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PDL 1428

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1428



PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

GOISIS, RIVOLTA, GRIMOLDI, MACCANTI

Disposizioni per l'insegnamento delle specificità culturali, geografico-storiche e linguistiche delle comunità territoriali e regionali

Presentata il 2 luglio 2008


      

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Onorevoli Colleghi! - La revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione consente a ogni istituzione scolastica, nel rispetto degli obiettivi e degli standard nazionali del sistema di istruzione, di definire, progettare e realizzare un'offerta formativa autonoma che rifletta «le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico» della realtà locale di riferimento e che, più precisamente, tenga conto, valorizzando «il pluralismo culturale e territoriale», «delle diverse esigenze formative degli alunni concretamente rilevate, della necessità di garantire efficaci azioni di continuità e di orientamento, delle esigenze e delle attese espresse dalle famiglie, dagli enti locali, dai contesti sociali, culturali ed economici del territorio».
      Il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999, invero, dedica attenzione a tre voci nominalmente distinte di autonomia, ovvero all'autonomia «didattica» (articolo 4), a quella «organizzativa» (articolo 5) e a quella «di ricerca, sperimentazione e sviluppo» (articolo 6); la seconda e la terza, tuttavia, non sono realmente separabili dalla prima, sia per la parziale sovrapposizione dei loro oggetti all'oggetto di questa, sia per il loro carattere ausiliario o ancillare rispetto ad essa e anche perché tutte e tre, o almeno le prime due, dovrebbero concretizzarsi unitariamente nel «Piano dell'offerta formativa» (articolo 3), lo strumento principe dell'autonomia didattica comunemente indicato mediante l'acronimo «POF». Conviene, appunto, considerare innanzitutto quest'ultimo per realizzare immediatamente come l'autonomia «didattica» delle scuole si identifichi, in realtà, con un'autonomia progettuale di ampio respiro, che non investe solamente la didattica in senso stretto ma che, assecondando la natura sociale o comunitaria dell'autonomia scolastica, riguarda l'offerta di servizi complessiva di ciascuna scuola; sarebbe quindi più opportuno ed efficace fare riferimento a un'autonomia progettuale unitaria che si potrebbe denominare «autonomia di offerta formativa», anziché scomporla in più voci tra loro difficilmente distinguibili.
      Il piano dell'offerta formativa, infatti, «è il documento fondamentale dell'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell'ambito della loro autonomia»; esso «è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi e indirizzi di studi determinati a livello nazionale», «riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell'offerta formativa», e «comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità». Di conseguenza, il POF di ciascuna scuola è predisposto «con la partecipazione di tutte le sue componenti», nonché degli enti locali e delle «diverse realtà istituzionali, culturali e sociali ed economiche operanti sul territorio»; «è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione definiti dal consiglio di circolo o di istituto, tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto dei genitori e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti»; esso, infine, «è adottato dal consiglio di circolo o di istituto», «è reso pubblico e consegnato agli alunni e alle famiglie all'atto dell'iscrizione».
      Il POF, pertanto, è lo strumento attraverso il quale ogni istituzione scolastica è chiamata a concretizzare gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione in percorsi formativi autonomi, rispondenti in maniera specifica ai bisogni e alle aspirazioni dei propri alunni e delle loro famiglie, nonché alle vocazioni e alle esigenze della comunità locale di riferimento. Nel medesimo tempo, esso rappresenta una specie di «carta» del servizio pubblico reso dalla singola scuola, una sorta di statuto delle prestazioni erogate e dei diritti degli utenti, come conferma il fatto che anche le scuole paritarie sono obbligate a dotarsene, a norma dell'articolo 1, comma 4, lettera a), della legge n. 62 del 2000, in quanto inserite nel sistema nazionale di istruzione.
      Le istituzioni scolastiche autonome, dunque, entro i limiti costituiti dagli obiettivi, dagli standard, dalle regole e dagli obblighi didattici e valutativi stabiliti a livello nazionale per ciascun tipo o indirizzo di studi, sono chiamate non soltanto a integrare i curricoli con la quota di discipline e di attività loro riservata, a scegliere liberamente le metodologie e gli strumenti didattici, a programmare l'eventuale offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi, di percorsi formativi interdisciplinari, di insegnamenti in lingua straniera e anche di curricoli personalizzati, nonché a individuare i criteri e le modalità per la valutazione degli alunni e per il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi.
      Esse sono chiamate altresì, entro i limiti rappresentati dagli standard qualitativi del servizio, dai vincoli di calendario nazionali e regionali e dai monti orari complessivi previsti per ciascun curricolo e per ognuna delle discipline e delle attività fondamentali di ciascun tipo o indirizzo di studi, a organizzare autonomamente il servizio scolastico e, in particolare, a regolare i tempi dell'insegnamento e dello svolgimento delle singole discipline e attività, potendo adottare in proposito tutte le forme di flessibilità ritenute opportune tra cui, per esempio, la possibilità di articolare in moduli i monti orari delle varie discipline e attività, di definire unità di insegnamento non coincidenti con l'unità oraria della lezione, di aggregare discipline in aree e in ambiti disciplinari, di attivare percorsi didattici individualizzati, di articolare in moduli gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso, e così via.
      L'autonomia di offerta formativa delle istituzioni scolastiche, quindi, comprende anche un ampio e benefico spazio di flessibilità organizzativa nell'allestimento del servizio, che a sua volta richiede un analogo spazio di flessibilità nelle modalità di impiego dei docenti. L'autonomia che l'articolo 5 del citato regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999 definisce «autonomia organizzativa», ma che in realtà è disciplinata anche dall'articolo 4 del medesimo regolamento, risulta perciò indistinguibile da quella che quest'ultimo identifica come «autonomia didattica» e, a dispetto della sua denominazione, non concerne affatto la determinazione e il funzionamento degli organi e delle strutture organizzative delle scuole, riguardando invece l'organizzazione delle prestazioni del servizio dalle stesse espletato.
      Accanto all'autonomia «didattica» e a quella «organizzativa» è collocata poi, come accennato, l'autonomia di ricerca, di sperimentazione e di sviluppo delle istituzioni scolastiche, che queste sono chiamate a esercitare, «singolarmente o tra loro associate», «tenendo conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali». Si tratta di una forma di autonomia molto importante, posta al servizio dell'autonomia di offerta formativa e finalizzata segnatamente all'aggiornamento e all'innovazione delle metodologie e degli strumenti didattici, nonché degli ordinamenti e dell'organizzazione degli studi; con la possibilità per le istituzioni scolastiche finanche di elaborare e di attuare, in seguito a specifici provvedimenti ministeriali di «riconoscimento», progetti di iniziative sperimentali che richiedano modifiche agli ordinamenti didattici le quali oltrepassino i limiti della flessibilità curricolare prevista in via generale per tutte le scuole. Le disposizioni del regolamento sull'autonomia concernenti l'offerta formativa appaiono dunque, nel loro insieme, rispondere adeguatamente alla natura sociale dell'autonomia scolastica e alle esigenze di soddisfacimento dei bisogni differenziati e mutevoli delle varie comunità locali, consegnando a ciascuna scuola un potenziale piuttosto elevato di autodeterminazione della propria identità culturale e progettuale. Nel decreto legislativo n. 59 del 2004, relativo alla scuola dell'infanzia e al primo ciclo dell'istruzione, gli obiettivi didattici e le attività fondamentali degli allievi appaiono infatti individuati in una maniera rispettosa dell'autonomia delle istituzioni scolastiche: la flessibilità riguardante i monti orari dei curricoli e i tempi dell'insegnamento risulta superiore a qualsiasi aspettativa, mentre la generalizzazione dei piani formativi personalizzati (ossia l'introduzione dei «piani personalizzati delle attività educative» nelle scuole dell'infanzia e dei «piani di studio personalizzati» nelle scuole primarie e in quelle secondarie di primo grado) costituisce un ulteriore importante elemento nella costruzione «dal basso» di un sistema di autonomie funzionali intese e percepite veramente come autonomie sociali. In base alla normativa vigente (decreti ministeriali 28 dicembre 2005 e n. 46 del 13 giugno 2006) bisogna prendere atto che le scuole, ai fini della collaborazione tra loro e della cooperazione con gli enti territoriali e con gli altri soggetti istituzionali presenti sul territorio, pubblici e privati, sono state dotate di una scarsa «misura» di capacità operativa e relazionale, che è tipica delle autonomie sociali o comunitarie e che si potrebbe efficacemente denominare «autonomia di interazione con il contesto territoriale». Il vecchio principio messo in auge dal Ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis rimane tuttora valido: la scuola deve fornire agli studenti di tutte le regioni d'Italia dei valori comuni e una visione comune della cultura, del funzionamento dello Stato, della storia eccetera.
      Ma questo principio, inasprito oltre ogni realtà storica da Giovanni Gentile in epoca fascista, deve essere urgentemente aggiornato anche in vista delle nuove esigenze create dalla visione dell'Europa come una comunità di popoli.
      La Lega Nord è particolarmente sensibile alle realtà culturali, etniche, sociali e linguistiche, non solo del nord, luogo di origine della sua vocazione politica, ma è sintonizzata alla specificità linguistica di ogni latitudine italiana. Riteniamo quindi che «l'identità di un popolo sia strettamente collegata al linguaggio e alla comunicazione tra i membri di una comunità».
      La perdita di identità e la mancanza di un legame con la propria storia creano una sorta di limbo nel quale molte persone abbandonano la propria lingua e la propria cultura perché sono rivolte ad una cultura diversa dalla propria e ad una società nuova. Il processo di localizzazione economica, tecnologica e mediale ha reso possibile il collegamento di ogni ambito locale con quello globale e viceversa, distaccando sempre più i rapporti sociali dai contesti locali di appartenenza. Porre l'accento sulle «specificità del territorio», volgarmente identificati con i localismi, i regionalismi e i revival etnici non è in genere, come si crede, semplice espressione di arretratezza e di ritardo culturale, né testimonianza dell'inversione di marcia della modernizzazione. Questi fenomeni sono diversi dal passato, in quanto non implicano l'isolamento e la chiusura dei propri confini, bensì la consapevolezza e la valorizzazione della propria diversità che diventa elemento portante dell'identità collettiva. Il «cittadino del mondo», più virtuale che reale, ricerca un riconoscimento in una dimensione locale che superi un senso di spaesamento in una ricerca di culture e di valori in cui riconoscersi, una sensazione di «sradicamento» prodotta dal mutamento e dal «disagio della modernità», e forse delle appartenenze locali possono, e spesso sono, utilizzate per reggere l'urto della competizione globale con un connubio inedito tra corporazione ed etnia, con resistenze culturali al nuovo. Globalismo e localismo si richiamano, dunque, a vicenda e su tali analisi convergono posizioni culturalmente molto distanti che, sia pure con i significati in gran parte svuotati, possono essere indicate come «di destra e di sinistra». La crisi degli Stati-nazione che non sono più in grado di controllare gli scambi, o di proteggere la propria valuta, o di garantire sviluppo economico e occupazione, determina il sorgere di singole aree regionali quali propulsori della prosperità e del benessere: Stati-regione entro gli Stati-nazione. Alla tendenza verso l'omologazione corrisponde il riprodursi dell'esclusione; alla deterritorializzazione fanno da contrappunto fenomeni di localismo; alla multidimensionalità si pongono ambiti di minimalismo, vale a dire di individualismo, routine e familiarità. Il senso del familiare, del sentirsi a casa, del comunitario, non deriva più o non solo dal luogo, dall'abitare, ma dai modi in cui si ricreano le particolarità delle identità con le quali l'uomo entra in relazione con il mondo.
      L'Italia - ancora al momento attuale - conta molte lingue regionali, di grande valore ancestrale, etnico e culturale.
      La presente proposta di legge intende salvaguardare il patrimonio geografico-storico, linguistico e culturale territoriale e regionale, inserendolo nel curriculum scolastico obbligatorio dello studente, accuratamente armonizzato, come già avviene con successo in molte scuole del Piemonte, del Friuli Venezia Giulia, del Trentino-Alto Adige e della Valle d'Aosta.
      Tradizioni etniche, folcloriche, artistiche e artigianali diversissime da regione a regione, devono trovare libera espressione in scuole i cui curricula sono sensibili e aperti alle esigenze locali. Accanto, quindi, a esigenze comuni occorre che la scuola sia libera di forgiare nuovi testi di studio, nuovi curricula, nuove iniziative dettati dalle «specificità locali e regionali». Lo studio di «geografia e storia» dovrà essere sempre più specializzato e più dettagliato relativamente alle realtà regionali. Il Risorgimento stesso deve essere ri-studiato su basi «anche» regionali, entro cui il contributo assai diverso delle varie regioni deve essere debitamente illustrato.
      Ad esempio, lo studio della realtà «Sabauda» per gli studenti del Piemonte può assumere un'importanza non inferiore a quella che riveste lo studio della realtà «Borbone» per gli studenti delle regioni meridionali o del califfato arabo e dei ducati normanni per gli studenti della Sicilia.
      Nella scuola primaria e secondaria lo studio della storia locale può dare un contributo alla formazione della cultura storica dei giovani e allo sviluppo della loro personalità affettiva e civica. Lo studio della storia locale dà la consapevolezza della dimensione locale delle storie generali, rafforza la conoscenza della mutevole relazione tra uomini e territorio, valorizza i beni culturali locali come testimonianza del passato e rappresenta un campo privilegiato per la formazione delle strutture cognitive del fanciullo, indispensabili alla comprensione delle conoscenze storiche e del concetto di storia come attività conoscitiva.
      Gli strumenti che la presente proposta di legge individua per il sostegno all'insegnamento e all'apprendimento delle «specificità culturali, geografico-storiche e linguistiche delle comunità territoriali e regionali» prevedono:

          1) l'integrazione dei testi scolastici con unità didattiche appositamente dedicate;

          2) l'uso di nuove tecnologie software per la gestione delle operazioni cognitive tipiche della conoscenza storica e linguistica;

          3) archivi elettronici per la ricerca storico-didattica, la cui strutturazione consente agli studenti di reperire dati per la ricostruzione del passato, ai fini della comprensione del presente;

          4) la formazione del docente, considerato come «ricercatore», in grado di analizzare e di interpretare le fonti, nonché di rendere gli allievi consapevoli della spendibilità del sapere storico per entrare in relazione con l'uso pubblico della storia e per decodificarlo.

      Per quanto attiene all'insegnamento delle lingue locali e regionali, il nostro sistema scolastico si sta aprendo, ma lo fa con disordine ed è impreparato. L'Italia, per mancanza di informazioni e di direttive, rischia di farsi dettare dall'esterno norme, leggi e provvedimenti di tutela delle proprie lingue regionali senza mai aver definito e capito bene le differenze tra lingue e dialetti, tra ex lingue di Stato (piemontese e veneziano) e illustri lingue di città (meneghino e partenopeo), tra lingue minoritarie in Italia, ma maggioritarie all'estero (tedesco e francese) e lingue allofone (albanese, greco, croato). In Italia la situazione linguistica (tanto per la lingua nazionale che per quelle regionali e locali) è abissalmente diversa da quella degli altri Paesi europei.
      L'Italia è tra i Paesi che spendono di meno ed è comunque molto male informata sulla questione delle sue lingue minoritarie o dialetti.
      Anche i suoi linguisti e dialettologi sono ancorati a posizioni di vieto accademismo. Molti di loro si sono recentemente «convertiti» alla rivitalizzazione dei dialetti dopo averli ferocemente osteggiati per decenni.
      I principali Paesi europei hanno avuto lingue di Stato, quindi normativizzanti e centralizzanti, dal trecento in poi. Molti di questi Paesi hanno avuto anche una fortissima tradizione biblica (Germania, Inghilterra, Scandinavia) con la propagazione della lingua nazionale e dell'alfabetizzazione già in epoche pristine rispetto all'Italia.
      In questi Paesi i cosiddetti «dialetti», cioè le lingue regionali (a volte varianti di quella nazionale, a volte diversissime da essa), sono stati praticamente spazzati via nel corso dei secoli. Sono sopravvissute invece lingue come il celtico, il catalano, il bretone e il provenzale, perché si tratta di lingue con un illustre passato letterario e avvertite dai loro locutori come lingue dotte e veicolatrici di importanti tradizioni culturali.
      In Italia, invece, abbiamo sempre avuto una situazione di diglossia: tutti, anche i nobili, i re e i papi, parlavano un dialetto, ma nei rapporti epistolari e nelle opere si usavano il latino, il francese o l'italiano letterario, lingue che solo i dotti conoscevano, scrivevano e capivano.
      Manca del tutto la tradizione della lettura biblica a livello popolare, la tradizione di una cultura popolare che non sia quella orale e locale, la penetrazione di un modello linguistico a grandezza di Paese.
      In questo clima hanno prosperato molto di più e molto più a lungo che altrove in Europa le lingue regionali, o dialetti che dir si voglia.
      Molti di questi dialetti sono stati scritti e utilizzati per il teatro, per le ballate, per le canzoni, per la favolistica, per la novellistica, per le liriche, ma anche per il romanzo e per il giornalismo (è il caso del sabaudo, cioè la lingua di corte dei Savoia e in particolare del Piemonte).
      Il patrimonio lessicale, letterario, folclorico e culturale veicolato dalle lingue locali, regionali e ancestrali in Italia non ha paralleli qualitativi o quantitativi in nessun altro Paese europeo. Non si può continuare a emarginare chi parla una lingua storica o una parlata locale!
      Il dibattito su «lingua» e «dialetto» è cominciato all'indomani dell'unificazione italiana, nel 1861, e continua tutt'ora. Alcuni chiamano «dialetto» tutto ciò che non è italiano. Altri insistono nel riconoscere il titolo di lingua solo a certe lingue regionali, ma non ad altre.
      Molta confusione si è creata per via della perenne domanda se una determinata parlata sia una lingua o un dialetto. Basterebbe un'osservazione semplice per chiarire le idee: qualsiasi lingua, inclusa quella italiana, parlata da persone che leggono sempre meno, sempre più sotto l'influsso di una lingua forte straniera, con un lessico sempre più esiguo, rischia di diventare un dialetto, sottoposto a tutto il degrado al quale sono sottoposti tutti i dialetti, cioè le parlate di coloro che si credono culturalmente inferiori e che non hanno la difesa della scrittura e della cultura. E, per converso, parafrasando un linguista, «l'ultimo dei dialetti, il provenzale di Frédéric Mistral o il tursitano di Albino Pierro, può diventare lingua, quando alimentato da secoli di idiomaticità e da una vita di grande intuito e creatività poetica!».
      La realtà è che l'italiano medesimo, nel contesto europeo, si sta dialettizzando, nonostante i suoi dizionari e la sua ufficialità. E che i cosiddetti «dialetti» come il veneziano di Goldoni, il napoletano di Di Giacomo, il piemontese di Pinin Pacòt e l'emiliano di Tonino Guerra, sono delle lingue in sé e per sé, veicolatrici di splendide creazioni poetiche e letterarie.
      L'adozione della locuzione «specificità linguistica» richiamata nella presente proposta di legge, in luogo di «lingua regionale» o «dialetto», dà una visione più armoniosa e più pacifica rispetto ai conflitti di identità linguistica e nazionale. Un italiano del Friuli Venezia Giulia che parla il friulano, «a lemba furlana», non è meno italiano di chi parla solo l'italiano, ma è un italiano che oltre alla lingua nazionale, indispensabile per l'efficienza e per la compartecipazione sociali, parla anche una delle più belle lingue romanze. È un italiano più ricco. E così dicasi di coloro che parlano uno dei tre principali idiomi sardi, o dei molti idiomi siculi, o il greco della Calabria o l'albanese di Guglionesi, o dei concittadini veneti che ci offrono ancor oggi i suoni soavi dell'entroterra veneziano.
      La nostra civiltà non ha avuto una monarchia centralizzante come la Spagna, la Francia e l'Inghilterra, e non ha avuto una riforma come quella operata da Lutero, con immense conseguenze di accentramento e di livellamento linguistici. Da noi il senso di appartenenza ad un'unica civiltà si è operato per altre e più sottili vie, grazie ad altri e più tenaci legami che non quelli di una coercizione linguistica. Da noi la troppo prolungata frammentazione in tanti piccoli Stati ha avuto almeno un grande vantaggio: quello di aver preservato la ricchezza spirituale e culturale della nostra gente fino ai nostri tempi. Ora non siamo noi a regalare queste lingue agli italiani, ma siamo solo degli informati e sensibili servitori sociali che riconoscono questo splendore di civiltà e che lo consacrano per sempre nella norma costituzionale.


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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Per l'anno scolastico 2009-2010, il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, in sede di definizione dei curricoli delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, prevede l'introduzione, con modalità differenziata per i diversi tipi e indirizzi di studio, dell'insegnamento delle specificità culturali, geografico-storiche e linguistiche della comunità locale, del territorio e della regione in cui le singole istituzioni scolastiche hanno sede.

Art. 2.

      1. Nell'ambito dell'autonomia dell'offerta formativa, le istituzioni scolastiche, in conformità a quanto previsto all'articolo 1, attuano piani di studio personalizzati, singolarmente o in forma associata, provvedendo all'integrazione dei testi scolastici, con specifiche unità didattiche dedicate alla storia, alla geografia, alla lingua e alla cultura di ciascun territorio regionale, per uno studio comparato, specializzato e dettagliato delle tradizioni storiche, etniche, folcloriche, artistiche e artigianali delle singole comunità territoriali di appartenenza, nonché prevedendo l'assegnazione di tecnologie software e di archivi elettronici.
      2. Nell'esercizio dell'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di cui all'articolo 21, comma 10, della legge 15 marzo 1997, n. 59, le istituzioni scolastiche prevedono attività di formazione e di aggiornamento degli insegnanti addetti alla medesima disciplina, e integrano l'insegnamento di cui al comma 1 del presente articolo, con ulteriori attività nell'ambito della quota curricolare loro riservata, adottando iniziative per la ricerca laboratoriale in ambienti ipermediali e per la produzione di azioni teatrali, anche in dialetto, di mostre documentali, di convegni e di pubblicazione di monografie.

      3. Per l'attuazione di quanto disposto dal comma 2 del presente articolo, le istituzioni scolastiche possono stipulare convenzioni, ai sensi dell'articolo 21, comma 12, della legge 15 marzo 1997, n. 59, con le università statali o private per l'istituzione di corsi di storia, geografia, lingua e cultura delle comunità territoriali e regionali, finalizzati ad agevolare la ricerca e le attività formative dei docenti.

Art. 3.

      1. Le iniziative previste dai commi 2 e 3 dell'articolo 2 della presente legge sono realizzate dalle medesime istituzioni scolastiche avvalendosi delle risorse umane a disposizione, della dotazione finanziaria attribuita ai sensi dell'articolo 21, comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, nonché delle risorse aggiuntive reperibili mediante convenzioni con soggetti privati e pubblici, enti locali, province, regioni, fondazioni e associazioni senza scopo di lucro.
      2. Nella ripartizione delle risorse di cui all'articolo 21, comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, si tiene conto delle iniziative di cui al comma 1 del presente articolo.

Art. 4.

      1. Agli oneri derivati dall'attuazione della presente legge, calcolati nella misura di 100 milioni di euro, si provvede dall'anno 2009 mediante assoggettamento ad un'imposta sostitutiva del 20 per cento delle plusvalenze previste dall'articolo 67, comma 1, lettere da c-bis) a c-quinquies), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, realizzate a decorrere dal 1o gennaio 2009.


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