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PDL 627

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 627


PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

BINETTI, BOBBA, CALGARO, COLANINNO, FARINONE, GRASSI, MOSELLA, SARUBBI

Modifica dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di utilizzo di mezzi, anche aventi connotazione religiosa, atti a rendere irriconoscibile la persona

Presentata il 30 aprile 2008


      

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Onorevoli Colleghi! - Il dibattito relativo all'utilizzo del velo, che sia o meno integrale, che si è aperto in Italia e ha visto protagoniste soprattutto le donne di origine musulmana, necessita di un approfondimento, anche di tipo legislativo.
      La presente proposta di legge vuole ribadire tre princìpi fondamentali per la convivenza:

          il rispetto profondo e sostanziale delle scelte religiose, culturali e politiche di ogni persona;

          l'incontro delle diversità a partire da quella che accomuna tutta l'umanità, la differenza tra uomini e donne;

          la politica responsabile di sicurezza e rispetto dei cittadini.

      L'articolo 3, l'articolo 8 e l'articolo 19 della Costituzione sanciscono il principio di eguaglianza, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione eccetera, che trova sia nello Stato liberale di diritto sia nello Stato sociale e interventista il garante atto a rimuovere gli ostacoli che possano pregiudicare la libertà e la dignità della persona.
      L'articolo 8 contempla il pluralismo confessionale, eliminando le ostilità verso culti differenti da quello cattolico, in accordo con il seguente articolo 19 che ammette la libertà di professare liberamente la propria religione.
      Lo Stato italiano riconosce e promuove il principio di libertà religiosa e rimuove gli ostacoli che impongono un'identità precostituita alle persone che siano nate o risiedano nel nostro Paese. La Costituzione garantisce pari dignità sociale e, per tutelare la sicurezza dei cittadini, la legge prescrive il divieto «di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona» in luogo pubblico «senza giustificato motivo» (articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni). Inoltre il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, all'articolo 85, vieta di «comparire mascherato in luogo pubblico»; peraltro, la giurisprudenza ha chiarito la non equiparazione della maschera all'utilizzo di indumenti celanti il volto, quali segni esteriori di una tipica fede religiosa.
      La circolare del 24 luglio 2000 del Ministero dell'interno ha precisato che il turbante, il chador e il velo, imposti da motivi religiosi, «sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto». Tali accessori sono ammessi, in virtù del principio costituzionale di libertà religiosa, ma i tratti del viso devono essere ben visibili. Questo significherebbe che il burqa, che nasconde volto e persona di chi lo indossa, è vietato. L'applicazione di tale norma è, però, incerta, delegata ai singoli sindaci e comuni e comunque, anche nel caso di identificazione da parte degli operatori dell'ordine pubblico, deve essere conseguente a una motivazione oggettiva di urgenza e di pericolo. Infatti, il Ministero dell'interno, in data 9 dicembre 2004, nel rispondere a un quesito posto da un comando di polizia municipale, chiariva: «nei confronti della persona che circoli in luogo pubblico coperta da burqa, l'attivazione dei poteri di identificazione da parte del personale di polizia sembrerebbe potersi validamente esplicare alla luce di circostanze ambientali tali da costituire giustificato motivo di allarme. Un accertamento condotto in assenza di un concreto interesse pubblico alla conoscenza dell'identità della persona stessa potrebbe, infatti, apparire come inutilmente vessatorio».
      Il quesito, oggetto di diatribe interpretative della norma, è se l'appartenenza a una religione possa o meno essere un «giustificato motivo» per circolare con il volto coperto, così come prescrive l'articolo 5 della citata legge n. 152 del 1975. Per le donne musulmane il coprirsi il viso è una connotazione identitaria, simbolo dell'affermazione del proprio credo. Nei versetti del Corano in cui compare la parola hijab (Q. 7:46, 18:45, 19:17, 33:53, 38:32, 41:5, 42:51) non si indica un oggetto quale il velo, ma l'azione di velarsi, di tirare una tenda dietro cui pregare e avere la rivelazione divina. In sostanza, non si ravviserebbe nel Corano alcuna traccia esplicita del hijab o chador come indumento con cui le donne debbano coprirsi obbligatoriamente il capo o il volto. Questa osservanza nasce da un versetto del Corano che dice: «O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di chiudere su di esse i loro indumenti! Questo sarà il mezzo più semplice perché esse siano riconosciute e non siano offese» (Q. 33:59). Ma in questo testo, come in un altro simile (Q. 24:31), il Corano sembra riferirsi più in generale al senso del pudore.
      L'hijab, il burqa, l'abaya, il buibui simboleggiano la purezza, la riservatezza, ma anche il rispetto che si deve a una donna, la sua integrità morale, elementi ai quali coloro che risiedono in Italia, come del resto tutti gli emigranti, restano ancorati per timore di perdere il proprio passato e la propria cultura.
      Se per le donne dell'Occidente mostrare il volto, l'esteriorità è simbolo di libertà, è l'espressione di sé e della propria personalità, per le musulmane è diverso: il coprirsi impone il rispetto e chi è rispettato, è, a sua volta, libero.
      Una visione così diversa sull'abbigliamento, una scissione così netta tra il corpo e l'immagine può portare a una ricchezza sociale spesso trascurata. L'incontro e l'integrazione di culture, se realizzata, implica la compenetrazione di valori differenti.
      L'Europa si interroga su questo punto. La Corte europea è sempre più spesso chiamata a decidere sulla convivenza tra la laicità delle istituzioni e lo statuto personale del credente.
      Di recente, il 28 febbraio 2007, è stato presentato a Roma il quarto rapporto del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo umano (UNDP) nei Paesi arabi, attraverso la lente del ruolo delle donne in queste regioni (Arab human development report 2005. Towards the rise of women in the Arab wold). Si tratta di un ampio rapporto che sottolinea la complessità di questo mondo. In particolare si evidenzia come l'Occidente spesso presenti la donna islamica come oppressa e discriminata. Non tutte le donne vivono questa dimensione di sottomissione, specialmente nel corso degli ultimi anni. Sono le donne musulmane che hanno cominciato a porre nuove sfide all'interno della società, contestando le tradizionali politiche religiose e l'uso della religione per fini discriminatori. Sono le donne, più degli uomini, ad avere il coraggio di spingere per le riforme nell'Islam e nelle società islamiche. Il quarto rapporto UNDP dimostra che ci sono stati passi avanti, anche se è ancora molta la strada da fare per rafforzare il ruolo delle donne nei Paesi arabi. La discriminazione nei loro confronti frena lo sviluppo economico. E l'agenzia dell'ONU per lo sviluppo invita i Paesi compresi tra la Mauritania e l'Arabia Saudita a scoprire il valore della donna per raggiungere il benessere.
      Se per la donna araba è difficile riuscire a raggiungere l'emancipazione e quindi l'uguaglianza sostanziale e formale con l'uomo nel proprio Paese, la situazione delle donne emigrate è ancora più controversa. Esse, oltre a essere ancorate alla loro storia e cultura, devono fronteggiare le difficoltà dell'integrazione in un Paese che ha presupposti storici, sociali e culturali differenti.
      Questo processo non potrà mai avverarsi attraverso l'imposizione. Le nostre leggi sono rispettose della pluralità (basti ricordare l'articolo 3 della Costituzione), e si basano su un dialogo profondo. L'integrazione delle donne islamiche non passa per l'assunzione passiva dei modelli occidentali, ma attraverso l'istruzione, la reciproca conoscenza delle diverse culture religiose e dei testi sacri, quali la Bibbia, i Vangeli e il Corano, e, ancora, attraverso la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale e religiosa.
      In questa proposta di legge si vuole ribadire l'orientamento italiano al multiculturalismo, costituzionalmente garantito, la libertà di professare la propria religione e di esplicitarla anche con indumenti che palesino il proprio culto, ma nel rispetto della sicurezza di uno Stato laico, consapevole di un'integrazione possibile e necessaria, oggi più di ieri, a cui l'Italia non deve e non vuole rinunciare.
      Indossare il burqa lasciando il volto scoperto sembra un buon modo per integrare e rispettare le culture religiose di ognuno senza perdere di vista la necessità di tutelare e garantire la sicurezza di tutti.


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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. L'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

      «Art. 5. - 1. È vietato, in luogo pubblico o aperto al pubblico, l'uso di qualunque mezzo che travisi e renda irriconoscibile la persona senza giustificato motivo.
      2. Sono in ogni caso giustificati, ai fini del comma 1, l'uso dei mezzi di cui al medesimo comma resi necessari da stati patologici opportunamente certificati, l'uso di caschi protettivi alla guida di veicoli per i quali esso sia obbligatorio o facoltativo ai sensi delle norme vigenti, l'uso di apparati di sicurezza nello svolgimento dei lavori che lo rendono necessario, l'uso di passamontagna o simili in presenza di temperature inferiori a 4 gradi centigradi nonché l'uso di maschere connesso a ricorrenze, tradizioni o usi, con l'osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall'autorità locale di pubblica sicurezza.
      3. I segni e gli abiti che, liberamente scelti, manifestino l'appartenenza religiosa devono ritenersi parte integrante degli indumenti abituali. Il loro uso in luogo pubblico o aperto al pubblico è giustificato, ai fini del comma 1, a condizione che la persona mantenga il volto scoperto e riconoscibile.
      4. Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque contravviene al divieto di cui al presente articolo è punito con l'arresto da tre a sei mesi e con l'ammenda da 300 a 600 euro. Le sanzioni sono raddoppiate se il travisamento è funzionale alla commissione di altri reati.
      5. Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l'arresto in flagranza».

      2. L'articolo 85 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, è abrogato.


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