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PDL 4403

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 4403



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

PAGANO, BERARDI, BRANCHER, CESARO, DEL TENNO, FALLICA, GAROFALO, GERMANÀ, GIBIINO, GRIMALDI, LEO, MARINELLO, MARSILIO, ANTONIO MARTINO, MAZZONI, MINARDO, PAROLI, ANTONIO PEPE, PETRENGA, PUGLIESE, ROMELE, SCAPAGNINI, STAGNO D'ALCONTRES, ANGELI, BARBIERI, BOSI, CALABRIA, CERONI, CICCIOLI, GIANNI

Abrogazione del comma 61 dell'articolo 2 del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, concernente l'interpretazione autentica dell'articolo 2935 del codice civile in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente

Presentata il 7 giugno 2011


      

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Onorevoli Colleghi! — La presente proposta di legge, composta da un solo articolo, è diretta ad abrogare il comma 61 dell'articolo 2 del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10 (cosiddetto «milleproroghe»), secondo cui «in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
      In particolare, il decreto mille proroghe ha limitato la possibilità dei correntisti di poter fare causa alle banche per ottenere
 

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il rimborso degli interessi maturati con la pratica dell'anatocismo, facendo decorrere il termine di prescrizione di dieci anni dalla data in cui sono stati versati gli interessi e non dalla chiusura del rapporto di conto corrente, come invece previsto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
      La necessità di abrogare la predetta disposizione nasce dall'esigenza di salvaguardare i diritti dei risparmiatori e delle aziende che sono stati travolti da una norma non solo inopportuna, ma anche – e soprattutto – incostituzionale. A tale proposito si segnala che non appena essa è entrata in vigore è stata immediatamente sottoposta al vaglio della Corte costituzionale. Inoltre, il Governo, proprio in occasione dell'esame parlamentare del disegno di legge di conversione del decreto-legge, ha accettato l'ordine del giorno n. 9/4086/280, presentato dai deputati Romele, Pagano, Marinello e Gianni, nel quale si sottolineava come la nuova normativa di fatto vanificasse la tutela posta in favore dei risparmiatori e rischiasse di mettere in serio pericolo la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, impegnando quindi il Governo a valutare l'opportunità di varare le misure più opportune atte a sanare la contraddizione tra la giurisprudenza della Corte di cassazione e la nuova normativa, al fine di salvaguardare i diritti dei cittadini e delle aziende che hanno giudizi pendenti avverso gli istituti di credito.
      In effetti, non si può non evidenziare come la norma in oggetto cancelli con un colpo di spugna la sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010, con la quale le sezioni unite della Corte di cassazione – ribadendo una giurisprudenza consolidata ma che per l'importanza della materia richiedeva di essere rimarcata dalle sezioni unite – avevano sancito il diritto dei correntisti alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate dalle banche su conti correnti con la capitalizzazione trimestrale degli interessi, stabilendo, quindi, un principio favorevole agli utenti dei servizi bancari vittime dell'anatocismo.
      Naturalmente è nelle prerogative del legislatore innovare il diritto anche travolgendo interpretazioni delle sezioni unite della Corte di cassazione. Tuttavia, nel caso in esame il legislatore è andato oltre, poiché non ha innovato la normativa vigente facendo così cadere l'interpretazione che di essa era stata data dalla Cassazione, ma ha interpretato esso stesso la normativa vigente andando in contrasto con quei princìpi costituzionali sui quali si basava la richiamata giurisprudenza della Corte.
      La disposizione introdotta dal decreto mille proroghe, infatti, violando una serie di princìpi costituzionali, fa venire meno per i clienti bancari vessati dall'anatocismo la possibilità di vedere riconosciute le proprie ragioni in merito alla restituzione dei versamenti effettuati a copertura degli addebiti subiti per il calcolo di interessi anatocistici. Questo risultato si è ottenuto attraverso l'interpretazione autentica dell'articolo 2935 del codice civile, secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
      L'utilizzazione dello strumento dell'interpretazione autentica è quanto mai singolare, considerato come in realtà non vi fosse alcun dubbio interpretativo da chiarire in relazione al termine di decorrenza della prescrizione dei diritti nascenti dall'annotazione nelle operazioni bancarie regolate in conto corrente. Proprio su tale materia vi è una uniforme e costante giurisprudenza della Corte di cassazione. Come si è detto, pochi mesi orsono le sezioni unite erano intervenute in materia. Nella richiamata sentenza n. 24418 del 2010 avevano ribadito che «se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista,
 

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dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati». Dubbi in tale senso non vi erano neanche in dottrina.
      La norma che si intende abrogare, in sostanza, non tiene conto di come la dottrina e la giurisprudenza distinguano gli atti giuridici, da cui sorgono diritti di credito, dalle semplici operazioni contabili di accreditamento e di addebitamento, che costituiscono un modo di rappresentare le modificazioni oggettive e quantitative che subisce un unico rapporto obbligatorio nel corso del suo svolgimento. Ciò significa che solo con il conto finale stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti fra di loro e se ne determina l'esigibilità.
      Tutto questo sta a significare che il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione decorre quando è intervenuto un atto giuridico, che l'attore ritiene indebito. Prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione. La Corte di cassazione ha chiarito che tale conclusione non muta «nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita: sicché questa corte ha già in passato chiarito che, con riferimento a quest'ultima domanda, il termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso».
      Affermare che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione, come fatto dalla norma che si intende abrogare, significa travolgere due discipline normative: da un lato, quella relativa alla natura giuridica delle operazioni bancarie in conto corrente di cui agli articoli da 1852 a 1857 del codice civile e, dall'altro, il princìpio generale affermato dall'articolo 2935 del medesimo codice in materia di decorrenza della prescrizione. In sostanza, la norma in questione introduce un concetto totalmente innovativo, in contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione che considera l'annotazione in conto come un pagamento.
      Che tutto ciò si faccia addirittura attraverso una norma interpretativa non è solamente paradossale, in quanto non vi è alcun dubbio da dirimere, ma anche e soprattutto incostituzionale. Con la sentenza n. 209 dell'11 giugno 2010 la Corte costituzionale ha delineato i limiti costituzionali delle norme interpretative. In particolare, la Corte ha ricordato di aver «costantemente affermato che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche “quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originano, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore” (...) Accanto a tale caratteristica, che vale a qualificare una norma come effettivamente interpretativa, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, “che attengono alla salvaguardia, oltre che dei princìpi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento (...); la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale princìpio connaturato allo Stato di diritto (...); la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (...); il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (sentenza n. 397 del 1994)».
      Se queste devono essere le caratteristiche di una norma interpretativa certamente non possono essere rinvenute nella norma che si intende abrogare.
 

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      Si è detto che essa non solo è «ingiusta» e giuridicamente errata, ma anche che viola norme di rango costituzionale.
      Per meglio rendere l'idea di tale affermazione è sufficiente richiamare la prima ordinanza che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Dopo che il 3 marzo 2011 la corte d'appello di Ancona ha dichiarato inapplicabile la norma sulla prescrizione in materia di anatocismo, il tribunale di Benevento, in data 10 marzo 2011, ha emesso la prima ordinanza con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 3, 24, 41, 47 e 102 della Costituzione.
      Secondo il giudice remittente si tratta «di norma del tutto assurda ed incomprensibile» che «fa strage non solo delle principali regole giuridiche e costituzionali sopra richiamate, ma anche dei più elementari canoni di logica e avvedutezza richiesti nella regolamentazione normativa dei rapporti tra consociati».
      Il tribunale di Benevento nell'ordinanza ha, in primo luogo, evidenziato come «le norme interpretative, che il legislatore può adottare quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario di una norma, non possono violare i limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, che attengono alla salvaguardia, oltre che dei princìpi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento. Tra detti princìpi spiccano il rispetto del principio generale di ragionevolezza, il principio del divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento, il principio della tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti per l'effetto nomofilattico delle pronunce della Corte di Cassazione, la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico, il rispetto e la non invasione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario». Tutti questi princìpi sono violati dalla norma in questione in quanto: «1) non vi era alcun dubbio interpretativo in ordine alla decorrenza della prescrizione dei diritti nascenti dall'annotazione nelle operazioni bancarie regolate in conto corrente (...); 2) da decenni gli esperti di diritto bancario e la stessa giurisprudenza hanno chiarito come sia corretto distinguere gli atti giuridici da cui sorgono diritti di credito dalle semplici operazioni contabili di accreditamento ed addebitamento (...); 3) le norme sulla prescrizione, pur avendo una natura sostanziale, producono i loro effetti sul piano processuale, atteso che invocando l'effetto estintivo delle stesse è possibile impedire ai titolari di diritti di ottenerne la realizzazione in via giudiziaria. Ne consegue che, ove l'impugnata norma si applicasse anche per il passato e ai giudizi in corso, si avrebbe non solo una violazione del principio di uguaglianza e un'ingiustificata disparità di trattamento, ma anche una frustrazione dell'articolo 24 della Costituzione, oltre che un'invasione ingiustificata delle prerogative proprie della Magistratura Ordinaria con violazione dell'articolo 102 della Costituzione; 4) l'impugnata norma realizza, infine, un'eclatante violazione dei princìpi di tutela del risparmio delle famiglie e delle imprese, delle quali ultime intacca la libertà di iniziativa economica, così violando gli articoli 41 e 47 della Costituzione».
      La presente proposta di legge, pertanto, è diretta a ristabilire princìpi costituzionali prima che sia la stessa Corte costituzionale a farlo quando, però, saranno stati già gravemente pregiudicati i diritti dei risparmiatori e delle aziende.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Il comma 61 dell'articolo 2 del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, è abrogato.
      2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.


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