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PDL 5675

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5675



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato GARAGNANI

Disposizioni in materia di ineleggibilità dei magistrati alle cariche elettive e di governo nazionali e locali

Presentata il 19 dicembre 2012


      

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Onorevoli Colleghi! — «La massima esperienza del processo si concreta indubbiamente nell'indipendenza dei giudici, che non vuol dire altro se non garanzia che il giudice non è e non sarà parte». Con queste parole Salvatore Satta – in una conferenza tenuta all'università di Catania nel 1949 e pubblicata lo stesso anno nella Rivista di diritto processuale con il titolo: Il mistero del processo (poi in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968) – riassumeva il carattere proprio della funzione del giudice. Egli è l'uomo al quale altri uomini attribuiscono il compito di decidere le loro controversie, l'uomo al quale la società affida il compito di accertare i delitti e di irrogare le pene: un compito necessario per l'ordine sociale, una delle funzioni più alte e più difficili, la quale innalza colui che la svolge, nel momento in cui la esercita, al di sopra di quanti, altrimenti suoi eguali, sono destinatari delle sentenze da lui pronunziate, poiché nell'atto della giurisdizione spetta a lui solo di ius dicere, di far sì che attraverso le sue parole il diritto si riveli e si compia.
      Questa posizione attribuita al giudice dalla volontà dei consociati si giustifica soltanto perché, con il proprio essere «terzo» rispetto alle parti del giudizio, egli assicura che nessuna passione, nessun pregiudizio, nessun interesse personale verrà ad interferire nella pronunzia destinata a rendere a ciascuno il suo, attraverso l'applicazione imparziale delle leggi che la comunità si è data per regolare ordinatamente la propria esistenza. Essere terzo significa persino far tacere, nell'atto della decisione, sentimenti come la compassione e l'indulgenza, che sarebbero buoni e virtuosi in un individuo che dispone del proprio, ma reprensibili nel giudice, cui spetta decidere dei beni, dei diritti, della
 

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stessa vita altrui. È questo il senso profondo delle parole della legge biblica di Mosè: pauperis quoque non misereberis in negotio (Esodo, 23, 3): il giudice non può misurare il torto e il diritto sulla condizione della persona, ma esclusivamente sul valore della norma che è suo ufficio di applicare.
      Su questa primaria necessità sociale si fondano le norme del diritto positivo che configurano la terzietà come requisito essenziale e indefettibile degli organi della giurisdizione.
      Fra gli atti internazionali, si vuole qui richiamare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, che all'articolo 10 sancisce il diritto di ogni individuo a «un'equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta». In termini analoghi la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva per l'Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, all'articolo 6, enunzia il diritto di ogni persona ad un processo equo «davanti ad un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge».
      A presidio del valore fondamentale della terzietà degli organi giudicanti sono poste le guarentigie costituzionali che, sul piano organizzativo e funzionale, assicurano l'indipendenza del giudice e la sua esclusiva soggezione alla legge mediante l'autonomia dell'ordine giudiziario, l'esclusione di ogni rapporto di dipendenza gerarchica, le garanzie di inamovibilità e le speciali regole disciplinari; a presidio di questo valore fondamentale è posto l'ordinamento giudiziario, con le norme sulla competenza che realizzano il principio di precostituzione del giudice; a presidio di questo valore fondamentale sono posti i diversi istituti che, nei codici di procedura, disciplinano l'astensione e la ricusazione dei giudici a garanzia contro i conflitti di interessi nei quali individualmente essi possono incorrere.
      Da una posizione così speciale nell'ambito degli incarichi di natura pubblica discendono corrispettivi obblighi e limiti, come ha rilevato la Corte costituzionale in importanti pronunzie: basti richiamare la sentenza della Corte costituzionale 26 ottobre 1982, n. 172, che svolge chiarissime e incontrovertibili considerazioni a questo riguardo.
      D'altronde, il valore della terzietà non è soltanto un requisito della personalità e dell'interiore forma mentis del giudice, ma è anche un'esigenza della società, che come tale deve essere assistita dal riconoscimento collettivo, fondato sugli elementi di una condotta esteriore che non dia adito a dubbio, che escluda il sospetto, che stabilisca una sicura e piena fiducia nell'imparzialità; nel giudice, realtà e apparenza devono concorrere a realizzare quest'unico fine.
      Ora, la terzietà del giudice non deve concepirsi soltanto nei riguardi degli interessi privati e individuali, ma anche – e forse più ancora – nei riguardi delle posizioni ideologiche, degli interessi politici, delle tendenze di parte, che possono interferire in modo assai più grave e devastante sull'esercizio della giurisdizione. A questo hanno provveduto, sul piano organizzativo, le disposizioni – in primis quelle costituzionali – che hanno reciso ogni rapporto di dipendenza del magistrato, non solo giudicante ma anche requirente, dal potere esecutivo. Ma ciò non basta: nessuno deve essere autorizzato ad asserire – fosse anche soltanto per pretestuosa protervia – che un giudice operi per pregiudizio politico o spirito di partito. Ripeterò qui ciò che ho scritto, affrontando la stessa questione in altro contesto, nella proposta di legge atto Camera n. 4069, da me presentata il 10 febbraio 2011: in questa materia «vengono in rilievo diritti e valori fondamentali garantiti dalla Costituzione: il diritto di ciascun cittadino, e quindi anche di colui che eserciti le funzioni di magistrato, ad assumere le cariche pubbliche elettive, e il principio della terzietà del giudice, che –
 

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al pari della moglie di Cesare – etiam suspicione vacare debet: non solo essere libero da ogni pregiudizio, sia pure di appartenenza o di schieramento politico, ma anche apparire tale a chiunque si trovi sottoposto al suo potere di giurisdizione».
      Rispetto ad allora, ritengo che i tempi siano ora maturi per avanzare una proposta più decisa e più compiuta, che – per il tempo in cui viene sottoposta a questo Parlamento nella fine imminente della legislatura – rimarrà come oggetto di meditazione ponderata e serena per le nuove Camere che nasceranno dalle prossime elezioni.
      La proposta che oggi sottopongo è semplice, e si riassume in un concetto: il magistrato – così come non può farsi legislatore nel momento stesso in cui applica la legge – non può entrare nelle contese politiche aspirando a esprimere e rappresentare interessi – pur legittimi e magari nobili – di una parte o di un partito. Quindi, la presente proposta di legge sancisce il principio per cui il magistrato in servizio non può candidarsi a una carica elettiva né assumere una funzione di governo, nazionale o locale, se prima non abbia rinunziato definitivamente alla funzione giurisdizionale, e prevede che tra la cessazione dalle funzioni e la candidatura o l'assunzione dell'incarico di governo debba intercorrere un appropriato intervallo temporale.
      L'una e l'altra disposizione sono volte ad evitare l'eventualità e il sospetto che il magistrato possa piegare gli atti della propria funzione al fine di captare favore o acquisire notorietà nella prospettiva di un'attività politica o di un impegno elettorale.
      La previsione di un'incompatibilità successiva – analoga a quella posta dalla legge per i componenti di autorità amministrative indipendenti rispetto a incarichi nel settore economico in cui hanno esercitato le loro funzioni di regolazione e controllo – è specificata in un periodo di due anni, con una limitazione non eccessiva ma di durata sufficiente a segnare una cesura fra l'attività giudiziaria e il diretto impegno politico, temperando altresì conseguenze improprie di una pubblica fama eventualmente acquisita per atti compiuti quale magistrato.
      Per converso, la preclusione dell'ulteriore esercizio di funzioni giudiziarie è volta a prevenire la possibilità che il magistrato che ha assunto posizioni politiche di rilevanza pubblica – con il complesso di rapporti di alleanza, di contrapposizione, di riconoscenza, di risentimento che queste comportano – rimanga comunque sminuito nella propria autorevolezza, al di là delle caratteristiche e qualità personali, presso coloro nei cui riguardi si troverebbe altrimenti ad esercitare il proprio ufficio.
      Ci si potrebbe chiedere se questa scelta, diversa e più rigida rispetto alle vigenti norme sull'ineleggibilità a carico di altri soggetti investiti di pubbliche funzioni, sia conforme alla disciplina costituzionale e giustificata da un'effettiva diversità di situazioni.
      È vero infatti – come avvertì la Corte costituzionale già nella sentenza 26 marzo 1969, n. 46 – che, pur nell'ambito della discrezionalità spettante al legislatore, i limiti all'esercizio del diritto politico di elettorato passivo debbono restringersi al minimo necessario per salvaguardare valori di eguale rilievo costituzionale.
      Tuttavia, è la posizione stessa del giudice – e del magistrato in genere, stante l'unità dell'ordine giudiziario – ad essere specialissima, anzi unica, nel complesso dei pubblici uffici, atteso che al magistrato competono prerogative e guarentigie che permettono ad esso – come accade con tutta evidenza nei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato – di esprimere in via definitiva la volontà del potere nel quale è inquadrato, al di fuori di qualsiasi ordinamento gerarchico, e di svolgere la sua funzione in piena indipendenza, soltanto sulla base del proprio libero convincimento, con atti soggetti alla sola possibilità dell'impugnazione in un superiore grado di giudizio. All'unicità di tale posizione non possono non corrispondere particolari doveri e limiti, che si ritiene possano attenere anche alla restrizione di alcune facoltà ordinariamente riconosciute ai cittadini
 

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nella sfera dei diritti politici, come del resto la stessa Carta costituzionale, all'articolo 98, terzo comma, ammette rispetto alla libertà di iscrizione a partiti politici, i quali sono – si ricordi – lo strumento ordinario attraverso il quale i cittadini esercitano il diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Il limite all'elettorato passivo – nella forma dell'ineleggibilità e dell'incompatibilità successiva per un periodo ragionevolmente determinato – sembra allora giustificabile in ragione del preminente valore costituzionale della terzietà della funzione giurisdizionale, dell'indipendenza del giudice soggetto soltanto alla legge, dell'autorevolezza che deve circondare coloro ai quali ne è affidato l'esercizio, della fiducia che tutti i cittadini debbono poter riporre in ciascun componente dell'ordine giudiziario.
      È evidente che nessun presidio di carattere ordinamentale è sufficiente a prevenire qualunque rischio. La correttezza irreprensibile nell'esercizio della funzione giurisdizionale resta affidata in primo luogo alla coscienza personale e alla dignità professionale di ciascun componente dell'ordine giudiziario. Nessuna norma vale di per sé sola ad escludere che taluno possa piegare l'esercizio di un compito altissimo allo spirito di fazione, vizio rovinoso ed esiziale per chiunque rappresenti l'autorità dello Stato, abdicando alla dignità e ai doveri del proprio ufficio e gettando (duole anche soltanto il pensarlo) un'ombra sinistra sulla funzione stessa della quale è investito dalla fiducia dei cittadini. A siffatti sviamenti o veri e propri abusi possono porre rimedio soltanto la sanzione della pubblica opinione e l'esercizio giusto e severo del potere disciplinare da parte degli organi ai quali esso istituzionalmente compete. Nondimeno, ritengo che le misure qui proposte possano svolgere un'efficace azione preventiva e – nei casi in cui malauguratamente occorresse – dissuasiva, e soprattutto stabilire un netto discrimine, nelle coscienze prima ancora che nell'ordinamento positivo, tra due funzioni, entrambe fondamentali ma essenzialmente diverse e necessariamente separate, quali sono la rappresentanza degli interessi politici e l'esercizio della giurisdizione.
 

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PROPOSTA DI LEGGE
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Art. 1.
(Disposizioni in materia di ineleggibilità dei magistrati al mandato parlamentare).

      1. Al testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) all'articolo 7 è aggiunto, in fine, il seguente comma:
      «Non sono eleggibili i magistrati in servizio, compresi quelli delle giurisdizioni superiori, né quelli che sono cessati dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, fino al compimento del secondo anno dalla data del collocamento a riposo o dalla data in cui hanno cessato di far parte dell'ordine giudiziario a seguito di dimissioni o per qualsiasi altra causa»;

          b) l'articolo 8 è abrogato.

Art. 2.
(Disposizioni in materia di incompatibilità tra la funzione di magistrato e gli incarichi di governo).

      1. I magistrati in servizio, compresi quelli delle giurisdizioni superiori, e quelli che sono cessati dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, fino al compimento del secondo anno dalla data del collocamento a riposo o dalla data in cui hanno cessato di far parte dell'ordine giudiziario a seguito di dimissioni o per qualsiasi altra causa, non possono assumere

 

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gli incarichi di Presidente del Consiglio dei ministri, di Ministro e di Sottosegretario di Stato.

Art. 3.
(Disposizioni in materia di ineleggibilità dei magistrati alle cariche di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale, nonché di incompatibilità con le cariche di assessore comunale e provinciale).

      1. All'articolo 60 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) al comma 1, il numero 6) è sostituito dal seguente:
      «6) i magistrati in servizio, compresi quelli delle giurisdizioni superiori, e quelli che sono cessati dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, fino al compimento del secondo anno dalla data del collocamento a riposo o dalla data in cui hanno cessato di far parte dell'ordine giudiziario a seguito di dimissioni o per qualsiasi altra causa;»;

          b) al comma 3, la parola: «6),» è soppressa.

      2. Dopo l'articolo 64 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è inserito il seguente:
      «Art. 64-bis. – (Incompatibilità dei magistrati).1. I magistrati in servizio, compresi quelli delle giurisdizioni superiori, e quelli che sono cessati dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, fino al compimento del secondo anno dalla data del collocamento a riposo o dalla data in cui hanno cessato di far parte dell'ordine giudiziario a seguito di dimissioni o per qualsiasi altra causa, non possono ricoprire la carica di assessore comunale o provinciale».

 

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Art. 4.
(Princìpi fondamentali in materia di ineleggibilità dei magistrati nelle elezioni dei consigli regionali e di incompatibilità a ricoprire le cariche di presidente della regione e di componente della giunta regionale).

      1. Le disposizioni introdotte dalla presente legge costituiscono princìpi fondamentali in materia di ineleggibilità nelle elezioni dei consigli regionali e di incompatibilità tra la funzione di magistrato e le cariche di presidente della regione e di componente della giunta regionale.
      2. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni adeguano la loro legislazione ai princìpi di cui al comma 1. In mancanza, si applicano le disposizioni dell'ottavo comma dell'articolo 7 del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, introdotto dall'articolo 1, comma 1, lettera a), della presente legge.


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