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PDL 1389

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1389



PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato ANGELA NAPOLI

Disposizioni in favore della maternità

Presentata il 25 giugno 2008


      

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Onorevoli Colleghi! - A trent'anni dall'applicazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, occorre riflettere sul se e sul come i propositi proclamati al primo comma dell'articolo 1 della legge («Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio») abbiano trovato concreta realizzazione:

          1) gli aborti «clandestini», cavallo di battaglia per la legalizzazione dell'interruzione volontaria di gravidanza, non solo non sono diminuiti, ma sono aumentati;

          2) una notevole percentuale di donne che abortiscono aveva già fatto ricorso all'aborto in precedenza almeno una volta: una «recidività» diffusa conferma il carattere meramente propagandistico proprio del compito dichiarato di rendere «cosciente» e «responsabile» la procreazione;

          3) si registra una pratica abortiva capillare che non è spiegata da situazioni eccezionali, da pericoli seri o reali per la salute o da difficoltà economiche familiari: l'aborto è diventato, cioè, una scelta culturale;

          4) è mancata qualsiasi tutela per le «maternità difficili»: i consultori pubblici si limitano, nella maggior parte dei casi, a rilasciare la certificazione per abortire e a smistare le donne verso i centri a ciò abilitati;

          5) la legge n. 194 del 1978 ha contribuito a incrementare il terribile calo della natalità e ad aggravare, quindi, i problemi ad esso connessi: immigrazione dai Paesi del sud-Mediterraneo, aumento della popolazione anziana eccetera;

          6) l'aspetto più grave: posto che i dati scientifici attestano inconfutabilmente che il nascituro è «un essere umano» fin dal momento del concepimento, tanti anni di aborto «legale» in Italia hanno significato milioni di omicidi «legali» e sovvenzionati con il denaro pubblico.

      Da queste schematiche considerazioni, si deve dedurre che occorre ristabilire con fermezza e senza ambiguità il principio che l'aborto è da ritenere illecito e che lo Stato deve prevenirlo con tutti i mezzi, creando strutture di sostegno alla famiglia e incoraggiando la maternità.
      La discussione parlamentare del giugno 1988 delle «mozioni sul diritto alla vita» era stata illuminante, sotto questo aspetto, perché aveva evidenziato una serie di posizioni politiche, alcune chiare e coerenti, altre ambigue e di compromesso. Un dato è certo: il caso-aborto non può essere considerato definitivamente archiviato; la stessa legge, con l'articolo 16, lo impedisce. L'articolo 16, infatti, nel prevedere la relazione annuale dell'allora Ministro della sanità e del Ministro della giustizia, non risponde a una sorta di curiosità del Parlamento, ma impone a questo di riflettere sui dati, evidentemente per assumere, poi, decisioni conseguenti.
      La drastica affermazione di quanti sostengono che «la legge non si tocca», si pone allora al di fuori di ogni logica, specialmente se si tiene conto del fatto, assai rilevante, che nel momento in cui si dibatte - con onestà intellettuale - sull'opportunità di modificare addirittura il dettato costituzionale, sarebbe quanto meno anomalo che non ci si dovesse accingere a porre mano a eventuali modifiche legislative motivate da una serie di circostanze che si sono verificate nell'arco di questi trent'anni.
      Lo si voglia o no, è cambiata la qualità del dibattito, ed è cambiata anche sulla base dell'esperienza fatta attraverso l'attuazione della legislazione vigente. La passata scarsa attenzione per il fattore umano cede oggi il posto a un dibattito che si potrebbe a giusta ragione definire esistenziale, dibattito generato in gran parte dalle riflessioni sulla denatalità e sulla disgregazione della famiglia.
      I valori di comunicazione e di solidarietà incominciano a prevalere sulla società dei singoli, dalle caratteristiche così lontane dalla reale natura dell'essere umano. La denatalità, con tutte le sue implicazioni di carattere etico, economico, culturale e sociale, è tema al quale non si può continuare ad accostarsi attraverso articoli di stampa o tavole rotonde, ma è tema degno della più profonda e accurata analisi da parte di uno Stato che ha affermato, nella conferenza demografica mondiale tenutasi a Città del Messico nell'agosto 1984, insieme agli Stati Uniti d'America e ad alcuni Paesi del terzo mondo, di essere nettamente contrario al controllo delle nascite, e in particolare alle pratiche abortive come metodo per limitare e contenere la crescita della popolazione mondiale.
      Ancora più urgente si pone allora per noi, per questo Parlamento, una riflessione sul tipo di società nella quale viviamo: una società attraversata da mille inquietudini, travagliata da mille mali, una società che rifugge dal dolore e che tendenzialmente rifiuta la rinuncia, il sacrificio e l'abnegazione come parametri di riferimento comportamentale o decisionale, una società che non sa affrontare i problemi e che cerca di superare la sua incapacità attraverso una sorta di decisionismo irriflessivo e non ponderato che le consente in qualche modo di superare il problema stesso per la scorciatoia, come direbbe Corrado Guerzoni, cioè attraverso l'assunzione di metodi radicali. Sicché nel caso specifico dell'aborto, ad esempio, non si potenzia la via dell'educazione, della crescita culturale, dell'aiuto alla famiglia, ma si procede con metodi di assai rapido impiego. E così di seguito, per l'eutanasia o per la droga, quando si propone di liberalizzarla invece di impedirne il diffondersi.
      Diciamo pure, e con coraggio, che viviamo in una società sopita verso i valori morali, una società che più che protesa a evitare l'insorgere e l'affermarsi della violenza tende a giustificare, con fuorvianti motivazioni di carattere sociologico, la violenza stessa. La realtà è che è difficile intervenire ormai su un tessuto sociale che assorbe tutto: gli scandali, la violenza sui minori, sulle donne e sugli anziani, l'eutanasia, il razzismo emergente nelle sue forme palesi e nei suoi aspetti più sofisticati (attraverso, per esempio, le manipolazioni genetiche), il riaffiorante terrorismo, la delinquenza comune, la prostituzione minorile, la pornografia, la violenza della disoccupazione, la violenza dell'immagine.
      È difficile intervenire, ma è nostro compito farlo, prima che sia troppo tardi. Non è mai tardi, comunque, per una società che ha necessità di risorgere soprattutto nella sua espressione giovanile, alla quale noi, proprio noi, non siamo stati in grado di fornire certezze, di tutelarla, di difenderla, di trasmettere valori.
      È proprio dai giovani che viene la sollecitazione maggiore a intervenire per evitare che l'egoismo continui a prevalere sul bene collettivo. È soprattutto da loro che derivano la volontà di affermare il coraggio della verità nell'analisi della situazione attuale e la forza del giudizio morale sulla realtà.
      Non possiamo più assistere colpevolmente inerti al calpestamento quotidiano del diritto fondamentale della persona alla vita e, ancor più, ad una degna qualità della vita; non possiamo neppure trovare giustificazioni alle trappole insidiose che vengono tese alle libertà dei singoli e alle istituzioni, prima fra tutte la famiglia che dev'essere una volta per tutte tutelata con adeguati interventi.
      Non possiamo, quindi, ridurre la nostra attenzione alla decisione di mantenere, non mantenere o modificare la legge n. 194 del 1978; dobbiamo invece partire dal suo esame, dopo trent'anni di applicazione, per chiederci che senso abbia mantenere così com'è una legge che, lungi dall'eliminare quella che fu definita la «piaga dell'aborto clandestino», si viene a collocare in una società profondamente segnata dalla denatalità, dall'incalzante sterilità, da un alto tasso di mortalità giovanile, dalla droga e dall'AIDS; una società popolata da anziani ma soprattutto, ormai, tendenzialmente non più avvezza a difendere il valore «vita»; una società ricca di contraddizioni poiché pronta a marciare per la pace ma intimamente razzista, pronta ai cortei in difesa della qualità della vita e dell'ambiente ma disponibile alle tangenti dei «palazzinari», pietosamente - e a giusta ragione - protesa a eliminare la vivisezione, ma abortista; una società, in una parola, forse soltanto amaramente e dolorosamente ipocrita.
      A che cosa serve, allora, questo tipo di legge, se non a mascherare di ipocrisia quello che potrebbe essere un gesto finalmente e seccamente rivoluzionario: dare la vita?
      La legislazione vigente, così com'è impostata, e soprattutto nella sua pratica attuazione, non tutela, come qualcuno si ostina a sostenere, le fasce più emarginate, più povere, socialmente e culturalmente meno evolute; lo si legge dai dati. Ne fruiscono soprattutto - lo si riporta tra virgolette - «donne dai trent'anni in su, con uno o più figli, e con un livello di istruzione medio», come sottolinea la relazione del 1990 dell'allora Ministro della sanità. L'aborto, cioè, è proprio il male della media borghesia, volta al consumismo, al benessere economico, inquinata dalla cultura utilitaristica, lontana ormai anni luce dal concetto di amore. Non perdiamo, allora, l'occasione di riflettere su uno strumento legislativo che abbiamo tutti il dovere di rendere adeguato a una società priva di orientamento, che richiede certezze con sempre maggiore insistenza.
      L'impegno del gruppo al quale appartiene la proponente non nasce oggi: non abbiamo avuto ripensamenti improvvisi; fin dal 1981 ci siamo impegnati nel referendum concernente la legge sull'aborto. Nel 1983, in sede parlamentare, nella mozione sulle donne, ripresentata e purtroppo mai discussa, avevamo già posto il problema dei consultori familiari (e della revisione della legge 29 luglio 1975, n. 405), che svolgono un intervento squisitamente sanitarizzato e che sono, quindi, volutamente e intenzionalmente privati degli strumenti che avrebbero dovuto sostenerli nell'attuazione dei loro fini istituzionali. Una proposta di modifica della legge n. 405 del 1975 era già stata da noi avanzata nella XI legislatura. Avevamo presentato una specifica mozione sulla legge n. 194 del 1978, e sulla sua attuazione già negli anni passati, come pure una risoluzione in Commissione sanità, e nel 1986, un ordine del giorno, in parte accolto dal Governo, contenente una richiesta di riqualificazione della spesa anche attraverso un'analisi attenta della politica dei servizi sociali. L'8 marzo 1988 avevamo avanzato la proposta di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione della donna e della famiglia. Vi erano stati altri analoghi progetti di legge inerenti, in modo specifico, il diritto alla vita. Del 29 aprile 1988 è la proposta di legge per una Commissione parlamentare di inchiesta sulla violenza verso i minori.
      Tuttavia nessuna decisione concreta è stata assunta in questa sede. Non solo non è stato considerato alcuno dei documenti citati, ma neanche, per esempio, la proposta di Maria Eletta Martini, di istituire una Commissione bicamerale sul funzionamento dei consultori: una proposta che nella IX legislatura era andata avanti nel suo iter legislativo ma che inspiegabilmente non è stata successivamente ripresentata, proprio nel momento in cui da altra parte politica si sosteneva - secondo un'ottica naturalmente ben diversa e diametralmente opposta alla nostra - che andavano rifinanziate le leggi per il funzionamento dei consultori familiari e per la piena attuazione della legge n. 194 del 1978.
      La discussione avvenuta nel giugno 1988 e la conseguente decisione (ma quale poi?) - è amaro constatarlo - scaturiva da una necessità sinceramente avvertita di discutere, con serenità e con impegno, su una legge che nel panorama legislativo italiano già allora si delineava come fortemente datata. Ma essa, proprio perché datata, necessita di un'attenta rilettura, che deve avvenire in un ambiente ormai, lo si voglia o no, culturalmente diverso. Si intende dire che in tale ambiente i nodi delle stridenti differenziazioni ideologiche «vengono al pettine» giornalmente; è lo stesso ambiente in cui - per esempio in tema di scuola - si discute attraverso la discriminante fra qualità e quantità del lavoro. In tema di ora di religione e norme concordatarie occorre assumere posizioni chiare e inequivocabili. In tema di aborto si deve scegliere tra un'impostazione - legittima, sia chiaro, per chi ne è convinto - materialistica ed edonistica e un'altra esattamente opposta.
      Ormai siamo al «redde rationem». Anche chi ha creduto a una cultura nichilista, e di essa si è alimentato, deve concludere che è fallita e che occorre ricostruire subito un sistema di valori. Si crede anche alla buona fede di quanti, laici, operarono per l'approvazione della legge n. 194 del 1978 nell'intento di approntare un provvedimento che evitasse l'aborto clandestino - fu l'argomento maggiore di propaganda che si agitò in favore della legge - e che rendesse più responsabili padre e madre nella loro scelta di essere genitori. Tuttavia la legge è fallita.
      Lo stesso Gozzini - non appartenente certo all'area della destra: tutt'altro! - affermava che l'interruzione volontaria della gravidanza burocratizzata e analizzata era usata come mezzo di regolamentazione delle nascite, cioè contra legem. Gozzini in ciò si distingueva dalla Turco e dalla Golfanelli, ma forse si avvicinava molto a Natta il quale, in un'intervista, pure ammise la possibilità - a suo tempo - di una revisione della legge.
      Giglia Tedesco aveva invitato a non assumere più vecchie e «passatiste» posizioni e a far dispiegare alla legge «tutte le sue potenzialità positive»; il che era in linea con alcune richieste della sinistra di rifinanziare le leggi n. 194 del 1978 e n. 405 del 1975. Ma si pensa onestamente di poter fare una cosa del genere di fronte ad una situazione che evidenzia il fallimento di fondo della legge?
      Il fatto è che l'equivoco è iniziale: dobbiamo sapere chi intende salvare solo la dignità della donna, e come, e chi intende salvaguardare l'esistenza dell'essere umano, donna o feto che sia, in quanto tale. Si ritiene che la dignità della donna sia salva soltanto per il fatto che certi problemi si affrontano alla luce del sole? Anche qui ci si permetta di chiedere come si spiega che persistono gli aborti clandestini, soprattutto per le minorenni, cioè, per chi, evidentemente, vuole tutelare il suo privato sempre e comunque come colpa da nascondere.
      Si crede, allora, che quell'obiettivo sia fallito e che il vero obiettivo debba essere quello di invitare alla vita, di creare le condizioni per viverla, di operare per una crescita culturale in virtù della quale si comprenda che concepire un essere umano è l'unico vero atto che giustifica l'esistenza stessa dell'uomo. Ciò che bisogna stabilire, dunque, è come far compiere responsabilmente quell'atto, come rendere tutti consapevoli del grande compito che ha l'essere umano.
      Che significato, allora, può assumere l'affermazione secondo la quale la legge n. 194 del 1978 «non si tocca»? Il Parlamento ha il dovere di rivedere una legge i cui obiettivi non siano assolutamente stati conseguiti. Non dovremmo allora rivedere nessuna delle leggi precedenti, nonostante il loro fallimento? Dovremmo ostinarci, per esempio, ancora sulla legge 13 maggio 1978, n. 180, o mantenere le aziende sanitarie locali così come sono? Non dovremmo andare a riguardare l'intera politica dei servizi sociali, con la contestuale riqualificazione della spesa per gli enti locali? Si tratta di servizi sociali della cui validità, peraltro, non siamo affatto convinti.
      D'altro canto, il cedimento politico della DC all'epoca dell'approvazione della legge n. 194 del 1978 fu legato, fra l'altro, alla garanzia che la legge avrebbe avuto un controllo e una verifica annuali: è questo l'elemento contenuto nell'articolo 16 della legge stessa, in virtù del quale ogni anno dovremmo discutere sui contenuti della relazione, non per il gusto di discuterne, ma per il dovere di assumere poi decisioni conseguenti.
      Possiamo affermare che i consultori familiari funzionano, che le équipe dimostrano professionalità, che le regioni si sono date da fare per creare professionalità e specialisti; che vi sono psicologi, che vi sono realmente assistenti sociali, che il consultorio familiare risponde effettivamente al suo fine istituzionale che è quello di tutelare e incentivare la famiglia?
      Possiamo affermare che il personale scelto in virtù delle leggi regionali risponde all'esigenza proclamata dalla legge n. 194 del 1978 all'articolo 1? Oppure che esso è ormai impegnato soltanto nel lavoro di routine, di rilascio di certificati per l'aborto? L'aborto può essere un atto moralmente indifferente, se si intende realmente rispettare e tutelare la vita umana?
      Il problema della scelta di chi deve abortire e di come debba farlo non sembra possa essere ricondotto alla sfera del personale. Anche al riguardo esiste una contraddizione tra quanti, da un lato, vorrebbero ricondurre il tutto alla sfera personale e, dall'altro, hanno chiesto la procedibilità d'ufficio: occorre coerenza per dare un indirizzo alla società!
      Si ritiene che la normativa vigente debba essere rivista e che si debbano adottare nuovi interventi a sostegno delle maternità difficili, ivi compresa la condizione delle ragazze madri, delle quali non si parla mai. Non si è adeguatamente affrontato lo spinoso problema di chi intende assumersi fino in fondo la responsabilità di una situazione che oggi forse è meno difficile da affrontare, ma che tale era certamente fino a qualche tempo addietro.
      Occorre creare le condizioni per ricondurre la società nella sua interezza al rispetto della vita e al rifiuto della violenza nelle sue varie espressioni, palesi e occulte; promuovere un' impegnata azione educativa (è questa che manca essenzialmente), coinvolgendo la scuola, gli organi di informazione e tutte le strutture territoriali; disegnare, con un preciso raccordo fra enti locali, aziende sanitarie locali e consultori familiari, una rete di strutture socio-assistenziali che siano anche di supporto economico alla famiglia o alla donna che voglia accogliere una nuova vita.
      Si avverte, intanto, il dovere di presentare questa proposta di legge, con cui si chiede che venga sancito un principio irrinunciabile: l'illiceità della pratica abortiva.
      Con ciò risulta subito evidente come sia completamente ribaltato l'impianto della legge n. 194 del 1978, di cui, peraltro, si chiede l'abrogazione con l'articolo 11.
      Con l'articolo 1 si elimina l'ambiguità intorno all'«inizio della vita umana», chiarendo che esso va inteso «dal momento del concepimento». I commi 2 e 3 dello stesso articolo 1 individuano nell'intervento sinergico di Stato, regioni ed enti locali l'impegno all'assistenza delle donne, nel periodo antecedente e successivo al parto, e del neonato. Gli articoli 2 e 3 sono, infatti, più chiaramente specifici rispettivamente per gli interventi sanitari e socio-assistenziali speciali e per gli interventi speciali di sostegno economico e familiare.
      I compiti dei consultori familiari sono puntualmente definiti all'articolo 4: ad essi sono conferiti altri compiti, oltre a quelli previsti dalla legge n. 405 del 1975, in rapporto alle tipologie di intervento ipotizzate nei precedenti articoli 2 e 3.
      I consultori familiari sono sottratti alla loro attuale caratterizzazione di strutture troppo sanitarizzate.
      Gli articoli 6, 7 e 8 definiscono una chiara casistica in merito ai casi di interruzione della gravidanza di donna non consenziente, di donna consenziente o di interruzione colposa. Le cause di non punibilità, riferite al solo «grave pericolo per la vita o la salute della donna» (che dovrà comunque essere consenziente) sono contemplate nell'articolo 9, nel quale è compreso il caso previsto dall'articolo 54 del codice penale. All'articolo 10 è, in maniera chiara, definita la possibilità dell'obiezione di coscienza.
      Un procedimento snello, che rimette ordine e chiarezza in una normativa (quella della legge n. 194 del 1978) che, a distanza di tanti anni, ha chiaramente mostrato la sua inadeguatezza e inefficacia.
      La mistificazione dell'eliminazione dell'aborto clandestino ha fatto il suo tempo. La cultura della vita, cui ci si ispira con totale convinta adesione, impone paternità e maternità responsabili, ma impone altresì che per il conseguimento di tale obiettivo convergano più forze istituzionali e sociali che offrono elementi di certezza al nascere delle nuove famiglie.
      L'aborto fa parte di una visione rozza della vita, del rapporto fra gli individui, e dell'individuo con se stesso: all'uomo e alle donne, in particolare del duemila, è richiesto con forza e con urgenza, il recupero della dignità di essere «uomo». Aver rispetto per se stessi è un ottimo inizio per imboccare la strada del vivere civile.
      Aver paura di stabilire norme chiare che ripristinino la sacralità della vita non è certo un passo indietro per quanti, dopo una «sbornia» di progresso, intendano riprendere la via della civiltà.


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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Princìpi generali).

      1. Lo Stato riconosce e tutela la vita umana fin dal suo inizio, cioè dal momento del concepimento, e protegge e promuove la maternità come valore ed evento di grande rilevanza personale e sociale.
      2. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, attuano tutte le iniziative e gli interventi necessari per assistere la donna in attesa di un figlio, al fine di rimuovere le difficoltà, anche di ordine economico, che possono turbare il decorso della gravidanza.
      3. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, ciascuno nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, garantiscono alla donna dopo il parto e al neonato gli aiuti che si rendono necessari per superare le difficoltà, anche di ordine economico, in qualunque modo dipendenti dalla nascita.

Art. 2.
(Interventi sanitari e socio-assistenziali speciali).

      1. La donna che, durante la gravidanza, è afflitta da serie difficoltà, in qualunque modo ricollegabili alla gestazione, di carattere medico, economico, sociale o familiare, ovvero che nutre timori per le condizioni del nascituro o per l'avvenire proprio o del suo nucleo familiare, ove tali difficoltà non possano essere superate mediante le prestazioni sociali, assistenziali e sanitarie offerte dalle strutture pubbliche o convenzionate presenti nel territorio, ha diritto a fruire di interventi sanitari e socio-assistenziali speciali.
      2. Gli interventi sanitari speciali sono disposti dall'azienda sanitaria locale competente per territorio, senza oneri per la gestante e per il suo nucleo familiare. Gli interventi sono disposti con procedura d'urgenza dall'azienda sanitaria locale.
      3. Gli interventi socio-assistenziali speciali competono ai comuni, mediante delega alle aziende sanitarie locali e ai loro servizi sociali. La regione assegna i fondi occorrenti e provvede a rimborsare sollecitamente quanto è stato necessario anticipare in via d'urgenza.
      4. L'azienda sanitaria locale attua gli interventi speciali attraverso le strutture sanitarie pubbliche, o private convenzionate, o private e di volontariato anche non convenzionate, nonché attraverso le strutture socio-assistenziali pubbliche, o convenzionate, o private e di volontariato anche non convenzionate.
      5. Gli interventi speciali sono disposti dalle istituzioni competenti su segnalazione del servizio sociale, o del consultorio familiare, o di strutture sanitarie pubbliche o private, o del medico di base. Tali segnalazioni sono fatte anche dagli organismi privati o di volontariato, agenti senza scopo di lucro e con il fine statutario dell'accoglienza e della tutela della vita nascente e della maternità, che operano sul territorio e che hanno richiesto e ottenuto dalla regione l'iscrizione ad uno speciale albo, tenuto a cura dell'assessorato competente per l'assistenza.
      6. La gestante e il suo nucleo familiare hanno diritto di scegliere le modalità di attuazione e di fruizione degli interventi speciali.

Art. 3.
(Interventi speciali di sostegno economico e familiare).

      1. Qualora le serie difficoltà di cui all'articolo 2, comma 1, siano di carattere economico o familiare, la donna ha diritto di fruire di aiuti economici per il periodo della gravidanza e dell'allattamento e, in caso di necessità, anche dopo il periodo dell'allattamento e fino a che la necessità sussista.
      2. Ricorrendo le serie difficoltà di cui al comma 1, i comuni hanno l'obbligo di sostenere, ove non esistano nel comune di residenza della gestante asili nido comunali o non vi sia in essi possibilità di accogliere il neonato, la spesa per la frequenza di asili nido gestiti da altri enti pubblici o da privati.
      3. Gli aiuti economici di cui al comma 1 devono essere congrui rispetto alle necessità della donna e del suo nucleo familiare, in modo da assicurare loro un'esistenza libera e dignitosa.
      4. Ricorrendo le serie difficoltà di cui al comma 1, i comuni hanno l'obbligo di garantire un'idonea assistenza domiciliare alla gestante o al suo nucleo familiare.
      5. La regione assegna ai comuni i fondi occorrenti per gli interventi speciali di sostegno economico e familiare e provvede a rimborsare sollecitamente quanto è stato necessario anticipare in via d'urgenza.

Art. 4.
(Compiti dei consultori familiari).

      1. I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, oltre ai compiti previsti dalla medesima legge, forniscono ogni assistenza e sostegno alla donna in stato di gravidanza e, in particolare, hanno l'obbligo di:

          a) informare la donna sui diritti a lei spettanti in base alla vigente legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;

          b) informare la donna sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme vigenti per la tutela del lavoro della gestante;

          c) segnalare alle istituzioni competenti la necessità degli interventi speciali, sanitari e socio-assistenziali, nonché di sostegno economico e familiare, di cui agli articoli 2 e 3;

          d) attuare ogni intervento d'urgenza, che si rende necessario, per consentire la soluzione dei problemi, di ordine sanitario o socio-assistenziale, prospettati dalla donna.

      2. I consultori familiari, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi, per i fini previsti dalla presente legge, della collaborazione degli organismi, privati o di volontariato, agenti senza scopo di lucro e con il fine statutario dell'accoglienza e della tutela della vita nascente e della maternità, di cui all'articolo 2, comma 5, che possono anche intervenire per prestare il loro aiuto in casi di difficoltà dopo la nascita.

Art. 5.
(Norma finanziaria).

      1. Lo Stato assegna annualmente, a decorrere dall'anno 2008, alle regioni, in proporzione alla popolazione residente, la somma di un miliardo di euro per l'attuazione delle disposizioni di cui alla presente legge al fine della protezione e della promozione della maternità.
      2. All'onere derivante dall'attuazione del comma 1, pari a un miliardo di euro annui a decorrere dall'anno 2008, si provvede annualmente con la legge finanziaria.

Art. 6.
(Interruzione della gravidanza di donna non consenziente).

      1. Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Si considera come non prestato il consenso quando è stato estorto dal colpevole con violenza, minaccia o suggestione, o carpito con inganno, ovvero quando proviene da una donna minore degli anni sedici o inferma di mente.
      2. La stessa pena di cui al comma 1 si applica a chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna.
      3. La pena di cui ai commi 1 e 2 è diminuita fino alla metà se dalle lesioni deriva l'acceleramento del parto.
      4. Se dai fatti previsti dai commi 1 e 2 deriva la morte della donna si applica la pena della reclusione da dieci a venti anni; se ne deriva il pericolo di morte o un grave pregiudizio alla salute della donna si applica la pena della reclusione da otto a sedici anni.
      5. Le pene stabilite dal presente articolo sono aumentate fino a un terzo se la donna è minore degli anni diciotto.

Art. 7.
(Interruzione della gravidanza di donna consenziente).

      1. Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza con il consenso della donna è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni.
      2. Il giudice può astenersi dall'infliggere la pena nei confronti della donna se essa, al momento del fatto, si trovava in una situazione di speciale difficoltà per ragioni di salute, fisica o psichica, per ragioni economiche o familiari, ovvero per timori in ordine al decorso della gravidanza e alle condizioni di vita del nascituro.
      3. Si applica la pena della reclusione da tre a sei anni se l'agente cagiona, per colpa, il pericolo di morte per la donna o un altro grave pregiudizio alla sua salute. Se cagiona, per colpa, la morte della donna si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni.
      4. Si applica la pena della reclusione da due a cinque anni se il fatto è compiuto su donna di età compresa tra i sedici e i diciotto anni o che si trova in condizioni di deficienza psichica.
      5. Nei casi previsti ai commi 3, primo periodo, e 4, la donna non è punibile.
      6. La donna che si procura l'interruzione della gravidanza è punita con la pena della reclusione fino a tre anni. Il giudice può astenersi dall'infliggere la pena per le ragioni indicate al comma 2.

Art. 8.
(Interruzione colposa della gravidanza).

      1. Chiunque cagiona a una donna, per colpa, l'interruzione della gravidanza è punito con la pena della reclusione da due a tre anni.
      2. Chiunque cagiona a una donna, per colpa, un parto prematuro è punito con la pena della reclusione fino a un anno.
      3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2, se il fatto è commesso con la violazione delle norme vigenti per la tutela del lavoro, la pena è aumentata fino a un terzo.

Art. 9.
(Cause di non punibilità).

      1. Non è punibile l'interruzione della gravidanza quando è necessaria per evitare un grave pericolo per la vita o per la salute della donna e il pericolo non è altrimenti evitabile. Deve in ogni caso sussistere il consenso della donna.
      2. La sussistenza del grave pericolo di cui al comma 1 è accertata da due medici del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve essere effettuato l'intervento, che ne forniscono idonea certificazione. I medici possono avvalersi della collaborazione di specialisti. I medici sono tenuti a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la loro certificazione al direttore sanitario dell'ente ospedaliero.
      3. Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per l'imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere effettuato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma 2. In tali casi il medico informa dell'intervento il direttore sanitario dell'ente ospedaliero o, se l'intervento è praticato al di fuori della struttura pubblica, l'organo responsabile dell'azienda sanitaria locale competente per territorio e trasmette la certificazione attinente all'intervento effettuato.
      4. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, il fatto non è punibile soltanto se ricorrono i requisiti previsti dall'articolo 54 del codice penale.

Art. 10.
(Obiezione di coscienza).

      1. Il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di interruzione della gravidanza non punibili ai sensi dell'articolo 9, quando solleva obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione, che può essere comunicata in ogni momento all'organo responsabile dell'azienda sanitaria locale o al direttore sanitario dell'ente ospedaliero o della casa di cura da cui il medesimo personale dipende.
      2. La dichiarazione di obiezione di coscienza, una volta formulata, è revocabile con le medesime modalità della sua proposizione.

Art. 11.
(Abrogazione).

      1. La legge 22 maggio 1978, n. 194, è abrogata.


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