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PDL 3020

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 3020


 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

AMICI, ZACCARIA, LIVIA TURCO, POLLASTRINI, CIRIELLO, CORSINI, FERRANTI, FERRARI, FONTANELLI, GIOVANELLI, MAZZARELLA, NACCARATO, ROSSOMANDO, TOUADI

Modifica dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell'ordine pubblico e di uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa, etnica o culturale

Presentata il 4 dicembre 2009


      

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Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge intende regolamentare l'impiego di indumenti indossati in conseguenza di una libera scelta di carattere religioso, etnico o culturale a fronte della tutela di interessi generali, quali la possibilità di identificare un individuo sia per ragioni di ordine pubblico sia a salvaguardia della sua stessa dignità.
      A tal fine si propone la modifica dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, nel senso di qualificare le scelte della persona attinenti alla libertà religiosa ovvero alla volontà di manifestare una propria appartenenza etnico-culturale come valide giustificazioni per escludere l'uso di particolari indumenti dal divieto posto dal medesimo articolo, purché l'individuo interessato mantenga comunque il volto scoperto e chiaramente riconoscibile.
      Nel rispetto dei princìpi di ragionevolezza e proporzionalità, si ritiene altresì che debba essere adeguata la misura della sanzione pecuniaria prevista per la violazione del divieto, allo scopo di distinguere i casi in cui i soggetti occultano il proprio volto a scopo di violenza dai casi in cui questo avviene senza che il soggetto interessato abbia intenzione di nuocere.
 

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      L'articolo 5 della legge n. 152 del 1975 vieta, in luogo pubblico o aperto al pubblico, l'uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona qualora non sussista un giustificato motivo per tale uso. Occorre precisare, per una corretta comprensione della norma, che il divieto assoluto di indossare caschi o di usare altri mezzi che ostacolino il riconoscimento sussiste solo in occasione di manifestazioni che vengano tenute in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che comportano l'uso di questi strumenti. In tutti gli altri casi, quindi, l'impiego di mezzi tali da rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene senza giustificato motivo.
      La suddetta legge, recante disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, venne adottata nei cosiddetti «anni di piombo» e quindi comprensibilmente perseguiva finalità di sicurezza pubblica in un'epoca segnata dall'emergenza terroristica nel nostro Paese. Tuttavia il legislatore saggiamente inserì una norma nella quale si prevedeva, a tutela delle situazioni tipiche della vita quotidiana dei cittadini, che potessero esservi giustificati motivi per limitare il suddetto divieto.
      Pertanto, a distanza di quasi trentacinque anni dall'approvazione di quella norma, la questione problematica a cui si tenta qui di dare una risposta consiste nel quesito se esistano ragioni di carattere religioso, etnico o culturale che possano essere considerate «giustificato motivo» per l'impiego di mezzi o indumenti le cui caratteristiche siano tali da ostacolare il riconoscimento della persona che li indossa.
      Il legislatore deve essere capace di avvertire determinate esigenze già presenti nella società o potenzialmente in crescita. Il pluralismo etnico, culturale e religioso del nostro Paese è fortemente aumentato primariamente in virtù del fatto che da terra di stabile emigrazione, qual era un tempo, l'Italia è divenuta meta di stabile immigrazione. Infatti, secondo il Dossier statistico immigrazione 2009 - XIX Rapporto, redatto dalla Caritas diocesana di Roma, dalla Caritas italiana e dalla fondazione Migrantes, i cui dati si riferiscono all'anno 2008, il numero degli immigrati regolari stabilmente presenti nel nostro Paese ammonta attualmente a circa 4,5 milioni. Il 2008 è stato il primo anno in cui l'Italia, per incidenza di residenti stranieri sulla popolazione totale, si è collocata al di sopra della media europea. Si aggiunga che il numero delle acquisizioni di cittadinanza nel 2008 è quadruplicato rispetto al 2000, nonostante la rigidità della normativa vigente in materia. Tutte queste persone, trasferendosi nel nostro Paese, portano con sé speranze, aspettative di vita, ma anche e soprattutto usi, costumi, sensibilità religiose e culturali che contribuiscono ad articolare e rendere più complessa la società italiana. Certamente questi momenti di apertura e scambio rischiano di essere anche quelli di maggior conflitto e incomprensione reciproca, con particolare problematicità quando vi sono interessati simboli religiosi o tradizioni culturali che trovano espressione anche in una dimensione esteriore e pubblica.
      Sebbene il tema richieda un'apposita indagine conoscitiva che - al pari di quanto accaduto in Francia e in Danimarca prima dell'adozione di atti legislativi su temi affini - accerti la portata quantitativa del fenomeno, è innegabile che negli ultimi tempi siano andati aumentando i casi di provvedimenti amministrativi adottati da sindaci, volti in particolar modo a vietare in luogo pubblico l'uso del velo integrale, fattispecie assimilabile a due indumenti normalmente indossati da donne di religione musulmana, ma la cui natura non pare essere - a detta di alcuni esperti e studiosi ascoltati dalla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati nel corso della presente legislatura - precipuamente di tipo religioso, quanto piuttosto di carattere etnico e culturale: il burqa e il niqab.
      Si citano in tal senso, ed esclusivamente a titolo esemplificativo, l'ordinanza n. 24/2004 emessa dal sindaco del comune di Azzano Decimo, il cui annullamento da parte del prefetto di Pordenone è stato confermato dal Consiglio di Stato, sez. VI,
 

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con la sentenza n. 3076 del 19 giugno 2008, e l'ordinanza del sindaco del comune di Fermignano, annullata nello scorso settembre dal prefetto di Pesaro e Urbino.
      A prescindere dalla casistica concreta e dalla difficoltosa caratterizzazione e categorizzazione di differenti indumenti religiosi o di origine etnico-culturale, il legislatore dovrebbe chiedersi se è corretto che in questo campo si registri esclusivamente l'intervento da parte delle autorità amministrative e, pertanto, vi sia una risposta di tipo provvedimentale e non normativo. Invero, la legge ordinaria dello Stato rappresenta l'unico strumento normativo atto ad assicurare il rispetto del principio di eguaglianza, come sancito dall'articolo 3 della Costituzione. Il più elevato livello di discrezionalità che si accompagna ai provvedimenti amministrativi e le difficoltà interpretative che possono derivarne diventano particolarmente preoccupanti quando si tratta di disciplinare condizioni e comportamenti connessi alle libere scelte individuali di carattere religioso, o alla volontà di manifestare un'appartenenza etnico-culturale. Si tratta, in altre parole, di entrare nel campo dei diritti individuali, la cui definizione e tutela hanno indubbia rilevanza a livello costituzionale.
      Un processo di «federalizzazione dei diritti», anche se solo come effetto indiretto di singoli provvedimenti amministrativi, costituisce senza dubbio un motivo sufficientemente valido a giustificare l'intervento parlamentare su questa materia, tanto più che interventi amministrativi occasionali, formulati in maniera non sempre accurata e comunque disorganica per porre rimedio a situazioni contingenti, si espongono al vaglio degli organi giudiziari che nella maggior parte dei casi, prevedibilmente, ne decreteranno la disapplicazione. È il caso di quanto accaduto, per esempio, per la già citata ordinanza del sindaco di Azzano Decimo in provincia di Pordenone, oggetto della menzionata sentenza del Consiglio di Stato n. 3076 del 2008. L'ordinanza del sindaco, annullata dal prefetto competente, facendo riferimento all'articolo 85 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, che vieta di comparire mascherati in pubblico, e all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che vieta l'uso di mezzi idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, includeva fra tali mezzi anche il velo che copre il volto e, in particolare, il burqa. Tra le motivazioni della sentenza che rilevano ai fini della presente relazione si legge che il sindaco «non si è limitato a richiamare l'attenzione sulla necessità di rispettare la legge, ma ha fornito una (errata) interpretazione della stessa, che ha determinato con carattere innovativo l'estensione dei menzionati divieti all'utilizzo del "velo che copre il volto"». Il Consiglio di Stato prosegue quindi spiegando come l'impiego di indumenti religiosi che coprono il viso, pur potendo rendere difficoltosa l'identificazione del soggetto, non abbia lo scopo primario di evitare il riconoscimento, ma rappresenti una forma di «attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture». Ciò che rileva giuridicamente, sempre secondo il Consiglio di Stato, è proprio il profilo dell'intenzionalità, dal momento che lo scopo primario di coloro che indossano un indumento religioso che copre il volto - in questa fattispecie il velo integrale - non è quello di ostacolare il riconoscimento. Per questi motivi, conclude il Consiglio di Stato, «il citato articolo 5 [della legge n. 152 del 1975] consente nel nostro ordinamento che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall'obbligo per tali persone di sottoporsi all'identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine».
      Anche la pubblica amministrazione ha finora mostrato una certa sensibilità alla questione, come testimoniato da alcuni documenti del Ministero dell'interno.
      Si fa riferimento in primo luogo alla Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione, adottata dal Ministro dell'interno pro tempore Giuliano Amato con
 

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il decreto 23 aprile 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 137 del 15 giugno 2007. Al punto 26 della Carta si afferma che l'Italia non pone restrizioni all'abbigliamento della persona, purché esso sia scelto in libertà e preservi la dignità dell'individuo; la Carta chiarisce altresì che non sono ammesse forme di vestiario che coprano il volto perché ciò impedisce il riconoscimento della persona e ne ostacola le relazioni interpersonali.
      Un principio simile è rinvenibile anche nella circolare del Ministero dell'interno - Dipartimento della pubblica sicurezza n. 300.C/2000/3656/A/24.159/1a Div., del 24 luglio 2000, recante «Misure atte ad impedire l'uso in pubblico di capi di abbigliamento idonei a travisare i tratti delle persone che li indossano» e relativa, in particolar modo, alle fotografie per i documenti di riconoscimento, in cui viene precisato che «il turbante, il "chador" o anche il velo, come nel caso delle religiose, sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto».
      A tale proposito giova infine ricordare, con riferimento alle controversie che potrebbero sorgere relativamente a indumenti femminili, quanto già affermato all'interno della dichiarazione su «Donna e società» della Consulta giovanile per il pluralismo religioso e culturale, oggetto della comunicazione sottoscritta il 18 luglio 2007 dal Ministro per i diritti e le pari opportunità, dal Ministro per le politiche giovanili e le attività sportive e dal Ministro dell'interno. La dichiarazione afferma, fra l'altro, che «in questo auspicato dialogo tra lo Stato e le diverse esperienze religiose due sono i princìpi che devono guidarci: la laicità dello Stato e la libertà religiosa». La dichiarazione auspica inoltre che «le diverse esperienze religiose mantengano viva la propria capacità di interagire con tutta la società, stimolandola, ciascuna a partire dalla propria insostituibile esperienza umana, ad una costante riflessione sul ruolo femminile».
      In conclusione, la soluzione prospettata nella presente proposta di legge rappresenta, ad avviso dei proponenti, un ragionevole bilanciamento tra la necessità di tutelare l'ordine e la sicurezza pubblica tramite la facile riconoscibilità degli individui e le libere scelte individuali, ivi compresa la libertà religiosa.
      In particolare, si propone di inserire nel comma 2 del novellato articolo 5 della legge n. 152 del 1975 una specifica disposizione a quale, esplicitando la nozione di «giustificato motivo», di cui al comma 1, in relazione a una fattispecie determinata - e quindi in modo non esaustivo né tassativo rispetto ad altre possibili applicazioni - , precisa che l'uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa o etnico-culturale non è sanzionabile a condizione che la persona mantenga il volto scoperto e chiaramente riconoscibile. La violazione dell'obbligo di mantenere il volto scoperto e riconoscibile è assoggettata (comma 5) a una sanzione di minore entità rispetto alla pena prevista in via generale, poiché nel caso di specie manca nel soggetto agente la volontà di occultare il proprio aspetto per commettere atti lesivi della sicurezza e dell'ordine pubblico.
      La norma è formulata in termini generali e astratti, senza riferimento a specifici tipi di abbigliamento, così da poter trovare applicazione in tutte le circostanze che integrano gli elementi costitutivi così definiti.

      Al contrario, un eccessivo sbilanciamento verso le motivazioni di ordine pubblico - attraverso la proibizione generalizzata ed esplicita di un unico tipo di indumento - potrebbe generare problemi di costituzionalità, sia relativamente al principio di eguaglianza sancito dall'articolo 3 della nostra Costituzione sia, qualora si tratti di indumento indossato per motivazioni di natura religiosa, relativamente al diritto di professare una religione sancito dall'articolo 19 della medesima.
      Per tutti questi motivi, i proponenti auspicano un sollecito esame della presente proposta di legge.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. L'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

      «Art. 5. - 1. È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
      2. Costituisce in ogni caso giustificato motivo, per i fini di cui al comma 1, l'uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa, etnica o culturale, a condizione che la persona mantenga il volto scoperto e chiaramente riconoscibile.
      3. L'uso dei caschi e degli altri mezzi di cui al comma 1 è in ogni caso vietato in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.
      4. Il contravventore del divieto di cui al comma 1 è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro.
      5. Il contravventore dell'obbligo di cui al comma 2 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 1.000 euro.
      6. Per la contravvenzione di cui al comma 4 è facoltativo l'arresto in flagranza».


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