possa cooperare al fine di realizzare condizioni di pace in quell'area.
Un altro risultato derivante dal consolidamento della missione delle Nazioni Unite è rappresentato dal ritiro israeliano e dai primi accenni della ripresa del dialogo tra l'autorità nazionale palestinese e Israele nel senso auspicato e previsto dalla road map. Importante è stata la scelta del governo di unità nazionale per la collaborazione ai fini del rientro di Fatah nell'esecutivo anche con ministri tecnici, legati alla società civile e non a formazioni di origine estremistica.
Sussistono in ogni caso alcune difficoltà, derivanti ad esempio dal fatto che Hamas pretende che il nuovo Governo non proceda al riconoscimento di Israele. Tuttavia, già la sola ripresa di collaborazione tra Hamas ed Abu Mazen è una conseguenza positiva del processo che si è innescato con la risoluzione n. 1701.
Ascoltavo prima il collega Briguglio che richiamava le recenti dichiarazioni di Nasrallah, concernenti il rifiuto di deporre le armi e la riluttanza ad attenersi alle disposizioni delle Nazioni Unite.
Sono sicuramente aspetti critici forti che ci rendono ben consapevoli dei rischi di questa missione e di un fronte molto caldo e pericoloso per i nostri soldati rispetto al quale è ancora difficile avanzare previsioni sugli effettivi sviluppi. Tuttavia, era comunque una condizione ineludibile che la comunità internazionale doveva realizzare quanto meno per consentire l'inizio di una ricomposizione pacifica degli equilibri nell'area.
I nostri soldati e gli altri che sono parte di questa missione non devono esserePag. 63comunque lasciati soli, non devono essere abbandonati al loro ruolo così difficile, ma così nobile, importante ed essenziale per gli equilibri mondiali. La loro presenza deve essere accompagnata da una costante azione politica da parte dei Governi, anche del nostro.
Vi è una nuova consapevolezza del potenziale dell'Europa nelle crisi internazionali. L'Europa è considerata in molte aree nel mondo come il soggetto ideale per guidare la soluzione delle crisi, per guidare i processi di pace, per mediare nelle contese territoriali, economiche, etniche che investono tante aree del mondo. Oggi l'Europa è protagonista: la politica estera e di sicurezza comune trova una sua grande occasione di esercizio unitario, univoco, ad una sola voce nelle attuali sfide poste nel Medio Oriente. Credo che questa occasione debba essere colta con forza e con determinazione. Il nostro paese deve giocare la sua parte e deve svolgere il suo ruolo; la nostra opinione pubblica e le nostre forze politiche devono supportarlo.
Mi auguro che questa presenza così cospicua nel sud del Libano possa essere la premessa per un grande processo di distensione che investa non soltanto il Libano ed Israele, con la rimozione e lo smantellamento delle milizie armate non governative, ma riguardi anche l'Iraq e porti ad un coinvolgimento nel senso di cooperazione alla distensione anche della Siria e dell'Iran. Nei confronti di questi ultimi il tentativo di dialogo resta, a mio avviso, l'unica strada per renderli partecipi di tali processi e non ostacoli o, addirittura, fomentatori di tendenze destabilizzanti.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Bianco. Ne ha facoltà.

GERARDO BIANCO. Signor Presidente, ho ritenuto corretto ascoltare fin da questa mattina l'intero dibattito che si sta svolgendo, a cominciare dalle ottime relazioni introduttive dell'onorevole Ranieri e dell'onorevole Pinotti. Credo, infatti, che su questa materia così delicata e problematica sia necessario ascoltare le voci di tutti. Spiace, signor Presidente, la solitudine nella quale svolgiamo i nostri ragionamenti, e ringrazio il viceministro Intini che con grande pazienza ci sta ascoltando.
Sia dalla maggioranza sia dall'opposizione ho sentito argomenti interessanti, stimoli e ragionamenti che meritano di ottenere una comune considerazione. Sono state dette cose giuste, ma anche qualcuna non propriamente giusta.
Ad esempio, non mi pare corretto ritenere l'intervento del Governo confuso, precipitoso: non possono esservi dubbi sul fatto che sia il Presidente del Consiglio che il ministro degli esteri e quello della difesa abbiano operato sulla questione del Libano con grande prontezza, tempestività e fermezza, che hanno giovato non solo alla soluzione del problema ma anche alla creazione di quelle condizioni che oggi tutti riconoscono, cioè la ricollocazione delle operazioni in Libano nel quadro di una politica europea, in armonia con l'iniziativa dell'ONU.
Non sono un mistico della continuità e della discontinuità, anche perché ritengo che la presente operazione in Libano si inserisca nella migliore tradizione della politica estera italiana. È però indubbio che tale iniziativa ha riconquistato una collocazione nel quadro europeo che precedenti iniziative non avevano certo ottenuto, tale da rendere oggi l'Europa protagonista, insieme con gli Stati Uniti d'America, e al tempo stesso responsabile - come bene ha detto l'onorevole Ranieri - rispetto alla situazione in Medio Oriente e a quella cruciale della sicurezza di Israele.
È una operazione dunque assolutamente positiva, che rende legittima la soddisfazione del Governo, anche se non mi pare che vi sia del trionfalismo. Il Governo, infatti, anche attraverso le parole del suo ministro della difesa, ha dimostrato di essere ultraresponsabile: c'è poco da stare allegri rispetto alla sfida in atto in questa realtà particolarmente aggrovigliata!
La determinazione del Governo, dunque, ha sbloccato una situazione sempre più angosciante e pericolosa; ha vintoPag. 64anche i dubbi che, all'interno della stessa maggioranza, si erano manifestati nel momento in cui sembrava che la Francia si sottraesse alle proprie responsabilità. La lungimiranza dei nostri uomini di Governo è stata quella di andare avanti comunque, anche perché - sono d'accordo con l'onorevole Forlani - la situazione era tale da richiedere un ineludibile intervento dell'Italia, secondo una tradizione - e qui si inserisce il discorso della continuità - che apparteneva e appartiene - onorevole Intini, lei lo ricorderà! - alla storia della politica estera italiana.
Non solo per fare un omaggio, ma anche per sottolinearlo, devo ricordare che l'attuale intervento ha un precedente rilevante. Vorrei qui ribadire che ha avuto ragione - a mio avviso - il generale Angioni quando ha lamentato che quell'importante intervento, che ha lasciato una eredità preziosa della presenza dell'Italia in Libano, non è stato ricordato. Non è solo la rivendicazione di un passato importante, né quella di meriti storici e politici, che ci invita a riconsiderare la storia passata del 1982. Vorrei dire che perfino quel dibattito andrebbe riletto, poiché in esso troveremmo alcune delle preoccupazioni emerse anche oggi nel corso della discussione in quest'aula.
È importante perché si tratta di capire quali siano i problemi realmente esistenti all'interno della questione libanese. È un riconoscimento doveroso e anche una possibilità di comprendere meglio ciò che accade, considerando che alcune questioni erano già presenti nel passato.
Gli italiani svolsero il loro compito splendidamente, ma la questione rimase aperta, così come rimase aperta quella del rafforzamento dell'autonomia e della sovranità del Libano, di fronte alla quale ci troviamo oggi.
La questione della sovranità del Libano, in un certo senso, è legata anche alla sistemazione dell'equilibrio mediorientale. Infatti, sul Libano si sono indubbiamente scatenate le mire e la tentazione di forze egemoniche di vari paesi.
La situazione si è aggravata anche perché uno dei paesi che giocava comunque un ruolo nell'equilibrio locale è venuto meno.
Il problema che oggi dovrebbe essere esaminato dai colleghi dell'opposizione non è tanto quello di difendere l'intervento degli italiani in Iraq. L'errore che viene commesso - lo dico ai rappresentanti della maggioranza - non è quello di motivare e giustificare quell'intervento, che personalmente non ho considerato in termini negativi (infatti, durante la votazione in Parlamento, mi sono astenuto). L'errore che è stato commesso è di avere collegato tale intervento ad una sorta di giustificazione della politica di Bush in Iraq: un oggettivo errore, che si va sempre più manifestando. Direi che, forse, sarebbe meglio difendere le ragioni di quell'intervento, considerandolo un intervento di pace, al fine di tentare più fortemente di costruire una democrazia in Iraq, democrazia che purtroppo è messa quotidianamente in discussione dalla guerriglia in atto. Sarebbe meglio se si distinguesse tra tale intervento e la politica di Bush, che allora fu appoggiata e che oggi sempre più viene definita sbagliata dagli stessi protagonisti della politica americana.
Ciò è molto importante, perché la perdita di un attore come l'Iraq determina indubbiamente lo scatenamento di mire egemoniche che rischiano di riversarsi sul Libano con tentazioni piuttosto pericolose, che possono portare alla destabilizzazione del Libano, anziché alla sua stabilizzazione e, quindi, alla piena ricostruzione della sua sovranità. Questa è la questione cruciale: ciò che sta avvenendo in questi giorni lo dimostra.
Ad esempio, mi sono chiesto perché, all'indomani della tregua, il Presidente della Siria abbia reso immediatamente una dichiarazione così dura e violenta e perché, contemporaneamente, vi siano state prese di posizione da parte dell'Iran in un'apparente unità di intenti, quando in realtà vi era una competizione sottostante. Direi che questi aspetti devono essere attentamente analizzati, perché al di là del lavoro che svolgeranno (credo molto bene)Pag. 65i nostri soldati e l'UNIFIL in quella zona, è necessario che la politica estera e la politica diplomatica dell'Italia, dell'Europa e anche degli Stati Uniti d'America si dispieghino in tutta la loro forza, per tentare di prendere un filo, attraverso il quale realizzare una politica di ricostituzione di un equilibrio nell'area.
Vedo con preoccupazione la tendenza ad immaginare la situazione del Libano entro schemi concettuali che possono essere fuorvianti. Quando sento dire - partendo da un'indubbia vicenda che ha sconvolto gli equilibri anche politici del mondo come l'attentato dell'11 settembre 2001 - che ci troviamo ormai nel quadro di una quarta guerra mondiale, si rischia di considerare ormai tutto come un grande scenario bellico, al quale - come tale - non si può che rispondere ovviamente con la forza. In realtà, la politica antiterroristica richiede insieme un'azione decisa e netta di individuazione delle fonti per stroncare il terrorismo e richiede soprattutto politiche adeguate per cercare di eliminare le stesse possibilità del terrorismo di espandersi. Sono politiche che devono essere, insieme, di dialogo e di sviluppo.
Occorre tener presente un dato: qualsiasi Stato ha sempre la preoccupazione di non lasciarsi invadere dal terrorismo. Ciò vale sia per la Siria sia per l'Iran. Ecco perché non riesco a capire, ad esempio, le ragioni per cui si obietta al Presidente del Consiglio di avere incontrato il Capo del Governo iraniano. Il Governo iraniano va, in qualche maniera, sottoposto a pressioni ferme e dure.
È giusto che l'ONU prosegua la propria politica in tal senso, perché il fatto che quel paese disponga dell'energia atomica crea indubbiamente rischi nel mondo. Proprio per evitare che ciò accada, tuttavia, non bisogna rinunciare a usare le misure diplomatiche e politiche che possono consentire di conseguire tale obiettivo.
Ecco perché, a mio avviso, l'apertura al dialogo in tutte le direzioni deve essere mantenuta. Non è un caso che la stessa nuova politica inaugurata dal Segretario di Stato statunitense Rice - dobbiamo riconoscerlo - non sia contraria a stabilire dialoghi in tutte le direzioni: non va dimenticato, infatti, che, nel momento in cui il Governo siriano ha assunto una posizione ferma contro coloro che avevano attaccato l'ambasciata americana, vi è stato perfino un ringraziamento. Vorrei rilevare, al riguardo, che ci troviamo nell'ambito uno scenario nel quale è molto importante che la politica abbia la capacità di intessere rapporti.
Vorrei insistere sul fatto che vi deve essere un obiettivo ben preciso: creare le condizioni per garantire la piena sovranità del Libano. Vi sono, del resto, alcuni aspetti sui quali occorre riflettere.
Vorrei infatti ricordare che, all'indomani della tregua, il capo degli Hezbollah chiese quasi scusa e fece una affermazione sulla quale dobbiamo meditare. Egli, infatti, ha affermato che forse non avrebbe portato a termine il sequestro dei due militari israeliani - operazione peraltro sconsiderata e condannata dall'ONU (e spero che tale questione si risolva presto) - se avesse sospettato che Israele avrebbe potuto reagire in modo così violento. Si è trattato, in un certo senso, di una sorta di ammissione del fatto che la sua azione non era stata interamente e compiutamente apprezzata dalla popolazione libanese.
Egli, tuttavia, successivamente ha ricostituito la sua forza e si presenta oggi, nel grande rassemblement di Beirut, per riaffermare la propria posizione ed attaccare il Governo Siniora, definito «debole». Sono questi i temi sui quali dobbiamo meditare per cercare di individuare risposte politiche adeguate.
Il disarmo di Hezbollah è sicuramente una questione cruciale e centrale, tuttavia deve essere effettuato secondo le modalità stabilite dall'ONU; in altri termini, deve essere l'esercito libanese, nelle forme che saranno consentite, a disarmare le milizie. Su questo punto è necessario, a mio avviso, essere fermi, ed in tal senso c'è bisogno della solidarietà di tutti.
Mi rivolgo, in tal senso, all'onorevole Briguglio: ammesso che non si riuscisse ad effettuare tale operazione di disarmo, vorrei rilevare che la sconfitta sarebbe non dell'Italia, ma dell'Organizzazione dellePag. 66Nazioni Unite. Infatti, sarà concretamente possibile garantire un quadro di stabilità, di equilibrio e di pace in Medio Oriente soltanto attraverso l'iniziativa dell'ONU.
L'azione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite a favore di tali paesi risulta importante anche per trovare una soluzione in ordine alla delicatissima ed intricata questione palestinese, la cui premessa è costituita proprio dalla riuscita della missione in Libano.
Ciò perché è evidente che se l'ONU e l'Italia (che partecipa a questa grande operazione) riusciranno a favorire la ripresa e la stabilizzazione del paese, si innescherà indubbiamente un processo di diffusione nell'intera area. Vorrei rilevare, infatti, che, sotto questo punto di vista, la stabilità del Libano potrà determinare il ridimensionamento delle mire egemoniche di quei paesi che puntano a diventare potenze regionali e che possono esercitare in quell'area la loro influenza.
Certo, occorre un'attenta preparazione per realizzare una grande conferenza di pace ed operare un intervento di carattere anche economico, nonché per favorire la forte ripresa di quel dialogo nord-sud già avviato trent'anni fa dalla cultura europea, ma che si è successivamente frantumato. Ricordo, a tale riguardo, perfino le speranze suscitate dal cosiddetto Accordo di Barcellona; esso sembrava dovesse, sotto tutti i punti di vista, suscitare nuove speranze e favorire alcune iniziative, ma poi è tramontato.
Un forte e significativo intervento, da questo punto di vista, darebbe vita indubbiamente a quella che è forse l'operazione più capace di portare la pace: la relazione economica tra i paesi. Questi paesi soffrono di alcune questioni aperte, come quella idrica. Non dimentichiamoci che esiste una grande questione, che è quella della disponibilità delle acque - una questione che è nelle mani della Turchia -, che riguarda il Medio Oriente. Vi è poi il problema dell'attraversamento delle grandi reti dell'energia. Potrebbero inoltre essere stabilite delle relazioni, rafforzando i porti come punto di vantaggio. Dunque, l'economia come forma di riscatto, perché molte volte è nell'umiliazione economica, nell'isolamento ed anche nel colonialismo economico che vengono a determinarsi fenomeni di rigetto e quindi anche l'alimentarsi del terrorismo. Vi è quindi, al riguardo, una grande strategia da portare avanti.
Noi siamo un paese di medie dimensioni e abbiamo una media influenza sullo scenario internazionale. Non possiamo esaltarci se abbiamo avuto oggi successo, ma non dobbiamo neppure deprimerci pensando che la nostra politica sia ininfluente. Non mi è piaciuto sentire oggi un collega affermare che non siamo presenti su nessun giornale. Giustamente, l'onorevole Pinotti scuoteva la testa, dicendo che ciò non è vero. Basta infatti leggere Le Monde o Die Welt o qualche altro giornale per vedere come hanno riconosciuto il ruolo dell'Italia. Anzi, hanno scritto perfino degli articoli con titoli italiani: «grazie Italia».
Dunque siamo presenti e dobbiamo farlo con il senso della misura, che non può che essere l'ispirazione giusta per azioni difficili. Infatti l'operazione di fronte alla quale noi ci troviamo è un'operazione difficile. Se c'è la soddisfazione del primo momento, non ci può essere la soddisfazione di aver già concluso, perché siamo soltanto agli inizi di un'opera complicata, che deve essere portata avanti con determinazione. Tuttavia le premesse sono state create e la premessa più importante è l'accordo con i paesi europei. Ho sentito dire, sempre questa mattina, da parte di un collega, che in sostanza l'Italia avrebbe preso gli schiaffi in faccia, perché non viene riconosciuta la sua funzione nella guida della forza ONU presente sul territorio libanese. Ebbene, ricordo che quando venne detto da parte del ministro della difesa che l'Italia era pronta anche a prendere la guida della spedizione dell'operazione nel Libano, immediatamente da parte dell'opposizione si disse: ecco, ci si ingrandisce al di là delle misure! Ma io dico che è stato saggio da parte del Governo non scatenare forme di competizione. È stato saggio evitare che si potesse determinare - in una questione cosìPag. 67delicata, che richiedeva l'intervento di tutti - una specie di prerogativa di primazia rivendicata dall'Italia. L'importante è stare dentro l'operazione. L'importante è pilotare l'operazione nelle forme giuste, e le forme giuste sono quelle di mantenere la coesione dell'Europa. Non va dimenticato che la Germania, che in un primo momento non voleva intervenire, è successivamente intervenuta con 2.500 forze della marina, e questa non è una cosa irrilevante.
Ma è soprattutto importante il fatto che l'Europa entra finalmente da protagonista; questo senza pretendere ovviamente delle esclusive, perché senza la collaborazione degli Stati Uniti d'America non si riescono a realizzare queste operazioni. Come ha detto nel suo intervento l'onorevole Ranieri, da questo punto di vista l'operazione è anche una forma di garanzia nei confronti di Israele, e credo che ciò sia stato percepito dal Governo israeliano. Israele non ha perduto la guerra, checché ne dicano. Non l'ha vinta, ma forse non voleva neppure vincerla, ed è bene che non abbia voluto vincerla. Comunque Israele capisce che la sua politica non può essere affidata, come nel passato, soltanto alla sua forza militare. La pretesa di poter fare a meno dell'Europa, e in un certo senso anche dell'ONU, per imporre una sua linea, che è quella dell'autonomia difensiva e dell'autonomia senza fidarsi di nessuno, credo sia dismessa.
Oggi, Israele accetta la forza dell'Europa e deve capire che, in un certo senso, potrà essere più sicuro e certo nel momento in cui l'Europa ne garantirà la sicurezza. Israele deve anche capire che, per ottenere ciò, c'è bisogno di una politica aperta, diversa, nei confronti degli insediamenti: una politica che sia attenta a risolvere la questione palestinese, l'altra chiave di volta connessa con quella libanese.
Vi sono segnali che chi governa ha sempre, perché, come sappiamo, esiste il cosiddetto (utilizzo un'espressione del linguaggio cristiano) carisma del potere: chi va al potere, come vi è andato Hamas, una qualche accortezza deve inevitabilmente averla. Le forme di diniego del dialogo e l'evocazione di faccende che appartengono al passato vanno evitate. Quante volte noi abbiamo risolto i nostri problemi italiani mettendo una pietra sul passato e guardando avanti? Ebbene, se vogliamo guardare avanti, dobbiamo attivare tutte le possibilità di sviluppo degli elementi di pace, degli accordi di pace, con una pazienza e con una capacità diplomatica che richiedono tutto l'impegno del nostro Governo (che, come dicevo, si è mosso bene).
Naturalmente, saluto con piena soddisfazione il senso di responsabilità di gran parte dell'opposizione (mi pare che i colleghi della Lega non abbiano espresso alcun parere al riguardo, perché non sono intervenuti nella discussione), che, per ragioni varie, che nascono anche da specifici punti di vista, decide di votare a favore del decreto-legge in esame. Non possiamo che sollecitarvi a questo, colleghi. Il nostro è un appello che abbiamo il dovere e il diritto di rivolgervi perché, in questo come in altri momenti, è in gioco tutta la realtà del paese, è in gioco anche il successo del paese. Esiste una continuità che non possiamo dimenticare. Esiste una storia, quella della nostra presenza nel Mediterraneo, che non possiamo dimenticare. Forse, con questo intervento dell'Italia, l'Europa ha anche capito quanto sia importante il Mediterraneo. Questa è un'altra linea che deve essere sviluppata.
Credo che con il nostro voto unanime possiamo marcare una pagina positiva. Quando le polemiche devono chiudersi (il che non significa rinunciare a valutazioni diverse delle cose), nel momento in cui l'interesse comune del paese prevale, credo che a vincere siano tutti: sia il Governo sia l'opposizione (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Cacciari. Ne ha facoltà.

PAOLO CACCIARI. Signor Presidente, colleghi, la deputata Elettra Deiana, del mio gruppo, è già intervenuta sulle questioni politiche di ordine generale.
Per parte mia, condivido la valutazione secondo la quale l'interposizione ONU traPag. 68Libano ed Israele costituisce una condizione imprescindibile ma, di per sé, non sufficiente ad ottenere lo sradicamento delle cause di una guerra che è parte del conflitto arabo-israeliano. Se, quindi, l'iniziativa non dovesse immediatamente passare la mano alla politica, al negoziato, alla diplomazia - per la ricerca di una pace giusta e condivisa tra palestinesi ed israeliani -, allora sì che i contingenti militari ONU sarebbero davvero, inevitabilmente, esposti a tensioni e rischi di coinvolgimento nelle ostilità.
Il successo della missione militare non dipende dalla potenza di fuoco che sarà schierata sul campo, ma da quanto saprà essere più rapido il processo di riconciliazione e di reciproco riconoscimento delle parti confliggenti. Al contrario, chi pensa che la soluzione definitiva stia nell'aiutare una delle due parti ad infliggere più sofferenze all'altra, fino ad annientarla, incorre in una tragica illusione.
Sessant'anni e più di storia di Medio Oriente dimostrano che non si spezza una spirale di guerra con guerriglia, controguerriglia, terrorismo, controterrorismo, aumentando l'intensità delle vendette e delle ritorsioni. Lasciatemi citare un aforisma di Gandhi: l'occhio per occhio rende cieco il mondo. Ecco allora che bisogna porre l'accento, da subito, anche ad altre opzioni non militari e ad altre azioni positive. Anzitutto, gli aiuti alla ricostruzione materiale del Libano: 30 miliardi sono stanziati dal provvedimento in discussione; essi non devono essere visti come occasione di business, per far «tornare a casa» i pochi fondi stanziati dai paesi donatori, ma come contributo davvero disinteressato allo Stato libanese.
Inoltre, gli aiuti alla ricostruzione devono giungere alla società civile locale, alle comunità colpite e disperse, iniziando dalle centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi che, in varie ondate, nel 1948 e, successivamente, con la guerra del Kippur nel 1973, ed ancora con l'occupazione del Golan, sono state espulse e vivono nei campi profughi, nella più completa disperazione ed emarginazione, anche nei paesi arabi. Già prima, durante ed ora, dopo la «pioggia di fuoco» di questa estate è all'opera in Libano, a Gaza e in Cisgiordania - ma anche in Afghanistan e perfino in Iraq - un esercito di pace, silenzioso e poco costoso, di operatori internazionali volontari appartenenti ad un gran numero di organizzazioni laiche e cattoliche, professionalizzate ed umanitarie che, senza alcun fine di lucro né partigianerie d'altro tipo, prestano le loro energie al solo scopo di assistenza umanitaria e di ricostruzione di relazioni sociali solidali, per gettare ponti di dialogo e convivenza interetnica ed interreligiosa, per rafforzare la cultura dei diritti fondamentali, a partire da quello della vita.
Ritengo che questi nostri connazionali - serve fare alcuni nomi? Angelo Frammartino, suor Rosa Sgorbati - rappresentino, nel mondo, la faccia della nostra nazione più convincente e che le loro siano le nostre braccia più forti ed efficaci al fine della costruzione della pace. Penso alla rete europea dei corpi civili di pace, penso ai progetti del Centro studi difesa civile - che, tra l'altro, hanno ancora un milione di euro stanziati e mai spesi -, penso ad esperienze del Tavolo della pace, penso ad organizzazioni quali la Caritas, alla comunità Papa Giovanni XXIII, a Beati i costruttori di pace, a Un ponte per..., a Emergency, ai Consorzi di solidarietà italiana, e potrei continuare per descrivere una folta galassia di una piccola costellazione che ci dà speranza nella possibilità di fuoriuscire dalle logiche della guerra.
Penso che lo Stato italiano dovrebbe valorizzare e promuovere queste forme di intervento non armato e non violento in tutte le aree di conflitto, sia in chiave di prevenzione, sia come vero e proprio peace-keeping, sia nelle fasi della ricostruzione istituzionale, civile e psicologica delle comunità e delle persone messe a dura prova dai conflitti armati. Queste funzioni non possono essere svolte dalle truppe militari, che sono addestrate ad altri fini. Esse sono distinte ed autonome. È la stessa Agenda per la pace delle Nazioni Unite, del 1992, di Boutros Ghali, che prevedeva l'istituzionalizzazione di garantiPag. 69di pace e volontari civili per interposizioni non armate. È la stessa Comunità europea, con la risoluzione del 1949 che istituisce i caschi blu e, poi, con la raccomandazione del Parlamento europeo del 1999 che chiede agli Stati membri di costituire corpi nazionali di volontari. È la stessa legge italiana sull'obiezione di coscienza, la n. 230 del 1998, ed il successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri attuativo della medesima, del 2004, che prevede di sperimentare forme di difesa civile non armata e non violenta, come indicato dal comitato consultivo istituito nell'ambito del servizio civile volontario.
Questo era il terzo e ultimo punto che volevo trattare, contenuto del resto anche nel programma elettorale dell'Unione, dove vi è scritto che noi ci battiamo per la costituzione a livello europeo di un corpo civile di pace, i cosiddetti caschi bianchi, in grado di intervenire nelle aree di sofferenza e conflitto con gli strumenti del dialogo, dell'interposizione non violenta, della diplomazia e della mediazione. Occorre ora che il Governo dia forma e sostanza a queste indicazioni, finanziando, addestrando e inviando in Libano, a Gaza e in Cisgiordania delle missioni di forze civili di volontari, operatori internazionali di pace, facilitatori del dialogo, diplomatici delle comunità locali, cooperanti della riconciliazione, costruttori di comunità umane consapevoli dei propri diritti e capaci di affermarli. Sono queste le uniche vere alternative alla guerra (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Giuditta. Ne ha facoltà.

PASQUALINO GIUDITTA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, i Popolari-Udeur si dichiarano favorevoli all'approvazione del decreto-legge in discussione che ci vede da oggi impegnati in Parlamento in un confronto che auspico sereno e costruttivo, come già si è verificato nelle Commissioni difesa ed esteri della Camera e del Senato, dove abbiamo lavorato tutti con grandissimo senso di responsabilità, facendo emergere che la pace è un valore che non ci può dividere, ma ci deve assolutamente unire.
La drammatica vicenda della guerra tra Israele e Libano, secondo alcuni analisti internazionali, è scaturita principalmente da due errori. Il primo, commesso dagli hezbollah, che hanno attaccato Israele, sottovalutandone la reazione militare. Il secondo, la reazione eccessiva di Israele. Tuttavia, questi errori hanno da subito fatto emergere la reale dimensione di un conflitto che ha mostrato ancor di più le forti contraddizioni e contrapposizioni religiose, storiche, culturali e territoriali che da sempre affliggono il Medio Oriente, in special modo l'area interessata al conflitto.
Il nostro Governo ha avvertito da subito l'urgenza di una azione forte e significativa, l'intuizione della necessità di un ampio coinvolgimento internazionale, che è divenuto la condizione fondamentale per affrontare con efficacia la delicata vicenda libanese. L'assunzione di responsabilità, tramite la ritrovata centralità ed il riaffermato protagonismo dell'ONU, avvenuta con l'approvazione all'unanimità della risoluzione n. 1701, la partecipazione e l'impegno unitario dell'Europa, il superamento della logica dell'intervento unilaterale, da tempo messa in atto dagli Stati Uniti con risultati discutibili, sono elementi che ci hanno dimostrato che la vicenda del Libano può sicuramente rappresentare l'inizio di un nuovo percorso di cooperazione internazionale che si pone come obiettivo il raggiungimento della pace nelle aree di crisi.
Alla luce di queste considerazioni, la missione si distingue dalle precedenti per il diverso quadro di riferimento e per la natura della legittimazione internazionale che siamo stati in grado di costruire. È per questo che essa deve rappresentare l'inizio di un nuovo modo di affrontare la costruzione della pace nel mondo. Infatti, dopo i drammatici attentati dell'11 settembre, la ricerca della pace e della sicurezza è divenuta una condizione necessaria a cui tutti dobbiamo guardare anche in un'ottica nazionale.Pag. 70
Onorevoli colleghi, la pace non può prescindere dalla sconfitta del terrorismo, che deve avvenire anche attraverso la ricerca del dialogo con le popolazioni islamiche moderate, che guardano all'Occidente con grande attenzione. Anche noi dobbiamo iniziare ad avere la consapevolezza della necessità di dialogare con quella parte del mondo. L'affermazione della statualità del Libano, con la conseguente smilitarizzazione degli hezbollah, il riconoscimento dei diritti di Israele e del popolo palestinese costituiscono le condizioni fondamentali del nostro impegno.
Siamo anche consapevoli delle enormi difficoltà della missione, ma dobbiamo ritenerla, per tutte le considerazioni svolte e per il rispetto del dettato dell'articolo 11 della nostra Costituzione, necessaria ed irrinunciabile per il conseguimento degli obiettivi che ci siamo prefissati.
In Parlamento abbiamo saputo far maturare sulla vicenda, anche con alcune distinzioni, un clima unitario. Infatti, dopo le iniziali divisioni, che sicuramente ci avrebbero indebolito agli occhi del mondo e, soprattutto, agli occhi di chi vuole minare la nostra pace, abbiamo dimostrato un grande senso di responsabilità e siamo stati in grado di proiettare il nostro paese a svolgere un prestigioso ruolo internazionale, divenendo uno dei protagonisti principali fra le nazioni che perseguono la costruzione della pace nel mondo.
Signor Presidente, tutto questo lo dobbiamo anche all'ottimo lavoro svolto dal Governo, alla sua capacità di guidare i processi, all'equilibrio raggiunto fra le forze politiche. Tutto ciò ha rafforzato l'immagine dell'Italia in politica estera e noi popolari-Udeur non possiamo non sottolinearlo ed essere soddisfatti per i risultati che si stanno ottenendo.
In ordine a questa vicenda, abbiamo sostenuto le tre grandi condizioni che un padre della patria quale Alcide De Gasperi riteneva essenziali e fondamentali per le prospettive del nostro paese: mi riferisco alla costituzione di un'Europa sempre forte ed unita, alla necessità di essere presenti nel Patto atlantico, alla centralità delle Nazioni Unite.
L'impegno dell'Italia alla risoluzione di questa grave e dolorosa crisi può rappresentare il primo passo per uno sforzo comune e coraggioso dell'Europa, per la ricerca della pacificazione dell'intero Medio Oriente e per la soluzione della crisi tra Israele e Palestina.
La nostra partecipazione alla missione UNIFIL, istituita con la risoluzione delle Nazioni Unite, da subito è stata considerata molto rischiosa e impegnativa, ma assolutamente doverosa e necessaria, perché si inquadra in una strategia di politica estera che ha come obiettivo la soluzione dei conflitti mediorientali di cui la situazione del Libano rappresenta uno degli aspetti più rilevanti. In tale contesto, il nostro paese ha svolto un ruolo di primo piano, come testimoniano l'intensa attività diplomatica e la convocazione a Roma della conferenza di pace sul Libano.
Il nostro obiettivo è porre con chiarezza tre condizioni politiche, che vanno individuate per arrivare ad una pacificazione di lungo termine della regione: primo, il raggiungimento di un accordo intralibanese e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Libano; secondo, la soluzione della questione palestinese, che rappresenta il punto di svolta per la stabilizzazione degli equilibri non solo del Medio Oriente; terzo, che vi siano progressi anche nei rapporti tra Israele e Siria decisivi non solo per la futura stabilità del Libano, ma anche per l'evoluzione interna palestinese, visti anche i rapporti della Siria con il radicalismo islamico.
Non trascurerei, inoltre, un altro aspetto fondamentale, che è quello dei rapporti commerciali tra l'Italia e questi paesi. Quindi, la nostra partecipazione alla missione sin dal primo momento ha fatto emergere da parte di tutte le forze politiche legittime preoccupazioni sia per la sicurezza del nostro contingente, sia per il ruolo che esso avrebbe dovuto svolgere.
In ordine a ciò, dobbiamo prendere atto, anche se la missione presenta molti rischi che non possono essere nascosti, chePag. 71il Governo ha lavorato per realizzare le migliori condizioni. La chiarezza delle regole di ingaggio ci assicura una sufficiente condizione di sicurezza dei nostri militari. Si è superato anche il limite delle precedenti missioni ONU, in riferimento alla catena di comando, definita questa volta attraverso una fase di comando che interagisce tra livello politico e militare.
Onorevoli colleghi, i primi effetti di questa missione possono già considerarsi positivi. Infatti, si registra l'inizio di un processo di stabilizzazione che dipende, a nostro parere, dal grande coinvolgimento internazionale, dall'opera svolta dai nostri militari in seno ad una missione che va sicuramente considerata nella sua complessità, anche umanitaria, politica e sociale.
La nostra politica estera è e sarà una politica di pace, perché, per dirla con una felice espressione di Aldo Moro, il dialogo è l'alternativa alla guerra!
Mi auguro che l'approvazione di questo provvedimento raggiunga la più ampia condivisione e che il confronto su temi così strategici non si interrompa mai, ma ci veda impegnati da subito in una più ampia discussione, anche su tutte le altre missioni che ci vedono protagonisti con i nostri contingenti.
Signor Presidente, annuncio fin d'ora il voto favorevole del gruppo dei Popolari-Udeur sul provvedimento in esame.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Picchi. Ne ha facoltà.

GUGLIELMO PICCHI. Signor Presidente, l'Italia, dopo l'Iraq e l'Afghanistan, manda un contingente di pace anche in Libano. Noi stiamo discutendo in questa sede del provvedimento che riguarda quella missione quando i nostri militari sono già in Libano, per cui gran parte della discussione avviene ex post e non ex ante.
L'Italia ha mandato un proprio contingente in Libano per assolvere il proprio compito internazionale e il gruppo di Forza Italia, come opposizione, ha dato responsabilmente fin qui il proprio appoggio alla missione con i voti espressi in Commissione il 18 agosto, prima, e la scorsa settimana, poi. Tuttavia, non possiamo esimerci dall'esprimere i nostri dubbi su questa missione.
Il primo dubbio che manifestiamo è sull'enfasi assolutamente fuorviante e inappropriata con cui il Governo italiano ha propagandato, sia in Italia sia all'estero, il proprio attivismo nel far cambiare direzione all'ONU in questa circostanza. La verità è un'altra. Io sono un deputato eletto all'estero, che vive tra Londra e Berlino, quindi, in due realtà, in due centri diplomatici molto importanti. A mio avviso, il «pallino» nel predisporre e nel far approvare la risoluzione n. 1701 non l'ha avuto l'Italia, ma la Francia. L'Italia, infatti, non fa parte del Consiglio di sicurezza dell'ONU, mentre la Francia sì. La bozza di risoluzione n. 1701, che può soddisfare molti appetiti perché dice tutto sebbene poi taccia su molte circostanze, è stata predisposta non dall'Italia ma dalla Francia, con l'appoggio degli Stati Uniti. Ed è stata approvata, guarda caso, dopo che Israele aveva quasi concluso sul campo le proprie operazioni militari. Conseguentemente, giudichiamo totalmente inappropriato il modo con cui il Governo italiano ha gestito, almeno sui media, il ruolo svolto nel far cambiare direzione all'ONU. Certamente, la stampa ha apprezzato l'attivismo italiano - così è stato definito dagli organi di stampa inglesi o tedeschi -, ma ciò ridimensiona nei fatti l'orgoglio dell'Italia, del Presidente del Consiglio dei ministri Prodi e del ministro degli affari esteri D'Alema.
L'Italia è stata, quindi, uno spettatore in ordine a queste decisioni, seppure uno spettatore attento e, per certi versi, attivo. Tuttavia, va rilevato come il nostro paese si fosse cacciato in un vicolo cieco. Noi avevamo dato il nostro commitment a mandare le truppe in Libano (non si sapeva come, dove e quando) ed eravamo entrati in un'impasse. Ancora una volta, a sbloccare il tutto è stato l'intervento della Francia, del Presidente Chirac, il quale ha annunciato in televisione che avrebbe mandato delle truppe addizionali a UNIFIL 1,Pag. 72per rafforzarla; dopo questo annuncio sono seguiti quelli degli altri paesi quali la Spagna, la Germania e la Turchia e così via, i quali hanno dato la loro disponibilità all'invio di truppe in Libano.
Il secondo dubbio che esprimiamo è sulla risoluzione n. 1701. Tale risoluzione è, a nostro avviso, come il dibattito che sta avvenendo in quest'aula: ciascuno vi trova quello che vi vuole ritrovare, ciascuno dà le proprie motivazioni facendole proprie e tirandole da una parte e dall'altra. La realtà è un'altra. La risoluzione n. 1701 ci dice che non abbiamo una nuova missione UNIFIL, ma abbiamo semplicemente il proseguimento di una missione precedente. Inoltre, anche i contenuti della missione non sono fondamentalmente cambiati.
Nella prima missione UNIFIL la finalità dichiarata era quella di far sì che il Libano, il Governo regolare libanese, potesse estendere la propria sovranità su tutto il territorio nazionale. È evidente che, dopo un quarto di secolo, ancora non vi è riuscito, se siamo dovuti arrivare alla risoluzione n. 1701, la quale dice che il Governo libanese può riprendersi il controllo della parte meridionale del suo territorio, che, nei fatti, è nelle mani di Hezbollah. Comunque, in tutti questi anni un obiettivo è stato sicuramente raggiunto: nell'ultimo anno c'è stato il ritiro delle truppe siriane, che è sicuramente una novità rispetto alla situazione precedente. Tuttavia, l'influenza dei siriani su Hezbollah e, quindi, sul territorio meridionale del Libano è evidente. La risoluzione non scioglie il nodo principale, ossia: come si disarma Hezbollah e come si rende, nei fatti, possibile al Libano di controllare il proprio territorio? Il Libano non dispone di un esercito regolare, che sia nelle condizioni, in quanto ad addestramento ed equipaggiamento, di prendere il controllo del territorio nel sud e di disarmare Hezbollah, così come si auspica nella risoluzione n. 1701.
Di fatto, questo viene confermato dalla richiesta che, seppur più o meno smentita, è arrivata dal Governo libanese, il quale aveva chiesto al nostro ministro della difesa un aiuto in nuovi armamenti ed addestramenti, per far sì che l'esercito libanese, male armato ed addestrato, potesse svolgere il compito che gli era stato assegnato dalla risoluzione.
Il terzo elemento di dubbio riguarda i presupposti politici che hanno portato alla missione in Libano. Sebbene noi, lo abbiamo già annunciato, abbiamo una posizione favorevole a che l'Italia continui ad essere protagonista con i propri militari all'estero - e, quindi, vediamo una continuità nel fatto che l'Italia svolga missioni di pace all'estero, siano esse di peace-keeping o di peace-enforcement -, tuttavia una svolta nella politica estera la vediamo nei presupposti che stanno alla base della stessa. Vediamo un progressivo raffreddamento dei rapporti atlantici storici con gli Stati Uniti, un'eccessiva vicinanza ai paesi arabi ed una freddezza, se non addirittura inimicizia, che ampia parte della maggioranza dimostra nei confronti di Israele: per noi questo non è accettabile, perché la politica estera italiana si deve rifare sempre all'asse formato dal dopoguerra ad oggi.
Sicuramente, abbiamo una novità negli ultimi trent'anni ed è rappresentata dall'Unione europea. È importante che l'Italia sia protagonista all'interno dell'Unione europea e faccia sentire la propria voce, ma non possiamo accettare un ministro degli esteri che «va a braccetto» con gli hezbollah. Infatti, seppure sia un partito politico che fa parte del Parlamento libanese, certamente non nasconde la sua vicinanza alle formazioni terroristiche e, come ha dimostrato nella manifestazione di qualche giorno fa, si è trovato a celebrare la vittoria nei confronti di Israele, dicendo - a nome del suo leader, un presunto sceicco - che hanno più di 20 mila tra razzi e missili pronti, per mantenere le proprie posizioni. Non credo che questi missili siano diretti verso la Siria o la Giordania, ma verso Israele.
Ritengo che ancora più gravi siano certe richieste, che vengono dalla maggioranza, di sospendere il trattato di cooperazione nei confronti di Israele.Pag. 73
Mi stupisce il fatto che qualcuno abbia trovato grave che, l'anno scorso, vi siano state operazioni militari congiunte tra la NATO e Israele.
Non credo che questa sia la politica estera del dialogo multilaterale e pacifista che chiedeva l'Unione. In realtà, l'Italia ha assunto un'iniziativa unilaterale, si è spinta in avanti, al buio, senza confrontarsi con i partner europei. Questa Italia è stata salvata solo dalla Francia che, in sede ONU, ha assunto un ruolo guida, ha sbloccato la situazione, permettendoci di non rimanere da soli nella missione in Libano.
L'ultima questione che personalmente mi lascia perplesso è il modo con cui il Governo è arrivato a realizzare questa missione, o meglio le modalità strettamente parlamentari. Questo, forse, può interessare di meno chi è fuori di quest'aula, ma credo che tale fatto vada comunque denunciato.
Il Governo, sicuramente in una situazione di emergenza, in continua evoluzione, nel mese di agosto ha riferito alle Camere e le Camere hanno espresso un voto pressoché unanime, dando mandato al Governo, ma avevano chiesto al Governo stesso di venire a riferire in Parlamento prima che ogni iniziativa venisse assunta. Di fatto, oggi ci troviamo a discutere sulla conversione di un decreto-legge, ma le nostre truppe sono già in Afghanistan. Al riguardo, vorrei richiamare alcuni esempi. La Spagna, la Germania e la Turchia, prima di aderire alla missione e, quindi, prima di dare il loro committment in termini di uomini e mezzi, hanno atteso la deliberazione del proprio Parlamento. Noi lo facciamo ex post e questo è sicuramente un dato che, da un lato, svilisce il ruolo del Parlamento e, dall'altro, dimostra che, di fatto, in questo caso la politica estera è stata utilizzata per attuare una bassa politica interna.
La mia preoccupazione è che il rapido, tempestivo, forse anche troppo, intervento del Governo, l'eccessiva fretta con cui l'esecutivo ha espresso la disponibilità nei confronti della missione in Libano nascondano, di fatto, problemi di politica interna. Tra qualche mese ci troveremo a ridiscutere la missione in Afghanistan ed è indubbio che la maggioranza è a disagio di fronte alla conferma di tale missione. Credo che ora, in tempi non sospetti, vada denunciato un fatto: non è accettabile che il Governo baratti il Libano con l'Afghanistan con la scusa di costi elevati, di un ampio commitment di uomini e di mezzi.
Non possiamo supportare questa logica e siamo qui a denunciarla, dopo averla constatata in tempi non sospetti.
Dopo aver espresso i miei dubbi dal punto di vista strettamente politico, nutro una serie di perplessità riguardanti gli aspetti operativi della missione.
Il primo riguarda sicuramente (come molti hanno ricordato) la catena di comando dell'ONU, che spesso è elefantiaca e non permette una facile comunicazione tra il livello politico e il livello militare. Si pensa che aver messo un generale a New York possa far sì che, come per magia, questa catena di comando diventi snella, rapida efficiente e sappia rispondere alle esigenze sul campo. Ho seri dubbi. Speriamo per il meglio, ma è bene dire che l'ONU ha fallito tante volte; non auspichiamo che ci sia un fallimento anche in questo caso.
Il secondo punto è rappresentato dalla dotazione del nostro contingente. Abbiamo mandato delle truppe con un armamento essenzialmente leggero. Questo potrebbe essere assolutamente normale e spiegabile nell'ambito del dispiegamento di un contingente di 15 mila uomini; mi lascia però perplesso il fatto che sia i francesi che gli spagnoli abbiano inviato i carri armati. Allora viene un dubbio: non è che abbiamo mandato i primi uomini con armamento leggero semplicemente perché avevamo una certa fretta di inviare il contingente in Libano?
Regole di ingaggio. Siamo consapevoli che non si può divulgare al pubblico quali sono le regole di ingaggio, per motivi di riservatezza e soprattutto di sicurezza dei nostri militari, tuttavia ci sono tutti gli strumenti parlamentari per parlarne (si possono svolgere sedute secretate in Commissione). Non basta dire che le regole diPag. 74ingaggio sono robuste; robusto è un aggettivo che per me può andare bene, ma per altri può essere non sufficiente.
Il comando della missione. L'Italia contribuisce con 3 mila uomini sui 15 mila totali del contingente; la Francia ne ha meno di 2 mila, e in continuità con la missione precedente, mantiene il comando e lo terrà fino a marzo. Ho una paura: spero che la tregua reggerà e che non ci troveremo in situazioni difficili, però sentendo ciò che avviene - si legge anche sui giornali che le due frazioni si stanno riarmando, per cui Israele si sta preparando e gli hezbollah continuano a rifornirsi di missili e quant'altro -, non vorrei che ci si trovasse ad avere il comando della missione proprio nel momento in cui la tregua venisse rotta, perché ci troveremmo tra due fuochi e saremmo ostaggio degli hezbollah, con a destra la Siria e a sud gli israeliani.
Controllo delle frontiere con la Siria. Lì è stata inscenata una «macchietta» di politica estera, nella quale il nostro Presidente del Consiglio ha annunciato che la Siria avrebbe acconsentito ad avere alla propria frontiera guardie dell'Unione europea in abiti civili, che avrebbero controllato il confine. Mi pare sia arrivata una smentita della Siria e, quindi, il passaggio di armi, che sicuramente avviene, siano esse armi di provenienza siriana o di provenienza iraniana, permetterà con tutta tranquillità agli hezbollah di riarmarsi.
Dunque, questo scenario fa sì che la missione in Libano sia una missione pericolosa. Dicendo il nostro «sì» ne siamo consapevoli, ma vogliamo che anche la maggioranza sia consapevole di questa vicenda; vogliamo far presente alla maggioranza, soprattutto alla componente più pacifista, che è convinta - lo manifesta nelle marce della pace - che questa sia una pace giusta e quant'altro, che ci troviamo di fronte a dei contingenti militari tra due fuochi e che non andiamo lì senza alcun armamento, ma con i mitra. Per cui, questa è sì una missione di pace, ma armata. Ho sentito spesso la sinistra protestare contro missioni precedenti in Afghanistan e in Iraq, dicendo che non si può portare la pace con i mitra, ma mi stupisco, allora come oggi, che siano così favorevoli a questo tipo di pace. Forse, perché mettere dei soldati al confine con Israele rappresenta un tentativo anti-israeliano?
Vorrei concludere auspicando che i nostri militari in Libano possano portare avanti la loro missione senza alcun pericolo, sapendo di avere alle loro spalle il supporto del Parlamento e consci che i dubbi qui espressi - pur essendo favorevoli alla missione - non sono relativi al loro operato, bensì purtroppo ai presupposti politici con cui questa maggioranza ha dato l'avvio alla missione. Spero, infine, che i due soldati catturati dagli hezbollah siano rapidamente liberati, al fine di agevolare quanto prima il processo di pace (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Khalil. Ne ha facoltà.

ALÌ RASCHID KHALIL. Signor Presidente, signor viceministro, il mio partito vive con grande partecipazione questa iniziativa internazionale per stabilizzare la tregua in Libano ed avviare un processo di pace in Medio Oriente. In questa iniziativa vediamo una straordinaria peculiarità che la rende diversa, non soltanto in discontinuità con le altre iniziative che hanno visto partecipare l'Italia, perché per la priva volta la comunità internazionale decide di mettere mano e di intervenire direttamente per avviare a soluzione un conflitto che dura da più di 60 anni.
Grande merito di questo ha avuto il Governo italiano, attraverso un lavoro di costruzione paziente, determinato e costante. Noi non soltanto sosteniamo lo sforzo del Governo italiano, ma ce ne sentiamo anche parte.
La risoluzione n. 1701 è l'ultima di una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite che non hanno trovato applicazione. L'elemento di diversità risiede proprio in questo, ovvero nel diverso rapporto ed atteggiamento della comunità internazionale. SiPag. 75tratta di un elemento di grande novità, che induce alla speranza e richiama tutte le forze politiche di questo paese ad un forte senso di partecipazione e di responsabilità. Credo che il successo di questa iniziativa, al quale dobbiamo lavorare tutti, possa cambiare la storia di tutto il Medio Oriente. Finalmente, si è colmato con la politica, con un'iniziativa internazionale, con una risoluzione delle Nazioni Unite, quel vuoto che per anni ha dato l'ultima parola alla guerra e al terrorismo. Finalmente, la politica si trasforma in uno strumento e noi non abbiamo alcun dubbio sulla sua possibilità di incidere profondamente nella situazione, perché la comunità internazionale finalmente ha deciso di abbandonare una pratica diffusa per il Medio Oriente, ovvero quella dei «due pesi e due misure» e di parlare a tutti i contendenti con un unico linguaggio, chiedendo a tutti il rispetto rigoroso della legalità e del diritto internazionale.
Sono numerose le risoluzioni che non sono state rispettate e che sono all'origine della situazione complessa che vivono tutti i popoli del Medio Oriente. Sicuramente, particolarmente drammatica è la situazione del popolo palestinese, anche se tutte le volte che si parla di Medio Oriente, si parla della sicurezza di Israele, malgrado la situazione dimostri che il popolo più colpito è quello palestinese.
La storia attuale del Medio Oriente è la storia di tanti conflitti irrisolti. Si fa una forzatura indicando una data precisa o un atto preciso come inizio delle ostilità del Medio Oriente; i problemi sono tanti e richiedono maggiore attenzione, ma soprattutto una lettura basata su un concetto di verità e non di schieramento, altrimenti si rischia di non essere utili per nessuno.
La guerra e il terrorismo, che a nostro avviso appartengono alla stessa categoria con logiche diverse, stanno alla base della sofferenza di questi popoli. Oggi, dopo la drammatica esperienza dell'Iraq e dell'ultima guerra israeliana contro il Libano, è evidente a tutti che non si può più pensare alla guerra come strumento di soluzione dei problemi. Questo è quanto il Governo italiano ha fatto, a partire dalla Conferenza di Roma, attraverso un'opera di straordinaria capacità politica, coinvolgendo quasi l'intera comunità internazionale.
Oggi, questo intervento, caratterizzato dal multilateralismo, è ormai una realtà e riesce a favorire un concetto di diritto e di legalità internazionale. Per tale motivo, siamo abbastanza tranquilli anche rispetto all'esito di questa missione. Molti parlano di regole di ingaggio, ma occorre ricordare che questa missione è il frutto del consenso di entrambi i contendenti e, fino ad oggi, si è rivelata come un'iniziativa sicura; infatti, facendo tutti gli scongiuri del caso, non vi è stato alcun incidente e questo è un buon segnale. Pertanto, ritengo che, finché la missione rispetterà i compiti stabiliti dalla risoluzione delle Nazioni Unite, non correrà alcun rischio, perché si rivolge in modo paritario e a tutti, parlando del diritto alla sicurezza, alla sovranità statale - di tutti gli Stati del Medio Oriente -, cercando di coinvolgere l'Iran, la Siria e gli altri paesi.
I popoli del Medio Oriente sono come tutti i popoli del mondo, infatti anch'essi aspirano a vivere in pace e in sicurezza; è sbagliato vederli sotto un'altra ottica.
Quindi, se la comunità internazionale interviene con questo spirito e con questi compiti trova soltanto il consenso e l'accoglienza di tutti. Abbiamo visto come la popolazione libanese abbia accolto l'esercito italiano, come tutti gli altri componenti della missione nel sud del Libano: nessun incidente è avvenuto fino ad ora.
Mi colpisce molto il tentativo delle forze del centrodestra che vorrebbero privilegiare l'aspetto della guerra rispetto a quello della pace, sottolineando la questione del disarmo di Hezbollah e sottraendo importanza all'obiettivo principale che è portare pace in Medio Oriente. A mio avviso, ciò ci porta fuori strada e crea problemi inutili, tanto più che tale compito non spetta alle forze multinazionali, ma all'esercito ed al Governo libanese. Vi è una discussione tra le forze politiche libanesi che darà esiti su questo: positivi o negativi, questo riguarda loro. Fino ad oggiPag. 76vi è un rigoroso rispetto da parte di Hezbollah di tutti gli impegni che ha assunto; non si può dire la stessa cosa di Israele.
Lo stesso vale per tutte le altre risoluzioni delle Nazioni Unite che riguardano il Medio Oriente e non fanno parte della storia degli ultimi anni: la prima risoluzione parlava della spartizione della Palestina in due Stati e risale al 1947. Mi riferisco alla risoluzione che ha sancito la nascita dello Stato di Israele e che non fu rispettata da Israele perché condizionava quella nascita alla nascita di uno Stato palestinese che ancora non è nato: questo è il nucleo fondamentale del conflitto in Medio Oriente.
Abbiamo sentito anche le dichiarazioni di tutte le forze politiche che parlano di conflitto israelo-palestinese come la parte fondamentale all'origine di tutta la situazione di tensione e destabilizzazione che vive il Medio Oriente. Ci fa molto piacere che oggi tutti parlino della necessità di affrontare tale problema. La presenza internazionale in Libano è il primo passo per mettere mano anche agli altri problemi. Già si parla di una conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente; già si parla di un coinvolgimento della Siria: questo significa anche un ritiro israeliano dai territori siriani occupati. Credo che tale approccio di responsabilità dovrebbe caratterizzare l'atteggiamento di tutte le forze politiche. Non è una questione che riguarda il Governo o le forze politiche che compongono il Governo, ma una questione che riguarda il ruolo di tutta l'Italia, di tutta l'Europa, di tutta la comunità internazionale rispetto ad una situazione drammatica che si vive a pochi chilometri da qui e che potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza di tutti. Viviamo tale situazione come una grande opportunità, come un'occasione in cui la politica deve confrontarsi finalmente con i veri problemi del mondo.
Fino a pochi mesi fa eravamo tutti storditi dalla situazione in cui dilagano la guerra ed il terrorismo e sembrava che la politica avesse perso qualsiasi ruolo, che il diritto internazionale non esistesse, che le Nazioni Unite fossero scomparse. Oggi la situazione è fondamentalmente diversa. Se mi permettete, parlo anche di merito del Governo italiano nel determinare tale situazione, e non mi sembra che abbia dichiarato guerra a nessuno. Anzi, ha rafforzato i rapporti di amicizia sia con gli Stati Uniti, sia con Israele, sia con il resto del Medio Oriente.
È questa una condizione perché l'iniziativa possa avere successo, successo che è importante anche per disinnescare uno dei terribili risultati della guerra contro l'Iraq e della politica sbagliata dell'amministrazione americana, la guerra della inciviltà che sconvolgeva il mondo e che si stava trasformando poco alla volta in una guerra anche di religione.
Ha fatto bene il Santo Padre, e la chiesa cattolica, a compiere tutto quello sforzo per far rientrare il problema dovuto alla cattiva interpretazione delle sue dichiarazioni.
Temo che in una situazione di guerra e di tensione anche le religioni rischierebbero di esprimere il peggio che hanno dentro. L'iniziativa del Governo italiano e della comunità internazionale avrà effetti positivi anche su questo lato e questo è un elemento ulteriore che ci fa credere e aderire alla stessa iniziativa con tutta la convinzione, con tutta la determinazione e con tutta la forza che abbiamo (Rifondazione Comunista-Sinistra Europea - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il deputato Fontana. Ne ha facoltà.

GREGORIO FONTANA. La ringrazio, Presidente. Colleghi, non negheremo il nostro sostegno alla missione in Libano: lo aveva annunciato sin dall'inizio, lo ha ribadito proprio ieri a Napoli il Presidente Berlusconi. Non abbiamo neppure mai messo in discussione il via libera di Forza Italia, chiedendo però, e lo facciamo anche adesso con ferma determinazione, che gli obiettivi della missione siano chiari e rispondano alle finalità fissate dalle Nazioni Unite, che vi sia cioè un quadro chiaro sia dal punto di vista politico, ma anche daPag. 77quello operativo, che vi sia un contesto in grado di garantire il più possibile la sicurezza dei nostri militari impegnati in Libano.
La forza di interposizione ha il compito di creare condizioni che garantiscano, con il disarmo di Hezbollah, la sicurezza di Israele e la governabilità del Libano, messa anch'essa in discussione dalla presenza delle milizie armate che l'ONU ha stabilito (già nella risoluzione n. 1559 e poi ribadito nella risoluzione n. 1701) devono essere messe nella condizione di non attentare alla pace e alla coesistenza tra gli Stati della regione.
Forza Italia considera inaccettabile il tentativo di accreditare la presenza dei soldati italiani nel sud del Libano come un segnale di discontinuità rispetto alla linea di politica estera seguita dal Governo della Casa delle libertà. Lo diciamo a maggior ragione oggi, dopo che anche il ministro della difesa, Parisi, nei giorni scorsi a Nassyria ha definito «di pace», con un'enfasi che ci ha perfino stupito, ma positivamente - speriamo che non abbia cambiato idea nel frattempo -, la missione che abbiamo portato a termine in Iraq, secondo le modalità e i tempi sostanzialmente annunziati sin dall'inizio dell'anno dal Presidente Berlusconi e dall'allora ministro della difesa Martino, in coerenza con il mandato delle Nazioni Unite.
Le parole del ministro Parisi hanno del resto ricalcato quelle del Capo dello Stato, che più volte, e anche recentemente, ha sostenuto che tutte le missioni nelle quali sono impegnati gli italiani sono in sintonia con i principi e lo spirito della nostra Costituzione. Sono parole che hanno fatto giustizia di polemiche gratuite, non solo nei confronti del nostro Governo ma anche verso il predecessore del Presidente Napolitano, il Presidente Ciampi, che non avrebbe mai consentito che i soldati italiani potessero essere impegnati in compiti non in sintonia con la Carta costituzionale di cui egli è stato rigoroso garante, come - sono certo - sarà il Presidente Napolitano.
Eppure, non si può tacere su questa contraddizione.
Una parte della maggioranza - e non solo la sinistra cosiddetta antagonista - insiste nel presentare la missione che ci apprestiamo ad autorizzare come la conferma di una discontinuità che non c'è e non ci potrebbe essere. Anche certi settori del Governo hanno la tentazione di far percepire la missione in Libano come la missione dell'ONU; la definiscono la missione dell'Europa, come una missione alternativa alla linea dell'unilateralismo israelo-americana, come il recupero di una centralità delle Nazioni Unite.
Eppure, nonostante questa sfacciata propaganda, si sa che la missione è stata voluta proprio da Stati Uniti e Israele. Il video-messaggio di Al Zawahiri diffuso nei giorni scorsi, con l'affermazione che le forze dell'ONU sono nemiche dell'islam, chiarisce i termini della questione.
Questa missione, onorevoli colleghi, nasce con il consenso convinto proprio di Stati Uniti e Israele, ed è anche frutto della sintonia che si è manifestata tra Washington e Parigi, che hanno concordato la risoluzione poi approvata dal Consiglio di sicurezza. È una risoluzione che mette alla prova un'Europa che si era distratta (per usare un eufemismo) rispetto ai doveri che impone la lotta al terrorismo e al fondamentalismo.
L'Europa sarà costretta, da adesso in poi, a fare la sua parte ed è improbabile che le forze più avvertite della maggioranza non se ne siano rese conto, nonostante le concessioni fatte alla retorica della sinistra antagonista di casa nostra.
Abbiamo colto qualche prudenza in più negli ultimi tempi negli atteggiamenti e nelle parole del ministro degli affari esteri D'Alema e non solo del ministro Parisi, forse scioccati per la inqualificabile corsa a stringere la mano a un governante che vuole distruggere Israele e nega la Shoah, forse consapevoli finalmente (c'è almeno da augurarselo) di quale sia la posta in gioco di questa missione.
Certo, non possono aver sottovalutato, dopo la formazione del Governo di unità nazionale in Palestina, le dichiarazioni del portavoce di Hamas, il quale ha ribadito che la sua formazione vincitrice dellePag. 78ultime elezioni politiche non intende riconoscere Israele. Dichiarazioni che confermano l'alleanza tra Hamas ed Hezbollah e fanno prevedere una ripresa degli attacchi che potrebbe proprio riguardare e coinvolgere - così come si è lasciato sfuggire Chirac - il Libano e, quindi, anche la missione UNIFIL.
Sulla missione in Libano la maggioranza di Governo vuole un voto unanime. È una richiesta comprensibile, visto anche l'aria che si respira oggi in Medio Oriente. Quest'area è, senza dubbio, più calda e, quindi, più a rischio di quanto non fosse l'Iraq.
Sulla missione di pace in Iraq l'opposizione di allora espresse un voto contrario, con un atteggiamento che, come disse Fassino, «voleva accentuare i toni del nostro dissenso sulla missione irachena», per dare appunto un valore politico a quel gesto. Un atteggiamento che nella sua lettura più aggiornata contraddice chi chiede il voto favorevole del centrodestra, in nome di una coerente politica estera.
Oggi, la sinistra di Governo sembra aver dimenticato quella sua posizione; chiede con insistenza il voto della Casa delle libertà per la missione Libano e, per ottenerlo, persino il Presidente della Camera Bertinotti dice che sulle cose giuste più ampio è il consenso, meglio è.
Molti leader della maggioranza rimproverano poi all'opposizione, in caso di voto contrario, di far mancare il sostegno ai nostri soldati. Si fa leva, in questo caso, sul sentimentalismo un po' a prezzi stracciati, come se solo un'opposizione responsabile, come quella che noi rappresentiamo, potesse accettare un ricatto di questa natura o farsene condizionare nelle decisioni che deve assumere. Comunque, dovrete dire di sì: questo è stato un po' il ritornello dei colleghi della maggioranza.
Forse speravano di dividerci, di poter ottenere il consenso di qualche parte della Casa delle libertà e di giocare, su questa auspicata divisione dell'opposizione, una partita politica più ampia. Non hanno capito - né loro, né quanti, nelle nostre fila, hanno accennato a smarcarsi, annunciando il loro «sì» comunque e a prescindere - che i nostri dubbi e le nostre richieste di chiarimento sono sempre stati mossi da un profondo senso di responsabilità.
Il Presidente Berlusconi, proprio a Gubbio, aveva precisato: tuteleremo i nostri soldati, ma attenzione, perché le regole di ingaggio non rispettano le nostre visioni; le condizioni nelle quali si svolgerà la missione in Libano suscitano dei dubbi, che dovranno essere adeguatamente valutati.
Non erano preoccupazioni peregrine, se il generale Angioni, che ha guidato, nel 1982, il contingente italiano in Libano, in un'intervista rilasciata a l'Unità ha sostenuto che, una volta stabiliti mandato e regole di ingaggio dettagliate, deve poter esistere un forte spazio di autonomia nell'esercizio del comando sul campo; si tratta, ha dichiarato, di una questione vitale per la sicurezza degli uomini e per il successo dell'operazione. Si riferiva ad un'autonomia che, ad oggi, non è ben chiaro se sia garantita.
Sui rischi della missione fa fede poi il rapporto, redatto da fonti di intelligence europee, reso noto in questi giorni, in cui si evidenzia che il rischio principale è la possibile recrudescenza del conflitto e la capacità offensiva di Hezbollah, che dispone di mezzi di artiglieria e strategici con i quali è in grado di colpire Tel Aviv e Gerusalemme, e che gode di una rete di supporto in tutte le aree sciite del Libano meridionale, oltre ai ben noti finanziamenti di Siria ed Iran.
Nel rapporto testè citato si fa presente proprio che Hezbollah è un'organizzazione con capacità e presenza, a livello mondiale, paragonabile ad Al Qaeda; si precisa, inoltre, che in passato, tra le missioni già affidate alle forze armate libanesi, figura, nei documenti ufficiali, anche il compito di dare appoggio e sostegno all'attività di resistenza antisraeliana.
È questo lo scenario nel quale operano i militari di UNIFIL 2, i quali, scrivono queste fonti, vengono esposti ad una pluralità di rischi e minacce legata ad una serie di fattori esterni ed interni. Per queste ragioni, quindi, abbiamo sempre affrontato il problema della missione inPag. 79Libano con la massima preoccupazione, chiedendo chiarezza e tutela per i nostri soldati, i quali si trovano impegnati non nella marcia di Assisi, ma in una delle operazioni più difficili.
L'atteggiamento della maggioranza, tuttavia, rappresenta un altro risvolto sul quale vale la pena soffermarsi. Quando si mette in contrapposizione la missione in Libano con quella che si è conclusa in Iraq, infatti, non si tratta soltanto di un evidente tentativo di gettare benzina sul fuoco della polemica con il precedente Governo, che ha saputo farsi carico delle responsabilità che competono ad un grande paese come l'Italia.
Tale tentativo, infatti, è finalizzato - non si fa nulla, del resto, per cercare di nasconderlo, come abbiamo ascoltato anche oggi, in questa Assemblea - ad ottenere il ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan in un momento chiave dell'offensiva del terrorismo fondamentalista in quel paese, e proprio quando i contingenti impegnati nell'azione di contenimento e di contrasto stanno pagando, anche in termini di vite umane, prezzi molto alti.
Le frange della sinistra antagonista (il PDCI, i Verdi e Rifondazione Comunista) sostengono la missione in Libano presentandola come se avesse un segno diverso da quella ancora in corso in Afghanistan, e proprio sulla base di tale argomentazione pretestuosa vorrebbero che l'Italia, nell'assumere il nuovo impegno, disattendesse quello, altrettanto decisivo, che sta assolvendo a fianco dei paesi alleati a Kabul.
Ma cosa c'è di diverso nelle due missioni? Sono entrambe volute dall'ONU e tutte e due hanno l'obiettivo di mettere in condizione di non nuocere le forze che destabilizzano il Medio Oriente. Mi riferisco a quelle forze che attentano ai valori della convivenza ed alle speranze di una svolta democratica anche nei paesi che sono stati vittime del fondamentalismo.
Si tratta di forze che considerano irrinunciabile l'obiettivo della distruzione dello Stato di Israele, per i valori che esso rappresenta, che sono anche i nostri valori: i valori della tolleranza e della civiltà democratica. Lo ribadisco, in Libano ci saremo per difendere il diritto all'esistenza di Israele, che è la premessa della soluzione della questione palestinese. La pace in quella regione si potrà avere solo con la sconfitta dei terroristi e dei fondamentalisti, nelle loro molteplici versioni, tutte egualmente pericolose.
Dovrebbero far riflettere le parole pronunciate dal leader di Hezbollah, il quale in questi giorni ha detto che mai e poi mai accetterà il disarmo chiesto dalle Nazioni Unite, ribadendo le sue minacce ad Israele. Fanno riflettere le parole del numero due di Al Qaeda, che ha messo nel suo mirino la missione UNIFIL. Si tratta di rischi grandi, come ho ricordato. I soldati italiani dislocati nel sud del Libano potrebbero trovarsi tra due fuochi se Hezbollah dovesse riprendere l'attività ostile verso Israele e questo fosse costretto ancora una volta a difendersi. In che modo dovrebbero comportarsi, se una circostanza del genere dovesse verificarsi? Spero che il Governo ci fornisca elementi certi in proposito.
In che modo le nostre forze dovrebbero comportarsi se l'esercito libanese non dovesse riuscire a disarmare Hezbollah? E come dovrebbero reagire, se non dovesse essere interrotto il traffico di armi alimentato dai paesi confinanti, dalla Siria in particolare? Pensate davvero che basti, per stroncare questo traffico, qualche doganiere disarmato, che affianchi ai valichi di frontiera impiegati libanesi e siriani? Anche su quest'ultimo punto sarebbe opportuno avere una risposta chiara dal Governo, perché fino ad ora non ci sono state risposte a questi interrogativi così importanti.
Si è giocato in molte occasioni con le parole. Ci si è arrampicati sugli specchi. Si sono assunte posizioni per certi versi irresponsabili e si capisce perché, considerati i contrasti che lacerano la maggioranza. Continueremo a sollevare questi interrogativi, ma non per questo verrà meno il senso che abbiamo della responsabilità nazionale e il dovere che sentiamo come insopprimibile di garantire il nostro sostegno ai militari impegnati nella missionePag. 80libanese. Del resto, proprio i nostri soldati sanno bene per quale ragione sono in Libano e devono sapere che potranno sempre contare in Italia sul nostro sostegno, sulla nostra solidarietà e sulla nostra attenzione e pressione nei confronti del Governo, affinché tutti i mezzi adeguati e le risorse necessarie possano essere messe a disposizione per garantire lo svolgimento della missione, ma anche e soprattutto un'adeguata sicurezza delle nostre forze in campo.
Le nostre Forze Armate potranno anche contare sul sostegno, la solidarietà, la stima e il rispetto di quanti in questi anni, nei paesi dove hanno operato e nelle istituzioni internazionali e nei governi dei paesi alleati, ne hanno apprezzato la professionalità, il senso del dovere, lo spirito di sacrificio e la lealtà. Questi valori sono diventati un patrimonio di tutto il paese. Non lasceremo che questo patrimonio al servizio della pace e del contrasto al terrorismo venga compromesso. Anche per questa ragione non mancherà il nostro sostegno e non mancherà per evitare che un esito controverso della votazione possa essere letto come una vittoria di quanti vorrebbero accreditare una sconfitta, che non c'è stata, in sede di Nazioni Unite, di Stati Uniti e di Israele e spostare l'asse della nostra politica estera in direzione di un'equidistanza tra Israele e chi attenta al suo diritto all'esistenza.
L'Italia non sarà mai equidistante tra Israele e i terroristi e i fondamentalisti. Questo è il significato del nostro atteggiamento positivo, che si propone di incardinare la missione in un quadro di certezze rispetto alle modalità di svolgimento, agli obiettivi da raggiungere e ai capisaldi della nostra politica estera, da salvaguardare. Il nostro è un comportamento di una forza di opposizione che sa farsi carico delle responsabilità di Governo del paese (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Leoluca Orlando. Ne ha facoltà.

LEOLUCA ORLANDO. Signor Presidente, onorevoli deputati, la presidente Pinotti ed il presidente Ranieri hanno già esposto con chiarezza le ragioni e le conclusioni del dibattito nelle Commissioni difesa ed esteri. Potrei limitare il mio intervento esprimendo piena condivisione delle loro relazioni, sottolineando soltanto la complessità ed i rischi di una missione militare di pace, il cui successo non dipende soltanto dall'azione difficile e meritoria dei militari tutti, e dei nostri militari, ai quali va il nostro pieno sostegno; il successo della missione dipende, infatti, dalla capacità di dialogo, dipende dalla diplomazia e, in definitiva, dipende dalla cifra dell'azione politica. Quella complessità, come ha sottolineato con accenti forti e carichi di sensibilità politica ed umana la presidente Pinotti, esige una politica capace di volare alto, capace, cioè, di fare del diritto dei diritti umani, che è la pace, un'azione e non soltanto un valore da declamare.
Un dato ancora ritengo doveroso sottolineare. Siamo in presenza, dopo la caduta del muro di Berlino, del primo grande tentativo di superamento della logica delle guerre preventive, che hanno prodotto, in Iraq come in Libano, soltanto l'aggravamento delle già gravissime condizioni. Siamo in presenza del primo grande tentativo, dopo la caduta del muro di Berlino, di costruire azioni di pace nel pieno rispetto della legalità internazionale: azioni di pace per definizione, azioni internazionalmente legali. Dopo la caduta del muro di Berlino, è venuto meno un equilibrio costruito sulla contrapposizione dei blocchi. E l'umanità è oggi esposta al rischio della perfezione.
Il mondo, con la fine dei blocchi tradizionali, deve trovare altre ragioni di equilibrio e deve rifiutare la pretesa di taluno di avere e, poi, di esportare ed imporre, un perfetto modello di economia, un perfetto modello di politica, un perfetto modello di vita sociale, di considerare, in definitiva, perfetta, e poi imporla, la propria identità. Questa missione si inscrive proprio in tale contesto storico, culturale e politico. La convinzione è che il piùPag. 81grande errore, il più grande rischio per il mondo contemporaneo è la presunzione di avere e l'arroganza di imporre perfezione.
Il migliore antidoto, preventivo e curativo, contro fondamentalismi di ogni genere è proprio la legalità internazionale, che si caratterizza per multilateralismo e fraternità, per rispetto di identità e superamento di tanti buchi neri, talora interi continenti abbandonati per troppo egoismo. La legalità internazionale va intesa, quindi, come contrasto al terrorismo, che ha ormai preso il posto della tradizionale guerra quale strumento di risoluzione finale dei conflitti internazionali. È, questa, legalità internazionale che si sostanzia di antica cultura e nuova pratica di pace. È ciò che abbiamo registrato ad Assisi il 26 agosto: un'iniziativa di sostegno a valori antichi, ma pratiche nuove di pace.
All'interno di questa legalità internazionale, che è in piena sintonia con la legalità costituzionale di cui all'articolo 11, la missione in Libano si sviluppa cercando di determinare una discontinuità, non rispetto a politiche nazionali, ma rispetto ad anni di mortificazione dell'ONU; una discontinuità rispetto a paure di isolamento e derive di perfezione che hanno alimentato terrorismi e guerre preventive e che oggi alimentano intolleranze e fondamentalismi. Legalità internazionale è, nell'area mediorientale, condanna ferma di terrorismi e guerre preventive. Legalità internazionale è uno Stato palestinese sovrano. Legalità internazionale è garantire la sicurezza di Israele. Legalità internazionale è consentire che il Libano sia finalmente e veramente uno Stato sovrano e non più luogo di interessi internazionali troppo più grandi di questo piccolo Stato. È un tentativo rischioso, ma senza alternativa, che noi abbiamo il dovere di sostenere: noi di Italia dei Valori lo sosteniamo, pur consapevoli della dimensione storica e mondiale dei rischi e dei mutamenti culturali, politici ed economici, che tale tentativo hanno determinato, ma che tale tentativo potrà, certamente, concretamente realizzare (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Italia dei Valori e de L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Cicu. Ne ha facoltà.

SALVATORE CICU. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, alla fine di una giornata così intensa, rispetto a ragionamenti importanti e densi di argomentazioni ed a posizioni che, naturalmente, appaiono inseriti in contesti che, in qualche modo, appaiono contrapposti, credo che sia importante evidenziare un aspetto.
Credo che sia importante evidenziare un aspetto, ossia che emerga, in qualche modo, la verità rispetto ad un passaggio delicato, complesso e difficile quale quello appena avviato, in cui l'enfasi o il grande entusiasmo, a mio giudizio, dovrebbero essere sostituiti dalla cautela e dalla serietà che derivano dalla grande responsabilità che il Parlamento si assume nel cercare di individuare un percorso unitario, per dare maggiore forza e credibilità ad un'operazione che non è militare, ma è - e deve essere - politica, che deve manifestarsi nella capacità di capire le ragioni di partecipazione e, soprattutto, di capirle - aspetto che condivido - rispetto ad una ripresa della capacità dell'ONU di essere punto di riferimento; punto di riferimento che tutti noi auspichiamo possa svolgere, nella maniera più idonea, più efficace, più consona, più evidente e più credibile - ma anche, in termini operativi, più concreta - un'azione che abbia una visione, tuttavia, un po' diversa.
Infatti, nel momento in cui si ricorda, e vi è la memoria - drammatica - dell'11 settembre, la caduta delle Torri Gemelle, tutti noi, onorevoli colleghi, assistiamo a dichiarazioni che ci devono richiamare ad una visione che non può che essere complessiva. Tali dichiarazioni ci richiamano, infatti, all'evidente valutazione che non può - e non deve - essere di una singola situazione o di una singola legittimazione, ma che può - e deve - essere, invece, inserita in una strategia complessiva. Dunque, mentre il secondo uomo di Al Qaeda dice che bisogna colpire i caschi blu, è necessario impedire una legittimazione a tale tipo di organizzazione e di organismoPag. 82e ciò assieme ad una partecipazione - finalmente - di un'Europa che cerca di trovare una condizione diversa rispetto a tale schema. Credo che tutto ciò debba porci importanti e grandi interrogativi.
Allora, non vorrei che si facesse confusione. Qualche collega lo ha già sottolineato. Non dico ciò, seguendo lo schema di chi deve obbligatoriamente cercare, attraverso la demagogia, di rappresentare al meglio le proprie ragioni, ma lo dico perché ne sono convinto. Non si può trasferire il contesto di politica estera nelle beghe di politica interna, non importa se tali beghe siano relative al centrodestra o al centrosinistra. In altre parole, non si può far derivare una decisione così importante dalla necessità di parlare di discontinuità, di darsi un tono di nuova credibilità, perché vi è la necessità di dire: noi vogliamo fare bella figura rispetto ad altri. Questo è il contenuto di un editoriale pubblicato, qualche tempo fa, su Il Corriere della Sera. Mi ha colpito perché mi è sembrato appropriato.
Dunque, non ci deve essere - a mio giudizio - rispetto ad una situazione così importante, la necessità di inseguire la bella figura. Ci deve essere un'apertura vera ad un confronto, dal quale possa derivare un dialogo tra coloro che si ritrovano in principi comuni. Ho ascoltato l'onorevole Bianco, che ha citato, in maniera importante ed autorevole, un percorso storico di radici, un percorso di sofferenza, un percorso che ha riguardato la grande scelta della libertà, la grande scelta che, ha indotto a posizionarsi, in momenti difficili, nell'ambito di un legame che i Governi di centrosinistra e di centrodestra, in tutti questi anni, hanno poi proseguito.
Si tratta di un legame che noi non possiamo far finta di ignorare, ma dobbiamo invece esaltare ed enfatizzare, perché nella sua evoluzione storica ha fornito risposte concrete e importanti, ha dato la possibilità ad una nazione e ad un sistema politico di partecipare, dando un contributo fondamentale. Allora, è chiaro che in quello scacchiere, gli interessi, che vanno valutati attraverso quegli elementi che i più non conoscono, che devono però essere tradotti da coloro che hanno la responsabilità delle decisioni e, soprattutto, da parte dei Governi, vanno gestiti per dare la possibilità di crederci.
Nell'intervento in Commissione ho posto l'accento su un contesto che non ho assolutamente condiviso ed oggi lo faccio di nuovo perché, a mio giudizio, con un segnale di troppa disponibilità, di troppo ascolto e di troppa amicizia, abbiamo dato un impressione errata. Non voglio citare il «braccetto», un episodio involontario che può capitare a tutti, ma richiamo l'attenzione sulle dichiarazioni che in quel momento hanno sollecitato ancora di più quelle che in questi giorni nel corso di manifestazioni di piazza in Libano vengono ad essere rappresentate come vittorie in un paese che si trova in uno stato di grandissima difficoltà durante un passaggio delicatissimo.
Possiamo anche superare questi aspetti, ma i nostri soldati in Libano e la nostra politica riguardo il confine tra Libano e Israele e il confine con l'Iran e con la Siria devono essere pronti a gestire un'evoluzione che io credo sia scontata. Una evoluzione che necessita della importante parte moderata del Libano, che vuole cercare la soluzione attraverso il confronto ed il riconoscimento degli altri, attraverso la loro legittimazione. Tuttavia, nei discorsi del leader iraniano e del leader degli hezbollah non mi è sembrato di sentire alcunché che possa far intravedere una prospettiva di distensione e disponibilità in ordine ad una verifica in grado di superare una partecipazione militare che in qualche modo sospende un conflitto. Una partecipazione che traccia la prosecuzione dello stesso conflitto in maniera drammatica se il Governo ed il Parlamento italiano non si pongono immediatamente quei forti interrogativi che il centrodestra ha posto in Commissione e in questa Assemblea per avere delle risposte.
Noi non possiamo lasciare abbandonati dei soldati e, soprattutto, non possiamo permetterci che fallisca ancora la possibilità che l'ONU realizzi la condizione di una resistenza in raccordo con l'Europa,Pag. 83in raccordo con quella linea atlantista, in raccordo con un progetto che non può e non deve fermarsi, perché esso deve confrontarsi in maniera forte ed efficace rispetto a quel sistema che citavo prima.
Non è casuale ciò che è accaduto al Santo Padre in questi giorni. Non è casuale nel momento in cui anche l'islam moderato prende posizione senza valutare, senza approfondire e senza cercare di capire le ragioni vere.
Noi restiamo quasi assenti in ordine ad un aspetto che è centrale e fondamentale, e non è in gioco il fatto di essere cristiani, cattolici e laici, ma il fatto di essere occidentali e ciò dà forza e capacità alla propria cultura di rappresentare, in maniera prevalente, le ragioni della pace, di un equilibrio possibile solo se sia ha la forza di dare identità alla propria storia, alle proprie radici, senza venire assoggettati ad uno schema e ad una situazione che sta diventando invece limitativa della verità storica. Infatti, sicuramente domani, per gli schemi soliti di questo Parlamento, vi sarà un voto mi auguro quasi unanime rispetto alle dichiarazioni che ho sentito.
Mi auguro anche che, con questo voto, il Governo abbia la capacità immediata non dico di dare risposte, perché ne capisco la difficoltà, ma di comprendere quale tipo di chiarimenti possono essere forniti in ordine alla complessità delle valutazioni che si giocano in un progetto di cooperazione internazionale così importante nella ricostruzione dell'Europa e dell'ONU, anche con riferimento alla possibilità di un nostro inserimento nello scacchiere, quello del Medio Oriente, che è diventato esplosivo.
È chiaro, quindi, che non vi è la pretesa delle grandi risposte, ma vi è la pretesa dell'impegno e della verifica, poiché, fra un paio di mesi, occorre ritrovarci in aula per capire, valutare e verificare cosa sta accadendo in quel contesto territoriale, con riferimento a ciò che prevede la risoluzione ed in che modo la politica saprà dare risposte.
Nei miei cinque anni di umile esperienza da sottosegretario di Stato alla difesa, esaminando diverse realtà, ho rilevato il fatto che la politica, purtroppo, in qualche modo è rimasta assente rispetto al ruolo che le è stato assegnato. Intendo dire che, in varie situazioni, i nostri soldati, i nostri militari hanno saputo dare concretezza al mandato loro assegnato, ma poi, alla fine, quella politica di cooperazione internazionale non riusciva ad inserirsi nel tessuto, più importante, giuridico e normativo, quello delle regole, perché le diverse etnie non hanno rinunciato alla propria identità e, quindi, alla propria volontà giuridica di darsi delle regole.
Pertanto, non abbiamo proseguito nell'azione tesa ad attribuire a tutti coloro che intendevano solo e semplicemente investire in termini aziendali ed imprenditoriali la possibilità di attivare meccanismi di sostegno rispetto ai grandi progetti di ricostruzione di quei paesi.
Anche in Iraq ed in Afghanistan ove si cerca, in maniera sofferta, di fissare delle regole ed una Costituzione sentiamo parlare di federalismo perché le diverse tribù, le diverse etnie, le diverse culture ed identità hanno bisogno di un proprio spazio di autonomia. È chiaro che questo spazio di autonomia rispetto alle necessità di una convivenza necessita di tempi. In quest'aula continuamente si dice che in Iraq ed in Afghanistan non si sono raggiunti risultati, ma quando il 75 per cento di un popolo sotto la tragedia, il condizionamento, il ricatto delle bombe partecipa, in maniera eroica, sacrificando la propria vita per sottoscrivere un patto di libertà, di crescita della democrazia per il proprio popolo, non è questo un risultato raggiunto?
E quando in quest'aula si vuole barattare la nostra partecipazione, attraverso il progetto UNIFIL, e poi ci si rassegna a dire che fra qualche mese ce ne andremo anche dall'Afghanistan, allora credo che tutto ciò significhi una sconfitta vera, soprattutto con riferimento a quella grande opportunità che nel corso di questi anni non abbiamo saputo - non solo i Governi di centrodestra e di centrosinistra - realizzare. Credo, pertanto, che sia importante soffermarci in maniera più precisa e più specifica sulle ragioni dellaPag. 84politica e sugli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere con la nostra partecipazione. In altre parole, ci vuole chiarezza, qualche certezza in più.
Pur comprendendo le ragioni di equilibrio e di mediazione non si può continuare a non prendere posizione rispetto al contesto iraniano, così come non si può dire al Governo siriano di non fornire armi agli hezbollah - gli hezbollah in questi giorni di ciò se ne sono fatti un vanto -, pena la mancata riuscita della missione. A questi Governi bisogna dire che non possono sottrarsi alla grande responsabilità che hanno in termini di cooperazione internazionale e di legittimazione, sebbene nel nostro Parlamento qualcuno ancora continui a parlare di legittimazione delle resistenze.
È chiaro, quindi, che una scelta va fatta. Una scelta che vada oltre gli schieramenti, oltre i partiti, sulla quale si possa ottenere una grande maggioranza in seno al Parlamento il quale, a sua volta, dovrebbe decidere solo ed esclusivamente in base alla logica della politica estera e non invece tenendo conto delle beghe di politica interna. Su tali questioni ci potremo confrontare in questa sede, facendo rimarcare le differenze esistenti: noi voteremo il provvedimento, ma differenziandoci. Voteremo, ma non certo per sostenere la politica estera che questo Governo porta avanti solo ed esclusivamente, lo ripeto, per fare bella figura e per darsi nuova credibilità.
Non credo che si parli di discontinuità e di enfasi a caso. Non credo che nel momento in cui Bush e Blair e poi Prodi hanno ritenuto di dover aderire a questo progetto si pensasse che poi sia Bush sia Blair non partecipassero. Certo, alla fine, i francesi hanno partecipato; i tedeschi hanno mandato delle navi, ma si tengono abbastanza lontani. La grande responsabilità se l'è assunta il nostro Governo. Noi crediamo che vi sia la possibilità di correggere questa anomalia. Noi riteniamo cioè che si possano ridurre queste differenze per cercare di giungere ad un'unità di intenti. Credo che ciò lo si possa fare, traducendo però la missione UNIFIL in operazione-verità. In altre parole, noi non andiamo in Libano per fare una passeggiata così come i pellegrini di Assisi hanno voluto rimarcare, ancora una volta in maniera demagogica, utilizzando un pacifismo vuoto e sterile. Tutti vogliamo la pace, e tutti la vogliamo senza armi. Tutti vogliamo la pace del dialogo, del confronto, dell'equilibrio in modo da realizzare un percorso e un progetto che guardi ad una speranza nuova. Tutti, però, dobbiamo essere consapevoli e coscienti che non è certamente distinguendoci con sterili e vuote passeggiate che alla fine daremo il nostro miglior contributo (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro)).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Bosi. Ne ha facoltà.

FRANCESCO BOSI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che l'onorevole Cicu, intervenendo in questo dibattito poc'anzi, abbia detto bene nell'affermare una grande verità, cioè che le questioni della politica estera chiamano in causa valori profondi, le grandi scelte del nostro tempo, e che tali problematiche non possono essere barattate per una polemica di cortile, vale a dire per piccole scaramucce che possono appartenere alla logica delle scelte politiche interne di un paese o di un dibattito, ma, francamente, fine a se stesso.
In questo frangente, abbiamo immediatamente detto, non per rivendicare meriti di fronte ad una questione così importante e di grande significato, di essere favorevoli a questa missione ed abbiamo invitato, anche come partito o gruppo parlamentare dell'UDC, tutti gli altri gruppi ed il Parlamento a convenire sull'importanza di questo intervento e di questa missione. Tuttavia, non l'abbiamo fatto perché volevamo trovare un momento di ampie convergenze un po' fine a se stesso, ma perché ritenevamo e continuiamo a ritenere importante e fondamentale, per le vicende del nostro tempo e per le grandi questioni che dovrebbe muovere la politica,Pag. 85riflettere e addivenire ad acquisizioni comuni, perché ciò è indispensabile al nostro paese per una riflessione che si impone.
Viviamo in un pianeta che, probabilmente, si è messo alle spalle le grandi guerre che hanno contrassegnato il secolo scorso, ma in questo momento che ci è dato di vivere il nostro pianeta è anche percorso da fremiti, da teatri di crisi. Allora, come muoverci e come collocare un paese evoluto ed industriale come l'Italia è fondamentale, e credo che l'approccio a tale questione e a quelle che si porta dietro debba essere di grande senso di responsabilità.
Noi abbiamo detto «sì» e continueremo a dire «sì» a questa missione, perché crediamo che la comunità internazionale non possa mai, dico mai, mettere la «testa sotto la sabbia» rispetto alle vicende delle missioni degli scorsi anni - poi dirò qualcosa a questo proposito -, né a quelle che potranno prospettarsi negli anni futuri. Quando qualche pacifista un po' frettoloso sventola la bandiera della pace perché non vuole andare ad una missione, a me pare di scorgere molto spesso in questi atteggiamenti una logica del disimpegno: cioè, non vogliamo la pace ma lasciateci in pace, non vogliamo essere disturbati, non ci preme, non ci interessa. Invece, noi crediamo - e qui passa una discriminante di fondo, quel famoso «I care» che pronunciò Kennedy quando si recò di fronte alla ferita del muro di Berlino - che dobbiamo dire «I am a Berliner». Credo che nei confronti di ogni luogo di crisi, di un teatro dove vengono gravemente calpestati i diritti fondamentali della persona e dei popoli, il nostro paese, proprio per la cultura e la civiltà che esprime la nostra società e la nostra nazione, debba sempre dire «I care», «ci interessa», «ci preme».
Non vorrei semplificare la questione che ha dominato gli interventi di molti sbandieratori della pace. Mi sembra che quel tipo di pace che talvolta, impropriamente, si invoca sia l'esatto contrario del «I care», del «mi preme», del «io sono libanese», «io sono iracheno», «io sono afghanistano». Noi dobbiamo intervenire, perché non possiamo assistere impassibili alle grandi tragedie che si svolgono in questi teatri.
L'intervento rappresenta per noi una ragione forte e profonda non solo dell'identità, ma anche di un sistema di valori ai quali dobbiamo ispirare la politica, l'impegno nazionale. Dobbiamo affrontare le grandi questioni planetarie del nostro presente e del nostro futuro.
Nei giorni scorsi, nelle vicende del dibattito politico interno, abbiamo assistito (come purtroppo, spesso accade nel nostro paese) ad un capovolgimento di questi valori. Ci si chiede: mi conviene di più intervenire o non intervenire? Se ad intervenire è il Governo di centrodestra, allora, con le bandiere della pace, cerco di evocare lo spettro di un intervento di tipo guerrafondaio; se, invece, sono io a dover intervenire (come legittimamente e giustamente è accaduto; noi abbiamo votato a favore anche quando altri governavano nelle tristi, tristissime vicende dei Balcani), allora la missione umanitaria è davvero umanitaria. Se, invece, intervengono altri, la missione non va bene.
Che fare? Questo è il massimo del cinismo! Guardate, qualora qualcuno dovesse dare la chiave di interpretazione di tipo opportunistico in queste vicende, sarebbe davvero un cinismo grave, un cinismo imperdonabile.
Nei processi di mondializzazione che si affrontano dobbiamo avere in mente in maniera chiara quale deve essere il ruolo dell'Italia. Noi abbiamo saputo svolgere questo ruolo. Infatti, se guardiamo a ritroso la vicenda italiana dall'intervento nei Balcani, nella zona dell'ex Iugoslavia, ad oggi, noi siamo uno dei paesi maggiormente impegnati nelle missioni all'estero, nonostante i limiti del nostro bilancio della difesa, sul quale dovremo alla fine parlare (non credo ci possa essere politica estera senza la politica della difesa); siamo il paese che maggiormente è intervenuto e ha saputo intervenire laddove erano gravemente calpestati i diritti fondamentali della persona.Pag. 86
Di ciò abbiamo essere orgogliosi, orgogliosi perché l'Italia lo ha fatto, orgogliosi perché abbiamo avuto Forze armate che hanno saputo ben interpretare l'immagine del nostro paese, i valori che l'Italia voleva intraprendere, con queste decisioni di carattere politico. Pensate cosa sarebbe stato se i nostri militari, nelle loro missioni, non avessero accompagnato lo spirito per il quale sono stati mandati. Pensate che disastro di immagine avremmo avuto!
Allora, noi dobbiamo essere orgogliosi di quello che l'Italia ha fatto in questi ultimi anni, dobbiamo essere orgogliosi delle nostre Forze armate, che davvero hanno saputo rappresentare non solo l'unità della nazione, ma anche lo spirito con il quale la nazione ha deciso di affrontare queste missioni, con dei rischi, come ha detto giustamente il ministro della difesa Parisi, che ha sostenuto che dobbiamo affrontare una missione difficile, onerosa, lunga, rischiosa, ma altrettanto doverosa. Sono d'accordo! Quello del nostro paese è un dovere preciso, al quale non possiamo sottrarci.
Non è una manifestazione militarista, una manifestazione di forza. In questo momento, francamente, non mi interessa molto fare la polemica, ma potrei chiedere - perché non farlo, visto che questa è la sede parlamentare idonea - al ministro Parisi: intervenire in Afghanistan e in Iraq non è stato doveroso? Perché questa missione è doverosa e le altre non erano doverose? Forse, se l'Italia non fosse intervenuta in Iraq, ci sarebbe stato qualche vantaggio per quella popolazione? Cosa avremmo dovuto fare in quel momento? Avremmo dovuto lasciare che solo Stati Uniti e Gran Bretagna si occupassero di quelle vicende, semplicemente perché non ci è piaciuta, come non ci è piaciuta, la decisione di intraprendere quell'azione? Avremmo dovuto lavarcene le mani? Questo è cinismo, colleghi! Quando sento ancora oggi accostare l'Iraq alla guerra, riferendosi a quella missione che si è voluto interrompere, ci vedo un grande cinismo e opportunismo, che non dovrebbe appartenere alla logica di decisioni così delicate, così difficili e così importanti.
Quando un paese manda i propri militari, dopo una guerra, magari non condividendola, di fronte ad una catastrofe umanitaria, non è lecito dire che quella missione non è doverosa, perché altrimenti mostriamo uno spirito opportunistico, che si ascolta in alcuni interventi, anche nelle vicende sul Libano. C'è chi simpatizza maggiormente per la causa palestinese e teme per la causa israeliana, o viceversa, c'è chi ci tiene a sapere se si avvantaggia uno o l'altro; ma questa non deve essere la logica che sovrintende agli interventi, perché è una logica cinica, è una logica che non appartiene ai valori profondi che devono muovere la nostra politica estera e le nostre missioni, soprattutto quelle militari, nelle quali mandiamo dei nostri connazionali a rischiare la vita.
Noi giustifichiamo il rischio della vita dei nostri militari se queste missioni impediscono le catastrofi umanitarie, bloccano i bombardamenti, fermano gli stermini di massa. Questa è la ragione etica e morale che legittima questi interventi, non l'opportunismo, non la convenienza, non la simpatia.
Allora, nel nostro difficile mondo della politica, dovremmo trovarci d'accordo su queste regole fondamentali, perché un domani potrà succedere di dover intervenire per fermare una tragedia che si svolge magari nel centro Africa e ci potremmo domandare se in quel paese esercita una influenza la tal religione o il tal gruppo etnico. Non è questa la questione. Colleghi, ripeto che dobbiamo andare a testa alta per quello che abbiamo fatto.
Vorrei poi rispondere al collega Gerardo Bianco, non perché non sia d'accordo con lui; anzi, colgo occasione per ringraziarlo di aver parlato in maniera così qualificata di ONU ed Europa. In effetti, esiste questo nodo nella nostra politica estera e di difesa. Chi non vorrebbe che l'ONU, come istituzione che ha il compito di definire le regole della convivenza planetaria, avesse la forza politica e la capacità, anche operativa, di potersiPag. 87muovere autonomamente quando esplodono i conflitti nel mondo? Credo che tutti vorremmo un ONU più forte, non paralizzato ed in grado di decidere ed intervenire. Francamente, ritengo che tra gli aspetti positivi manifestatisi nella crisi israeliano-libanese, con tutto ciò che ha portato dietro, vi sia quello di aver visto l'ONU finalmente capace di decidere e varare una missione sotto le proprie insegne. Si è trattato di un fatto da salutare positivamente.
Onorevole Bianco, sono un po' meno d'accordo per quanto riguarda l'Europa. Ho cercato di spiegare cosa, secondo la nostra valutazione, legittima gli interventi e le missioni. Tuttavia, non possiamo affermare che una missione non sia legittimata se l'Unione europea non è d'accordo. Su questo punto, francamente, nutro grandi dubbi perché, purtroppo, in Europa si è visto molto cinismo. Mi riferisco alla Francia che decide di restare ferma, di intervenire, di tirarsi indietro o di andare avanti. Stiamo parlando di grandi ed importanti nazioni, che dispongono di mezzi e risorse. Tuttavia, le politiche di alcuni paesi grandi europei si muovono secondo quel filo a cui facevo prima riferimento, ovvero quello dell'opportunismo e della convenienza. Dobbiamo sperare, lavorare ed operare affinché l'Europa acquisti la nuova consapevolezza di cosa è, di cosa rappresenta e di cosa può diventare nelle questioni del Mediterraneo e nei rapporti con il mondo islamico.
Ritengo che l'Europa possa meglio intervenire rispetto ad altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, che vivono queste grandi questioni in maniera molto più distaccata di quanto facciamo noi nel Mediterraneo. Tuttavia, dobbiamo lavorare e sperare che l'Europa riesca a far questo, ma non è nelle nostre mani. Infatti, non è nelle nostre mani che l'Europa sia rimasta ferma, ad eccezione della partecipazione del Regno Unito e della presenza di alcuni paesi, come inizialmente Spagna e Polonia nelle missioni in Afghanistan ed Iraq. Vorrei dire che la mancata partecipazione dell'Europa non è una buona ragione per poter affermare che una missione non è legittima.
Ritengo che la legittimità di una missione la debba conferire, sì, l'ONU, ma soprattutto quei grandi valori e ideali che in sostanza sono quelli su cui vorremmo costruire il nostro paese, l'Italia, quali la solidarietà, il rispetto della legalità e delle persone, in particolare di quelle più deboli.
Questo ci deve informare nelle nostre scelte e, fortunatamente, in questa vicenda possiamo salutare un momento importante, anche se ancora pieno di incognite, che dimostra che abbiamo fatto fino in fondo il nostro dovere. E questa è la cosa più importante (Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e di Forza Italia)!

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Prima di dare la parola per la replica ai relatori e al rappresentante del Governo, vorrei informare i colleghi su come la Presidenza intende procedere per l'esame degli ulteriori punti previsti all'ordine del giorno. L'orientamento della Presidenza è di esaurire questo punto all'ordine del giorno con le repliche dei relatori e del rappresentante del Governo, procedere ad una pausa tecnica di 30 minuti, per poi avviare le discussioni sulle linee generali delle due mozioni di cui ai punti 2 e 3 dell'ordine del giorno.

(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 1608)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore per la III Commissione, presidente Ranieri.

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, rinuncio alla replica.

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore per la IV Commissione, presidente Pinotti.

Pag. 88

ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, anch'io rinuncio alla replica.

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, onorevoli deputati, ringrazio il presidente della Commissione esteri e il presidente della Commissione difesa per i loro interventi ed i 23 deputati intervenuti per aver approfondito il tema della nostra missione in Libano: un approfondimento che ha dato spessore alla nostra politica estera.
Da sempre, dal 1947, in questo Parlamento abbiamo ascoltato interventi di chi era più vicino ad Israele e di chi era più vicino al mondo arabo. È naturale che sia così, è stato così anche oggi, ma in tutti questi decenni i Governi italiani, guidati da democristiani, da socialisti e con il consenso dell'opposizione comunista, hanno saputo costruire la credibilità dell'Italia in Medio Oriente, mantenendo un'immagine netta di chi comprende le ragioni degli uni e degli altri. Siamo tornati a questa tradizione.
Non sono un mistico della continuità o della discontinuità - come afferma l'onorevole Bianco -, tuttavia è certo che l'azione del Governo italiano in Libano si inserisce in una continuità storica di equidistanza o equivicinanza, che vi è sempre stata e che non è la parodia che qualche volta si è voluto fare. Non vi è equidistanza tra Israele e i terroristi, ma vi è equidistanza o equivicinanza tra le ragioni e i diritti di Israele e quelli del mondo arabo. Vi è equivicinanza tra due diritti: da una parte, il diritto degli israeliani a vivere in condizioni di sicurezza e, dall'altra, il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato. Due diritti che sono causa ed effetto l'uno dell'altro, che si tengono a vicenda; infatti, non vi è sicurezza per Israele senza uno Stato palestinese guidato responsabilmente e non vi è uno Stato palestinese senza sicurezza per Israele.
Noi continueremo così, con una politica di equilibrio. I nostri soldati sono già sul terreno e non devono avere alle loro spalle opposte tifoserie: quella pro Israele e quella pro mondo arabo. Non hanno bisogno di polemiche, né contro gli uni né contro gli altri, che non aiuterebbero e che certo non favorirebbero la loro sicurezza.
Continuiamo così, in una posizione equilibrata e con il largo, quasi unanime, consenso di questo Parlamento. Un consenso del quale naturalmente ringrazio l'opposizione, anche se oggi sarebbe difficile per chiunque essere contrari a questa missione.
È una missione, d'altronde, che viene appoggiata da Teheran come da Washington, dagli hezbollah come dalla destra israeliana del Likud: tutti sono d'accordo. Le Nazioni Unite sono tornate protagoniste, hanno riconquistato il loro ruolo. È ritornata protagonista, e ciò ci sta particolarmente a cuore, l'Europa. In questa azione politica dell'Europa, concordano la destra e la sinistra europea - la Spagna guidata dalla sinistra, ad esempio, e la Francia guidata dalla destra -, ed è un particolare non di poco conto, che spiega anche la quasi unanimità di questo Parlamento. Concorrono all'azione in Libano paesi come il Qatar, sede di Al Jazeera, sensibile da sempre alle ragioni dei palestinesi forse più di altri, e Israele è d'accordo. Partecipa a questa missione la Cina con mille uomini, e ciò è importante. Si può darne tante chiavi di lettura: una è forse che la Cina comincia a giocare un ruolo globale, è affamata di petrolio come noi ed è interessata all'equilibrio ed alla pace in una regione strategica per il petrolio del quale, peraltro, è diminuito il prezzo dal momento in cui la situazione in Libano si è pacificata.
Non c'è trionfalismo nella posizione del Governo, c'è preoccupazione. Non occorre un'operazione verità, come qualcuno ha chiesto oggi. Ci rendiamo conto benissimo dei pericoli enormi che sono sotto gli occhi di tutti. Anzi, la totalità dei consensi sul piano internazionale a questa operazione nasce dal compromesso, come è naturale, e spesso i compromessi celano una certa dose di ambiguità. Vediamo pericoli enormi, ma sappiamo che il pericolo piùPag. 89grande sarebbe stato lasciar procedere l'incendio. L'onorevole Forlani ha osservato che se avessimo lasciato procedere l'incendio senza intervenire, avremmo contraddetto il meglio della nostra storia e della storia dell'Europa, e l'ha detto con un discorso nel quale non saprei trovare un punto di dissenso: questo ha il suo significato, dal momento che è il discorso di un rappresentante dell'opposizione.
Sino a poco tempo fa si è parlato del timore che si potesse andare ad una libanizzazione dell'Iraq: purtroppo, in parte è avvenuto. Oggi in Iraq ci sono milizie simili a quelle degli hezbollah, sciite e sunnite, che nessuno disarma. Purtroppo, oggi possiamo dire che c'è il rischio di una «irachizzazione» del Libano. Non ce lo possiamo consentire, perché sarebbe una «irachizzazione» ai confini con Israele e metterebbe fuoco accanto alla benzina.
L'esperienza ci dice come si possa precipitare rapidamente in Medio Oriente verso il peggio. Soltanto a giugno, all'hotel Hilton, a Roma, si è svolta un'intera giornata di incontri tra il meglio dei banchieri arabi, i banchieri italiani, i banchieri europei e il primo ministro libanese Siniora. Tutti hanno applaudito alla democrazia ritrovata del Libano, al ritiro della Siria; si è parlato della prospettiva di un Libano che diventasse nuovamente, come è stato storicamente, la Svizzera del Medio Oriente. Dopo pochi mesi ci ritroviamo, invece, di fronte al Libano distrutto.
Per il momento, le truppe internazionali delle Nazioni Unite hanno posto fine a questa distruzione, hanno spento l'incendio. Adesso, dobbiamo sperare che il Libano diventi l'epicentro di un circuito virtuoso, come diceva l'onorevole Khalil, che può cambiare la storia di tutto il Medio Oriente. Dobbiamo cominciare con la pacificazione del Libano, che è un punto non di arrivo ma di partenza. Dobbiamo affrontare la madre di tutte le crisi, cioè quella palestinese. Il Governo di unità nazionale in Palestina aiuta in questa direzione, perché dà finalmente un interlocutore a Israele. Il rilascio dei soldati israeliani può facilitare un percorso di trattativa. Si può magari arrivare ad una forza internazionale di interposizione anche in Palestina. Bisogna poi affrontare la crisi del Medio Oriente nella sua totalità, in modo globale, coinvolgendo Siria e Iran, due attori senza i quali la vicenda non si concluderà positivamente.
L'ex segretario di Stato americano Brezinski ha scritto recentemente che la diplomazia significa innanzitutto parlare con chi non è d'accordo con noi; parlare con chi è d'accordo è troppo facile! Lo ha detto l'onorevole Bianco dalla maggioranza, lo ha detto l'onorevole Forlani dall'opposizione, l'onorevole Giuditta non ha citato Breznev ma ha citato Moro per giungere alla stessa conclusione, cui non ci si può che associare.
L'Europa avrà un grande ruolo: pacificazione, stabilizzazione, soluzione globale richiedono di guardare lontano, di guardare con schemi nuovi, e l'Europa forse può farlo con vision; e ha avuto vision l'onorevole D'Elia, quando ha proposto che il federalismo europeo si estenda in futuro anche a Israele e ai paesi arabi del Medio Oriente, secondo l'intuizione pacifista di Colorni e del Manifesto di Ventotene.
In questo dibattito si sono sentiti i ragionamenti giusti su Israele. È vero, onorevole Ranieri, in quel paese per la prima volta dopo molto tempo si affaccia il timore che il mondo arabo voglia liquidare l'esperienza dello Stato israeliano. E, per la prima volta, l'opinione pubblica israeliana accetta di essere garantita da una forza internazionale: ce lo ha detto con forza la signora Livni, ministro degli esteri israeliano, quando è venuta a Roma. Può Israele per sempre affidare alla forza militare la sua sicurezza? La risposta che lei ha dato è «no», ed è una risposta evidentemente condivisa dal Governo. Israele paga un prezzo sempre più alto ad ogni azione militare e nell'opinione pubblica israeliana tale consapevolezza si fa strada: ci vuole la comunità internazionale. E andiamo finalmente in questa direzione, verso la giusta direzione!
L'onorevole Pinotti ha svolto delle osservazioni giuste e commosse sul ruolo deiPag. 90nostri soldati. È vero, vi è stato un momento in cui si è temuto che l'intervento della comunità internazionale in Libano venisse meno. Grazie alla coerenza, o alla «testardaggine» italiana, non è stato così: l'intervento è riuscito e il Presidente Chirac, incontrandosi con il Presidente Napolitano - ne sono stato testimone - ha dato atto di questo all'Italia, proprio mentre arrivavano i soldati italiani in Libano.
Le Nazioni Unite mettono alla prova sé stesse. Certo, erano dodici anni - lei ce lo ha ricordato, onorevole Pinotti - che l'ONU non assumeva più il comando diretto di una operazione di peace keeping. Finalmente è tornata a farlo ed è una grande responsabilità sulle spalle di tutti noi!
I soldati italiani vanno come forza di pace, con lo spirito di una forza di pace e li aiuterà anche un corso di lingua (quella non la impareranno!) ma anche di cultura araba. Tutto questo servirà ad allontanare i pregiudizi che purtroppo vengono alimentati da una parte dei nostri mass media, e non solo: i soldati italiani vanno con spirito di tolleranza, con il rispetto per culture diverse, e non, come dice l'onorevole Orlando, ad imporre la perfezione, il che è sempre fonte di grandi mali.
La sinistra della coalizione, nei suoi interventi, ha anche posto il problema dell'Afghanistan. Non vi è connessione tra Libano e Afghanistan, ma una riflessione di politica estera è sempre globale. Certo, ci si deve preoccupare che l'Afghanistan, in presenza di un così grande corpo di forze internazionali, diventi una «narcorepubblica». Anche su questo si può e si deve avere una posizione innovativa e creativa: perché non immaginare, almeno in modo sperimentale, l'acquisto legale della produzione di oppio da parte della comunità internazionale? Vi è bisogno di morfina per gli usi medici in tutti i continenti. Qualcuno dice che la domanda non è sufficientemente alta: non è vero. La terapia del dolore, persino in Italia, manca di mezzi, è inefficiente ed è totalmente assente nel terzo mondo. Una ragione di umanità elementare ci suggerisce che non si capisce per quale motivo un ammalato di cancro debba morire in condizioni umane a Zurigo e in condizioni disumane in Nigeria.
La sinistra della nostra coalizione, in parte, insiste per la prospettiva di un ritiro dall'Afghanistan. Non voglio entrare nel merito della questione - il Governo è contrario: si sa -, ma intendo soltanto sottolineare un aspetto formale, non di merito.
In Iraq eravamo in una coalizione di willings, di volenterosi: chiunque può recedere da una coalizione di volenterosi, quando viene meno la sua volontà. In Afghanistan siamo con la NATO, siamo in un'alleanza militare. E in un'alleanza militare non si fa quello che si vuole: si decide insieme agli altri alleati. Certo, alleati leali possono criticare con maggiore autorevolezza le tattiche che ritengono sbagliate, quando c'è da criticare (come, forse, c'è da criticare nel caso dell'Afghanistan).
Nella maggioranza si è insistito sulla discontinuità rispetto alla guerra in Iraq. È inutile tornare su questo argomento: si è detto tutto ciò che si doveva. Si può aggiungere soltanto un elemento pratico e semplice di discontinuità. In Libano, dopo la decisione di mandare truppe internazionali e il loro arrivo, non si muore più. In Iraq, invece, dalla fine della guerra e con la presenza di truppe internazionali, si è ripreso a morire sempre di più e, oggi, i morti innocenti sono 3 mila al mese.
L'onorevole De Zulueta ha giustamente ricordato l'impegno dell'Italia per intervenire sul disastro ambientale che si è determinato nelle acque di fronte al Libano. Questo impegno dell'Italia continuerà. È previsto un ordine del giorno per sottolinearlo e non un emendamento, che sarebbe stato tecnicamente meno opportuno.
È stato ricordato - e giustamente - dall'onorevole Cannavò, di Rifondazione Comunista, che la lotta alla povertà deve andare di pari passo con l'impegno militare, e devono procedere di pari passo gli stanziamenti per la ricostruzione del Libano. Ciò è ben chiaro e rientra in un concetto più generale, che riguarda la guerra contro il fondamentalismo islamico.Pag. 91Questa guerra - è ben chiaro al Governo, alla coalizione di maggioranza e, credo, a tutti noi - si vince o si perde, come tutte le guerre o quasi, innanzitutto sul piano economico e sociale. Ci sono molti paesi chiave filo occidentali e moderati nel mondo islamico. Essi sono guidati da élite: o queste élite trascinano verso il progresso le masse oppure rimarranno isolate, distaccate dal resto del paese, e verranno espunte. E vincerà, in definitiva, il fondamentalismo islamico.
Ho ascoltato con attenzione le ragioni dell'opposizione, in parte condivisibili e in parte meno. I deputati di Alleanza Nazionale Gasparri e Briguglio hanno insistito sulla necessità di difendere la nostra civiltà occidentale. Condividiamo come naturale questa necessità. Però, sappiamo che la civiltà occidentale non si difende utilmente con un uso eccessivo della forza militare, perché questa alimenta il terrorismo. Non si difende con l'imbarbarimento: intendo dire dimenticando le leggi, ad esempio, inducendo l'uso della tortura. Infatti, la violazione dei diritti umani non porta mai da nessuna parte e lo dice l'esperienza che, nel nostro piccolo, abbiamo maturato con le brigate rosse. Lo Stato italiano ha combattuto e vinto il terrorismo anche grazie al fatto che non si è messo sullo stesso piano e che si è attenuto sempre al rispetto della legge e dei diritti umani.
Alleanza Nazionale e larghe aree dell'opposizione insistono continuamente sul pericolo di Hezbollah e sulla necessità di disarmare le sue milizie. Certo, la risoluzione delle Nazioni Unite è chiara su questo punto; deve essere anche chiaro, tuttavia, che le Nazioni Unite non hanno chiesto di andare a fare la guerra ad Hezbollah, perché lo ha fatto Israele. Le Nazioni Unite e la comunità internazionale scommettono, invece, sull'avvio di un percorso che riporti completamente Hezbollah ed Hamas nel campo della politica. Soffiare sul fuoco per provocare una guerra civile in Libano non serve proprio a nessuno, e credo non rappresenti l'intenzione di alcuno.
D'altronde, la stessa esperienza del Medio Oriente ci induce a nutrire delle speranze. Facciamo un flash sugli anni Settanta: Arafat e l'OLP erano considerati terroristi; Simon Peres, il nostro amico oggi vice primo ministro di Israele, affermava che non si poteva, per nessuna ragione, trattare con l'OLP e con Arafat. Facciamo un flash sugli anni Novanta: Simon Peres ed Arafat ritirano, insieme, il premio Nobel per la pace, e ad Oslo, al congresso dell'Internazionale socialista, si abbracciano, essendo entrambi membri di tale organizzazione. Questa esperienza suggerisce che la situazione in Medio Oriente può scivolare non solo verso il peggio, rapidamente ed in modo catastrofico, ma anche verso il meglio.
In numerosi interventi dei deputati appartenenti al gruppo di Forza Italia (Paoletti Tangheroni, Brusco, Picchi, Gregorio Fontana, Cicu e Cossiga) ho sentito ritornare un argomento certamente solido: siamo nel mezzo della quarta guerra mondiale, dopo la terza tra est ed ovest. È vero: per decenni, abbiamo combattuto il pericolo «rosso» (se così si può dire); dobbiamo ora rassegnarci, per decenni, a combattere il pericolo «verde», vale a dire la rivoluzione islamica.
Per fare ciò, tuttavia, dobbiamo tenere conto dell'esperienza e mantenere fermi alcuni punti. Non dobbiamo confondere, infatti, il conflitto arabo-israeliano e palestinese-israeliano con la guerra contro il fondamentalismo islamico, perché è esattamente questo l'obiettivo del fondamentalismo stesso: creare questa confusione. Dobbiamo capire, invece, che le ragioni del mondo arabo suggeriscono di tenere in considerazione le richieste palestinesi e le esigenze di equilibrio; altrimenti, proprio i regimi arabi moderati e filoccidentali finiranno per essere travolti.
L'esperienza dei lunghi decenni di lotta contro Mosca ci insegna qualcosa: abbiamo sempre combattuto Mosca ma, al contempo, abbiamo sempre dialogato con essa. L'esperienza ci dice qualcosa anche a proposito del terrorismo. I terroristi delle brigate rosse si definivano marxisti-leninisti. Ebbene, ricordo che non abbiamo maiPag. 92accusato di terrorismo tutti i marxisti-leninisti: altrimenti, da ragazzi avrei dovuto prendermela anche con Ranieri...!

UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Il terrorismo non era... Non ricorrevamo alle bombe!

UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Non abbiamo visto in Mosca la capitale delle Brigate rosse. Non bisogna confondere, dunque, terrorismo e fondamentalismo islamico.
La confusione che qualche volta si vede tra Bin Laden, Hezbollah, Hamas e Teheran è un gravissimo errore, del tutto privo di fondamento. Tale confusione nei discorsi della destra c'è spesso, ma non sempre: l'onorevole Paoletti Tangheroni, ad esempio, mi è parsa avere ben chiara la situazione.
Ho ascoltato i deputati dell'opposizione avanzare numerose critiche alle Nazioni Unite, ed in modo particolarmente esteso nell'intervento pronunciato dall'onorevole Boniver. Certo, le Nazioni Unite funzionano male, anzi malissimo, ma si può dire di loro ciò che Churchill affermava della democrazia: la democrazia è il peggio, ma non si è mai trovato un sistema istituzionale che funzionasse meglio.
Si può certamente affermare che le Nazioni Unite hanno numerose carenze, tuttavia esse hanno un vantaggio politico straordinario: sono l'unica istituzione dotata della credibilità e dalla forza che derivano dalla neutralità.
Molte generazioni prima di noi, avendo vision, guardando lontano nel futuro, hanno sostenuto le ragioni degli Stati Uniti d'Europa. Penso che qualcuno dovrà cominciare a sostenere le ragioni degli Stati uniti del mondo.
Vorrei concludere con una riflessione più generale. Da De Gasperi a Fanfani, a Moro, da Nenni a Saragat, a Craxi, la politica estera italiana ha sempre avuti fermi tre pilastri: le Nazioni Unite, l'unità europea, l'Alleanza Atlantica. Sono tre pilastri che si tengono l'uno con l'altro, che sono la base del nostro interesse nazionale; e di interesse nazionale bisogna ogni tanto parlare. Negli ultimi anni, avevamo perso tutti e tre questi pilastri. L'Iraq era un caso emblematico: non c'era la guida delle Nazioni Unite; divideva (l'Iraq) l'Europa, il cuore continentale dell'Europa dalla Gran Bretagna; divideva l'Alleanza Atlantica, ad esempio in modo nettissimo la Francia da una parte e gli Stati Uniti dall'altra.
In Libano, ritornano i tre pilastri della politica estera italiana. C'è da sperare che si tratti di un ritorno stabile, perché quando questi pilastri si reggono tutti e tre insieme il mondo va verso l'ordine e la pace, altrimenti affonda nel caos e nella guerra (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e dell'Italia dei Valori).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Intini.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Sospendo la seduta fino alle 21,45.

La seduta, sospesa alle 21,15, è ripresa alle 21,45.

Discussione della mozione Zanetta ed altri n. 1-00017 sulle iniziative per garantire la tempestiva realizzazione della tratta alta velocità Torino-Lione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Zanetta ed altri n. 1-00017 (Nuova formulazione) sulle iniziative per garantire la tempestiva realizzazione della tratta alta velocità Torino-Lione (Vedi l'allegato A - Mozioni sull'alta velocità sezione 1).
Avverto che è stata presentata in data odierna la mozione Tassone ed altri n. 1-00028, il cui testo è in distribuzione (Vedi l'allegato A - Mozioni sull'alta velocità sezione 1), che verte su materia analoga a quella trattata dalla mozione Zanetta ed altri n. 1-00017. La discussione, pertanto, si svolgerà anche su tale mozione.
Avverto, altresì, che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati allaPag. 93discussione della mozione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Zanetta, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00017. Ne ha facoltà.

VALTER ZANETTA. Signor Presidente, signor sottosegretario, egregi colleghi, il recente fallimento della prima conferenza di servizi convocata dopo l'esclusione del progetto TAV dalla legge obiettivo e la dura opposizione minacciata dai sindaci, contrari ancora oggi a tale iniziativa, rendono più che mai di estrema attualità la mozione che oggi è portata all'esame di questa Assemblea e, nel contempo, ha reso necessario ed urgente un pronunciamento da parte del Parlamento, anche alla luce dei risvolti che tale vicenda sta assumendo pubblicamente.
Basti pensare alle dichiarazioni riportate da un quotidiano, che, nel riassumere la visita del ministro Di Pietro a Torino, in luglio, e l'incontro svoltosi con gli amministratori del Piemonte, titolava: «La TAV da ieri è ufficialmente questione da assemblea di condominio». Ed ancora, si può citare una recente dichiarazione, apparsa sul quotidiano il Giornale, edizione piemontese, in cui il sottosegretario Raffaele Gentile ha riferito l'inopportunità di avere abbandonato la procedura della legge obiettivo per seguire le vie ordinarie delle conferenze di servizi. Infatti, sono state avviate le procedure ordinarie attraverso le conferenze di servizi, abbandonando quelle più efficaci previste dalla legge obiettivo. Ed è indubbio che tale scelta allontana la possibilità di realizzare la Torino-Lione in tempi brevi.
La nostra preoccupazione non è legata solamente alla recente riunione, ma anche ad alcune dichiarazioni di uomini di Governo, riportate in atti ufficiali, che confermano come la realizzazione della Torino-Lione sia sempre più problematica. Come non ricordare le dichiarazioni del sottosegretario per l'economia e le finanze, onorevole Pier Paolo Cento, il quale dichiarava: «Questo Governo non farà la TAV», o quelle del ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, il quale diceva: «Nel programma sottoscritto da tutta l'Unione, la Torino-Lione non è inserita come una priorità» o, ancora, le aperture del ministro delle infrastrutture, Antonio Di Pietro, il quale confermava che il Governo intende realizzare la nuova tratta ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione. Si tratta di dichiarazioni divergenti che hanno messo in evidenza una preoccupante discordanza in seno al Governo in merito alla questione TAV.
I fatti di fronte ai quali ci troviamo sono il risultato non soltanto delle proteste dei cittadini della Val di Susa, ma anche il risvolto del recente sgombero dei macchinari che avrebbero dovuto effettuare i primi sondaggi per la realizzazione del tunnel. Tali situazioni hanno di certo radicalizzato l'intera vicenda, a partire dalle prese di posizione manifestate dagli abitanti delle stupende vallate del Susa, strumentalizzate non poco da alcuni esponenti dell'odierna maggioranza parlamentare. Le predette vallate dovrebbero essere attraversate da un tunnel destinato a correre per ben 50 chilometri, ma sottoterra: un'opera che si basa sull'utilizzo della ferrovia con l'intento di decongestionare il traffico su gomma che, ad oggi, intasa i valichi di frontiera, con grave ricaduta sull'intero territorio del nord-ovest e di confine.
Ebbene, non si comprende come chi si professa contrario ai danni ambientali causati dai trasporti possa preferire smog, inquinamento ambientale ed acustico rispetto ad un sistema basato sullo scorrimento del ferro su ferro.
A questo punto, dovremmo fare nostre le parole pronunciate dal Commissario europeo Jacques Barrot, il quale ha ribadito che la Torino-Lione supera l'interesse di Italia e Francia, è una grande opportunità per tutta l'Europa, che non ci sonoPag. 94alternative possibili ma ci sono solo benefici a lungo termine per tutta l'Europa, Val Susa e Maurienne compresi.
Nella riunione del 29 giugno 2006, alla presenza della coordinatrice del Corridoio 5, Loyola de Palacio, come in successive dichiarazioni e nel Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011, approvato di recente, il Governo ha annunciato che le procedure autorizzative della Torino-Lione seguiranno le norme delle procedure ordinarie previgenti, e non quelle della legge obiettivo. Tutto ciò appare paradossale. Tale procedura comporterà ulteriori conferenze di servizi, tavoli di concertazione, osservatori appositamente costituiti, magari una legge specifica ad hoc per delle compensazioni, il tutto con dilazione dei tempi di difficile quantificazione.
È del tutto evidente che di fronte a queste incertezze appare sempre più preoccupante e rischioso per l'interesse nazionale un ulteriore ritardo nella realizzazione della tratta alta velocità Torino-Lione, sia per la perdita dei finanziamenti europei, sia perché la realizzazione del Corridoio Strasburgo-Bratislava costituirebbe un'alternativa al Corridoio 5 ed escluderebbe l'Italia dalle grandi linee di collegamento europee.
Inoltre, lo scorso 13 settembre la coordinatrice Loyola de Palacio, nella sua relazione presentata al commissario Barrot, ha insistito sulla necessità di addivenire ad una soluzione urgente, chiedendo un impegno non solo sul piano economico, ma anche - e forse soprattutto - su quello politico, ricordando altresì come il Governo Prodi si sia impegnato a dare una risposta entro dicembre 2006.
Nel momento in cui ci troviamo ancora a discutere sulle modalità da seguire per affrontare le nostre contraddizioni interne, la linea concorrente della TAV Parigi-Strasburgo-Bratislava è, al contrario, in fase avanzata, considerato che i quattro Stati interessati al passaggio hanno già firmato l'accordo intergovernativo. A ciò si aggiunga che il completamento della Torino-Lione, la cui capacità di trasporto lungo l'asse del Corridoio 5 è stata valutata, in sede europea, pari a circa un terzo dell'intero traffico merci e passeggeri del nostro continente, consentirà di ridurre i costi e i tempi dei trasporti oggi gravanti sulle imprese italiane, di investire altresì in innovazione ed alta tecnologia e, infine, di creare un'imponente massa di posti di lavoro, non solo nella fase di cantiere, ma anche - e soprattutto - a regime, ove soltanto si consideri che sulla futura piattaforma logistica tra Torino e Milano vengono oggi valutate in 300 mila le unità lavorative che in futuro saranno a vario titolo coinvolte.
Da ultimo, si consideri che i medesimi ostacoli procedurali sopra denunziati si stanno verificando anche in relazione al progetto del terzo valico ferroviario in valle Scrivia, anch'esso di importanza strategica per il collegamento del sistema portuale ligure e tirrenico con il centro Europa.
Di fronte a queste argomentazioni chiediamo che l'Assemblea si esprima con un voto che impegni il Governo ad attivarsi per superare, una volta per tutte, le riserve e l'aperta opposizione che, ancora oggi, alcune importanti componenti della maggioranza parlamentare esprimono pubblicamente in merito alla realizzazione della tratta alta velocità Torino-Lione, garantendo l'unità di indirizzo politico e amministrativo, la cui responsabilità spetta costituzionalmente al Presidente del Consiglio, al quale compete, inoltre, il potere di concordare con i singoli ministri le pubbliche dichiarazioni che questi ultimi intendano rendere e che impegnano la politica generale del Governo; ad attivarsi, inoltre, affinché siano sbloccati in tempi brevi i lavori di realizzazione del terzo valico ferroviario dell'Appennino ligure-piemontese citato in premessa. Ed ancora, occorre che la Camera deliberi al fine di impegnare il Governo a concludere positivamente, entro il termine improrogabile del 30 settembre 2007, le procedure autorizzative e di appalto, così da evitare la perdita degli ingenti fondi stanziati dall'Unione europea in favore del nostro paese per la realizzazione dell'opera. Ciò perché si ritiene che un anno di tempoPag. 95possa essere più che sufficiente per svolgere le procedure ordinarie, a condizione che si intenda effettivamente realizzare l'opera.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dei deputati Del Bue e Moffa, iscritti a parlare: s'intende che vi abbiano rinunziato. È iscritto a parlare il deputato Beltrandi. Ne ha facoltà.

MARCO BELTRANDI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, la mozione sottoposta alla nostra attenzione ha per oggetto una questione importante, vale a dire la realizzazione della parte italiana del Corridoio ferroviario 5 ad alta capacità Torino-Lione. Sulla necessità di realizzare questa opera infrastrutturale non sembrano sussistere dubbi. È necessaria al nostro sistema economico per rendere finalmente competitivo il trasporto delle merci su rotaia rispetto a quello su gomma; è necessaria per incrementare la sicurezza stradale e ridurre di conseguenza l'inquinamento ambientale. Questo va ricordato a coloro che si oppongono all'opera, anche se non soprattutto per supposte ragioni ambientali.
D'altro canto il Presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi, così come i ministri dei trasporti, professor Alessandro Bianchi, e delle infrastrutture, onorevole Antonio Di Pietro, anche nel corso di audizioni nelle Commissioni parlamentari competenti, hanno dichiarato con la massima chiarezza che questa opera deve essere realizzata e che ad essere in discussione sono le modalità ed i tempi della realizzazione. Queste sono le dichiarazioni che contano e non a caso, tranne una, non vengono citate nella mozione presentata, il che ne svela peraltro il carattere piuttosto strumentale. Ci sarebbe piaciuto, ad esempio, che una simile mozione fosse stata sottoposta al Parlamento quando il Governo Berlusconi sospese i lavori per l'alta capacità in Val di Susa nel dicembre dello scorso anno, fatto che non può essere dimenticato.
Esprimiamo una valutazione critica su questa mozione - mi riferisco a quella a firma Zanetta - anche per il dispositivo. Non riteniamo che sia compito dell'istituzione Governo in quanto tale risolvere i contrasti politici della coalizione della maggioranza parlamentare, come chiede o suggerisce la mozione, mentre il Presidente del Consiglio dei ministri non ha certo bisogno di una mozione parlamentare per mantenere l'unità di indirizzo del Governo. Parimenti, ci sembra criticabile il resto del dispositivo, che è eccessivamente vincolante. Il Governo deve avere la possibilità di intraprendere un percorso alternativo a quello previsto dalla legge obiettivo, perché non dobbiamo nascondere il fatto che errori sono stati compiuti in Val di Susa. È già stato aperto un confronto con le comunità locali, non mi pare difficile immaginare che qualche forma di compensazione andrà prevista per chi si troverà a sopportare i disagi dei lavori e di un intervento non certo irrilevante sul territorio. L'esigenza di rivedere e ripensare questo progetto non potrà però essere utilizzata come pretesto per rimandare sine die la realizzazione di un'opera che riteniamo fondamentale per il nostro paese, per l'economia, per la sicurezza stradale e per la tutela ambientale.
Il gruppo de La Rosa nel Pugno, in sintesi, invita comunque il Governo a procedere nel più breve tempo possibile al completamento delle procedure per realizzare l'infrastruttura nel rispetto degli impegni assunti con l'Europa, adottando criteri internazionalmente riconosciuti per la valutazione dell'impatto ambientale, che, in quanto tali, non possano più essere contestati da preoccupazioni, per quanto comprensibili, delle popolazioni locali, da politici che le strumentalizzano e da esperti, veri o presunti. Occorre ribadire che le grandi opere infrastrutturali non possono essere ostacolate da quelli che rischiano di apparire come egoismi localistici. Questo lo dico anche alla maggioranza della precedente legislatura, che non ne ha tenuto conto in almeno due occasioni: l'alta capacità in Val di Susa e la vicenda di Scanzano Ionico.
Non affrontare tale questione significherebbe rinunciare ad ogni possibilità di governo e quindi anche di buon governo del territorio.

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PRESIDENTE. Constato l'assenza del deputato Mancuso, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare il deputato Allasia. Ne ha facoltà.

STEFANO ALLASIA. Signor Presidente, stiamo assistendo ad uno sviluppo economico e sociale della nostra comunità che comporta un continuo aumento della richiesta dei trasporti, a differenza di altri paesi della comunità europea ove il trasporto ferroviario assorbe una cospicua quota della richiesta globale.
In Italia questo mezzo occupa una quota assai modesta. Eppure, la ferrovia garantisce un livello di sicurezza maggiore rispetto a quello offerto dal trasporto su gomma; garantisce l'inquinamento quasi nullo (ovviamente nel caso di ferrovia elettrificata); occupa, a pari potenziali di trasporto, una superficie minore e permette un impatto ambientale assai più accettabile.
Sono questi tutti i motivi per cui il trasporto ferroviario del nord deve essere incrementato e, pertanto, deve ricevere tutta l'attenzione, tutti i finanziamenti necessari al potenziamento delle sue infrastrutture.
In questo contesto, le linee ad alta velocità o alta capacità o quadruplicamenti veloci possono contribuire in modo determinante all'assorbimento sul vettore ferroviario delle quote crescenti di richieste dei trasporti. Nella rete dei trasporti italiani si è sempre favorito l'asse nord-sud, a discapito dell'asse est-ovest, cioè quello padano.
Con la tratta Lione-Torino-Milano-Venezia si otterrebbe un giusto equilibrio, ricollocando il nord, come logico, al centro dei commerci e degli scambi fra la Francia meridionale, la Padania, l'Italia e l'est europeo, con tutti i benefici economici che ricadrebbero sul territorio.
Benefici consistenti si avrebbero già immediatamente con l'apertura dei cantieri che assicurerebbero un prezioso assorbimento di manodopera, a patto che la stessa venga assorbita dallo stesso territorio interessato dall'infrastruttura.
L'entità degli investimenti per l'alta velocità sarebbe in grado di mettere in moto la macchina della ripresa economica, favorendo l'indotto locale e non dei soliti noti o degli amici degli amici o ancora peggio delle lobby dei perforatori di montagna, creando una vera gallina dalle uova d'oro per il nord.
Dunque, tutti questi elementi non possono che farci assumere una posizione favorevole alla realizzazione delle nuove linee, compresa quella in Val di Susa, con il traforo verso la Francia.
Certo, non possiamo dimenticare le giuste rivendicazioni delle popolazioni della valle e tanto meno andare ad incidere negativamente sul territorio, ma ritengo sia possibile l'armonizzazione di queste diverse esigenze: gran parte del percorso avverrà in galleria e già da subito possiamo pensare a soluzioni che, per quanto più costose, possono tutelare la salute dei cittadini. Ad esempio, è possibile non impattare la Val Cenischia: il tragitto potrebbe non uscire dalla montagna, ma passare sotto la vallata.
Sappiamo benissimo che il costo sarebbe molto elevato, ma la salute dei cittadini ed i problemi ambientali non hanno prezzo.
Per la valle, nasce per contro una buona opportunità di ottenere diversi miglioramenti. Occorre, infatti, pretendere che importanti opere vengano contemporaneamente realizzate anche relativamente alla vecchia ferrovia. In alcuni centri, primo fra tutti Avigliana, la ferrovia va interrata, con l'eliminazione dei passaggi a livelli e conseguenti benefici per gli abitanti, la cui città oggi è tagliata in due dalla ferrovia.
Dunque, come ho detto, la realizzazione della nuova linea potrebbe coincidere con un netto miglioramento della situazione di vita della vallata e non con un peggioramento.
Certo, non bisogna dimenticare il carattere strategico del Corridoio 5, ma l'intero progetto è stato concepito negli uffici di Bruxelles. È un prodotto dei poteri forti europei e sottoscritto dal Governo di sinistraPag. 97di Amato nel 1993 ed è stato difeso anche in questi giorni da un politico che risponde al nome di Romano Prodi.
Voglio ricordare che nelle Commissioni di merito proprio quegli esponenti della sinistra e dei Verdi, che oggi si schierano contro, hanno sempre brillato per la loro assenza ed inconcludenza.
La Lega Nord ha da sempre sostenuto la necessità di questa opera. La linea ferroviaria ad alta velocità produrrà certamente effetti positivi: il Piemonte e tutto il nord non verrà tagliato fuori dalla grande rete di collegamenti europei e certamente il fatto che gran parte del trasporto merci venga dirottato dalla gomma alla rotaia non potrà che apportare benefici al nostro territorio.
Ma non possiamo nasconderci dietro un dito.
Realizzare una grande infrastruttura significa modificare il territorio e dunque arrecare disagio alla popolazione. Lo sa bene la Val di Susa che ha già pagato un prezzo altissimo per la realizzazione di grandi opere.
Lo sanno bene anche i torinesi che vivono da mesi in una città lacerata dai cantieri: quelli della metropolitana, del passante ferroviario e dei parcheggi sotterranei.
Nei valsusini è ancora troppo vivo il ricordo di quanto avvenne nei decenni passati con la realizzazione dell'autostrada Torino-Bardonecchia. Forte è la paura che anni di cantiere possano compromettere il turismo, che la mafia, italiana o di importazione, possa tornare a farla da padrona sulle loro montagne, che il territorio possa subire modificazioni destinate a produrre devastanti conseguenze. Allora, occorre tener conto di queste paure, di queste esigenze. Siamo d'accordo con la concertazione, ma i residenti valsusini non vogliono essere solo ascoltati, attendono proposte concrete e soluzioni. Da tempo questa realtà chiede un'autonomia. E siamo qui a rilanciare il progetto che trova una sua ragion d'essere nelle peculiarità geografiche e culturali di questo territorio. È tempo di ragionarci insieme. Possiamo mettere in campo una serie di misure che possono aiutare questo territorio a superare le difficoltà che certo la realizzazione dell'alta velocità produrrà. Penso, ad esempio, all'esenzione dell'IRPEF regionale e ad una forma di defiscalizzazione per i residenti e per le imprese che hanno sede in Val di Susa. Ma rimango convinto che la risposta politica, che si deve dare alle istanze della Val di Susa, sia una sola e che si chiami autonomia, che significa concedere ai comuni condizioni e forme speciali di autonomia secondo uno schema che la Lega Nord Padania ha fatto inserire, nella passata legislatura, nello statuto della regione Piemonte e che oggi vale per le province con prevalenti caratteristiche montane, ma che, per quanto riguarda la Val di Susa, deve essere esteso ai comuni. Autonomia vuol dire far partecipare il territorio alle scelte e ai processi decisionali. La sinistra, invece, lo sappiamo, è e sarà sempre con lo Stato centralista.
Noi sulla Val di Susa non abbiamo mai promesso cose che non si potevano mantenere. Oggi stiamo assistendo ad una strumentalizzazione di istanze concrete da parte di chi non ha niente da proporre in alternativa. Per comprendere le ragioni che ci spingono a chiedere l'autonomia per la Val di Susa bisogna evidenziare alcuni elementi. Innanzitutto, la situazione geopolitica, la situazione etnica ed economica, l'arte, la situazione turistica, gli sbocchi (il fondovalle è collegato con una delle pianure a ricchezza più diffusa d'Europa: la Padania); inoltre, i vantaggi economici e giuridici con forma di «regione autonoma Val di Susa»: nella costituente regione viene utilizzato personale delle istituzioni, vengono ridotti i costi di gestione e i tempi di decisione, come suggeriva un premio Nobel del 1991. Ciò permetterebbe la fruizione di benessere ai cittadini attori della loro sovranità, di cui sono i veri ed unici depositari.
Vorrei fare ancora una breve considerazione su quanto è accaduto lo scorso inverno sul blitz a Venaus. Non si può blindare la Val di Susa come se si fosse in guerra. E non si può essere in guerra con i propri cittadini. Perché non si inviano mille agenti a ripulire la stazione di PortaPag. 98Nuova o a San Salvario e a Porta Palazzo a Torino, dove ci sono zone piene di clandestini e si delinque impunemente?
Siamo di fronte a due pesi e due misure: in occasione della protesta di Scanzano Ionico per lo stoccaggio delle scorie nucleari, ci si è comportati in modo cosiddetto responsabile, qui, invece si usa il manganello. Questo atteggiamento non ci piace. La sinistra ha strumentalizzato la protesta aizzando la gente, parlando a vanvera e promettendo cose che non poteva mantenere. Noi chiediamo, come avvenuto in Francia dove, nella vicenda della TAV, sono state coinvolte la cittadinanza, gli amministratori locali e le associazione ambientaliste, oltre che politici e tecnici, che si dia alle persone l'impressione che le decisioni di fondo non sono prese sopra le loro teste e, soprattutto, sulla loro pelle.
Anche per sciogliere quei nodi fondamentali, relativi all'amianto ed al materiale radioattivo, noi diciamo che la salute non è in vendita e non vogliamo essere complici e legittimare eventuali omicidi a favore del cosiddetto progresso, qualunque esso sia.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dei deputati Picano, Bonelli e Provera, iscritti a parlare: s'intende che vi abbiano rinunziato.
È iscritto a parlare il deputato Misiti. Ne ha facoltà.

AURELIO SALVATORE MISITI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il gruppo dell'Italia dei Valori è molto critico nei confronti delle premesse e delle richieste avanzate dai presentatori della mozione Zanetta ed altri.
A noi sembra essere più un documento di polemica politica che un contributo costruttivo alla linea realistica che essi annunciano di voler perseguire. Mentre viene messa in evidenza la differenza di opinioni sull'argomento oggetto della mozione dei componenti l'attuale maggioranza, nulla si dice sulle carenze di procedura del precedente Governo, che hanno determinato la reazione delle comunità locali, poco o niente coinvolte nella scelta definitiva del progetto. Vi è poi la mozione Tassone ed altri presentata per ultima, la quale sembra essere meno ideologica e più pratica. Tuttavia, anch'essa è parziale e, quindi, potrebbe essere soltanto la parte di un più ampio documento da approvare dopo una maggiore e più approfondita discussione, magari nelle Commissioni competenti.
Le modalità di realizzazione possono essere discusse e questo potrebbe essere foriero di una discussione pacata anche tra la popolazione locale. Anche questa mozione, quindi, così come è stata presentata, non può essere appoggiata dal nostro gruppo. Il gruppo dell'Italia dei Valori, inoltre, è molto preoccupato per quanto finora è avvenuto, a causa della frettolosa decisione di procedere ai sondaggi nel terreno senza prima conoscere fino in fondo i pareri dei comuni della Val di Susa. Ciò ha determinato una contrarietà al treno ad alta velocità, non solo in Val di Susa ma in quasi tutto il paese. Questo non fa bene all'Italia, che ha bisogno dell'alta velocità per rinnovare il suo obsoleto sistema ferroviario principale e per rassicurare i legami al sistema della rete europea (basti pensare alla carenza di rinnovamento del sistema ferroviario del sud, che, effettivamente, risale ad oltre un secolo e mezzo fa).
In particolare, il Corridoio 5, di cui fa parte la galleria che viene contrastata dalla popolazione, risulta indispensabile per il futuro del nostro paese. Esso collega Lisbona a Kiev - transitando per la Val Padana invece di passare al di là delle Alpi, e questo è molto importante -, incrocia anche il Corridoio 1 Berlino-Palermo e, quindi, connette tutta l'Italia al resto d'Europa. Ciò significa che il Parlamento italiano dovrebbe unitariamente sollecitare il Governo a fare presto e bene, avviando una seria verifica del progetto che con ogni mezzo deve essere illustrato alle popolazioni, che, oltre a quelle negative, avrà sicuramente ricadute positive sul territorio, certamente prevalenti rispetto alle prime. Una mozione o una risoluzione quindi che solleciti il Governo a verificare se è possibile una migliore scelta progettualePag. 99- vista la fretta con cui è stata variata la precedente -, che valorizzi al massimo l'adeguamento dell'attuale ferrovia da adibire ai passeggeri e che sviluppi un piano di attuazione del progetto che tenga conto delle reali esigenze di traffico ferroviario nel tempo, a noi pare molto auspicabile.
Come Italia dei Valori saremmo molto interessati alla proposta di un tavolo anche con l'opposizione per verificare la possibilità di trovare tutti insieme un'intesa per la realizzazione del Corridoio 5 che è indispensabile per il nostro paese. Ciò faciliterebbe l'azione del Governo, di questo Governo (ma di qualunque altro), che dovrà sempre rispondere ad esigenze sovranazionali.
Ecco perché non possiamo condividere lo spirito della mozione Zanetta ed altri n. 1-00017 e non possiamo sostenere neanche la mozione Tassone ed altri n. 1-00028 per la sua parzialità. Questo spirito è un po' pervaso da divisione.
Noi, invece, sapendo che l'ammodernamento del paese non ha colori, vorremmo che il Parlamento arrivasse ad una risoluzione o ad un una mozione appoggiata dalla stragrande maggioranza dei suoi componenti. Pertanto, voteremo contro le due mozioni presentate, ma in uno spirito costruttivo per il futuro.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Merlo. Ne ha facoltà.

GIORGIO MERLO. Signor Presidente, sarò molto rapido, perché i temi sono già stati trattati. Devo dire subito che la mozione dell'onorevole Zanetta, secondo la nostra opinione, è un utile contributo al dibattito. È una riflessione politica, almeno nelle sue premesse, non condivisibile, ma sull'obiettivo finale c'è un'ampia convergenza. Il tema è, infatti, particolarmente complesso e delicato - lo ricordava anche precedentemente l'onorevole Zanetta -, quindi, non si può banalizzare grossolanamente.
La chiarezza sugli obiettivi non può tollerare le pregiudiziali ideologiche. A noi dell'Ulivo le posizioni del ministro Ferrero non ci appartengono, come non ci appartengono alcune affermazioni di taluni esponenti di Governo (mi riferisco, in particolare, all'onorevole Cento), perché credo che le pregiudiziali ideologiche, quando si parla di modernizzare la rete infrastrutturale e di creare le condizioni per far sì che il nord d'Italia non sia isolato dal resto dell'Europa, abbiano le gambe corte, come specularmente le forzature cui abbiamo assistito nella scorsa legislatura.
Sono due elementi da non prendere in considerazione, da battere sul terreno politico, sia le pregiudiziali di carattere ideologico sia le forzature innaturali, che poi hanno creato una situazione a tutti ben nota, con una contrapposizione tra le comunità locali, le forze dell'ordine, gli enti locali maggiori, per arrivare alla conclusione di non far nulla.
Noi dobbiamo ribadire con molta forza (ed è questa la posizione dell'Ulivo, ricordata in tutte le sedi) che non c'è una proposta alternativa a quella che è stata individuata, ossia quella di realizzare il Corridoio 5, come del resto dice anche il programma dell'Unione per quanto riguarda le grandi infrastrutture. Sotto questo aspetto, fanno testo anche i pronunciamenti dei ministri competenti. Mi riferisco, in particolare, all'audizione, molto precisa, molto puntuale, del ministro dei trasporti, Bianchi, e del ministro delle infrastrutture, Di Pietro, rese alla IX Commissione: due momenti fortemente qualificanti, dove c'è stata una ampia convergenza sull'individuazione e la necessità di realizzare l'opera.
Vorrei citare, sotto quest'aspetto, proprio il ministro Bianchi, quando sottolineava il pericolo dello spostamento a nord di questo asse che rischierebbe di isolare definitivamente il nostro territorio, in particolare il nord d'Italia. Ecco perché allora i quattro punti che vogliamo ribadire sono qualificanti per quanto riguarda quest'opera: la centralità della Torino-Lione; l'importanza strategica del Corridoio 5 per l'ammodernamento infrastrutturale e lo sviluppo del nostro sistema produttivo; il coinvolgimento pieno (è la ragione per cuiPag. 100abbiamo detto di no alla legge obiettivo) delle realtà locali (e sotto questo aspetto, molti passi in avanti sono stati fatti); infine, il quarto elemento, il più importante, è che la Torino-Lione resta una priorità rispetto ai grandi anelli di collegamento.
Credo che questo elemento ci porti a dire in modo abbastanza convinto che noi crediamo in questa opera, che si deve fare superando tutte quelle difficoltà che chi ha governato prima ha incontrato per aver pervicacemente perseguito la linea di una contrapposizione con le realtà locali. Credo che sotto questo aspetto la politica debba riprendere la guida e la sua credibilità, evitando processi irrazionali, soprattutto attraverso una capacità di ricucire le posizioni attorno ad un comune obiettivo. Del resto, i recenti passi fatti dal Governo vanno in questa direzione, avendo individuato un tavolo - che c'è già -, che mette insieme tutte le realtà competenti.
Presidente, concludo con un invito che rivolgo anche al Governo, rappresentato autorevolmente stasera dal sottosegretario per le infrastrutture. Pur dicendo di no alla mozione di Zanetta e Tassone, più per le riflessioni politiche che per l'obiettivo che si vuole perseguire, credo che il Governo, sottosegretario Meduri, si debba impegnare su alcuni aspetti, attorno ai quali c'è già stato un pronunciamento anche delle realtà locali piemontesi (mi riferisco al comune di Torino, alla provincia di Torino e alla regione Piemonte): mettere a punto una posizione ufficiale da presentare e sostenere autorevolmente in tutte le sedi competenti, anche tramite iniziative presso la società Ferrovie, che rispetti alcuni indirizzi; confermare una esplicita e ferma opzione ferroviaria, che deve portare ad un riequilibrio tra le scelte modali gomma-ferro, sottolineato che tale opzione non potrà risolversi soltanto nella realizzazione di infrastrutture, ma dovrà estendersi ad innovazioni normative e tariffarie, riguardando il trasporto merci, atte ad incentivare l'uso della ferrovia, in assenza delle quali non ci si potrà attendere risultati apprezzabili; esercitare un impegno forte nei confronti degli organismi competenti dell'Unione europea, perché si definisca e si renda operativa la normativa cosiddetta eurovignette, che ha indicato le linee guida sul riequilibrio modale per tutti i Governi; perseguire politiche specifiche per le aree alpine - questo è molto importante quando si parla della Val Susa - volte alla tutela dell'ambiente dall'inquinamento da traffico e al contingentamento del transito di mezzi pesanti, specialmente nei trafori stradali e autostradali, teatro negli anni recenti di gravi incidenti, riconsiderando l'adesione dell'Italia al protocollo trasporti della Convenzione delle Alpi; definire, unitamente alla regione Piemonte, all'interno del progetto di servizio ferroviario metropolitano, un credibile e rigoroso programma di potenziamento del traffico passeggeri sulla linea storica, con relative strutture di accompagnamento, parcheggi di interscambio, eventuali nuove fermate, in grado da subito - credo che questo sia un elemento importante quando si parla di Corridoio 5 e quando si parla della Torino-Lione -, ma soprattutto a seguito dell'aumento di capacità disponibile sulla linea storica, dovuto all'entrata in servizio della nuova linea, di ridurre il traffico veicolare pendolare, migliorando il servizio di trasporto pubblico offerto ai residenti ed al turismo; impegnarsi fortemente nel reperimento di adeguate risorse per il rinnovo e il potenziamento del materiale rotabile, con particolare riferimento alle locomotive politensione, al fine di massimizzare l'efficacia degli interventi infrastrutturali attivati sul corridoio e, soprattutto, sottosegretario Meduri, nel supportare, con ogni sforzo, il lavoro dell'osservatorio tecnico sulla Torino-Lione, affinché siano garantite la condivisione delle scelte attraverso la concertazione, mancata nella precedente legislatura, e il confronto continuo con le comunità locali, in un'ottica di massima trasparenza ed efficienza.
Ecco perché quando diciamo di sì alla Torino-Lione e al Corridoio 5 sosteniamo che l'obiettivo vada portato a termine, che non occorre perdere i finanziamenti europei,Pag. 101che occorre favorire un grande coinvolgimento popolare ed istituzionale (enti locali), che non possiamo accettare debiti da chiunque provengano e che non possiamo legare il tutto al superamento della legge obiettivo. Credo che sotto questo profilo - lo ribadisco e concludo - la politica infrastrutturale del Governo debba essere chiara (il ministro Di Pietro e il ministro Bianchi in Commissione sono stati molto chiari); ritengo che questo sia un obiettivo che il Governo possa tranquillamente realizzare, perché crediamo in questa opera. Sotto questo aspetto è positivo sentire che anche nell'opposizione per la realizzazione di questo obiettivo vi è una larga condivisione.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

(Intervento del Governo)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato per le infrastrutture, onorevole Meduri.

LUIGI GIUSEPPE MEDURI, Sottosegretario di Stato per le infrastrutture. Signor Presidente, mi riservo di intervenire nel prosieguo del dibattito.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Maroni ed altri n. 1-00010, Realacci ed altri n. 1-00009 e Lion ed altri n. 1-00022 sull'introduzione di regole riguardanti l'utilizzo di pratiche enologiche alternative alle tradizionali tecniche di invecchiamento del vino (ore 22,25).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Maroni ed altri n. 1-00010, Realacci ed altri n. 1-00009 e Lion ed altri n. 1-00022 sull'introduzione di regole riguardanti l'utilizzo di pratiche enologiche alternative alle tradizionali tecniche di invecchiamento del vino (Vedi l'allegato A - Mozioni sulle pratiche enologiche sezione 1).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservata alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Realacci, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00009. Ne ha facoltà.

ERMETE REALACCI. Signor Presidente, cercherò anch'io di essere sintetico, tuttavia penso sia utile lasciare agli atti le motivazioni che hanno portato alla presentazione di questa mozione. Del resto, ci troviamo di fronte a tre mozioni che sono sostanzialmente molto simili tra di loro e credo che tutte possano essere approvate, dal momento che vanno nella stessa direzione. La discussione avviene su richiesta del gruppo della Lega Nord, quindi dell'opposizione, che ha presentato una mozione successivamente alla mia, peraltro sottoscritta da esponenti sia della maggioranza che dell'opposizione. Tra gli altri, vorrei ricordare i colleghi Franceschini, Lion, Alemanno, Tabacci, Cacciari ed altri. Inoltre, un'ulteriore mozione sulla stessa lunghezza d'onda è stata presentata dai colleghi della Commissione agricoltura. Tutte le mozioni sono volte ad affrontare una questione apparentemente marginale, ma che in realtà è importante per definire non solo il futuro del vino italiano, ma anche le caratteristiche della nostra agricoltura e, in ultima analisi, della nostra economia.
A livello internazionale con decisioni assunte anche a livello di Unione europea si sta introducendo una pratica enologica che prevede una specie di surrogato dell'invecchiamento in botti o in barriquePag. 102attraverso l'aggiunta di trucioli. In realtà, si tratta di segatura aggiunta nella fase di fermentazione del vino con il risultato di ottenere un prodotto sicuramente a costo più basso, ma al tempo stesso con la banalizzazione e la standardizzazione del gusto.
Tale pratica si è molto diffusa in paesi concorrenti dell'Italia sul mercato internazionale, affacciatisi recentemente sul terreno alla produzione del vino con grande energia. Noi riteniamo che, oltre ad essere discutibile sul piano della qualità e degli effetti che produce, tale pratica sia contraddittoria rispetto alla funzione che il vino e l'agricoltura italiana sono chiamate a svolgere. Mi sia consentito dirlo perché è una metafora del tipo di economia che il nostro paese deve costruire. Le tre mozioni si chiudono con l'invito rivolto al Governo ad essere attivo a livello internazionale nel tentativo di contrastare queste pratiche enologiche. In altra occasione ho avuto scherzosamente modo di definire «vino di Pinocchio» il prodotto realizzato con un surrogato dell'invecchiamento in barrique. Inoltre, si dovrebbe quanto meno garantire ai cittadini europei una trasparenza nelle etichette rispetto ai vini che adoperano queste pratiche enologiche nonché il divieto di utilizzo di tali pratiche nei vini maggiormente pregiati (DOC, DOCG, IGT). Siamo a favore dei vini certificati che oramai rappresentano una parte importante della nostra produzione e sicuramente quella di maggior valore.
Tale scelta, condivisa nelle tre mozioni, ritengo debba essere assunta con impegno dal Governo, ma è utile fare un passo indietro per compierne uno in avanti. Infatti, dobbiamo capire cosa è successo nel mondo del vino nel corso di questi anni e quale può essere lo sviluppo di questo come di altri settori produttivi della nostra agricoltura e del nostro paese.
Vent'anni fa il vino italiano attraversò una crisi devastante, quella del metanolo.
Nel marzo del 1986, ci fu una sofisticazione criminale che, purtroppo, produsse molte vittime. Ci furono circa 20 morti e alcune persone rimasero accecate e, peraltro, ci sono ancora pratiche di risarcimento aperte con riferimento alle famiglie delle vittime.
Questa sofisticazione era figlia di una tendenza che il vino italiano aveva preso, cercando di aumentare di molto la quantità e di abbassare i prezzi. Tale tendenza, già prima della crisi del metanolo, portò il nostro vino in un vicolo cieco.
Molto spesso i nostri vini venivano esportati - ad esempio, in Francia - come vini da taglio per produrre vini più pregiati e altre volte venivano distillati per ricavarne alcol. Nella ricerca del basso prezzo, penetrò la sofisticazione quando per un caso fu detassato il metanolo, con conseguenze sanitarie pesanti.
Cosa è successo dopo quella crisi tremenda, che produsse un crollo delle vendite? È accaduto che - senza una politica pubblica di indirizzo e di orientamento, ma per un'azione territorialmente molto estesa da parte di imprenditori agricoli e di organizzazioni di agricoltori - si è cambiata completamente rotta. Si è passati da una fase in cui si puntava sulla quantità e sul basso prezzo ad una scelta molto più forte legata alla qualità e al territorio.
L'effetto di tale mutazione, nel corso di questi vent'anni, è stato che oggi l'Italia produce circa il 40 per cento in meno del vino prodotto negli anni Ottanta, ma il vino prodotto oggi vale in moneta costante più del triplo di quello che valeva allora il complesso della produzione di vino. Inoltre, le nostre esportazioni sono più che triplicate: abbiamo battuto la Francia, non solo ai mondiali di calcio, ma anche nell'esportazione del vino; siamo i primi su mercati importanti come quelli americani e, molto spesso, i vini sono diventati ambasciatori dei nostri territori e le produzioni di vino di qualità si sono estese dalle zone tradizionali a tutto il paese. Oggi - lo dico perché sono presenti sottosegretari meridionali - ci sono vini di straordinaria qualità anche in tante zone del sud e, molto spesso, quando pensiamo a determinati vini pensiamo a specifici territori. Ciò vale per il Chianti o per le Langhe e per tante zone del sud; quando pensiamoPag. 103a Montalcino pensiamo al Brunello, quando pensiamo alla Sicilia pensiamo anche a grandi vini e lo stesso vale per tutte le regioni del nostro paese.
La scelta per una qualità legata al territorio è quella che ha fatto vincere il nostro vino. Per carità, non sono tutte rose e fiori; le vicende sono complesse, occorre rafforzare la nostra capacità di difendere i marchi all'estero, di vendere meglio i nostri prodotti, di coordinare meglio le azioni, ma partiamo sicuramente da un successo.
Oggi, l'introduzione di una pratica di questo tipo si muoverebbe in una direzione opposta a quanto accaduto. Capisco e posso anche accettare che ci siano vini di qualità più bassa anche nel nostro paese, come le produzioni non certificate. Tenete conto che, nel frattempo, le produzioni certificate - DOP, DOCG e IGT - sono passate dal 10 per cento della metà degli anni Ottanta a circa il 60 per cento.
Il cuore della competitività dei nostri vini, della nostra agricoltura e della nostra economia è costituito da una scommessa fortissima sulla qualità. Una scommessa che implica politiche di accompagnamento, che si coordinano con le politiche del turismo e della difesa del made in Italy.
Durante il precedente Governo fu svolta un'inchiesta di grandissimo interesse sulla quantità di prodotti che sul mercato erano venduti utilizzando un nome italiano. Da tale inchiesta risultò che soltanto sul mercato statunitense ogni anno venivano venduti 17 miliardi di dollari di prodotti con nome italiano, che venivano acquistati con un prezzo più alto proprio per il fatto di avere un nome italiano.
Di questi 17 miliardi di dollari, provenivano dall'Italia soltanto 1,5 miliardi di dollari: l'8 per cento. Quindi, eravamo di fronte a circa 30 mila miliardi di vecchie lire di «patacche», cioè di prodotti che utilizzavano il richiamo italiano pur non avendo visto l'Italia neanche in cartolina. Altro che i cinesi! Questo ci fa capire che lo spazio enorme che noi abbiamo quando difendiamo ciò che è italiano legato alla qualità, al territorio, alla creatività è veramente il terreno su cui la nostra economia si deve muovere, ed è un terreno ortogonale rispetto a quello del vino con i trucioli.
La frontiera competitiva del nostro vino nel futuro non solo è legata alla prosecuzione di ciò che abbiamo fatto nel corso di questi anni, ma può puntare su una carta che i nostri concorrenti non hanno. Nel nostro paese esistono migliaia di vitigni autoctoni, figli del fatto che in Italia esiste una cultura del vino che risale ai greci, ai romani, ai cartaginesi. Tale cultura, ovviamente, non esiste nei nostri concorrenti emergenti: i vitigni autoctoni non esistono in California, in Sudafrica, in Australia, in Nuova Zelanda, in Cina. I vitigni autoctoni non sono solo, oggi, una straordinaria biodiversità da conservare, ma possono essere la base di grandi vini del futuro.
Già questo, in parte, è accaduto: anni fa nessuno avrebbe pensato che il Nero d'Avola potesse avere lo sviluppo che ha avuto, ma questo è accaduto in tanti altri campi. Uno dei migliori vini italiani degli ultimi anni è, ad esempio, il Sagrantino di Montefalco. Quest'ultimo era un vitigno scomparso che è stato recuperato da un bravissimo imprenditore, Marco Caprai, che ha realizzato anche una mappatura genetica per recuperare questo vitigno. Si tratta di scelte che richiedono spesso l'utilizzo di tecnologie avanzate, ed oggi quel vino è un vino di straordinaria qualità. Lo stesso vale per il Passito di Pantelleria e per tanti altri vini che hanno tali caratteristiche straordinarie.
In conclusione, il senso della nostra mozione è apparentemente limitato, ma in realtà è un invito forte nel comparto del vino, negli altri settori dell'agricoltura e nell'economia a competere difendendo i punti di forza del paese. L'Italia è forte quando compie due scelte: da un lato, scommette, come è necessario fare per un grande paese avanzato, su innovazione, ricerca e conoscenza, ma dall'altro scommette sulle cose che abbiamo in misura più straordinariamente forte di altri paesi. Si tratta di un intreccio unico al mondo, in cui città e patrimonio storico-culturale,Pag. 104ambiente naturale e paesaggio, prodotti tipici e buona cucina, coesione sociale, creatività e Italian way of life rappresentano qualcosa che il mondo ancora ci invidia ed apprezza.
Leggevo oggi sui giornali, se vogliamo alleggerire quest'ora tarda della sera, che quando i tre italiani sono saliti sul podio del Gran premio di motociclismo il telecronista giapponese è andato in visibilio e ha cominciato a dire: «Italia, Italia, Italia!» Dubito che l'avrebbe detto per altri paesi. Questa capacità dell'Italia di affascinare è molto legata al suddetto tipo di cultura, di tradizione, di produzione.
È per questo che, nel vino come in altri campi, proiettare nella modernità queste nostre caratteristiche è la vera nostra forza. Accedere, invece, a tecnologie e forme di commercializzazione che impoveriscono non solo la nostra storia, ma anche il nostro futuro è una scelta sbagliata, dal punto di vista innanzitutto della nostra identità, ma anche della nostra economia (Applausi).

PRESIDENTE. Constato l'assenza del deputato Fundarò, iscritto a parlare: si intende vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare il deputato Bellotti. Ne ha facoltà.

LUCA BELLOTTI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, pochi onorevoli colleghi, sebbene in quest'aula molto spesso ci si divida su tutto o quasi, il Parlamento italiano su tale tema ha trovato una sua unità nella difesa del settore vitivinicolo italiano, del consumatore e delle sue prerogative che si sono andate affermando sempre più negli ultimi anni come veri e propri diritti. È per questo che siamo in questa sede oggi a discutere della questione sollevata dalle mozioni in esame.
Non si tratta di questioni secondarie, ma di riaffermare invece che lo Stato intende farsi carico della tutela del consumatore, ambito economico e strategico importantissimo all'interno del nostro paese. Di che cosa stiamo parlando, infatti? L'accordo bilaterale, firmato a Londra il 10 marzo 2006, tra l'Unione europea e gli Stati Uniti, sebbene abbia evitato l'accendersi di un contenzioso di cui le esportazioni italiane non hanno proprio bisogno, non può che essere definito come un accordo al ribasso, permettendo agli Stati Uniti di immettere sul mercato comune vini invecchiati tramite l'utilizzo di trucioli di rovere e, conseguentemente, ponendo all'ordine del giorno l'introduzione di tale pratica anche nella viticoltura europea.
Ciò che appare ancora più grave è che la proposta della Commissione europea in tal senso non prevede neppure l'obbligo di indicare sull'etichetta dei vini l'utilizzo di trucioli per l'invecchiamento del prodotto, creando i presupposti per una scarsa valorizzazione delle produzioni vinicole di più comprovata tradizione e penalizzando le imprese vitivinicole di minori dimensioni, che continuano ad operare l'invecchiamento in tradizionali botti del tipo barrique.
Il problema che qui si pone è duplice: da una parte, si discute delle misure che lo Stato deve adottare per la tutela della cittadinanza, per permettere che l'acquirente conosca ciò che acquista; dall'altra, si cerca di dibattere un tema squisitamente economico, ossia se si intenda o meno proseguire sull'idea che la via principale per lo sviluppo dell'agricoltura italiana deve essere quella di tutelare le produzioni tipiche, le coltivazioni d'eccellenza, la tutela delle tradizioni, al fine di garantire l'immissione sul mercato di derrate che abbiano, quale cifra specifica, la qualità, requisito che porrebbe al riparo le nostre quote da aspetti della concorrenza, quali il prezzo, cui difficilmente il settore primario italiano potrebbe far fronte con l'invasione di prodotti dai mercati emergenti.
Entrambe le questioni sollevate sono fondamentali e richiedono interventi rapidi, ribadendo che si parla del futuro della nostra agricoltura e cercando anche nei confronti dell'Europa di avere una chiara posizione nazionale, forte nel garantire una sorta di difesa delle nostre produzioni, che non sono solo quelle italiane ma anche quelle degli altri paesiPag. 105europei. È un dovere preciso che abbiamo nei confronti degli agricoltori, dei consumatori e del mercato.
Per quanto riguarda il consumatore, credo che debba essere riconosciuta al precedente Esecutivo l'azione svolta a favore del consumatore, che deve essere il nuovo protagonista nella logica di mercato del futuro. Il problema di questo particolare periodo storico per quello che riguarda l'agricoltura italiana non risiede tanto nell'offerta di prodotto, quanto nella domanda e nel sapere affrontare i mercati in maniera importante. La competitività delle produzioni italiane deve contare sulla capacità di garantire al consumatore ciò che egli chiede. Se diventa difficoltoso gareggiare sui prezzi con paesi in cui il costo della produzione, della vita e della manodopera è inferiore, l'agricoltura italiana deve puntare sulla qualità, sulla tracciabilità, sulla sicurezza e sull'informazione corretta.
Il consumatore deve diventare il protagonista del mercato, e per questo noi ci stiamo battendo. Le produzioni devono essere costruite sul consumatore, e questa deve essere la caratteristica principale per tutto il made in Italy, non solo per la nostra agricoltura.
Dobbiamo proseguire sulla strada già intrapresa dal precedente Governo, per garantire produzioni d'eccellenza. Ritengo che sia estremamente positivo che tutto il Parlamento italiano concordi sul fatto che la produzione di vino per invecchiamento con l'utilizzo di trucioli non possa essere considerato positivamente. Da una parte, avremmo un vino di scarsa qualità, invecchiato artificialmente, inferiore a quello prodotto tramite l'invecchiamento in barrique: come potremmo spacciare questo vino come artigianale? Come potremmo accantonare la sapienza e la pazienza della tradizione per logiche di mercato che, tra le altre cose, non pagheranno né nell'immediato né nel futuro? Dall'altra, non prevedendo l'obbligo della descrizione del tipo di invecchiamento in etichetta, non diamo neppure modo al consumatore di poter scegliere, di sapere cosa compra, di premiare le produzioni superiori, anche se più costose.
Noi daremo modo di ingannare l'acquirente, di falsare la concorrenza; creeremo un'informazione, se non falsa, sicuramente parziale, e ciò andrebbe a danno del consumatore e produrrebbe un precedente pericoloso per il futuro delle nostre strutture produttive.
Ma non si esauriscono qui le ragioni per cui Alleanza Nazionale si batte contro l'introduzione di questa pratica enologica in Europa e in Italia; soprattutto, per alcune considerazioni che riguardano il mercato e l'Unione europea.
Se siamo d'accordo sul fatto che il mercato premia la qualità e che, per questa ragione, l'agricoltura italiana deve puntare soprattutto su questo, non potendosi opporre alla riduzione costante dei prezzi della concorrenza, dobbiamo anche garantire una continuità su questa linea di condotta, in modo da dare un segnale forte al mercato. Il vino italiano è conosciuto in tutto il mondo ed è fortemente apprezzato. L'Italia è il secondo produttore di vino al mondo, il vino italiano è tra i più bevuti ed ha superato anche quello francese negli Stati Uniti. Il settore vitivinicolo è di certo quello che ha le caratteristiche più marcate di traino della nostra agricoltura.
Nonostante ciò, ci troviamo a dover affrontare difficoltà che non dobbiamo trasformare in sfide. Anche se ci sono nuovi competitori (Australia, Sudafrica, Stati Uniti) e se le vendite nei paesi produttori si stanno restringendo (in Italia, meno 38 per cento), il mercato dei consumatori va allargandosi (Cina più 300 per cento, Stati Uniti più 21 per cento, Australia più 45 per cento). Per questo motivo, non è importante che il vino italiano sia sempre il più economico, ma è importante che sia il migliore sotto il profilo qualitativo. Il Governo precedente si è sempre impegnato per la qualità e la tracciabilità dei prodotti agricoli e confidiamo che il presente esecutivo voglia fare altrettanto.Pag. 106
È un fatto che la difesa italiana della produzione agricola passi oggi soprattutto per l'Europa e che non bastano proclami di principio sul suolo nazionale per svolgere una politica attiva ed efficiente a favore del made in Italy e della sua agricoltura. Il Governo precedente ha saputo farlo. Porto l'esempio di alcuni settori strategici che sono stati difesi e che hanno trovato uno sbocco importante, vale a dire i settori del tabacco e dell'olio d'oliva. Il centrodestra ha saputo difenderli in Europa in modo importante, così come è accaduto per molti marchi nazionali. Il centrodestra ha saputo lottare in Europa per l'agricoltura italiana e chiediamo all'esecutivo di fare altrettanto. Le esigenze presenti richiedono semplicemente che voi lo facciate nel modo migliore, senza «se» e senza «ma», per usare un'espressione a voi cara. La politica agricola in Europa deve ottenere e mantenere un ruolo di protagonista. Il Presidente Prodi e il ministro De Castro devono inserire questo punto come prioritario nella loro agenda quando andranno in Europa, così come seppero farlo il Presidente Berlusconi e l'allora ministro Alemanno.
Il negoziato con gli Stati Uniti a proposito di vino è stato condotto con grande debolezza, una debolezza che l'agricoltura italiana, ma anche quella europea, non possono sicuramente accettare. Per questo motivo noi ci battiamo: per dare un segnale forte. Il Governo deve porre in atto tutte le misure di propria competenza, al fine di garantire una corretta informazione al consumatore per ciò che concerne le merci vitivinicole presenti sul mercato italiano e, più specificatamente, di rendere obbligatoria l'inclusione in etichetta di chiare indicazioni sulle metodologie di produzione delle stesse.
Occorre proseguire sulla via tracciata dal precedente esecutivo anche in sede comunitaria, per la tutela delle produzioni tipiche e di qualità in cui il settore vitivinicolo italiano riveste posizioni di primo piano, anche per la sua plurisecolare esperienza, tale da rendere i vini nazionali tra i più stimati nel panorama enologico mondiale. Quando parliamo di vino, parliamo della nostra storia, così come quando parliamo dei nostri principali alimenti, che costituiscono la radice del nostro paese, un paese a pieno titolo nel centro del Mediterraneo.
Assieme all'olio e al pane, dunque, il vino costituisce una sorta di simbolismo religioso. Si tratta di una storia e di una cultura che non devono essere difese solo per tutelare la nostra economia: infatti, abbiamo una grande responsabilità nei confronti di una coltivazione che da secoli, nella nostra Italia, sa dare i suoi migliori frutti e che rappresenta, altresì, la massima espressione del made in Italy.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Fiorio. Ne ha facoltà.

MASSIMO FIORIO. Signor Presidente, è stata precedentemente illustrata dall'onorevole Realacci una delle mozioni concernenti la possibilità di introdurre trucioli di legno nel vino, al fine di modificarne la componenti organolettiche. Si tratta, in altre parole, di aggiungere trucioli di legno (le cui misure possono variare), in luogo dell'invecchiamento tradizionale nelle piccole botti di legno di tipo barrique, in modo tale da riprodurre, in poco tempo e con minori costi, la generazione di quelle note aromatiche presenti in vini pregiati invecchiati in legno.
Tale pratica, finora non in uso in Europa, ma adottata in altri paesi del mondo (come USA, Australia e Cile), è diventata di particolare attualità in seguito all'adozione di una serie di atti amministrativi comunitari che ne consentirebbero l'introduzione nei paesi europei. In primo luogo, infatti, l'accordo bilaterale tra Stati Uniti ed Unione europea, che consente la libera circolazione dei vini artificialmente invecchiati e che tende a limitare la possibilità di contenziosi, prevede che le pratiche adottate da una parte siano estese anche all'altra.
Il comitato di gestione dei vini, inoltre, il 3 maggio 2006, si è espresso favorevolmente alla proposta di regolamento presentata dalla Commissione europea chePag. 107stabilisce le modalità di applicazione del regolamento n. 2165 del 2005, per quanto concerne le condizioni di impiego di pezzi di legno di quercia nella lavorazione dei vini, lasciando agli Stati membri la facoltà di decidere per quale categoria di vini autorizzare tale pratica.
In un quadro di mutamento e di trasformazione del comparto vinicolo, alla vigilia della discussione dell'organizzazione comune del mercato dei vini, vale a dire della regolamentazione del comparto stesso a livello comunitario, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha avviato lo svolgimento di un ciclo di audizioni che ha interessato una serie di soggetti coinvolti nel settore. La considerazione era e rimane quella per cui la pratica dell'aggiunta di trucioli di legno possiede elementi di criticità e di preoccupazione tali da indurre a svolgere una attenta riflessione in proposito, per fornire alcune indicazioni al Governo.
Non si tratta, dunque, di schierarsi, nella battaglia dai toni anche un po' ideologici, a favore di uno dei due fronti, vale a dire tra quello dei «tradizionalisti» o «puristi», che vorrebbero il vino solo nel legno, contrapposto agli «innovatori» che, in nome delle economie di produzione, preferiscono «il legno nel vino», oppure tra chi è, in tutto e per tutto, contro l'omologazione del gusto che mercato globalizzato e tecnologia comportano e coloro che, invece, sono convinti che è possibile contrastare la concorrenza australiana e cilena solo sul loro stesso terreno.
Si tratta, piuttosto - è questo lo spirito delle mozioni presentate -, di prendere atto di vari aspetti tra loro intrecciati, ovvero della difficile situazione che vive il mercato del vino, del valore della tipicità (soprattutto in un paese, come l'Italia, che rappresenta sicuramente la piattaforma produttiva vitivinicola più ricca di tipicità del mondo) e infine, ma non da ultimo, del diritto del consumatore non solo di pretendere la salubrità dell'alimento (perché non dobbiamo dimenticare che il vino è un alimento), ma di conoscere provenienze e metodi di lavorazione del prodotto che consuma.
Per quanto riguarda il mercato interno, vorrei ricordare che la situazione italiana soffre, come molti altri paesi, di sovrapproduzione; la necessità di affrontare il mercato nazionale ed internazionale, inoltre, fa sì che ci si debba attrezzare per permettere che ciò avvenga.
Vorrei ricordare, al riguardo, che i dati forniti dall'ISMEA sul consumo del vino in Italia fanno emergere chiaramente una diminuzione della spesa, particolarmente concentrata nel settore dei vini da tavola. Le statistiche fornite dallo stesso istituto parlano, inoltre, di un calo della domanda nel lungo periodo (1990-2003) del 16 per cento e, nello stesso periodo, del 33,59 per cento nel settore dei vini da tavola, a fronte di un maggior consumo di vini a denominazione di origine controllata, in crescita di quasi l'80 per cento.
Per quanto concerne le esportazioni, invece, non vi è dubbio che, mentre in alcuni paesi industrializzati ed economicamente avanzati siamo leader per valore di prodotto esportato, grazie alla maggiore domanda di vini di qualità, in altri mercati in via di sviluppo troviamo ancora numerose difficoltà nell'affermare i nostri brand, a causa dei prodotti provenienti dai paesi competitor (in particolare, Cile, Argentina e California).
Evidentemente, c'è da fare una riflessione sulla particolare situazione del settore commerciale del vino, a partire dalla differenziazione della domanda dei tipi di prodotto. In questa ottica - ed è quella alla base della mozione che è stata presentata -, deve essere inquadrata anche la questione della pratica enologica dei trucioli. La preoccupazione principale è che tali pratiche non siano problematiche perché possono ledere una qualche idea di tradizione, ma che concretamente con esse si rischi una deriva omologante del gusto, che porti a considerare il vino una bevanda fra le altre, una sorta di fast drink disponibile, per caratteristiche e valore, in ogni parte del mondo.
Da questo punto di vista, il valore, anzi la grandezza dell'enologia italiana (e per molti versi europeo) consiste nella varietà e ricchezza delle possibilità di fruire e farePag. 108esperienza del gusto, in una vasta gamma di offerte. C'è un concetto che più di ogni altro esprime la nostra differenza, che è poi anche la nostra chance commercialmente riconosciuta: il concetto francese di terroir, concetto praticamente estraneo agli altri paesi extraeuropei, che esprime l'insieme e la connessione stretta di suolo, territorio, pratica e memoria addirittura di un particolare vigneto. Salvaguardare il patrimonio di tipicità significa anche avere un occhio di riguardo per il settore agricolo, soprattutto per quelle colture che intraprendono il discorso della qualità già in vigna.
In questo senso, salvaguardare la filiera della qualità è un modo per affrontare il drammatico problema del reddito agricolo. Da questo punto di vista, la Commissione si è espressa congiuntamente nella direzione che l'obiettivo deve restare quello di evitare che i vini europei si trovino in una situazione di svantaggio competitivo sui mercati internazionali, rispetto ai vini americani o australiani che, adottando tecniche volte ad abbattere i costi, si affidano alla tecnica dei trucioli.
Tuttavia, si ritiene prioritario salvaguardare ed incentivare le produzioni di qualità, che rappresentano un'opportunità fondamentale per il nostro paese. Si tratta di incentivare non l'omologazione, ma la differenziazione, la specificità piuttosto che l'uniformità. Da questo punto di vista, l'invito al Governo è quello di escludere l'adozione della pratica dei trucioli dai vini a denominazione di origine controllata e garantita (DOCG), da quelli a denominazione di origine controllata (DOC) e da quelli a indicazione geografica tipica (IGT).
Il parere è dunque negativo per quei vini che, attraverso gli strumenti dei disciplinari, mantengono forte il legame con l'ambiente e il territorio di provenienza. Pur non escludendo tale impiego per i vini da tavola, tuttavia, si ritiene inderogabile la chiara indicazione in etichetta del ricorso a tale pratica, in modo tale da permettere al consumatore di riconoscere il carattere non tradizionale della pratica e di evidenziare chiaramente la quota di mercato di riferimento. Il consumatore, che ha un ruolo fondamentale nel mercato del vino, deve sapere e deve essere messo in condizione, leggendo l'etichetta con l'obbligatorietà della menzione dell'eventuale uso dei trucioli, di distinguere il tipo di offerta e il tipo di lavorazione (botte grande o piccola) che il vino ha subito. Deve conoscere il rapporto qualità-prezzo, e via dicendo.
Per concludere, si ritiene che, qualora la pratica dei trucioli venga autorizzata, essa debba essere esclusa non solo per i vini DOC e DOCG, ma anche per i vini IGT - che nella nostra legislazione rappresentano il primo passo verso il riconoscimento della denominazione di origine controllata -, con l'obbligo della menzione in etichetta per i vini da tavola che la utilizzano. Infine, appare curioso chiamare in causa la moralità del legno o il fatto che le pratiche enologiche non interessino le piazze. Non si tratta di evocare alcun legno onesto, ovvero doghe, chips e trucioli, atti a cedere al vino solo le sostanze naturali contenute nel legno, ma si tratta di riferirsi all'onestà dell'uomo per l'uso che ne fa e soprattutto per la comunicazione che ne dà.

PRESIDENTE. Constato l'assenza del deputato Buonfiglio, iscritto a parlare; si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare il deputato Mellano. Ne ha facoltà.

BRUNO MELLANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, un precedente intervento ha richiamato nelle conclusioni riferimenti religiosi ed evangelici. Quindi, non stupirà che il mio intervento, a nome del gruppo della Rosa nel Pugno, cominci con un «pane al pane e vino al vino», perché tutte e tre le mozioni attualmente in discussione hanno un qualcosa, una retrogusto, si potrebbe dire, di ipocrisia.
Pur essendo tra i firmatari della mozione Lion ed altri n. 1-00022, che condivido appieno, che è frutto del lavoro della XIII Commissione e che rappresenta pienamente il mio pensiero, rilevo un dato di fatto: le mozioni vorrebbero poter direPag. 109«no» all'utilizzo dei trucioli nella produzione di vino, ma non possono farlo perché decisioni dell'Unione europea (e nostre, all'interno degli organismi europei) hanno già detto, e dicono all'Italia, che questa pratica deve essere riassorbita tra quelle possibili per la produzione del vino. Allora, le mozioni hanno un valore politico, che deve essere ben misurato, attentamente vagliato.
Già in tanti altri settori riguardanti l'agricoltura abbiamo corso il rischio di percorrere - e, in molti casi, abbiamo percorso per intero -, la strada della demonizzazione del nuovo, dell'innovazione, delle conquiste tecnologiche più o meno auspicabili, ma che ci sono, perché il mercato e la globalizzazione ce le impongono (un riferimento puntuale e preciso è quello agli OGM). È troppo facile dire che occorre segnalare in etichetta cosa contiene il prodotto, l'alimento, se, prima, il prodotto, l'alimento, viene costantemente demonizzato, indicato come il demonio che arriva.
Per la pratica enologica dei trucioli si sta verificando una cosa simile: siamo tutti d'accordo a chiedere che la pratica venga limitata, regolamentata, precisamente indicata, ricordata in etichetta, ma dobbiamo fare attenzione a non demonizzarla, per molti motivi, essenzialmente per il lavoro che abbiamo svolto in XIII Commissione, e perché tutti, o quasi tutti, gli esponenti del mondo produttivo vinicolo italiano ci hanno detto che la pratica serve al mercato italiano del vino. Nel mercato italiano abbiamo grandi vini, grandi produzioni di qualità e di prestigio, con riconoscimenti di qualità, di marchi DOC, DOCG e IGT, ma abbiamo anche una produzione di vasta scala, non di nicchia, di largo consumo, di vini da tavola, di vini da cucina, addirittura di vini ormai commercializzati nei contenitori di carta. A questa produzione occorre dare una risposta, ed anche quella di consentirle di essere sul mercato e di essere competitiva rispetto ai concorrenti stranieri è una risposta che ci viene richiesta.
Altro discorso, che tutti condividiamo, è quello di trovare forme per valorizzare la grande storia e la grande cultura della produzione, per riuscire a vendere con il vino, come dicevano il collega Fiorio ed il presidente Realacci, anche il nostro territorio, la nostra cultura e la nostra storia, per far passare, insomma, con la produzione e con la vendita di un prodotto tipico, anche tutto un mondo, uno stile di vita ed una cultura italiani.
Questo è un problema ed una risorsa: occorre riuscire a sdoppiare le due facce del problema. Questo è un dato che l'agricoltura italiana vive costantemente: c'è un ragionamento sulle produzioni di nicchia, c'è un lavoro da fare sulle produzioni di nicchia, sulle produzioni di altissima qualità; c'è un'altra politica da fare per quanto riguarda le produzioni intensive ed estensive di larga scala. L'Italia è contemporaneamente le due cose: può essere il giardino, l'orto, la vigna d'Europa e del mondo per le produzioni di altissima qualità ma, al momento, è anche la riserva di una produzione di massa. Come dimostrano le analisi di mercato, noi stessi, le famiglie, i cittadini italiani non sempre e non solo acquistano prodotti di altissima qualità, non sempre e non solo possono permettersi di comprare il vino DOC al prezzo che la sua qualità impone. Allora, occorre che il Governo sappia.
Le mozioni, a dire la verità, qualcuna con qualche dose di ipocrisia in più, qualcuna - quella che ho firmato io - credo sostanzialmente in modo corretto, indicano al Governo una volontà di contemperare le due esigenze, di tenere conto che vi è un'esigenza del mercato di difesa delle proprie produzioni di buona qualità, senza essere di eccelsa o di altissima qualità, e l'esigenza, invece, dei grandi vini di qualità. Occorre sdoppiare le problematiche, per non fare, con un unico discorso, una confusione pericolosa.
Ricordo ai colleghi, soprattutto ad alcuni dell'opposizione, che sulla questione del vino «ai trucioli» erano partiti, in Commissione, con un «no» preventivo e, poi, udendo i soggetti invitati, hanno dovuto sostanzialmente scrivere le stesse parole, le stesse mozioni che abbiamo scritto tutti, anche noi della maggioranza. È lo stessoPag. 110mondo dei produttori che ci testimonia che questa pratica enologica è, peraltro, per molti aspetti, anche antica ed è stata tralasciata e non utilizzata in Italia anche per il gusto italiano: era un gusto che non prevedeva, fino a qualche lustro fa, l'utilizzo del barrique, ossia l'utilizzo di un gusto molto legato al legno. Occorre sapere che la pratica è stata riconosciuta come non nociva. Occorre dire che è una pratica non nociva, non dannosa; occorre, tuttavia, regolamentarla seriamente ed in modo puntuale. Un conto è parlare di frammenti di legno di quercia di grandi o di medie dimensioni, altro conto sono la polverizzazione, la segatura o, addirittura, gli estratti di legno per aromatizzare il vino.
Il problema che si apre, dunque, è vasto. Su ciò, la competenza, le professionalità e le capacità del Governo potranno, giustamente, essere messi all'opera. Queste mozioni indicano un problema, con qualche ipocrisia, ma con la volontà di difendere una produzione tipica, quella del vino, che si accompagna ad una produzione di larga scala che ci chiede di essere messa sul mercato almeno alle stesse condizioni di partenza dei grandi nuovi produttori che si affacciano sul mercato mondiale.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dei deputati Sperandio, Cosenza e Patarino, iscritti a parlare: s'intende che vi abbiano rinunziato.
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

(Intervento del Governo)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato per le politiche agricole, alimentari e forestali, Giovanni Mongiello.

GIOVANNI MONGIELLO, Sottosegretario di Stato per le politiche agricole, alimentari e forestali. In questa occasione mi preme affermare che le mozioni presentate, che rappresentano gran parte del Parlamento e vedono coinvolti, oltretutto, rappresentanti di ogni schieramento politico, trovano il Governo attento, nella misura in cui questo avvenimento turba la coscienza di buona parte del paese. Il vino non è una bevanda qualsiasi: è qualcosa che va al di là anche del fatturato, della produzione. È qualcosa che è nell'anima e nella coscienza dell'italiano. Devo dire, con molta chiarezza, che le mozioni presentate suscitano, oltretutto, espressioni non solo di idealità, ma anche concrete.
Non sono d'accordo con coloro che affermano che vi è una nicchia di qualità, vi è un grande mercato che, attraverso questa forma di invecchiamento artificiale, in fondo, mette la stragrande maggioranza dei nostri produttori in competizione con altri. Ci sono, all'estero, mercati incredibili, pari a 20 volte quello italiano. Se abbandoniamo la pratica della qualità, credo si potrebbe determinare un momento di incertezza e di dubbio anche rispetto alla collocazione attuale sul mercato del vino italiano; ma la Commissione europea ha adottato questo provvedimento nel marzo 2006, quando questo Governo non era ancora in carica. Questo provvedimento è oggi all'attenzione della WTO.
Che cosa bisogna fare? Qualcosa il ministero ha fatto; il ministro De Castro, attento e premuroso anche rispetto a questo evento, si è attivato affinchè vi sia presto un incontro con i rappresentanti di altri paesi che producono vino di qualità in quantità notevoli nel continente, come la Francia e la Spagna. Questi tre paesi rappresentano l'80 per cento della produzione del vino in Europa. In questa sede non dirò cosa occorre fare, ma credo che quanto meno una forma aggiuntiva rispetto a quanto è stato deciso deve essere prevista. Ad esempio, si potrebbe far riportare in etichetta una dichiarazione circa l'uso dei trucioli; questo non significa sostenere la produzione di massa del vino non di qualità, ma sostenere e difendere quella nicchia di qualità che oggi rappresenta un fiore all'occhiello del nostro paese nel contesto internazionale.
Per tutto il resto, mi riservo di intervenire nel prosieguo dell'esame della mozione.

Pag. 111

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 26 settembre 2006, alle 10:

1. - Svolgimento di interrogazioni.

(ore 11)

2. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Conversione in legge del decreto-legge 28 agosto 2006, n. 253, recante disposizioni concernenti l'intervento di cooperazione allo sviluppo in Libano e il rafforzamento del contingente militare italiano nella missione UNIFIL, ridefinita dalla risoluzione 1701 (2006) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (1608-A).
- Relatori: Ranieri, per la III Commissione e Pinotti, per la IV Commissione.

3. - Seguito della discussione delle mozioni Zanetta ed altri n. 1-00017 e Tassone ed altri n. 1-00028 sulle iniziative per garantire la tempestiva realizzazione della tratta alta velocità Torino-Lione.

4. - Seguito della discussione del disegno di legge (previa votazione delle questioni pregiudiziali presentate):
Conversione in legge del decreto-legge 16 agosto 2006, n. 251, recante disposizioni urgenti per assicurare l'adeguamento dell'ordinamento nazionale alla direttiva 79/409/CEE in materia di conservazione della fauna selvatica (1610-A).
- Relatore: Sperandio.

5. - Seguito della discussione delle mozioni Maroni ed altri n. 1-00010, Realacci ed altri n. 1-00009 e Lion ed altri 1-00022 sull'introduzione di regole riguardanti l'utilizzo di pratiche enologiche alternative alle tradizionali tecniche di invecchiamento del vino.

La seduta termina alle 23,15.