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PDL 3907

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 3907



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

CODURELLI, DAMIANO, BARETTA, GNECCHI, SCHIRRU, BELLANOVA, GATTI, BOCCUZZI, MIGLIOLI, MATTESINI, MADIA, RAMPI, SANTAGATA, MOSCA

Modifiche all'articolo 9 e introduzione dell'articolo 9-bis della legge 8 marzo 2000, n. 53, in materia di misure di incentivazione e di sostegno della flessibilità oraria e del lavoro a tempo parziale

Presentata il 25 novembre 2010


      

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Onorevoli Colleghi! — In Italia meno di una donna su due lavora (46,1 per cento) contro un tasso di occupazione femminile che nei Paesi sviluppati è in media del 58 per cento, che nei Paesi nordici tocca il 70 per cento e che in Germania e in Francia è comunque superiore di 10 punti percentuali rispetto all'Italia.
      Eppure proprio nei Paesi dove le donne lavorano di più si fanno anche più figli: nel nord Europa (1,8 figli per donna) ma anche in Francia, Irlanda e Stati Uniti d'America (2 figli per donna in media, contro 1,4 dell'Italia). Questo perché in base alle statistiche, un nucleo familiare con un doppio reddito ha maggiore possibilità di spesa e quindi i costi per il mantenimento di uno o più figli sono più facilmente sostenibili. Ma anche perché dove il tasso di occupazione femminile è superiore anche la crescita economica lo è e quindi uno Stato ha maggiori introiti da devolvere poi, in parte, alle politiche sociali e alle famiglie. I più recenti studi – come quello della Banca d'Italia (2009) – dimostrano infatti che una mancata presenza femminile nel mercato del lavoro è anche una perdita economica, pari al 6,5 per cento del prodotto interno lordo (PIL). Stime condivise
 

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dagli stessi industriali, che hanno riconosciuto la gravità del problema, stimando che la perdita, oltre che in termini di capitale umano è del 7 per cento del PIL (se l'occupazione femminile fosse allineata con la media europea).
      Lo snodo principale nel rapporto tra donne e lavoro è proprio la maternità. In Italia il tasso di occupazione femminile si riduce drammaticamente se la donna diventa anche mamma: quasi una donna su tre (27,1 per cento) lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio, e il dato peggiora ulteriormente se la famiglia si allarga. In Europa invece il divario tra tasso di occupazione femminile e maternità è ridotto: in Francia, per esempio, le differenze tra tassi di occupazione delle donne senza figli, con un figlio e con due figli sono limitate e lo scarto si evidenzia a partire dal terzo figlio. Ma si tratta di un gap occupazionale – che di media è di 20 punti percentuali – provvisorio, che si riduce appena i figli frequentano le scuole primarie. Quello che colpisce invece dell'Italia – analizzando i dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) contenuti nel «Gender Brief» – è che una donna che esce dal mercato del lavoro a causa della maternità difficilmente ci rientra, anche quando i figli sono più grandi.
      Alla base di questi dati c’è prima di tutto la mancanza di servizi: in Italia l'accessibilità agli asili nido è ferma al 6 per cento dei bambini da 0 a 3 anni di età (in confronto al 44 per cento della Norvegia e al 40 per cento della Svezia). Eppure l'incremento del numero degli asili nido del 10 per cento potrebbe far aumentare la probabilità di lavorare delle donne tra il 7 per cento il 12 per cento. Questo dato sottolinea un triste primato: l'Italia è ultima in Europa per fondi dedicati alle politiche familiari. Se infatti circa un terzo del PIL è speso per le politiche sociali in generale, in Italia solo il 4,5 per cento del totale di queste spese è dedicato alla famiglia, contro una media dell'8 per cento dei Paesi industrializzati.
      Un altro elemento determinante è la suddivisione dei carichi di cura: le donne italiane dedicano alla casa e alla famiglia più del doppio del tempo degli uomini – fonte Istituto nazionale di statistica (ISTAT) – e questo le obbliga a impegnarsi su più fronti cercando di conciliare gli impegni. Una conciliazione che spesso non è possibile perché le forme flessibili di lavoro in Italia sono poche – quasi esclusivamente il lavoro a tempo parziale – e ancora poco utilizzate. In base ai dati dell'OCSE solo un terzo delle imprese nel nostro Paese (il 34 per cento) concede la possibilità di rimodulare il proprio impegno professionale e questa possibilità è sostanzialmente circoscritta alla flessibilità in ingresso e in uscita. Ma se in Italia solo una donna su quattro tra quelle che lavorano ha un lavoro a tempo parziale (fonte Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori 2009), all'estero questo, invece, è uno strumento molto diffuso ed apprezzato, che riguarda circa il doppio delle professioniste (48 per cento in media nei Paesi industrializzati). A fronte di tale disparità, che vede il nostro paese nelle ultime posizioni rispetto all'incentivazione del lavoro delle donne, il Governo in carica, attraverso il decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008 ha ulteriormente penalizzato il ricorso allo strumento del lavoro a tempo parziale nel pubblico impiego. Infatti fino alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008 per le lavoratrici e i lavoratori del pubblico impiego il lavoro a tempo parziale era più accessibile rispetto alle lavoratrici e ai lavoratori del settore privato. Oggi invece anche nel pubblico impiego si presentano le stesse criticità e difficoltà per accedere ad un orario di lavoro ridotto che permetta di conciliare i tempi di lavoro e i tempi di cura. Eppure nel nostro Paese un aumento del 10 per cento del lavoro a tempo parziale potrebbe far crescere la probabilità di occupazione delle donne dal 5 per cento al 10 per cento (fonte Del Boca, 2008) e questa necessità di conciliazione dei tempi è molto sentita. Pertanto è necessario incentivare i datori
 

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di lavoro a riconoscere la trasformazione, reversibile e su base volontaria, del rapporto di lavoro a tempo parziale, su richiesta delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, con figli fino a dodici anni di età ovvero fino a quindici anni di età in caso di affidamento o di adozione (articolo 1). Nello stesso contesto è disposta, per le sole lavoratrici dipendenti, la possibilità di richiedere al datore di lavoro – in alternativa al congedo parentale previsto dall'ordinamento – la trasformazione reversibile del rapporto di lavoro a tempo pieno in un rapporto di lavoro a tempo parziale, per un periodo massimo di due anni. L'incentivo, in tale caso, è riconosciuto sia ai datori di lavoro – esonerati, per tutta la durata del rapporto a tempo parziale, dall'obbligo del versamento dei contributi per le lavoratrici – sia a queste ultime, giacché si prevede che i datori di lavoro restituiscano loro una parte (fino a un terzo) dei contributi risparmiati, a titolo di integrazione della retribuzione. Per le lavoratrici è inoltre prevista la contribuzione figurativa per tutta la durata del rapporto di lavoro parziale incentivato.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Al fine di promuovere il ricorso al lavoro a tempo parziale su base volontaria, in funzione di sostegno alla compatibilità dei tempi di vita e di lavoro, all'articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) al comma 1, dopo la lettera a) è inserita la seguente:

          «a-bis) interventi volti alla trasformazione, reversibile e su base volontaria, del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, su richiesta delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, anche adottivi o affidatari, con figli fino a dodici anni di età ovvero fino a quindici anni di età in caso di affidamento o di adozione»;

          b) dopo il comma 1 è inserito il seguente:
      «1-bis. I contributi di cui al comma 1 sono assegnati con priorità per le imprese ubicate nelle aree del territorio nazionale ammissibili alle deroghe previste dall'articolo 107, paragrafo 3, lettere a) e c), del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea»;

          c) al capo III, dopo l'articolo 9 è aggiunto il seguente:
      «Art. 9-bis. – (Rapporto di lavoro a tempo parziale incentivato per le lavoratrici madri). – 1. Le lavoratrici dipendenti in condizione di accedere al congedo parentale previsto dall'articolo 32 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, possono richiedere al datore di lavoro, in alternativa all'accesso

 

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a tale istituto, la trasformazione reversibile del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale in misura non superiore al 50 per cento, per un periodo massimo di un anno.
      2. A seguito dell'esercizio della facoltà di cui al comma 1, i datori di lavoro sono esonerati, per tutta la durata del rapporto di lavoro a tempo parziale, dall'obbligo del versamento dei contributi alle forme di assicurazione generale obbligatoria. I medesimi datori di lavoro sono tenuti a corrispondere alle lavoratrici, a titolo di integrazione della retribuzione, una percentuale non inferiore a un terzo dei contributi ammessi all'esonero.
      3. I periodi di attività lavorativa a tempo parziale di cui al comma 1 del presente articolo sono coperti da contribuzione figurativa utile ai fini della maturazione del diritto e del calcolo della misura delle prestazioni previdenziali, ai sensi delle disposizioni dell'articolo 8 della legge 23 aprile 1981, n. 155».


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