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PDL 4829-A-bis

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 4829-A-bis



 

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RELAZIONE DELLE COMMISSIONI PERMANENTI
V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE) E VI (FINANZE)

presentata alla Presidenza il 13 dicembre 2011

(Relatori: BITONCI e FUGATTI, di minoranza)

sul

DISEGNO DI LEGGE

presentato dal presidente del consiglio dei ministri
e ministro dell'economia e delle finanze
(MONTI)

dal ministro del lavoro e delle politiche sociali
(FORNERO)

e dal ministro dello sviluppo economico
(PASSERA)

di concerto con il ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare
(CLINI)

e con il ministro per i rapporti con il parlamento
(GIARDA)

Conversione in legge del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici

Presentato il 6 dicembre 2011
 

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Onorevoli Colleghi! — Non possiamo unirci alla relazione di maggioranza della Commissione su questa prima manovra del Governo Monti, perché non ne condividiamo i contenuti e perché non crediamo che sarà davvero in grado di migliorare la situazione economica difficile che il nostro Paese, insieme all'Europa e a buona parte delle economie occidentali, sta attraversando.
      Da quasi due anni in questo Parlamento ci stiamo misurando con l'urgenza di individuare misure forti ed efficaci per far fronte alla crisi economica e finanziaria, per difenderci da un attacco che, originato ed alimentato probabilmente fuori del nostro Paese, ci sta travolgendo.
      Abbiamo approvato manovre di taglio alla spesa di portata enorme, come mai era stato fatto in passato, cercando di non arrivare mai a deprimere la fiducia dei nostri cittadini imponendo tasse e cercando di non pregiudicare i servizi pubblici.
      Ci hanno detto che era colpa nostra, degli organi di Governo del Paese, che non eravamo capaci di gestire la crisi, di approvare riforme, di dare fiducia ai mercati ed al Paese, per questo è stato necessario, con un colpo di mano, spazzare via un intero Governo, espressione della maggioranza eletta dai cittadini e sostituirla arbitrariamente con i professori, i tecnici, gli esperti.
      Attenzione però: il Governo della salvezza non è stato chiamato perché le imprese hanno cominciato a chiudere, perché i lavoratori andavano in cassa integrazione o perdevano il lavoro, perché le regioni non avevano più i trasferimenti necessari a garantire l'assistenza sanitaria o i comuni non potevano più coprire le spese per i servizi sociali.
      No, il Governo di emergenza è stato ritenuto necessario solo quando la speculazione sui titoli di Stato ha fatto vacillare i portafogli delle banche e l'artificiosa impalcatura su cui si regge l'euro, questa moneta senza Stato e senza popolo, voluta solo dai burocrati che si nascondono dentro i palazzi di Bruxelles e Francoforte.
      Non facciamoci ingannare da questa bugia: il governo Monti, quando dice di voler «salvare l'Italia», come nel titolo presuntuoso dato a questo decreto, non si riferisce alle persone, alle famiglie, agli esseri umani che fanno un popolo con le loro aspettative, le loro speranze ed il loro lavoro, i tecnici vedono nello Stato solo una macchina da tarare, da regolare in un senso o nell'altro per arrivare ad una determinata somma aritmetica, indipendentemente da quali vite, quali storie ne vengono triturate.
      Molti dunque, dalla stampa, ai media, all'intellighenzia radical chic che parla dai salotti buoni e dai palchi di molti eventi hanno salutato come una svolta risolutiva l'avvento dei tecnici, dei professionisti, al posto di un intera classe politica demonizzata senza distinzioni.
      In tutta onestà, da questi tecnici ci aspettavamo qualcosa di meglio.
      Questa è una manovra banale nella scelta degli obiettivi da colpire, semplicistica nelle soluzioni trovate per individuare nuovi gettiti, sbilanciata sulle tasse anziché sui tagli di spesa e dunque recessiva.
      È una manovra crudele perché i super tecnici possono non tenere in alcun conto i problemi quotidiani delle persone, la loro
 

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rabbia e la loro amarezza, che tanto alla fine si riverserà tutta solo sulla tanto odiata casta dei politici.
      Guardiamo bene questa manovra: è poco più del proseguimento della strada già segnata dal precedente Governo, ma senza le mitigazioni imposte a suo tempo dalla Lega, ad esempio sulle pensioni.
      Nessuna idea veramente innovativa, nessun cambio di passo epocale, pura e grossolana macelleria sociale, zero confronto, zero possibilità di critica, e girandola di ministri a occupare le prime serate delle trasmissioni televisive. Valeva davvero la pena di cancellare la democrazia in questo Paese in nome di tutto ciò?
      Per chi ha avuto il coraggio di fare un'analisi onesta di questo decreto il giudizio è unanime: è una manovra priva di equità, la parola chiave su cui si era aggregato un ampio sostegno al Governo Monti e che ora, così palesemente sconfessato, dovrebbe provocare reazioni anche da parte di molti dei partiti che sostengono questa maggioranza.
      Non è certo equa una manovra che colpisce il ceto economicamente mediano, certo non ricco, in alcuni casi al limite di una vita dignitosa. Non è certo equo colpirli solo perché è più facile individuarli e tassarli, non è equo, è comodo. Così siamo capaci tutti, caro Monti, verrebbe da dire.
      Ma quando avrete decurtato la pensione a chi ce l'ha, reso incerto il futuro a chi la aspetta, tassato la casa, obbligati ad aprire conti correnti di cui non hanno bisogno e pagarne le relative spese, aumentato le accise sulla benzina e l'IVA anche sui beni primari, come pensate che queste persone possano avere la fiducia, la forza e la volontà, con i propri consumi ed il proprio lavoro di rimettere in moto l'economia di questo Paese?
      Uno degli elementi di questo provvedimento che riteniamo più iniqui è l'ICI reintrodotta sulle prime case. L'imposta municipale propria era stata concepita dal precedente Governo come parte del più generale processo di riorganizzazione del fisco che era (e speriamo che sia) stata definita dal federalismo fiscale: nel nostro progetto il comune, l'ente più vicino al cittadino, tornava ad essere protagonista dell'intero sistema, capace di garantire il principio fondamentale del «no taxation without representation».
      Questo principio affermatosi nel corso della storia come cardine fondamentale dei sistemi democratici, presente in diverse forme in tutti gli altri Paesi europei, in Italia è stato chiaramente distorto, provocando la crescita esponenziale del debito pubblico; a livello locale chi «rappresenta», chi ci mette la faccia e spende per garantire servizi ai cittadini, non può tassare; a livello centrale, all'opposto, si tassa, ma non si «rappresenta» per l'intero e non si spende per l'intero, dal momento che il governo centrale in questo ruolo è sostituito in gran parte dai governi regionali e locali. Questo meccanismo, tipico solamente dell'Italia, è essenzialmente dovuto all'abolizione quasi totale dei vecchi tributi locali operata negli anni ’70, sostituiti da trasferimenti di fondi pubblici operati dal centro alla periferia e da trasferimenti di gettiti tributari.
      La novità introdotta dal governo Monti, oltre all'anticipazione al 2012, è quella dell'assoggettamento all'imposta anche della prima casa, fattispecie invece assolutamente esclusa dal progetto federalista.
      Il 70 per cento circa degli italiani è proprietario della casa in cui vive, per un fenomeno culturale tipicamente italiano nel quale la casa in cui risiede la propria famiglia è un valore primario, profondo, e che costituisce un elemento di stabilità e di sicurezza non solo per le famiglie ma per l'intero Paese. Le persone lavorano, pagano le tasse sul proprio lavoro, risparmiano, fanno sacrifici, accendono un mutuo per comprare la loro casa. Tassare la casa significa tassare due volte il lavoro, tassare i sacrifici, rendere ancora più pesante un mutuo che molti già fanno fatica a pagare, ma certamente non significa colpire i «ricchi» per dare ai poveri.
      Il nostro Governo aveva, con uno dei suoi primi provvedimenti, eliminato l'imposta comunale sugli immobili, alleggerendo il carico fiscale sui piccoli proprietari, che non posseggono altro immobile se
 

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non quello in cui abitano. L'articolo 13 del decreto-legge 201 non si limita, però, a reintrodurre la vecchia ICI, ma gonfia la base imponibile con una serie di moltiplicatori che causano un aumento addirittura del 60 per cento delle rendite degli immobili posseduti dai cittadini del ceto medio, mentre ritoccano solo del 20 per cento quelle degli immobili detenuti dalle banche e dalle assicurazioni. Altro punto dolente riguarda il gettito dell'imposta: mentre il gettito ICI affluiva interamente nelle casse comunali, il gettito IMU verrà diviso tra Stato e comuni con un evidente passo indietro rispetto all'obiettivo federalista che la Lega da sempre si pone. L'impatto sui proprietari sarà devastante, tanto che l'ISTAT mette in guardia sugli effetti che l'IMU avrà sulla fascia di cittadini già a rischio povertà; le prime simulazioni parlano di importi rilevanti, pari mediamente a 400/500 euro nelle grandi città come Roma e Milano.
      La norma attiva un procedimento frettoloso ed ancora una volta iniquo, non possiamo accettare che si applichi un'imposta senza una vera e completa revisione delle rendite catastali fatta dai comuni. Applicare un metodo lineare di rivalutazione come previsto dal decreto significa perpetrare gli abusi. Anche qui il Governo però è stato troppo pigro per mettere in moto una profonda revisione dei dati catastali e fare finalmente emergere i 2 milioni di case fantasma mai accatastati ma accertati da numerosi studi, quasi tutti al sud.
      Naturalmente anche stavolta sarà sempre e solo il nord a pagare. Un atteggiamento assolutamente anti-nord ed anti-federalistico, rafforzato dal tentativo dei relatori, fermato dalla Lega, di cancellare la disposizione che garantisce che almeno il 30 per cento del fondo sperimentale di riequilibrio sia distribuito tra i comuni in base alla popolazione, e non destinato solo a coprire i fabbisogni eccedenti dei comuni del sud.
      Inoltre, l'inasprimento fiscale sulle abitazioni colpisce direttamente anche il settore delle costruzioni che negli ultimi anni attraversa la più grave crisi dal dopoguerra; oltre a modificare le scelte di investimento delle famiglie.
      L'assoggettamento ad IMU dei fabbricati rurali, sia abitativi che strumentali e la rivalutazione dei terreni agricoli (la base imponibile sarà incrementata del 60 per cento) sono di fatto una «patrimoniale sull'agricoltura»;
      Tasse, e ancora tasse, colpendo nel mucchio senza alcuno sforzo per agire davvero sulle elusioni e gli abusi: l'imposta di fabbricazione sui carburanti è da sempre lo strumento favorito da tutti i Governi: il primo aumento risale al 1935 per finanziare la guerra in Etiopia, poi nel 1956 per far fronte alla crisi di Suez e via via nel tempo, passando dal 1963 per finanziare il disastro del Vajont, al 1968 per finanziare gli interventi nel Belice a seguito del terremoto e così via, fino al «decreto Monti» che, con un doppio aumento, porterà, il 1o gennaio 2013, l'accisa sulla benzina ad euro 704,70 per mille litri e quella sul gasolio ad euro 593,70 per mille litri. Ormai il prezzo alla pompa della benzina è vicino al traguardo dei due euro al litro e l'impatto sulle famiglie sarà duplice: uno diretto derivante dall'aumento del prezzo del carburante e l'altro indiretto per l'aumento di prezzo che subiranno le merci autotrasportate.
      Aumenti per tutti a fronte di pallidi tentativi di individuare coloro che evadono il fisco e fanno una vita da nababbi alle spalle dello Stato. Sappiamo come sia difficile individuare chi, per definizione, è stato abile a sottrarsi alla legge.
      Ma da un governo di economisti così esperti ci aspettavamo qualche cosa di un po’ più sofisticato.
      L'imposta sullo stazionamento delle barche dimostra buona volontà o è uno semplice specchietto per le allodole? Quanto ci impiegheranno i possessori di imbarcazioni a spostare i loro natanti in Croazia, in Francia o su altre coste provocando un gravissimo quanto inutile danno ai nostri porti, ai nostri cantieri, al turismo dei nostri litorali? La norma concepita dal Governo e solo parzialmente modificata dalle Commissioni è oltretutto grossolana perché accomuna panfili da
 

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milioni di euro ad imbarcazioni che, dopo molti anni dalla fabbricazione, non hanno valore di mercato ma restano cimelio di appassionati che investono nella loro manutenzione.
      La lotta all'evasione deve essere fatta sul campo, con i controlli ai quali il precedente Governo ha dato impulso e risorse come mai nessuno aveva fatto in passato.
      Di fatto l'abbassamento del limite per l'uso del denaro contante è l'unica misura contro l'evasione fiscale che si intravede in questa manovra, ed è una misura di efficacia tutta da dimostrare, mentre sono evidentissimi i vantaggi che ne avranno le banche dalle commissioni sui conti e sui movimenti.
      Portare a 1.000 euro il limite per i pagamenti in contanti, per contro, causerà notevoli disagi alle categorie non abituate ai mezzi di pagamento elettronici.
      Ancora più penalizzanti gli altri limiti: 500 euro per il pagamento in contanti di stipendi e pensioni, poi portati a 1000 grazie ad un emendamento della Lega. Questo obbligherà i nostri anziani, magari ultraottantenni, che non hanno mai visto un bancomat o una carta di credito, che ritirano la propria pensioncina direttamente e poi pagano in contanti, ad aprire un conto corrente bancario o postale. Il risultato sarà, in ogni caso, un aumento esponenziale delle commissioni bancarie sui prelevamenti di denaro contante, sui nuovi conti correnti che verranno aperti e sulle transazioni regolate con carta di credito. Ancora indefinite sono le agevolazioni che potranno essere concordate con le associazioni di categoria e con le banche per consentire la diffusione dei POS e per definire le caratteristiche di quello che viene definito «conto corrente base». Diverso sarebbe, invece, incentivare l'uso di moneta elettronica, proprio attraverso un generale abbassamento dei costi.
      Vessazioni pesanti sui singoli ma enormi favori alle banche, rendendo sempre più evidente il legame di questo Governo di tecnici con il mondo degli Istituti di credito: la garanzia dello Stato sulle passività degli istituti, cioè sui titoli di debito che emetteranno o che rientrano in programmi di emissione già esistenti, ci sembra veramente troppo. Ovviamente è un provvedimento tagliato su misura per alleggerire i bilanci delle banche, che si troveranno una garanzia di Stato in caso di incapacità di rimborsare ai propri investitori capitali ed interessi dei prestiti obbligazionari emessi. Tutto ciò a carico del bilancio dello Stato.
      Si può fare un simile favore alle banche senza pretendere perlomeno che esse usino questo vantaggio per assicurare credito alle imprese e alle famiglie, sulla quale si sta invece scaricando tutto il credit crunch che ha investito l'area monetaria europea?
      Il tutto con il rischio che le banche stesse ribaltino sui risparmiatori anche le commissioni che dovranno pagare allo Stato per ottenere la garanzia.
      La manovra di Monti stabilisce l'obbligo per le imprese e le società di indicare nella dichiarazione dei redditi il numero di abbonamento speciale alla radio o alla televisione ed altri elementi informativi, ai fini della verifica del pagamento del canone di abbonamento in questione. Questa disposizione sembra davvero decontestualizzata in una manovra economica che cerca di risollevare l'Italia. Sulla Rai e sul canone c’è da intervenire, noi lo gridiamo a gran voce da anni ormai, ma certo non nella modalità qui prevista. La concessionaria del servizio pubblico sembra che vanti nei confronti dello Stato un credito di 1 miliardo e mezzo di euro. E ancora una volta non si affronta il vero problema e si cerca di aggirarlo chiedendo alle società di indicare il proprio abbonamento rai nella dichiarazione dei redditi. Ciò vuol dire che un dipendente di una piccola società che decide di ascoltare la musica mentre svolge il suo lavoro, non potrà più farlo senza costringere la società da cui dipende a pagare il canore rai. E come sempre, saranno le imprese del nord a pagare, perché la percentuale di evasione ricalcherà presumibilmente quanto già avviene con gli abbonamenti privati: nel nord del Paese l'evasione si attesta al massimo al 5 per cento, nel meridione il
 

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mancato pagamento oscilla tra il 30 e il 50 per cento. Sembra davvero un'assurdità. Se vogliamo fare cassa, cerchiamo piuttosto di limitare i costi della Rai. Se la Rai rivedesse i criteri alla base dei compensi dei lavoratori che a vario titolo ricevono soldi in qualche modo pubblici, pagati direttamente dai contribuenti, senza neanche conoscere in anticipo il prodotto offerto, forse si potrebbe davvero arrivare ad un risparmio di spesa. I cittadini pagano un'imposta sul possesso dell'apparecchio televisivo istituita da un regio decreto del 1938, quando l'apparecchio televisivo era ancora sconosciuto. Il canone è diventato una vera e propria tassa di possesso sulla televisione, presupponendo il dominio dell'etere da parte dello Stato. Si tratta di un balzello antiquato e iniquo, che non ha alcun motivo di esistere anche in virtù del maggiore pluralismo indotto dall'ingresso sul mercato di nuovi editori e dall'apporto delle nuove tecnologie.
      Per quanto riguarda gli interventi sull'editoria, viene prevista la cessazione del sistema di contribuzione diretta a partire dal 2014, con una prossima modifica ai criteri di accesso. Se questo vuol dire togliere i contributi pubblici a quei giornali che si fingono organi di partito o a quelle testate addirittura quotate in borsa e che ricevono sovvenzioni con escamotage vari, la Lega Nord è ben contenta, ma non possiamo tacere di fronte alla minaccia della cancellazione del pluralismo dell'informazione. Si faccia chiarezza sui beneficiari dei contributi, e si intervenga subito per la ridefinizione dei criteri di accesso. Sono a rischio di chiusura circa 100 testate cooperative e no profit, che svolgono un lavoro capillare sul territorio e che hanno avuto finora accesso ai contributi pubblici perché svolgono un servizio per la collettività. È necessario mettere mano al regolamento per l'editoria subito, prevedendo nell'immediato degli interventi che risollevino il settore.
      Dunque questo decreto-legge ci sembra ben lontano dal raggiungere gli obiettivi dichiarati.
      Anche l'effettivo carattere di necessità ed urgenza di molte disposizioni è opinabile. Vi sono una pluralità di disposizioni che recano delle riforme che per entrare a regime dovranno essere implementate con regolamenti e provvedimenti attuativi che potranno essere adottati anche a distanza di tempo dall'entrata in vigore del decreto.
      La stessa ridefinizione dell'ordinamento delle province, presentata anche mediaticamente come indifferibile per abbattere i costi dell'apparato pubblico, produrrà i suoi effetti solo a partire dal 2014 e comporterà un risparmio di spesa piuttosto modesto. Il metodo Monti aveva addirittura previsto che per decisione presa a tavolino improvvisamente tutti i Presidenti di Provincia ed i Consiglieri, eletti dal Popolo, decadessero d'ufficio, alla data stabilita dal governo. La Lega ha ottenuto perlomeno che coloro che il popolo ha democraticamente scelto possano proseguire il loro mandato fino alla sua naturale scadenza.
      Il titolo del provvedimento richiama la finalità della crescita economica come aspetto qualificante delle misure adottate. Sotto questo profilo appare assai difficile individuare misure che sosterranno la crescita economica. A tale obiettivo possono ricondursi forse solo i primi due articoli che mirano rispettivamente a favorire la capitalizzazione delle imprese e a consentire deduzioni dall'IRAP in relazione al costo del lavoro, benché la Corte dei conti, audita in proposito, ha chiaramente affermato che a beneficiare della deduzione IRAP saranno all'80 per cento banche ed altri istituti di credito, ancora e sempre loro.
      Queste limitate misure sono ben lontane dall'assecondare anche le esigenze più pressanti delle nostre imprese, che si trovano quotidianamente alle prese con un problema di liquidità e di accesso al credito e con la difficoltà di riscuotere a loro volta i propri crediti, soprattutto quelli vantati nei confronti della pubblica amministrazione. Quasi nulla è contenuto in questo provvedimento sul versante della semplificazione di quella miriade di adempimenti burocratici che ogni giorno sottraggono tempo e risorse ai nostri produttori,
 

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ostacolandone la competitività sui mercati globali.
      A fronte di interventi depressivi come quelli descritti, manca totalmente una strategia sul contrasto all'evasione. Da una parte lo Stato mostra un volto aggressivo con l'incremento delle sanzioni per chi renda dichiarazioni o fornisca documenti falsi all'amministrazione finanziaria, con norme peraltro di dubbia legittimità costituzionale sotto il profilo della determinatezza e tassatività delle fattispecie penali configurate, dall'altra non adotta alcuna misura in grado di far emergere nuove basi imponibili e si affida solamente ad un incremento del prelievo straordinario sui valori cosiddetti «scudati».
      C’è un settore come quello dei giochi che ha evidenziato un'evasione imponente che si sarebbe potuta aggredire, ma che resta al di fuori di qualsiasi interesse di questo esecutivo, nonostante le sollecitazioni che sono venute dalla Lega Nord, anche attraverso puntuali emendamenti.
      Manca ancora una volta la tanto attesa riforma della Giustizia tributaria. Abbiamo presentato un emendamento in Commissione che accorcia i tempi dei ricorsi e degli appelli nelle commissioni regionali e provinciali rendendo certi i tempi di risposta per il contribuente; con la nostra proposta i professionisti potranno fare parte delle commissioni dando un loro fondamentale contributo allo smaltimento di centinaia di migliaia di pratiche e sentenze arretrate, prevedendo al contempo un sistema premiale sull'operato dei giudici; questa è una riforma veramente urgente all'interno di una più ampia e improcrastinabile riforma del sistema giudiziario del nostro Paese.
      Le ultime considerazioni vanno al tema dell'equità che, presente nel titolo del provvedimento e più volte richiamata dal Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni programmatiche rese in quest'aula, appare assai poco presente nel provvedimento al nostro esame.
      Quale equità può infatti essere richiamata per un provvedimento che nega l'adeguamento al costo della vita anche per le pensioni di più modesta entità e colpisce diritti acquisiti che vengono completamente posti nel nulla?
      Tantomeno possono definirsi eque disposizioni che con il proposito di tassare i patrimoni vanno a colpire anche la proprietà della casa di abitazione che, è appena il caso di ricordarlo, gode di una particolare tutela costituzionale prevista all'articolo 47 della Costituzione.
      In base alle relazioni tecniche fornite dal Governo e dal servizio Bilancio dello Stato possiamo capire con grande chiarezza l'iniquità di questa manovra: dei 100 miliardi di entrate, solo 3 provengono, se possiamo permetterci la definizione, dai «ricchi» attraverso l'imposta sui capitali scudati e quelle su barche, aerei ed auto, e invece ben 92 miliardi saranno pagati dai «poveri» attraverso l'IMU, le accise sulla benzina, i tagli agli enti locali e territoriali, gli interventi sulle pensioni, l'aumento dell'IVA su tutti i prodotti, anche quelli di prima necessità.
      Un prezzo altissimo viene pagato dalla piccola imprenditoria, con l'aumento sproporzionato delle aliquote contributive introdotto durante l'esame in Commissione. Dove non è la crisi a far chiudere le piccole aziende, è un Governo scriteriato e cieco alle loro esigenze.
      Riconoscendo, dunque, che questo provvedimento scaturisce dalla necessità di assicurare il pareggio di bilancio nel 2013, non condividiamo la scelta di scaricare l'impatto della manovra sulle fasce più deboli, come i pensionati, fingendo di ridurre i costi della macchina amministrativa. Ad esempio, con l'obiettivo di tagliare i costi, il Governo prevede, la soppressione dell'Inpdap e dell'Enpals ed il relativo accorpamento all'Inps, dissimulando che nulla cambia in termini di costi e privilegi, perché l'accorpamento non riduce i posti dirigenziali ma, anzi, ne crea dei nuovi, visto che i 7 componenti del Collegio dei Sindaci Inpdap saranno ricollocati con qualifica dirigenziale di livello generale così ripartiti: 2 ad incremento del numero dei componenti del Collegio dei sindaci dell'Inps, 2 per esigenze di consulenza, studio e ricerca del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e 3 per le medesime
 

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esigenze del Ministero dell'economia e delle finanze. Vi rendete conto del paradosso: al pensionato con trattamenti pari a 2/3 volte il minimo, bloccate l'indicizzazione, rendendolo di fatto più povero, ed al dirigente pubblico già benestante col suo lauto stipendio lo rendiamo più ricco per far cosa? Consulenza, cioè nulla!
      Altro tentativo vergognoso di questo Governo tecnico, che come tale non avrebbe dovuto salvaguardare alcuna «casta», e che la Lega prontamente ha sventato, è stata quella di salvaguardare dalle nuove disposizioni di cui all'articolo 6 in materia di equo indennizzo e pensioni privilegiate i magistrati, il personale della carriera diplomatica e quello della carriera prefettizia ed i professori e ricercatori universitari. La formulazione originaria dell'articolo 6 era di abrogare gli istituti dell'accertamento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell'equo indennizzo e della pensione privilegiata, facendo salvi solo il comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico. La Lega Nord si è preoccupata, giustamente, di inserire tra le eccezioni anche il corpo dei vigili del fuoco, e questa maggioranza, invece, di includere i magistrati, i diplomatici, i prefetti ed i professori universitari... Tirate le debite somme, si comprende chi difende i privilegi ed i privilegiati...
      E sempre a conferma di una manovra iniqua ed ingiusta, che colpisce principalmente i lavoratori ed i pensionati del Nord, il Governo ha previsto un aumento delle aliquote contributive per gli artigiani e commercianti, ma è riuscito a reperire le risorse per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo. Vi rendete conto dell'ennesima iniquità? Colpite i lavoratori veri, per salvaguardare quelli fantomatici. I lavoratori socialmente utili per l'area napoletana hanno inizio nel 1984, con il decreto legge n. 409, convertito in legge del 28 novembre 1984, n. 618, e vedono coinvolti circa 4.000 ex detenuti, mentre a Palermo hanno inizio due anni dopo, nel 1986, con il decreto legge n. 22, convertito nella legge del 9 aprile 1986, n. 96, inizialmente per circa 1.600 operai edili, disoccupati a seguito della conclusione di lavori in appalto del comune. Dovevano configurarsi come interventi temporali ed invece sono diventati puro assistenzialismo sine die.
      E veniamo al capitolo «pensioni». L'originaria disposizione diretta a prevedere per il biennio 2012-2013 il blocco delle indicizzazioni delle pensioni per i trattamenti superiori a due volte il minimo Inps – poi attenuata con l'emendamento del Governo fino a tre volte il minimo per il 2012 e fino a due volte il minimo per il 2013 – è stata concepita solo per far cassa ed è estranea al disegno organico di riforma pensionistica che il Governo intende attuare con l'applicazione del calcolo contributivo pro-rata a tutti i trattamenti dal 1o gennaio 2012 e la soppressione del regime delle decorrenze annuali; come tale pertanto poteva essere migliorata e resa più equa garantendo, come le nostre proposte emendative indicavano, un adeguamento all'andamento al costo della vita anche ai trattamenti fino a sei volte il minimo, in maniera progressiva ed a scaglioni. Ma ci avete bocciato anche questo.
      In conclusione, per le ragioni sin qui illustrate vi sono molti buoni motivi per dubitare che la manovra varata con il presente decreto-legge possa sortire effetti positivi sul fronte del rilancio dell'economia e appare più verosimile che essa si risolverà in un eccezionale prelievo di risorse su quanti già sopportano pesanti sacrifici per la crisi economica in atto.
      Eppure si può fare qualcosa di diverso, mantenendo i saldi e gli impegni internazionali. Certo ci vuole impegno, un po’ di fantasia, un po’ di coraggio.
      Con i nostri emendamenti abbiamo proposto una vera e propria contro-manovra, dimostrando che si possono trovare altrove fondi anziché colpire nel mucchio ed anzi avviare vere riforme che oltre a portare risparmi pongono per il futuro basi per un sistema paese più solido.
      Avevamo previsto, ad esempio, a copertura dei maggiori oneri, un incremento del contributo di perequazione già previsto a legislazione vigente fino al 2014 a carico delle pensioni più elevate, sia mediante
 

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una revisione in aumento della quota di prelievo, sia attraverso il coinvolgimento di più scaglioni di fasce pensionistiche, secondo il criterio della progressività.
      È in simili provvedimenti che sta la vera equità e, lavorando sulle varie soglie si potrebbero realizzare maggiori entrate fino a 1 miliardo di euro.
      Prendendo spunto da alcuni articoli dei professori Giavazzi e Alesina pubblicati sul Corriere della Sera condividiamo l'ipotesi di una riforma completa del sistema degli incentivi alle imprese, che secondo la tabella allegata alla relazione trimestrale di cassa al 30 giugno 2010 prevede l'erogazione di 15,5 miliardi di euro di trasferimenti a favore di imprese pubbliche e private, per un valore complessivo annuo che ammonterebbe a 30 miliardi di euro annui. Molti analisti sostengono che tali contributi spesso invece che premiare le aziende che si dedicano ad innovare e cercare nuovi mercati con le proprie forze vengano drenate da quelle che sono più brave a fare lobby e a compilare le richieste e la burocrazia che sta dietro a queste erogazioni pubbliche, vivendo sostanzialmente di sussidi senza i quali sarebbero fuori mercato.
      Per questo proponiamo un intervento volto a razionalizzare e riordinare la disciplina della programmazione negoziata e degli incentivi alle imprese, al fine di ottenere un risparmio che secondo noi potrebbe essere pari ad almeno 5 miliardi di euro annui.
      Veniamo poi al triste capitolo dell'evasione fiscale. Come sappiamo non è semplice individuare gli evasori. Proprio perché non è semplice non possiamo applicare strumenti semplicistici, ma nemmeno arrendersi: noi proponiamo un'imposta anti-evasione, un combinato di più misure, che rappresenta uno sforzo serio ed ambizioso per colpire davvero chi la ricchezza ce l'ha davvero e non la dichiara. Si tratta proprio di quella patrimoniale che il Governo dei professori non ha evidentemente il coraggio di fare, un'imposta dalla quale sono a sua volta detraibili le altre imposte versate. Proprio questo consente di porre un maggiore onere a carico degli evasori fiscali, poiché chi già versa un ammontare significativo di imposte beneficerebbe di una notevole detrazione, che ridurrebbe grandemente il prelievo sui contribuenti onesti. Questa imposta potrebbe avere a seconda delle aliquote un gettito stimabile in 2 o 3 miliardi di euro.
      Sarebbe inoltre doveroso, vista l'attuale situazione dei conti pubblici, ipotizzare una nuova asta per l'assegnazione a titolo oneroso delle frequenze radiotelevisive, o incrementale, ma significativamente, l'imposta sulle attività che hanno beneficiato del cosiddetto «scudo fiscale».
      Sicuramente è meglio ricorrere a queste misure piuttosto che tassare la prima casa o cancellare le pensioni di anzianità o bloccare le indicizzazioni sui trattamenti pensionistici.
      Le ultime notizie che ci vengono riportate dalla stampa ci fanno vedere ancora più oscuro il futuro del Paese dopo questa manovra. Sul fronte interno, mentre noi stiamo discutendo in Commissione, l'ISTAT ci dice che l'ulteriore peggioramento del PIL e l'effetto depressivo di questa manovra, aggiungiamo noi, rendono già oggi necessaria un'ulteriore manovra di almeno altri 20 miliardi.
      Sul fronte comunitario, l'accordo intergovernativo del dicembre per un meccanismo di sorveglianza finanziaria dell'UE sui bilanci nazionali rafforzato e di sanzione automatica per i Paesi che non si allineano sancisce la definitiva e totale perdita di sovranità dei paesi dell'area euro. Tutte le tessere del mosaico si stanno ricomponendo: governi non eletti dal popolo che come amministratori delegati amministrano gli stati in ragione delle direttive dell'azionista, chiamiamola BCE o chiamiamola Bundesbank. Rassegnamoci ad un progressivo impoverimento della nostra democrazia, della nostra economia, della nostra gente, per l'imperativo di salvare l'euro, Ci hanno tassato per entrare nella moneta unica, continuano a vessarci per restarne membri.

Massimo BITONCI e Maurizio FUGATTI,
Relatori di minoranza


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