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PDL 4412

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 4412



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato DE MICHELI

Introduzione dell'articolo 17-bis della legge 11 agosto 1991, n. 266, in materia di permessi retribuiti per i dirigenti delle organizzazioni di volontariato

Presentata il 9 giugno 2011


      

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Onorevoli Colleghi! — Negli ultimi anni, la progressiva espansione del fenomeno del volontariato, documentata anche dai più recenti dati statistici in materia, ne testimonia, in misura sempre maggiore, il ruolo di soggetto qualificato nella prestazione di attività sociali d'interesse generale e collettivo.
      Si tratta di una funzione di primaria importanza sia per i cittadini, diretti fruitori dei servizi offerti dalle organizzazioni che operano nel cosiddetto «terzo settore» sia per lo Stato, per le regioni e per gli enti pubblici territoriali, dal momento che, in assenza delle organizzazioni che fanno del fine solidaristico la propria ragione costitutiva, ben difficilmente essi riuscirebbero a soddisfare le molteplici esigenze dei privati.
      Appare dunque del tutto evidente la funzione integrativa e, talora, suppletiva assolta dalle organizzazioni di volontariato, divenute ormai parte integrante del tessuto sociale del nostro Paese.
      Del resto, il welfare italiano, in cronica carenza di risorse economiche, non può attualmente permettersi di rinunciare a tale indispensabile forma di supporto operativo, che spesso finisce per rappresentare l'unica opportunità per garantire alla cittadinanza questo genere di prestazioni. Pertanto, attesa la capillare diffusione del fenomeno sull'intero territorio nazionale, occorre un intervento legislativo volto a creare le migliori condizioni affinché le organizzazioni che operano nei cruciali settori dell'ambito socio-sanitario-assistenziale siano in grado di esplicare appieno le proprie potenzialità.
      Invero, a un riconoscimento ufficiale aveva già provveduto la nota legge 11 agosto 1991, n. 266, legge quadro in materia
 

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di volontariato. Che, nei suoi elementi essenziali deve essere confermata in toto, dal momento che disciplina i principali aspetti giuridici ed economici del volontariato in modo soddisfacente; tuttavia, non può sfuggire che l'impianto strutturale di tale legge resta tuttora ancorato a una concezione arcaica del volontariato, non più adeguata a rappresentarne la complessa e articolata conformazione attuale.
      Difatti, è incontrovertibile che, nel frattempo, la realtà sociale italiana è almeno in parte mutata e richiede un ulteriore sforzo adeguatore da parte del legislatore.
      Il mondo cambia e il sociale deve cambiare; si modificano i bisogni e crescono nuove esigenze e nuove problematiche.
      Le organizzazioni che avranno vita più duratura non saranno necessariamente quelle che sapranno procurarsi più risorse economiche, ma quelle che saranno in grado di interpretare meglio i bisogni, precorrere i tempi, abbozzare soluzioni, fare rete tra loro, con il territorio e con il mondo dei servizi, creare alleanze sia con le istituzioni che con gli altri soggetti del privato sociale, del mondo del lavoro, con le associazioni di categoria e del settore profit, rendersi affidabili agli occhi degli enti pubblici senza mai disdegnare la creazione di spazi di offerta e di servizi rivolti ai privati e ai cittadini, anzi investendovi costantemente.
      I dirigenti (sia in termini di cariche sociali che di figure direttive di carattere tecnico) devono essere manager etici, attenti in ogni istante al perseguimento degli scopi dell'organizzazione e al tempo stesso dotati di preparazione, lungimiranza e accortezza per nulla diverse da quelle a cui sono chiamati i manager del settore profit.
      D'altro canto, negli ultimi anni la pubblica amministrazione e, in modo particolare, gli enti territoriali hanno progressivamente modificato il modo d'intendere il rapporto con i cittadini e con le organizzazioni.
      Da un lato, gli enti locali hanno attivato percorsi di coinvolgimento di organizzazioni e di singoli cittadini nell'ambito dell'azione amministrativa e, dall'altro lato, il cittadino è sempre più soggetto attivo e stimolato a leggere la realtà territoriale in cui si muove, facendosi interprete delle esigenze della collettività in cui è inserito.
      Oggi la legittimazione formale concessa agli inizi degli anni ’90 non è più sufficiente a garantire un efficace funzionamento delle organizzazioni in esame, essendo cambiato lo stesso modo di concepire le attività di volontariato.
      Al fine, pertanto, di eliminare eventuali ostacoli derivanti dall'esercizio di prestazioni di lavoro dipendente da parte di soggetti che, contestualmente, rivestono incarichi di tipo dirigenziale o, in ogni caso, verticistico all'interno di organizzazioni di volontariato, viene introdotto un sistema di permessi diretto ad adeguare il diritto alla mutata realtà sociale, nella quale le attività di volontariato, oltre allo spirito di solidarietà ed altruismo che istituzionalmente le caratterizzano, richiedono anche una peculiare capacità gestoria ed un costante coordinamento tra le proprie strutture territoriali, le altre organizzazioni similari e le pubbliche amministrazioni, con cui vengono in contatto nell'espletamento delle rispettive finalità statutarie.
      In passato, si tendeva a identificare tali attività con condotte meramente materiali, di qualunque tipo esse fossero (assistenza sanitaria, protezione civile e dei diritti della persona, valorizzazione e tutela dell'ambiente e del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, educazione permanente, attività sportive e ricreative eccetera): il che non era e non è certamente un profilo trascurabile, né da ripudiare, atteso che proprio sulla quotidiana e costante opera di tanti volontari poggia l'intero apparato del volontariato.
      Sarebbe infatti un imperdonabile torto dimenticare i sacrifici che affrontano le migliaia di persone che, gratuitamente, offrono il proprio tempo e le proprie energie a favore dell'intera comunità. Sicché, rimaste inalterate le modalità di esercizio «alla base», il motivo di cambiamento
 

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non può che essere ricercato altrove.
      Descrivere compiutamente l'odierna configurazione del fenomeno in esame implica il necessario superamento del solo aspetto puramente esteriore, quello che appare più evidente agli occhi del comune osservatore, andando cioè oltre il semplice piano esecutivo.
      Ad esso ne è affiancato un altro, caratterizzato da diversi requisiti e caratteristiche e che nel tempo ha acquisito una crescente rilevanza.
      In particolare, ciò che figura riduttivo e miope alla luce delle recenti evoluzioni sociali è la scarsa considerazione nei confronti di coloro che non agiscono (o non agiscono soltanto) in diretto contatto con la cittadinanza beneficiaria del servizio finale; eppure il loro ruolo non è di minore importanza e merita altrettanta attenzione.
      Il riferimento è al personale dirigenziale e, in particolare, a chi intrattiene rapporti con le strutture di coordinamento territoriale e nazionale interne alle singole organizzazioni, con i vertici di altre organizzazioni e con le pubbliche amministrazioni di volta in volta competenti.
      Tali soggetti svolgono una funzione tutt'altro che trascurabile, poiché da un lato consentono all'organizzazione di dotarsi di una struttura ramificata e radicata sul territorio, così da ripartire efficacemente gli ambiti in cui operare, senza disperdere risorse economiche e personali e, dall'altro, favoriscono il confronto tra le organizzazioni e tra queste e la pubblica amministrazione, nell'ottica di un crescente miglioramento programmatico e organizzativo.
      Del resto, nella maggioranza dei casi sarebbe impensabile una gestione solitaria e unilaterale di simili attività, sia per la loro intrinseca delicatezza che per l'elevato numero di persone che vi partecipano.
      Proprio al fine di favorire e di promuovere una più intensa collaborazione tra gli organi direttivi degli enti che esercitano attività riconducibili al vasto ambito del terzo settore, si rendono spesso necessari numerosi incontri, nei quali vengono pianificati gli interventi futuri.
      Precipuo scopo della presente proposta di legge è dare completa attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale (principio etico-sociale che orienta le relazioni tra i soggetti che operano nel sociale e riconosce il contributo fondamentale offerto dalle entità volontaristiche nel rendere la società più se stessa), del quale le organizzazioni di volontariato costituiscono privilegiata espressione, attraverso l'introduzione dell'istituto dei permessi di servizio retribuiti anche nel cosiddetto «terzo settore».
      Analoghi strumenti sono già presenti nel campo del diritto del lavoro per tutelare coloro che ricoprono incarichi sindacali o politici (articoli 30 e 31 della legge n. 300 del 1970) e a favore di chi assiste il coniuge o parenti prossimi affetti da grave infermità (articoli 1 e 2 del regolamento di cui al decreto del Ministro per la solidarietà sociale n. 278 del 2000); pur ispirata alla medesima ratio, l'estensione che qui si propone non avverrà per mezzo di un puro richiamo alle norme citate o mediante una loro pedissequa ripetizione, bensì attraverso un adattamento delle disposizioni di origine lavoristica alla peculiare natura delle organizzazioni di volontariato.
      Anche per questo, alla legge quadro n. 266 del 1991 si è scelto di aggiungere un articolo finale, che segue un altro già dedicato al trattamento dei lavoratori che fanno parte delle organizzazioni di volontariato.
      Si noti, però, che mentre l'articolo 17 della legge si riferisce ai volontari in genere, senza alcuna specificazione, al contrario il nuovo articolo 17-bis contiene una precisa limitazione soggettiva, risultando il suo ambito applicativo circoscritto, per le ragioni illustrate, ai soli presidenti o direttori ovvero ad altre figure apicali dell'organizzazione.
      Unico punto di possibile contraddittorietà tra la disciplina previgente e quella di nuova introduzione potrebbe essere costituito dal carattere retribuito del permesso in questione; difatti, requisito fondante delle organizzazioni di volontariato (e ben
 

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rimarcato dalla citata legge quadro) è, tra gli altri, proprio la gratuità delle prestazioni rese dai volontari.
      Si tratta, in ogni caso, di un rilievo non decisivo e di facile superamento sulla base dell'argomento secondo cui parlare di retribuzione in senso stretto sarebbe giuridicamente errato; piuttosto, tale permesso potrebbe definirsi un riconoscimento del mondo economico al volontariato, come fenomeno latamente inteso, per i benefìci quotidianamente apportati alla società.
      Il requisito della gratuità resta confermato quale tratto distintivo delle organizzazioni di volontariato; il permesso di servizio spettante ai soggetti indicati nel nuovo articolo 17-bis della legge n. 266 del 1991, esclusivamente a carico del datore di lavoro o degli enti di previdenza sociale senza alcun onere per le suddette organizzazioni, non costituisce il corrispettivo per le prestazioni svolte nell'esercizio delle funzioni dirigenziali volontaristiche.
      In altri termini, occorre spostarsi sul differente piano etico e sociale, solo attraverso il quale è possibile apprezzare realmente l'obiettivo perseguito dal legislatore: i riflessi economici della presente proposta di legge e la necessaria veste giuridica non sono altro che la «cornice» di un contenuto, in realtà, da prevalenti connotati solidaristici. Insomma, se proprio si deve fornire un inquadramento giuridico, è una prestazione gratuita a fronte di un'altra prestazione gratuita.
      La gratuità, infatti, è fortemente legata alla reciprocità del gratuito. Non è giusto che ci sia semplicemente un'azione unilaterale perché l'essere umano funziona quando è attiva la reciprocità: diversamente, l'entusiasmo e le motivazioni rischiano di abbassarsi.
      Proprio sull'asse gratuità e reciprocità del gratuito, organizzazione e sussidiarietà orizzontale poggia la ratio della presente proposta di legge, che si applica a tutte le organizzazioni di volontariato, di cui all'articolo 3 della legge n. 266 del 1991.
      Come espresso non si tratta di una vera e propria riforma, in parte qua, del volontariato, bensì di un'operazione di adattamento e di perfezionamento di una disciplina che non richiede un'integrale rivisitazione, essendo sufficiente prevedere una regolamentazione aggiuntiva e pienamente integrabile con quella vigente, con essa posta in ideale continuazione.
      La presente proposta di legge s'inserisce in un impianto solido, organico e coerente, la cui attuazione si intende incentivare e promuovere.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Dopo l'articolo 17 della legge 11 agosto 1991, n. 266, è aggiunto il seguente:
      «Art. 17-bis. — (Permessi per i dirigenti). — 1. Il presidente o il direttore ovvero un'altra figura apicale delle organizzazioni di volontariato di cui all'articolo 3, oppure il socio da questi delegato ai sensi del comma 2 del presente articolo, ha diritto a permessi di servizio nella misura complessiva massima di quaranta ore l'anno per la partecipazione a riunioni con le strutture di coordinamento territoriale o nazionale della propria organizzazione di volontariato e con Stato, regioni ed enti locali competenti nelle materie corrispondenti alle finalità statutarie.
      2. L'atto di delega di cui al comma 1, a pena di nullità, deve rivestire la forma scritta, deve essere emesso da un responsabile dell'organizzazione di volontariato e deve contenere l'espressa indicazione dell'impegno delegato.
      3. Hanno diritto di beneficiare dei permessi di cui al comma 1 i dirigenti che sono anche lavoratori dipendenti di enti pubblici o privati, diversi dall'organizzazione di volontariato di cui hanno la responsabilità, senza alcuna rilevanza per la tipologia contrattuale in base alla quale sono stati assunti.
      4. Sono considerate titolo valido per avere diritto di beneficiare del permesso le riunioni con i soggetti pubblici o privati indicati nel comma 1, previa idonea certificazione della presenza del dirigente, della data, del luogo, della durata e della finalità dell'incontro.
      5. L'interessato deve comunicare i dati di cui al comma 4 al datore di lavoro almeno tre giorni, anche non lavorativi,

 

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prima dell'evento oggetto del permesso e deve presentare al medesimo, entro i cinque giorni successivi all'evento stesso, idonea certificazione documentale della sua partecipazione all'evento».

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