Doc. XXII, n. 23




RELAZIONE

Onorevoli Colleghi! - Nella notte del 10 aprile 1991, centoquaranta persone arsero vive a bordo del traghetto Moby Prince, appartenente alla compagnia di navigazione Moby Lines, in servizio nella tratta Livorno-Olbia, entrato in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. Il disastro avvenne nella rada del porto di Livorno.
A distanza di ventitré anni la memoria delle vittime e i loro familiari non trovano giustizia né verità attraverso l'accertamento dei reali accadimenti di una tragedia.
L'esito delle investigazioni fu giudicato da più parti e, in particolare, dalle associazioni dei familiari delle vittime del Moby Prince del tutto sproporzionato, per difetto, al cospetto di un disastro di tanta gravità e, soprattutto, di un ventaglio di ragionevoli ipotesi, pur prospettate, sulle cause della tragedia.
È necessario dare innanzitutto la parola alle associazioni dei familiari delle vittime della Moby Prince, riunite nell'Associazione 10 aprile e nell'Associazione 140. A questo fine, riproduciamo quasi integralmente di seguito il documento da esse diffuso il 31 gennaio 2014:

«Il 10 aprile del 1991 a poche miglia dall'uscita del Porto di Livorno sono state uccise 140 persone.
Erano passeggeri e membri dell'equipaggio del traghetto Moby Prince la cui vita si è conclusa in modo tragico per le conseguenze di una collisione tra il traghetto in cui erano imbarcati e la petroliera Agip Abruzzo, ancorata nella rada del porto toscano. Secondo la sintetica ricostruzione ottenibile dagli atti della storia giudiziaria della vicenda, causa di questa collisione è principalmente il «destino cinico e baro», come dichiarato testualmente dal Pubblico Ministero, Dott. Cardi, nella requisitoria con cui chiese «l'assoluzione» per tutti gli imputati. Un destino che avrebbe fatto calare a pochi minuti dal sinistro un banco di nebbia da avvezione che, oscurando unicamente la petroliera, avrebbe sorpreso il personale in comando del traghetto, il quale, ponendo in essere unicamente l'assurda manovra dell'accensione dei cappelloni prodieri (due grandi fari con cui si illumina di solito il ponte durante le manovre di ormeggio), speronò a tutta velocità la cisterna n. 7 dell'Agip Abruzzo. La conseguente fuoriuscita di 2.000 tonnellate di iranian light (greggio da raffinare) che immediatamente presero fuoco incendiò quasi interamente il traghetto e parzialmente il mare circostante. Nessuno della Capitaneria di Porto di Livorno, né delle altre imbarcazioni ancorate nella rada, né delle altre moto-navi in transito avvertì sul canale radio di soccorso marittimo il May Day lanciato dalla Moby Prince; mentre il personale dell'Agip Abruzzo che comunicò subito con la Capitaneria di Porto dichiarò che la nave investitrice era una bettolina - ovvero un'imbarcazione alta e lunga circa un terzo il Moby Prince - accentrando su di sé i soccorsi che, in questo scenario e privi dell'opportuno coordinamento, non poterono far nulla per salvare le 140 persone rimaste nel traghetto. È stato dichiarato che tutti perirono in un tempo massimo di mezz'ora, quindi prima che qualsiasi mezzo potesse raggiungere il Moby Prince e prestare opera di assistenza a bordo. In tale scenario viene dichiarato «miracoloso» il salvataggio dell'unico superstite, Alessio Bertrand, fatto tuffare dal ponte poppiero del traghetto un'ora e venticinque minuti dopo la collisione e poi recuperato in condizioni fisiche evidentemente buone. Nonostante l'esito di tale intervento di salvataggio, nessun soccorritore fu autorizzato a salire a bordo del traghetto per prestare assistenza a chi era rimasto all'interno dello stesso fino al giorno 12 aprile 1991.
Lo scopo di questo documento è esplicitare sinteticamente alcuni dei principali motivi che ci inducono a reclamare pubblicamente verità e giustizia su questa vicenda.
Se infatti, a distanza di quasi 23 anni, lo Stato Italiano non ha ancora assicurato risposta convincente ai quesiti che noi, familiari delle vittime del Moby Prince, abbiamo progressivamente condiviso con i tantissimi cittadini che negli anni si sono uniti alla nostra causa, ciò significa che la ricostruzione di questo disastro, che ad oggi la magistratura ha offerto a noi e alla storia, è quantomeno parziale.
Questo lo si deve anche al fatto che la più grande tragedia della marina civile italiana dal dopoguerra e la più grande strage sul lavoro della storia repubblicana è stata affrontata con un percorso giudiziario segnato da incredibili errori. Un percorso di giustizia operato quasi esclusivamente dalla piccola Procura di Livorno in cui è possibile riscontrare oggettivamente un elenco troppo lungo di mancanze ed omissioni, così come rilevato persino dai giudici dalla terza sezione della Corte di Appello del Tribunale di Firenze, interessati dal procedimento di appello sul filone principale della vicenda. Scrivono i giudici fiorentini che il collegio giudicante del primo processo Moby Prince, architrave di ogni altro procedimento, ha tenuto conto di testimonianze «palesemente false», negato testimonianze palesemente vere, e persino presentato una deduzione «apodittica» - cioè dogmatica senza alcuna prova a supporto - su un video amatoriale che confutava le tesi poi finite in sentenza circa l'orientamento della petroliera al momento della collisione.
Tra le numerose «anomalie» del percorso giudiziario di questa vicenda ci permettiamo sinteticamente di richiamarne solo tre, a titolo esemplificativo:

1. il relitto del traghetto - corpo di reato - è stato oggetto di documentate sottrazioni di materiale probatorio (es. registro delle eliche kamewa) e manomissioni (una delle quali ha portato ad un procedimento parallelo dove fu accertato che due uomini della compagnia armatrice operarono una manomissione della leva change over level del timone del traghetto in modo da far sembrare che prima della collisione fosse in funzione il pilota automatico e così scaricare sul Comando della nave la causa della tragedia; tutto ciò accadeva in data 12 aprile 1991, quindi, si noti, un giorno e mezzo dopo la collisione, quando si iniziavano a recuperare le prime salme);

2. nonostante fossimo in presenza di un superstite recuperato un'ora e venticinque minuti dopo la collisione e di numerosi documenti atti a smentire la tesi della morte rapida di tutte le vittime del Moby Prince, il collegio giudicante sancì tempi di sopravvivenza di 30 minuti al massimo anche per il tramite di una consulenza tecnica che riportava dati ottenuti con una formula atta a determinare la nocività degli incendi in luoghi chiusi (formula di Levin) cui era stato alterato in modo arbitrario il denominatore pervenendo così a una sensibile riduzione dei tempi di sopravvivenza. Vale la pena annotare che la tesi della morte rapida sancì di fatto l'assoluzione di tutti gli imputati legati alla Capitaneria di Porto di Livorno, responsabili degli interventi di soccorso posti in essere, nonché, per tramite, l'archiviazione della posizione dell'allora Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno, Ammiraglio Sergio Albanese, che quella notte prese il comando dalle 23:00 e quindi esattamente cinque minuti dopo che la sentenza dichiara conclusa la sopravvivenza a bordo del traghetto;

3. il Presidente del Collegio Giudicante del primo processo Moby Prince, nonché allora Capo dei giudici per le indagini preliminari della procura di Livorno, dottor Germano Lamberti, è stato condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione (sentenza del 18 novembre 2013) a quattro anni e nove mesi di reclusione, oltre all'interdizione dai pubblici uffici, per corruzione in atti giudiziari in merito a una vicenda di abusi edilizi operati nell'Isola d'Elba avvenuta poco tempo dopo la stesura della sentenza del Processo Moby Prince, il cui profilo è senza dubbio ampiamente minore rispetto alla nostra ove gli attori dello stesso erano una compagnia di navigazione avviata come la Nav.ar.ma s.p.a., una delle principali aziende pubbliche italiane la SNAM s.p.a. e infine la Capitaneria di Porto di Livorno.

Come sopra citato l'elenco avrebbe potuto essere molto più lungo, ma ci preme evidenziare unicamente il senso del nostro ragionamento: riteniamo di essere in presenza di una mole di documentazione che oggettivamente imponga, prima che sul piano emotivo su quello razionale, la convinzione quantomeno di un ragionevole dubbio circa quanto ci è stato finora raccontato e, in conseguenza, circa l'effettivo esercizio della giustizia cui, da cittadini, ci siamo appellati.
Le inchieste di questi anni hanno prodotto decine di migliaia di pagine la cui analisi non può essere raccolta in poche cartelle. Abbiamo così ritenuto di mettere in evidenza alcune delle considerazioni tecniche relative all'ultimo atto di giustizia, la richiesta di archiviazione depositata in data 5 maggio 2010 dai sostituti procuratori della Procura della Repubblica di Livorno, dopo 4 anni di ulteriori indagini sulla vicenda.
Pensiamo sia possibile così rappresentare un esempio di anni di coperture a rilevanti interessi differenti e incidentalmente convergenti la sera del 10 aprile 1991 nella rada del porto di Livorno, lasciando gli ulteriori approfondimenti al lavoro di una Commissione parlamentare d'inchiesta. Il tempo trascorso ci ha infatti consentito di trovare i riscontri di seguito citati in luoghi pubblici, con i mezzi e le possibilità di privati cittadini della Repubblica, mezzi e possibilità sicuramente inferiori rispetto a quelli di una Commissione parlamentare d'inchiesta. Renderemo pubblico quanto abbiamo raccolto e ordinato in anni di lavoro, ritenendo inoltre che le istituzioni di questo Paese debbano assumersi la responsabilità di accertare le modalità con cui si è consumata la morte in mare delle 140 vittime del Moby Prince.
Per ragioni di spazio e di rispetto per quello che speriamo possa essere il lavoro di una Commissione parlamentare di inchiesta presentiamo di seguito una sintesi estrema di quanto abbiamo potuto riscontrare. Partendo dalla fine, riportiamo quanto scrive la Procura della Repubblica di Livorno nelle conclusioni della richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari:

«A questo punto, sgombrato il campo da ricostruzioni viziate da suggestioni, cattiva conoscenza e interpretazione degli atti processuali e interessate forzature, è doveroso ricostruire il sinistro individuando le reali cause dello stesso e, conseguentemente, le responsabilità, anche al fine di valutare l'attuale possibilità di esercizio dell'azione penale. La presente indagine infatti [...] ha avuto il proposito di dare una risposta esaustiva alle domande sulle reali cause dell'evento. I dati significativi si possono riassumere nel seguente modo:

1. il traghetto Moby Prince è uscito dal porto di Livorno con destinazione Olbia impostando la velocità massima di crociera (o prossima alla massima) secondo prassi, nella convinzione del comando nave di trovarsi in condizioni di assoluta normalità dal punto di vista meteo marino e quindi anche della visibilità e perciò nella errata convinzione di conoscere e poter controllare otticamente la situazione delle navi alla fonda nella zona della rada e in particolare di quelle che si trovavano in prossimità della rotta più diretta per Olbia;

2. la apparente normalità delle condizioni creava il tipico meccanismo psicologico di allentamento dell'attenzione nel personale di plancia e nel resto dell'equipaggio, clamorosamente esplicitato, in particolare, dalle condizioni con le quali la nave Moby Prince veniva fatta viaggiare, avendo il portellone prodiero di seconda difesa - prescritto dalla normativa MARPOL 73-78 - ANNEX 1 - aperto (cfr. da ultimo la relazione di consulenza tecnica depositata dall'ing. Gennaro il 17 novembre 2009) e l'impianto sprinkler (antincendio) non funzionante, in quanto disabilitato;

3. improvvisamente la nave entrava in un banco di nebbia (v., da ultimo: le dichiarazioni di Mattei e Valli - gli ormeggiatori che hanno salvato la vita all'unico superstite del Moby Prince - al P.M. il 23.11.2009, quelle di Muzio - pilota del porto che usci la notte della tragedia - rese al P.M. l'8/11/2009, ed ancora le dichiarazioni dell'unico superstite del Moby Prince, Bertrand, nuovamente sentito dal P.M. il 9 giugno 2009, e quelle di Rolla in sede di nuovo interrogatorio il 5 giugno 2009), che coglieva totalmente impreparata la plancia del traghetto in quanto non visibile otticamente, tenuto conto del buio della notte e della collocazione del banco stesso che si trovava basso sull'orizzonte verso il largo rispetto alla direzione del traghetto in modo da non costituire ostacolo né per l'osservazione delle luci della costa né per quella delle stelle;

4. la plancia del Moby Prince, presa alla sprovvista e con la nave ormai lanciata alla velocità di crociera, provvedeva incautamente ad accendere i fari collocati a prua della nave - c.d. cercanaufraghi - (prima spenti: v. dichiarazione del pilota Muzio sopra richiamata, e che aveva poco prima incrociato il Moby Prince conducendo una nave all'interno del porto) nella speranza di migliorare la visibilità sullo specchio di mare davanti a sé, ma in realtà peggiorando le condizioni di visibilità;

5. l'urto con l'Agip Abruzzo, ferma all'ancora con prua orientata su 300o circa (v. da ultimo sul punto la relazione di consulenza tecnica del pubblico ministero dell'ing. Rosati e dott. Borsa depositata il 17 giugno 2009 che riassume il complesso degli elementi che consentono con certezza tale ricostruzione dell'orientamento della nave) avveniva poco dopo interessando la fiancata di destra con un angolo calcolato di circa 71o prora-poppa (109o prora-prora), navigando il Moby Prince con direzione di circa 191o ad una velocità di circa 18 nodi. Come è stato spiegato dal C.T. ing. Gennaro, la collisione ha avuto caratteristiche fondamentalmente anelastiche, nel senso che tutta l'energia cinetica disponibile da parte del Moby Prince al momento della collisione con l'Agip Abruzzo si è tramutata in lavoro di lacerazione, deformazione, riscaldamento, rumore e scintille' (paragrafo 19 della relazione);

6. pressoché immediatamente si incendiava il greggio della cisterna 7 di destra della petroliera, dentro la quale era penetrata la prua del Moby Prince. Infatti la penetrazione della prua del Moby Prince nella cisterna sollevava dinamicamente il livello del carico (5,71 mt sul livello del mare: v. rel. Gennaro) e conseguentemente parte del carico si riversava sulla parte prodiera del ponte di coperta (ponte prodiero di manovra) elevato di circa 7,8 mt sulla superficie del mare, incendiandosi;

7. l'apertura della porta stagna prodiera e l'impianto di ventilazione in funzione agevolano decisamente l'ingresso di greggio e vapori nei garage e nei locali interni del Moby Prince, cominciando a divampare il fuoco su tutta la parte prodiera del traghetto coinvolgendo il personale di plancia e progressivamente le restanti parti e locali della nave; una causa della tragedia - anche se è doloroso affermarlo - è dunque individuabile in una condotta gravemente colposa, in termini di imprudenza e negligenza, della plancia del Moby Prince.

La ricostruzione della dinamica dell'evento può apparire - come più volte sottolineato - banale nella sua semplicità, e dunque non accettabile emotivamente, prima che razionalmente, soprattutto in considerazione dell'enorme portata delle conseguenze che ne sono derivate in termini di vite umane. Occorre tornare al quesito di base: comprendere fino in fondo come sia possibile che personale di bordo ritenuto preparato, al comando di una nave dotata degli impianti per la sicurezza della navigazione secondo le regole in vigore all'epoca, possa avere così gravemente errato nella conduzione della nave; e come sia possibile che una collisione con una petroliera alla fonda, avvenuta a così poca distanza dal porto di Livorno abbia potuto avere così tragiche conseguenze» (pag. 140, sottolineatura nostra).
Quelli presentati sono, in sostanza, i sette punti che imputerebbero la responsabilità quasi esclusiva di quanto accaduto alla condotta del traghetto Moby Prince ovvero al Comandante Ugo Chessa e consentono quindi alla stessa Procura di chiosare con le seguenti parole:

«La collisione del traghetto passeggeri Moby Prince con la petroliera Agip Abruzzo è stata un tragico incidente, determinato in parte dell'errore umano (come finora esposto) e in parte da fattori casuali concomitanti (l'insorgenza del particolare tipo di nebbia, lo speronamento proprio della cisterna n. 7); in parte ancora, dall'insufficienza delle regole al tempo vigenti per salvaguardare la sicurezza della navigazione in rada. Nessuna delle ipotesi alternative vagliate è in grado di assumere qualche parvenza di idoneità concausale né di credibilità [...]. Nessuna attività di copertura o depistaggio è mai stata intenzionalmente posta in essere.
Accertato quanto appariva razionalmente meritevole di approfondimento in oltre tre anni di indagini, non si presenta alcuno spazio per l'esercizio dell'azione penale per i gravi delitti (quelli ancora non prescritti, naturalmente) ipotizzati nell'istanza di riapertura delle indagini o per altri come quello di cui si è detto nell'ultimo paragrafo. La morte prematura ed improvvisa è umanamente inaccettabile quando la causa appare banale e assurda, ma individuare a ogni costo e senza sufficienti elementi probatori processualmente spendibili, determinismi e nessi causali eclatanti, clamorosi e di \`alto livello', oltre a dissipare preziose risorse, avrebbe il solo effetto di riaprire ferite per altro mai rimarginate, di creare illusione nei vivi, uccidere una seconda volta i morti, fare molte altre vittime innocenti e costituirebbe un pessimo esercizio del servizio giustizia».
I sette punti sopra citati sono pertanto i motivi che hanno convinto la procura della Repubblica di Livorno a scrivere nel 2010 la richiesta di archiviazione perché nulla più era da accertare.
Per rendere più agevole e immediata la lettura si esprimono sinteticamente i sette punti riassumendo le conclusioni della procura:

1. Luogo della collisione: la collisione è avvenuta con la petroliera regolarmente ancorata in rada dopo che il comando del traghetto aveva impostato rotta e velocità di crociera per Olbia fin dall'uscita del porto.
2. Modalità di navigazione del traghetto Moby Prince: il comando del Moby Prince era particolarmente disattento ed aveva assunto il rischio di navigazione (portellone prodiero aperto e impianto antincendio disattivato) che rendeva la situazione una sorta di incidente in attesa di verificarsi.
3. Presenza di nebbia: un repentino fenomeno atmosferico in corrispondenza del tratto di mare immediatamente di fronte al traghetto sorprendeva il comando del traghetto.
4. Accensione dei fari di manovra: il comando del traghetto sorpreso dal banco di nebbia di cui al punto 3 incautamente accendeva i fari auto-accecandosi e non vedendo più il tratto di mare antistante il traghetto in navigazione.
5. Dinamica della collisione: l'urto è avvenuto tra il traghetto che percorreva la rotta per Olbia a velocità di crociera e la petroliera con la prua orientata verso nord.
6. Sviluppo dell'incendio: il traghetto collidendo con la petroliera ne ha squarciato una cisterna ed è stato immediatamente invaso da un grande quantitativo di petrolio greggio incendiato.
7. Modalità di propagazione dell'incendio: la propagazione del fuoco è stata repentina e incontrollabile, limitando i tempi di sopravvivenza a bordo del traghetto ad un tempo massimo di 20/30 minuti.

Di seguito presentiamo solo alcune delle evidenze tecniche, sviluppate di recente dallo studio Bardazza che smentiscono punto per punto quanto sopra riassunto.
1. Luogo della collisione: nel 2009 la Procura affida una consulenza tecnica agli Ammiragli ing. Giuliano Rosati e dott. Giuseppe Borsa (depositata il 17 giugno 2009). In questa relazione tecnica sono riportati su di un elaborato cartografico disegnato a mano dai consulenti alcuni punti delle presunte posizioni di ancoraggio (14 punti) della petroliera Agip Abruzzo emersi negli anni e solo citati in diversi passaggi delle inchieste e dei processi. Non sono prese invece in considerazione le posizioni indicate dalla sentenza di primo grado del Tribunale di Livorno e quella indicata dalla Corte di appello del Tribunale di Firenze che clamorosamente nessuno rileva essere entrambe all'interno dell'area di divieto di ancoraggio e pesca presente al di fuori del porto di Livorno. Di contro la proiezione sulla carta dei diversi punti selezionati ha permesso ai consulenti di definire un rettangolo di 600x300 m che li racchiude e di indicare il baricentro di questo rettangolo come il «probabile» punto di ancoraggio della M/C Agip Abruzzo al momento della collisione appena fuori dell'area tratteggiata di divieto di ancoraggio e pesca. Posizionare il punto della collisione all'esterno dell'area di divieto di ancoraggio consente così di affermare, nel 2009, che ci fu la sola responsabilità del comando del traghetto passeggeri nella collisione con la petroliera regolarmente ancorata in rada. Ma la posizione di fonda dell'Agip Abruzzo la mattina successiva - presumibilmente la posizione della collisione come sempre condiviso da tutti - è univoca e confermata da tutti i dati oggettivi a disposizione e si trova senza dubbio all'interno dell'area di divieto di ancoraggio, esattamente come individuato nella sentenza di primo grado che evidenziava una notizia di reato già nel 1997 senza che fosse preso alcun provvedimento successivo. Quanto affermato può essere verificato attraverso semplici allineamenti e triangolazioni di fotografie e video che individuano precisamente la posizione della M/C Agip Abruzzo in rada la mattina successiva alla collisione all'interno dell'area di divieto di ancoraggio e pesca. Riconoscere la posizione della collisione all'interno dell'area di divieto di ancoraggio determina che la petroliera non fosse dove si è da subito dichiarato, ovvero regolarmente ancorata in area consentita, e introduce una prima modifica delle condizioni di navigazione del traghetto, non più sulla direttrice di rotta per Olbia. Due sentenze quindi accertano che la posizione in cui avviene la collisione è all'interno della zona di divieto di ancoraggio e pesca, ma di questa clamorosa evidenza non si fa cenno alcuno nemmeno nelle più recenti indagini del 2009 elidendo così le eventuali responsabilità del comando della petroliera Agip Abruzzo nonché della Capitaneria di Porto di Livorno.
2. Modalità di navigazione del traghetto Moby Prince: sul punto sono due i fatti che smentiscono in radice quanto scritto dalla Procura della Repubblica:

la citata normativa MARPOL è una convenzione internazionale per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi (MARitime POLlution) ed è un accordo internazionale per prevenire l'inquinamento del mare. È nata con lo scopo di ridurre al minimo l'inquinamento del mare derivante dai rifiuti marittimi, idrocarburi e gas di scarico. Il suo obiettivo è quello di preservare l'ambiente marino attraverso la completa eliminazione dell'inquinamento da idrocarburi e da altre sostanze nocive e la riduzione al minimo dello sversamento accidentale di tali sostanze. Non riguarda la prescrizione di portelloni di seconda difesa né tantomeno si applica ai traghetti passeggeri. Nel 1991 non erano in vigore altre specifiche normative riguardo i sistemi di sicurezza in tema di navigazione che possano essere state fraintese nella stesura del documento da parte della procura della Repubblica di Livorno, conformemente alla classe di navigazione del traghetto Moby Prince.

l'impianto sprinkler antincendio era di tipo «a secco» per ragioni di sicurezza, ovvero le tubolature non contenevano acqua per evitare sia la formazione di ghiaccio nei tratti esterni durante le navigazioni invernali che per evitare il problema a cui accenna la procura nella richiesta di archiviazione: la possibilità che eventuali perdite potessero rovinare gli interni del traghetto. L'esatto assetto con cui si presentò il sistema antincendio della Moby Prince al momento della collisione e soprattutto le modalità di funzionamento durante l'incendio a bordo non sono mai state oggetto di un'analisi approfondita e dirimente, tesa anche nell'eventualità a verificare i profili di responsabilità armatoriale sulla vicenda. Pur tuttavia, i termini di presentazione della questione contenuti nella richiesta di archiviazione - oggettivi e assertivi - da un lato la rappresentano in modo evidentemente lesivo della professionalità e dell'onore delle persone in comando del traghetto, e dall'altro hanno consentito di sostenere la repentinità della morte dell'equipaggio e dei passeggeri, a cui nessuno così avrebbe potuto portare tempestivo soccorso. Si annota a margine che nella richiesta di archiviazione la responsabilità dell'armatore della Moby Prince in relazione alla «rimozione dolosa di dispositivi di sicurezza per prevenire disastri ed infortuni» è stata giudicata «non configurabile» poiché trattasi di «traghetto passeggeri» e non di «una petroliera» ove si supporrebbe che tali incidenti siano più probabili; argomentazione che osiamo definire eufemisticamente curiosa.

3. Presenza di nebbia: Il tema della nebbia è forse quello che più evoca la vicenda Moby Prince, poiché finora la magistratura ha optato chiaramente per negare la validità di ogni contributo e documento che ipotizzasse l'assenza, o quantomeno minima rilevanza, di tale fenomeno atmosferico. I video disponibili, le testimonianze di molti, le registrazioni delle comunicazioni sul Canale 16 VHF ed in ultimo le condizioni atmosferiche accertate essere presenti quella sera del 10 aprile 1991 avrebbero dovuto consigliare quantomeno prudenza nel riaffermare ancora nel 2010 certezze circa la presenza di nebbia da avvezione in rada la sera della collisione. Quello che ci lascia sconcertati è che esiste un evento ben descritto nella perizia di consulenza tecnica d'ufficio degli Ammiragli Rosati e Borsa, che spiegherebbe esattamente, con tanto di calcoli numerici verificati, tutta la serie di fenomeni descritti dai testimoni e mostrati dai documenti audiovisivi: un guasto tecnico a bordo della petroliera non segnalato. Di questa evidenza proposta dai propri consulenti la procura non ritiene di approfondire alcunché nonostante la portata della segnalazione ricevuta. Una semplice osservazione delle condizioni della petroliera attraverso le numerose fotografie disponibili agli atti avrebbe evidenziato l'effettiva presenza di un'anomalia a bordo della stessa petroliera, per citare una concreta: l'efficienza dell'impianto antincendio a bordo dell'Agip Abruzzo.
4. Accensione dei fari di manovra: L'accensione dei fari d'illuminazione del ponte di manovra (erroneamente indicati come cercanaufraghi) come segno di disattenzione alla navigazione da parte della plancia di comando del Moby Prince «nella speranza di migliorare la visibilità sullo specchio di mare davanti a sé, ma in realtà peggiorando le condizioni di visibilità» è una mistificazione della realtà. Nessun diportista in navigazione notturna in qualsiasi condizione di visibilità proverebbe ad accendere i fari di manovra senza una pressante necessità. Il fatto che i fari effettivamente accesi dalla plancia di comando del Moby Prince illuminassero il punto del ponte di manovra squarciato da una accertata esplosione nel locale eliche di prua è stato considerato un caso privo di alcun significato.
5. Dinamica della collisione: sembrerebbe, leggendo la richiesta di archiviazione scritta dai sostituti procuratori di Livorno nel 2010, che gli Ammiragli Rosati e Borsa indichino con certezza la posizione della prua dell'Agip Abruzzo orientata per 300o, l'unica che consente di ricostruire la dinamica della collisione con il traghetto sulla sua rotta e la petroliera ferma regolarmente all'ancora. Tuttavia, nella relazione stessa i CTU asseriscono che il vento proveniva sicuramente da Sud, complicando l'oggettività della prima deduzione perché è un fatto fisico che i natanti all'ancora di prua rivolgono la parte prodiera contro vento e quindi se l'Agip Abruzzo avesse avuto la prua a sud, il traghetto, per collidere con il lato destro, avrebbe dovuto invertire la sua rotta (con direzione verso Livorno) per un avvenimento interno o esterno. Gli elementi oggettivi disponibili tra cui la direzione del vento, del fumo, della corrente, immagini video, testimonianze, dichiarazioni dello stesso comandante Superina dell'Agip Abruzzo ed elementari considerazioni di fisica dell'atmosfera, indicano invece concordemente che la direzione del vento fosse da sud verso nord e di conseguenza l'orientamento della petroliera al momento della collisione parrebbe essere con la prua rivolta verso sud (o i quadranti meridionali).
6. Sviluppo dell'incendio: nessun accertamento o verifica è stato fatto sulle quantità e qualità del carico presente a bordo dell'Agip Abruzzo al momento della collisione. La sola affermazione riportata nelle conclusioni circa le quote non ha suggerito ai Procuratori di Livorno la necessità di approfondire come sia stato possibile che il traghetto venisse colpito da un'ondata di greggio incendiato nonostante la presenza di una differenza di quote sul livello del mare di oltre 2 metri. Sul punto esistono documenti raccolti nel 2013 che imporrebbero ulteriori considerazioni circa la quantità e la qualità del carico della petroliera, questione che riteniamo debba essere investigata nelle sedi opportune di una Commissione parlamentare d'inchiesta.
7. Modalità di propagazione dell'incendio: le conclusioni riportano che «l'apertura della porta stagna prodiera e l'impianto di ventilazione in funzione avrebbero agevolato decisamente l'ingresso di greggio e vapori nei garage e nei locali interni del Moby Prince», asserendo quindi che la propagazione è stata repentina e non ha lasciato scampo, provocando la morte dell'equipaggio e dei passeggeri in un tempo massimo di 30 minuti (smentendo così la relazione tecnica svolta sulle modalità di propagazione dell'incendio sul traghetto Moby Prince nel 1993 dal RINA).
Queste sono solo alcune delle evidenze raccolte durante l'esame della copiosa documentazione trasmessa al GIP per l'udienza per l'archiviazione del dicembre 2010. Nella sede opportuna, ovvero all'udienza davanti al GIP del Tribunale di Livorno, riteniamo non ci sia stato concesso dallo stesso Tribunale il tempo necessario a completare l'analisi della documentazione tecnica messa a disposizione, infatti nonostante l'accoglimento di una proroga di un mese dell'udienza, appare chiaro semplicemente osservando la cronologia degli accadimenti sotto riportata, come il tempo materiale per formulare tutte le osservazioni dirimenti non sia stato sufficiente:

5 maggio 2010: deposito della richiesta di archiviazione da parte delle Procura della Repubblica;

9 maggio 2010: richiesta di accesso agli atti da parte dei familiari delle vittime;

24 novembre 2010: richiesta di rinvio dell'udienza davanti al GIP motivando l'assenza dei documenti richiesti a maggio;

24 novembre 2010: autorizzazione della Procura a Livorno ad effettuare il primo accesso agli atti;

9 dicembre 2010: secondo accesso agli atti presso la Procura di Livorno;

17 dicembre 2010: consegna da parte della Procura di Livorno delle copie dei documenti trasmessi al GIP».

Secondo alcune inchieste giornalistiche, la tragedia del Moby Prince, al di là dall'immane angoscia provocata in tante famiglie, al di là anche dell'esito delle investigazioni propriamente giudiziarie (le quali per la natura stessa dell'intervento del giudice non possono estendere la loro attenzione a problematiche e a profili di responsabilità non strettamente penali o civili o, al massimo, amministrativi), sarebbe rimasta sostanzialmente inesplorata soprattutto dal punto di vista delle ragioni vere che hanno indotto le autorità competenti a tenere un comportamento a dir poco reticente dinanzi ai giudici.
In sostanza, quello che sarebbe mancato nell'indagine giudiziaria - secondo questa tesi - è l'approfondimento di un'ipotesi ragionevolmente e insistentemente prospettata: l'involontario e malaugurato coinvolgimento del Moby Prince in manovre clandestine (ma non ignote alle autorità) di commercio di armi nel porto di Livorno, la notte del 10 aprile 1991.
Secondo queste ricostruzioni giornalistiche, le autorità degli Stati Uniti d'America avrebbero fornito versioni diverse sulla presenza di loro navi militarizzate nel porto di Livorno. Prima, nel 1991, un certo tenente colonnello Harpole disse che erano tre. Poi, nel 2002, il capitano di vascello Oliver parlò di cinque navi, precisando che una si era dovuta allontanare per non essere coinvolta nell'incendio. Ciò suggerirebbe due semplici deduzioni. La prima è che quella nave era vicina, troppo vicina, alla Moby Prince. La seconda è che gli americani nascondono qualcosa, perché le navi non erano né tre né cinque, ma probabilmente almeno sei. Neppure è stato ancora spiegato perché il comandante della nave che si allontana, la Gallant 2, usa un nome in codice: «Theresa».
Il capitano della Guardia di finanza Cesare Gentile smentì in modo netto e clamoroso l'ipotesi della nebbia come una delle cause dell'incidente. Davanti ai giudici, il 15 maggio 1996, disse infatti di essere uscito in mare con la sua motovedetta V 5808 poco dopo le 22,30 del 10 aprile e, a più riprese, precisò che c'era «una chiarezza impressionante e il mare era calmo e senza nebbia», circostanza d'altra parte confermata da tutti i membri dell'equipaggio e dall'avvistatore marittimo di Livorno che scrisse che la sera era limpida e senza nebbia e c'era una visibilità di almeno cinque miglia.
Gli eventi di contesto che hanno portato alla collisione fra le due imbarcazioni, inizialmente archiviata come frutto di errore umano, in realtà - anche in ragione dei supplementi di inchiesta condotti dai legali dei familiari delle vittime (in particolare dai figli del comandante Ugo Chessa) - lasciano emergere un quadro decisamente differente.
Un recente articolo del giornalista Piero Mannironi, comparso nel quotidiano «La Nuova Sardegna» del 9 aprile 2013, ha avuto il merito di riaccendere i riflettori su quella tragedia.
Le ulteriori inchieste e perizie condotte sul caso in questione - anche attraverso l'uso di materiali audiovisivi - avrebbero fatto emergere almeno due elementi che impongono una revisione della ricostruzione degli eventi:

a) la posizione della Moby Prince e quella della petroliera Agip Abruzzo dimostrano che lo speronamento della petroliera avvenne nella rotta verso il porto di Livorno, invece che verso Olbia dove la nave passeggeri avrebbe dovuto essere diretta;

b) la voce proveniente dalla misteriosa nave «Theresa II», allontanatasi a tutta velocità dal luogo di collisione, registrata dagli strumenti radio, che comunicò con la «Nave uno» la sera dell'incidente - in base alle comparazioni compiute dall'esperto di ingegneria forense Gabriele Bardazza - risulterebbe essere quella del comandante greco della nave militarizzata statunitense Gallant 2, Theodossiou.

Non risulta chiara la ragione per cui il comandante Theodossiou abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio nominativo; non risultano chiare le ragioni per le quali la Moby Prince avrebbe cambiato la rotta prevista facendo ritorno al porto di Livorno, invece che proseguire la crociera verso Olbia.
La nave militare statunitense Gallant 2 - insieme con altre della medesima Marina militare - era impegnata nel trasporto di armi verso la base di Camp Darby, in una fase storica che coincide con l'ultimo giorno della missione «Desert Storm».
In seguito alle vicende ricordate la Gallant 2 scomparve e le armi sopra menzionate non sembrano essere mai giunte alla base americana, come risulterebbe dalla documentazione dell'attività del ponte mobile di Calambrone, che fornisce accesso al canale di Navicello, rimasto chiuso dal pomeriggio del 10 aprile al mattino del giorno successivo.
Su istanza dell'avvocato Carlo Palermo, legale dei figli del comandante della Moby Prince, Chessa, è stata aperta una seconda inchiesta sul caso. L'ipotesi sulla quale si fonda l'inchiesta - acquisiti e riconsiderati atti o addirittura documenti misteriosamente scomparsi - è che la nave civile sia finita in mezzo a un frenetico traffico d'armi segreto, organizzato dalle autorità militari statunitensi e autorizzato da quelle italiane, che avrebbe animato in quelle ore il porto di Livorno.
Vanno anche ricordate le denunce dell'associazione ambientalista Legambiente e - successivamente - dello scrittore Roberto Saviano circa l'illegale smaltimento del relitto della Moby Prince presso la discarica So.ge.ri. di Castelvolturno, adiacente a quella di Bortolotto, gestita per anni dal clan camorristico dei Casalesi.
Si tratta, dunque e a questo punto, di rivalutare gli accadimenti nella più ampia prospettiva dell'individuazione delle vere cause del disastro - nella loro ampia articolazione - e, soprattutto, delle vere ragioni di un sistematico lavoro di depistaggio da parte di soggetti ben individuati.
Naturalmente, un'inchiesta parlamentare non può non prendere le mosse dai dati acquisiti in sede propriamente giudiziaria e dai tanti momenti d'investigazione rimasti letteralmente inesplorati.
La Commissione parlamentare d'inchiesta, nell'esercizio delle sue funzioni, dovrebbe quindi valutare gli elementi probatori raccolti nel corso dei procedimenti giudiziari legati alla vicenda, già oggetto di perizie sia da parte dei consulenti tecnici del tribunale di Livorno sia dei consulenti tecnici di parte civile, nonché il restante materiale non ancora oggetto di perizie tecniche, né da parte dei consulenti tecnici del tribunale né di quelli di parte civile, come il bobinone delle Poste italiane contenente la registrazione delle comunicazioni radio avvenute nella notte del disastro e di cui fino ad oggi sono state trascritte soltanto la traccia corrispondente al canale 16 e quella della frequenza 2182 hertz, lasciando ignoto quanto presente nelle restanti undici tracce. Dovrebbe altresì esaminare i tracciati radar degli impianti militari e civili, fino ad oggi mai forniti né agli inquirenti né alle parti civili, con esplicito riferimento ai tracciati radar dell'aeroporto di Pisa registrati nella notte della sciagura. Infine - poiché è impensabile che, a fronte di ferree norme antiterrorismo allora applicate, nessuno controllasse la rada - la Commissione dovrebbe chiedere, con gli strumenti previsti dall'ordinamento, la documentazione (fotografica e video, testuale, satellitare) e i tracciati radar detenuti dal Governo degli Stati Uniti d'America, riguardanti la rada di Livorno nella notte dell'incidente, in quanto funzionali a una precisa ricostruzione degli eventi ivi accaduti. Se questa documentazione venisse concessa, potremmo fare piena luce sull'evento; negando questa, si continuerà ad alimentare illazioni circa un coinvolgimento diretto o indiretto delle navi americane.
Il 16 aprile 2013 alcuni deputati del gruppo di Sinistra ecologia libertà (oltre al primo firmatario Piras, i deputati Migliore, Nicchi, Nardi, Farina, Lavagno, Melilla, Pellegrino e Zan) hanno presentato l'interrogazione a risposta scritta n. 4-00226, chiedendo ai Ministri della giustizia e della difesa di conoscere in quale misura fossero informati dell'istanza di riapertura dell'inchiesta depositata dall'avvocato Palermo per conto dei figli del comandante Chessa e quali iniziative di loro competenza intendessero porre in essere per far emergere la verità sul caso in questione e per consentire che venisse resa piena giustizia alla memoria del Paese e ai familiari delle vittime.
Dopo otto mesi, il 21 dicembre 2013, il ministro Cancellieri ha risposto con poche righe, in maniera che consideriamo liquidatoria, superficiale e burocratica: «Il procuratore della Repubblica di Livorno ha comunicato che in merito al disastro della motonave "Moby Prince" è stata disposta nel 2006 la riapertura delle indagini preliminari sulla base dell'istanza depositata dall'avvocato Carlo Palermo per conto dei figli del comandante Ugo Chessa. A seguito di tali indagini, in data 5 maggio 2010 la procura della Repubblica presso il tribunale di Livorno ha richiesto l'archiviazione del procedimento penale; detta richiesta è stata accolta dal giudice per le indagini preliminari con provvedimento del 21 dicembre 2010. Per quanto riguarda, invece, la vicenda relativa allo smaltimento del relitto della "Moby Prince" presso la discarica So.ge.ri. di Castelvolturno, la procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli ha comunicato che i fatti oggetto dell'interrogazione in esame non hanno trovato riscontro nei procedimenti iscritti presso quell'ufficio, mentre la direzione distrettuale antimafia di Napoli ha riferito che nell'ambito delle indagini svolte non sono emerse notizie, fatti e circostanze riconducibili allo smaltimento del relitto della Moby Prince.
Tale risposta - ma sarebbe meglio dire tale non risposta - del Ministro è stata come il sale su una ferita mai rimarginata, su un dolore collettivo mai sopito. E l'indignazione politica e civile si è così trasformata in una mozione con la quale il consiglio comunale di Livorno «invita il sindaco a farsi promotore nei confronti della ministra perché riveda le proprie imbarazzanti prese di posizione e, se questo non avvenisse, di chiedere al presidente del Consiglio Enrico Letta di rimuovere la ministra Cancellieri dal suo incarico».
È la voce di una città, Livorno, che non è mai riuscita a elaborare il lutto per una strage sulla quale si allungano troppe ombre, troppi dubbi, e sulla quale persiste dopo ventitré anni la sensazione tangibile che forze oscure abbiano lavorato per nascondere la verità sul terribile rogo che, davanti al porto di Livorno, ha divorato centoquaranta vite.


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