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PDL 92

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 92



PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato STUCCHI

Modifiche alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio, in materia di depenalizzazione degli illeciti penali

Presentata il 29 aprile 2008


      

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Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge apporta innovazioni alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio», in particolare in tema di sanzioni penali, derubricando alcuni illeciti.
      Poiché nessuno può pretendere di essere rispettato se non rispetta gli altri, così anche in materia di caccia tutte le opinioni vanno rispettate. È con questa doverosa premessa che intendo portare alla Vostra attenzione un tema che ho avuto modo di approfondire e che vorrei affrontare, condividere e risolvere con Voi attraverso un dialogo aperto, nel pieno rispetto delle Vostre opinioni: quello dei reati venatori e della loro depenalizzazione.
      La caccia nasce con l'uomo e con lui si evolve, ne segue i cambiamenti, gli sviluppi, le tecniche; si tramandano così gli usi, le consuetudini, le tradizioni ed i valori. Quei valori tipici della cultura e della civiltà rurali alle quali la caccia è da sempre stata legata. Cioè la caccia vissuta non solo come sport, ma come ars venandi, amore e rispetto della natura.
      Una caccia moderna in una logica di sviluppo eco-compatibile che tenga conto delle varie esigenze e che salvaguardi i diritti-doveri del cittadino-cacciatore. Fra questi, vi sono il rispetto delle leggi e dei regolamenti in materia venatoria e delle relative sanzioni ad essi collegate.
      Ogni anno, su tutto il territorio nazionale, vengono elevate numerose contravvenzioni e verbali di accertamento che spesso comportano, oltre alla sanzione amministrativa, quella penale.
      Tutto ciò appare abbastanza opinabile soprattutto per quanto riguarda alcuni reati minori venatori poiché la sanzione comminata dovrebbe essere rapportata al reato commesso. Nella realtà accade invece che l'abbattimento di un solo capo di selvaggina migratoria protetta comporti una denuncia da parte delle autorità competenti per «furto aggravato allo Stato» che prevede, come già sottolineato, oltre alla pena pecuniaria, il «penale».
      Mi sembra che, come sempre, dovrebbe avere il sopravvento in ogni nostro atto il «buon senso», dando il giusto peso alle cose. Ed è in questo senso che deve essere letta la presente proposta di legge, volta alla depenalizzazione di reati minori di carattere venatorio. La proposta di legge non vuole rappresentare un «colpo di spugna» rivolto alla normativa vigente e a tutti i reati commessi durante l'esercizio venatorio, né, tantomeno, verso il fenomeno del «bracconaggio», peraltro fortemente condannato da tutti i cacciatori. Bensì vuole correggere, migliorandola, la legislazione vigente al fine di renderla più consona e perequata alla realtà di oggi (emendare utiliter legem).

Introduzione.

      L'attività venatoria era disciplinata in passato dal testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia, di cui al regio decreto 5 giugno 1939, n. 1016, nel quale era stato sancito il principio di libertà del diritto di caccia per tutti i cittadini, come espressione di un diritto soggettivo assoluto. Nell'ambito di tale concezione ogni limite all'esercizio del citato diritto era considerato come eccezionale.
      Progressivamente si è abbandonata tale impostazione: l'attività venatoria è stata oggetto di un progressivo assoggettamento a limiti e a divieti di carattere pubblicistico, connessi all'affermarsi della consapevolezza della scarsità delle risorse naturali e della necessità di protezione e di conservazione dell'ambiente.
      In questo contesto la legge 27 dicembre 1977, n. 968, ha previsto per la prima volta una disciplina organica della caccia indirizzata alla regolamentazione non solo della materia in sé, ma, più in generale, del patrimonio faunistico.
      La disciplina sanzionatoria in materia di caccia è oggi contenuta nella legge 11 febbraio 1992, n. 157 (legge-quadro in materia di caccia).
      Al principio tradizionale di libertà di caccia viene a sostituirsi quello di caccia controllata e programmata. L'esercizio dell'attività venatoria è assoggettato quindi a precisi limiti temporali, spaziali e quantitativi (numero di capi che si possono abbattere), fissati a livello nazionale, regionale e provinciale. Su questa linea si è posta anche la legge n. 157 del 1992, che ha inteso realizzare un equilibrio tra due opposti valori: la difesa dell'ambiente e la conservazione di un'attività tradizionale profondamente radicata nella cultura e nella storia del Paese.
      Al mancato rispetto dei limiti accennati si accompagna un duplice sistema di sanzioni: la legge n. 157 del 1992 ha infatti previsto sia sanzioni penali (articolo 30) che amministrative (articolo 31). Ad entrambe le tipologie di sanzioni si connettono ulteriori sanzioni di natura accessoria (articolo 32), come la sospensione, la revoca della licenza di porto di fucile per uso di caccia o l'esclusione definitiva dalla concessione della stessa, nonché la chiusura o la sospensione dell'esercizio commerciale. Tali sanzioni sono comminate dal legislatore nell'ipotesi di recidiva di cui all'articolo 99 del codice penale.
      La scelta del legislatore del 1992 è in controtendenza rispetto al passato. La previgente disciplina della caccia, di cui alla citata legge 27 dicembre 1977, n. 968, aveva già depenalizzato la materia, in linea con una generale tendenza iniziata negli anni '60 e tradottasi in diversi provvedimenti di depenalizzazione (tra cui in particolare la legge 24 dicembre 1975, n. 706).
      È necessario precisare che la disciplina del '92 nasce ed è espressione di un clima politico e culturale particolare. Il referendum sulla caccia, indetto nel giugno del 1990, fallito per il mancato raggiungimento del quorum minimo previsto dall'articolo 75 della Costituzione, aveva contribuito a creare, soprattutto dinanzi all'opinione pubblica, un'immagine della caccia come disvalore sociale. L'eco della campagna referendaria non solo ha ritardato l'approvazione della legge-quadro, ma ha in parte influito sulle scelte operate in tema di regime sanzionatorio.
      La scelta di fare riferimento per gli illeciti principali al sistema sanzionatorio penale, al quale si connette un particolare disvalore sociale, è sicuramente espressione di un assioma di fondo, cioè che la disciplina penale possa meglio garantire la tutela di valori primari dell'ordinamento come l'ambiente (potenzialmente leso da un'attività venatoria scriteriata). In realtà, come si avrà modo di mettere in evidenza nel corso della relazione, tale equivalenza (tutela penale = maggiore garanzia) non è esatta, né vi è alcun vincolo costituzionale o comunitario in questo senso.
      Il dibattito parlamentare dimostra proprio che la scelta del sistema sanzionatorio penale è stata voluta nella (errata) convinzione che esso fosse in grado di meglio garantire il bene ambiente: tuttavia nessun dato statistico e nessuna indagine giuridica seria hanno mai confortato questa convinzione. Né sono stati mai oggetto di sufficiente indagine, a quanto risulta, gli effetti collaterali «indesiderati» connessi all'adozione di un sistema sanzionatorio penale in questa materia.
      Come si cercherà di chiarire nel prosieguo, si ritiene invece che un sistema sanzionatorio amministrativo sia in grado di garantire una tutela addirittura superiore rispetto a quella penale per il bene protetto, minimizzando al contempo gli effetti «indesiderati».

1.    La situazione attuale.

      I reati introdotti dalla legge n. 157 del 1992 hanno natura contravvenzionale e sono puniti con la sola ammenda [articolo 30, comma 1, lettere g) e h)], o con l'ammenda e l'arresto, talvolta alternativamente [articolo 30, comma 1, lettere b), e), f), i) e l)], talaltra previsti cumulativamente [articolo 30, comma 1, lettere c) e d)].
      Proprio in quanto previste in relazione a condotte contravvenzionali (e non a delitti), quasi tutte le sanzioni penali sono oblazionabili secondo le modalità previste, rispettivamente, per le contravvenzioni punite con la sola ammenda dall'articolo 162 del codice penale e per le contravvenzioni punite con pene alternative dall'articolo 162-bis del medesimo codice (l'oblazione non è ammessa solo nei casi in cui ammenda e arresto siano previsti cumulativamente).
      Le sanzioni amministrative hanno esclusivamente carattere pecuniario e possono essere pagate in misura ridotta, secondo i princìpi generali (articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689).
      Per quanto riguarda i rapporti con altre fattispecie di reati, l'articolo 30, comma 3, della legge n. 157 del 1992 stabilisce che «continuano ad applicarsi le disposizioni di legge e di regolamento in materia di armi».
      Non trovano invece applicazione i reati di furto (articoli 624, 625 e 626 del codice penale). Quest'ultima esclusione è stata introdotta dalla legge n. 157 del 1992 per porre fine alla vexata quaestio relativa alla configurabilità del furto venatorio nell'ipotesi di apprensione di fauna selvatica in violazione delle norme sull'esercizio della caccia: infatti in passato l'abbattimento e l'impossessamento di specie appartenenti alla fauna selvatica, considerata come patrimonio indisponibile dello Stato, venivano qualificati dalla giurisprudenza penale prevalente come reati contro il patrimonio, più precisamente come furti venatori.
      Le fattispecie dell'uno o dell'altro tipo danno luogo a un complesso sistema sanzionatorio, che - secondo gli ideatori della legge - avrebbe dovuto consentire una migliore graduazione delle sanzioni in relazione alle diverse fattispecie concrete, ma che ha invece fortemente complicato il lavoro dell'amministrazione e dei giudici in sede di applicazione delle sanzioni.
      Inoltre il sistema, pur così congegnato, si è rilevato carente: le lacune sanzionatorie non sono poche né di poco conto (si pensi alla caccia senza accompagnatore, alla caccia con arco o con falco in zone vietate, all'abbattimento di capi in numero superiore, al numero di giornate maggiore del consentito eccetera). Come peraltro è stato sottolineato in dottrina (Innocenzo Gorlani, La caccia programmata, Bologna, 1992) non è infrequente il caso di sanzioni che corrispondono parzialmente o non corrispondono affatto alle fattispecie limitative o proibitive sparse qua e là nella legge, effetto non ultimo della divaricazione tra precetti (divieti) e sanzioni.
      Tali problemi che sono destinati ad ampliarsi se si considera che la caccia dovrebbe rientrare tra le materie di competenza legislativa esclusiva delle regioni a seguito dell'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha sostituito il titolo V della parte seconda della Costituzione.
      In tale contesto il mutato clima politico, l'affermarsi di una maggiore coscienza ambientalista e di un approccio integrato all'ambiente, la presenza di una disciplina positiva puntuale nell'ambito della cosiddetta «caccia programmata», la flessione costante del numero dei cacciatori iscritti, l'approfondimento da parte della dottrina del rapporto fra sanzioni amministrative e tipo di bene tutelato, inducono e giustificano una modificazione del regime sanzionatorio.

2.    Esame delle singole fattispecie di reato.

      Le singole fattispecie rispecchiano le distinzioni e le categorie della disciplina sostanziale e possono essere ricondotte a quattro gruppi: sanzioni relative alle modalità di svolgimento dell'attività venatoria (tempo, luogo e mezzi utilizzati per la caccia), sanzioni connesse alla diversa specie o tipo di animale cacciato, sanzioni relative alla cattura e alla detenzione di animali a scopi di commercio nel settore venatorio, sanzioni di alcune pratiche peculiari come l'imbalsamazione e la tassidermia.

A)  Modalità di esercizio dell'attività venatoria.

I) Tempo.

      L'articolo 30, comma 1, lettera a), della legge n. 157 del 1992, punisce con l'arresto da tre mesi ad un anno o con l'ammenda chi esercita la caccia in un periodo di divieto generale. L'apparente asprezza della sanzione è tradizionalmente giustificata con l'interesse a perseguire la pratica che viene comunemente denominata «bracconaggio». Il problema interpretativo che tale disposizione aveva posto in passato riguarda l'espressione «periodo di divieto generale».
      La Cassazione (Cassazione penale, sezione III, 8 maggio 2001, n. 2335) ha precisato che, nel prevedere come reato l'esercizio della caccia in «periodo di divieto generale», il legislatore si riferisce ai periodi di divieto rapportati all'anno solare e non alle limitazioni di orario che vigono anche durante i periodi in cui la caccia è consentita. L'infrazione di dette limitazioni integra pertanto solo gli estremi dell'illecito amministrativo sanzionato dall'articolo 31, comma 1, lettera g), della stessa legge.
      Costituisce un dato acquisito il fatto che il reato di esercizio della caccia «in periodo di divieto generale», è configurabile anche nel caso in cui sia stato abbattuto un animale nel periodo della stagione venatoria (che va dal 1o settembre al 31 dicembre di ogni anno), ma al di fuori del più limitato arco di tempo nel quale sia consentita la caccia alla specie cui l'animale predetto appartenga (da ultimo: Cassazione penale, sezione III, 7 luglio 1999, n. 2499).
      Una fattispecie particolare riguarda la violazione del silenzio venatorio (nei giorni di martedì e di venerdì), di cui alla lettera f) del comma 1 dell'articolo 30, punita con l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda. La caccia rompe in questa ipotesi la condizione di quiete che il legislatore persegue per la tutela della fauna selvatica e non tollera deroghe, neppure nel periodo di caccia consentito dal calendario venatorio.
      Si noti che comunque la proposta di depenalizzazione non attenua il rigore del regime sanzionatorio: la separazione delle diverse condotte può essere mantenuta e la sanzione può essere graduata in modo da rispettare la diversa gravità del comportamento vietato.

II) Luoghi.

      L'articolo 30, comma 1, lettera d), punisce con l'arresto fino a sei mesi cumulato all'ammenda la violazione di una serie di divieti contenuti nell'articolo 21 della medesima legge relativi al luogo in cui è esercitata la caccia. Non presentano peculiari problemi le fattispecie che sanzionano la caccia nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali.
      Altrettanto pacifica è l'individuazione degli ambiti delle oasi di protezione e delle zone di ripopolamento e cattura, nonché dei terreni adibiti ad attività sportive. Qualche problema interpretativo deriva dall'espressione «parchi e giardini urbani», dal momento che l'articolo 21, comma 1, lettera a), vieta l'esercizio venatorio nei giardini, nei parchi pubblici e privati, nei parchi storici e archeologici e nei terreni adibiti ad attività sportive. Non è chiaro se il legislatore abbia voluto sanzionare penalmente solo la caccia nei giardini e nei parchi urbani, restringendo l'ambito oggettivo della fattispecie, o se invece si tratta di una scorretta formulazione della disposizione.
      Nel caso in cui la caccia sia esercitata negli altri luoghi vietati dall'articolo 21, come le foreste demaniali o dove esistono beni monumentali o all'interno di aie, corti o altre pertinenze di fabbricati rurali, si applica la sanzione amministrativa di cui all'articolo 31, comma 1, lettera e), che sanziona la caccia in zona di divieto.
      Infine chi esercita la caccia sparando da autoveicoli, da natanti o aeromobili [lettera i) del comma 1 dell'articolo 30] è punito con l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda. La caccia da veicolo fermo non rientra in questa fattispecie.

III) Mezzi di caccia e uccellagione.

      La lettera h) del comma 1 dell'articolo 30 prevede una sanzione esclusivamente pecuniaria per chi esercita la caccia con mezzi vietati. Si tratta di una fattispecie aperta. L'articolo 13 della legge stessa vieta infatti tutte le armi e tutti i mezzi per l'esercizio venatorio non espressamente ammessi dal medesimo articolo. Qualche problema interpretativo si è posto riguardo all'individuazione del concetto non tanto di armi consentite (fucile con canna liscia o rigata con le limitazioni e le specificazioni nello stesso articolo previste) quanto della definizione dei mezzi vietati.
      Significativo al riguardo è il contributo della giurisprudenza: l'articolo 13, comma 5, vieta, oltre all'uso delle armi, «tutti i mezzi per l'esercizio venatorio non esplicitamente ammessi» dal medesimo articolo; tale disposizione si riferisce - come ha ritenuto la Corte costituzionale con ordinanza n. 95 del 1995 - ai soli mezzi diretti all'abbattimento delle prede, e non anche ai mezzi ausiliari. Pertanto non si configura il reato in esame nel caso di uso di apparecchi radio ricetrasmittenti adoperati dai cacciatori per tenersi in contatto fra loro e coordinare i loro movimenti, nulla rilevando, ai fini penali, che tali apparecchi siano vietati dalla normativa regionale, sotto comminatoria di sanzioni amministrative (Cassazione penale, sezione III, 19 maggio 1999, n. 1930).
      La giurisprudenza ha precisato inoltre che la cattura di uccelli con le mani integra il reato di cui all'articolo 30, comma 1, lettera h), atteso che siffatto mezzo, non essendo compreso fra quelli consentiti tassativamente indicati dall'articolo 13 della stessa legge, rientra tra quelli vietati ai sensi del comma 5 di quest'ultima disposizione, che considera tali tutti quelli non espressamente ammessi (Cassazione penale, sezione III, 13 novembre 2000, n. 139).
      La norma ha ribadito la sanzione a carico di chi usa richiami vietati dall'articolo 21, comma 1, lettera r), accompagnandola con la confisca obbligatoria degli stessi richiami. Tale norma vieta di usare come richiami uccelli vivi accecati, mutilati ovvero legati per le ali.
      La lettera e) del comma 1 dell'articolo 30 riguarda uno dei più peculiari reati venatori: l'uccellagione, sanzionata con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda. Tale fattispecie è tenuta distinta e sanzionata in modo più grave rispetto alla cattura di uccelli con mezzi vietati di cui alla lettera h) del medesimo comma 1, benché i confini tra le due pratiche non siano così precisi.
      Secondo una giurisprudenza consolidata, la linea di demarcazione tra l'uccellagione e la caccia con mezzi vietati è rappresentata dalla possibilità, insita nella prima, che si verifichi un indiscriminato depauperamento della fauna selvatica a cagione delle modalità dell'esercizio venatorio e in considerazione della particolarità dei mezzi adoperati (Cassazione penale, sezione III, 9 marzo 2000, n. 5046). La distinzione tra uccellagione e generica cattura di uccelli non risiede dunque nell'uccisione degli uccelli, ma nell'impiego di qualsiasi impianto, mezzo e metodo di cattura o di soppressione, in massa o non selettiva o che possa portare localmente all'estinzione di una specie (Cassazione penale, sezione III, 20 febbraio 1997, n. 2423).
      Costituisce, pertanto, uccellagione l'installazione di trappole munite di lacci di crine, per la cattura e lo strangolamento di volatili, atteso che in tale modo si realizza la possibilità, caratteristica appunto dell'uccellagione, di un depauperamento, sia pure parziale, della fauna selvatica, riconducibile alle modalità indiscriminate dell'esercizio venatorio (Cassazione penale, sezione III, 2 giugno 1999, n. 9607).
      La cattura di uccelli, senza uso di armi da fuoco e dopo appostamenti e ricerche fra gli alberi, integra anche il reato di uccellagione, in quanto l'uccellagione deve ritenersi consistere non solo nell'atto finale della apprensione di uccelli vivi e vitali con mezzi diversi dalle armi da fuoco, ma altresì negli atti, preparatori e strumentali, quali il vagare o il soffermarsi in attesa o nella ricerca dei volatili. Pertanto anche il prelievo di uova, nidi e piccoli nati integra una ipotesi di uccellagione per la lettera e la ratio della norma.
      La giurisprudenza consolidata ritiene ormai che l'uccellagione (come la «cattura») possa essere rivolta al mantenimento dell'animale catturato oltre che al suo abbattimento, benché precedenti giurisprudenziali considerassero penalmente sanzionata solo l'uccellagione (nel senso di cattura con soppressione di volatili) contrapposta alla «cattura» (Cassazione penale, sezione III, 21 giugno 1996, n. 8698).
      Peculiari problemi si pongono quindi in ordine al rapporto tra le fattispecie in esame e il reato di maltrattamento di animali di cui all'articolo 727 del codice penale.
      Il requisito comune a entrambe le ipotesi di reato è costituito dalla condizione di sofferenza in cui si trova l'animale, occorre cioè che gli animali siano stati tenuti in condizioni incompatibili con la loro natura, per fini e con modalità che la legge non consente. Tuttavia non è ben chiaro quali siano gli estremi di tale requisito. La giurisprudenza è sul punto oscillante in quanto, da un lato, ritiene che non integri i reati in questione la semplice cattività degli uccelli selvatici ai fini della loro utilizzazione come richiami vivi, in periodo di caccia, essendo ciò consentito dalla legge senza una prova della sofferenza degli animali quale conseguenza della condotta in oggetto (Cassazione penale, sezione III, 19 gennaio 1998, n. 116). Dall'altro lato, afferma che la cattura di uccelli appena nati e la loro detenzione in regime di cattività integrano gli estremi del reato di maltrattamento di animali, poiché ciò corrisponde al detenere animali in condizioni non compatibili con la loro natura (Cassazione penale, sezione III, 8 ottobre 1996, n. 9574).
      Nel caso in cui un uccello sia imbracato e trattenuto con un filo che gli consenta di levarsi in volo e di ricadere, perché strattonato dalla fune cui è legato, non sussiste la contravvenzione di cui all'articolo 30, comma 1, lettera h), della legge n. 157 del 1992, che punisce l'utilizzo a fini di richiamo di uccelli vivi solo quando questi siano legati per le ali e non al corpo o imbracati. Sussiste però il reato di cui all'articolo 727 del codice penale, che integra la pregressa normativa attraverso l'ampliamento della sfera di tutela dell'animale e l'introduzione di un divieto di tenere comunque condotte tali da sottoporlo a strazio o sevizie (Cassazione penale, sezione III, 24 maggio 1999, n. 8890).
      Sarebbe auspicabile sotto questo profilo assicurare un migliore coordinamento normativo tra le diverse disposizioni in esame al fine di evitare che ciò si traduca in una perdita di tutela della fauna.

B) Specie o tipi di animali cacciati.

      La lettera b) del comma 1 dell'articolo 30 sanziona con l'arresto da due a otto mesi o l'ammenda chiunque abbatte, cattura e detiene uccelli o mammiferi compresi nell'elenco delle specie protette di cui all'articolo 2 della medesima legge.
      Il concetto di fauna selvatica è riferito dalla legge n. 157 del 1992, alle «specie», intese come categorie generali, di mammiferi e uccelli, dei quali esistono popolazioni viventi, stabilmente o temporaneamente, in stato di naturale libertà, sul territorio nazionale. Oggetto di «particolare» protezione, ai sensi dell'articolo 2, comma 1, della stessa legge, sono alcune specie di mammiferi e uccelli, espressamente indicate, nonché tutte le altre specie di mammiferi «minacciate di estinzione». In particolare tra queste rientrano non solo le specie di cui alle lettere a) e b) del comma 1 del suddetto articolo ma tutte le altre specie che atti comunitari o internazionali o apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dichiarino minacciate di estinzione [lettera c) del citato comma 1]. Come è stato sottolineato in dottrina, la categoria non è di facile individuazione, stante l'eterogeneità delle fonti da cui promana e l'ampia possibilità di modificazione. La disposizione in esame può essere intesa come una sorta di norma penale in bianco, di dubbia legittimità costituzionale. Dubbi che la trasformazione in illecito amministrativo possono attenuare.
      La lettera c) del comma 1 dell'articolo 30 in esame prevede delle sanzioni particolarmente gravi (arresto da tre mesi ad un anno e un'ammenda elevata) per l'abbattimento o la detenzione di particolari specie di animali tassativamente indicate: orso, stambecco, camoscio d'Abruzzo e muflone sardo. Si tratta di un irrigidimento del sistema sanzionatorio previsto per la tutela delle specie protette, reso ancora più duro dalla previsione cumulativa delle sanzioni che preclude la possibilità di oblazione.
      Una sanzione esclusivamente pecuniaria è prevista alla lettera g) del medesimo comma 1 nel caso di abbattimento, cattura o detenzione di esemplari appartenenti alla fauna stanziale alpina, non contemplati nella lettera h) del citato comma 1. Si tratta di specie non comprese nell'articolo 18 o di specie che, pur essendovi incluse, sono vietate dalla regione competente per territorio e il cui areale corrisponde alla zona alpina. La norma punisce con maggiore rigore le stesse attività illecite in quanto dirette contro una fauna considerata di maggiore pregio.
      Le stesse condotte sono punite con l'ammenda pari alla metà se riguardano specie non cacciabili o comunque vietate. La norma sanziona specificamente anche l'abbattimento, la cattura o la detenzione di fringillidi in numero superiore a cinque. Le stesse condotte, se riferite ad un numero di fringillidi inferiore a cinque, sono punite con la sola sanzione amministrativa di cui all'articolo 31, comma 1, lettera g). È stata sottolineata in dottrina (Gorlani) l'incongruenza delle due disposizioni che puniscono in maniera sensibilmente diversa fatti omogenei differenti solo quantitativamente.

C) Commercio di fauna selvatica.

      La fattispecie di cui alla lettera l) del comma 1 dell'articolo 30 punisce chi pone in commercio o detiene per fini di commercio fauna selvatica in violazione della legge stessa. In tema di tutela degli animali, il significato dell'espressione «esemplare di specie selvatica», ossia esemplare di origine selvatica o esemplare animale proveniente da nascita in cattività limitata alla prima generazione, contenuta nell'articolo 8-sexies della legge n. 150 del 1992, introdotto dall'articolo 10 del decreto-legge n. 2 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 59 del 1993, non trova applicazione nella legge n. 157 del 1992. Ne consegue che il commercio e la detenzione per la vendita di uccelli appartenenti alla fauna selvatica prodotti in allevamento integrano il reato in esame (Cassazione penale, sezione IV, 26 settembre 1997, n. 3062).
      Nel caso di vendita di uccelli appartenenti a specie protetta, la condotta sanzionata è quella di «avere posto in commercio» detti uccelli in violazione del divieto posto dall'articolo 21, comma 1, lettera bb), della legge n. 157 del 1992, a prescindere dall'accertata legittimità della loro mera detenzione, del tutto ininfluente sulla condotta incriminata, essendo comunque vietata la «detenzione per la vendita» (Cassazione penale, sezione III, 6 maggio 1997, n. 5345).

D) Imbalsamazione e tassidermia.

      Il comma 2 dell'articolo 30 sanziona le pratiche di imbalsamazione e tassidermia mediante il rinvio alle sanzioni che sono comminate per l'abbattimento degli animali le cui spoglie sono oggetto del trattamento.

3. Gli inconvenienti del diritto vigente.

      La previsione di illeciti penali in materia di caccia presenta diversi inconvenienti, relativi in particolare al sovraccarico di lavoro per gli uffici giudiziari penali e alla sproporzionata criminalizzazione di molte condotte. Per giunta le sanzioni penali in questione difficilmente possono essere applicate in concreto, con la conseguenza che ciò determina una scarsa effettività dell'intero sistema.
      La previsione di un sistema sanzionatorio penale, secondo i più moderni studi giuridici e sociologici, deve costituire l'extrema ratio cui l'ordinamento ricorre solo ove tutti gli altri strumenti giuridici si rivelino inidonei a perseguire un'efficace tutela. Laddove, viceversa, altri strumenti si rivelino idonei a garantire l'intento perseguito dal legislatore con la previsione di un divieto o di un obbligo, è preferibile utilizzare proprio questi altri strumenti: infatti essi permettono di raggiungere il risultato voluto con l'impiego di mezzi minori (principio di proporzionalità).
      Nel caso in esame il ricorso al sistema sanzionatorio amministrativo può garantire le finalità volute con la previsione degli obblighi o dei divieti, senza necessità di ricorrere al sistema sanzionatorio penale, che comporta rilevanti effetti «collaterali», non essenziali ai fini del raggiungimento dello scopo perseguito dalla norma, tanto per la collettività (si veda il paragrafo 3.1.) che per il singolo (si veda il paragrafo 3.2).

3.1.    Il sovraccarico di lavoro per gli uffici giudiziari.

      Sebbene le fattispecie esaminate siano punite in modo piuttosto mite (la pena detentiva massima prevista per la fattispecie più grave è l'arresto per un anno, ma spesso la sanzione è solo pecuniaria), l'irrogazione della sanzione richiede comunque un procedimento penale, con la connessa possibilità di una molteplicità di gradi di giudizio prima che si giunga all'applicazione della pena.
      Questo comporta non solo costi a carico della collettività e del presunto trasgressore, ma anche un'inefficienza complessiva del sistema giustizia, intasato da procedimenti penali per fatti di scarsa rilevanza.

3.2.    Lo stigma criminale per soggetti estranei ad un habitus criminale.

      Questa considerazione è pienamente condivisa dalla Corte costituzionale, secondo la quale «lo strumento della sanzione penale non soltanto non costituisce l'unico strumento a presidio dell'effettiva imposizione di obblighi e doveri (...), ma anzi rappresenta l'extrema ratio, da riservare alle ipotesi in cui non siano efficaci altri controlli o responsabilità amministrative» (Corte costituzionale 26 luglio 1996, n. 317, e, nello stesso senso, Corte costituzionale 28 dicembre 1998, n. 447, e 30 dicembre 1998, n. 456: allegati 2 e 3).
      Non si tratta di un ragionamento riferibile a fattispecie isolate, ma di un vero e proprio principio che ha ispirato tutte le leggi di depenalizzazione avutesi sinora: in particolare la prima depenalizzazione della legge 3 maggio 1967, n. 317, poi (fra le tante) la legge 24 dicembre 1975, n. 706, quindi la depenalizzazione «epocale» della legge 24 novembre 1981, n. 689, e il decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507. La trasformazione degli illeciti penali in illeciti amministrativi non si risolve in una rinuncia a tutelare gli interessi protetti dalla fattispecie (originariamente) penale, ma nella riduzione al minimo necessario dei costi sociali connessi alla (persistente) tutela dell'interesse protetto.
      A questo proposito si rammenti che, come è noto, l'applicazione di una sanzione penale presuppone l'apertura di un complesso procedimento giurisdizionale a carico di una persona, la quale - quand'anche non dovesse risultare colpevole della condotta di cui è accusata in esito al processo - è soggetta ad un giudizio sociale particolarmente squalificante (cosiddetto «stigma criminale») che risulta assolutamente ingiustificato in rapporto a condotte come quelle in esame: si finisce, in altre parole, per creare intorno alla persona del cacciatore un «alone» criminale, che comporta notevoli conseguenze negative sul piano sociale ed economico, senza che questo effetto «collaterale» risulti essenziale al fine di tutelare i beni protetti dalle fattispecie sanzionate.
      Si noti che a risultati sostanzialmente analoghi si perviene anche nell'ipotesi in cui l'imputato sia effettivamente responsabile della violazione, in quanto un giudizio sociale così squalificante è spesso sproporzionato rispetto a condotte lesive poco significative.
      In proposito un autorevolissimo contributo scientifico ha posto in evidenza che «la sanzione penale comporta uno stigma etico-sociale che attraverso il giudizio di colpevolezza coinvolge direttamente la persona del reo: a differenza della sanzione amministrativa la pena criminale è una sanzione "squalificante", traducendosi nella creazione di uno status del condannato, fortemente afflittivo della personalità umana, con più o meno marcata rifrazione dell'immagine sociale del reo» (si veda Carlo Enrico Paliero - Aldo Travi, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, 22).
      Il procedimento sanzionatorio amministrativo non comporta questo tipo di problemi e ad esso non si riconnette alcun giudizio sociale particolarmente squalificante per l'autore della violazione, con la conseguenza che è possibile punire i responsabili di violazioni riducendo al minimo indispensabile gli effetti «collaterali».

3.3.    Le difficoltà nell'applicazione della sanzione penale (in particolare la pena detentiva).

      Il ricorso al sistema sanzionatorio penale risulta ancora più ingiustificato ove si consideri che - pur a fronte degli effetti «collaterali» (non strettamente necessari) che la collettività e il singolo devono sopportare in ragione dello svolgimento di un processo penale - di fatto spesso non si giunge all'applicazione delle sanzioni penali (in particolare della pena detentiva).
      L'applicazione di una sanzione penale presuppone infatti la dimostrazione della colpevolezza dell'autore della violazione, senza alcuna presunzione di colpevolezza, neppure per le contravvenzioni (si veda Cassazione penale, sezione III, 15 aprile 1997, n. 4511): tutto ciò impone alla pubblica accusa un difficile lavoro di prova della sussistenza dell'elemento psicologico (quantomeno sub specie di colpa). Spesso però fornire questo tipo di prove è molto difficile, con la conseguenza che non si giunge concretamente all'applicazione della sanzione penale.
      Al di là di quest'ultimo aspetto legato al funzionamento degli uffici giudiziari o comunque alla difficoltà di accertare nel caso concreto la sussistenza della colpa, è a ben vedere la stessa legge n. 157 del 1992 che prevede una serie di istituti in forza dei quali le sanzioni penali previste in materia di caccia ben difficilmente possono essere applicate.
      In primo luogo, per tutti i reati in materia di caccia è possibile la sospensione condizionale della pena (articolo 163 del codice penale), poiché la pena massima prevista è l'arresto per un anno; in altre parole il giudice può ordinare - e ciò nella prassi accade molto frequentemente - che l'esecuzione della pena rimanga sospesa per un periodo di due anni, trascorsi i quali il reato si estingue (a meno che l'interessato non commetta reati della stessa indole: confronta articolo 167 del codice penale). Quindi alla condanna penale generalmente non consegue alcuna sanzione.
      In secondo luogo, per i reati in materia di caccia puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva è possibile l'oblazione a norma degli articoli 162 e 162-bis del codice penale: in altre parole il contravventore è ammesso a pagare - prima dell'apertura del dibattimento o del decreto penale di condanna - una somma pari alla terza parte del massimo edittale e tale pagamento estingue il reato. Anche in questo caso, dunque, non viene mai applicata concretamente la pena detentiva e al più il trasgressore versa una modesta somma di denaro.
      Spesso, infine, i tempi del procedimento penale (fisiologicamente molto lunghi) fanno sì che si compia la prescrizione, piuttosto breve per questo tipo di reati: infatti a norma dell'articolo 157 del codice penale la prescrizione si compie in tre anni per le contravvenzioni per le quali è prevista la pena dell'arresto - da sola o unitamente a quella dell'ammenda - e in due anni per le contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda. Ovviamente, una volta compiutasi la prescrizione del reato, non può più essere applicata alcuna sanzione (che comunque, per le ragioni esposte in precedenza, al più sarebbe la sola sanzione pecuniaria dell'ammenda).

4.    I vantaggi di un sistema sanzionatorio amministrativo.

      A fronte dei notevoli inconvenienti che il sistema sanzionatorio penale presenta nella materia in esame, si può invece osservare che il ricorso ad un sistema sanzionatorio di tipo amministrativo per le condotte descritte dall'articolo 30 della legge n. 157 del 1992 presenta una serie di vantaggi, di cui è opportuno dare compiuta descrizione.

4.1.    La diminuzione del carico per gli uffici giudiziari.

      Le sanzioni amministrative sono applicate dall'amministrazione all'esito di un procedimento amministrativo e non richiedono dunque un previo procedimento giurisdizionale (come accade invece per le sanzioni penali).
      All'interno di tale procedimento l'interessato non gode di un vero e proprio diritto di difesa, ma di un ben più limitato diritto di partecipazione (si veda l'articolo 18 della legge n. 689 del 1981, che prevede la facoltà di essere sentiti o di presentare memorie e documenti); di conseguenza l'amministrazione può applicare la sanzione anche se non c'è stato un vero e proprio contraddittorio con l'autore della violazione: evidentemente ciò semplifica molto le modalità di applicazione della sanzione.
      Inoltre, secondo una giurisprudenza ormai costante (Cassazione I, 11 febbraio 1999, n. 1142; Cassazione I, 21 gennaio 2000, n. 664; Cassazione, sezione tribunale, 25 maggio 2001, n. 7143; Cassazione, sezione lavoro, 8 marzo 2000, n. 2642), a carico dell'autore dell'illecito amministrativo sussiste una presunzione di colpevolezza: in altre parole si presume che tale soggetto abbia agito (quantomeno) con colpa, con la conseguenza che non deve essere la parte pubblica a dimostrare la sussistenza della colpa (requisito soggettivo sufficiente all'applicazione della sanzione amministrativa: si veda l'articolo 3 della legge n. 689 del 1981), bensì l'autore della violazione. Si ha perciò un significativo ribaltamento dell'onere probatorio rispetto a quanto accade per gli illeciti penali, per i quali è necessario il previo accertamento dell'elemento soggettivo (ciò vale non solo per i delitti, ma anche per le contravvenzioni). Si capisce quindi che anche sotto questo aspetto è molto più semplice giungere alla concreta applicazione della pena rispetto al sistema penale.
      Infine, si noti che anche il processo ha per le sanzioni amministrative un ruolo ben diverso da quello rivestito in relazione alle sanzioni penali: da necessario presupposto per l'applicazione della sanzione (penale), esso diviene infatti nel caso delle sanzioni amministrative una fase meramente eventuale, che prende avvio solo per iniziativa dei soggetti sanzionati e si svolge, peraltro, non innanzi al giudice penale, bensì innanzi a quello civile.
      Tutto ciò, come è facile comprendere, comporta una notevole diminuzione del carico di lavoro per gli uffici giudiziari, a fronte di una maggiore effettività nell'irrogazione della sanzione: infatti, soprattutto a fronte di sanzioni di entità non elevata, l'autore dell'illecito che non abbia fondate ragioni per opporsi in giudizio, finirà per «accettare» la sanzione irrogata dall'amministrazione, piuttosto che sobbarcarsi i costi di un processo dagli esiti incerti.
      A questo proposito bisogna anche ricordare che il verbale d'accertamento dell'illecito amministrativo - redatto dagli organi cui la legge demanda questo compito (confronta articolo 13 della legge n. 689 del 1981) - costituisce atto pubblico, con la conseguenza che le sue risultanze fanno piena prova fino a querela di falso relativamente ai fatti che l'organo accertatore ha potuto constatare personalmente senza margini di opinabilità (Cassazione III, 25 febbraio 2002, n. 2734); l'autore della violazione non può quindi contestare in giudizio questo tipo di risultanze (a meno di non ricorrere alla querela di falso). A fronte di questa notevole semplificazione nell'accertamento dei fatti, il giudice investito dell'opposizione può limitarsi in pratica a prendere atto della versione dei fatti fornita dal verbalizzante: è molto probabile quindi che il trasgressore sia indotto a non intentare opposizioni «temerarie» (e quand'anche lo faccia esse si risolvono nel breve volgere di un'udienza con la conferma della sanzione).

4.2.    L'idoneità dello strumento sanzionatorio amministrativo a tutelare anche beni giuridici di maggiore rilevanza.

      Tradizionalmente si è ritenuto che la tutela penale fosse connaturale ad interessi di maggiore rilevanza rispetto a quelli protetti tramite la previsione di sanzioni amministrative. Infatti la stessa reintroduzione di sanzioni penali operata dalla legge n. 157 del 1992 è stata considerata uno strumento di rafforzamento della tutela degli interessi in questione.
      Questa tesi è stata tuttavia chiaramente smentita dalla Corte costituzionale con alcune decisioni in materia ambientale, cioè in riferimento ad un bene che la Corte qualifica «primario» in rapporto all'articolo 9 della Costituzione: secondo la Corte il legislatore può scegliere «in base ad un apprezzamento largamente discrezionale, se ricorrere alle sanzioni penali - che non costituiscono l'unico strumento di tutela degli interessi ambientali - o a quelle amministrative in relazione alle violazioni in esame, non potendosi d'altra parte meccanicamente ricavare dal tipo di sanzione l'esistenza di un diverso livello di tutela dell'ambiente, anche tenuto conto che la scelta delle sanzioni è legata essenzialmente ad una valutazione, ampiamente discrezionale, di efficacia e proporzionalità delle medesime» (Corte costituzionale, ordinanza 30 marzo 2001, n. 86, e ordinanza 17 maggio 2001, n. 150: allegati 4 e 5); ancora più chiaramente la Corte ha affermato, in altra occasione, che «la repressione penale non costituisce, di per sé, l'unico strumento di tutela di interessi come quello ambientale, ben potendo risultare altrettanto e persino più efficaci altri strumenti, anche sanzionatori» (Corte costituzionale n. 456 del 1998, citata).
      Non vi è un vincolo costituzionale alla scelta di un regime penale in relazione alla sussistenza di beni giuridici da proteggere di maggiore rilievo: in tale senso, quindi, la natura dell'interesse tutelato non può rappresentare un discrimine ai fini della scelta fra sanzioni amministrative e sanzioni penali (sul punto concorda la dottrina: si veda Pasquale Cerbo, Le sanzioni amministrative, in Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003).
      Semmai il discorso va ribaltato. Le sanzioni amministrative non possono mai sostanziarsi in una restrizione delle libertà fondamentali del destinatario: in particolare le limitazioni alla libertà personale - salvo casi eccezionali e temporalmente circoscritti - richiedono un atto motivato dell'autorità giudiziaria (articolo 13 della Costituzione) e di conseguenza non possono mai essere imposte con un atto dell'amministrazione. La particolare rilevanza di alcuni beni giuridici (come appunto la libertà personale) ha fatto sì che le sanzioni atte ad incidere su di essi possano essere applicate solo da un giudice in esito ad un procedimento giurisdizionale caratterizzato da forti garanzie, quale appunto è il processo penale.
      Laddove il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere una sanzione che possa incidere sulla libertà personale, nel bilanciamento dei diversi interessi in gioco (interesse protetto e libertà personale), ha dovuto necessariamente dare prevalenza alla garanzia rispetto all'effettività e all'immediatezza della pena.
      Nel caso delle sanzioni amministrative i beni giuridici dei trasgressori che possono essere incisi sono di natura essenzialmente patrimoniale (e comunque non investono mai la libertà personale). Nel bilanciamento fra interesse protetto dalla norma e bene del trasgressore inciso dalla sanzione, il legislatore ha potuto fare prevalere il primo: in tale modo è stato possibile adottare una soluzione meno garantistica, ma caratterizzata da maggiore effettività rispetto al ricorso al sistema penale (Corte costituzionale n. 86 del 2001, citata).
      Le sanzioni amministrative privilegiano - a fronte di una minore garanzia per il sanzionato rispetto alla sanzione penale - l'aspetto dell'effettività e dell'immediatezza della pena. È quindi errata la convinzione che la scelta del legislatore di trasformare alcuni illeciti da penali in amministrativi si connetta a una minore tutela dell'interesse protetto della norma: in questo senso la depenalizzazione si contraddistingue, a seguito di un bilanciamento degli interessi in gioco operato dal legislatore, per la prevalenza degli aspetti di effettività e immediatezza su quelli di garanzia.
      Perciò il ricorso al sistema sanzionatorio amministrativo in luogo di quello penale non implica affatto una minore tutela dell'interesse protetto dalle norme sulla caccia; anzi il sistema sanzionatorio amministrativo comporta - a fronte della rinuncia della pena detentiva (che di fatto, per le ragioni esposte nel paragrafo precedente, non vengono mai applicate) - una maggiore effettività nell'applicazione delle sanzioni.
      A conclusioni sostanzialmente analoghe si perviene ove si abbia riguardo alla normativa comunitaria. Anche laddove il legislatore nazionale è vincolato da una direttiva comunitaria a predisporre strumenti di tutela di certi interessi (come accade in materia comunitaria per effetto della direttiva sulla conservazione degli uccelli selvatici: si veda la direttiva 79/409/CEE del Consiglio, del 2 aprile 1979), il legislatore medesimo conserva una facoltà di scelta in ordine allo strumento giuridico più idoneo a garantire tale tutela: può quindi decidere secondo il suo prudente apprezzamento se ricorrere allo strumento sanzionatorio penale o amministrativo (si veda in proposito Corte di giustizia 8 luglio 1999, n. 186). Anche da questo punto di vista il legislatore non incontra alcun vincolo nella scelta, ma deve valutare discrezionalmente solo quale sia lo strumento più idoneo a perseguire gli interessi tutelati. A ben vedere, quindi, laddove il sistema sanzionatorio amministrativo si rivela una soluzione più efficace ai fini della tutela di un certo interesse - come accade in materia di caccia, per le ragioni che sono state esposte in precedenza - la previsione di sanzioni amministrative è più conforme al diritto comunitario rispetto ad un sistema di sanzioni penali.

4.3.    Gli ulteriori indici dell'effettività della sanzione amministrativa.

      La maggiore effettività dello strumento sanzionatorio amministrativo rispetto a quello penale - oltre che dall'esperienza pratica - è confermata anche da alcuni inequivocabili dati normativi.
      Innanzitutto per le violazioni amministrative è previsto un termine di prescrizione di cinque anni (articolo 28 della legge n. 689 del 1981): tale termine è decisamente più lungo di quello previsto per le contravvenzioni penali (si veda il paragrafo 3.3) e inoltre decorre dalla data dell'accertamento e non da quella di commissione della violazione: di conseguenza è molto più difficile che un illecito amministrativo si prescriva e, di converso, molto più facile che esso venga sanzionato da parte dell'amministrazione rispetto a quanto accade per una contravvenzione penale.
      In secondo luogo per le sanzioni amministrative non è prevista alcuna forma di sospensione condizionale della pena, che - come visto - di fatto paralizza la punibilità penale dei soggetti che si rendono responsabili dei reati contravvenzionali (come quelli in materia di caccia).
      Questi indubitabili vantaggi sul piano dell'effettività della sanzione non sono inficiati dalla (errata) convinzione che la sanzione amministrativa finisce per essere una pena eccessivamente esigua, in ragione della possibilità di effettuare il pagamento in misura ridotta ex articolo 16 della legge n. 689 del 1981 (nella misura di un terzo del massimo o, se più favorevole e ove previsto, del doppio del minimo). A parte il fatto che un istituto con tratti sostanzialmente analoghi esiste pure per le sanzioni penali (l'oblazione, appunto), nulla impedisce al legislatore della depenalizzazione di rafforzare l'effettività della sanzione pecuniaria con la previsione espressa dell'esclusione della facoltà di effettuare tale pagamento in misura ridotta: si tratta peraltro di un espediente normativo già sperimentato con buon successo in diversi sistemi sanzionatori in materia ambientale (le acque, l'elettrosmog eccetera).

4.4.    L'assenza di uno stigma criminale correlato all'applicazione delle sanzioni amministrative.

      Il ricorso ad un sistema sanzionatorio amministrativo comporta anche un ulteriore vantaggio: condotte obiettivamente non gravissime - pur se debitamente punite - non vengono assoggettate ad un giudizio sociale eccessivamente squalificante, come accade con una condanna in sede penale o anche con il semplice inizio di un procedimento penale (sebbene questo si concluda poi con una pronuncia di proscioglimento). L'assoggettamento ad un procedimento penale di per sé non svolge affatto, per giunta, un ruolo di prevenzione speciale o generale (che è proprio solo delle sanzioni), ma finisce solo per marginalizzare socialmente l'autore della violazione, rendendone difficile il reinserimento sociale in modo sproporzionato rispetto alla sostanziale esiguità della violazione commessa.
      A questo proposito è stato affermato che «nel corso di questo secolo la crisi della pena detentiva e del sistema carcerario si è ulteriormente aggravata in corrispondenza della spesso distorta operatività dei meccanismi della repressione penale della società: così, per l'esistenza di fasce più o meno cospicue di impunità, le disfunzioni nell'accertamento dei reati e nell'individuazione dei colpevoli, la difforme incidenza degli apparati repressivi in rapporto alla posizione economica e sociale del colpevole. Si afferma inoltre la consapevolezza degli effetti criminogeni dell'istituzione penitenziaria, quale dispensatrice di un unico destino sociale di emarginazione e subcultura. La risposta a questi problemi si è orientata, com'è noto, in una duplice direzione: fuga dalla sanzione, da un lato, e, dall'altro, ricerca di sostituti efficaci della pena detentiva» (si veda Mario Romano, Giovanni Grasso, Tullio Padovani, Commentario sistematico del codice penale, volume III, Milano, 1994, 125).
      Ciò spiega per quale ragione anche in altri ordinamenti venga battuta sempre più frequentemente la via della depenalizzazione. Così, in Germania, «l'utilizzazione del meccanismo proprio della depenalizzazione consente di ottenere risultati "rapidi" e "sicuri", molto più che con l'intervento del giudice penale attraverso meccanismi penali e processuali penalistici» (Marco Siniscalco, Depenalizzazione e garanzia, Bologna, 1995, 30).

5.    Conclusioni.

      In definitiva si può certamente affermare che la trasformazione in illeciti amministrativi di illeciti penali non è indice di minore tutela per i beni protetti: anzi, essa è in grado di garantire una maggiore effettività nell'applicazione della sanzione e quindi una maggiore tutela di tali beni. Il ricorso al sistema penale è necessario solo laddove si vogliano prevedere sanzioni limitative della libertà personale, perché in questo caso i precetti costituzionali impongono una serie di peculiari garanzie per il soggetto imputato. Nel caso della caccia, dunque, l'unica possibilità che verrebbe meno è quella di applicare una pena detentiva.
      Ove si consideri che per tutta una serie di ragioni spiegate in precedenza (si veda il paragrafo 3.3), oggi in materia di caccia non si perviene mai all'applicazione della pena detentiva, si giunge dunque alla conclusione che il sistema penale attuale - a fronte di una serie di notevolissimi inconvenienti (sia per il singolo che per la collettività) - non garantisce nulla di più di quello che, con molti inconvenienti (e costi sociali) in meno, potrebbe garantire un sistema sanzionatorio amministrativo: vale a dire, giustappunto, l'applicazione di sanzioni pecuniarie (ed eventualmente di sanzioni accessorie).
      Tutto ciò con una notevole diminuzione del carico di lavoro per gli uffici giudiziari e con l'esclusione di uno stigma criminale per condotte tutto sommato non così gravi, con tutte le conseguenze negative che questo determina sul piano sociale e giuridico.
      Né certo si può aprioristicamente negare l'efficacia del sistema sanzionatorio amministrativo in questa materia: alla luce del diritto positivo la «capacità» delle sanzioni amministrative di svolgere un ruolo forte di prevenzione speciale e generale in materia di caccia è attestata dalla previsione anche in tali materie di illeciti amministrativi (si veda l'articolo 31 della legge n. 157 del 1992 e le fattispecie previste dalle norme regionali).
      In definitiva la ragionevolezza della scelta di depenalizzare i reati in oggetto è innegabile, perché a fronte di una maggiore effettività per i beni tutelati (risultato sicuramente desiderabile), si eviterebbero notevoli conseguenze obiettivamente indesiderabili sia per la collettività che per i singoli; il tutto in perfetta aderenza con quanto da tempo sostiene la dottrina penalistica, e cioè che la tutela penale deve essere riservata esclusivamente ai casi nei quali gli altri strumenti giuridici si rivelino inidonei a garantire un'adeguata tutela degli interessi che il legislatore intende proteggere (concezione della tutela penale come extrema ratio).
      La soluzione proposta (trasformazione in illeciti amministrativi delle attuali fattispecie penali) non comporta inoltre una rinuncia ad adeguate forme di tutela (anche penale) laddove i comportamenti tenuti dai responsabili si rivelino particolarmente gravi o rivestano il carattere della reiterazione.
      Sotto il primo profilo, non è affatto esclusa la possibilità di sanzionare penalmente quelle violazioni che - seppure connesse con la caccia - ledono o mettono in pericolo beni giuridici di maggiore rilevanza: a tale fine è sufficiente mantenere in vigore la clausola contenuta attualmente nell'articolo 30, comma 3, della legge n. 157 del 1992 («continuano ad applicarsi le disposizioni di legge e di regolamento in materia di armi»); in tale modo rispetto a questo tipo di violazioni rimarrebbe il ricorso alla tutela penale.
      Sotto il secondo profilo (reiterazione delle violazioni), l'articolo 94 del decreto legislativo n. 507 del 1999 ha introdotto nel corpo della legge n. 689 del 1981 l'articolo 8-bis, che disciplina la reiterazione delle violazioni: si ha reiterazione «quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette un'altra violazione della stessa indole»; la norma precisa comunque che si ha reiterazione anche quando più violazioni della stessa indole commesse nel quinquennio sono accertate con un unico provvedimento esecutivo. È evidente l'analogia di disciplina con la recidiva cosiddetta «aggravata» prevista dagli articoli 99 e seguenti del codice penale: tuttavia lo stesso articolo 8-bis, quinto comma, precisa che la reiterazione «determina gli effetti che la legge espressamente stabilisce»: ai fini di un'applicazione dell'istituto in esame alla materia della caccia sarebbe quindi sufficiente che l'articolato nel quale fossero previsti gli illeciti amministrativi derivanti dalla depenalizzazione in materia di caccia contenesse un riferimento alla reiterazione e alle sue conseguenze sul piano sanzionatorio. In questo modo sarebbe possibile applicare sanzioni più gravose a carico di quei soggetti che reiterassero nel tempo i comportamenti vietati.


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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Il comma 1 dell'articolo 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, è sostituito dal seguente:

      «1. Per le violazioni delle disposizioni della presente legge e delle leggi regionali si applicano le seguenti sanzioni:

          a) la sanzione amministrativa da euro 2.700 a euro 7.500 per chi esercita la caccia in periodo di divieto generale, intercorrente tra la data di chiusura e la data di apertura fissata dall'articolo 18;

          b) la sanzione amministrativa da euro 2.250 a euro 6.000 per chi abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli compresi nell'elenco di cui all'articolo 2;

          c) la sanzione amministrativa da euro 3.000 a euro 18.000 per chi abbatte, cattura o detiene esemplari di orso, stambecco, camoscio d'Abruzzo, muflone sardo;

          d) la sanzione amministrativa da euro 900 a euro 3.000 per chi esercita la caccia nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali, nelle riserve naturali, nelle oasi di protezione, nelle zone di ripopolamento e cattura, nei parchi e giardini urbani, nei terreni adibiti ad attività sportive;

          e) la sanzione amministrativa da euro 750 a euro 2.000 per chi esercita l'uccellagione;

          f) la sanzione amministrativa fino a 1.500 euro per chi esercita la caccia nei giorni di silenzio venatorio;

          g) la sanzione amministrativa fino a 9.000 euro per chi abbatte, cattura o detiene esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, non contemplati nella lettera b), della quale sia vietato l'abbattimento;

          h) la sanzione amministrativa fino a 4.500 euro per chi abbatte, cattura o detiene specie di mammiferi o uccelli nei cui confronti la caccia non è consentita o fringillidi in numero superiore a cinque o per chi esercita la caccia con mezzi vietati. La stessa sanzione si applica a chi esercita la caccia con l'ausilio di richiami vietati di cui all'articolo 21, comma 1, lettera r). Nel caso di tale infrazione si applica altresì la misura della confisca dei richiami;

          i) la sanzione amministrativa fino a 2.000 euro per chi esercita la caccia sparando da autoveicoli, da natanti o da aeromobili;

          l) la sanzione amministrativa da euro 500 a euro 2.000 per chi pone in commercio o detiene a tale fine fauna selvatica in violazione della presente legge. Se il fatto riguarda la fauna di cui alle lettere b), c) e g), le sanzioni sono raddoppiate».

      2. Dopo il comma 1 dell'articolo 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, è inserito il seguente:

      «1-bis. Le violazioni delle disposizioni di cui al comma 1, lettera a), possono comportare altresì la sospensione della licenza di porto di fucile per uso di caccia per un periodo fino a due anni; le violazioni delle disposizioni di cui al medesimo comma 1, lettera b), possono comportare altresì la sospensione della licenza di caccia per un periodo di trenta giorni. Qualora si ravvisino gli estremi per la sospensione prevista dal presente comma, essa deve essere resa esecutiva non oltre sessanta giorni dalla data di notifica dell'infrazione».

      3. Il comma 3 dell'articolo 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, è sostituito dal seguente:

      « 3. Nei casi di cui al comma 1, salvo quanto espressamente previsto dalla presente legge, continuano ad applicarsi le disposizioni di legge e di regolamento in materia di armi».

      4. Al comma 4 dell'articolo 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, le parole: «sanzioni penali» sono sostituite dalle seguenti: «sanzioni amministrative».
      5. La rubrica dell'articolo 30 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, è sostituita dalla seguente: «Sanzioni amministrative».

Art. 2.

      1. La rubrica dell'articolo 31 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, è sostituita dalla seguente: «Ulteriori sanzioni amministrative».
      2. L'articolo 32 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, è abrogato.

Art. 3.

      1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.


Frontespizio Relazione Progetto di Legge
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